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QUESTO VOLUME È STATO PUBBL ICATO CON IL CONTR IBUTO D I

ALMA MATER STUD IORUMUNIVERS ITÀ D I BOLOGNA

DIPART IMENTO DI STOR IE E METOD IPER LA CONSERVAZ IONE DE I BEN I CULTURAL I

SEDE D I RAVENNA

BANCA DI CRED ITO COOPERAT IVO “DON R IZZO”D I ALCAMO

Editing e composizione a cura di

Giacomo A. Orofino

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Rassegna ricerche e scavi 2003/2005

a cura diDario Giorgetti

prefazione diAntonio Carile

testi diClaudio Capelli, Cesare Fiori, Joseph Franzò

Dario Giorgetti, Z. Xabier González MuroGiacomo A. Orofino, Michele Piazza

Le fornaci romane di Alcamo

ALMA Master StudiorumDISMEC – Ravenna

ALMA Master StudiorumUniversità di Bologna

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0596–3

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio 2006

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Sommario

A. Carile, Prefazione p. 7

D. Giorgetti, Alcamo project: le fasi di un laboratorio p. 11

Z. X. González Muro, Lo scavo archeologico: primi dati e considerazioni sulle strutture e i materiali rinvenuti p. 35

G. A. Orofino, Caratteristiche della ricerca archeologica nella comprensione del territorio: l’analisi dei re-perti di superficie p. 101

J. Franzò, “Soluzione” GIS e Remote Sensing in archeo-logia. Applicazioni di landscape archaeology e pro-spettive delle nuove metodologie: Alcamo project p. 139

C. Capelli - M. Piazza, Analisi minero-petrografiche su anfore Dressel 21-22 da Alcamo Marina p. 171

C. Fiori, Le fornaci romane di Alcamo Marina: analisi mineralogica di campioni di concotto e argilla p. 175

Bibliografia p. 183

Indici p. 205

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Prefazione

Il ritrovamento delle fornaci di Alcamo e la costituzione di un labo-ratorio archeologico costituisce un apporto di rilievo in primo luogo per la conoscenza dell’esercizio dell’ “industria” fittile connessa alle villae antiche e tardoantiche che costellavano il territorio agrario romano in ambito siciliano, tanto più significativo, in questo caso, perché sem-bra ipotizzabile un impianto di area riconducibile a una molteplicità di stabilimenti fittili e, dunque, non circoscrivibile ad una unica entità prediale e alla commercializzazione della eccedenza produttiva di un fundus. Anche se il suggestivo ritrovamento nel 2003 di un bollo lateri-zio frammentario induce a credere che fra le altre insistesse sul luogo la produzione fittile della gens Maesia peraltro presente, a giudicare dalle iscrizioni, a Termini Imerese, Palermo, Marsala a segno di un’area di interessi commerciali ed economici che investe la Sicilia nord-occiden-tale.

Questo dato macroeconomico e sociale sembra tanto più suggestivo perché si è in attesa di poter chiarire i rapporti di questa gens siciliana con i Maesii Titiani che dalla Macedonia gestivano una organizzazione commerciale in qualche modo connessa (forse grazie ad intermediari iranici e turcofoni di Asia centrale) con i mercati del medio ed estremo oriente.

L’indagine sulle fasi costruttive delle fornaci di Alcamo che insi-stono sul terreno sterile consentono di visualizzare il quadro dei nuclei produttivi nelle aree nord-occidentali della Sicilia; consente di rilevare le abilità tecniche, come il supporto-distanziatore ad anello per la cot-tura delle forme ceramiche o i tubuli fittili la cui funzione si attende di chiarire in ulteriori scavi; consentono di porre il problema della quan-tità di combustibile reperibile in loco e della sua natura; consentono in ultima analisi di verificare il paniere dei prodotti commercializzati (frutta - sulla base di abbreviazioni rinvenute in anfore di Castro Pre-torio a Roma - e pesce - sulla base del termine liquamen rinvenuto in un caso a Pompei e del termine cetus in anfore Dressel 21-22 in Italia - anche nella elaborazione del garum, termine effettivamente ritrovato

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a Pompei su un’anfora di questo tipo) e dei centri di assorbimento dei prodotti: la vicinanza del fiume San Bartolomeo consente di ipotizzare una via di trasporto ottimale per la esportazione dei manufatti fittili e dei relativi contenuti.

Una inventariazione esaustiva delle tipologie dei manufatti fittili prodotti consentirebbe di confermare una rete di terminali di traffici che, attraverso le rotte marittime, metterà capo ad una più concreta vi-sione delle dinamiche demografiche ed economiche della vita urbana in contesti geografici circoscritti e pertanto maggiormente significativi per lo storico della economia.

Queste nuove conoscenze, tecnologiche ed economiche, investono il periodo che, in attesa di ulteriori conferme e contestualizzazioni risul-tanti dallo scavo, si possono fin d’ora ipotizzare dalla fine del I secolo a.C. alla metà del V secolo d.C., dunque una lunga durata economica che potrebbe indurre a rivedere alcuni parametri valutativi della eco-nomia di area tirrenica; questa possibilità da sola induce a sfruttare le possibilità euristiche di questo giacimento, la cui cronologia ed evo-luzione funzionale potrebbe costituire un punto di riferimento per la storia economica da delinearsi negli anni a venire.

I numerosi frammenti di produzione identificabili come varianti di anfora Dressel 21-22 (in circolazione fra I e II secolo d.C.) rinvenuti ad Alcamo Marina, la cui diffusione in Sicilia quanto a reperti finora noti è evidenziata nella cartina della figura 36, mostrano una caratterizzazione produttiva non immediatamente riconducibile alla produzione laziale e campana ma più facilmente paragonabile alla produzione segestana, rafforzando la ipotesi, relativa alla Sicilia, di un’origine occidentale di tali tipi produttivi e al contempo sottolineando la autonomia produtti-va e di smercio dell’area considerata. In tal direzione confermano le analisi petrografiche di alcuni frammenti anforari che testimoniano una composizione ceramica differente da quella dell’area laziale-campana e invece dipendente, come è ovvio, dallo sfruttamento del sedimento in loco del Flysch Numidico che condiziona le manifatture fittili della Sicilia occidentale. Sembra più problematico il nesso con una ipoteti-ca produzione anforaria bizantina sulla base di frammenti di superficie raccolti nell’area di Solunto. Ma accanto alla produzione di questo pe-

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riodo figurano frammenti di vetro, di osso lavorato, chiodi di bronzo, e ceramica da mensa e lucerne queste ultime riconducibili alla fine del IV secolo d.C.

L’applicazione di tecnologie di rilevamento analitico del terreno di superficie, in vista del disegno e della documentazione grafica cartacea e/o informatizzata, l’utilizzazione di sistemi di registrazione satellitare GPS, l’inserimento dei rilevamenti nella piattaforma GIS, e diagnosi derivate da contesti disciplinari non riconducibili alla tradizionale prassi della ricerca storica e archeologica segna altresì una innovazione evolu-tiva nella ricerca sul campo, che se pur pone qualche problema episte-mologico centrato sulla necessità di possedere conoscitivamente e non solo strumentalmente la tecnologia utilizzata, è peraltro suscettibile di incrementare il livello delle conoscenze e il raggio di azione professio-nale dei ricercatori nella prassi della realizzazione di un modello della realtà archeologica e topografica, per una lettura critica del contesto ter-ritoriale del dato archeologico. Occasione di lavori nuovi e qualificati e occasione di arricchimento delle fonti di conoscenza. L’affinamento metodologico circa la informatizzazione dei dati archeologici, la neces-sità di selezionare un database che non sacrifichi la complessità della informazione archeologica è uno dei problemi di metalinguaggio, se si vuol usare una metafora linguistica, che l’attuale archeologo-storico affronta nell’incontro con gli strumenti tecnologici, peraltro suscettibili di adeguarsi alle esigenze di comunicazione del ricercatore avveduto e ben addentro alla tecnologia impiegata.

Lo sviluppo di tali linguaggi e le ampie disamine problematiche e metodologiche cui i ricercatori di Alcamo dedicano accurata attenzione - sviluppando manualisticamente un complesso di dati conoscitivi pri-mari destinati a divenire metodologia di riferimento e corrente negli sca-vi a venire - pone l’équipe di Alcamo in grado di presentarsi come punta avanzata nel processo di ridefinizione linguistica della codificazione dei reperti e della loro contestualità ambientale e in veste di proponenti di soluzioni alternative a largo influsso nel campo della ricerca.

Le carte tematiche proposte salvaguardano la evidenzialità imme-diata dello scavo, destinata a perdersi nel procedere della esplorazione; rappresentano pertanto un modello di memorizzazione del processo di

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indagine il cui interesse è destinato a crescere nel corso della elabora-zione interpretativa dei risultati.

Il Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, sorto all’insegna della interazione disciplinare fra saperi storici e metodologie tecnologiche, segna pertanto nella attività del prof. Dario Giorgetti e del suo gruppo di allievi e collaboratori un mo-mento qualificato e storicamente incisivo della sua funzione formativa e promozionale in ordine alla ricerca archeologica e alla salvaguardia dei beni culturali, nella consapevolezza di una rapidità di evoluzione che circoscriverà ad alcuni decenni a venire metodi e problemi ora posti in primo piano, ma poi destinati a divenire sapere comune e operatività condivisa.

È carenza comunemente segnalata il ritardo con cui le relazioni di scavo vengono messe a disposizione degli studiosi: nel caso di questo scavo, sviluppato negli anni 2003-2005, ci troviamo di fronte ad un diario accurato e di fatto ad una prima interpretazione dei risultati di un lavoro condotto grazie a finanziamenti limitati, valorizzati al massimo dalla équipe di Alcamo e messo a disposizione del vaglio degli studiosi in tempi comparativamente assai condensati.

Antonio CarileDirettore del Dipartimento di Storie e Metodi

per la Conservazione dei Beni Culturali

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dario GiorGeTTi *

Alcamo project: le fasi di un laboratorio

Il rinvenimento

Ciò che non può essere previsto, spesso si manifesta per semplice casualità1. Una considerazione, questa, che pur di antica memoria ben si applica ai diversi accadimenti del quotidiano attuale e che, ancor più, calza con ineffabile misura e imperscrutabile percentuale al mondo del-la ricerca, tanto in ambito tecnico quanto in quello umanistico. Non a caso la storia dell’archeologia è debitrice, non in piccola parte, anche a questa osmosi fra ricerca scientifico-speculativa e incroci di fortuite casualità il cui fruttifero amalgama ha spesso condotto alla individua-zione, alla messa in luce ed allo studio di quanto, altrimenti, sarebbe stato irrimediabilmente cancellato dalla memoria e dalla conoscenza.

Il caso di Alcamo Marina si presenta, nella sua singolarità, come una evidente cartina di tornasole della tacitiana casura sia per le modalità del ritrovamento sia per le non indifferenti caratteristiche scientifiche che da esso si sono venute fino ad oggi traendo. Il fil rouge che indica la linea guida di questo volume si va svolgendo proprio lungo quel telaio che dai primi piccoli nodi andrà via via costruendo un tessuto la cui composizione e fattura emergeranno gradualmente, fino a fornire una immagine complessiva e ben modulata dell’intero quadro; il nostro te-laio ha proceduto, lentamente, a ritroso nel tempo ed è ancora ben lonta-no dall’offrire una visione tematica sufficiente alla proposizione di una sintesi storica, ma l’anamnesi che si può trarre dai dati finora emersi permette di delineare, pur nei pochi tratti a carboncino che precedono la definitiva stesura, un quadro realistico delle fasi tecniche ed operative che si sono venute qui susseguendo in età antica.

* Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna.

1. Tac., Ann., 2, 77.

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Nel settore occidentale dell’ampia e luminosa insenatura, che si al-larga fra i capi di Punta Raisi e San Vito, scorre la allungata marina di Alcamo, oggi testimone dell’irrimediabile danno ambientale derivato da una incontrollata e disordinata attività edilizia, alla cui incontamina-ta ed originaria bellezza alcune foto degli anni Trenta rendono palese e dolente giustizia.

Per secoli quella insenatura è rimasta intatta, occupata solo dalle in-frastrutture necessarie ad un’economia basata sulla pesca, ma in po-chi decenni soffocata e deturpata dagli interessi di un mercato edilizio estraneo alle basilari norme di tutela e valorizzazione ambientale. Ep-pure, per l’ineffabile legge del contrappasso, è proprio in conseguenza di nuove attività di lottizzazione che si è potuto individuare e tutelare, in località Contrada Foggia di Alcamo Marina, la presenza di un impianto officinale di età romana per la produzione di materiale da costruzione e di oggetti d’uso domestico (anfore, mattoni, coppi, embrici, stoviglie-ria, ceramica comune)2.

L’area di ricerca si trova all’altezza del km. 43,800 della S.P. 187 (v. Fig. 1), poco oltre il ponte sul San Bartolomeo che segna il limite di confine amministrativo fra i Comuni di Alcamo e Castellammare del Golfo ed a monte della linea ferrata Trapani–Palermo3. In virtù di una Convenzione su piano biennale, concordata fra Assessorato per i Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana, Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali (d’ora in avanti BB.CC.AA.) di Trapani4, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Cultu-

2. È da sottolineare la sensibilità dell’Impresa di appalto, nelle persone dell’ing. Giovanni Bombaci e dell’arch. Tiziana Ospedale, che oltre ad estendere op-portuna informativa alla competente Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani, hanno fornito ampia disponibilità ed appoggio alle attività di ricerca e scavo finora svolte dall’Ateneo di Bologna sull’area di competenza.

3. I.G.M. F. 248 II SE. Coordinate UTM: 316228 x; 4210182 y; WGS84: 38°01'243" N – 12°54'383" E.

4. Mi è doveroso qui menzionare i Colleghi e le persone che, con il loro appoggio e disponibilità, hanno finora permesso l’attivazione e la continuità delle ricerche in Contrada Foggia. Un grato pensiero va all’allora Soprintendente Carmela Angela Di Stefano, così come a Sebastiano Tusa e Rossella Giglio, fino allo scorso anno Respon-sabile e Dirigente del Settore Beni Archeologici della Soprintendenza BB.CC.AA. di Trapani. Un analogo pensiero rivolgo all’attuale Soprintendente Giuseppe Gini, alla

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rali dell’Ateneo di Bologna, sede di Ravenna, e con il sostanziale con-corso del Comune di Alcamo5, del Consorzio Universitario di Trapani e della Fondazione Flaminia di Ravenna6, del Rotary International, sede

Dirigente Caterina Greco, alla responsabile del Museo Baglio Anselmi Maria Grazia Griffo, al funzionario della sezione Catalogo ed Inventario Giuseppina Mammina.

5. Al Sindaco Giacomo Scala, all’ex Sindaco Massimo Ferrara, al Vice Sindaco e Assessore alle Politiche Culturali Ignazio Filippi, agli Assessori Luigi Culmone, Mario Lo Monaco, Maria Messineo, Gaspare Noto, Giuseppe Scibilia, così come ai Membri della I Commissione – Affari Generali Cultura e Scuola, va il mio grato pensiero per il fondamentale appoggio, politico e finanziario, che la sede municipale alcamese ha finora offerto alla impostazione e mantenimento della missione archeologica.

6. I fondi posti a disposizione hanno permesso di coprire le spese di trasferimento ed alloggio per numerosi gruppi di studenti e laureandi della Facoltà di Conservazio-ne dei Beni Culturali, sia della sede ravennate sia del parallelo corso di Archeologia Navale di Trapani, che hanno così avuto l’opportunità di partecipare alle esperienze pratico-didattiche condotte in C/da Foggia nell’ambito delle tre Campagne.

Figura 1. L’area costiera di Alcamo Marina. In vocabolo Contrada Foggia il quadrato in nero al centro indica la zona dello scavo (I.G.M. F. 248 II SE).

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di Alcamo7, della BCC “Don Rizzo”8, si è avuto modo di dare l’avvìo, nell’ottobre 2003, ad un primo intervento di chiarimento sull’area cui sono seguite due successive Campagne nell’ottobre 2004 e nel settem-bre 20059.

Il primo sopralluogo, che ebbi modo di effettuare agli inizi di giugno del 2002 insieme con il dott. Antonino Filippi, mi fornì la constata-zione della esistenza dei resti di una fornace di età romana, relativa-mente ben conservata nonostante gli interventi di scasso relativi alle attività di lottizzazione. Era ben visibile la struttura del praefurnium, (v. Tav. I, a) nonché parte del corridoio per l’inserimento del materia-le ligneo all’interno della camera di combustione. L’imboccatura del praefurnium, costituita da struttura ogivale di mattoni concotti, si pre-sentava fortemente obliterata e disassata rispetto alla ipotizzabile po-sizione originaria; le misure che potei allora rilevare restituivano una freccia di m. 0,60 ed una larghezza, ripresa alla base in sezione mediana ed all’apice, rispettivamente di m. 0,50, m. 0,45, m. 0,28. Nonostante le difficoltà di accessibilità, sia per la sterpaglia che ricopriva intera-mente l’area sia per le misure ristrette dell’imboccatura, ebbi modo di rilevare le caratteristiche interne del manufatto, assialmente allineato sulla ordinata est-ovest. Il corridoio del praefurnium (v. Tav. XXI, b), largo mediamente m. 0,60 e profondo m. 2,70, si presentava a pianta rettangolare, con al centro un pilastrino di sostegno alla intercapedine superiore alto m. 0,70, largo m. 0,35 e profondo m. 0,70; sia le pareti

7. Agli amici del Rotary International, Distretto 2110, sede di Alcamo, la missione archeologica dell’Ateneo di Bologna deve, non solo, la più ampia apertura nel mon-do culturale alcamese ma, soprattutto, un fattivo e gratificante aiuto sia mediante la concessione, a titolo gratuito, di locali destinati alla copertura logistica della missione stessa, sia tramite l’inserimento del Progetto “Alcamo, fornace di storia” fra i Progetti del “Centenario” dell’Associazione. A Liborio Cruciata, Vincenzo Nuzzo, Sebastiano Bonventre, Presidenti del Rotary Club Alcamo negli a.s. 2003/04; 2004/05; 2005/06 rivolgo la mia sincera gratitudine per l’amicizia e l’affetto con cui mi hanno accolto e circondato.

8. Sono grato al dott. Giuseppe Mistretta, Presidente della BCC “Don Rizzo”, ed al Consiglio di Amministrazione della Banca alcamese per la concessione di uno specifico contributo destinato alla pubblicazione di questo volume.

9. Alcune indicazioni generali sul comprensorio officinale di C/da Foggia sono edite nel recente contributo di GiorGeTTi et Alii 2005, pp. 115-155.

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interne sia quelle del pilastrino, costruite in opus testaceum, apparivano ricoperte da un robusto strato di argilla concotta e rubefatta che, ad una prima osservazione, apparve ben depurata e impastata con polveri di pomice e pozzolana onde aumentarne la resistenza al calore. Da quanto fu possibile allora scorgere della parete di fondo, relativa alla vera e propria camera di combustione, essa si presentava ad andamento leg-germente concavo, con le superfici tamponate da un rivestimento in pezzami laterizi, applicati a vista a mò di crustae, surmontata da una armilla di rinforzo in mattoni cotti, probabilmente pertinente, come poi si verificherà, ad una fase strutturale antecedente.

La relazione di Sopralluogo, trasmessa alla competente Soprinten-denza BB.CC.AA. di Trapani, costituì il primo passo formale per la costituzione di un rapporto di collaborazione fra quest’ultima ed il Di-partimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali dell’Ateneo di Bologna, sede di Ravenna, mediante apposita Conven-zione.

L’ambientazione ed i dati strutturali

L’impianto produttivo si trova opportunamente attestato sul limitare della conoide deltizia venutasi nei millenni a formare dall’attività di trasporto e costipamento di due lingue d’acqua, costituite dal Canale Molinello e dal San Bartolomeo, quest’ultimo oggi poco meno che un canale mentre ancora le Cronache settecentesche lo indicavano come un fiume di consistente portata, dove risalivano navigli e barconi per rifornirsi d’acqua ed il cui corso, in antico, poneva direttamente in con-tatto la linea costiera con la vicina Segesta10. Dunque un’area utile (v.

10. In foto aerea si notano, all’apice della antica testata di sfocio del San Bartolomeo, evidenti allineamenti ortogonali, posizionati in sponda destra, che fanno pensare ad attrezzature di banchine e docks pertinenti ad un ipotizzabile attracco fluviale, forse residuo delle fasi d’uso in età tardo rinascimentale e settecentesca che comunque, in buona percentuale dati i tempi, venivano a sfruttare antecedenti strutture, specie se di impianto ingegneristico di grande affidabilità come quello di epoca romana. Pur affidandosi, in via induttiva, alle descrizioni del Fazello (De rebus siculis) e soprattutto del Massa (La Sicilia in prospettiva) che ancora agli

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Tav. I, b), per la presenza di un naturale deposito argilloso e di un im-mediato approvvigionamento idrico, alla impostazione di più manufatti destinati alla cottura, produzione e smercio di materiale laterizio e cera-mica d’uso11. È inoltre da sottolineare come l’assetto della vicina linea ferrata, costruita nel primo quarto del sec. XX, nonché il successivo impianto della S.P. 187, siano venuti costituendo una sorta di diga di sbarramento al naturale deflusso, producendo così un parziale rialza-mento dei terrazzi superficiali al terminale del declivio deltizio.

È probabilmente da far risalire a tale situazione, pur relativamen-te recente, ed alle consuete attività agricole (vigneti) condotte ancora all’antica con trincee a “misura d’uomo”, senza l’intervento distruttivo apportato negli scassi di approfondimento dagli erpici dei trattori, il no-tevole stato di buona conservazione che caratterizza i manufatti finora posti in luce e che fa del sito di Alcamo Marina un nuovo ed ottimale modello di lettura per le conoscenze che la dottrina ha acquisito e va acquisendo sulle modalità e tipologie delle attività produttive, in questo campo, in età romana.

inizi del sec. XVIII definisce il San Bartolomeo un fiume di ampia portata, si può supporre che tale condizione fosse ancor più palese in età antica e che il fiume fosse ampiamente utilizzato come via d’acqua, sia sfruttandone la corrente in discesa, sia in risalita mediante “alaggio”, destinata ai collegamenti commerciali a piccolo e medio raggio fra Segesta e gli attracchi lungo la linea costiera fra Castellammare del Golfo e Alcamo Marina. La presenza di un consistente impianto officinale-produttivo posizionato alla testata della sponda destra del San Bartolomeo ben si configura all’interno di una simile ipotesi. Circa il riconoscimento nell’attuale Castellammare del Golfo dell’emporio portuale segestano, citato da Strabone e Tolomeo, si vedano F. alaimo 2004; maurici 2005, p. 188. Le ricerche sull’eventuale presenza di un porto commerciale antico (punico e romano) a Castellammare del Golfo hanno ricevuto un forte impulso con lo stanziamento, da parte della Municipalità di C/mmare del Golfo, di 60.000 € nell’ambito dei finanziamenti che il Comune ha ottenuto per il potenziamento, la ristrutturazione e l’abbellimento del porto e delle aree circostanti (AGE, Agenzia Giornalistica Europa, lancio del 7 feb. 2006, h. 13.12). Il confronto con i 4000 €, destinati nel 2005 dal Comune di Alcamo alle ricerche in C/da Foggia, è quantomeno “dolente”.

11. Per un’analisi dell’ambiente geomorfologico rimando al lavoro di J. Franzò in questo stesso volume. Indicazioni sugli assi viari locali in età imperiale e tardo antica in uGGeri 1998, pp. 299-364; maurici 2005, pp. 57-61.

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Il settore di rinvenimento e di ricerca si trova sul limitare orien-tale dell’area di lottizzazione, che prevedeva in questo punto la co-struzione di strutture d’uso comune all’apparato condominiale dei villini; parte di questo appezzamento è stato poi concordemente tra-sferito alla competenza del Comune di Alcamo con finalità di desti-nazione ad area pubblica12. Nel corso delle prime tre Campagne si è avuto modo di ampliare lentamente l’area di ricerca, nel rispetto dei limiti legali e giuridici di competenza, ma è ovvio rimarcare che l’impianto officinale-produttivo romano si andava qui estendendo su ben più ampia spazialità13. Al momento ci si ritrova ristretti fra: il fronte a nord, invalicabile in quanto costituito dall’assetto della linea

12. La intricata rete di rapporti giuridici e legali fra Ditta di lottizzazione, pro-prietari dei villini, Comune di Alcamo, Ferrovie dello Stato, proprietari delle par-ticelle agricolo-catastali dei circostanti terreni a coltivo, attività e forme di tutela della Soprintendenza archeologica ai sensi della Legge 1089/39 e successive mo-dificazioni, ha reso e rende tuttora delicata qualsiasi operazione di “allargamento” dell’area di ricerca; anche se essa rientra nelle competenze comunali o della Ditta di lottizzazione, quest’ultimi devono comunque di volta in volta fornire apposita “liberatoria” agli Uffici statali e regionali di competenza. Una eventuale estensio-ne delle ricerche nei settori ad ovest e ad est, rispettivamente in area condominiale e nelle proprietà a vigneto, potrà verificarsi solo dietro opportuno accordo fra le varie parti secondo quanto previsto in materia dalle leggi vigenti. Va da sé che l’attività “archeologica” è in questo caso ampiamente succedanea ad una volon-tà “politica” che esprima il pieno interesse della comunità alcamese alla tutela, conservazione e valorizzazione dei beni storici, architettonici ed archeologici del proprio territorio. Mi è doveroso accennare qui al sostanziale e disinteressato aiu-to fornito alle attività della missione di ricerca da parte del Sig. Camillo Russo, proprietario dell’area limitrofa a coltivo di vigneto, del Sig. Cacciatore che ha concesso l’uso dell’acqua, e dei coniugi Barricelli Orofino, proprietari di un villi-no adiacente all’area di scavo, per la fornitura della corrente elettrica. Infine non posso mancare di ricordare la amabile disponibilità ed il fattivo appoggio che, in diversi frangenti, mi ha dimostrato l’amico Giacomo Sucameli.

13. Oltre alle tre fornaci finora rinvenute, e poste in sicurezza nelle ultime due Campagne, si devono aggiungere le evidenti e palesi tracce relative alla esistenza di manufatti consimili, a costituire un organico ed unico complesso, espresse sia dalle analisi geofisiche finora condotte sul terreno, sia dalle attività di survey e rilevamento specifici, sia dalle risultanti della modellazione GIS dei dati vettoriali GPS. Se ne può dedurre una estensione media dell’impianto originario valutabile attorno ai 2500 m².

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ferroviaria14; il fianco ovest ove la presenza di una fossa di scarico abu-siva ha finora impedito di poter saggiare il terreno in quel settore15; il lato est posto sul limite della proprietà agricola a vigneto16; il fianco sud

14. A valle della strada ferrata, fra questa, la S.P. 187 e le propaggini della linea costiera, si sono potute registrare ulteriori presenze di resti e di aree di laterizi che, probabilmente, erano pertinenti o collegati al grande impianto produttivo.

15. La rimozione dei materiali affossati illegalmente nello scarico abusivo ne-gli ultimi anni è stata risolta nel settembre 2005, in accordo fra Comune e Impresa, con un primo intervento di bonifica. Ringrazio l’Autorità Municipale, l’ing. Giovanni Bombaci e l’arch. Tiziana Ospedale per il loro cortese e fondamentale appoggio.

16. Basti pensare che la struttura della c.d. fornace “B”, la più estesa e complessa fra quelle finora rinvenute, è letteralmente “divisa” a metà fra le due aree giuridiche. Per poterla scavare nella sua interezza e trarne i fondamentali dati tecnici e storici occorrerà, come da norma, ottenere apposita “liberatoria” da parte dei proprietari del terreno. Con il dott. Ignazio Filippi, Assessore alle Politiche culturali del Comune di Alcamo, si è comunque ventilata l’ipotesi di un acquisto da parte del Comune di uno specifico appezzamento di quella proprietà al fine di rendere legalmente operativa

Figura 2. La vasta area di cocciame affiorante fra i filari del vicino vigneto.

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ovest ove insiste una soletta in cemento, su fondazione a macera, desti-nata ad una particolare struttura ludica prevista dall’originario Piano di lottizzazione, “singolarmente” costruita in loco nel corso della prima-vera 2004, cioè quando l’area di scavo e rispetto archeologico, che dista solo 3 metri, era da oltre un anno ben nota e pienamente visibile17. In sostanza risulta realisticamente confacente all’avanzamento delle ricer-che il solo fronte sud, pur ristretto fra la succitata struttura cementizia e l’area a coltivo di vigneto, dove non a caso nel settembre 2005 sono venuti in luce i resti di superficie della terza fornace “C”, assialmente inserita nella scacchiera formata dalle murate di contenimento, diretta-mente a monte della fornace “A” (v. Tav. IV, a).

Le tre fornaci finora rinvenute (definite “A”, “B” e “C”) appaiono impostate su un caratteristico modulo a “schiera” allineato longitudi-nalmente sull’asse nord-sud (con praefurnium esposto ad ovest e, dun-que, volto verso i venti in genere non dominanti onde evitare un peri-coloso effetto “mantice”) e si presentano inquadrate in una scacchiera di murate calcaree pseudoisodome, ortogonali e vicendevolmente pa-rallele, utili ad elidere i vettori delle forze contrapposte nei momenti di massima dilatazione, in fase di esercizio, e di ritrazione nei momenti di assestamento e raffreddamento. La loro forma è circolare, con un dia-metro medio di ca. m. 3; solo nel caso della fornace “A” si nota un tardo restringimento del piano di cottura e della calotta, a mò di orbicolo tan-gente alla antecedente circonferenza maggiore, che fa pensare ad una ipotizzabile diversa destinazione d’uso ma la cui effettiva spiegazione non è ancora definibile sulla base dei dati al momento in nostro pos-sesso18 (v. Tav. II). Le fornaci di Alcamo Marina, come accennato, pre-

la continuità delle ricerche sul fianco orientale. A tale considerazione si è giunti in quanto lungo i primi otto filari del vigneto, adiacenti all’area di scavo, è evidente la presenza massiva di cocciame in una percentuale tanto fortemente concentrata da far supporre l’esistenza in quel settore di ulteriori manufatti produttivi.

17. Si è comunque ben presto trovata una ipotesi di soluzione con variazione par-ziale del Piano di lottizzazione e degli interventi del nuovo PRG previsti nel settore fra il ponte sul San Bartolomeo e il limitare di C/da Foggia.

18. Per la completa disamina tecnica e stratigrafica sulle strutture delle fornaci e sui settori dello scavo rimando direttamente il lettore al lavoro del collega González Muro in questo stesso volume. Vi è anche da accennare che le fornaci di Alcamo Ma-

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sentano un ottimo stato di conservazione, sia del praefurnium, sia della camera di combustione, sia del piano di cottura, sia della camera di cot-tura la cui calotta appare preservata per ca. 3/5 della struttura originaria. Sui mattoni della calotta si nota, inoltre, la presenza di un espediente “tecnico” costituito da incassi rettangolari, posti in asse longitudinale sulla parete superiore, atti a determinare un migliore ammorsamento e coesione fra le assise sovrapposte che andavano a chiudere l’arco della calotta (v. Tav. III, a).

Fra i dati di maggior interesse, finora emersi dai rinvenimenti in Contrada Foggia, appaiono due elementi che, in via induttiva al mo-mento, potranno offrire importanti contributi alle conoscenze sulle im-postazioni struttive e tecniche delle fornaci d’età romana e tardo antica. In un caso (fornace “A”) si sono recuperati, dal piano forato di cottura e dal settore di crollo nella sottostante camera di combustione, numerosi frammenti di “tubuli” cilindrici, alcuni parzialmente integri, del diame-tro di cm. 10 e con uno sviluppo ricostruibile attorno ai cm. 20. La loro caratteristica forma fa supporre una successione di incastri imbutiformi maschio/femmina che, dipartendo dai fori di efflusso calorico posti sul piano di cottura, giungesse a forare il cervello di volta della calotta permettendo la fuoriuscita dei fumi di combustione senza che questi potessero interessare l’interno della camera di cottura (v. Tavv. XXIV, a, e XXV).

Date la posizione e la percentuale di tali rinvenimenti mi sembra di poter escludere un utilizzo dei “tubuli” come camicia di coibentazione alla parete interna della calotta, sicché rimarrebbe solo l’affascinante ipotesi, da prendere per ora con beneficio in attesa di future possibili conferme, che nella struttura della fornace “A” di Alcamo Marina si possa riconoscere la tipologia inconsueta della c.d. fornace “a muffo-la”19, di cui si conoscono ben pochi elementi nell’Italia e nell’Europa di età romana e su cui la dottrina archeologica mantiene un comprensibile e cautelativo riserbo. Se rimane accettabile l’ipotesi che una siffatta ti-

rina, proprio in virtù del singolare stato di conservazione, presentano delle caratteristi-che peculiari che non trovano riscontri in ritrovamenti similari effettuati nella Sicilia occidentale. Cfr. Di sTefano 1982, pp. 31-36; GiGlio 1997, pp. 854-856.

19. cuomo di caPrio 1971-72, p. 401; ead. 1985, pp.143 e 145 fig. b.

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pologia di un forno di cottura fosse destinata alla produzione di cerami-ca fine e di pregio, con opportuna eliminazione dei fumi di combustione all’interno della camera di cottura, vi è anche da dichiarare che dalle ricerche sulla fornace “A”, che ha visto ampi interventi di ristruttura-zione su un lungo arco cronologico che giunge fino alla prima metà del V sec. d.C., si sono recuperati ben pochi frammenti di “terra sigillata”. L’ipotesi, in attesa di ulteriori e più congrui dati, va presa al momento alla lettera come tale e si può forse solo supporre, in via propositiva, che la fornace in questione possa aver funzionato, in un relativamente breve stato di esercizio, nella tipologia a “muffola” prima di successivi rifacimenti o diverse destinazioni.

L’altro dato, che va man mano assumendo sempre maggior interes-se, è costituito dalla ampia presenza percentuale, specie fra i materiali estratti dalla fornace “B”, di frammenti anforari la cui forma e struttura appare chiaramente inquadrabile nelle forme Dressel 21 e 2220. Tale tipologia di anfore, meno conosciuta rispetto ad altre dati i pochi ele-menti a disposizione della dottrina, si suppone, in base ad una inter-pretazione estensiva di un passo pliniano21, fosse prodotta al fine della conservazione e del trasporto di frutta22 ma è difficile tutt’oggi ipotiz-zare il centro primario di produzione; alcuni, seguendo le ipotesi dello Zevi, lo individuano in area italica e campana23, altri guardano ai settori ispanici24.

I ritrovamenti di Alcamo, unitamente alle parallele ricerche in mate-ria operate recentemente dalla Scuola francese25 sembrano ora permet-

20. dressel 1879, 5, tavv. VII-VIII, nn. 15 e 16. Per i dati specifici sui ritrova-menti di Alcamo Marina rimando anche qui al testo di González Muro, infra.

21. Plin., Nat. Hist., XV, 12, 42. Alcuni tituli picti di area pompeiana indicano come le anfore di tipo Dressel 21 e 22 fossero utilizzate per il trasporto di mele, pru-gne secche e ciliege. Cfr. callender 1965, pp. 13-14.

22. callender 1965, pp. 13-14; Zevi 1966, p. 222; BelTran lloris 1970, pp. 511-513; PasTore 1992, p. 46; caravale - ToffoleTTi 1997, p. 110.

23. Zevi 1965, p. 122.24. van der Werff 1986, p. 114.25. Le indagini fanno capo al collega Jean-Yves Empereur, Directeur de recher-

che au CNRS e Direttore del CEAlex (Centre d’Etudes Alexandrines) ed alle ricerche condotte da uno dei suoi allievi, Emmanuel Botte, sui materiali anforari di età romana e, nello specifico, sul tipo Dressel 21-22. Ringrazio qui il dott. Botte per la disponi-

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tere di formulare l’ipotesi circa la presenza di nuclei produttivi, di non secondo piano, localizzabili nelle aree della Sicilia nord occidentale; nel caso locale di Alcamo, inoltre, sembra potersi avvalorare l’ipotesi che le Dressel 21 e 22 potessero essere utilizzate, oltre che come contenitori per frutta, anche per la conservazione e trasporto del pesce, specie tun-nidi e scombridi, a conferma di una millenaria tradizione economica26, ancor oggi viva e commercialmente caratterizzata, in antico, dalla pre-senza di numerosi impianti per la lavorazione del pesce e la produzione del garum diffusi tra il Golfo di Castellammare, la costa fra S. Vito lo Capo e Marsala fino a Favignana e Levanzo nel gruppo delle Egadi27. È infine interessante considerare che le mirate analisi minero-petrografi-che, effettuate su alcuni frammenti anforari28 (v. Tavv. V-VI, a-b), indi-chino come la struttura compositiva del materiale ceramico di Alcamo Marina sia ben differenziata dalle similari produzioni di Dressel 21-22 dell’area laziale-campana, mentre forti analogie sono riscontrabili con gli impasti che contraddistinguono le produzioni segestane. Questo tor-nerebbe a favore di una ipotesi, già avanzata in altre sedi29, circa una produzione “localizzata” a sfruttamento della sostanziosa potenza sedi-

biltà fornita nello scambiare con noi i rispettivi dati; cfr. BoTTe 2004, passim; id., Les amphores Dressel 21-22 de Pompéi, in “Studi Pompeiani”, 17 [in corso di stampa; d’ora in poi “cds”].

26. A parte le notizie sulla pesca e la cattura dei tonni presenti in arisT., Anim. Hist., VIII, 12 e ss. (commercio del tonno tagliato a pezzi e, messo sotto sale in giare, destinato alle mense puniche) e di aelian., De Animal. Natura, XV, 5, 6, non è senza interesse un passo di Ateneo (Deipnosoph., I, 116 f - 117 a) dove è riportata un’asser-zione di Dafno di Efeso: «Archestrato, che fece un viaggio per il mondo per saziare sia stomaco che altri più bassi appetiti, dice: “Mangia, caro Mosco, una fetta di tonno siciliano, al tempo del taglio per essere salato e messo in giare”».

27. manni 1981, p. 159; PurPura 1982, pp. 45-60; PurPura 1985, pp. 59-86; Pur-Pura 1989, pp. 25-37; PurPura 1992, pp. 87-101; Tusa 2003, pp. 27-33; maurici 2005, pp. 85-89. Ulteriori indicazioni in E. BoTTe, Sauces et salaisons de poissons en Italie et en Sicilie durant l’Antiquité [tesi di dottorato (UMR5138), Archéometrie et Archéologie; Maison de l’Orient et de la Méditerranée – J. Pouilloux], Univ. Lyon II, Lyon 2004.

28. Si veda lo specifico contributo, in questo stesso volume, dei colleghi Capelli e Piazza (Università di Genova, Dipartimento per lo studio del Territorio e delle sue Risorse).

29. alaimo et Alii 1997; denaro 1995, pp. 197-199 e fig. 3 p. 188.

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mentaria del Flysch Numidico che interessa ampiamente i territori della Sicilia occidentale30. Ulteriori analisi, che si spera di poter condurre su fondi o corpi d’anfore che mantengano in parete tracce residue del con-tenuto, potranno eventualmente in futuro fornire dati utili per conferme o diverse considerazioni sulla destinazione d’uso delle Dressel 21-22 prodotte nelle fornaci di Alcamo Marina.

Una ipotesi da verificare: l’imprenditoria dei Maesii Titiani

La valutazione di una estensione media dell’impianto officinale di C/da Foggia attestata sui 2500 m² e l’organica impostazione strutturale delle fornaci, chiuse e difese nelle ortogonali scacchiere di muri di con-tenimento, conducono ad alcune considerazioni di base:

a) dagli elementi finora emersi nel corso delle prime tre Campagne l’impianto produttivo sembra mantenere una lunga attività di esercizio, senza apparente soluzione di continuità, fra fine I sec. a.C. e metà V sec. d.C.;

b) è da escludere che i manufatti qui riportati alla luce fossero per-tinenti ad una singola villa rustica, con annesso praedium, di proprietà (o per diritti di successione) di uno o più esponenti di una famiglia di altolocato rango;

c) l’ampiezza non indifferente dell’area di lavoro (ma è solo una media cautelativa), ove occorre anche immaginare la presenza di fosse contigue per la depurazione dell’argilla con condotti di afflusso e de-flusso dell’acqua dai due vicini alvei, botteghe destinate alle diverse linee di produzione, magazzini di stoccaggio e temporaneo deposito, fa presupporre che la funzionalità produttiva dell’intero complesso non potesse essere congruamente assicurata se non dalla presenza medio-minima di una quindicina di fornaci, opportunamente suddivise per set-tori di produzione;

d) se da qui supponiamo la presenza di almeno 8 operatori per cia-scuna fornace, ognuno con le specifiche funzioni e mansioni dettate dai

30. Anche in questo caso rimando al contributo del collega Cesare Fiori, infra.

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cicli e dai turni di lavoro31, mantenendo come ipotesi cautelativa che al-meno 2/3 di costoro fossero capi famiglia, ne risulterebbe la presenza in zona di almeno una novantina di nuclei familiari che gravitavano attor-no alle attività produttive del centro officinale, apportandovi anche, di certo, una buona percentuale di quello che oggi definiamo “indotto”;

e) se quanto espresso al punto precedente può risultare accettabi-le, pur con beneficio di dubbio data l’ipotetica proporzionalità, se ne può dedurre l’esistenza di un agglomerato abitativo che, pur frazionato, doveva trovarsi nelle immediate vicinanze del centro produttivo, forse arretrato lungo la vallata deltizia nei pressi delle linee d’acqua. Una ipotesi, questa, che è nei programmi sottoporre a verifica nelle prossime Campagne mediante analisi da foto aerea e satellitare, survey e ricogni-zioni specifiche, rilevamento tramite GPS e restituzione del modelling dei terreni su piattaforma GIS.

Ora da una tale configurazione si trae anche, di conseguenza, l’im-magine che un siffatto impianto produttivo, così organico e complesso, possa aver fatto parte delle proprietà di una o più famiglie di imprendi-tori o possidenti fondiarî, in genere clarissimi viri di rango senatoriale o comunque appartenenti a clan gentilizi, che nell’esercizio dell’otium potevano sia applicare il principio della suburbanitas32, trasferendosi a

31. Penso agli artigiani di bottega; ai responsabili di cantiere; ai magazzinieri; agli addetti alle fosse di depurazione dell’argilla; ai carrettieri; ai manovali per il rifor-nimento di combustibile; ai carpentieri e manovali per le necessarie e ricorrenti atti-vità di risarcimento strutturale e di restauro; agli addetti al controllo del praefurnium; al personale specializzato, sia per il corretto inserimento degli oggetti all’interno della fornace, sia per il ripetitivo atto tecnico della apertura e risigillatura della botola di accesso nella cupola della camera di cottura, sia per il delicato controllo delle fasi di cottura e raffreddamento.

32. Suburbana provincia è definita la Sicilia da Cicerone (Verr., II, 5, 157), così come in periodo successivo L. Anneo Floro ne darà descrizione di terra frugifera, ferax et quodam modo suburbana provincia (III, 19, 3). Sul concetto di suburbani-tas applicato alla Sicilia, sia in ambito economico commerciale sia come filosofia dell’otium, si veda SarTori 1980-81, pp. 263-281; SarTori 1983, pp. 415-423. Fra la vasta bibliografia inerente la Sicilia antica si vedano, in particolare, ClemenTe 1962, pp. 465-487; finley 1970; cracco ruGGini 1980, pp. 3-96; clemenTe 1980-81, pp. 192-219; vera 1981; manGanaro 1982, p. 377; mazza 1987, pp. 13-62; vera 1997, pp. 33-73; cracco ruGGini 1997, pp. 243-269.

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periodi nei fondi delle loro proprietà in Sicilia, o delegando allo scopo vilici o conductores di fiducia e mantenendo il controllo dei propri inte-ressi dal centro politico del potere33.

L’uso da parte di numerosi rami gentilizi dell’aristocrazia romana di acquisire e mantenere in Sicilia tenute o singole villae con annessi fondi divenne, fin dal periodo tardo repubblicano, una consuetudine sempre più diffusa; attraverso di essa si poterono anche formulare consistenti e forti patti economici che tramite accordi matrimoniali, legami di pa-rentela e atti di successione finirono per creare, qui, un potente nucleo di optimates che veniva a detenere le redini di buona parte delle attività economiche e commerciali dell’isola. Una consuetudine che diverrà un vero e proprio status symbol allorquando più tardi, fra III e V sec. d.C., la presenza di viri clarissimi nelle proprietà fondiarie di Sicilia verrà considerata come naturale e “necessario” passaggio intermedio prima di recarsi nei ben più vasti possedimenti che molti clan gentilizi si erano andati procacciando nelle aree provinciali dell’Africa romana34.

Fra le documentazioni più significative dei materiali portati alla luce in C/da Foggia sussiste un frammento di bollo laterizio rinvenuto nel 2003 nelle strutture della fornace “A”, impresso su di un coppo con la dicitura MÆS†[…] (v. Tav. IV, a). Un singolo elemento databile, per la composizione del ductus e la presenza del simbolo cruciforme, agli inizi di V secolo d.C. ma di cui si conoscono altri esemplari provenienti

33. Già Columella (De Agr., I, 13-18) puntava l’indice sulla scarsa produttività dei latifondi italici come esito dell’assenteismo e disinteresse dei proprietari, sottoli-neandone anche la inscitia negotii gerendi ovvero l’inesperienza e l’ignoranza nella conduzione dei beni agricoli.

34. A tal proposito riporto qui un illuminante passo della cracco ruGGini1982-83, p. 478: “Petronio fa dire a Trimalcione, nell’enumerazione delle tenute che questi possiede o possiederà […]: nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines navigem. Dunque l’idea di avere in Sicilia qualche tenuta o villa adiacente al mare per farvi tappa in eventuali viaggi verso i propri possessi d’Africa, questa maniera così peculiare di guardare all’isola come a un giunto inter-medio fra le regioni dell’Italia centro-meridionale e le province africane non fu estra-nea neppure alla mentalità dei grossi possidenti fondiari della prima età imperiale, per quanto la si trovi documentata soltanto fra il IV e V secolo, presso aristocratici romani quali gli Aurelî, i Symmachi, i Nicomachi, i Valerî-Arcadî, i Caeionî, gli Anicî (tutte famiglie senatorie fra loro più o meno strettamente imparentate)”.

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dal territorio alcamese, specie dall’area di Sirignano, a monte di Alca-mo e dell’omonimo corso fluviale, ove dai resti di una ipotizzabile villa rustica venne rinvenuta una tegola con bollo [MÆ]S†ANÆ35 (v. Tav. IV, b).

Come ampiamente sottolineato da Livia Bivona36 la presenza della gens Maesia è ben documentata nella Sicilia di età imperiale e tardo an-tica, attraverso le numerose iscrizioni provenienti dalle aree di Thermae Himeraeae (Termini Imerese), Palermo, Lilybaeum (Marsala) ad indi-care gli interessi commerciali ed economici di questo clan nei territori costieri ed interni della Sicilia nord occidentale.

Da quanto ci è noto la gens dei Maesii Titiani, fortemente collegata al parallelo ramo dei Fabii Titiani, poteva anche contare, in Sicilia, su collaterali legami di parentela con numerose familiae di rango senato-riale, quali gli Aquilî, i Caesilî, i Modî ma soprattutto i Caeionî Albini ed i Symmachi37. Secondo la puntuale ricostruzione offerta dalla Bivo-na, su base epigrafica38, la presenza e l’assestamento della gens Maesia in Sicilia potrebbe essere fatta risalire ad un capostipite quale C. Mae-sius Picatianus che, di origine nord italica39, percorse un considerevole cursus honorum in qualità di quaestor provinciae Africae, prima, e di

35. Trasselli 1970, p. 23 e ss.; Bivona 1972, p. 195; Bivona 1980, p. 237 e note 27-32; messana 2004, s.v. Sirignano-Cademusa (cfr. foto a p. 60).

36. Bivona 1980, pp. 233-242; ead., 1970, tav. XIV n. 18. Sulla interessante fre-quenza locale di omonimia toponomastica nel vocabolo Sirignano cfr. Bivona 1990, pp. 139-144; ead. 1988, pp. 211-217.

37. Lo stesso Q. Aurelio Simmaco fu imparentato, per ramo materno, ai Maesii Fabi Titiani. Si veda in proposito roda 1981, pp. 182-184; cracco ruGGini 1982-83, p. 478 e nota 4; marcone 1983, pp. 146-148.

38. Le documentazioni epigrafiche relative a personaggi della gens Maesia Titiana recano menzione di un Maesius Fabius Titianus c(larissimus) p(uer) (cil, X, 7343, 7276); Maesia Fabia Titiana c(larissima) p(uella), sorella del precedente (CIL, X, 7343, 7276); C. Maesius Aquillius Fabius Titianus c(larissimus) v(ir) co(n)sul (CIL, X, 7345); C. Maesius Titianus consularis (CIL, X, 7346=ILS 1083); [? Maesius] Titianus c. f., C. Maesi(i) Titiani et Fonteiae Frontinae consularium filius, patricius (CIL, X 7346=ILS 1083, tav. II 3). Cfr. Bivona 1980, p. 233. Per l’area centro italica si veda Granino cecere 1990, pp. 139-157. La più recente bibliografia in seTTiPani 2000, pp. 146-148 e 400.

39. C. Maesius Picatianus è noto come facoltoso e generoso patronus della città di Brescia (CIL, V, 4338).

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legatus Augustorum pro praetore di Numidia, poi, fra 163 e 164 d.C., tanto da far supporre come “ipotesi assai verosimile che qualche suo rappresentante [gens Maesia, N.d.A.], al seguito di C. Maesius Pica-tianus o in qualche modo a lui collegato, abbia dato origine al ramo siciliano dei Maesii”40. Difficile invece stabilire quale eventuale rap-porto genealogico e familiare potesse esservi con il ramo macedone dei Maesii Titiani, potente testata di una organizzazione commerciale che controllò il particolare ambito dei rapporti nel mercato di interscambio fra l’oriente romano e il regno di Sēres (Cina), fidando su fondamentali accordi con intermediari iranici e con i potentati dell’Asia centrale per gli accessi ed il transito lungo la Silk Road41.

Il singolo bollo laterizio rinvenuto in C/da Foggia è di certo insuf-ficiente per proposizioni men che ipotetiche, ma la sua presenza unita-mente ai dati cui si è fatto cenno, inducono a supporre, pur in attesa di più ampia e congrua documentazione, che il territorio alcamese potesse rientrare, in antico, negli interessi imprenditoriali del clan gentilizio dei Maesii Titiani.

Il confine fra ™pist»mh e t�cnh42: il caso di Alcamo

Passando ad altre considerazioni le tre recenti Campagne di Alcamo Marina hanno costituito anche una opportuna palestra per l’applicazio-ne, in archeologia, di tematiche e tecniche collegate ai più recenti meto-di di rilevamento analitico del terreno di superficie43 nonché all’utilizzo, a fini geodetici, dei sistemi di registrazione satellitare GPS e inserimen-to dei data in piattaforma GIS44. Ma proprio le esperienze alcamesi, in questo campo, mi inducono qui a presentare alcune considerazioni che

40. Bivona 1980, p. 242 e note 59-63.41. alemany 2002, pp. 105-120.42. D’ora in avanti epistéme e tèchne.43. A questo proposito rimando direttamente alle pagine di Giacomo Antonino

Orofino in questo stesso volume.44. Anche per questa indicazione si veda il lavoro di Joseph Franzò.

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concorrono alla disamina del perenne contrasto fra epistéme (la sapien-te conoscenza) e tèchne (la tecnologia applicata, si direbbe oggi)45.

La storia della scienza ed il suo spazio odologico, hanno visto nell’ultimo secolo una straordinaria accelerazione speculativa, affasci-nante nella geometrica composizione delle conquiste ma inquietante

45. Le indagini di rilevamento e di survey, condotte nel maggio 2004, sono state impostate sulla base di schede tecniche, appositamente create per le caratteristiche peculiari del terreno in questione (G.A. Orofino); per le levate topografiche GPS, sia dell’intera area deltizia (in via di completamento) sia dei particolari dell’area dello scavo, si è utilizzato il sistema Navcom Starfire, in cui una delle due testate di bifre-quenza è direttamente rappresentata dalla posizione di scorrimento della costellazione satellitare geostazionaria. Per i successivi esiti di georeferenziazione, editing DTM e mappatura cartografica a grande scala più propriamente connessi alla piattaforma GIS, si sono utilizzati, in sequenza, i software TNSharc 4.1 Advanced della Terranova e MapInfo Prof. 7.0 (J. Franzò). Per i dati di rilevamento stratigrafico si è avuto modo di testare, nel sito di Alcamo, il nuovo software Proleg Stratigraf 3.6 – Proleg Matrix-Builder, diffuso dalla catalana Proleg© (X. González Muro).

Figura 3. Una fase del rilevamento delle levate mediante Total Station.

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nel conseguente vortice centrifugo degli esiti, tanto che in una sorta di legge del contrappasso a ritroso essi vanno di nuovo necessariamente sottoposti al controllo di una Sophrosýne etica a mitigarne il lato oscuro. Si impone oggi con maggior forza alla società civile il fermo e razionale richiamo a perseguire la linea fondamentale dell’organico amalgama fra uomo natura e scienza, il cui progressivo disconoscimento rischia di far pericolosamente emergere un problema non virtuale: il regredi-mento della conoscenza intesa sempre più come “sapere” tecnicistico anziché come “sapienza” morale.

Solo questo “umanesimo” è la vera forza della Scienza nel suo stupe-facente progredire, dove però occorre sempre mantenere l’affidamento ad un preciso ed ineluttabile distinguo: il subire, più o meno sciente-mente, i siderali prodigi della “tecnologia” o imporre ad essa la ratio cognitiva della “tecnica”. Già il Koyré46 ebbe modo di affrontare, da par suo, questo approccio metodologico, proponendosi di rispondere ad un quesito, comune alla intera storia e filosofia della scienza, inerente le ragioni che portarono i più eminenti filosofi speculativi dell’antichità a non percepire quello che per la comunità scientifica moderna è l’ovvio esito razionale delle ricerche attraverso l’edizione: un Archimede, che non ha mai pubblicato i suoi studi, procedeva nel chiuso corridoio del-le “ipotesi di applicazione della scienza” mentre un Galileo, che li ha pubblicati, lungo l’aperto sentiero della “scienza delle applicazioni”; è il momento del grande balzo, di cui siamo ancor oggi tutti tributari.

Una dipendenza oggi quasi assoluta, nella sua forma “utilitaristica”, ma non “utile” se agnosticamente distaccata dalla conoscenza dei prin-cipi di base. Chiunque è oggi in grado, con un minimo di pratica anche senza saper nulla di topografia, di utilizzare una Total Station laddove la sempre più performante tecnologia dei software topografici permette, premendo semplicemente qualche tasto, di ricevere in tempo reale sul display i risultati del calcolo trigonometrico, assoluti ed affinati alla terza cifra decimale. Ma solo chi ha percorso il duro e progressivo cam-mino di conoscenza, di buona memoria, dei principi e delle leggi trigo-nometriche e della loro “traduzione” ed applicazione grafica attraverso tavole logaritmiche e regolo calcolatore, tacheometro ottico con lettura

46. Koiré 20003, p. 78 e ss.

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al nonio o teodolite non analogico, potrà apprezzare la “utilità” tecno-logica della strumentazione laser, con il completo ed ineffabile pregio di averne il pieno controllo attivo, al contrario di chi, in assenza di quel percorso, ne subisce pressoché passivamente il solo esito “finalizzato” ed “utilitaristico”.

Il noto aforisma che assegna la patente di “analfabeti del terzo mil-lennio” a coloro che non usano il computer, o per i quali la tastiera non sia il sinonimo sostitutivo della penna, è in parte condivisibile ma solo nella misura in cui la forza esplosiva della attuale tèchne sia sem-pre sottoposta alla ratio ed alla esegesi di validazione della epistéme, nell’ottica di una filosofia “umanistica” che ponga al riparo dal ciclico e ricorrente dubbio: chi controlla il controllore?

Fino a circa un ventennio fa ciascuno di noi era ancora in grado di poter interagire con la new technology, si potevano con le stringhe del linguaggio Basic costruire personali strumenti d’uso penetrando, pur solo in parte, all’interno della logicità dei sistemi. Cosa oggi non più praticabile e pressoché impossibile ad un normale utilizzatore dato che la macchina viene consegnata in “pacchetto” pressurizzato e defi-nito, laddove il software è una componente preconfezionata e blindata, tanto che è ormai prassi consolidata seguire il veloce progresso tecno-logico “subendo” la imposizione del dover necessariamente aggiorna-re, in tempi sempre più ravvicinati, direttamente e tout court l’intero hardware. Ovvero la dissacrante economia dell’offerta pesa oggi con tutta la sua potenzialità su un solo piatto della bilancia, facendo sì che sempre di più il sapere “tecnologico” dei pochi venga ad incidere, con forme di bruta oligarchia di mercato, sulla sapienza “tecnica” dei molti, rendendo attuale ed esplicito quanto Orwell aveva solo induttivamente preconizzato.

Non vorrei essere qui frainteso; il progresso tecnologico è e sarà sempre più parte integrante del divenire scientifico dell’uomo, tanto che lo stesso mondo archeologico di fase “post processualista” non può oggi concepire una corretta anamnesi dei dati territoriali senza l’affidamento “aristotelico” agli insostituibili programmi strumentali che compongo-no l’orizzonte dei sistemi GIS e GPS, purché il timone sia ferreamente impugnato sul filone concettuale dell’umanesimo del sapere, su quel-

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la “antiaristotelica” tèchne perì tòn bíon ovvero “l’arte nella scienza”, dove è il raziocinio e la sapienza del nocchiero che deve guidare la pur tecnologica nave, e non viceversa.

Mi viene in mente, a riguardo, un esempio derivato da una consta-tazione che vado da anni verificando in ambito accademico, e non solo relativo a quello studentesco ma anche ad una sicumera, ormai acqui-sita come dogmatica, fra numerosi ed illustri Colleghi: la mancanza della percezione, fondamentale, nella differenza fra rilevamento e rilie-vo, concepiti l’uno come sinonimo dell’altro, mentre del tutto diverse sono le istanze che informano i due procedimenti. Se nel primo caso, metodologicamente impostato su funzioni a piccola scala per il dise-gno algoritmico di un “modello” territoriale, il ricorso ai sistemi GPS e piattaforma GIS risulta non solo utile ma anche altamente performante per la pressoché infinita serie degli esiti di cartografia numerica compu-terizzata, nel secondo, invece, l’assoluto affidamento ai suddetti sistemi per indagini rappresentativo-descrittive a grande scala produce, a mio modo di vedere, risultanti di fredda sintesi grafica sulla base di analisi matematiche necessariamente “mediate” dalla composizione preordi-nata degli algoritmi di software. Per questo, essi spesso non vengono a restituire altro che una immagine parcellizzata dell’esatta posizione spaziale del manufatto nel momento in cui lo si sottopone a verifica e dove, a posteriori, sarà ben difficile valutare le incognite di errore e la loro posizione nell’ordine temporale delle riprese.

Se da una parte la strumentazione tecnologica risolve ampiamente, in tempi brevissimi e con ottimizzazione dei risultati, i problemi con-nessi alla relazione spazio ÷ tempo per riprese su ampiezze medio vaste, dall’altra una sua non accorta procedura d’uso a grande scala fornisce una progressiva percentuale di errori (posizionamento medio-tempora-le, corretta ponderazione zenitale del rover, sovraeccesso di riprese su triangolazioni troppo strette, ridondanza dei dati satellitari) che anche la riconosciuta esperienza di un raffinato “canneggiatore” potrà verificare con difficoltà nella fase di post processing, solo che non assuma quei dati come assoluti; la macchina esegue alla perfezione il lavoro per cui è stata costruita, l’errore dietro l’angolo è sempre e solo umano. Chi si affida totalmente agli esiti meccanicistici sperpera inutilmente il ben

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dell’intelletto, chi “più sa, e più sa di non sapere nulla” forse quell’er-rore potrà percepirlo prima ancora di commetterlo47.

Nell’archivio dell’Antiquarium al Palatino sono ancora conservati gli straordinari disegni con i quali, sulla base “tecnica” della trilatera-zione e triangolazione, gli artisti-disegnatori della fine Ottocento han-no fissato a grandissima scala le fasi stratigrafiche degli scavi Boni al sepolcreto arcaico del Foro, con quell’accortezza, quell’afflato, quella certosina precisione che solo la “mano” dell’artista, guidata dalla perce-zione cognitiva e dalla sensibilità dell’osservazione, poteva restituire a così ineffabile livello. È qui che pienamente si distingue la siderale dif-ferenza fra il rilievo dogmaticamente affidato ai logaritmi di una mac-china e quello prodotto da chi si impegna sul campo nella dura sequenza logica dell’osservare ÷ vedere ÷ capire, vera sublimazione di una “arte nella scienza” che, con le parole del compianto Lamboglia, differenzia l’archeologo “pensante” da quello semplicemente “agente”.

Dunque proprio quelle “casualità” cui si è fatto cenno in apertura, così frequenti in archeologia, ed il fortuito rinvenimento del complesso artigianale produttivo di età romana nelle campagne di Alcamo Marina, hanno permesso a chi scrive di sottoporre le proprie considerazioni, for-mulate dallo schema ideologico su esposto, alla verifica di validazione offerta sia dai fondamentali e incorrotti canoni dell’analisi autoptica, sia dal ragionato utilizzo ausiliario della strumentazione satellitare, in un catalizzatore critico in progress dove confrontare certezze e inco-gnite, confermare convinzioni o tornare sui propri passi a fronte delle indiscutibili risultanti offerte dalle indagini strumentali.

Nell’ambito di quello che abbiamo definito Alcamo project le pagine che seguono offrono una prima generale serie di considerazioni, tecni-che e storiche, desunte dalle tre Campagne di lavoro condotte sul sito di C/da Foggia tra ottobre 2003 e settembre 2005. È bene, comunque, rimarcare che solo se si potranno mantenere e corroborare gli appoggi di “servizio” alla missione di ricerca finora forniti dalla Municipalità di Alcamo, dal Rotary Club, dal Consorzio Universitario di Trapani, dalla BCC “Don Rizzo”, dalla Fondazione Flaminia di Ravenna, a fronte

47. A questo riguardo rimando il lettore a similari analisi estese di recente in aTTi GrosseTo 2006, pp. 273-292.

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sia dei “tagli” finanziari subìti in particolar modo dalle Facoltà uma-nistiche, sia della dolorosa ma perdurante assenza degli Enti di Stato, della Regione Siciliana, della Provincia di Trapani, le attività di studio e ricerca storica sul sito archeologico di Alcamo Marina potranno pro-seguire con sufficiente decoro.

Nella malaugurata ma possibile ulteriore decurtazione di già minimi sostegni contributivi, laddove invece l’unione di varie piccole gocce possono permettere di riempire un bicchiere con fresca e corroborante acqua, è a tutti facilmente comprensibile come le ricerche storiche ed archeologiche in C/da Foggia rischino di avviarsi verso una ineluttabile e dolente conclusione.

Tu ne cede malis, sed contra audentior ito! 48.

48. Non cedere ai mali, ma va contro di essi con maggior audacia! (verG., Aen., 6, 95).

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zorionTzu XaBier González muro *

Lo scavo archeologico: primi dati e considerazioni sulle strut-ture e i materiali rinvenuti

Lo scavo

L’impianto artigianale di C/da Foggia, che risponde ad un orienta-mento modulare coerente secondo gli assi cardinali, sembra essere ca-ratterizzato da una articolazione planimetrica contraddistinta dalla suc-cessione di volumetrie strutturali a funzione produttiva con disposizione “a schiera” (v. Tav. II). Questo tipo di sviluppo architettonico a carattere estensivo è contraddistinto dalla presenza di murature perimetrali con-tinue e dotato, in alcuni settori, di contrafforti, plinti e buche di palo per pilastri lignei disposti in modo tale da rendere più solide le strutture. L’andamento delle strutture murarie rinvenute rispecchia direttrici orto-gonali con orientamento nord-sud ed est-ovest (v. Planimetria generale dello scavo). Le strutture produttive finora emerse sembrano essere di-sposte in rapporto a uno sviluppo planimetrico su almeno tre direzioni: a sud verso una discarica abusiva, a nord verso il fiume San Bartolo-meo, passando sotto l’attuale tracciato della linea ferroviaria Palermo – Trapani e a ovest sotto il vigneto dove è stato individuato, tra i filari, un accentrato accumulo di frammenti fittili affioranti1. Dall’individuazio-ne in fase di scavo a diverse quote e in almeno tre punti sulla direttrice est-ovest dell’affioramento del terreno vergine (US 40 - sterile), pare lecito presupporre che il complesso officinale si sia costituito struttural-mente su una serie di terrazzamenti artificiali, che, seguendo il declivio orografico naturale del terreno, degradavano dolcemente verso la riva destra del fiume.

* Dottore di Ricerca in Topografia dell’Italia antica, Università di Bologna.1. Per una disamina più precisa dei risultati della campagna di ricognizione si

veda nel presente volume il contributo di Giacomo A. Orofino.

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L’area soggetta alle operazioni d’indagine e scavo archeologico, al momento attuale, è di circa m2 350 (m. 20 in direzione est-ovest e m. 17 ca. in direzione nord-sud). Il sito presenta almeno tre grosse trincee di sbancamento artificiale, provocate dall’insistente intervento del braccio meccanico dello scavatore. La prima trincea di sbancamento, larga m. 2,30 ca., ha interessato il lato sud dell’area d’intervento fino ad una profondità di m. 2,80, mettendo in evidenza una sequenza stratigrafica riconoscibile fin dallo strato sterile (US 40). La seconda e terza trincea artificiale hanno intaccato l’area antistante la prima struttura produttiva scoperta (fornace “A”), demolendo in gran parte la struttura in alzato del suo praefurnium, ma conservando in profondità il piano di lavora-zione della camera di combustione e del praefurnium stesso. Al mo-mento della scoperta il terreno di risulta dei lavori di sbancamento è sta-to risistemato su diversi punti dell’area dello scavo, creando in questo modo uno stato di ribaltamento stratigrafico di difficile interpretazione. Questo ulteriore elemento di disturbo ha indotto metodologicamente, in primis, ad una accurata rimozione del terreno stratigraficamente sfal-sato, fino ad arrivare agli strati antropizzati ancora conservati in prima giacitura e, a posteriori, tramite la setacciatura del terreno rimosso, al recupero del materiale archeologico (US 27).

Come si può osservare dal diagramma di Harris elaborato dal sof-

tware2 (v. Tav. VII), stratigraficamente tutte le strutture sono coperte da uno strato di argilla limosa di colore giallo scuro (US 1) con discontinue

2. L’analisi stratigrafica, in sequenza cronologica, delle diverse entità rinvenute nello scavo archeologico è stata realizzata con un sistema informatizzato che genera in modo automatico il cosiddetto sistema Matrix di Harris. Proleg MatrixBuilder© è un software che permette di avere tutta l’informazione stratigrafica del sito archeolo-gico costantemente aggiornata in fase di scavo, assicurando la massima qualità duran-te il processo d’inserimento dei dati. Il programma permette di associare ad ogni unità stratigrafica informazioni relative alla sua datazione, assoluta o relativa che sia. Il sof-tware ordina le unità stratigrafiche verticalmente, rispettando le loro datazioni e il loro rapporto stratigrafico. Le sue principali caratteristiche sono l’individuazione in tempo reale, durante la fase d’inserimento dei dati, di eventuali errori stratigrafici. Il pro-gramma permette, inoltre, una gestione agevolata che consente d’inserire, eliminare o cancellare i dati facilmente, una navigazione integrata fra le schede delle singole unità stratigrafiche e il Matrix, un avanzato sistema di ricerca delle singole informazioni

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Lo scavo archeologico 37

presenze di frammenti fittili fluitati, interpretato come deposito di ab-bandono definitivo delle strutture. Il materiale confluito al suo interno è estremamente diversificato e comprende un arco cronologico piutto-sto ampio. Tuttavia è stato possibile riconoscere alcuni materiali, anche ipercotti, che sembrano in qualche modo indicare le fasi di maggior utilizzo delle strutture dell’impianto produttivo (v. Fig. 4). Successi-vamente, l’entità è servita come suolo di lavorazione agricola e ciò lo si può desumere dalle tracce di aratura impostate sulla direttrice nord-ovest sud-est (US 11), riferibili a secolare attività, rinvenute sul settore orientale dello scavo, proprio sopra la fornace “A”. Il declivio orografico verso ovest del suolo di frequentazione originale ha determinato spesso-ri stratigrafici sostanzialmente diversi sul terreno ora indagato. Questa ragione spiega il motivo per cui l’US 1 che presenta cm. 50 di spessore nell’area est dello scavo, raggiunga i consistenti m. 2,20 nell’area ovest. Una differenza di spessore così evidente degli ultimi depositi alluviona-li può essere motivata, oltre che da una pendenza originaria del terreno, dalla vicinanza del fiume, risultando sicuramente l’area ovest più inte-ressata dalle esondazioni e dalle deposizioni alluvionali verificatesi nel corso dei secoli. Nel settore ovest è stato individuato questo strato senza soluzione di continuità su tutta la sezione delle pareti che delimitano lo scavo. Intaccato dalle arature moderne (US 82) esso si sviluppa sulle coperture alluvionali dell’abbandono del sito.

Finora gli ambienti individuati e parzialmente indagati sono quattro e corrispondono principalmente a due fornaci (“A” e “B”) (v. Fig. 5) e a due ambienti localizzati nel c.d. settore ovest (ambienti C e D). Tutti questi ambienti hanno metrature diverse e sono delimitati da murature continue di cui si può osservare, in alcuni casi, il tipo di fondazione e parte dell’alzato. Il diagramma di Harris mostra in maniera evidente quanto siano facilmente riconoscibili i gruppi delle unità stratigrafi-che inerenti ad ogni singolo settore (fornace “A”, fornace “B” e setto-re ovest). Un recente allargamento dello scavo verso est mediante uno splateamento superficiale del terreno ha messo in evidenza un terreno fortemente concottato e rubefatto, frammisto ad un notevole numero di

sulla documentazione di scavo, la possibilità di sviluppare un lavoro collaborativo simultaneo tramite la rete internet e una gestione illimitata di siti archeologici.

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Figura 4. US 1. Scarti di lavorazione ceramica. Forme ipercotte o rubefatte (a, b, c, e). Puntale d’anfora (b).

frammenti ceramici e laterizi. Ciò ha permesso di constatare la presenza di un alone di concotto di forma subcircolare di circa cm. 20 di larghez-za per m. 3 di diametro, che testimonia senz’altro la esistenza in loco di un’altra struttura produttiva.

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Figura 5. Fornaci “A” e “B”.

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Xabier González Muro40

Le strutture murarie

Nel corso dell’esplorazione archeologica, cui è seguita una più este-sa indagine nelle zone di particolare interesse, è stato possibile indivi-duare cinque strutture in opera muraria che delimitano perimetralmen-te i diversi ambienti produttivi, realizzate con grossi blocchi squadrati di calcarenite locale, una pietra d’indole detritica, compatta e tenera alla lavorazione. La struttura muraria più rilevante (USM 2) ha un an-damento est-ovest e si sviluppa per ca. m. 16, dividendo, nella zona orientale dello scavo, l’area della fornace “A” da quella della forna-ce “B” e in quella occidentale l’ambiente C dall’ambiente D. Questa struttura (USM 2), di notevole spessore e lunghezza (m. 16 x 0,70 ca.), corrisponde concettualmente ad un asse murario da cui si sviluppano ortogonalmente le altre murature rinvenute. Queste tessiture murarie, in funzione della loro disposizione cartesiana, sono state interpretate come elementi strutturali di estrema importanza per il contenimento della forte dilatazione del terreno, per l’effetto del calore delle fornaci durante il loro funzionamento e della loro conseguente contrazione in fase di raffreddamento. All’estremità orientale di USM 2 è stata rinve-nuta un’altra struttura muraria (USM 59) perpendicolarmente disposta in direzione sud (andamento nord-sud) per una lunghezza complessiva di m. 4 e una larghezza di m. 0,50 (v. Fig. 6). La struttura, che racchiude da est l’ambiente in cui si inserisce la fornace “A”, è stata seriamente intaccata da lavori agricoli, come dimostrano la presenza, ancora in situ, di alcune tracce di aratura (US 11), a loro volta riempite da uno strato di argilla limosa di colore giallastro, molto pulita e di chiara origine alluvionale (US 12). Preme evidenziare lo stretto rapporto esistente fra l’entità muraria USM 59 e alcuni grossi blocchi squadrati di calcarenite (US 60), che presentano incisi, in diversi casi, gli evidenti segni lasciati dall’aratro. Questi blocchi di calcarenite rinvenuti all’interno dell’am-biente della fornace “A”, probabilmente spostati dalla loro giacitura originale durante il periodo in cui sono stati effettuati i lavori agricoli, potrebbero, almeno in parte, corrispondere ad un’altra struttura muraria parallela a USM 2 e perpendicolare a USM 59, che racchiuderebbe a sud l’ambiente della fornace “A”. Sul lato sud è utile evidenziare, a

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tale riguardo, la presenza in sezione di una struttura muraria (USM 57) che sembra collimare ortogonalmente con USM 59, con un andamento est–ovest. Questa struttura, purtroppo parzialmente distrutta dalla pri-ma trincea artificiale di sbancamento, presenta una larghezza in sezione di m. 0,50 e la sua facciata nord sembra essere a contatto con un ac-cumulo di frammenti ceramici, alcuni certamente ipercotti, frammisti tabularmente ad una argilla limosa di colore bruno chiaro. Nell’insieme i frammenti sono stati interpretati come scarti di lavorazione ceramica, presumibilmente pertinenti ad una delle ultime fasi di lavorazione della fornace “A”.

Due setti murari paralleli (USM 21) con orientamento nord-sud e rispettivamente di m. 2 e 1,70 di lunghezza, sono disposti ortogonal-mente e a contatto verso nord con USM 2 racchiudendo a est e a ovest, l’ambiente della fornace “B”.

Figura 6. Fornace “A” e relativi paramenti murari di contenimento strutturale.

dis.: X. González Muro

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Due strutture murarie parallele, USM 29 (m. 2,60 x 0,80) e USM 76 (m. 2,60 x 0,40), rispettando l’ordine paratattico del resto delle mura-ture rilevate, si presentano a ovest della fornace “B”, entrambe quasi a contatto diretto con la superficie esterna della parete della camera di cottura (US 14). Le entità murarie si trovano separate dalla camera di cottura da uno strato di argilla fortemente concottato di uno spessore di circa cm. 20 (US 71). Entrambi i muri, con direzione est-ovest, sono paralleli e distanti tra di loro cm. 80, in modo tale da creare un corridoio comunicante tra l’ambiente D e la camera di cottura della fornace “B” con percorrenza est-ovest. Le strutture murarie, oggi in parte devastate dal recentissimo intervento della pala meccanica, dovevano innalzarsi, almeno da quanto si desume dalla sezione in parete, più di un metro dal piano di calpestio del corridoio.

L’indagine stratigrafica ha rilevato che tutte le strutture murarie del

complesso officinale evidenziano fondazioni nel terreno sterile (US 40). I muri hanno una larghezza non uniforme che oscilla tra i cm. 45 e i 55, ma presentano una tecnica costruttiva unitaria, basata sull’utilizzo di ciottoli di fiume e blocchi squadrati di calcarenite. Nella costruzione delle strutture murarie si è potuto osservare l’utilizzo di fasce marcapia-no in spezzoni di laterizi di vario tipo (soprattutto tegole) (v. Fig. 7). Al di sopra delle fondazioni si impostava un alzato che probabilmente non si sopraelevava di molto rispetto ai piani d’uso. I punti strutturalmente più delicati delle murature sono rinforzati da solidi blocchi quadrango-lari in calcarenite, in alcuni casi con apposite lavorazioni ad incastro. L’uso di questa tecnica è stata rilevata principalmente nelle testate dei muri (USM 21), negli stipiti di una soglia di passaggio tra gli ambienti C e D (USM 2) e nelle basi di pilastri lignei, sia che fossero plinti inter-ni (USM 63), sia che fossero contrafforti perimetrali (USM 61). Questi ultimi, in ciottoli di medie e grandi dimensioni, sono stati individuati in corrispondenza degli angoli e degli incroci dei muri (v. Fig. 8).

Lo studio delle murature è stato condotto direttamente sui manufatti,

analizzando e schedando i materiali costruttivi, le tecniche di esecuzio-ne ed i rapporti tra le Unità Stratigrafiche Murarie (USM) individuate.

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Figura 8. US 61. Contrafforte in ciottoli fluviali di medie e grosse dimensioni posto all’angolo interno tra due strutture murarie.

Figura 7. La fotografia mostra l’uso di fasce marca piano per l’innalzamento dei pa-ramenti murari. USM 21.

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Xabier González Muro44

I dati emersi da questa analisi sono stati quindi sintetizzati su apposite schede per poterli confrontare e tentare così di individuare periodi cro-nologici comuni che evidenzino i vari momenti costruttivi.

Fornace “A”

Le indagini relative al settore della fornace “A” sono mirate priorita-riamente alla verifica della natura dei depositi archeologici, in un’area ove la presenza di sedimenti non compromessi si associa a strutture conservate in alzato. La morfologia attuale del terreno, caratterizzata dalla presenza di una trincea di sbancamento nell’area antistante la for-nace, lascia intuire i consistenti danni che la parte anteriore del suo praefurnium (USM 66) deve aver subito in occasione dell’azione del braccio meccanico. Nonostante le vicissitudini subite, lo stato di con-servazione dell’impianto si può considerare eccellente.

L’impianto di produzione figulinaria, con il praefurnium volto a oc-

cidente, è stato inserito tra due strutture murarie parallele (USM 2 e USM 57) e una terza in chiusura ortogonale a est (USM 59). Ad un primo abbassamento dei depositi alluvionali che coprivano l’impianto, sono state individuate due ghiere quasi concentriche in mattoni di terra refrattaria, fortemente concottati (USM 6 e USM 19), che corrispon-dono a due distinte camere di cottura di diametro diverso (v. Tav. VIII, a). Le ghiere determinano chiaramente dal punto di vista cronologico almeno due fasi correlative di attività produttiva3.

Alla fase più recente (fase II) sono ascrivibili la ghiera più piccola

in blocchetti di mattoni refrattari di un colore rossastro intenso, inter-pretata come parete della camera di cottura della fornace (USM 6) e un alone esterno, a tutto tondo, di terreno fortemente concottato (US 4) ad evidenziare il suo periodo di attività. All’interno del manufatto è apparso uno strato di pezzame laterizio composto da frammenti di mat-

3. Per un confronto sul reimpiego strutturale in più fasi d’uso di un impianto produttivo figulinario si veda sToPPioni 1993 a, p. 94.

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toni refrattari e tegole, frammiste ad un terreno rubefatto, con numerosi frammenti di concotto in dispersione, interpretato come il crollo, all’in-terno della fornace, della sommità della volta di copertura della fornace (US 5). La ghiera (v. Tav. VIII, b), composta da un ricorso circolare di mattoni refrattari, ha un diametro esterno di m. 2 e compare inserita quasi concentricamente ad un’altra ghiera di mattoni rubefatti e concot-tati di m. 3 di diametro (USM 19), riconducibile ad una precedente e più voluminosa struttura produttiva. Esternamente a quest’ultima ghiera è stato rilevato un altro alone di terreno concottato di colore rossastro del-lo spessore di cm. 30 (US 67), simile all’US 4, che evidenzia ulterior-mente un’altra fase d’uso precedente (fase I). Entrambe le entità (UUSS 19 e 67), inerenti ad una prima fase strutturale dell’impianto produttivo fittile (fase I), sembrano avere lasciato in prestito alla fase successiva (fase II) parte della sua camera di combustione (USM 8), sicuramente il praefurnium (USM 66) e il terreno circostante in cui si inseriscono tutte e due le strutture (US 3). Quest’ultima entità è composta da una argilla limosa di colore giallastro, alquanto compatta e pulita. Essa ingloba completamente la camera di combustione e probabilmente copriva gran parte della camera di cottura di prima fase, mentre US 68, delle stes-se caratteristiche, copre in parte la camera di cottura della fornace più piccola (fase II). Ciò si può rilevare dal fatto che, la camera di cottura viene a trovarsi a livello del terreno di frequentazione degli ambienti circostanti come attestato per la fornace “B”, utile a facilitare il carico e scarico dei manufatti da cuocere. L’interramento della camera di com-bustione, inoltre, conferisce una maggiore resistenza alle continue sol-lecitazioni termiche di dilatazione e contrazione del terreno per effetto del calore, oltre al fatto di poter così evitare una maggiore dispersione termica durante la cottura dei manufatti4.

Il condotto del praefurnium (US 66), che dalle tracce affioranti resti-

tuisce un freccia di m. 0,60 ed una larghezza, ripresa alla base in sezio-ne mediana ed all’apice, rispettivamente di m. 0,50, m. 0,45 e m. 0,28, è stato realizzato con blocchetti di pezzame laterizio e mattoni su cui era stata estesa una intonacatura in argilla cruda. Anche tra i mattoni, in

4. cuomo di caPrio 1992, p. 49.

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questo caso, si sono osservati modesti livelli di allettamento in argilla cruda. Questa argilla appare nelle pareti interne del condotto fortemente vetrificata. Dalla sezione del praefurnium si evince della esistenza di un secondo ricorso di mattoni strutturali che evidenzia un restringimen-to voluto del canale di riscaldamento, ascrivibile alla seconda fase di lavorazione dell’impianto. L’altezza massima appurata dagli elemen-ti superstiti e corrispondente al punto d’imposta dell’originaria volta di copertura, leggermente ad ogiva, misura m. 1,10. L’area antistante l’imbocco del praefurnium, al momento in fase di scavo, era presumi-bilmente chiusa da una muratura con orientamento nord-sud di cui è riconoscibile, su USM 2, un accenno d’innesto in sequenza ortogonale. Uno strato di argilla limosa di colore brunastro con numerosi frammenti di argilla concottata, frammenti ceramici, ceneri e chiazze di terreno ru-befatto è stato interpretato come il possibile piano di frequentazione an-tistante il praefurnium della fornace “A” (US 13). In quest’area doveva-no svolgersi principalmente i lavori di carico del materiale combustibile e scarico delle ceneri dall’interno della camera di combustione, nonché di controllo del tiraggio in fase di cottura. Di particolare interesse fra il materiale messo in luce in questo settore risulta il rinvenimento di un supporto-distanziatore ad anello per la cottura delle forme ceramiche (v. Tav. IX, a e fig. 9, c). Il manufatto, molto ben conservato, presenta tre fori passanti lungo la parete (altezza della parete cm. 4,7, diametro esterno cm. 9 e interno cm. 6)5. L’anello fittile è da considerarsi come elemento di sostegno adoperato per mantenere costante una intercape-dine di separazione fra due forme ceramiche durante la fase di cottura. Questi distanziatori permettevano, durante la fase di cottura, la dispo-sizione in colonne di numerose forme ceramiche sovrapposte, evitando qualunque tipo di contatto fra di esse e garantendo allo stesso tempo una cottura omogenea su tutte le superfici di ogni singolo manufatto6. I

5. In un impianto per la produzione di ceramica sigillata gallo-romana rinvenuto a Martres-de-Veyre in Francia, sono stati trovati diversi utensili riconducibili alle fasi di lavorazione e cottura delle forme ceramiche. Tra questi reperti sono presenti alcuni supporti-distanziatori che presentano tre fori passanti lungo il loro perimetro parieta-le, Terrisse 1968, p. 129, fig. 45.3.

6. cheneT - Gaudron 1955, p. 90, fig. 42, nn. 17-21 e p. 91, fig. 43.

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Figura 9. US 27. Materiale fittile per la lavorazione ceramica a) disco-supporto, b) galette, c) distanziatore, d) ceramica a pareti sottili con impasto grigio depurato.

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fori passanti, presenti sulla parete, permettevano la fuoriuscita dell’aria surriscaldata dallo spazio chiuso creatosi all’interno dell’anello fra le ceramiche7. In questo spazio racchiuso, per effetto dell’altissima tem-peratura raggiunta all’interno della fornace, in assenza di questi fori, si sarebbe verificato un innalzamento della pressione dell’aria che avreb-be potuto compromettere la già di per sé precaria stabilità del materiale ceramico impilato per la cottura. Una piccola inclinazione dell’incolon-namento verticale dei manufatti può deformare o far cadere tutti i vasi con la conseguente e dispendiosa perdita di tutta l’infornata. La forma tipologica del supporto-distanziatore rinvenuto ad Alcamo Marina, in funzione relativa alla sua altezza, ci permette di considerare un suo im-piego funzionale nell’accatastamento per la cottura di forme ceramiche provviste di pareti poco profonde quali potrebbero essere stati piatti, coppe a profilo concavo-convesso o alcune tipologie ceramiche di tega-me8. Dalla setacciatura del terreno di sbancamento del mezzo meccani-co (US 27) nell’area antistante il praefurnium, proviene un frammento di un pane di argilla di forma circolare con un foro passante al centro, cotto e molto rubefatto (galette) di cm. 10 di diametro e 2,6 di altezza (v. Fig. 9, b). La funzionalità di questo elemento potrebbe essere ricondotta ad una base d’appoggio per gli anelli-supporto delle cataste ceramiche da cuocere o, nel loro difetto, per le ceramiche stesse. Il supporto con-

7. Anche se attualmente è decaduto fra gli studiosi il termine valvole, già associa-to in passato a questi elementi, a vantaggio del termine sostegni, perché intesi come elementi di supporto tra le forme ceramiche durante la loro cottura, è innegabile che rivestono una doppia valenza. Presumibilmente tali fori presenti negli anelli distan-ziatori permettevano anche lo sfogo dell’aria calda intrappolata da questi elementi tra una ceramica e l’altra in fase di cottura.

8. Un distanziatore delle stesse caratteristiche per la cottura di piatti proviene da Lavoye in Francia, cheneT - Gaudron 1955, p. 87, fig. 39, n. 10. Si vedano nella stessa pubblicazione alcuni distanziatori simili a p. 93, fig. 45, nn. 1-11 e inoltre altre tipologie di elementi impiegati come supporti e distanziatori per la cottura delle di-verse forme ceramiche a p. 87, fig. 39, nn. 1-17; p. 90, fig. 42, nn. 1-21; p. 91, fig. 43, lettere a-o; p. 92, fig. 44, nn. 1-22 e lettere a-i e p. 93, fig. 45, nn. 1-30 e lettere a-i. Per l’impiego e classificazione di questi elementi nell’area metapontina tra il VI e il IV sec. a.C. si veda in generale cracolici 2003. Per l’uso di simili sostegni di fornace utili alla cottura di coppe a profilo concavo-convesso si veda cracolici 2003, pp. 53-54 e p. 53, fig. 14.

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siste in un cilindro più o meno alto (compreso fra i cm. 2 e 3 e con un diametro fra i cm. 9 e 14) a facce piane e parallele ottenuto appiattendo una sfera di argilla fresca molto consistente9. Il reperto rinvenuto ad Alcamo Marina sembra corrispondere nella sua specificità, dovuta alle sue dimensioni e ad una leggera impronta circolare con sbavatura sul perimetro esterno di una delle superfici, ad un supporto per l’appoggio diretto senza distanziatore, usato generalmente per la cottura di piatti o coppe10. Fra i diversi esemplari rinvenuti a Martres-de-Veyre in Francia solamente uno presenta un foro passante11. Viste le tracce di ipercottu-ra, diversamente, ma poco probabile e in attesa comunque di ulteriori confronti tipologici, il reperto potrebbe essere ritenuto uno scarto di lavorazione di un peso fittile di telaio.

Il perimetro della camera di combustione (US 8) appare circolare e

la superficie delle pareti interne si presenta rivestita di materiale fittile invetriato con numerose colature. Durante l’ultima campagna di scavi, in attesa di una ulteriore messa in sicurezza della struttura, non è stato possibile indagare stratigraficamente sui diversi riempimenti all’interno del furnus e sulle caratteristiche dell’eventuale piano d’uso. La camera di combustione appare completamente interrata e dalla sequenza strati-grafica risulterebbe sotterrata per almeno cm. 50 anche una parte della camera di cottura (ca. i 3/5). L’altezza massima registrata all’interno della camera di combustione è di m. 1,50. Sempre nella stessa camera, a circa metà altezza, si innestano almeno quattro archi (US 84) che sorreggono il piano forato (US 7) e fungono da base del piano stesso. I quattro archi finora individuati, inerenti alla struttura della precedente fornace più grande (fase I), sono paralleli, distanti tra di loro circa cm. 25 e di uno spessore medio di cm. 45. Costruiti con mattoni refrattari di medie dimensioni in opus testaceum, poggiano direttamente su due mu-retti i quali costituiscono le pareti di un corridoio centrale (US 85) che attraversa la camera di combustione per tutta la sua lunghezza in asse

9. cheneT - Gaudron 1955, p. 94.10. cheneT - Gaudron 1955, p. 94 (Galettes pour assiettes e plats) e p. 91, fig.

43a.11. Terrisse 1968, p. 129, figg. 45.1 e 45.2.

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con il praefurnium. Gli archi sono ortogonali all’asse centrale della ca-mera e dalla base di questi si dipartono i setti murari chiamati a sorreg-gere la loro spinta laterale. Le suddette volte, portanti del sovrastante piano di cottura, sono intervallate da tre intercapedini che, al momento dell’esplorazione, risultavano tamponati con abbondante materiale la-terizio ipercotto frammisto ad una argilla fortemente concottata (US 72 – v. Fig. 8). La presenza di questo materiale, necessario a colmare gli spazi fra gli archi e i setti murari, è stata interpretata come una preme-ditata volontà, al momento del ridimensionamento della struttura (fase II), di ridurre il volume di carico della camera di combustione. In questo stesso modo è stato compreso il tamponamento del quarto e ultimo arco del corridoio centrale con il medesimo tipo di materiale. L’argilla di quest’occlusione appare invetriata e presenta un rivestimento in pezza-me laterizio, con i frammenti applicati a vista a modo di crustae. Proba-bilmente questo intervento di adeguamento funzionale, ancora tombato, nasconde parte del corridoio centrale dell’originario impianto di com-bustione, risalente alla prima fase di vita della fornace. Sotto la chiave di volta dell’arco centrale è comparsa una colonna (US 87) costituita da frammenti laterizi e piccoli mattoni, la quale sorregge ulteriormente il piano di cottura. Essa viene interpretata come elemento costruttivo e di ulteriore sostegno del piano di cottura (fase II)12.

Nello spazio che intercorre tra gli archi che sorreggono il piano di

cottura, proprio al di sopra del corridoio centrale della camera di com-bustione, sono stati incastrati trasversalmente alcuni mattoni messi di taglio, chiamati ad agevolare la costruzione del piano di cottura di cui fanno strutturalmente parte. Questi manufatti messi di taglio potrebbero avere anche un’ulteriore funzionalità, cioè quella di regolare l’intensità e la direzione delle fiamme provenienti dal furnus verso il sovrastante piano di cottura. Di conseguenza possono essere considerati, non solo come elementi di sostegno strutturale del piano forato, ma anche come deviatori di fiamma di piccole dimensioni (v. Fig. 11). Sopra gli archi e i mattoni spartifiamme, è comparso il piano di cottura forato (US 7), costruito con mattoni, cocciame di medie dimensioni e tegole fram-

12. Misure cm. 40 x 60, altezza cm. 70.

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Figura10. US 72. Frammenti di scarti di produzione ceramica provenienti dalla ca-mera di combustione della fornace “A”.

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mentate di colore grigio-verdastro13. Questi elementi si presentano for-temente ipercotti, in alcuni casi fusi insieme e deformati plasticamente per effetto dell’alta temperatura a cui sono stati sottoposti14. Per questo motivo il piano di cottura forato non appare perfettamente orizzonta-le, ma piuttosto irregolare e ondulato. In alcuni punti fra il pezzame ipercotto del piano di cottura sono state rinvenute numerose lenti di sabbia molto fine di colore giallastro, ritenute d’indole strutturale15. Il piano forato presenta ca. 20 orifizi di forma triangolare (ca. cm. 7 di lato) con le pareti leggermente conformate ad imbuto. Almeno in sei di questi fori è stato possibile rilevare la presenza delle impronte digitali lasciate dall’artigiano sull’argilla interna di rivestimento (v. Fig. 12). La disposizione dei fori sul piano di cottura è irregolare, registrandosi con maggiore frequenza lungo l’area del perimetro esterno del piano di cottura. Alcuni dei fori centrali sono apparsi, in fase di scavo, coper-ti parzialmente da frammenti ceramici di medie dimensioni. L’uso di pezzame ceramico come ostacolo per ritardare l’ascesa della fiamma e migliorare gradualmente la temperatura necessaria per la cottura dei manufatti è una risorsa tecnica ampiamente utilizzata in altre strutture produttive figulinarie16.

Dopo la rimozione di uno strato dello spessore di cm. 0,60 (compo-sto da una argilla limosa fortemente concottata, frammista a numerosi mattoni refrattari, tegole e coppi deformati che presentavano evidenti tracce di ipercottura, e interpretato come crollo della volta della camera di cottura17 - US 5), si è potuto rilevare, su alcuni punti del piano forato,

13. cuomo di caPrio 1985, p. 142; cuomo di caPrio 1992, p. 15.14. Le fasi di neoformazione indicano che è stata raggiunta una temperatura su-

periore a 900°C. Sulle analisi mineralogiche di campioni di cotto e argilla, effettuate allo scopo di definire la composizione mineralogia dei campioni e indicare il grado di trattamento termico subito dal materiale, si veda nel presente volume il contributo del collega Cesare Fiori (Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna).

15. Per l’uso di strati di sabbia sul piano di cottura cfr. Blanc 1964, p. 46 e inoltre cheneT - Gaudron 1955, p. 85, nota 40.

16. cuomo di caPrio 1971-72, pp. 389-390.17. Giordani 2000, p. 355.

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Figura 12. Foro ad imbuto del piano di cottura US 7. Sono ancora evidenti le impron-te delle dita dell’officinator sulle pareti interne della cavità.

Figura 11. Piano di cottura della fornace “A” (fase II – US 7). Si notino nella parte inferiore della fotografia i mattoni spartifiamme messi di taglio fra gli archi della ca-mera di combustione.

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uno strato di argilla concottata e molto rubefatta, dello spessore di ca. cm. 7, che corrisponderebbe all’ultima fase preparatoria del piano di cottura (US 58). In uno spazio ristretto a ridosso della parete della ca-mera di cottura, imposto all’interno dell’US 5818 e in concomitanza con uno dei fori del piano di cottura, è stato rinvenuto un “tubulo” fittile con beccuccio (rep. 4) (v. Tav. IX, b). In simili circostanze, vicini alla parete interna della camera di cottura, altri due fori mostravano entrambi un beccuccio di “tubulo” inserito nella loro cavità19.

Di questi elementi fittili sono stati ritrovati all’interno della fornace “A” più di 30 frammenti tra pareti, orli e beccucci, gran parte dei quali emersi durante lo scavo stratigrafico della camera di cottura (v. Fig. 13). Altri frammenti di questo genere provengono da diversi settori dello scavo, in particolare dall’ambiente C dove, vicino ad un’area riconduci-bile ad un’attività officinale, è stato trovato un “tubulo” pressoché intat-to. Infine un altro “tubulo” fittile in buone condizioni di conservazione è stato rinvenuto all’interno del costipamento assai concottato dell’inter-capedine fra il terzo e il quarto arco della camera di combustione (fase II). Al momento sembra ancora prematuro pronunciarsi sull’effettiva funzionalità di questi “tubuli” all’interno della fornace “A”. In passato sono già state elaborate diverse ipotesi su elementi fittili simili, rin-venuti su altri impianti produttivi20. I frammenti dei “tubuli” ritrovati presentano sulle pareti forti tracce di rubefazione e ipercottura, naturale conseguenza della loro esposizione ad un’elevata temperatura. I “tu-

18. Si veda in questo volume il risultato dell’analisi condotta da C. Fiori su di un campione di questa entità strutturale.

19. Nel Puy-de-Dôme a Martres-de-Veyre in Francia sono stati ritrovati tre “tu-buli” incastrati nei fori periferici del piano di cottura di una fornace per la produzione di terra sigillata, cfr. Terrisse 1968, pp. 133-136, figg. 46-47.

20. Un noto esempio in area italiana del rinvenimento di “tubuli” in un impianto di produzione figulinaria è quello della fornace di Torrita di Siena, Fornace Progetti, riferita alla produzione del fabbricante C. Vmbricius Cordus in Pucci 1992, pp. 87 e 89. Per un’interpretazione sull’impiego dei “tubuli” come sistema di copertura della camera di cottura: cuomo di caPrio 1985, pp. 143 e 145, fig. b; cuomo di caPrio 1971-72, p. 401 e nota 92; arslan 1965, pp. 45-53. Si veda inoltre per una descrizione delle fornaci a muffola gallo-romane cheneT - Gaudron 1955, pp. 78-84.

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Figura 13. US 58. Tubulo fittile.

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buli” finora esaminati non sembrano rispecchiare tutti le stesse misure, ma al momento è possibile asserire che un numero cospicuo dei reperti recuperati sono compresi tra i cm. 18 e 20 di lunghezza per cm. 7-10 di sezione all’orlo. Uno studio approfondito di tali reperti e un corretto scavo stratigrafico nell’area della ancora intatta fornace “B” potranno fornire, in un futuro prossimo, importanti elementi d’analisi per meglio comprendere questi singolari reperti e la loro funzione all’interno delle fornaci di produzione fittile.

La camera di cottura (US 6), di forma circolare (diametro interno m.

1,70; diametro esterno m. 2) con ancora presenti in alzato 12 ricorsi, è stata costruita con blocchi di argilla cruda (lateres crudi)21 che cuoceva-no in fase di preriscaldamento dell’impianto e, fondendo, si compatta-vano tra loro. Gli ultimi ricorsi in altezza della ghiera, che distano dal piano di cottura ca. cm. 50, cominciano ad accennare l’andamento di chiusura della volta a stringere verso il centro della fornace. Per quanto riguarda ancora la tecnica costruttiva del resto della fornace, il manufat-to è costituito da blocchi di terra refrattaria, legati con malta e alternati a blocchi di argilla cruda. La violenta azione del fuoco che, raggiungendo altissime temperature, ha cementato il materiale refrattario, ha dato alla fornace la caratteristica colorazione rossiccia del concotto. Lo si nota, con evidente chiarezza, anche nel praefurnium dove gli strati di argilla che ricoprono le pareti in testaceum sono fortemente calcinati e rube-fatti. Per migliorare l’isolamento termico dei muri perimetrali è stato addossato uno strato di argilla che, alle ripetute cotture, fondendo con i muri stessi, ha finito per formare un blocco unico22.

La fornace “A”, di struttura circolare, con orientamento e apertura ad ovest, a corridoio centrale, appartiene con ogni probabilità al tipo I/d della classificazione Cuomo Di Caprio23.

21. de maria 1978, p. 83.22. cuomo di caPrio 1971-72, p. 401.23. cuomo di caPrio 1971-72, pp. 429-438.

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Fornace “B”

A m. 8 ca. a nord-ovest della fornace “A” è stata individuata un’altra struttura destinata alla produzione fittile, la c.d. fornace “B”, la cui ca-mera di cottura (USM 14) è di ca. m. 3 di diametro. Essa, di cui ancora non è stato possibile identificare l’ubicazione e l’orientamento del suo praefurnium, è inglobata, come la fornace “A”, all’interno di una serie di strutture murarie (USM 21) disposte ortogonalmente intorno ad uno strato di argilla limosa di colore giallastro (US 16) la quale fungeva probabilmente da cuscino termico per evitare la dispersione del calore e per poter contenere la spinta verticale dei prodotti della combustione, evitando in questo modo il formarsi di fessure sulla struttura (v. Fig. 14).

Figura 14. US 16. a) Frammento di orlo in ceramica a vernice rossa interna; b) Fram-mento di orlo di pentola in ceramica comune romana; c) Frammento di orlo in cera-mica a vernice nera; d) Frammento d’anfora; e) Fondo di olla in ceramica comune romana (ipercotto); f) frammento di orlo di bottiglia in ceramica comune romana.

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Nel lato ovest della fornace sono state rinvenute due strutture mura-rie parallele con andamento est-ovest (USM 29 e USM 76) che, come già riferito, conformano un corridoio di transito (lungo m. 2,60 e largo m. 0,80) tra l’ambiente D e la camera di cottura. Le strutture murarie realizzate con blocchi squadrati di calcarenite, presentano in alcuni pun-ti un evidente ripristino strutturale in frammenti laterizi. Questi ultimi sono disposti negli interstizi delle crepe apertesi in conseguenza della notevole azione di dilatazione del terreno, in fase di combustione della fornace, e ovviamente di contrazione dello stesso, in fase di raffredda-mento a fine cottura. Entrambe le strutture murarie, sono associate a due accumuli di ciottoli fluviali disposti all’esterno nella loro estremità occidentale. La funzionalità di tali accumuli è pertinente ad un altro cumulo di simili caratteristiche, rinvenuto nell’angolo sud-est. Quindi, disposti in corrispondenza degli angoli delle opere murarie che racchiu-dono al loro interno l’ambiente della fornace “B”, essi presumibilmente preservavano una funzionalità strutturale durante l’attività produttiva dell’impianto, mirata ad evitare uno scardinamento dei punti di contatto fra i muri di contenimento, cioè utili ad elidere le forze contrapposte sviluppatesi al momento della massima dilatazione e divenute conver-genti durante la fase di contrazione del terreno. Questa fornace sembra rispecchiare le dimensioni originali relative alla struttura a pianta circo-lare di fase I della fornace “A” (m. 3 di diametro).

Una fascia di argilla limosa di circa cm. 50 di larghezza (US 17), ma fortemente concottata, è stata individuata con disposizione concen-trica intorno alla parete esterna della camera di cottura. Da una attenta osservazione della struttura, sembra lecito rilevare (considerazione già accennata per la fornace “A”) come una buona parte della camera di cottura, per almeno cm. 95, appaia sotterrata e inglobata da US 16 e a diretto contatto con US 17 (v. Fig. 15). All’estremo orientale del c.d. corridoio di accesso alla camera di cottura della fornace è stato rinve-nuto uno strato di argilla concottata di colore rossastro, inteso come un rivestimento strutturale di cm. 15 di spessore (US 71), spalmatosi su quello che sembrava essere la parete esterna della camera di cot-tura. Un’indagine più accurata ha rilevato che la parete in mattoni su

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cui poggia l’entità corrisponde, presumibilmente ad uno sportello di accesso alla camera di cottura, trovato ancora chiuso. Lo stesso tipo di argilla cruda spalmata sul manufatto in lateres crudi, apparsa in fase di esplorazione già concottata (US 69), è presente tra i mattoni dell’effet-tiva parete della camera di cottura (US 14) e il suo sportello di accesso (US 81). Lo sportello, che presenta la stessa larghezza del corridoio di accesso (cm. 0,80) e rilevato per una altezza di cm. 0,70, è costituito da mattoni delle stesse dimensioni di US 14, disposti però in senso alterno e di traverso rispetto al normale andamento del resto della struttura. Questo particolare e disomogeneo assetto costruttivo ha determinato un maggiore spessore del manufatto nel medesimo punto (US 81) e quindi un più elevato isolamento termico. Ugualmente lo spessore dell’argilla sigillante (US 71) dello sportello è più consistente (cm. 15) di quella già rilevata (cm. 8) e impiegata per racchiudere gli interstizi fra i mattoni della parete esterna della camera di cottura della fornace (US 26).

Figura 15. Fornace “B”. Si notino l’alone di terreno concottato intorno alla fornace (US 17) e la ghiera in mattoni refrattari della camera di cottura (US 14).

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Durante lo scavo delle diverse unità stratigrafiche di riempimento all’interno della fornace (UUSS 15, 73 e 74 – v. Figg. 16 e 17), in-terpretate come appartenenti ai diversi momenti di crollo della calotta di copertura e ai successivi momenti di tombamento della struttura, è emerso sul lato occidentale un netto contrasto tra i mattoni che forma-no la camera di cottura, di aspetto tozzo e concottati dall’azione del fuoco, e un segmento di forma subtriangolare dalla superficie bianca-stra e piuttosto liscia (sportello d’accesso). Dall’interno della camera di cottura i confini tra i due elementi costruttivi è talmente netto e la loro diversa struttura così evidente che hanno permesso perfino di rilevare la presenza di due importanti crepe interne in corrispondenza dei limiti fra le due strutture (v. Tav. X). Presumibilmente le spaccature sono ve-nute a crearsi, data la disomogeneità strutturale tra i due manufatti, in un momento in cui il terreno, sollecitato dalla pressione dovuta al peso degli strati sovrastanti, ha subito un ulteriore assestamento in fase di abbandono. All’interno di queste fessure, larghe cm. 5 ca., sono state rinvenute consistenti tracce di un’ argilla sigillante di colore rossastro (di cui supra US 69). Molto probabilmente questa argilla colloidale di tamponamento era chiamata ad occludere gli eventuali interstizi fra i mattoni che conformavano in opera la parete della camera di cottura e i lateres crudi dello sportello di accesso ad essa.

All’interno del corridoio di accesso alla fornace, a coprire US 71, è stato rinvenuto uno strato di argilla limosa molto rubefatta e fortemente concottata di colore rossastro, frammista a numerosi frammenti di anfo-ra di medie dimensioni (US 28) (v. Tav. XI e Fig. 18). Tra questi fram-menti sono riconoscibili numerosi lacerti ipercotti riferibili alla forma Dressel 21-22 (v. Fig. 19). La presenza di queste anfore a colmare il passaggio tra l’ambiente D e la fornace “B”, permettono di fissare nei limiti del I sec. d.C., come termine cronologico antequem, l’utilizzo del corridoio per il carico e lo scarico dei manufatti dalla camera di cottura. La constatazione, come più avanti vedremo, di due diverse fasi struttu-rali all’interno della camera di cottura, lascia ancora aperta la questione sulle modalità d’accesso alla camera per la seconda fase d’uso. Il ma-teriale ceramico proveniente dall’interno della camera di cottura (US

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Figura 16. Materiale ceramico (US 73) proveniente dalla camera di cottura della fornace “B”.

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Figura 17. Ceramica comune romana. Scarti di lavorazione ceramica. Forme ipercot-te rinvenute all’interno di US 74 (camera di cottura della fornace “B”).

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Figura 18. Corridoio di accesso alla camera di cottura della fornace “B” vista da ovest.

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78) inerente all’ultima fase di produzione della fornace (ancora in fase di scavo) è ascrivibile a un lasso cronologico tra la fine del II sec. d.C. e gli inizi del IV sec. d.C. e di conseguenza oltre a quello in cui veniva prodotta la forma Dressel 21-2224. Le poche, ma quasi integre, casse-ruole recuperate dall’US 78 (v. Figg. 20-22), entità stratigrafica ancora in una precoce fase di scavo, sembrano essere riferibili dai confronti tipologici ad una produzione ceramica tarda25. Pare lecito, quindi, poter considerare per la fase II dell’impianto, che l’ingresso alla camera di

24. La diffusione commerciale della forma Dressel 21-22 è attestata quasi esclu-sivamente per tutto il I sec. d.C.

25. Il tipo sembra rientrare nella famiglia delle casseruole tardo antiche: olcese 1993, p. 223, fig. 49, forme 139 e 141-144, con attestazioni nell’area del Mediterra-neo francese a partire del III sec. d.C. Il tipo di casseruola tornita ad orlo ingrossato estroflesso con leggera incavatura e parete dritte e svasate seguita da una carena bassa trova confronto nell’area nord-occidentale della penisola iberica a Lucus Augusti nella provincia di Lugo. Le casseruole ivi rinvenute sono inquadrabili cronologicamente in strati riconducibili alla metà del II sec. d.C., essendo presenti anche nei livelli strati-

Figura 19. Frammento di orlo di anfora tipo Dressel 21-22 ipercotto. Si noti la de-formazione e la colorazione nerastra dell’impasto per via dell’alta temperatura a cui è stato sottoposto.

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Figura 20. Ceramica comune romana. Forme di produzione locale provenienti dall’interno della fornace “B” (US 78): a) coperchio, b) casseruola.

Figura 21. Ceramica comune romana. Forme di produzione locale provenienti dall’interno della fornace “B” (US 78): a) casseruola, b) tegame, c) olletta.

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Figura 22. Ceramica comune romana. Forme di produzione locale provenienti dall’interno della fornace “B” (US 78): a), b) e c) casseruole.

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cottura non avvenisse dal corridoio rinvenuto, ma forse dalla calotta superiore o da un altro luogo.

La camera di cottura (US 14), esplorata in sezione (v. Fig. 23), con-serva ancora in situ 12 corsi di mattoni in terra refrattaria, di cui molti presentano un buon stato di conservazione, nonostante le evidenti tracce d’ipercottura dovute alle altissime temperature raggiunte. Al suo inter-no, a testimonianza dell’elevate condizioni termiche subite, resta anco-ra osservabile il considerevole spessore del terreno concottato (US 17), all’esterno della ghiera in mattoni della fornace. Sulla stessa sezione e a contatto sul lato est con la superficie interna della parete della camera di cottura è stato possibile osservare uno strato di grossi frammenti la-terizi rubefatti, frammisti a frammenti di anfora di grosse dimensioni e argilla limosa di colore rossastro (US 79 – v. Fig. 24). Lo strato, che in un primo momento era stato interpretato come inerente al crollo delle pareti della camera di cottura all’interno della fornace (US 15), si è rivelato essere una conformazione d’indole strutturale (fase II) mirata ad ottenere un restringimento della camera di cottura. Il tramezzo in pezzame laterizio e ceramico, che sul piano planimetrico occupa 2/5 della superficie circolare della camera e con uno spessore massimo di ca. cm. 0,80, presenta verso nord una parete interna verticale costituita

grafici successivi fino alla fine del IV sec. d.C., alcorTa irasTorza 2001, p. 314, fig. 134, fig. 4 e p. 326, fig. 136, figg. 1-7.

Figura 23. Sezione stratigrafica trasversale della fornace “B”.

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da uno strato di argilla fortemente concottata (US 80, spessore cm. 4), di cui sono osservabili sulla sua superficie le impronte digitali impresse al momento della sua costruzione (v. Tav. XII, a).

Settore ovest - ambiente C

L’intervento di scavo in quest’ambiente è stato reso particolarmente difficile dalla presenza verso sud di una discarica abusiva, aggettante direttamente sulle strutture finora rinvenute. Tutto il settore ovest dello scavo è interessato, come si può apprezzare dalla sequenza stratigrafica, da uno strato (US 31) composto da frammenti laterizi, principalmente tegole, frammisto ad una argilla limosa di colore nocciola scuro e rite-nuto appartenente ad una struttura di copertura, crollata sugli ambienti C e D (v. Fig. 25).

Figura 24. Vista azimutale del tramezzo di restringimento della camera di cottura della fornace “B” (US 79).

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Sul lato nord dell’ambiente C è stata individuata un’area molto ricca di terreno concottato, ceneri e frustoli carboniosi (UUSS 48, 49, 51 e 52). Le entità sono riconducibili ad una struttura, ora asportata via dai recenti interventi della pala meccanica, di cui è rimasto un lacerto di un presumibile piano di lavorazione (US 50) e parte della parete invetriata di una piccola camera di combustione (US 53) con alcuni strati ine-renti alla sua attività (UUSS 46 e 47). Il taglio della struttura (US 43), riempito superficialmente da argilla limosa giallastra (US 44) e da uno strato fortemente concottato (US 45), intacca un piano di preparazione di argilla limosa giallastra molto pulita (US 38) su cui poggia, al centro dell’ambiente, un plinto in calcarenite a forma di prisma rettangolare di grosse dimensioni (USM 63). Fondamentalmente, si tratta di una base subrettangolare di appoggio per gli elevati veri e propri di cui rimane traccia solo in questo blocco squadrato. Il plinto d’appoggio presenta al centro della sua superficie tracce di lavorazione incise, mirate ad age-

Figura 25. Vista dall’alto della fase di crollo della copertura in tegole dell’ambiente C (US 31).

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volare l’inserimento sulla pietra di un trave verticale di sostegno delle strutture di copertura dell’ambiente, in materiale ligneo. In attesa del prosieguo dello scavo stratigrafico in questo settore, è da segnalare che, finora, non è stata individuata una vera e propria fase di distruzione delle strutture con i suoi caratteristici strati di ceneri, frustuli carboniosi e frammenti laterizi calcinati che specie fanno considerare la fine della vita di un insediamento, dovuta a vicende di ordine virulento. Invece, al momento, grazie alla presenza all’interno dei tagli strutturali di con-sistenti strati di argille limose di chiara origine alluvionale, soprattutto all’interno delle buche di palo, sembra più congruo pensare a un gra-duale abbandono dell’area con la reiterata spoliazione degli elementi architettonici riutilizzabili, presenti nei diversi ambienti dell’impianto produttivo.

Sul lato nord dell’ambiente C è stata rinvenuta una buca di palo di taglio subcircolare (US 41), riempitasi poi con una argilla limosa gial-lastra di origine alluvionale (US 42). Questa particolare argilla, molto pulita e compatta, è stata utilizzata come materia prima per costituire i diversi piani di ripristino strutturale, osservati in sezione in quest’area (v. Fig. 26).

Verso il centro dell’ambiente è stato praticato un saggio mirato a

rilevare la sequenza stratigrafica sotto il piano di bonifica o di ripristino strutturale (US 38) su cui erano state impostate le UUSS inerenti all’ul-tima fase d’uso dell’ambiente C. Queste strutture (fase II), a giudicare dalla stratigrafia, sono ascrivibili cronologicamente ai restringimenti strutturali praticati nella camera di combustione della fornace “A” e nel-la camera di cottura della fornace “B”, nonché al momento della costru-zione della nuova e più piccola camera di cottura della fornace “A”.

Nella piccola trincea realizzata (m. 2 di lunghezza per m. 0,40 di larghezza), mirata a sondare l’entità dei depositi sottostanti, sono sta-ti rinvenuti due strati di frequentazione cronologicamente precedenti, riferibili entrambi ad una fase di abbandono (US 65) e composti da un’argilla limosa di colore bruno scuro sovrastante un altro strato di terreno fortemente concottato, frammisto ad alcuni mattoni refrattari

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(US 39), con pendenza sulla direttrice est–ovest. Quest’ultimo strato sembra indicare la presenza nell’area di un’ulteriore struttura per la pro-duzione fittile, trovandoci forse di fronte ad una terza fornace. L’US 39 è da ricollegare ad un altro strato dalle caratteristiche simili (US 36), già individuato precedentemente in sezione e che testimonia con la sua presenza una estensione delle strutture del complesso produttivo verso ovest e verso nord, in un settore ancora da indagare.

I dati disponibili desunti dallo scavo e la loro sequenza stratigrafica

consentono di ipotizzare che le entità rinvenute in questo settore non siano da considerarsi pertinenti ad un unico momento, ma rivelano piut-tosto una storia complessa, con almeno due fasi costruttive e destinate a funzionalità diverse.

Settore ovest - ambiente D A quest’ambiente dell’impianto produttivo sono pure riferibili: un

piano di bonifica (ripristino strutturale US 55); livelli di preparazione pavimentale in minuti frammenti laterizi (cocciopesto – US 54), misti ad una argilla limosa di colore giallo scuro e uno strato sovrastante di consolidamento in pezzame laterizio, messi di piatto da minuto a gros-solano (US 56). Quest’ultimo strato descritto (US 56), consisteva in un piano battuto, composto da frammenti laterizi, soprattutto tegole messe di piatto che si sovrapponevano ad uno strato (US 54) in cocciopesto con legante ancora ben compattato, tale da far ritenere che il materiale utilizzato provenisse da demolizioni connesse ad una ristrutturazione dell’impianto produttivo. Tutte e due le entità sono riferibili ad un pos-

Figura 26. Sezione stratigrafica dell’ambiente C.

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sibile suolo di calpestio dell’ambiente D. Un precedente strato di pre-parazione in argilla limosa di colore giallastro, colloidale e molto pulita (US 55), è da ritenersi di natura strutturale per il ripristino dei livelli pavimentali e riconducibile allo stesso momento di posa dell’US 38 nell’ambiente C. Tutte e tre le entità appoggiano a sud su USM 2 e in concomitanza con una apertura nella struttura muraria da ricondurre ad una sorta di soglia di passaggio tra l’ambiente C e l’ambiente D.

Le anfore di tipo Dressel 21-22

Per quanto riguarda il materiale archeologico rinvenuto, per lo più databile al periodo compreso tra la seconda metà del I sec. a.C. e la fine del IV sec. d.C., le anfore sono documentate con alcuni frammenti spo-radici all’interno di un contesto rimaneggiato di superficie (US 1) e in numero ben più cospicuo all’interno delle diverse unità stratigrafiche, in diretto rapporto con l’attività di produzione fittile dell’impianto.

Tra i materiali ascrivibili al I sec. d.C., sono numerosi i frammenti d’anfora costituiti dalla forma tipologica Dressel 21-2226 (v. Fig. 27). Un’alta percentuale di questi frammenti, di cui alcuni si presentano molto deformati e con chiari segni d’ipercottura (v. Fig. 19), sono stati rinvenuti nell’area di pertinenza della fornace “B” e più specificamente all’interno dell’US 2827 (v. Figg. 28-33). I numerosi frammenti rinve-nuti ad Alcamo Marina28 sono costituiti principalmente da orli e pareti che presentano, in certi casi, una o due anse, parziali o complete, mol-

26. dressel 1879, 5, tavv. VII-VIII, nn. 15 e 16; zevi 1966, pp. 208-247 e p. 222 (forme 21 e 22).

27. Lo strato rappresenta il costipamento, verso la fine del I sec. d.C. dell’origina-rio corridoio d’accesso alla camera di cottura della fornace “B”. All’interno di questo strato fortemente concottato sono presenti numerosi scarti di produzione ceramica di cui molti mostrano evidenti tracce d’ipercottura.

28. Sul sito di Contrada Foggia – Alcamo Marina sono stati rinvenuti finora du-rante le tre prime campagne di scavo (2003-2005) circa 300 frammenti d’anfora ricon-ducibili con certezza alla forma tipologica Dressel 21-22, tra i quali si annoverano 174 frammenti di orlo e 87 anse. Tutti i frammenti recuperati sono stati considerati scarti

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Figura 27. Anfora Dressel 21-22 (da Caravale - ToffoleTTi 1997, p. 110, fig. 2).

Figura 28. Scarto di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22 (rubefatto). Forme Alcamo A: a) US 28.

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Figura 29. Scarti di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22. Forme Alca-mo A: a) US 1, b) US 28.

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Figura 30. Scarti di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22. Forme Alca-mo A: US 1.

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Figura 31. Scarti di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22. Forme Alca-mo A: US 1.

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Figura 32. Scarti di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22. Forme Alca-mo A: a) e b) US 1; c) e d) US 28.

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Figura 33. Scarti di lavorazione ceramica di anfore tipo Dressel 21-22. Forme Alca-mo B: a) US 28; b), c) e d) US 1.

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teplici puntali e anse isolate. Le caratteristiche dei frammenti ritrovati di questa particolare forma tipologica di contenitore, mostrano un orlo molto ampio ad anello dello spessore di cm. 2 con labbro inclinato, al di sotto del quale s’imposta immediatamente una scanalatura alta cm. 1,5-2 con un più o meno accentuato cordoncino semicircolare (v. Fig. 34). Sono almeno cinque, tra gli esemplari alcamesi, le varianti d’orlo più o meno ingrossato o arrotondato con il sottostante cordoncino semicolare presente o meno.

L’anfora, a doppia ansa, è priva di collo e l’attacco superiore delle anse, che sono corte e a sezione a mandorla con costolatura o nervatu-ra centrale esterna, si trova a cm. 1 sotto il cordoncino semicircolare. In numerosi frammenti recuperati in fase di scavo, la parte inferiore dell’ansa presenta trasversalmente una impronta digitale (v. Tav. XII, b e Fig. 28). In corrispondenza dell’attacco inferiore dell’ansa è riscon-trabile su tutti gli esemplari una piccola linea incisa a tutto tondo sulla parete e in almeno due casi una seconda linea è rilevabile sulla parete a metà altezza tra l’attacco superiore e inferiore delle anse (v. Figg. 28 e 29). La parete, di uno spessore medio di cm. 1 e parzialmente ricom-posta in base ai frammenti rinvenuti, disegna un corpo cilindrico affu-solato che termina con un alto puntale pieno, a bottone e leggermente svasato all’estremità (v. Fig. 35, b).

Il criterio di distinzione che permette di riconoscere questa peculiare forma di anfora è la loro particolare assenza di collo e l’ampio diame-tro d’imboccatura. Dalle tracce d’ipercottura e rubefazione presenti su quasi tutti i frammenti studiati e dal contesto stratigrafico e strutturale in cui è stata rinvenuta la gran parte di loro, si può considerare come certa l’evidenza di una produzione locale ad Alcamo Marina di un tipo di anfora che per analogia con altri ritrovamenti è pienamente ricon-ducibile ai contenitori di tipo Dressel 21-22. Ad un primo confronto effettuato fra i numerosi reperti scoperti è stato possibile individuare la produzione di almeno due varianti di questa stessa forma tipologica. Le

di lavorazione ceramica o di cottura e più del 70% di questi reperti presentano tracce di rubefazione o ipercottura.

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Figura 34. Frammento d’anfora Dressel 21-22, rinvenuto nell’area della fornace “B” (inv. CF/03-011 – US 1).

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Figura 35. US 28. Scarti di lavorazione ceramica. Puntali d’anfora.

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differenze fra le due forme, pur rispettando le precedenti caratteristiche principali descritte che distinguono il tipo, derivano soprattutto dalle loro diverse dimensioni nel diametro d’imboccatura, altezza delle anse e sicuramente anche nell’altezza complessiva del contenitore. Le due varianti di anfora Dressel 21-22 rinvenute ad Alcamo Marina, (ritenute di produzione locale) saranno qui nominate, per un mero fatto di prati-cità ai fini delle citazioni di riferimento a ciascuna delle forme: Alcamo A per il tipo di dimensioni più piccole e Alcamo B per quella di maggior volume.

I reperti riconducibili al tipo Alcamo A (v. Figg. 28-32) sviluppano un diametro esterno all’orlo tra i cm. 17 e 18,5 e un diametro interno tra i cm. 13 e 14. L’orlo, di simili caratteristiche per entrambi i tipi, è alto cm. 1,5 e le anse a mandorla con nervatura centrale esterna evidenziano un’altezza che varia tra i cm. 11 e 13 riportando uno spessore di cm. 3 x 2 (asse maggiore per asse minore). Il diametro massimo dell’anfora alla pancia è di cm. 23.

Il tipo Alcamo B (v. Fig. 33) presenta un diametro esterno all’orlo compreso tra i cm. 19 e 21 mentre quello interno oscilla tra i cm. 15 e 16. L’orlo è alto cm. 1,5/2 e presenta il labbro leggermente più inclinato rispetto a quello di tipo A. Le anse del tipo B, pur conservando lo stesso modello in sezione, riportano uno spessore più rilevante (cm. 3,5 x 2,5) di quelle del tipo A. L’altezza delle anse è sempre compresa tra i cm. 14 e 16. Il diametro massimo dell’anfora alla pancia è di cm. 25,6. I piedi di entrambi i contenitori terminano in un puntale pieno ad estre-mità leggermente svasata la cui altezza, tra il piano di posa e il fondo interno, varia da cm. 9 a 11 per il modello di piede riconducibile al tipo A (v. Fig. 35, b), da cm. 4 a 6 per quello affiancabile al tipo B (v. Fig. 4, b). Il profilo del fondo interno è concavo per tutte e due le varianti tipologiche.

L’impasto si mostra di colore rosso-grigiastro sulla superficie ester-na, presentando all’interno una colorazione tendente al marrone ros-siccio. Ruvido al tatto, l’impasto presenta granuli di quarzo angolosi o

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leggermente arrotondati e tracce di microfossili calcarei29. La struttura compositiva della produzione di Dressel 21-22 dei numerosi frammenti ritrovati ad Alcamo Marina differisce nettamente da quella di produzio-ne campana o laziale, caratterizzati dal tipico colore beige o nocciola chiaro, morbido e granuloso, riscontrando invece forti analogie con gli impasti che contraddistinguono le produzioni segestane e per le quali si era già ipotizzato un’origine nella Sicilia occidentale con uso di materie prime legate al Flysch Numidico30.

L’anfora Dressel 21-22 sembra essere diffusa soprattutto in area tir-renica31. Il numero delle attestazioni di questi contenitori è piuttosto limitato e sono state finora talmente sporadiche da venire abitualmente unificate nella denominazione e considerate un tipo unico32.

Ritenute di produzione italica, le Dressel 21-22 sono state rinvenute principalmente a Roma33 e nelle città vesuviane, dove si ritiene siano state prodotte34. Alcuni ritrovamenti a Belo, nel sud della Spagna, han-no fatto ritenere possibile una produzione ispanica almeno di una parte dei manufatti attestati in Italia35. In passato, alcune considerazioni rela-tive le diverse iscrizioni dipinte sulle anfore ritrovate in Spagna, hanno fatto ipotizzare la loro produzione più importante ubicata nella penisola iberica36. Il tipo è attestato principalmente in Spagna, a Belo37, Saragoz-

29. Si veda lo specifico contributo, in questo volume, dei colleghi Capelli e Piazza (Università di Genova, Dipartimento per lo Studio del Territorio e delle sue Risorse).

30. alaimo et Alii 1997, pp. 55-60 ; denaro 1995, p. 199 e nota 43; denaro 1997, p. 541 e nota 36.

31. caravale - ToffoleTTi 1997, p. 110.32. PasTore 1992, p. 46.33. dressel 1879, 5, tavv. VII-VIII, nn. 15-16.34. zevi 1965, p. 122.35. BelTran lloris 1970, p. 147, n. 198, fig. 205, 1; domerGue 1973, pp. 112-

115; cerda-Juan 1980, p. 78, n. 132.36. van der Werff 1986, p. 114.37. domerGue 1973, pp. 112-115.

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za38 e Algeciras39; in Francia a Lione40 e ad Arles41; nel nord d’Africa a Cartagine42 e Alessandria43; in Israele a Masada44; in Turchia a Bodrum; in Croazia a Mljet45. Nella penisola italica questa forma d’anfora è sta-ta rinvenuta fondamentalmente a Roma46, Ostia47, Pompei48, Napoli49, Herculanum, Cumae50, Vibo Valentia51, Locres, Luni52, Settefinestre53, Altino54, Padova55, nonché nel relitto di Grado56.

In Sicilia, come mostra la carta di distribuzione (v. Fig. 36), il nume-ro di ritrovamenti più importanti si concentra principalmente nell’area nord-occidentale dell’isola. Sono attestati con sicurezza a Monte Iato57 e, di certo interesse per la relativa vicinanza al sito di Alcamo Marina,

38. BelTran lloris 1970, p. 511.39. Fornaci del Rinconcillo ad Algeciras nella provincia di Cadice. soTomayor

1969, pp. 389-399.40. Becker et Alii 1986, pp. 67 e 86, p. 84, fig. 7, n. 1; desBaT - Picon 1986, p.

639, fig. 2, n. 9.41. BoTTe 2006, (cds).42. marTin - kilcher 1994, p. 279, fig. 1.10.43. BoTTe 2006, (cds).44. coTTon - GeiGer 1989, p. 163.45. Radič Rossi - JuRisič 1993, pp. 117-119; Radič Rossi 2004, p. 44.46. dressel 1879, pp. 164-175.47. Panella 1970, pp. 112-3, 120; Panella 1973, pp. 496-497; hesnard 1980, p.

150; van der Werff 1986, p. 97.48. zevi 1965, p. 122.49. BraGanTini 1991, p. 96.50. holWerda 1936, n. 1108. Brun et Alii 2003, pp. 131-155.51. sanGuineTo 1989, p. 74, tav. CXXVI.52. lusuardi siena 1973, p. 443; lusuardi siena 1977, p. 239.53. camBi - volPe 1985, pp. 76-77 e fig. 20.12.54. Tonolo 1991, p. 149, n. 284.55. PasTore 1992, p. 46.56. auriemma 2000, p. 38, fig. 11. Il singolo esemplare d’anfora Dressel 22, rin-

venuto nella zona della ruota di poppa del relitto navale, faceva parte di un carico di prodotti della lavorazione del pesce; auriemma 2000, p. 38, nota 28. Si veda inoltre dell’amico 1997, p. 126.

57. Si tratta di un’anfora completa con bollo impresso CEIONI MAXIM. isler 1981, pp. 15-30. Un altro reperto frammentario di questa tipologia d’anfora è stato rinvenuto in un crollo datato alla prima metà del I sec. d.C., all’interno di un corridoio

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Lo scavo archeologico 85

a San Vito lo Capo58 e a Segesta59, dove l’analisi mineralogico-petro-grafica degli impasti ha rivelato l’origine quasi sicuramente locale di

adibito a deposito di viveri nella casa a peristilio E2 del quartiere orientale dell’inse-diamento di Monte Iato. isler 2003, pp. 67-68 e p. 70, fig. 51.

58. Da una raccolta di materiale in superficie in alcune vasche di un antico stabi-limento per la lavorazione del pesce (cetariae) rinvenuto nei pressi della Tonnara del Secco a S. Vito lo Capo (TP), provengono due orli e un’ansa con parete riconducibili certamente alla forma tipologica Dressel 21-22. I reperti, inquadrati dal Purpura in un contesto cronologico tardoantico – altomedievale sono da considerarsi, almeno per i frammenti nn. 17, 18 e 19 inerenti al pieno I sec. d.C. PurPura 1982, p. 53 e p. 54, fig. 12, nn. 17, 18 e 19.

59. denaro 1997, p. 541 e tav. XCIV, figg. A2 , A9, A24, A25 e A123.

Figura 36. Carta di diffusione in Sicilia delle anfore Dressel 21-22 e posizionamento dell’impianto produttivo di Alcamo Marina (TP). Forno di produzione: 1) Alcamo Marina. Rinvenimenti: 2) San Vito lo Capo; 3) Segesta; 4) Monte Iato; 5) Terrasini; 6) Palermo; 7) Entella; 8) Solanto; 9) Termini Imerese; 10) Catania; 11) Vendicari; 12) Lampedusa.

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Xabier González Muro86

diversi frammenti di Dressel 21-2260. Da una ricerca di prospezione archeologica, eseguita a Solanto61, provengono alcuni frammenti rac-colti in superficie i quali sono stati tipologicamente ricondotti, forse im-propriamente, ad anfore bizantine di difficile identificazione. Un’altra segnalazione proviene dall’Antiquarium di Solunto62. Altri esemplari di Dressel 21-22 provengono da Catania63, Vendicari, Entella e Lam-pedusa64. A Termini Imerese, riconosciuti come appartenenti ad una tipo di contenitore di produzione locale65, sono stati individuati alcuni frammenti riconducibili alla forma Dressel 21-2266. La presenza di altri esemplari sono segnalati al Museo Archeologico di Palermo67 e all’An-tiquarium di Terrasini68.

Per quanto riguarda le notizie sui produttori di questa tipologia d’an-fora, i dati più interessanti provengono dalle fonti epigrafiche di alcuni ritrovamenti, benché scarsi, di bolli di produzione impressi su alcune anfore prima della loro cottura. Un’anfora Dressel 21-22 trovata a Efe-so69, e sicuramente proveniente dalla Campania, reca inciso un bollo con l’iscrizione (POST · CVRT) riconducibile a M. Curtius Postumus, ricco e altolocato personaggio già citato da Cicerone70. A Belo sono

60. denaro 1995, p. 199 e nota 43; denaro 1997, p. 541 e nota 36; alaimo et Alii 1997 pp. 55-60 e p. 61, fig. 9.

61. lo cascio 1990, pp. 36 e 38, p. 35, fig. 6, nn. 1, 2 e 4 e p. 37, fig. 7, nn. 1, 2 e 4. Sono riconducibili alla forma Dressel 21-22 i reperti con i numeri 1, 2 e 4. Forse po-trebbero essere ascrivibili anche alla stessa forma tipologica i reperti numero 7 e 11.

62. Wilson 1990, nota 129, pp. 402-403.63. BoTTe 2006, (cds).64. denaro 1995, p. 197 e p. 188, fig. 3.65. Belvedere et Alii 1993, pp. 219-220.66. denaro 1995, p. 197 e nota 40.67. Wilson 1990, nota 129, pp. 402-403.68. Fotografia di una Dressel 21-22 con segnalazione di Gianfranco Purpura sulla

guida on line dell’Antiquarium di Terrasini.69. Bezeczky 2001, pp. 11-19.70. Curtius Postumus, che annoverava numerosi possedimenti nel sud Italia, ave-

va un liberto a Efeso di nome C. Curtius Mithers, ricordato anche da Cicerone (cic. Pro fam.13.69). Probabilmente questo liberto fungeva da rappresentante (commercia-le) per conto del suo padrone per la vendita in Asia Minore delle anfore prodotte in Italia con questo bollo. Bezecky 2001, pp. 11-19.

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Lo scavo archeologico 87

documentati alcuni bolli su frammenti d’anfora Dressel 21-22 che com-paiono altrettanto su Dressel 1C, Dressel 12 e Beltran II A71 in particola-re S · CET, S · C · G 72, OP · C · AVIENI, OP · M · LVCR 73. Di particolare interesse a questo riguardo risulta il cospicuo numero di bolli S · CET e S · C · G rinvenuti su anfore di tipo Beltran II A nei due forni scoperti a El Rinconcillo in Algeciras, nel sud della Spagna74. Sull’anfora Dressel 22 custodita presso il Museo Archeologico di Saragozza è interessan-te constatare la presenza di un bollo parzialmente mutilato nella parte superiore, interpretato inizialmente come IVL · HEOIL75 e sviluppato a posteriori in O(fficina) IVLI · THEOPHIL(i)76 (v. Fig. 37).

In ambiente siciliano, a Monte Iato77, è stato rinvenuto su un’altra anfora il bollo CEIONI MAXIM. Ugualmente al largo delle coste di Catania78 in un contesto di ritrovamento subacqueo, un altro esempla-re reca lo stesso bollo CEIONI MAXIM. In Campania, riconducibile a questa marca di fabbrica, è anche il bollo, di conservazione lacunosa, CEIO, venuto alla luce in un deposito di età flavia sugli scavi del Centro

71. Anfore destinate per il trasporto di materiale derivante dalla lavorazione del pesce.

72. Per lo sviluppo, in almeno due anfore Dressel 21-22 provenienti da Belo, del bollo S · C · G in S(ocii) C(etarii) G(aditani) o S(ocietas) C(etariorum) G(aditanorum) si veda ÉTienne - mayeT 1994, pp. 13-138.

73. Per Claude Domergue, l’abbondanza di anfore Dressel 1C e Dressel 21-22 rinvenute sul sito di Belo in uno stesso contesto stratigrafico con caratteristiche d’im-pasto identiche anche per i loro scarti di cottura e con due bolli in comune (OP · M · LVCR e S · C · G), suggeriscono la provenienza per entrambe dallo stesso impianto di produzione figulinaria nei pressi di Belo e usate per trasportare lo stesso contenuto, cioè salse di pesce o quest’ultimo in salamoia. domerGue 1973, pp. 112-113.

74. Per lo studio dei forni di El Rinconcillo si veda soTomayor 1969, pp. 389-399. Per i bolli sulle anfore Beltran II A si veda BelTran lloris 1977, pp. 107-110.

75. BelTran lloris 1970, p. 147 e fig. 50, n. 111.76. A Port la Nautique, uno degli antichi porti di Narbonne, sono stati rinvenuti

sette bolli su anfore laetane recanti il nome Iulius Theophilus che confrontati con l’iscrizione del Beltran ipotizzano per l’anfora di Saragozza uno stesso produttore, forse d’origine greca (liou 1973, pp. 574-575 e figg. 4 e 5).

77. isler 1981, p. 25, fig. 29, lett. a e b.78. TorTorici 2002, p. 306 e fig. 39.

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Jean Bérard a Cumae79. Su un altro manufatto intatto, proveniente da Pompei, compare il bollo CEIONI MAXIM e sempre a Pompei è stata trovata un’anfora del tipo Dressel 21-22 che reca invece un bollo im-presso fra le due anse con le lettere MVM80.

Una delle informazioni più attendibili di cui disponiamo, per potere stabilire il tipo di merce trasportato su questa tipologia di anfora, deriva dallo studio dei tituli picti rinvenuti su alcune anfore Dressel 21-22. Questo contenitore è stato generalmente associato ai cosiddetti cadi81

79. BoTTe 2006 (cds).80. BoTTe 2006 (cds).81. Plinio usa il termine cadus per indicare i contenitori utilizzati per il trasporto

di frutta: Plin., Nat. Hist., XV, 12, 42; XVI, 21, 82; BelTran lloris 1970, pp. 511-513. La forma tipologica descritta da Plinio è stata fatta coincidere con il tipo Ostia LIV e Callender 4: Peacock - Williams 1986, p. 96.

Figura 37. a) Bollo su Dressel 21-22 proveniente da Saragozza, Spagna (da BelTran lloris 1970, fig. 50, n. 111); b) Bollo su anfora laetana proveniente da Port-La-Nau-tique, Narbonne, Francia (da liou 1973, p. 574, fig. 5).

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Lo scavo archeologico 89

usati per il trasporto della frutta. Ed effettivamente, in seguito a diverse interpretazioni sulle iscrizioni dipinte, rinvenute nel quartiere di Castro Pretorio a Roma82 su alcune anfore di questo tipo e recanti le abbre-viazioni CE(rasa?), MAL(a), CVM(ana?), si è ipotizzato l’uso di questi recipienti per il trasporto di mele, provenienti dall’area di Cumae, forse anche per il trasporto di ciliegie o prugne secche83. Tale interpretazione, che non è mai stata rivisitata, ha spinto a considerare, in maniera siste-matica, questa tipologia di anfora adibita unicamente ed esclusivamente per il dislocamento commerciale della frutta.

In un contesto databile all’età Tiberio-Claudia negli scavi di Via S. Sofia nel centro di Napoli, è stata rinvenuta un’anfora forma Dressel 21-22, in argilla locale, recante sul collo il titulus AMIN[…84.

Tuttavia, alcuni tituli picti rinvenuti sui contenitori pompeiani Dres-sel 21-22 - Callender 4, entrano in contrasto con le tradizionali ipotesi sul prodotto trasportato in questi manufatti, fornendo, come nel caso già descritto per alcuni bolli rinvenuti nel sud della Spagna, validi indizi per una più corretta e precisa interpretazione del contenuto dislocato da questa tipologia d’anfora, che al momento attuale della ricerca risulta ancora poco studiata.

A Pompei sono state ritrovate alcune iscrizioni di questo genere su Dressel 21-22, che però testimoniano il trasporto, almeno in un caso, di

82. dressel 1879, pp. 164-175; dressel 1899, CIL, XV, 4783-4787, 4790, 4747, 4792, 4794, 4797-4799.

83. Alcuni tituli picti comparsi sui contenitori pompeiani e di Roma menzionano MAL CVM e CE CVM. Le abbreviature CE e MAL sono state interpretate come cera-sum e malum quindi riconducibili ai frutti ciliegia e mela callender 1965, pp. 13-14. Il Callender proporrebbe ancora una lettura diversa dell’abbreviazione CE basandosi sul testo di Plinio: Et haec autem et Persica et cerina ac silvestria ut uvae cadis con-dita, e interpretando il termine abbreviato come CE(rina), cioè come prugna secca, callender 1965, p. 14; Plin., Nat.Hist., XV,12,42. Lo Zevi, pur condividendo ciò, sembra restare alquanto incerto sull’interpretazione che ricondurrebbe l’abbreviazio-ne CVM alla città di Cuma, zevi 1966, p. 222.

84. arThur 1986, p. 529, nota 3.

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Xabier González Muro90

liquamen85. Il termine liquamen risulta un elemento raro in questa tipo-logia d’anfora come lo è d’altronde C. Cornelius Hermeros, personag-gio che compare esclusivamente nelle anfore di conserve di pesce86 e ugualmente Abinnericus, che figura nelle tipologie II e III e risulta anche in un’altra anfora pompeiana di tipo Dressel 21-2287. Da Pompei inoltre proviene un’anfora dello stesso tipo, con l’iscrizione dipinta: G(arum) F(los) SCOMB(ri), SCAVRI, EX. OFFICINA. SCAVR( ). Un recente e approfondito studio di alcuni dei tituli picti sulle anfore Dressel 21-22 ritrovate in Italia, proporrebbe una nuova lettura dell’abbreviazione CE88 in CET, riconoscendo su diverse iscrizioni una T in legatura alla E. In questo modo risulta plausibile un’interpretazione dell’abbreviazione CET in CET(us), cioè un grande pesce di mare o tonno89. Interessante in relazione alle fornaci siciliane di Alcamo Marina potrebbe inoltre ri-sultare un’anfora Dressel 21-22, recuperata a Roma nel quartiere Castro Pretorio e recante l’iscrizione: LET(?), XXXC V, SICVLVS, LEC.F90.

Alcuni degli esemplari di Dressel 21-22 ritrovati ad Alcamo, so-prattutto i frammenti pertinenti agli strati d’uso della fornace “B”, pre-sentano evidenti segni d’ipercottura e indicano, come già accennato

85. LIQ(uamen) F(los), EXCE(llens), SCOM(bri), C. CORNELI HERMEROTIS, MA DE DOMESTI(ci), CIL, IV, 5716. L’anfora pompeiana su cui è stata rinvenu-ta l’iscrizione viene attribuita alla forma Schoene IV equiparabile per analogia alla forma Dressel 21-22. Per un confronto sulle anfore di tipologia Schoene IV si veda schoene 1871; mau 1909, pl. II-III; Panella 1976, p. 151 e n. 5.

86. BelTran lloris 1970, p. 513.87. M, LVII, ABINNERIC(us), CIL, IV, 5665; BelTran lloris 1970, p. 513.88. dressel 1879, p. 172.89. In un’esaustiva pubblicazione sulle anfore Dressel 21-22, attualmente in cor-

so di stampa, si avanzano ipotesi molto interessanti sulle probabilità che questi manu-fatti trasportassero conserve di pesce tagliato a tranci ed in salamoia. Il lavoro riporta inoltre interessanti considerazioni su un passaggio di Strabone nella sua Geographia (V, 4, 4), in cui declama l’eccellente reputazione dei grossi pesci (tonni?) coltivati nelle peschiere di Cumae, BoTTe 2006 (cds). A proposito dell’abbreviazione CET sui bolli delle anfore di produzione ispanica riconosciute dal Domergue come Dressel 21-22 (domerGue 1973, p. 114) si veda in ÉTienne - mayeT 1994, pp. 134-135, note 16 e 17 l’interpretazione in CET(aria) inteso come impianto di produzione o CET(arius) riferito al mercante di conserve di pesce.

90. CIL, XV, n. 124; BelTran lloris 1970, p. 512.

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Lo scavo archeologico 91

precedentemente una produzione locale di questa tipologia ceramica. Gli elementi più rilevanti, provengono da un deposito di scarti di la-vorazione ceramica costipato da numerosi frammenti d’anfora Dressel 21-22 di medie e grosse dimensioni, frammisti ad un’argilla fortemente concottata (US 28) e rinvenuti a diretto contatto con la parete esterna della camera di cottura della fornace. All’interno dell’US 28, insieme alle anfore Dressel 21-22, è stata recuperata in stato frammentario, ma ricostruibile quasi integralmente, una coppa in ceramica a pareti sottili, inquadrabile tra la fine del I sec. a.C. e la piena età tiberiana91. La coppa presenta evidenti tracce d’ipercottura (v. Fig. 38, c). La forma permet-te di inquadrare cronologicamente lo strato alla prima metà del I sec. d.C. Dalla stessa entità proviene uno scarto di lavorazione di un’anfora Dressel 2-4. L’esemplare d’anfora vinaria ritrovato ad Alcamo Marina conserva intatti orlo, collo, anse e una parte della parete. Questa tipo-logia d’anfora è databile tra la seconda metà del I sec. a.C. e la fine del I sec. d.C.

Normalmente datate al I sec. d.C., le Dressel 21-22 sembrano non essere più in circolazione dagli inizi del II sec. d.C.92. La forma di an-fora rinvenuta ad Alcamo Marina trova un riscontro di forte analogia tipologica con alcuni contenitori Dressel 21-22 ritrovati nei siti archeo-logici di Monte Iato93 e Segesta94. Altri contenitori di queste caratteri-stiche provenienti da Cumae, Pompei e Roma, presentano in certi casi elementi per un valido confronto. Al di fuori della penisola italica di particolare interesse per la sua analogia tipologica, risulta un esemplare

91. La coppa, che corrisponde probabilmente ad una imitazione prodotta local-mente della forma Mayet XXIX, coincide genericamente con le forme Ricci 2/219 e 2/221 (mayeT 1975, p. 62 e plan. XXIX, nn. 223-224; ricci 1985. Forme 2/219 e 2/221).

92. Recentemente il ritrovamento di questo tipo di anfora nel relitto di Grado attesta la sua circolazione commerciale ancora alla metà del II sec. d.C. (auriemma 2000, p. 38, fig. 11 e relativa bibliografia). Il frammento di orlo rinvenuto nella villa romana di Settefinestre in un contesto stratigrafico tra il periodo traianeo e antonino è da considerarsi residuale (camBi - volPe 1985, pp. 76-77 e fig. 20.12).

93. hedinGer 1999, pl. 104, 105, 117 e 122.94. Figg. A9 e A25. denaro 1997, p. 541 e tav. XCIV.

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Xabier González Muro92

Figura 38. US 28. a) Frammento di orlo in ceramica a vernice nera; b) Frammento di orlo di terra sigillata; c) Coppa in ceramica a pareti sottili (ipercotto); d) Frammento di disco-supporto per la lavorazione ceramica.

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Lo scavo archeologico 93

proveniente da Lione in Francia rinvenuto in un deposito inquadrabile cronologicamente alla piena età augustea95.

Al momento attuale, in base alle diverse segnalazioni bibliografiche, si ritiene che questa tipologia di anfora sia comunemente identificata ad un’origine italica e più precisamente ad un’area di produzione campana o laziale. Le testimonianze ed evidenze archeologiche raccolte negli ultimi decenni cominciano già a disegnare nell’ambito produttivo una prospettiva più varia e diversificata per questo tipo di manufatto. Così si configura un panorama diverso che vede una produzione figulinaria di Dressel 21-22, forse d’imitazione, in alcuni complessi artigianali nel sud della Spagna96 e nell’area nord-occidentale della Sicilia dalla secon-da metà del periodo augusteo a tutto il I sec. d.C. In seguito ad analisi mineralogico-petrografiche, eseguite su campioni d’impasto di queste anfore, emergono indicazioni che lasciano ipotizzare una produzione di questi contenitori anche in Calabria e probabilmente forse riscontrabile in alcune aree del nordafrica97.

Per quanto riguarda il resto dei materiali emersi dall’indagine rivolta su tutta l’area di scavo, bisogna segnalare che quasi l’intero nucleo di reperti provenienti dal sito è stato rinvenuto sul terreno di risulta dallo sbancamento del mezzo meccanico, all’interno dello scavo (US 27) o nelle immediate vicinanze delle fornaci “A” e “B”. Si tratta di un ri-levante quantitativo di manufatti in ceramica, rari frammenti di vetro, osso lavorato e tre chiodi in bronzo (repp. 5, 14 e 15). Tra questo mate-riale merita una particolare segnalazione la presenza di numerosi scarti di lavorazione, per lo più frammentari, utili oltre che a definire in termi-ni cronologici la frequentazione della struttura, anche per determinare le diverse classi tipologiche prodotte nel complesso di Alcamo Marina (v. Figg. 4, 10 e 20-22). La ceramica da mensa data, al momento, la fase più antica di frequentazione dell’area al I sec. a.C., con la presenza di

95. Becker et Alii 1986, p. 84, fig. 17, n. 1.96. soTomayor 1969, pp. 389-399.97. alaimo et Alii 1997, p. 60.

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Xabier González Muro94

alcuni frammenti di ceramica a vernice nera98 (v. Fig. 38, a). Dall’ul-tima fase di frequentazione dell’ambiente C provengono parti di due lucerne (repp. 12 e 13), riconducibili cronologicamente alla fine del IV sec. d.C.

Tra il cospicuo numero di frammenti ceramici rinvenuti, sono stati individuati una grande quantità di scarti e ipercotti ceramici, ascrivibili a una produzione di manufatti d’uso domestico. Sono presenti, oltre ad alcuni rari frammenti di ceramica a vernice nera, frammenti di ceramica a pareti sottili rosate e grigie, comune depurata e comune con inclusi. È attestata anche la presenza di frammenti di anforette, anfore a fondo piatto, coperchi e tegami, tegole, embrici, laterizi romani (bessales), mattoni pavimentali di piccole dimensioni e numerosi frammenti di “tubuli” fittili (v. Fig. 13).

Queste valutazioni cronologiche preliminari possono indicare l’ar-

co di tempo in cui l’area officinale è stata in uso. Ovviamente questo segmento cronologico dovrà essere confrontato con dati più certi pro-venienti da analisi in corso di svolgimento, e da quanto sarà possibile estrapolare nel momento in cui le tipologie ceramiche saranno più con-testualizzabili e vicendevolmente confrontabili. Informazioni più pre-cise riguardo la cronologia del sito, le tipologie ceramiche rinvenute, e le fasi di vita dell’impianto figulinario potranno certamente essere rese note dopo che verranno effettuate le operazioni di ulteriore scavo delle strutture e in seguito a un approfondito studio del materiale risultante. Sono finora rari i rinvenimenti di forme ceramiche in terra sigillata e a vernice nera. Più ricorrenti sembrano essere i ritrovamenti di frammen-ti di ceramica a pareti sottili, classe ceramica sicuramente prodotta in loco.

Resta da segnalare per ultimo che sono stati prelevati una serie di campioni di terreno alluvionale, di concotto, di alcune scorie di lavora-zione, di argilla vetrificata e di alcuni frammenti ceramici, per effettua-re analisi archeometriche sui tipi di interventi che venivano svolti nel-

98. morel 1981, p. 157 e pl. 42, n. 2266 a1.

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Lo scavo archeologico 95

l’impianto officinale, in primo luogo l’accertamento del tipo di materia prima (argilla) utilizzata per la lavorazione ceramica ed eventualmente la corrispondenza di questa con le argille alluvionali circostanti l’area dell’insediamento produttivo.

Alcune brevi considerazioni topografiche sulla tipologia dell’im-pianto produttivo figulinario

Non tanto per la tipologia, ancora in fase di studio, ma quanto per la disposizione delle fornaci rinvenute ad Alcamo, rintracciamo numerosi paralleli tanto in Italia come in altre province occidentali dell’impe-ro romano99. Per quanto riguarda l’organizzazione interna, un esempio abbastanza simile per le sue caratteristiche viene riscontrato in Spagna nel centro di produzione fittile di El Tejarillo (Alcolea del Rio)100. In questo luogo è stato portato alla luce un gruppo di fornaci disposte a batteria di fronte ad un’area di servizi in comune. Quest’area è divisa, a sua volta, in una serie di spazi a pianta quadrangolare, destinati a servire un unico forno, ma comunicanti fra loro. Un altro esempio con caratteristiche molto simili al nostro complesso produttivo siciliano ri-sulta un atelier rinvenuto a Lucus Augusti nel nord-ovest della penisole iberica e costituito da un gruppo di fornaci disposte “a schiera”101. Le fornaci, racchiuse come ad Alcamo entro una serie di muri disposti or-togonalmente, presentano tuttavia dimensioni alquanto più ridotte dei forni siciliani.

Nel caso di Alcamo ci ritroviamo con un centro di produzione fittile di proporzioni decisamente notevoli, molto diverso dall’officina vinco-lata ad una villa rustica, la cui attività s’integra nel ciclo agricolo del

99. Per la penisola iberica risultano interessanti gli studi di vicenTe redòn 1983-84; Broncano - conesa 1988; fleTcher 1965; per il litorale nord-est della Hispania: revilla 1995; per l’Italia cuomo di caPrio 1971-72; per la Gallia duhamel 1975, duhamel 1978-79 e le ny 1988.

100. remesal 1985.101. alcorTa irasTorza 2001, pp. 409-435.

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Xabier González Muro96

fundus. Quest’integrazione è oggetto di riflessione nelle fonti antiche in rapporto ad un’agricoltura che commercializza un eccedente e la cui pratica è stata rilevata dalla archeologia in diverse province102. Senza dubbio le strutture finora messe in evidenza rientrano di pieno diritto nel concetto di grande centro di produzione. Si tratta di un’estesa area di attività nella quale si aggrupperebbero equipe di artigiani, concen-trati in loco dalla presenza di una serie di condizioni materiali e strut-turali idonee: vicina domanda dei prodotti fabbricati, ottime possibilità per il trasporto dei manufatti, accesso agevolato alle materie prime e al combustibile (specialmente necessario se la produzione supera un determinato volume)103. Complessi produttivi di queste caratteristiche, con estensioni che possono arrivare a superare diversi ettari di terreno, compaiono in Francia dove sono presenti produzioni fittili vincolate ad un’ampia commercializzazione come è la terra sigillata, ma anche per la ceramica comune, le anfore, ecc.104. In C/da Foggia, ad Alcamo, doveva avverarsi una situazione simile e cioè un buon esempio della varietà di fattori che hanno presieduto l’inserimento e la crescita della attività artigianale nell’area. Un sicuro vincolo ad un nucleo abitato di grosse dimensioni, all’ager agricolo di pertinenza e a ulteriori fruttuo-se attività di carattere ittico con produzioni associate per la lavorazio-ne del pesce, hanno assicurato una domanda sostenuta e diversificata di determinati tipi di manufatti. Le possibilità di commercializzare i prodotti elaborati si sono viste incrementate, da un’altra parte, dal po-sizionamento orografico privilegiato delle strutture produttive, vicino alla riva del fiume San Bartolomeo che rappresenta una via di traspor-to ottimale per lo smistamento e l’esportazione dei manufatti fittili sul mercato. Al momento attuale della ricerca archeologica, la principale difficoltà incontrata nel definire l’importanza di questa richiesta e la sua estensione commerciale viene posta dalla ancora scarsa conoscen-

102. Con riguardo all’interrelazione tra produzione agricola e produzione di ar-tigianato si veda: lauBenheimer 1985; manacorda 1989, pp. 443-467; carandini 1989, pp. 505-521.

103. JacoB - leredde 1985, pp. 351 e ss.104. JacoB - leredde 1985. In questo caso si mostra il rapporto tra le forme di

produzione, la scelta dei manufatti fabbricati, l’impianto produttivo e il tipo di doman-da commerciale che si cerca di soddisfare.

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Lo scavo archeologico 97

za del repertorio dei manufatti fabbricati. Il rifornimento delle materie prime era garantito dal proprio posizionamento privilegiato nell’area e attraverso il trasporto fluviale. Resta ancora da chiarire quale sia stato l’impulso principale, o quanto meno iniziale, che ha determinato il fe-nomeno insediativo d’indole produttiva. Dovremo ricercare negli allora prodotti di coltivazione caratteristici della zona o in altre attività con-nesse all’economia locale o regionale, il motore di spinta fondamentale per la genesi di questo impianto produttivo figulinario.

La scelta di concentrare alla foce dell’area fluviale del fiume San Bartolomeo la produzione ceramica, attraverso un impianto produttivo di queste caratteristiche, deve essere messo in rapporto con alcune con-siderazione più generali di tipo economico-sociale che s’inseriscono in questo contesto così vicino alla linea di costa e ad antichi ed importanti centri commerciali marittimi e dell’entroterra.

Un aspetto che potrà essere chiarito solo in futuro, con il prosieguo degli scavi archeologici, sarà quello di stabilire l’organizzazione interna di questo centro produttivo figulinario ed accertare l’esistenza o meno di settori specializzati e distinti per le loro produzioni.

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Tavole

I - XVI in testoXVII - XXXII fuori testo

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(a)

(b)

Tavola I. Alcamo Marina. Le condizioni della fornace “A” al momento del sopral-luogo nel giugno 2003 (a); l’area archeologica a monte della curva stradale della S.P. 187 (b).

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Tavola II. Alcamo Marina. Le prime due fornaci rinvenute nel settore di scavo.

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(a)

(b)

Tavola III. L’espediente degli incassi sui mattoni componenti la calotta della camera di cottura (a); la cosidetta fornace “A” al momento del rinvenimento (b).

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(a)

(b)

Tavola IV. Il bollo dei Maesii proveniente da Alcamo Marina (a); l’analogo bollo dalla villa di Sirignano (b) [da messana 2004, p. 60].

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Tavola V. Due grandi individui arrotondati di quarzo (probabilmente di origine eo-lica) in una massa di fondo con abbondante quarzo angoloso (camp. n. 7441; Nx, area reale inquadrata: mm. 1,3 x 1) (a); frammento di quarzo-arenite (a destra) ed un individuo arrotondato di quarzo (a sinistra; camp. n. 7440; Np, area reale inquadrata: mm. 1,3 x 1) (b).

(a)

(b)

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Tavola VI. Nella frazione maggiore dello scheletro si notano un frammento suban-goloso di calcare micritico (in alto a destra) ed alcuni individui di quarzo con diverso grado di arrotondamento (camp. n. 7441; Nx, area reale inquadrata: mm. 1,3 x 1) (a); frammento di spongolite ed un più piccolo individuo di quarzo (a sinistra) (camp. n. 7441; Np, area reale inquadrata: mm. 0,9 x 0,7) (b).

(a)

(b)

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Tavola VII. Diagramma Matrix di Harris elaborato digitalmente con Proleg Strati-Graf 3.6© - Proleg MatrixBuilder©. Si noti la divisione delle US in tre settori, fornace “A”, fornace “B” e settore ovest (ambienti C e D).

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Tavola VIII. Particolare della fornace “A” in panoramica azimutale. Si noti ester-namente alla camera di cottura in laterizi una seconda ghiera quasi concentrica di argilla fortemente concottata corrispondente alla precedente fase d’uso dell’impianto (a); veduta azimutale del piano forato (US 7) all’interno della ghiera della camera di cottura della fornace “A” (b).

(a)

(b)

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(a)

Tavola IX. Distanziatore per la cottura ceramica rinvenuto nell’area antistante la for-nace “A” (a); particolare da nord del ritrovamento di un tubulo fittile (rep. 4) all’inter-no della camera di cottura della fornace “A” (US 6) (b).

(b)

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Tavola X. Veduta da est dell’interno della fornace “B”. Si noti in primo piano lo sportello in mattoni di colore biancastro ancora chiuso (US 81) e in fondo il corridoio di accesso.

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Tavola XI. Particolare da ovest dell’ammasso di frammenti d’anfora Dressel 21-22 (scarti di cottura) fortemente concottati (US 28) rinvenuti sul lato ovest della fornace “B”. Si notino la parete esterna della camera di cottura della fornace “B” (US 14), le strutture murarie del corridoio di accesso alla camera di cottura della fornace (UUSS 29 e 76) e lo sportello d’ingresso alla camera di cottura (US 81).

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(a)

(b)

Tavola XII. UUSS 79 e 80. Restringimento del volume originario della camera di cottura della fornace “B” (fase II) (a); frammento ipercotto d’anfora Dressel 21-22, rinvenuto nell’area della fornace “B” (US 28) (b).

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Tavola XIII. Ipotesi ricostruttiva preliminare degli aloni di distribuzione. Il rettango-lo delimitato dalla linea di colore verde indica l’area attuale degli scavi.

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Tavola XIV. Overlay di layer cartografici e fotografici georeferenziati di tipo raster e vettoriale.

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Tavola XV. Planimetria vettoriale dell’area officinale e zona all’interno del vigneto: dall’analisi dei primi DTM elaborati con GPS tale settore si è rivelato altimetrica-mente depresso rispetto al piano di campagna moderno; la depressione è in asse con la fornace “B”.

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Tavola XVI. Creazione, attraverso il CAD del GIS, di cartografia vettoriale interro-gabile per classe ceramica, utilizzabile per lo studio del raccordo topografico tra alone ceramico e area officinale.

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Tavola XVII. Studenti durante le operazioni di scavo.

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(a)

Tavola XVIII. Preparativi per il rilevamento geodetico (a); fasi di scavo e rilevamen-to sulle strutture della fornace “A” nel corso della Campagna 2003 (b).

(b)

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(a)

Tavola XIX. Lo scavo della fornace “A” nel corso della Campagna 2003; si noti l’alo-ne del concotto (a); analoga situazione sulle strutture della fornace “B” (b).

(b)

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(a)

Tavola XX. Fornace “A”: la linea puntinata in rosso indica l’estensione della I fase (a); il piano di cottura della fornace “A” (b).

(b)

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(a)

Tavola XXI. La struttura della fornace “B” in fase di scavo ristretta fra lemurate ortogonali di contenimento (a); fornace “A”, praefurnium: il pilastrino centrale e la struttura rubefatta delle pareti (b).

(b)

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(a)

Tavola XXII. Un anello distanziatore rinvenuto presso la fornace “A”. Si notino i fori, procurati dall’esterno verso l’interno con uno stilo, utili ad una efficace distribu-zione del calore (a e b).

(b)

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(a)

Tavola XXIII. Frammento di Dressel 21-22 rinvenuto fra i materiali della fornace “B” (a); un “bessale” ipercotto e di scarto recuperato dall’area di scavo: si notino le strisciate imposte con le dita dall’officinator (b).

(b)

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(a)

Tavola XXIV. Frammento di tubulo rinvenuto sul piano di cottura della fornace “A” (a); scarto di cottura formato da pareti di anfora ipercotta (b).

(b)

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Tavola XXV. Alcuni esempi dei “beccucci” terminali dei tubuli fittili.

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Tavola XXVI. Un esempio fra i numerosi frammenti di puntali d’anfora.

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(a)

(b)

Tavola XXVII. Allineamento ortogonale delle murate di contenimento in fase di sca-vo (a); fornace “B”: rinforzi in blocchi di arenaria ed inzeppature con frammenti an-forari sul fianco nord della sezione di circonferenza (b).

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Tavola XXVIII. Alcuni momenti della riapertura dello scavo nella Campagna 2004.

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(a)

(b)

Tavola XXIX. Posizionamento del teodolite elettronico sulla Main Station dello sca-vo (a); una fase del field walking effetuata dagli studenti (b).

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(a)

(b)

Tavola XXX. Un ulteriore esempio di scarto di fornace (a); il quadrato di conteni-mento della fornace “B” in fase di scavo nel corso della Campagna 2004 (b).

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Tavola XXXI. Il settore di scavo nel contesto dell’area di lottizzazione.

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(a)

(b)

Tavola XXXII. Conferenza stampa per la presentazione delle attività di ricerca tenutasi nel maggio 2004 presso la sede del Rotary Club di Alcamo: da sinistra a destra, Giaco-mo Scala, Sindaco di Alcamo, Liborio Cruciata, Presidente Rotary 2004, Dario Giorget-ti (a); studenti, Rotariani e docenti di Alcamo sullo scavo a settembre 2005 (b).

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Giacomo a. orofino *

Caratteristiche della ricerca archeologica nella comprensione del territorio: l’analisi dei reperti di superficie

L’area alcamese delle fornaci romane si presta a molteplici ambiti di analisi archeologica, poiché i resti materiali pervenuti sono fortunata-mente diversificati, ben conservati e distribuiti con sufficiente regolarità sul territorio, tanto da poter procedere sulla difficile e sdrucciolevole strada della campionatura archeologica senza eccessive preoccupazio-ni1.

Se si prova ad escludere la “monumentalità” costituita dalle forna-ci e dalle strutture murarie ad esse connesse, possiamo continuare le indagini sulle testimonianze materiali e sul territorio immediatamente circostante prendendo in esame elementi che hanno perso il loro valore di monumento, ma di per sé indice dell’antropizzazione dell’area e del-le modalità secondo le quali questa si è sviluppata. Il riferimento va ai numerosissimi reperti di superficie localizzati in prossimità dell’attuale area di scavo e, in particolar modo, all’interno di un settore coltivato a vigneto ad est delle fornaci.

L’ordinario procedere dell’aratro, che con puntualità segue il succe-dersi delle stagioni, ha per decenni sconvolto il terreno e riportato alla luce, in condizioni più o meno frammentarie, i manufatti giacenti fino ad una profondità di ca. m. 2 sotto il piano di campagna, consistenti per lo più in ceramica comune, anfore, laterizi, coppi e tegole. Al fianco di tali note classi ceramiche occorrerà porre un preciso tipo di elementi che non costituisce classe a sé, ma va comunque segnalato e distinto

* Dottorato di Ricerca in Bisanzio ed Eurasia, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna.

1. È interessante una valutazione di N. Terrenato (TerrenaTo 2000, p. 47), il quale considera giustamente la campionatura la base dell’ordinario procedere della ricerca archeologica, attuata consapevolmente o meno, per dare luogo all’elaborazione di un modello teorico “falsificabile” (come vorrebbe K. Popper) della realtà.

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Giacomo A. Orofino102

dagli altri reperti: si tratta dei numerosi scarti di produzione e degli ipercotti, caratterizzati dall’annerimento delle superfici e dalla defor-mazione del corpo.

Lo studio delle evidenze archeologiche di superficie, che non riguar-da in primo luogo le proprietà ceramografiche o strutturali ma il loro posizionamento nel contesto territoriale e i rapporti spaziali tra esse, è ormai uno degli ambiti di ricerca metodologica più sviluppati e cono-sciuti. La ricognizione di superficie è un metodo per la raccolta delle informazioni archeologiche ormai ampiamente diffuso ed impiegato secondo le esigenze della ricerca in molteplici contesti.

L’individuazione di zone ad alto rischio archeologico attraverso l’identificazione di frammenti di superficie non è una conquista recente: già prima della “razionalizzazione” della ricerca archeologica, intrapre-sa con metodo dalla scuola di L. Binford alla fine degli anni Sessanta e arricchita sul piano formale dall’eccellente contributo di D. Clarke nei primissimi anni Settanta, venivano redatti resoconti di survey territo-riale che riportavano eventuali concentrazioni di frammenti ceramici giacenti sul piano di campagna. Ovviamente il termine survey, oggi di notevole importanza soprattutto per quelle discipline che si interessano dello studio e comprensione del palinsesto territoriale antico (come la geoarcheologia, l’archeologia ambientale o la cosiddetta “archeologia dei paesaggi”), indicava una semplice esplorazione a fini archeologici di aree non urbanizzate, difficilmente raggiungibili e poco note. Appar-tenenti ad una “fase romantica” dell’archeologia (se così si può defini-re), i resoconti dei survey consistevano nella pubblicazione a stampa di taccuini che riportavano descrizioni di evidenze archeologiche e, in gran parte, osservazioni personali su esse. A legare tali rassegne è la mancanza di un metodo comune, di un paradigma convenzionale che rendesse le modalità di osservazione e registrazione del dato di superfi-cie univoche ed omogenee.

Il problema dell’univocità e della correttezza formale inerente la rac-colta del dato è stato preso in considerazione solo in epoche abbastanza recenti, specialmente con l’introduzione e la diffusione dei database multimediali per la catalogazione dell’informazione archeologica: ci si accorse ben presto che la mancanza di uniformità concernente il repe-

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L’analisi dei reperti di superficie 103

rimento dei dati rendeva impossibile qualsiasi tentativo di creare una struttura unica di database, in quanto questa esige che in tutte le evi-denze archeologiche siano rilevabili i medesimi attributi e che il valore rilevato, con lo stesso metodo ed intensità, sia proponibile attraverso una formula sintetica e schematica. Il problema dell’applicazione dei database in archeologia è da porre alle origini delle banche dati infor-matizzate: queste infatti nascono per essere utilizzate fondamentalmen-te in ambito matematico, dove non è prevista né descrizione “libera” del fenomeno osservato (sulla quale attualmente si fonda il linguaggio archeologico), né l’esigenza di interpretare le proprietà simboliche del-la parola.

Per fortuna il dibattito in merito al rapporto database-archeologia è tuttora in corso e a proposito sono da segnalare alcuni importanti con-tributi2 di scuola italiana che dimostrano come nel nostro Paese le pro-blematiche concernenti la metodologia archeologica siano pienamente prese in considerazione e affrontate3.

Tuttavia allo stato attuale bisognerà riconoscere di essere ancora lon-tani da una soluzione univoca che permetta la naturale convivenza tra

2. Largo spazio alle problematiche connesse ai database archeologici e alla loro struttura formale più idonea è concesso dalla rivista Archeologia e Calcolatori, curata dalla scuola archeologica senese, punto di riferimento nel panorama italiano per gli studi sulle tecnologie applicate all’archeologia. Particolarmente interessanti sono il contributo di T. Orlandi, Multimedialità e archeologia (1999, 10, pp. 145-157), e di M. P. Guermandi, Dalla base dati alla rete: l’evoluzione del trattamento dei dati ar-cheologici (1999, 10, pp. 89-99).

3. L’evoluzione dell’archeologia in Italia, intesa come disciplina di ambito uma-nistico, ha seguito un percorso certamente diverso dalle scuola scandinava o anglo-sassone, riassumibile nello strettissimo rapporto archeologia-storia dell’arte. La “mo-numentalità” di società quali quella romana o greca, la ricchezza di testimonianze materiali ancora documentabili in stratigrafia, la notevole tradizione storiografica italiana, sono state certamente un deterrente all’applicazione di nuove strategie di studio: tuttavia bisogna considerare tale “arretratezza” (sempre nel confronto con le scuole straniere ad alta specializzazione metodologica e tecnologica) come il risultato di una fortunata quantità e qualità del materiale archeologico che l’Italia custodisce. Attualmente comunque si avverte un cambio di tendenza, dovuto ai primi tentativi, specialmente di taglio pionieristico, di incrociare la tradizione storiografica, numi-smatica e storico-artistica con le metodologie e le applicazioni tecnologiche di nuova generazione in modo da ridurre (se ciò fosse possibile) le variabili di errore che influi-

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Giacomo A. Orofino104

informazione archeologica e database informatico, soprattutto per due motivi determinanti: il primo è da ascrivere alla reticenza che in molti casi il mondo accademico tradizionale ha nell’adottare tali nuove me-todologie e quindi contribuire successivamente al dibattito sviluppato intorno ad esse4; il secondo, sottile ma decisivo, è invece dovuto al fatto che ad oggi si ritiene necessario riformulare il linguaggio archeologico e le sue modalità descrittive per adeguarle alle caratteristiche dei data-base (cosa che da alcuni è considerata un “sacrificio” della completezza e complessità dell’informazione archeologica all’altare del progresso tecnologico), mentre il mondo informatico non propone soluzioni tecni-che che permettano di avvicinare la struttura formale delle banche dati digitali al linguaggio archeologico.

Consci della difficoltà di registrare correttamente ed in maniera uni-voca i dati, tema sul quale torneremo nelle prossime pagine, si è comun-que notevolmente affinato l’ambito metodologico concernente l’indivi-duazione dei reperti di superficie ed il loro utilizzo per la ricostruzione del palinsesto territoriale antico.

Nel contesto disciplinare5 dell’archeologia dei paesaggi è stata crea-ta una griglia a maglie molto larghe all’interno della quale collocare le diverse strategie di survey6 territoriale.

Una prima distinzione riguarda le analisi autoptiche e non autopti-che, assumendo come parametro di differenziazione la posizione del ri-

scono in maniera più o meno evidente sulla raccolta, l’analisi e l’elaborazione del dato e che quindi risultano determinanti nella proposizione del modello storico.

4. Non è raro infatti trovarsi di fronte a ricerche archeologiche condotte esclusi-vamente per mezzo di metodologie e strategie d’intervento tradizionali, né altrettanto insolito constatare un timido utilizzo delle nuove tecnologie specialmente circoscritto a fasi secondarie dello studio o secondo modalità che permettano di investire un esi-guo numero di risorse umane e finanziarie.

5. È difficile proporre adeguati confronti bibliografici per un ambito di ricerca che, come questo, si presenta in continua evoluzione. Resta comunque uno dei prin-cipali contributi alla questione il volume di F. Cambi e N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi (camBi - TerrenaTo 1994; nella fattispecie cfr. pp. 122-130), e poi camBi 2000, pp. 250-257.

6. Il termine, estrapolato dal lessico militare anglosassone, serve a definire lo stu-dio delle testimonianze archeologiche materiali sul terreno (attraverso il field walking, analisi delle fotografie aeree, distinzione autoptica di tracce ed anomalie, ecc.) e nel

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levatore al momento dell’acquisizione del dato: nelle analisi autoptiche è lo stesso operatore che, per osservazione diretta, individua sul terreno l’evidenza archeologica e ne provvede a registrare la posizione e l’enti-tà; nel secondo caso, invece, l’operatore si limita in post processing, os-sia dopo l’acquisizione della “immagine” territoriale per mezzo di foto aeree (se lo studio riguarda le evidenze di superficie) o di report forniti dalle strumentazioni di rilevamento geofisico, a valutare la presenza o meno dell’evidenza archeologica e quindi a proporre un’adeguata per-centuale di rischio archeologico per l’area sottoposta ad indagine.

Una seconda distinzione riguarda ricognizioni sistematiche e non si-stematiche. Tale caratteristica dipende sostanzialmente dalla copertura territoriale che s’intende affrontare: totale, se si sceglie di indagare com-pletamente il contesto7 prescelto, applicando ad ogni punto dell’area gli stessi metodi di indagine e la stessa intensità; secondo campionatura, se il contesto viene frazionato in “campioni”8 e questi investigati attra-verso le strategie ritenute più opportune.

La ricognizione, come qualsiasi altra indagine archeologica, richie-de la concentrazione di risorse finanziare ed umane spesso in disponibi-lità inferiore agli obiettivi che la ricerca intende perseguire; allo stesso tempo bisogna considerare che un’indagine territoriale di superficie ne-cessita di tempi lunghi ed è soggetta al ciclo delle stagioni, o meglio, può essere svolta solamente durante i mesi dell’anno che prevedono l’aratura dei campi o una ridotta presenza di vegetazione spontanea in-festante. Durante la programmazione della ricognizione è necessario

terreno (fondamentalmente per mezzo di attrezzature capaci di registrare l’intensità e la qualità della variazione di un segnale inviato nel sottosuolo, o per tradizionali caro-taggi, saggi e trincee di scavo, ecc.). Per la traduzione in lingua italiana è stato adot-tato il termine “ricognizione” (anch’esso proveniente dalla nomenclatura militare), che purtroppo viene usato senza adeguata distinzione per indicare sia il survey, sia il field walking, ossia quel metodo di analisi del territorio secondo il quale gli operatori percorrono l’area a loro destinata e rilevano l’eventuale presenza di resti archeologici, siano essi strutture o frammenti di manufatti, tracce o anomalie nel terreno (per le differenze tra i concetti di “traccia” e “anomalia” archeologica si rimanda ad alvisi 1989, pp. 48-64).

7. camBi - TerrenaTo 1994, pp. 87-115.8. Sulle strategie della campionatura archeologica cfr. camBi - TerrenaTo 1994,

pp. 144-151; renfreW - Bahn 1995, pp. 62-63; camBi 2000, pp. 250-257.

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tenere conto di queste limitazioni che vanno inevitabilmente a rifletter-si sull’impostazione dell’indagine. Ponendo sempre l’ottimizzazione di costi e risorse al centro delle valutazioni preliminari alla conduzione di una ricognizione, l’archeologo può far riferimento a tre elementi fonda-mentali da poter applicare nella maniera più opportuna:

1. numero dei ricognitori disponibili;2. estensione del contesto territoriale;3. tempo a disposizione.La combinazione di due punti condiziona inevitabilmente il ter-

zo, anche se il tipo di terreno da esaminare e gli scopi della ricerca (tipo di evidenze da individuare, percentuale di approssimazione ac-cettabile, obiettivi che si intende raggiungere con il survey) possono rappresentare due variabili che condizionano fortemente ciò che in queste pagine viene proposto in maniera generalizzata. Purtroppo si viene a delineare un quadro prettamente materialistico della ricerca archeologica, probabilmente a scapito degli aspetti più nobili dello studio; tuttavia allo stato attuale non si può dire che il problema del-le analisi territoriali sia strettamente dipendente da fattori di ordine metodologico o di definizione disciplinare: è infatti noto come lo studio territoriale debba essere condotto secondo lo spirito di “ot-timizzazione” delle risorse, dovendo procedere il più velocemente possibile in ampie porzioni territoriali.

Una notevole quantità di tempo viene inoltre destinata alla ricer-ca dei fondi sufficienti all’acquisizione della strumentazione basila-re (stazione totale, sistema GPS, computer, software, ecc.), attività che il più delle volte, tra l’altro, non porta ai risultati sperati.

Tenendo conto di queste premesse si può facilmente intuire come sia complesso sviluppare un insieme di presupposti metodologici, di strategie, di valutazioni e caratterizzazioni tecnologiche capace di dipendere esclusivamente dalle finalità della ricerca, ossia dalla ricostruzione storica: non c’è dubbio che la scarsità di risorse finan-ziarie destinate allo studio e alla tutela del patrimonio archeologico è un elemento fortemente riduttivo ai fini della ricostruzione storica per mezzo delle testimonianze materiali, molto probabilmente tanto

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quanto i condizionamenti sociali e culturali dell’archeologo che fa ri-cerca9.

Le indagini di superficie portate avanti ad Alcamo Marina non inten-devano documentare il palese rischio archeologico dell’area (fin trop-po chiaramente espresso dai resti strutturali della cosiddetta fornace “B”), bensì si rendevano necessarie per individuare da subito il numero e l’estensione degli aloni di distribuzione formati dalla diffusione dei frammenti ceramici presenti sul terreno.

La determinazione di eventuali aloni di distribuzione è di fonda-mentale importanza nello studio archeologico di un territorio poiché permette di circoscrivere l’area da sottoporre ad indagini intensive (ot-temperando così alle necessità di ottimizzazione già esposte) e di indi-viduare la probabile posizione di strutture non ancora identificate sulla base della tipologia e quantità di evidenze archeologiche presenti sul terreno.

Il primo settore (e allo stato attuale l’unico) ad essere ricognito ad Alcamo Marina consiste nella porzione di un terreno coltivato a vigneto (v. Fig. 39), direttamente a contatto con l’area delle fornaci. Il terre-no ha la forma di un trapezio rettangolo, lungo approssimativamente

9. La carenza di finanziamenti destinati alla ricerca archeologica porta ad una ridiscussione delle procedure metodologiche applicate allo studio del territorio: uno dei “problemi” principali della ricerca consiste nel doversi rifare alle strategie di cam-pionatura per poter proporre un modello storico riguardante una vasta area territoriale, tendendo a concentrarsi su zone o parti di zone capaci di essere rappresentative di tutto il territorio e con una quantità e qualità di evidenze archeologiche che permet-tano di ricostruire nel migliore dei modi un modello del passato. Il procedimento di campionamento non riguarda solamente la ricerca archeologica, anzi vi sono altre discipline e scienze che fanno ricorso al “campione” per mettere a punto modelli di tipo statistico-matematico vicini alla rappresentazione della realtà.

Si può comunque affermare che le analisi territoriali condotte in modo sistemati-co rappresentano una garanzia maggiore per l’affidabilità della ricostruzione storica, poiché risentono in maniera ridotta (o addirittura nulla) della casualità del campione e quindi non devono rispondere a forbici di percentuali entro le quali si può considerare un errore accettabile. Ora, non solo la mancanza di risorse finanziarie rende imprati-cabile un’indagine sistematica a larga scala, ma addirittura spinge alla proposizione di sistemi di campionatura sempre più sofisticati, basati comunque sulla costruzione di modelli territoriali sempre più generali (o meglio astratti) che, anche se corretti, riguardano esclusivamente lo strato superficiale della realtà.

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Figura 39. Il vigneto e l’area sottoposta a ricognizione.

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m. 146,50 e largo m. 67 circa. L’asse centrale del vigneto, individuabile dalla disposizione dei filari, ha un orientamento sud-est nord-ovest. La pianta è delimitata sul lato nord-nord-ovest dalla linea ferroviaria che collega Palermo con Trapani, sul lato nord-nord-est dal canale Molinet-to (o Molinello), il quale determina la forma trapezoidale ad andamento irregolare del vigneto stesso.

La destinazione agricola dell’area ha certamente contribuito a defi-nire già dalle prime campagne di scavo l’estensione dell’area archeolo-gica almeno nel settore ad est delle fornaci, permettendoci di distribuire in maniera più organica le risorse nello spazio (con la concentrazione della ricerca in precisi settori del territorio) e di dedicare maggior tem-po alle zone che in effetti ospitano una significativa presenza di mate-riale archeologico e quindi risultano maggiormente utili alla ricostru-zione storica dell’area officinale. Il processo principale che permette la creazione di un “paesaggio” idoneo alla ricognizione di superficie è l’aratura, che porta sul piano di campagna moderno eventuali testimo-nianze materiali perlopiù in condizioni frammentarie; in questo comun-que vi è un importante risvolto negativo: se il rischio archeologico, la sua estensione e tipologia sono già distinguibili ad una lettura autoptica, non si potrà dimenticare che quella stessa aratura ha sicuramente rime-scolato la sequenza stratigrafica costituitasi nel tempo (venendo così a distruggere un dato assolutamente essenziale nel posizionamento di un saggio di scavo), scomposto o distrutto eventuali lacerti strutturali ancora sepolti e contribuito alla frammentazione delle testimonianze materiali (soprattutto si pensi al materiale più fragile come la ceramica o il vetro).

La ricognizione è stata condotta nel maggio 2004 ed ha avuto una durata di tre settimane. La scelta del periodo dell’anno è da porre in re-lazione con gli interventi agricoli che hanno come risultato, certamente secondario e non espressamente voluto, una notevole riduzione di ve-getazione infestante, serio ostacolo ad una buona percentuale di visibili-tà10: era infatti nostro specifico interesse poter delimitare con maggiore precisione possibile la diffusione dei reperti ceramici ed i margini di

10. Per il concetto di visibilità nella ricognizione archeologica cfr. camBi - Ter-renaTo 1994, pp. 151-159.

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concentrazione dei frammenti per ricostruire l’andamento ed il compor-tamento dell’alone di distribuzione a seguito delle sollecitazioni agri-cole. Realizzare la ricognizione in un altro periodo dell’anno avrebbe concesso di documentare la presenza di evidenze archeologiche ad est dell’area delle fornaci, ma la scarsa visibilità del terreno (non contro-bilanciabile da una maggiore intensità dell’indagine, visto che questa comporta un maggiore impiego di risorse umane, temporali e finanzia-rie) non avrebbe permesso di raccogliere ed analizzare una quantità di dati necessaria alle finalità della ricerca.

Oltre a constatare il confine est dell’area archeologica, la ricogni-zione intendeva documentare la presenza di altre strutture connesse all’apparato figulinario, non ancora scavate, e la loro posizione nel ter-ritorio. La scoperta delle fornaci è infatti indice dell’esistenza (almeno in antico) di altre costruzioni indispensabili in un sistema di lavora-zione dell’argilla, senza le quali difficilmente sarebbe immaginabile un’area officinale pienamente efficiente. Persino la posizione ad est del San Bartolomeo è funzionale alle esigenze che un complesso di fornaci richiama: la vicinanza del fiume era sicuramente necessaria a sopperire al bisogno di acqua per la depurazione dell’argilla, a fornire l’argilla stessa e, molto probabilmente (ma non è possibile allo stato attuale darne conferma visto che la ricerca è ancora in corso), a tra-sportare le merci verso l’entroterra; la depurazione dell’argilla prevede la realizzazione e l’utilizzo di vasche di decantazione collegate da un sistema di canalizzazione per la conduzione dell’acqua; predisposto il “panetto” di argilla già depurata, questo veniva lavorato al tornio in una bottega (sicuramente posta nelle vicinanze delle fornaci); gli oggetti già plasmati venivano esposti su una piattaforma, forse coperta da una tettoia in materiale deperibile (canne, tela, ecc.), perché si asciugassero correttamente prima della cottura in fornace; in seguito, i prodotti do-vevano essere stoccati in uno spazio coperto o meno in attesa di essere acquistati o trasportati nei mercati viciniori. A queste strutture, qui ne-cessariamente presentate in maniera schematica11, è da aggiungere il quartiere abitativo degli artigiani, che verosimilmente doveva trovarsi

11. Per un approfondimento alla tematica dei complessi figulinari si rimanda a sToPPioni 1993 b, pp. 25-34.

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nelle vicinanze, e tutte le altre costruzioni volte a soddisfare le necessità della comunità ivi residente.

Si comprenderà come l’area delle fornaci già investigata12 risulta es-sere di modeste dimensioni rispetto alla zona che in antico era presumi-bilmente occupata dalle strutture sopraccitate, pertanto, consci delle dif-ficoltà insite nella progettazione e realizzazione prossima di uno scavo sistematico dell’intera area, si ritiene che la ricognizione di superficie possa offrire qualche riferimento preliminare, non sempre “veritiero”13, sulla posizione degli edifici non ancora scoperti.

Al fine di approntare gli strumenti conoscitivi consoni agli obiet-tivi della nostra ricerca, consistenti fondamentalmente in carte te-matiche che rappresentino graficamente la posizione dei singoli frammenti distinti per gruppi, si è optato per la ricostruzione pla-nimetrica del vigneto con l’indicazione dei reperti di superficie se-condo la loro giacitura sul terreno. In effetti la ricognizione condot-ta ad Alcamo Marina, avendo delle finalità specifiche, si distingue dai tradizionali field walking ampiamente applicati in altri contesti di ricerca. La strategia di analisi e suddivisione del territorio è sta-ta ricalcata esattamente da un qualsiasi field walking, scomponen-do il territorio in quadranti, e questi in quadrati, rappresentabili in maniera sufficientemente14 precisa; i reperti di un singolo quadrato sono stati poi disegnati su carta millimetrata secondo le procedure e modalità stabilite in sede progettuale, in modo che l’unione di tutti

12. A proposito si rimanda al contributo in questo volume di X. González Muro.13. Non basta infatti determinare la frequenza dei reperti archeologici per cono-

scere la posizione di strutture non ancora scavate: possono essere diverse le variabili che condizionano la distribuzione dei reperti sul territorio, come i percorsi prestabiliti dell’aratura, i riporti di terreno, ecc. Oggetto di studio dell’archeologia teorico-me-todologica dovrebbero essere gli strumenti (tecnici e procedurali) per distinguere a priori tali variabili, in modo da calibrare le analisi in modo corretto ed evitare di indagare in maniera intensiva aree che erroneamente si ritengono ad alto rischio ar-cheologico.

14. La precisione di una rappresentazione planimetrica è sempre soggetta alle finalità della ricerca: la stessa scala di rappresentazione è una necessaria convenzione per la resa grafica della realtà territoriale o geografica.

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i quadrati potesse offrire l’immagine completa del vigneto e della posi-zione dei frammenti di superficie.

A facilitare le operazioni di suddivisione del vigneto sono stati i fi-lari realizzati per la coltivazione delle viti, disposti ad una distanza di m. 2 circa l’uno dall’altro e lunghi a seconda dell’estensione del vigne-to stesso. Potendo sfruttare lo sviluppo del sistema dei filari è bastato “tagliare” le strisce di terreno con del cordino disposto perpendicolar-mente ed a distanze regolari, in modo da realizzare la maglia di quadrati desiderata.

Per fare in modo che la suddivisione dei quadrati fosse coordinata era necessario che la linea di posizione iniziale dei ricognitori fosse a 90 gradi rispetto al primo filare del vigneto, il più vicino all’attuale limite est dello scavo: non trovando la stessa regolarità nella pianta na-turale dell’area agricola (dove esiste un angolo maggiore di 90 gradi) si è scelto di costruire una linea convenzionale – delimitata da cordino – che determinasse l’angolo retto con il primo filare; è chiaro poi che, su base geometrica, la creazione di ulteriori linee parallele fra esse e perpendicolari ai filari ha restituito angoli retti.

Avendo puntato sul grado di intensità della ricognizione e non già sulla ampiezza della copertura territoriale, visto che era nostro desiderio procedere ad una raccolta del dato che fosse la più puntuale possibile, si è deciso di estendere la maglia di suddivisione del vigneto nel corso delle tre settimane di indagine, accettando il rischio di non poter ultima-re la ricognizione dell’area all’interno di questa prima campagna.

Contrassegnata la prima linea (per intenderci, la linea di partenza dei ricognitori) si è proceduto alla stesura di una seconda linea, parallela alla prima e ad una distanza da questa di ca. m. 7,40. La “irregolarità” della misura prescelta per distanziare le linee perpendicolari ai filari è dipesa dalla posizione dei pilastrini di mantenimento dei filari stessi, localizzati ad una distanza l’uno dall’altro di ca. m. 14,80 – 15: risulta chiaro quindi come lo spazio tra due pilastrini sia stato diviso in due file di quadranti. Delimitata la prima fila di quadranti (ciascuno lungo quin-di m. 7,40 e largo ca. m. 8), si è proceduto ad una ulteriore divisione in quadrati (v. Fig. 40): ogni quadrante è stato scomposto in due file di due quadrati con lati di m. 3,70 x 4. Mentre i quadranti sono stati deno-

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minati assegnando a ciascuno di essi una numerazione progressiva (la scelta della numerazione, essendo infinita, era funzionale ad estendere la maglia in qualsiasi direzione, accrescendo senza difficoltà il nume-ro di quadranti da sottoporre ad indagine), per i quadrati si è ritenuto opportuno utilizzare le lettere dell’alfabeto: avendo già un raggruppa-mento di quadrati per quadranti (quattro per ciascun quadrante) sono state impiegate solo le lettere A, B, C, e D, partendo dal quadrato in alto a sinistra (lettera A) e continuando in senso orario verso il quadrato in basso sullo stesso lato (lettera D). Il nome univoco di un singolo qua-drato (importante al momento della registrazione delle informazioni) si è ottenuto combinando il numero del quadrante di appartenenza e la

Figura 40. Schema elaborato per la suddivisione in quadranti e quadrati dell’area indagata.

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lettera specifica del quadrato stesso (ad esempio, 01A, 01B, 01C, 01D, 02A, 02B, ecc.).

La scelta della carta millimetrata per la rappresentazione della posi-zione dei reperti di superficie si spiega da sé, soprattutto se si considera che il rilievo era stato progettato tenendo a riferimento una tradizionale planimetria; restava comunque da definire la scala grafica, che doveva servire allo stesso tempo sia ad una corretta ed esaustiva rappresen-tazione dei frammenti, sia a rendere agevole il lavoro di rilievo uti-lizzando tavolette di carta millimetrata il meno ingombranti possibile. Così, considerando le misure standard di ogni quadrato (corrispondente all’unità territoriale da rappresentare su ogni singola tavoletta), si è op-tato per una scala 1:25, in modo che un quadrato regolare del vigneto fosse disegnato con un lato di circa cm. 16, sufficiente a rilevare corret-tamente la posizione dei reperti e adatto ad essere contenuto in un unico foglio formato A4.

Ogni ricognitore, assegnato al rilievo di un quadrato, era fornito di un foglio di carta millimetrata e di una scheda di cui si parlerà più avan-ti.

Un altro dubbio consisteva nel tipo di rappresentazione da utilizzare per il disegno dei frammenti di superficie sulla planimetria: ci sembrava infatti oneroso (per via del dispendio di tempo) ed ininfluente eseguire un disegno realistico dei reperti, pur sempre a scala 1:25. Nostro inte-resse principale era la posizione dei reperti, desumibile anche da una rappresentazione “schematica” che tenesse conto della localizzazione corretta nello spazio del centro del frammento, pertanto si è scelto di definire più simboli, che rappresentassero i diversi gruppi di reperti, da utilizzare su carta millimetrata in sostituzione del disegno in scala della reale forma dei frammenti. Ai fini della ricerca era comunque necessario che il centro dei reperti fosse disegnato nella corretta posizione spazia-le, in modo da poter formulare valutazioni di tipo statistico-topografico basate sul dato territoriale. A tal proposito nella scheda di ricognizione è stata riportata una legenda di riferimento comprendente otto classi ceramiche e, nello specifico, parti di anfora, le più comuni e definibili già in fase programmatica, ed in più altre otto righe vuote da impiegare nel caso in cui fossero state riconosciute in situ altre classi ceramiche

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oppure vi fosse stata la necessità di indicare ulteriori specifiche. Ovvia-mente l’aggiunta di nuovi simboli doveva essere concordata tra tutti i ricognitori, così da mantenere una corretta uniformità nell’elaborazione delle planimetrie.

Un discorso più complesso è stato invece affrontato per la questione degli scarti di produzione e degli ipercotti ceramici, valutando se fos-se stato opportuno assegnare ad essi un simbolo specifico oppure, più semplicemente, sottolineare la caratteristica deformazione o, appunto, ipercottura: si è scelta la seconda opzione, in quanto effettivamente l’ipercotto non è una classe ceramica a sé, con una funzionalità propria (come invece succede per un’anfora o una tegola), ma è parte dell’og-getto creato dal ceramista, corrispondente ad un laterizio o ad un vaso, danneggiato irreparabilmente durante la cottura e quindi scartato dal resto della produzione. La soluzione migliore è consistita nel rappre-sentare regolarmente il simbolo dell’oggetto riconosciuto nell’ipercotto o nello scarto e poi contrassegnarlo con una “X” indicante la condi-zione specifica. Nel caso in cui le dimensioni o la conservazione del frammento non permettevano una adeguata attribuzione di questo ad un gruppo specifico era comunque stato predisposto un preciso simbolo collegato ai reperti “non definibili”.

Sulla carta millimetrata è stato rappresentato il quadrato, la posizio-ne dei reperti (come si diceva, distinti per classi o parti di anfora), il nome del ricognitore, la data di realizzazione del disegno, la posizione del Nord magnetico (in modo da orientare correttamente la planime-tria), nome del quadrante e nome del quadrato. Inoltre si è resa neces-saria l’indicazione dell’orientamento del ricognitore, ossia la direzione della visuale del ricognitore, in modo da poter leggere correttamente i simboli rappresentati sulla planimetria durante le fasi di elaborazione successive al rilievo (ad esempio, al momento della vettorializzazione dei punti).

Un accorgimento è stato predisposto in merito all’assegnazione dei quadrati a ciascuno dei ricognitori. Non c’è dubbio che in un esame autoptico l’impressione o la sensibilità di un operatore influisca total-mente sul risultato finale, poiché la scelta degli elementi da disegnare, la percezione di distanze e di rapporti spaziali, la meccanicità di certe

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operazioni sono aspetti ineluttabili di qualsiasi indagine archeologica, specialmente quando la strategia di base è limitata all’autopsia. In una ricognizione come quella realizzata ad Alcamo Marina era necessario ridurre il più possibile tali condizionamenti inconsci, poiché avremmo potuto registrare aree a maggiore o minore densità di reperti non in rela-zione ad un dato assoluto (cioè all’effettiva quantità di reperti distribuita su un metro quadro) ma sulla base della rilevanza che ogni ricognitore dava ad ogni reperto. L’unica soluzione possibile è consistita nell’as-segnare casualmente i quadrati ai ricognitori, in modo da distribuire eccessi o difetti della rappresentazione grafica, lasciando così che l’alta – o bassa – concentrazione di frammenti fosse determinata non da una percezione più o meno discutibile ma da un dato di fatto riconoscibile come tale da tutti i ricognitori.

In questa maniera sono stati rilevati tredici file di otto quadrati, ossia 104 quadrati coprenti un’area di ca. m. 50 x 32. In un secondo momento tutti i fogli sono stati scansionati e “montati” in un’unica grande carta raster che è stata alla base della vettorializzazione eseguita su piatta-forma GIS.

La copertura della ricognizione è stata limitata alla zona del vi-gneto che presentava reperti di superficie (anche a bassa densità) e corrisponde alla parte confinante direttamente con l’area delle for-naci: allontanandosi verso est infatti il numero dei reperti tende a diminuire, fino a registrare una totale assenza di questi poco oltre l’area ricognita.

La mancanza di evidenze in una determinata zona del vigneto è per noi di particolare importanza poiché, sapendo che tutta l’area è sottoposta allo stesso tipo di lavorazione agricola, con la stes-sa intensità e negli stessi periodi dell’anno, può essere indicativa dell’assenza di testimonianze archeologiche sepolte e quindi riduce i settori da sottoporre ad un survey intensivo (prendendo in conside-razione anche l’impiego di strumentazioni per le indagini geofisiche che in futuro potranno essere impiegate).

Dopo aver disegnato il quadrato prestabilito, il ricognitore com-pletava le operazioni di rilevamento compilando una scheda di rico-

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gnizione di superficie, preparata per uso interno15, capace di raccogliere quelle informazioni complementari alla rappresentazione planimetrica.

La scheda, composta da due fogli formato A4, si proponeva princi-palmente due obiettivi:

1. raccolta delle informazioni di natura statistica, territoriale e morfologica;

2. definizione topografica del territorio con un adeguato supporto alla georeferenziazione.

Come si può intuire dalle finalità della scheda, la compilazione di questa tentava di rispondere sia alle domande basilari di qualsiasi rico-gnizione di superficie (riportando le informazioni connesse alla meto-dologia impiegata per l’indagine, le variabili determinanti l’affidabilità del dato, la quantificazione per quadrato dei reperti, e gli elementi “ana-grafici” della scheda, del quadrato e del ricognitore), sia alla necessità di contestualizzare la ricognizione stessa nel territorio e di leggere il dato rilevato alla luce dei parametri spaziali desunti da indagini di tipo topografico condotte parallelamente alla ricognizione.

Il primo foglio (v. Fig. 41) si apre con i campi Provincia e Comu-ne, Località, Soprintendenza, Regione, e Numero Scheda. Questi primi campi necessitano di pochissima spiegazione, essendo necessari per l’identificazione delle divisioni amministrative territoriali (i primi quat-tro) e per la registrazione della scheda stessa (campo Numero scheda). Qualcosa da dire resta a proposito del sistema adottato per la codifica del numero della scheda: perché questo potesse fornire qualche infor-mazione in più rispetto alla semplice sequenza numerica espressa in fase di redazione, si è pensato di inserire tre diversi elementi, ossia le iniziali del nome della contrada sulla base dell’indicazione contenu-ta nella cartografia IGM (Contrada Foggia: CF), le ultime due cifre dell’anno solare in cui è stata realizzata la ricognizione (es. 04) e, per

15. La pubblicazione in questa sede viene proposta principalmente a documen-tazione delle operazioni di ricognizione. In ogni caso la scheda è ancora oggetto di profonde verifiche e correzioni capaci di renderla estensibile a contesti territoriali e di ricerca il più diversificati possibile. Sarà inoltre indispensabile che la formulazione dei campi risponda in maniera soddisfacente a più ambiti di studio ed allo stesso tem-po permetta di riprodurre la struttura della scheda su base informatica per un’acquisi-zione computerizzata dei dati.

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Figura 41. Foglio 1 della Scheda di Ricognizione di Superficie (SRS).

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finire, il numero del quadrante e del quadrato (es. 01B). A facilitazio-ne di tali norme redazionali anche lo spazio predisposto per il campo è stato suddiviso in tre parti, ognuna destinata ad una “porzione” del numero scheda.

Il resto dei campi e delle tabelle è distribuito su due colonne. La colonna di sinistra riporta innanzitutto i dati anagrafici dell’operatore (Nome e Cognome), ossia di colui che personalmente esegue la ricogni-zione del quadrato e compila la scheda di ricognizione: la distinzione ri-sulta necessaria poiché è stata individuata anche una seconda figura che potrebbe intervenire nella redazione della scheda, ossia il compilatore informatico, cui è dedicato uno spazio specifico nella stessa colonna16.

I campi successivi sono: Mese e anno, Nome quadrante, Nome qua-drato. Le specifiche su come sono stati individuati quadranti e quadrati sono già state riportate, mentre per completezza d’informazione, si dirà che il mese è stato indicato con il numero corrispondente e non già con il nome.

Una questione a sé è stata invece la denominazione dei quadranti che al momento della suddivisione venivano a trovarsi sotto la linea conven-zionale di partenza. Si ricorderà al lettore che i primi quattro quadranti del vigneto non sono stati impostati sul reale confine dell’area agricola, ma su una linea costruita appositamente e perpendicolare al primo fi-lare; per ricognire il resto del terreno, cioè la (piccola) parte esclusa da questa suddivisione, si è scelto di impiegare le stesse modalità di defini-zione dei quadranti ma con l’introduzione di una numerazione negativa

16. Riteniamo che l’accorgimento di distinguere le due figure corrispondenti all’operatore e al compilatore informatico sia importante visto che la compilazione cartacea e la compilazione informatica possono avvenire in momenti cronologica-mente molto distanti tra loro e per mano diversa, potendosi così ingenerare degli errori che si rifletterebbero sulla correttezza finale della scheda. La sinteticità, la grafia, o la semplice “copiatura” dei dati inseriti nella scheda cartacea possono condizionare il compilatore informatico che inavvertitamente potrebbe “fraintendere” o, più sem-plicemente, sbagliare quanto è stato riferito dal ricognitore. Nel caso in cui ciò si verificasse, e chiaramente l’errore fosse notato in fase di analisi ed elaborazione dei dati, sarebbe possibile risalire ai due compilatori, ricostruire il punto in cui è stato commesso l’errore e quindi, eventualmente, emendarlo.

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e “simmetrica” rispetto alla prima linea di divisione: così il quadrante “01A” veniva a contatto con “-01A”, “01B” con “-01B”, ecc.

Molto importanti ai fini di una corretta interpretazione dell’affidabi-lità dei dati rilevati sono i campi Grado di visibilità e Annotazioni sul livello di visibilità. Non staremo qui a riproporre l’importanza e valore del concetto di visibilità nella ricognizione archeologica17, comunque riteniamo sia un fattore da cui non può prescindere alcun resoconto di ri-cognizione archeologica, al fine di esaminare i risultati in modo corretto e debitamente valutare il conseguente modello ricostruttivo. L’introdu-zione di un grado di visibilità tra le informazioni rilevate in occasione di ricognizioni territoriali permette di comprendere se una dichiarata “scarsità” di reperti di superficie sia da attribuire alla reale mancanza di frammenti oppure ad un field walking ostacolato da una notevole presenza di vegetazione infestante. Quest’ultimo è solo un esempio di come l’omissione delle condizioni del terreno, e della visibilità in ge-nerale, possono portare a valutazioni errate influenti irreparabilmente sulla ricerca, soprattutto in quei progetti che, finalizzati ad indagare un territorio di ampie dimensioni, devono misurarsi con l’ordinario ed an-che repentino cambio del grado di visibilità e quindi dell’affidabilità dell’elemento rilevato: dichiarare di aver investigato l’intero territorio con la stessa intensità e le stesse strategie non è infatti garanzia di uni-formità del dato se oltre a tali informazioni non si riportano riferimenti, più completi possibile, alle condizioni atmosferiche, del terreno, della luce, della vegetazione e degli altri elementi che possono inficiare la validità del dato stesso.

Nel campo Grado di visibilità sono state riportate le voci nulla, scar-sa, media, buona e alta, ognuna delle quali “spuntabile” dal ricognito-re: nel caso in cui la visibilità risultasse essere nulla o scarsa è facile comprendere come il dato archeologico rilevato possa condurre ad in-terpretazioni diverse dalla realtà, assegnando una posizione di rilievo a settori più facilmente indagabili e quindi con una quantità maggiore di frammenti giacenti in superficie (con una sopravvalutazione di aree che in realtà potrebbero essere poco rappresentative) e nel contempo ritenendo a bassa densità di reperti settori dove la vegetazione cela i

17. A proposito si rimanda a camBi - TerrenaTo 1994, pp. 151-159.

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manufatti alla vista dei ricognitori. Franco Cambi e Nicola Terrenato hanno riproposto le statistiche concernenti visibilità e ritrovamento dei reperti18, mostrando una crescita esponenziale del numero dei reperti19 all’aumentare del grado di visibilità.

Il campo Annotazioni sul livello di visibilità è complementare al precedente e serve a specificare i motivi per cui un ricognitore ha ri-tenuto opportuno spuntare una voce piuttosto che un’altra nel campo superiore. La descrizione maggiormente registrata ad Alcamo Marina è stata “terreno arato, privo di vegetazione infestante”, accompagnata dall’indicazione di visibilità alta. Nel caso in cui fosse stata indicata una visibilità ridotta sarebbe stato necessario indicare il perché, se per una causa temporanea (stagione con presenza di alta vegetazione spon-tanea), perenne (caratteristiche geopedologiche del terreno sfavorevoli ad una ricognizione), o di altra natura. L’avvertita necessità di riportare tali informazioni è da inquadrare all’interno di un approccio metodo-logico più ampio che intende raccogliere e catalogare l’informazione archeologica nella maniera più completa possibile all’interno di un pro-cedimento di sintesi descrittiva e normalizzazione del linguaggio. Già da diversi anni le tecnologie informatiche rivestono un ruolo sempre più rilevante nella ricerca archeologica, comportando la definizione di un adeguato bagaglio metodologico che sappia mediare tra linguaggio descrittivo tradizionale – estendibile all’infinito, relativamente univo-co20 e imperniato sul carattere simbolico della parola – e linguaggio

18. In particolare si fa riferimento ai grafici presentati in camBi - TerrenaTo 1994, pp. 153 e 157.

19. Nel volume di F. Cambi e N. Terrenato (camBi - TerrenaTo 1994) si fa più propriamente riferimento al crescente numero di siti archeologici rinvenuti all’aumen-tare del grado di visibilità o alla presenza di una classe di visibilità favorevole alla ricognizione, ma la valutazione è comunque facilmente applicabile anche a condizioni quali quelle di Alcamo Marina.

20. L’attuale descrizione archeologica limita la sua univocità a termini specifici relativi a strutture architettoniche, contesti o particolari evidenze archeologiche (quali le unità stratigrafiche, i diversi tipi di reperti, ecc.), ma la disamina vera e propria è comunque lasciata completamente alla forma espositiva che l’archeologo ritiene più opportuna: si tenga però presente che la modalità per compilare un campo di tipo testo all’interno di un database informatico è estremamente diversa (a cominciare dalla limitazione del numero dei caratteri utilizzabili), in particolare sia per l’organicità tra

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informatico – sintetico21, assolutamente univoco e basato sull’elemento alfanumerico della parola. Non possiamo certo dire di trovarci nella fase finale di questa complessa definizione dei rapporti tra i due linguaggi, ma risulta essere di buon auspicio la profondità e continuità del dibat-tito che, nato negli anni Settanta22, è ancora oggi particolarmente vivo e fonte di adeguate innovazioni che hanno permesso di rendere meno antitetiche le necessità di una catalogazione archeologica e i limiti dei database informatici. Ulteriori valutazioni di ambito metodologico ci porterebbero lontano dalle finalità di questo contributo, resta tuttavia importante che il lettore valuti la progettazione della scheda di rico-gnizione alla luce dei pochi cenni finora proposti che si caratterizzano come paradigmi principali seguiti nella nostra indagine. Continuando la descrizione dei campi presenti nella colonna sinistra della scheda, i successivi sono Geomorfologia e Pedologia della zona. Si ritiene l’in-

le informazioni inserite (due reperti appartenenti alla stessa tipologia devono avere lo stesso nome, riportato con una grafia identica) sia per la facilità di interrogazione del database (se ad esempio si ha la necessità di visualizzare tutti i record riguardanti te-gole è necessario che ogni scheda abbia un campo dove sia riportata la parola “tegola” sempre secondo la stessa forma, e non “Tegola” o “TEGOLA” o “TEG.” o “tegula”, altrimenti il risultato dell’interrogazione risulterà incompleto, in quanto il software non cerca sulla base del significato della parola ma tenendo conto esclusivamente dei caratteri alfanumerici che compongono il lemma, che quindi devono risultare identi-ci).

21. Si potrebbe obiettare che nei database è prevista una tipologia di campo spe-cifica per i testi “liberi”, cioè il campo di tipo memo. Effettivamente ciò risolve il pro-blema delle descrizioni tradizionali, ma ne apre altri due di notevole importanza: a) in occasione delle operazioni importazione/esportazione delle informazioni contenute in un database si è notato che tra i diversi software non c’è una completa compatibilità proprio nello scambio del campo memo (nonostante questa venga dichiarata nelle ca-ratteristiche tecniche dei due programmi); b) la funzione fondamentale del database consiste nel suddividere l’informazione in più parti (corrispondenti ai campi) in modo da poter poi sottoporre i record a più indagini, partendo dal presupposto che per ogni evidenza catalogata sono state individuate e registrate le stesse caratteristiche (nome, forma, peso, misure, colore, materiale, ecc.): la descrizione libera del campo memo non solo accorpa tutte le caratteristiche dell’evidenza archeologica (contravvenendo all’ordine formale dell’ambito informatico), ma non permette di comprovare agevol-mente l’univocità e l’organicità delle informazioni al fine di analizzare queste alla luce delle recenti indagini statistico-archeologiche.

22. Guermandi 1999, p. 90.

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dicazione delle caratteristiche fisiche del terreno un passaggio fonda-mentale per la corretta lettura del dato finale e per la proposizione di un modello ricostruttivo che sia il più aderente possibile alla realtà. Si è già detto nelle righe precedenti come la geopedologia del territorio sia un fattore assolutamente determinante anche nella caratterizzazione delle variabili che possono condizionare la “qualità” delle informazioni ottenute (una di queste variabili è infatti la visibilità). Geomorfologia e pedologia possono essere prese in considerazione soprattutto nei casi in cui si deve necessariamente procedere verso una campionatura stratifi-cata23 del terreno, così che il numero dei campioni sia distribuito tenen-do conto della percentuale di territorio caratterizzata da una particolare conformazione geofisica: ogni strato (corrispondente ad una determi-nata zona con caratteristiche geomorfologiche e pedologiche precise) sarà indagato con una percentuale di campioni uguale alla percentuale di territorio occupata dallo stesso strato.

È inoltre già espressamente indicato nell’etichetta del campo (pren-dendo in prestito il termine dall’ambito informatico) il riferimento ad una carta geologica per la geomorfologia e ad una carta pedologica per la corrispettiva pedologia della zona.

Il campo Vegetazione e attuale utilizzazione del vigneto, oltre a for-nire un quadro sulla destinazione d’uso dell’area investigata, serve a far comprendere come eventuali lavorazioni agricole specifiche possa-no aver influito sulla distribuzione dei frammenti in superficie e fino a quale profondità il terreno può essere stato potenzialmente sconvolto dalla coltivazione. È importante ricordare che certi tipi di colture (quali appunto il vigneto, come nel caso di Alcamo Marina) rappresentano un grave “pericolo” per la sopravvivenza delle strutture non ancora sco-perte, poiché gli apparati radicali potrebbero facilmente insinuarsi tra i materiali di costruzione posti in opera e nuocere fortemente all’integrità e, quindi, alla preservazione della struttura stessa.

Lo spazio riservato ai Limiti cronologici apre una parte specifica del-la scheda dedicata alla registrazione delle caratteristiche dei frammenti di superficie, che continuerà anche nella colonna destra del foglio 1. In

23. camBi - TerrenaTo 1994, pp. 149-150; renfreW - Bahn 1995, p. 63; Terre-naTo 2000, p. 48.

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questo caso viene chiesto di indicare la datazione (chiaramente appros-simativa) del reperto più antico e del più recente, in modo da stabilire almeno a grandi linee l’arco cronologico in cui il territorio è stato an-tropizzato. Il riferimento resta al quadrato che si sta schedando24 e solo a fine ricognizione sarà possibile determinare i limiti cronologici pren-dendo in esame il più antico e il più recente reperto di tutti i quadrati.

La prima tabella della colonna di destra (Legenda di riferimento) è stata già vista a proposito della simbologia utilizzata per la rappresen-tazione dei reperti di superficie nelle planimetrie. La tabella Evidenze di superficie serve esclusivamente a registrare il numero dei frammenti individuati, distinti secondo gli stessi gruppi indicati nella Legenda di riferimento; anche qui si assiste alla divisione in due colonne contrad-distinte rispettivamente da “predefiniti” e “altro” (in quest’ultima si andranno ad aggiungere le stesse informazioni indicate nella colonna “altro” della tabella superiore), mentre in basso è posizionata la voce “totale frammenti”, dove va riportato il numero dei reperti di superficie disegnati sulla planimetria.

Gli ultimi due campi del foglio 1 hanno una valenza metodologica molto importante poiché, come nel caso dell’indicazione del grado di visibilità o della morfologia territoriale, possono essere utili sia a ca-pire eventuali condizionamenti riflessi sul dato finale, sia a porre in relazione ogni indagine di superficie con le ricognizioni precedenti e successive.

Nelle Precisazioni sul metodo devono essere rese note le modalità secondo le quali è stata condotta l’indagine, cercando di riassumere in poche righe strategie e finalità. Nel caso della ricognizione ad Alcamo Marina in tutte le schede è stata riportata la stessa dicitura, visto che il metodo impiegato non differiva da un quadrato all’altro: “Rilevamento

24. La scelta di indicare la cronologia approssimativa di ogni singolo quadrato, e non già di tutta l’area ricognita, è funzionale alla definizione di nuovi procedimenti che permettano di sfruttare tale informazione in contesti quali GIS, database territo-riali, ecc. Dato il carattere ancora sperimentale di queste ricerche allo stato attuale si ritiene prematuro fornire ulteriori elementi chiarificatori.

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per quadranti e quadrati della distribuzione ed orientamento dell’alone formato dai reperti di superficie”.

L’ultimo campo, Indagini precedenti, è invece rimasto vuoto dato che in passato l’area non era stata investigata; in ogni caso tale spazio è stato pensato per poter appuntare il numero di precedenti schede di ricognizione, gli anni in cui sono state svolte altre indagini, metodi, risultati, ecc., a seconda delle necessità della ricerca.

Un’ultima considerazione va fatta sullo specchietto riservato al com-pilatore informatico, posizionato in fondo alla colonna di sinistra. Ave-vamo già fatto la distinzione tra operatore e compilatore informatico, specificando anche i motivi per i quali riteniamo opportuno riproporre sulla scheda due settori diversificati dove indicare distintamente i dati delle due figure impegnate nel procedimento di ricognizione.

La scelta di inserire i dati del compilatore informatico all’interno di una piccola tabella, distinta dal resto della scheda, è dipesa dal fatto che nella maggior parte dei casi l’informatizzazione dei dati relativi alla ricognizione avviene dopo la compilazione della scheda cartacea e non contestualmente: questo spazio dunque non determina un accrescimen-to o una diminuzione delle informazioni sul quadrato rilevato (come invece tutti gli altri campi), ma serve esclusivamente a contrassegnare il passaggio dallo stato cartaceo a quello digitale della scheda. La piccola tabella è suddivisa in quattro campi: Nome, Cognome, Data di compila-zione, ID informatico. Per data di compilazione si intende il momento in cui la scheda viene inserita all’interno del database, mentre l’ID in-formatico serve nel caso in cui la banca dati preveda una codificazione delle generalità del compilatore.

Il foglio 2 (v. Fig. 42) è squisitamente dedicato alla registrazione del-le informazioni topografiche e geodetiche necessarie alla corretta geo-referenziazione della rappresentazione planimetrica del quadrato: è in-fatti importante che l’intera carta dell’area indagata, come ogni singola planimetria, sia agganciata ad un sistema di riferimento che permetta di inquadrare lo scavo all’interno di una cartografia convenzionale (IGM, carte tecniche regionali, carte catastali, ecc.) e ciò si ottiene associando

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Figura 42. Foglio 2 della Scheda di Ricognizione di Superficie (SRS).

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ad ogni punto (pixel) dell’immagine le rispettive coordinate spaziali reali.

La prima parte del foglio 2 è dedicata ai Dati topografici. Sulla pri-ma riga vi sono quattro campi (Contrada, Comune, Provincia, Regione) che, come nel caso del foglio 1, servono a localizzare l’area all’interno delle suddivisioni amministrative; di seguito vanno invece i Riferimenti I.G.M. (Tavoletta, Quadrante, Foglio) e i Riferimenti catastali (Numero mappale catastale e Proprietario). Dalla stessa cartografia IGM inoltre, come già si è visto, va estrapolato il nome della contrada, in modo da avere anche in questo caso un sussidio di riferimento comune ed uni-voco.

La sezione Dati geodetici serve in modo specifico per le operazioni di georeferenziazione, distinguendo tra un sistema di riferimento loca-le, ottenibile da un rilevamento che parta da un punto di stazionamento con coordinate x e y corrispondenti a zero, ed un sistema di riferimento geodetico, qualora l’indagine topografica (realizzata per mezzo di tec-nologie quali il sistema GPS) fosse realizzata assegnando ai punti coor-dinate di posizionamento relative ad un sistema di riferimento naziona-le o internazionale. Sarà poi il rilevatore a scegliere la proiezione che più si addice alla rappresentazione grafica del territorio, tenendo conto degli aspetti che possono risultare determinanti nella ottimale riuscita del lavoro: percentuale di deformazione della cartografia25, proiezioni impiegate in rilievi precedenti (in modo da facilitare sovrapposizione e confronti), diffusione della proiezione scelta, ecc.

Il primo dato richiesto al ricognitore consiste nell’indicazione dell’angolo di differenza rispetto al Nord magnetico, tramite sia una rappresentazione grafica sia l’indicazione numerica in gradi dell’angolo stesso. Vi è raffigurato un goniometro con una suddivisione sessagesi-male: il ricognitore, dopo aver posizionato la bussola sul lato sinistro

25. Insita necessariamente in qualsiasi proiezione, dato che la scienza cartografica si basa in sostanza sulla rappresentazione di una sfera (o di una parte di essa) su un piano: per fare in modo che ciò sia possibile è necessario introdurre delle soluzioni tecniche (le proiezioni) che, sebbene comportino un aumento della deformazione alla progressiva riduzione della scala grafica, permettono di rappresentare il territorio su un supporto bidimensionale.

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del quadrato da rilevare e aver individuato la distanza in gradi tra il lato e il Nord magnetico, indicherà sul goniometro il “raggio” corrispon-dente; ovviamente il lato del quadrato è da intendersi posto sull’asse 0-180 gradi. Ciò serve per avere immediatamente un riferimento gra-fico dell’orientamento del quadrato. Per un dato più preciso, invece, si procederà all’indicazione dei gradi dello stesso angolo nel campo sottostante.

A destra del goniometro è riportato uno schema funzionale alla cor-retta indicazione della lunghezza e della larghezza del quadrato, il nome del quadrante ed il nome del quadrato stesso. Sono da considerare a par-te i quattro punti corrispondenti ai vertici del settore indagato, i quali, come nel caso della suddivisione e denominazione interna dei quadran-ti, sono stati numerati procedendo in senso orario dal primo in alto a sinistra. Tale numerazione ha lo scopo di facilitare più operazioni:

1. assegnare correttamente ad ogni punto le rispettive coordinate di posizionamento, sia in un sistema di riferimento locale sia in un si-stema di riferimento geodetico;

2. comprendere l’orientamento del ricognitore al momento della definizione di lunghezza e larghezza del quadrato;

3. fornire una base di riferimento per la collimazione delle singole planimetrie e la costruzione della cartografia finale.

Dopo aver definito l’orientamento del quadrato, e quindi aver at-tribuito ai quattro vertici dell’area ricognita un numero specifico, sarà lo schema stesso ad indicare al ricognitore come rilevare la larghezza (rappresentata da una freccia che va dal punto 4 al punto 3) e la lun-ghezza (stessa rappresentazione ma con orientamento che va dal punto 4 al punto 1): eseguita la misurazione, questa andrà riportata nei campi sottostanti costruiti a tale scopo.

Le due tabelle che seguono sono esattamente identiche ma si riferi-scono una (quella di sinistra) alle coordinate dei punti rilevati secondo un sistema di riferimento locale, l’altra (quella di destra) alle coordinate su un sistema di riferimento geodetico. La differenza sostanziale tra i due sistemi è già stata presa in esame e, sebbene molto sintetica, potrà ritenersi sufficiente per le finalità specifiche di questo contributo. Il pri-mo elemento da dover indicare è lo strumento utilizzato per eseguire il

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rilevamento, come ad esempio una stazione totale per il rilievo locale o il GPS per un rilievo riferito ad un sistema geodetico. Oltre a documen-tare le tecnologie utilizzate nel corso dell’indagine, tale informazione serve a definire approssimativamente la forbice di errore che il rilievo potrebbe contenere a causa di limitazioni intrinseche dello strumento, cioé del livello maggiore o minore di precisione che una strumenta-zione riesce a proporre, partendo dal presupposto che il suo impiego sia stato effettuato secondo modalità ed in condizioni assolutamente perfette: non è di certo con questo campo che sarà possibile avere co-scienza di errori causati da un errato utilizzo della macchina o dalla rea-lizzazione del rilievo in condizioni esterne particolarmente sfavorevoli (ad esempio, per la stazione totale saranno determinanti la percentuale di luminosità o la rifrazione del punto a causa della pioggia, mentre sul GPS può notevolmente influire la visibilità o meno di un numero ade-guato di satelliti).

Il resto della tabella è invece configurato per la registrazione delle coordinate spaziali relative ai quattro vertici del quadrato. La compila-zione degli spazi riservati ad uno dei sistemi di riferimento non esclu-de la possibilità di poter registrare le coordinate del secondo sistema, anche in tempi successivi: tutti i punti infatti possono avere coordinate appartenenti a più sistemi, tuttavia è importante che per la costruzione di un apparato cartografico o per la semplice georeferenziazione venga-no utilizzate coppie di coordinate (x, y) appartenenti alla stessa proie-zione.

È necessario prendere in esame un altro importante aspetto della georeferenziazione. Dovendo spesso affidarsi ad un grado di appros-simazione che se non corrisponde alla realtà renda almeno il modello ricostruttivo accettabile, è molto probabile che la somma di più errori (dovuti all’approsimazione) alla fine porti ad un risultato difficilmente congruo. Lo stesso si può dire per un procedimento di georeferenziazio-ne quale quello adottato ad Alcamo Marina, dove si è avuto la necessità di individuare e posizionare in planimetrie punti che, a causa della scala 1:25, potevano avere un errore minimo di almeno cm. 2,5 rispetto alla localizzazione reale. Ai fini di una ricerca archeologica un tale arroton-damento sembrerà accettabilissimo, ed effettivamente lo è, ma basta

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ripetere lo stesso errore (che come abbiamo visto è quasi scontato, vi-sto che si ottiene spostando semplicemente il puntatore del computer 1 mm. oltre il punto effettivamente da georeferenziare – accettando ov-viamente che il disegno sia perfetto) per quaranta quadrati posti sulla stessa fila, coprendo nel caso di Alcamo una striscia di terreno lunga m. 148, per aver perso (o “guadagnato”) 1 metro, errore significativo anche in ambito archeologico. Per compensare gli errori di una carta cumulativa sarebbe necessario che ogni quadrato fosse georeferenziato singolarmente e che successivamente fossero visualizzate tutte le plani-metrie all’interno della piattaforma GIS, in modo da riconoscere alme-no gli errori più vistosi e quindi intervenire con una nuova operazione di rilevamento. La georeferenziazione della carta cumulativa, invece, distribuisce l’errore su tutta la carta, facendo in modo che sia meno visibile ma non per questo, sia chiaro, eliminato.

Per rispondere a queste necessità, in occasione della ricognizione effettuata ad Alcamo Marina si è cercato di mediare georeferenziando la carta cumulativa con un numero molto più alto di punti di controllo rispetto ai tre indispensabili per realizzare una georeferenziazione.

I punti sono stati rilevati per mezzo del sistema GPS NavCom Star-Fire26 e quindi registrati sul “libretto di campo” digitale predisposto all’interno del software di raccolta dati della strumentazione. I nomi assegnati ai punti sono stati poi riportati sulle relative planimetrie, così come le coordinate: ad esempio, il punto “126” è stato contrassegnato sulle carte dei quadrati 01B e 05C e su entrambe sono state indicate x ed y del punto. Al momento della costruzione della carta generale questa procedura, portata a termine prima di scansionare le carte, ossia ancora sul supporto cartaceo, ha facilitato le operazioni di collimazione e di georeferenziazione.

Il campo seguente è stato destinato alla documentazione della scala grafica. Si sono già chiariti i motivi per cui ad Alcamo è stata adottata una scala di 1:25, ma siamo comunque coscienti del fatto che sarebbe convenuto “normalizzare” la cartografia della ricognizione con il resto delle planimetrie dello scavo redatte, come è uso comune in ambito

26. Per le specifiche della strumentazione si vedano le pagine del presente volume relative al rilievamento topografico.

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archeologico, in scala 1:2027. In ogni caso il problema è stato risol-to in fase di post processing, dopo aver eseguito la vettorializzazione delle planimetrie georeferenziate e quindi aver reso relativa l’adozio-ne a priori di scale precise. Ciò è stato possibile specialmente perché la rappresentazione dei frammenti non è stata di tipo isomorfico ma esclusivamente iconica, con particolare attenzione al punto centrale del reperto: in questa maniera si è ottenuta una posizione pressoché fedele a qualsiasi scala grafica.

Seguono i campi Nome operatore, ossia colui che realmente ha ese-guito le operazioni di georeferenziazione, e Data, corrispondente al giorno in cui è stato effettuato il rilievo. Come si può vedere l’acquisi-zione dei dati topografici e geodetici “crea” una nuova figura di opera-tore che potrebbe non corrispondere né al ricognitore né al compilatore informatico (come è successo ad Alcamo Marina, dove le operazioni di rilevamento sono state eseguite a fine ricognizione e da personale diverso), e quindi nel caso in cui si verificassero errori, la disponibilità del nome può aiutare nella ricostruzione dei procedimenti effettuati.

L’ultimo campo, ma non necessita di spiegazioni, è consistito nelle Annotazioni, ovvero tutte quelle informazioni che si ritengono impor-tanti al momento della compilazione ma non sono inquadrabili all’in-terno dei campi già predisposti.

Finita la ricognizione sul terreno, le planimetrie sono state colla-zionate secondo i procedimenti già citati per mezzo di un software di grafica e poi elaborate all’interno di un programma per la creazione di piattaforme GIS.

Questa seconda fase, fondamentale per gli obiettivi della nostra ri-cerca, si rendeva necessaria per contestualizzare la distribuzione dei reperti di superficie con l’area dello scavo ed il territorio. Entrambi costituivano già una voce importante del GIS, quindi si è trattato di aggiungere il risultato della ricognizione nella maniera più opportuna. A questo proposito si è scelto di suddividere le evidenze di superficie in layer differenti, ognuno per ogni gruppo contenuto nella tabella Evi-denze di superficie della scheda di ricognizione. La vettorializzazione è stata semplice: si è trattato di “ricopiare” manualmente (cioè per mez-

27. Si veda a proposito medri 2003, p. 139.

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zo di click del mouse) la posizione dei frammenti nei rispettivi layer che, comportandosi come tradizionali lucidi, sono stati sovrapposti alla planimetria generale della ricognizione e quindi attivati o disattivati a seconda del punto da rappresentare (ad esempio, il layer “orli” è stato attivato ed editato ogniqualvolta si aveva la necessità di disegnare la posizione di orli, e così via).

Si è così ottenuto una carta interattiva, già integrata nel sistema GIS, pertanto utilizzabile in qualsiasi analisi territoriale da ora in avanti ese-guita.

I simboli utilizzati per rappresentare i punti all’interno dei layer GIS sono gli stessi adottati per il disegno delle planimetrie cartacee. L’unica caratterizzazione che ha richiesto qualche accorgimento in più è stata quella relativa agli ipercotti ceramici: non era possibile infatti contras-segnare con una “X” i simboli standard, poiché un software GIS si basa su altre potenzialità grafiche. Tuttavia si trattava di un’operazione ne-cessaria al fine di evidenziare (anche per mezzo di una query all’interno delle tabelle di punti) la posizione degli scarti di produzione e quindi comprendere se questa poteva fornire informazioni utili (ad esempio sulla presenza in antico di uno “scarico” per il materiale deformato e/o ipercotto). Il problema è stato risolto aggiungendo un campo alle tabelle tipologiche del GIS per la segnalazione dello stato del reperto: in futuro basterà interrogare il database utilizzando il filtro “ipercotti” per poter visualizzare tutti i punti che rispondono alla caratteristica selezionata all’interno di un nuovo layer, il quale potrà essere salvato ed utilizzato successivamente28.

Parallelamente alla ricerca archeologica in corso presso il sito di Al-camo Marina, è nostro particolare interesse approfondire diversi aspetti

28. Pur presentando in questa sede la possibilità di salvare l’esito di un’inter-rogazione (o appunto query) su sistema GIS, è importante che il lettore tenga conto che un layer ottenuto da una selezione (anche se questa viene effettuata secondo un procedimento informatizzato) non può essere integrato in analisi che coinvolgono i layer da cui è stata ricavata la selezione stessa, in quanto alcuni punti (in questo caso, ad esempio, quelli relativi a frammenti ipercotti) risulterebbero duplicati nella riproposizione in due layer differenti, rischiando di ingenerare errori di valutazione soprattutto di ambito statistico. Un altro problema che, sebbene “relativo”, va preso in considerazione consiste nella ridondanza del dato, ritenuto in ambito informatico

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metodologici, cercando di ottimizzare le strategie per ottenere un mo-dello archeologico soddisfacente attraverso i procedimenti formalmen-te più corretti. A questo proposito stiamo attualmente definendo pos-sibilità e limiti offerti dal collegamento delle tabelle del database con la piattaforma GIS, piuttosto che utilizzare il più tradizionale sistema di importazione/esportazione. Il presupposto di base è questo: l’infor-mazione relativa all’evidenza archeologica ha valore sia nella conte-stualizzazione GIS sia in una banca dati informatizzata tradizionale29. L’esportazione dei dati in modalità tabellare, il valore della compila-zione dei campi attraverso maschere grafiche30, l’impostazione di più layout di stampa da scegliere a seconda delle esigenze specifiche sono alcune delle motivazioni che rendono imprescindibile il mantenimento delle informazioni all’interno di un database comune. Tuttavia gestire due tabelle, una all’interno del GIS ed una nella banca dati, diventa complesso nel momento in cui si ha la necessità di aggiornare i dati, dovendo effettuare le stesse modifiche due volte ed in maniera univoca. Sarebbe anche inopportuno eliminare le tabelle GIS per ripetere le ope-razioni di importazione una volta aggiornato il database, poiché questo

un vero e proprio errore. Quando infatti si utilizza un calcolatore per raggiungere un qualsiasi risultato ci accorgiamo che le vie per l’ottenimento di questo sono moltepli-ci e nessuna meno valida dell’altra: ciò che a questo punto viene avvertito come un errore (più formale che reale) consiste in quelle operazioni che richiedono più tempo (il procedimento più lungo, sebbene porti comunque ad un risultato corretto, è da scar-tare poiché non permette di ottimizzare i tempi della ricerca) e più spazio, utilizzando tale termine per indicare la “capienza multimediale”, ossia la quantità di byte che può essere memorizzata in un disco fisso, in una RAM o in un CD-ROM (meno spazio “fisico” si occupa, più risulta semplice la gestione del dato e delle risorse hardware). Se quindi il salvataggio della selezione è una “duplicazione” del dato, si converrà che tale operazione occuperà più spazio e pertanto è da ritenersi errata. Vi sono anche altri motivi che concorrono nello sconsigliare di ripetere un dato all’interno di uno stesso GIS (o database in generale) ma si ritiene che questi siano i più comuni e quindi fa-cilmente evitabili.

29. Per banche dati tradizionali si intendono i database costituiti da tre elementi fondanti: tabella, maschera e report.

30. Alcuni software estendono le funzionalità della compilazione via maschera oltre la praticità che questo procedimento comporta: dalla stessa maschera è infatti possibile interagire su più tabelle contemporaneamente, anche se queste sono parte di database localizzabili in file o supporti di memorizzazione differenti.

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comporta la perdita dei settaggi grafici assegnati ai punti delle ta-belle e allo stesso tempo potrebbe rappresentare un serio rischio al danneggiamento della piattaforma territoriale informatizzata.

Una soluzione possibile, tra l’altro in continua implementazione presso le software houses, sarebbe collegare la tabella del database al GIS e fare in modo che quest’ultimo legga le informazioni diretta-mente dal database comportandosi come un “visualizzatore”, ossia, piuttosto che utilizzare tabelle interne il software GIS fa riferimento a dati contenuti in tabelle esterne. In questo modo nel momento in cui un record della banca dati viene aggiornato, automaticamente anche il GIS visualizzerà la nuova informazione, senza rischiare di commettere errori durante la ripetizione della modifica e, allo stes-so tempo, senza appesantire le unità di memorizzazione con inutili ridondanze. Purtroppo allo stato attuale il collegamento (o link) del GIS a tabelle esterne è ancora in fase di sviluppo, ma nel momento in cui sarà sufficientemente definito basterà compilare un’unica ta-bella, ad esempio di unità stratigrafiche, per avere il database delle schede US, gli elementi necessari alla creazione di layer GIS e la possibilità di stampare le stesse schede secondo le impostazioni gra-fiche conformi agli standard di catalogazione delle Soprintendenze archeologiche. Il punto di forza di tale innovazione non sta nella semplificazione delle operazioni di compilazione, né nel fattore ri-dondanza (inteso come occupazione di spazio hardware maggiore), ma in un miglior controllo del dato che, inserito una volta solamen-te, manterrà una assoluta univocità in tutte le applicazioni, evitando così errori di battitura, trascrizione, utilizzo indifferenziato di ca-ratteri maiuscoli o minuscoli, punteggiatura, ecc. (si era già fatto l’esempio a proposito delle varie trascrizioni possibili della parola “tegola”).

Il posizionamento su GIS di punti riportati in tabelle di database può avvenire in due maniere distinte:

1. nel caso in cui si conoscano già le coordinate spaziali dei punti (compresa la quota z) si provvederà all’inserimento di queste

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all’interno di tre campi distinti della tabella ed in seguito si guiderà il software GIS ad utilizzare tali campi per l’operazione di geocode31;

2. se non si conoscono le coordinate dei punti ma si è in grado di posizionarli sulla carta per mezzo del puntatore grafico basterà sele-zionare la riga della tabella corrispondente al punto e “agganciarlo”, attraverso un semplice click del mouse, alla posizione desiderata.

La seconda modalità di procedere sembrerà meno precisa, ed effetti-vamente lo è, ma anche in questo caso il grado di precisione è determi-nato dalle finalità della ricerca, dalla scala massima di visualizzazione (definibile nel caso in cui si stabilisca di limitare l’ingrandimento della scala grafica ad un rapporto specifico), dall’importanza o marginali-tà dell’informazione (se essa rappresenta un punto di partenza e non un corollario nella costruzione della piattaforma GIS dovrebbe essere la più corretta possibile), livello di approssimazione già adottato nella creazione degli altri elementi GIS, e così via.

La visualizzazione generale dei layer inerenti la ricognizione ha ef-fettivamente portato ai risultati sperati in fase progettuale: configurando infatti correttamente le caratteristiche grafiche dei singoli punti, sono state ottenute delle tavole tematiche (ognuna per tipologia) che attivate contemporaneamente offrono una chiarissima rappresentazione degli aloni di distribuzione (si ricordi che la ricerca si proponeva all’inizio di determinare se il vigneto era interessato da uno o più aloni), della loro estensione e del loro probabile centro di “irradiamento”.

Le analisi sui dati forniti dalla ricognizione sono ancora in corso, con particolare attenzione alla definizione puntuale di specifici rapporti tra aloni di distribuzione e contesto territoriale, ma è già possibile propor-re alcune considerazioni che tuttavia non potranno essere considerate definitive.

L’area del vigneto ricognita può essere suddivisa in tre livelli di densità dei frammenti: alta, media e bassa. Dalla Tav. XIII si possono

31. Questa funzione è già presente da diversi anni in quasi tutti i software GIS: l’applicazione va a leggere x, y e z nei corrispondenti campi della tabella e procede alla visualizzazione del punto secondo il valore delle coordinate indicate (ovviamente previa impostazione della corretta proiezione e datum secondo i quali i punti sono stati rilevati).

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individuare i limiti nord-est, est, sud-est e sud della distribuzione sul terreno dei reperti di superficie, rispondendo così ad uno degli obiettivi specifici della ricerca: tracciando una linea ovest-est è pos-sibile assistere ad una progessiva riduzione dei frammenti fino ad una totale assenza notata durante le fasi di rilievo; lo stesso avviene sull’asse nord-ovest sud-est. Il settore che presenta una densità me-dia di reperti è quello più vicino all’area di scavo (contrassegnato in giallo nel grafico) e comprende quasi totalmente tre ampi “rettan-goli” (in verde) che potrebbero corrispondere a tre diversi aloni di distribuzione. La prima ipotesi si basava sul fatto che la vicinanza delle fornaci fosse un valido motivo per l’alta concentrazione di re-perti, costituendo queste il centro d’irradiamento di un unico alone di distribuzione. La ricognizione invece ha dimostrato che tra l’area delle fornaci e gli aloni intercorre proprio la zona a densità media, pertanto l’alta concentrazione di reperti sarebbe da porre separata-mente rispetto alla vicinanza delle fornaci e andrebbe considerata come un fenomeno a parte, con origine nella probabile presenza di strutture o aree specifiche dell’apparato figulinario ancora sepolte. Come ogni altro alone di distribuzione, l’area a media densità tende a ridurre la percentuale di frammenti per metro quadro man mano che ci si allontana dal centro verso la zona periferica, ed effetti-vamente è ciò che succede nel nostro caso: tuttavia la progressiva riduzione del numero dei reperti di superficie viene fermata dalla attestazione di una nuova area, a bassa densità ma con un numero di reperti sufficiente a dimostrare una cospicua differenza con il settore periferico dell’area a media densità (rettangolo rosso). Questa nuova zona, ampia approssimativamente m. 11 x 32, costituisce l’ultimo settore con una distribuzione dei frammenti sostanzialmente unifor-me ancora riconoscibile, mentre il resto del territorio è caratterizza-to da una distribuzione disomogenea, lasciando pensare a probabili riporti di terra a scopi agricoli o comunque ad altre forme di diffu-sione casuale dei reperti. Discorso a parte è invece l’area di colore rosso posta nella zona nord del vigneto, sulla quale non è possibile formulare ulteriori ipotesi vista la probabilissima relazione di questa con il settore a nord non investigato (e purtroppo non investigabile in

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futuro: la linea ferrata e la strada provinciale sono i confini nord nord-ovest della nostra ricognizione).

Gli aloni di distribuzione hanno una forma ad essi poco consona, risultano infatti essere rettangolari, mentre di norma avrebbero dovuto svilupparsi assumendo l’aspetto di un cerchio con al centro la mag-giore concentrazione di frammenti32. L’unica spiegazione plausibile al fenomeno può consistere nell’accettare una doppia modalità di di-stribuzione dei reperti: la prima, circolare, in un periodo antecedente alla suddivisione del vigneto per filari e alla trazione dell’aratro con macchinari agricoli; la seconda, longitudinale, determinata dal costante orientamento dell’aratro (trainato per mezzo di un trattore) sull’asse nord-ovest sud-est del vigneto. Al momento dell’aratura, infatti, il con-tadino è costretto a seguire il percorso obbligato all’interno dei filari, provocando una distribuzione “allungata” dei reperti di superficie. Per provare tale ipotesi sarebbe necessario ripetere la ricognizione (uti-lizzando i medesimi criteri di indagine) in lassi di tempo regolari (ad esempio ogni cinque anni), in modo da ottenere un chiaro quadro sulla progressiva distribuzione dei reperti sul terreno. Confrontando le plani-metrie non solo sarebbe possibile definire le dinamiche di deposizione (dovuti ad esempio ad una minima pendenza del terreno) ma si avrebbe anche modo di ricostruire i vettori della diffusione e quindi l’orienta-mento degli aloni di distribuzione.

Riteniamo sia invece più difficile ripetere nel tempo le attività di ricognizione per poter andare a “ritroso”, ossia calcolare il valore co-stante secondo il quale a cadenza regolare l’alone si estende e quindi utilizzare lo stesso valore per ricostruire l’arco di anni che intercorre tra oggi e il momento d’origine dell’alone stesso. Pensiamo infatti che le dinamiche che portano alla caratterizzazione dell’alone nel tempo non siano una costante, semmai una variabile: basterebbe non coltivare il terreno per più anni, utilizzare erpici meno profondi, assegnare un nuo-vo orientamento alla disposizione delle viti o effettuare un riporto (o sottrazione) di terreno per perdere il controllo della nostra costante.

Dato che comunque l’attività svolta ad Alcamo Marina intende for-nire un completo quadro di ricostruzione archeologica del complesso

32. camBi - TerrenaTo 1994, p. 171.

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officinale e al contempo studiare in situ le più recenti possibilità di am-bito metodologico, già in fase progettuale della ricognizione si è scelto di non raccogliere i frammenti nel corso della loro individuazione, in modo da poter eventualmente in futuro ripetere l’indagine secondo nuo-ve strategie o per chiarire ulteriori domande formulate nel corso della ricerca.

Solitamente la ricognizione di superficie viene considerata un’anali-si non distruttiva, al contrario ad esempio dello scavo stesso, poiché lo svolgimento dell’indagine non compromette l’alterazione degli attribu-ti contestuali e degli attributi specifici33 delle evidenze e quindi può es-sere ripetuta. Abbiamo visto inoltre che la ripetizione della ricognizione archeologica potrebbe apportare un numero maggiore di informazioni significative, ma perchè questo sia possibile è necessario che qualsiasi evidenza sia registrata e, dopo, lasciata nello stesso punto in cui è stata individuata, poiché l’eventuale asportazione trasformerebbe la ricogni-zione in una analisi distruttiva che, quindi, non può essere ripetuta.

Il dato presentato in questo contributo è in ogni caso da ritenersi provvisorio, in attesa di ulteriori valutazioni desumibili sia da un con-fronto più stretto tra l’area della ricognizione ed il contesto territoriale, sia da un’estensione futura delle analisi verso i settori viciniori e, so-prattutto, le sponde del S. Bartolomeo. Segnalazioni locali riportano la notizia di altre zone con una concentrazione riconoscibile di frammenti di superficie: tuttavia, non avendo ancora indagato tali aree, non è pos-sibile avvalorare con sicurezza l’ipotesi di una connessione tra il settore officinale e la presenza di manufatti distribuiti sul terreno circostante, poiché questa potrebbe essere l’esito dovuto a riporti di terra a scopi agricoli (operazione molto comune) o ad altre cause che possono influi-re sulla corretta ricostruzione storica.

33. clarke 1968, p. 36.

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JosePh franzò *

“Soluzione” GIS e Remote Sensing in archeologia. Applica-zioni di landscape archaeology e prospettive delle nuove me-todologie: Alcamo project

Quando si esprime il concetto di “rilievo” in archeologia si fa riferi-mento a quel particolare ambito della ricerca che si occupa del disegno e della realizzazione della documentazione grafica (sia essa cartacea o informatizzata), intesa come documentazione scientifica tendente alla riproduzione della realtà attraverso la creazione di un modello, e la realizzazione di un’informazione grafica esplicitata mediante criteri e regole che danno vita ad una vera metodologia. Il rilievo, dunque, ha come obiettivo primario quello di dar vita ad un modello della “realtà archeologica e topografica” che il rilevatore ha dinnanzi al suo “sen-tire” che risulterà fondamentale nella fase comprensiva del manufatto archeologico, del suo stato di conservazione, e di lettura critica del contesto territoriale nel quale esso è inserito, dato che il valore docu-mentario fondamentale della filosofia del rilievo consiste nella defini-zione spaziale e dimensionale della realtà archeologica.

Il rilievo archeologico si divide per ambiti applicativi in due grandi categorie: il rilievo di dettaglio, termine con cui si indicano le opera-zioni di rilevamento compiute su un manufatto archeologico (sia esso un intero sito o una struttura o un singolo manufatto), ed il rilievo topografico, cioè quel rilievo che, a differenza del primo, si occupa del rilevamento del campo topografico, cioè del palinsesto territoriale su cui insiste l’oggetto del rilievo di dettaglio, al fine di collocarlo in seno alle basi cartografiche e di contestualizzarlo geograficamente e topograficamente. Un’ulteriore possibile distinzione, legata in un cer-

* Dottorato di Ricerca in Storia e Storiografia dell’Antichità Classica, Diparti-mento di Scienze Storiche, Università di Perugia.

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to senso alla prima, è quella tra rilievo diretto e rilievo indiretto. Nel primo caso la riproduzione grafica del manufatto archeologico viene effettuata mediante una serie di misurazioni compiute direttamente sull’oggetto. Nel caso del rilievo indiretto invece si ha una situazione diversa, dato che la misura di una grandezza (altezze, larghezze, volu-mi, ecc…) si ottiene attraverso la misurazione di ulteriori dati correlati (per es. angoli). Il rilievo territoriale (o topografico) si presenta dunque come uno degli ambiti principali all’interno di un accurato studio ar-cheologico. Si può asserire che uno degli obiettivi fondanti della topo-grafia antica e dell’archeologia è comprendere il rapporto tra l’uomo ed il “reale”. Per quanto concerne il rapporto tra l’uomo ed il palinsesto territoriale possiamo affermare che tutte le interazioni tra l’ambiente e gli esseri umani hanno spesso, come comune denominatore e risultante finale dello stratificarsi cronologico, sensibili variazioni di quota del terreno che possono rappresentare una delle principali chiavi di lettura e comprensione del palinsesto territoriale antico.

Se si potesse per un attimo denudare il terreno da tutte le opere contemporanee si potrebbe osservare soltanto il suo andamento pro-filometrico ed altimetrico, e su esso si potrebbero analizzare le varia-zioni di quota determinate dai fenomeni che presuppongono un’intera-zione del tipo uomo/ambiente. Il classico rilievo topografico eseguito normalmente con stazione totale ha come filosofia di base quella di rilevare punti selezionati dall’operatore sul terreno per poi collocarli e contestualizzarli, sulla base di un sistema cartesiano, nello spazio, nel-le tre dimensioni del reale, in base alle tre coordinate che individuano la sua posizione e la sua quota, cioè la x, la y e la z (latitudine, longi-tudine, altitudine). Se procedessimo con un rilevamento topografico di tutta ”l’arealità” che compone un territorio archeologico, cioè al rile-vamento di tutti i punti che lo individuano, si potrebbe osservare l’an-damento profilometrico della superficie e riscontrare quelle variazioni di quota che per forza di cose sono causate, o dall’antropizzazione, o dalle modificazioni subite per via dei naturali assestamenti del terreno che si verificano nel tempo e che possono riguardare la struttura stessa di un’area archeologica. Compiere questo tipo di studio e di attività richiederebbe, con l’utilizzo dei classici strumenti di rilievo indiretto,

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dei tempi ed una quantità di lavoro non più compatibili con la ricer-ca moderna. Le nuove tecnologie mettono però a disposizione degli studiosi tutta una serie di strumentazioni e supporti che permettono, in tempi ragionevoli, la creazione, la post-elaborazione e l’analisi di modelli numerico/digitali del terreno geo-relazionati che si rivelano di grande utilità nell’ambito degli studi di topografia antica.

Tali strumentazioni sfruttano la tecnologia GPS che in postproces-sing viene elaborata mediante le tecnologie CAD (Computer Aided Design) e GIS (Geographic Information System).

Nel recente passato la maggioranza dei topografi si limitava spesso al solo posizionamento manuale dei siti di interesse archeologico di-rettamente sulle basi cartografiche; oggigiorno, per contro, si comincia ad utilizzare la tecnologia GPS (Geoglobal Positioning System) che consente una precisione maggiore e soprattutto di ottenere valori asso-luti e dati automatici, non solo riguardo al posizionamento geodetico e cartografico del dato archeologico, ma anche per la realizzazione dei rilievi archeologici di dettaglio e topografici. Quella del rilievo archeo-logico topografico realizzato con l’utilizzo della moderna tecnologia GPS come strumento di studio e la sua implementazione all’interno dei sistemi GIS, è una problematica scientifica che provoca grandi di-battiti tra gli addetti ai lavori1.

La tecnologia GPS

La tecnologia GPS utilizza il concetto di localizzazione nello spa-zio che fino ad oggi era stata utilizzata per la navigazione. Il funzio-namento si basa su principi molto semplici: i GPS sono dei ricevitori di segnali in grado di captare, mediante un’antenna, i segnali radio emessi da appositi satelliti che intorno alla Terra descrivono orbite quasi circolari ad un’altitudine di circa km. 26500. Questi trasmettono

1. Per una disamina sulla dottrina, pur non esaustiva e limitata all’ambito archeo-logico, si vedano: GillinGs - Wise 1994; Lock - stančič 1995; azzena - Tascio 1996, pp. 281-297; harvey - Press 1996; marTin 1996; soldani - Tomassini 1996; nicco-lucci 1997; moscaTi 1998 a, pp. 191-236; moscaTi 1998 b.

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attimo per attimo la loro posizione, per cui risultano essere altrettanti punti noti esistenti nello spazio. Essi per poter esser definiti operativi devono trasmettere informazioni agli utenti mediante i segnali, riceve-re e memorizzare informazioni trasmesse dal segmento di controllo, elaborare dati, mantenere un segnale di tempo accurato ed eseguire eventuali manovre di correzione orbitale. Per calcolare i punti non noti sulla Terra su cui si esegue la stazione con il ricevitore, il segnale GPS viene demodulato ed in seguito vengono effettuate le misurazioni delle distanze tra questi ed i satelliti. Mediante la risoluzione di un calcolo trigonometrico, cioè l’intersezione diretta laterale, si può calcolare la distanza tra i punti in cui sono rimasti in stazione gli strumenti.

I satelliti trasmettono la loro posizione in coordinate ECEF (Ear-th Centered Earth Fixed), un sistema cartesiano geocentrico che ha un asse coincidente con l’asse di rotazione della Terra e gli altri due giacenti sul piano equatoriale. Le coordinate ECEF vengono immedia-tamente trasformate in coordinate geografiche, cioè latitudine, longitu-dine, quota e in coordinate calcolate secondo un sistema di riferimento detto WGS84 (World Geodetic System). In seguito potrebbero essere necessarie ulteriori trasformazioni per ricalcolare le coordinate secon-do il sistema utilizzato nel territorio in cui si opera (Gauss-Boaga per l’Italia) ed effettuare la rototraslazione, cioè l’orientamento del rilievo in base a tre punti noti geograficamente in WGS84 e Gauss-Boaga.

Figura 43. Sistema di rilevamento D-GPS (Differential GPS), dotato di due antenne in contatto reciproco per l’elaborazione dei dati.

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Conoscere dei punti di cui sia noto il valore sia in coordinate GPS che Gauss-Boaga serve anche a determinare il valore esatto della coor-dinata z, cioè la quota assoluta in relazione al livello del mare. Infatti, mentre la posizione planimetrica dei punti rilevati con GPS ha livelli di precisione ottimale (submillimetrica), la quota può essere affetta da errori dovuti all’ondulazione del geoide (la superficie equipotenziale, cioè perpendicolare in ogni punto alla forza di gravità, di riferimento del campo gravitazionale terrestre che passa per il livello medio del mare e che è dotata di una forma complessa ed articolata).

La rete satellitare è costituita da 3 segmenti di satelliti: il segmen-to spaziale, il segmento di controllo e quello di utilizzo. Il segmento spaziale si identifica come costellazione satellitare, che nella sua con-

Figura 44. Schema grafico rappresentante le costellazioni GPS orbitanti a fini di po-sizionamento e rilevamento.

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figurazione finale è costruita da 24 satelliti posti su 6 piani orbitali ciascuno distanziato dall’altro di 60° in longitudine ed inclinati di 55° rispetto all’asse dell’equatore. Il segmento di controllo è costituito da cinque stazioni terrestri (Hawaii, Colorado Springs, Ascensio, Diego Garcia, Kwajaliin) disposte lungo l’asse equatoriale. Il secondo seg-mento è dato dalla Master Station, ovvero la stazione che ha il compito di raccogliere tutti i dati ricevuti dalle altre ed elaborarli, mentre le pri-me inviano i dati elaborati dalla Master ai satelliti (effemeridi, cioè le coordinate dei satelliti lungo la loro orbita, dati ionosferici, correzioni, ecc…). Il segmento di utilizzo è costituito da tutti gli utenti GPS.

Inizialmente la rete di satelliti orbitanti fu creata a scopi bellici da-gli USA; essa fu rinnovata a partire dal 1975 fino ad arrivare all’assetto attuale con una costellazione di 24 satelliti (21 operativi, 3 di riserva), denominata NAVSTAR (Navigation System with Time and Ranging). Solo negli anni ’80 ne è stato concesso l’uso per scopi civili. Tutt’ora però i dati possono essere volutamente alterati dagli apparati militari in modo tale da generare errori anche di centinaia di metri sulla terra (tali errori sono definiti SA, Selected Availability, cioè disponibilità limitata di dati esatti). L’ultima rete resa accessibile in ordine di tempo è quella russa detta GLONASS (GLObal NAvigation Satellite System) che si avvale di un diverso sistema di riferimento, l’SGS90 (Soviet Global System 1990). Tale sistema non ha codici criptati, non ha SA ma la rete non è soggetta ad una continuata manutenzione. Tra breve sarà disponibile una nuova rete satellitare creata dall’ESA (European Space Agency) detta GNSS (Global Navigation Satellite System).

In genere i satelliti GPS si suddividono in cinque classi di appar-tenenza dette: Blocco I, Blocco IIA - Advanced, Blocco IIR – Repla-cement, Blocco IIF – Follow on (quest’ultima sarà terminata entro il 2010). Quelli del blocco I sono stati sostituiti nel tempo da quelli del blocco II e così via fino all’ultimo aggiornamento.

Il satellite trasmette un segnale complesso formato da più compo-nenti ma generate tutte dalla stessa frequenza f/0 (f/0=10.23 Mhz). I componenti del segnale sono:

Portanti, L1 ed L2: due onde con frequenza di 154 e 120 volte f/0 e lunghezze d’onda di cm. 19 e 24. I vantaggi insiti nell’utilizzo della

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dual band derivano dal fatto che l’effetto ionosferico sulla propagazio-ne del segnale può esser quantificato dato che la ionosfera è un mezzo dispersivo.

Codici, C/A, P e W: si tratta di codici pseudorandom, ovvero di sequenze di stati +1 e -1 casuali che si reiterano dopo un determinato intervallo cronologico. Nel codice denominato C/A (Corse/Acquisi-tion o Clear/Access) la sequenza viene emessa con una frequenza pari allo 0.1f/0 e si ripete con intervalli di 10 alla -3s; ad ogni satellite viene assegnato un codice C/A per poterlo identificare. Il codice denominato P (Precision o Protected) si ripete ogni settimana. È inoltre prevista la possibilità di criptaggio del codice con il codice definito W noto solo agli utenti abilitati ed emesso ad una frequenza pari 0.2f/0. La somma dei codici P e W dà il codice detto Y. Quest’operazione di criptaggio è definita A-S (AntiSpoofing).

Messaggio D: con questo si informa l’utente circa lo stato di salute del satellite, dell’orologio satellitare e dell’orbita attraverso le effeme-ridi.

Per captare segnali di rete GPS-NAVSTAR e GLONASS sono ne-cessari apparecchi dotati di canali adatti a tale scopo. La precisione del rilevamento satellitare è definita dal parametro DOP (Diluition of precision), cui tutti i rilievi eseguiti con questa tecnica devono attener-si e che viene valutato dalla stessa strumentazione. I risultati ottenu-ti variano in base alla procedura adottata. Per soddisfare determinati standard di precisione del rilievo è necessario ricevere il segnale dal maggior numero possibile di satelliti (il numero minimo è 4 - 5). Altri fattori incidenti sulla precisione sono: le procedure adottate nel rileva-mento dei dati, la distanza intercorrente tra i punti a terra e il tipo di strumentazione utilizzata.

Per l’inquadramento cartografico che interessa il settore archeolo-gico si richiede una precisione centimetrica. La procedura finora adot-tata è quella del GPS Differenziale (DGPS) dotato di due antenne, una detta reference di base fissa su un punto di coordinate note, che invia dati correttivi ad un’antenna denominata rover, di esplorazione e stazionamento, posta su un punto ignoto la quale a sua volta reinvia alla master i dati riguardanti l’osservazione. Su essi saranno calcolati

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gli errori di rilevamento e i dati posizionali. In base al calcolo di questi errori il rover può correggere i suoi dati.

Il posizionamento può essere di tipo assoluto, con il quale si utiliz-za un unico ricevitore che determina la posizione assoluta nel sistema di riferimento globale GPS, e di tipo relativo, con il quale utilizzando almeno due ricevitori si va al calcolo del vettore (baseline) di unione dei due punti.

Recentemente la tecnologia denominata StarFire ha rivoluzionato queste procedure. La NavCom Technologies Inc. si è dotata di una rete satellitare che compie da sè anche il lavoro che prima veniva effettuato dal reference e invia le correzioni all’unica antenna utilizzata. L’elabo-razione ed il salvataggio dei dati satellitari, sia con l’utilizzo del DGPS che con lo StarFire, può avvenire in tempo reale ed automatica sul campo; in questo caso si parlerà di modalità Cinematica (Kinematic), oppure battendo punti manualmente attraverso la strumentazione, cioè con la modalità definita RTK (Real Time Kinematics).

Per migliorare gli standard di precisione del rilievo così realizzato si possono effettuare le seguenti operazioni: misurare oltre all’interval-lo di tempo anche il ritardo di fase con cui l’onda arriva al ricevitore; rilevare i segnali dei satelliti su lunghezze d’onda diverse. Inoltre, dato che il passaggio dei satelliti avviene ad intervalli di tempo più o meno lunghi e regolari, e dato che essi appartengono ad enti gestori diversi e possono avere diverse caratteristiche, non sempre risulta agevole in-tercettare il numero sufficiente di satelliti e segnali per una precisione centimetrica. Di seguito si riporta una breve tabella esplicativa delle componenti del segnale GPS.

Tabella delle frequenze e delle componenti:

COMPONENTI FREQUENZE MHzFrequenza Fondamentale f/0=10.23Frequenza portante L1 154f/0=1575.42 (λ=19.0 cm)Frequenza portante L2 120f/0=1227.60 (λ=24.4 cm)P - codice f/0=10.23C/A - codice 0.1f/0=10.23W - codice 0.2f/0=0.5115D(t) - messaggio di navigazione f/0/204600=50 Hz

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La “soluzione” GIS in archeologia

Notiamo oggi che l’archeologia europea, in particolare la Land-scape Archaeology, ha cominciato a riservare particolare attenzione al mondo dei Sistemi Informativi Territoriali – SIT, o GIS – Geographic Information System2, come testimoniano i convegni reiterati negli anni di Ravello, Pontignano (SI), Parigi, Roma, e l’ultimo recente Workshop sul tema Paesaggi Archeologici e Tecnologie Digitali, GPS e Laser Scanner, organizzato dall’Università di Siena e Grosseto.

La Landscape Archaeology3 ha potuto prendere atto dell’esistenza di questa nuova metodologia gestionale del dato archeologico-topo-grafico ed ha cominciato a servirsene senza però assimilare appieno l’innovazione, la filosofia di base e le tecniche insite nel rapporto tra archeologia, applicativi GIS e strumentazioni geodetiche.

Molti archeologi pensano ancora che i software GIS si collochino all’interno della scienza informatica, ma ciò é inesatto. Gli applicativi GIS oltre ad introdurre nuovi elementi informatici, più specializzati rispetto a quelli dell’informatica tradizionale e generale, introducono una molteplicità di elementi, propri della geografia, della cartografia, del rilievo di dettaglio, topografico, dell’analisi spaziale e dello studio archeologico che per essere debitamente sfruttati richiedono una pro-fonda conoscenza metodologica di base.

Negli ultimi decenni le modificazioni delle abitudini, dei consu-mi e soprattutto l’incredibile impennata dello sviluppo tecnologico, hanno modificato e tuttora stanno modificando in maniera radicale l‘assetto del territorio e con esso lo “stato” dei bacini e dei paesaggi archeologici.

I numerosi interventi per la costruzione di infrastrutture territoriali quali strade, ponti, gallerie, l’allargamento dei centri urbani, l’inten-sificazione dell’agricoltura e l’esplorazione per la ricerca di risorse e fonti energetiche necessarie alla società moderna, hanno alterato il panorama geofisico e danneggiato il patrimonio archeologico. La tra-sformazione in atto tende ad accelerare, provocando l’amaro risveglio

2. medri 2003, pp. 175-178.3. camBi - TerrenaTo 1994, pp. 5-17.

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del mondo dell’archeologia e imponendo la necessità di allestire rapi-damente nuove strategie per combattere gli effetti dannosi provocati dalle anomalie dello sviluppo infrastrutturale umano.

Con un po’ di sarcasmo si può affermare che stratigraficamente l’uomo del ventunesimo secolo sta portando a compimento un’unica “US negativa” che abbraccia tutto il globo e cancella le fasi stratigra-fiche antecedenti.

Le indagini compiute sul territorio, utili alla ricostruzione dia-cronica dei paesaggi storici ed allo studio topografico (inteso come realizzazione di rilievi, di dettaglio e topografici) di aree d’interesse archeologico, sono entrate da diverso tempo nel novero delle attività istituzionali dell’archeologia moderna, non solo come interesse di tipo scientifico-umanistico, ma anche come conseguenza alla situazione di degrado del territorio. Le campagne topografiche investono attual-mente innumerevoli ambiti specialistici e cronologici: dalla preistoria, all’archeologia classica, a quella dei paesaggi e a quella medievale.

Nell’ambito degli studi di Topografia antica lo scopo della ricogni-zione archeologico-topografica è l’individuazione sistematica, all’in-terno di campioni rappresentativi delle diverse caratteristiche geomor-fologiche e culturali del territorio, della maggiore quantità possibile di siti archeologici. Questa operazione è necessaria per la registrazione complessiva su una scheda di UT (Unità Territoriale), per il posizio-namento all’interno della cartografia ufficiale e per lo studio approfon-dito del palinsesto territoriale su cui il sito in questione viveva ed oggi insiste.

Nell’ambito della Landscape Archaeology tutti i suddetti passaggi metodologici dovrebbero concorrere all’inquadramento storico/geo-grafico dell’entità che quel dato sito rappresentava sul palinsesto ter-ritoriale antico.

Così, dalla ricerca topografica sul territorio nascono raccolte di dati contenenti informazioni sui siti, sui loro aspetti culturali, cronologici, sulle loro caratteristiche fisiche e sulla loro posizione nello spazio geo-fisico. Come detto, accompagna questo corredo di dati e informazioni, la localizzazione del sito archeologico all’interno della cartografia e la sua conseguente georeferenzazione.

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In questo contesto metodologico il GIS non deve esser visto come la fase finale di un processo iniziato e concluso sul campo. Piuttosto deve esser recepito dal mondo archeologico e topografico antichistico come il cervello informatico di una ricerca sul terreno, la quale inizia prima che questo “cervello” esista e che prosegue, grazie ad esso, in maniera più efficace e creativa: coloro che progettano e fanno funzio-nare il sistema d’analisi archeologico-topografica devono essere gli stessi archeologi e topografi antichisti che desumano e verificano i dati sul campo.

La gestione di una piattaforma GIS passa attraverso tre fasi di la-voro che devono essere continuamente aggiornabili in base alle esi-genze di catalogazione e di ricerca:

• creazione di basi cartografiche;• inserimento del dato archeologico georeferenziato;• elaborazione critica ed analitica dell’informazione storica, incro-

ciabile con i dati geografici e territoriali, secondo una logica di layer sovrapponibili ed interagibili.

Il GIS è un sistema informativo geografico che prevede l’orga-nizzazione di risorse hardware, software e di uno staff di esperti che acquisiscono, gestiscono, analizzano e visualizzano informazioni alfa-numeriche e grafiche, concernenti un dato territorio o un dato bacino archeologico. Si evince così che l’ampiezza del campo d’azione per l’osservazione dei fenomeni e per l’elaborazione dei dati è, per defi-nizione, geografico; ciò non toglie che applicativi di tal fatta possano essere utilizzati su basi territoriali limitate ad un contesto regionale o sub-regionale, o ancora per approfondimenti su zone molto limitate come possono essere siti archeologici. Il fine principale di un appli-cativo GIS è creare una cartografia che sia contestualmente e contem-poraneamente una banca dati all’interno della quale riversare tutte le informazioni che riguardano un intero territorio o un singolo contesto di scavo e ricerca, creare un supporto cartografico che faciliti lo studio di un determinato contesto geografico e/o archeologico e che permet-ta l’apprendimento e lo studio del territorio in questione, mediante la

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visualizzazione degli elementi costituenti questo stesso contesto. Inol-tre la piattaforma consentirà approfonditi studi di natura topografica e morfologica in base al trattamento dei dati di rilievo geodetico realiz-zato sulla base della tecnologia GPS.

All’interno delle cartografie così definite possono essere indivi-duati sincronicamente elementi tra loro diacronici rilevabili però con-temporaneamente su un territorio (su un supporto GIS infatti, possono comparire contemporaneamente anche elementi che hanno età e da-tazioni differenti tra loro, ognuno caratterizzato però da colori o sim-bologie proprie). Si produrranno così carte sincroniche di elementi e contesti diacronici ai quali sarà possibile legare i risultati grafici in 2D e in 3D delle campagne di rilievo GPS, ottenendo una visione esausti-va ed esauriente dell’area indagata. Appare dunque chiaro che un sof-tware GIS in fase di processing deve essere preliminarmente corredato di tutte quelle informazioni che poi, implementate nella piattaforma GIS, permetteranno la creazione del supporto cartografico tematico (v. Tav. XIV).

Un sistema geografico informativo potrà quindi contenere tutto ciò che concerne il rilievo archeologico di dettaglio e tutto ciò che riguar-da i rilievi topografici eseguiti in relazione al territorio oggetto di ana-lisi ed in relazione con i contesti archeologici.

La ricognizione archeologico-topografica finalizzata alla creazione di una banca dati informativa implementabile in una piattaforma GIS si può avvalere di molti mezzi. Fondamentale per la ricognizione di aree “a rischio archeologico” è il preliminare studio della zona interes-sata tramite lettura stereoscopica della fotografia aerea (aerofotogram-metria), che fornisce ricche indicazioni su anomalie provocate dalla diversità di crescita dalla vegetazione nata sopra le strutture sepolte.

La raccolta di dati sul territorio deve essere affiancata da una lavoro di archivio che mira all’individuazione dei rinvenimenti noti in modo casuale o comunque nell’ambito di progetti non scientifici. Quando la raccolta dei dati è conclusa, il materiale a disposizione viene in pri-mo luogo utilizzato per la creazione di carte preliminari contenenti la posizione approssimativa dei siti. Questo tipo di impostazione non presenta una fase d’analisi dei dati che preveda uno studio della distri-

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buzione nel tempo dei siti archeologici, e che contempli una sintesi e una definizione dei modelli di insediamento.

A livello macro-areale, su un campione di pochi chilometri quadra-ti può esser individuato un elevato numero di siti archeologici che si assommano a quelli riscontrati nelle fonti d’archivio. Una simile quan-tità di informazioni da sottoporre ad un attento esame avvalendosi solo dell’ausilio di schede e mappe cartacee richiederebbe tempistiche che l’archeologo e i tempi di editazione dei dati non possono permettersi. Ma per comprendere appieno la natura del concetto di GIS bisogna per un attimo rivolgere lo sguardo al passato. All’inizio del lungo percor-so seguito alla nascita dei sistemi informativi territoriali l’approccio iniziale era basato sullo sviluppo e sulla creazione di ipertesti. La scel-ta di questo tipo di applicazioni dipendeva dal bisogno del topografo di creare un’interazione tra cartografia e sistema di archiviazione dei dati.

Gli ipertesti hanno oggi una grande diffusione; portarono e porta-no alla creazione di banche dati che si avvalgono di links tra schede e carta topografica. Tale risultati non si potevano conseguire con l’uti-lizzo di un normale database, perché pur essendo in grado di gestire la schedatura di tipo alfa-numerico, non consentiva l’integrazione di sup-porti cartografici per uno sfruttamento attivo. I sistemi CAD, d’altro canto, non consentivano la creazione di archivi. La maggior parte dei progetti nati all’interno di applicazioni ipertestuali rimasero bloccati o comunque non raggiunsero un accettabile livello di sviluppo. Esiste da sempre un difficile rapporto tra archeologia e informatica, anche per la mancanza di conoscenza e specializzazione necessarie all’utente che non desideri sfruttare fino in fondo le potenzialità della macchina, ma ottenere dei risultati accettabili.

Sono molte le caratteristiche degli ipertesti che non consentono una corretta impostazione di un progetto per l’archiviazione e l’analisi dei dati prodotti dallo studio del territorio:

• difficoltà e complessità nella programmazione e nei linguaggi del-le applicazioni;

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• la velocità degli ipertesti risente notevolmente delle grosse masse di dati;

• incompatibilità con altre soluzioni ipertestuali o banche dati;• impossibilità della gestione di cartografia vettoriale;• inesistenza di funzioni di overlay topologico;• gestione empirica e non diretta della cartografia raster;• mancanza di algoritmi propri della cartografia e dell'analisi spa-

ziale.

L’utilizzo di sistemi in grado di manipolare e di servirsi di infor-mazioni cartografiche “pure” arrivarono nell’ambito dell’archeologia circa una ventina di anni fa ed in particolare nell’ambito statunitense e britannico, dato che l’archeologia di questi paesi può contare sulla grande esperienza di avanguardia nel campo dei sistemi di informazio-ne geografica d’ambito militare.

La prima esperienza archeologica di utilizzo di un sistema di in-formazione geografica per lo studio di un territorio fu il Granite Reef project realizzato per alcune aree statunitensi.

L’applicazione fu sviluppata per lo studio dell’incidenza dei fat-tori geomorfologici sull’insediamento antico. Era dotato di una serie di layers che consentivano la combinazione di attributi come terreni, geologia, isoiete, temperatura ecc… Il Granite Reef Project nasceva quasi venti anni dopo la formulazione del concetto di GIS a dimostra-zione della difficoltà di comunicazione tra il mondo dell’informatica e quello dell’archeologia. Questo esempio ci permette di rilevare dei fattori negativi.

Il primo è che tale progetto non fu causa diretta della nascita di nuovi progetti per la ragione che è già stata accennata precedentemen-te: il forte ermetismo del mondo archeologico nei confronti delle di-verse esperienze informatiche. Proprio a causa di questa caratteristica negativa del campo archeologico ancora oggi si percorrono strade sba-gliate per lo studio del territorio, come quella dell’uso dello strumen-to ipertestuale, o come quella dell’utilizzo dei GIS limitatamente alla funzione di grandi “calderoni” in cui riversare solo una certa tipologia di informazioni, o come quella che porta a non intendere il GIS come

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uno strumento di studio attivo per la comprensione topografica e geo-morfologia di un contesto territoriale in ambiti di studi di topografia antica anche attraverso la sua interpolazione con la tecnologia GPS. Il secondo elemento negativo che si nota è il fatto che agli inizi degli anni Ottanta la tecnologia GIS non forniva al mercato strumenti utili agli archeologi che consentissero un approccio scientifico valido, co-stringendoli a dover compilare i necessari algoritmi e programmi.

Le applicazioni e le esperienze sorte nella prima parte degli anni ottanta riguardavano studi di trend surface analysis e pattern seeking per la creazione di modelli di insediamenti. I dati raccolti sul campo e collocati su una griglia servivano per il calcolo del grado di probabilità della presenza o meno di siti nelle celle non indagate. Presto, con la nascita di pacchetti software commerciali si iniziò a concepire il con-cetto di GIS anche nella ricerca archeologica. È necessario sottolinea-re che risulta fondamentale un’accurata selezione del materiale prima dell’acquisto di un pacchetto commerciale, quindi l’adozione di una soluzione definitiva giacché un pacchetto commerciale non può essere comunque in grado di soddisfare completamente le peculiari richieste e specifiche necessità.

È normale che in questo quadro, per la ricerca archeologica, tutte le più innovative applicazioni informatiche e le possibilità di elabora-zione dei dati offerte dall’utilizzo di calcolatori, processori e pacchetti software, rivestano un ruolo di grande importanza.

In quest’ottica si deve pertanto specificare che i dati inseriti in un GIS sono di due tipi: indicazioni sulla posizione, forma e dimensione degli oggetti, che si ricavano dalla cartografia di base, prodotta dagli enti statali o da rilievi appositamente eseguiti ad integrazione della pri-ma; altre informazioni di carattere tematico, collazionate o reperite in vario modo e che descrivono le quantità e le qualità degli oggetti, ovve-ro i loro attributi. I software GIS sono stati creati per compiere opera-zioni di analisi spaziale e la loro caratteristica principale è la capacità di integrare i dati spaziali ed i loro attributi, di elaborare analisi statistiche e topologiche.

Con l’utilizzo di un applicativo GIS si possono compiere alcune ope-razioni standard sui dati, che possono essere riassunte in quattro insie-

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mi, dalle più semplici alle più complesse: azioni sui dati, operazioni statistiche, operazioni grafiche ed analisi spaziali avanzate. Per funzio-nare, i GIS utilizzano database con determinate specifiche, i cosiddetti DBMS (Database Management System). Il più utilizzato di tali data-base è quello che si basa sul sistema razionale; le interrogazioni sono formulate con l’SQL (Spatial Query Language), mediante il quale delle tabelle vengono collegate o sovrapposte, in modo tale da comparare più campi di dati.

Tecnicamente gli applicativi GIS sono stati realizzati sulla base di programmi definiti CAM (Computer Aided Mapping), le cui funzio-nalità erano molto più limitate. Esistono due modelli di dati in ambito GIS: il dato vettoriale e quello raster. Il primo è il più accurato poiché presuppone la collocazione degli oggetti in un sistema di riferimento (locale o geografico) di natura informatica non fisicamente deformabile al mutamento della scala d’osservazione territoriale. I dati gestiti da questo tipo di GIS possono esser compresi in tre tipologie di oggetti: punti, linee e poligoni (o aree), definiti da coordinate (x, y, z) ed attri-buti.

Per esempio un frammento osseo in un determinato contesto stra-tigrafico può essere individuato mediante le coordinate del punto di rinvenimento e da un numero di inventario; il tracciato di un acque-dotto potrà essere individuato mediante una stringa di coordinate, così come un’area necropolica può essere definita dal poligono che la deli-mita; inoltre a questi dati possono essere relazionati altri attributi visivi. L’impostazione è simile a quella dei CAD (con cui tra l’altro i GIS sono ampiamente interfacciabili) ma ne differiscono per le possibilità di ricerca e query.

I dati vettoriali occupano poca memoria e possono essere implemen-tati su macchine notebook da campo. Il modello di dati raster (tipo le immagini TIFF o JPEG) invece prevede che lo spazio interno al dato stesso sia suddiviso in celle mediante una griglia a distribuzione costan-te, per cui la localizzazione di una cella avviene indicando il numero della riga e della colonna. In questo modello il punto corrisponde ad una cella, la linea ad una stringa di celle contigue e l’area ad un gruppo di celle. La dimensione da attribuire a ciascuna cella va scelta in base

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alla quantità delle informazioni da gestire ed in base al tipo di dati che si intende analizzare.

La georeferenzazione di questo tipo di dati si può espletare speci-ficando il sistema di coordinate scelto, l’orientamento e le coordinate della cella che si vogliono ottenere, la grandezza delle celle. Tali dati occupano molta memoria per cui rendono più lenta e macchinosa la gestione delle informazioni. Inoltre mentre fino a poco tempo fa i due livelli erano del tutto incompatibili, adesso quest’ostacolo è stato supe-rato, per cui si possono utilizzare entrambi i tipi di dati contemporanea-mente qualora sia necessario. In ogni caso la scelta dell’uno o dell’altro modello deve esser fatta in base alla qualità dei dati che si desidera analizzare.

Il modello vettoriale è insostituibile qualora si intendano realizzare cartografie di alta qualità, corredate di dati spaziali georeferenziati, ma-gari concernenti ambiti territoriali sub-regionali o di scavo. Il modello raster è altresì indispensabile qualora si debbano analizzare tipologie informative di cui è difficile dare una definizione spaziale precisa, per esempio i dati riguardanti l’ambiente o riguardanti la geomorfologia, come i DEM (Digital Elevation Model) o i DTM (Digital Terrain Mo-del)4 che rappresentano nello spazio le mutazioni della superficie del suolo.

Allo stato attuale gli applicativi GIS vengono utilizzati per gestire le informazioni provenienti dalle indagini territoriali e per quelle prove-nienti dagli scavi: in entrambi i casi, i dati sono cartografabili perché definiti da coordinate spaziali. Si può certo affermare che disponendo di rilievi calcolati in coordinate e di cartografie numeriche, la gestione tramite GIS vettoriale è una soluzione ottima e per certi versi ormai scontata, date le facilitazioni che offre l’elaborazione5.

Nel corso di indagini territoriali, un livello minimo di analisi spa-ziale, adatto a sopperire ad esigenze gestionali, consiste nel correlare il contesto topografico ai rinvenimenti che individuano i vari temati-smi di carattere archeologico (reperti, infrastrutture, viabilità antica, complessi monumentali e così via); un livello superiore di elaborazio-

4. foTherinGham - roGerson 1994, pp. 54-72.5. valenTi 1998, pp. 305-329; id., ibid., 11.

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Figura 45. Esempio di overlay tipologico: aerofotocarta 1:10.000 sovrapposta al PRG dell’area di Alcamo Marina.

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ne dei dati è rappresentato da indagini statistiche sulla localizzazione dei siti, in rapporto al contesto ambientale e sulle influenze che que-sto ha sull’insediamento umano sul territorio (locational analysis), e/o dall’elaborazione di modelli predittivi per evidenziare le potenzialità e le caratteristiche dei bacini archeologici, ai fini di ricerca e tutela. In fase di scavo gli applicativi GIS consentono di gestire tutta la documen-tazione planimetrica, generale e di dettaglio, correlata alla banca dati schedografica, per la creazione di piante di fase o di periodo e/o per in-dagini statistiche sulle caratteristiche delle stratificazioni (analisi quan-titative sulle presenze di classi di reperti in strato, distribuzione spaziale dei reperti, ecc…). In questo specifico settore, una delle migliori ed utili potenzialità degli applicativi GIS è data dalla possibilità di creare rap-presentazioni tridimensionali delle stratificazioni archeologiche.

In questo quadro generale si evince che sono enormi le potenzialità che le piattaforme GIS mostrano di possedere; sono uno strumento che permette di analizzare e rappresentare in modo simbolico tutto ciò che accade ed è accaduto sul territorio, mediante la creazione di cartografie tematiche sia in 2D che in 3D, superando il gap di cui abbiamo già par-lato a proposito dei limiti dell’utilizzo separato di ipertesti e dati CAD. In pratica i software GIS riescono principalmente a far interagire i due livelli (il livello di ricerca/interrogazione e quello grafico/topografico) di analisi.

È una novità degli ultimi anni lo sfruttamento del GIS nel conte-sto della ricerca archeologica, ma questo breve lasso di tempo d’ap-plicazione è già stato sufficiente a mostrare quanto le piattaforme GIS possano essere decisive nel campo dello studio dell’archeologia, della topografia antica ed in quello delle tutela/salvaguardia di un territorio “ad alto potenziale archeologico”.

La fase preliminare della creazione di un supporto GIS consiste nella raccolta dei dati. Se ci si trova a dover creare una piattaforma GIS delle aree di scavo di un sito archeologico e del suo comprensorio topogra-fico, l’operazione preliminare da compiere consisterà nello scegliere quale tipo d’informazione dovrà essere visualizzata sulla cartografia informativa che andremo ad elaborare.

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Una volta scelti i contesti che dovranno comparire rappresentati sul supporto cartografico in via di realizzazione, passeremo alla fase della raccolta dei dati di pertinenza di questi ambiti fisici da noi selezionati per essere rappresentati.

Una cartografia di questo genere, per esempio, potrebbe rappresenta-re all’interno di un sito di scavo tutte le aree di distribuzione dei reperti organici, dei reperti ceramici, dei reperti vitrei, di quelli numismatici, delle strutture murarie divise per periodo di edificazione; potrebbe per-mettere lo studio topografico della zona e del sito con la creazione di supporti topografici dai dati di rilievo; infine permettere l’inserimento e la contestualizzazione di tutte le informazioni nelle reti cartografiche ufficiali grazie al valore assoluto dei dati di rilievo raccolti mediante GPS ed alla georeferenzazione del contesto d’interesse.

La base fisica per elaborare tutto lo strumento GIS può essere formata da sezioni scansionate di cartografie IGM, di Carte Tecniche Regionali, da piante di scavo, realizzate a mano o con l’ausilio di sistemi CAD, da ortofotogrammi, da fotografie satellitari; prodotti precedentemente e preliminarmente georeferenziati. Infatti tutti i software che vengono utilizzati per la produzione di GIS hanno al loro interno supporti che permettono la lettura e l’utilizzo di file grafici o di immagini di diversa estensione e natura (file CAD, JPG, BITMAP, GIF, 3D, ecc…).

In fase di realizzazione pratica vi sono precise modalità con cui le aree verranno rappresentate attraverso l’applicativo GIS. Nel momento in si creano i limiti dell’area di distribuzione di un certa tipologia di re-perti, il software crea automaticamente una scheda di dati tabellari nella quale immetteremo tutti gli attributi dell’area in esame; attributi in base ai quali quest’area verrà qualificata e rappresentata mediante colori o simboli. Sono, queste schede di dati tabellari, uno degli elementi più importanti nella fase di creazione del supporto GIS; esse infatti permet-tono di riversare nel software tutti i dati pertinenti una determinata area. Inoltre all’interno del supporto i risultati dei rilievi effettuati verranno inseriti mediante funzioni per cui sarà possibile visualizzare grafica-mente il rilievo inserito nel contesto geo-cartografico.

Come accennato, i moderni software di GIS creating permettono or-mai non solo la visualizzazione, ma anche l’elaborazione dei dati di

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rilievo, cioè il post processing dei dati rilevati sul campo divenendo così anche software topografici. Nell’ambito della cartografia creata si ha la possibilità aggiuntiva di far sì che all’interno dell’area di distribu-zione di reperti si distinguano, mediante alternanze di colore, le zone con quantità diverse di reperti stessi.

Per esempio: in rosso le zone che contengono da 1 a 100 reperti, in giallo la zona che contiene da 101 a 201 reperti e così via in modo tale da avere presente, anche visivamente, la situazione distribuzionale sul terreno.

Sui supporti cartografici utilizzati come base di un GIS (rilievi, carte IGM, le CTR, ecc…), si potrà segnare (o disegnare) graficamente tutti gli elementi non presenti su questa, ma che sono stati individuati sul ter-reno (strade, pozzi, ecc…) durante la fase ricognitiva e di rilevamento preliminare.

Il risultato finale consisterà in una carta già costituita all’interno del-la quale, a richiesta mediante i menù del software, si potrà far comparire le aree d’interesse create in base ai parametri scelti ed alle informazioni inserite. Da ciò si evince come nel percorso di assemblamento di una piattaforma GIS vi sia comunque un elemento di errore e di soggetti-vità, imposto dalla constatazione che la strumentazione di rilievo deve essere settata o può risentire di altri fattori d’errore, e dato che ci si basa su informazioni raccolte sul campo da persone che nell’atto stesso di censire o meno un dato frammento di ceramica, per ipotesi, introducono un elemento di “errore soggettivo indotto”.

La realizzazione pratica dei sistemi geografici informativi (che pos-sono essere considerati come una nuova metodologia di catalogazione, di analisi spaziale e di manipolazione delle informazioni archeologiche e topografiche) ha come base imprescindibile un lavoro di raccolta dei dati senza il quale il sistema informativo non può essere approntato e che fa del GIS stesso uno dei più importanti supporti informatici della ricerca archeologico-topografica.

Si nota dunque che la tecnologia del GIS può rivestire un ruolo fon-damentale, sia per quanto concerne la pratica della ricerca archeologica in senso stretto (cioè per lo svolgimento di campagne di scavi, rico-gnizioni, rilevamenti, per la fase “pubblicativa” di queste operazioni,

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ecc…) sia per quanto riguarda l’ambito della tutela e della salvaguardia di quei territori che in base alle ricognizioni o ad altre prospezioni di su-perficie possano essersi rivelate come zone “ad alto potenziale archeo-logico”. I sistemi informativi territoriali approntati per fini archeologici si rivelano di fondamentale importanza nella fase preliminare dello stu-dio di un determinato territorio, nella realizzazione di studi sull’impatto ambientale che opere, per così dire, “moderne e contemporanee”, po-trebbero avere sulle porzioni geografiche da tutelare o investigare. Per la realizzazione delle piattaforme GIS esistono in commercio pacchetti software di ottima qualità e che utilizzano parametri (misure lineari, misure angolari, sistemi di proiezione ortogonale cartografica, ecc…) riconosciuti a livello mondiale, fattore questo che rende le cartografie e le banche dati, riconoscibili e valide in tutto il mondo, e che permettono anche il post processing dei dati di rilievo di dettagli e topografico.

In questo quadro di composite tecniche, tecnologie e metodologie sussidiarie alla ricerca topografica, punteremo la nostra attenzione su quel banco di prova rappresentato dalla campagna di studio e ricerca archeologica che dal settembre 2003 si sta svolgendo sul sito archeo-logico individuato in Contrada Foggia, tra i centri di Alcamo Marina e Castellammare del Golfo. Dal punto di vista morfologico la fascia tra Alcamo e la costa si presenta caratterizzata da un assetto idrogeologico strutturato in terrazzi marini d’età pleistocenica scavati ed erosi da cor-si fluviali per lo più scomparsi. Questi terrazzamenti, anche a causa di movimenti di natura tettonica, si mostrano oggi come zone sopraele-vate rispetto alle “inter-valli” fluviali presentando così i requisiti ideali per l’insediamento umano e l’antropizzazione in generale.

Si tratta infatti di siti posti altimetricamente su di un livello superio-re rispetto al piano fluviale circostante, “immuni” quindi da eventuali alluvioni ed esondazioni ed anche molto ben difendibili; essendo con-formazioni geologiche di carattere prettamente fluviale, si presentano costituite da terreni altamente argillosi ed arricchiti da limi fluviali che rendono tali zone molto fertili ai fini dello sfruttamento agricolo.

Questo tipo di ricostruzione sembra esser avvalorata dal dato ar-cheologico: segnalazioni di pochi anni fa6, riportano dati circa la pre-

6. filiPPi 1996, pp. 5-28.

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senza di resti di un probabile insediamento preistorico, databile grosso modo tra la fine del Paleolitico e l’inizio del Mesolitico, al di sopra del terrazzo che corre tra Alcamo e la costa. Questo elemento pare confer-mato dalla presenza, sulla cresta sommitale del terrazzo, di un esteso alone superficiale di reperti. A conferma dell’ipotetica ricostruzione sin qui elaborata si è notato che il crinale terrazzato è interessato dalla presenza di un antico diverticolo che da Alcamo conduceva alla costa, e che le fonti ufficiali citano con il toponimo di “Regia Trazzera Alca-mo - Castellammare” d’età borbonica.

A poca distanza (m. 102 per l’esattezza), oltre il terrazzo mari-no posto in direzione nord-ovest, corre il letto del fiume San Bartolo-meo, il cui corso in epoca antica era verosimilmente più vicino al sito. I fiumi che segnano ed erodono le vallate comprese tra i terrazzi sono ormai quasi tutti scomparsi con alcune eccezioni.

Tra queste si segnala per l’appunto il fiume San Bartolomeo il qua-le con molta probabilità ha inciso una delle due valli interessate dalle indagini archeologico-topografiche. La valletta in cui è allocato il sito di ritrovamento delle fornaci, invece, è interessata dal tracciato di un esile canale, il Molinello, che nasce all’incirca a metà del percorso seguito da una delle due valli provenienti da Alcamo. Questo canale, da una prima analisi del contesto idrografico, non sembra poter essere stato il principale fattore erosivo della depressione in cui sono state rinvenute le aree di produzione, sia perché si tratta di un corso idrico alimentato con acque di deflusso dei terreni coltivati al sommo dei terrazzi marini, quindi con una portata detritica ed idrica insufficiente per tale erosione, sia perché nessuna delle fonti consultate cita questo torrente. In virtù di questi dati si è portati ad ipotizzare che in epoca antica il corso finale del San Bartolomeo si presentasse molto più ra-mificato ed ampio, tanto da giustificare l’ipotesi di un antico estuario a delta incuneato tra le sopraelevazioni che oggi si presentano come gli alti terrazzi pleistocenici (nei punti più alti raggiungono i m. 70 di altezza s.l.m.), che in parte interessava la valle in cui si trovano le fornaci. Il percorso di questo fiume prende la denominazione di San Bartolomeo soltanto nel suo tratto finale, cioè in quello che ha inizio alle spalle delle colline su cui è situata Alcamo.

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Risalendo il corso del fiume verso l’entroterra è possibile notare come esso subisca, all’altezza di Alcamo, una biforcazione che com-porta anche una modificazione toponomastica, facendo sì che il ramo fluviale che prosegue verso ovest, cioè verso Segesta, sia denominato fiume Caldo, mentre il ramo che verso sud si indirizza internamen-te sia denominato fiume Freddo. Entrambi i rami che danno vita al San Bartolomeo nascono sulle alture dell’impervia Sicilia centro-oc-cidentale. La toponomastica del San Bartolomeo, secondo il Massa7, pare sia legata ad un’antica chiesetta dedicata al santo eponimo, posta, come sembra, nei pressi della foce del fiume. Invero nessuna delle ricognizioni compiute ha mai rintracciato le eventuali vestigia di sud-detto luogo di culto, per cui la notizia riportata dalla fonte rimane, ad oggi, priva di dimostrazioni sul campo. Il fiume nel suo tratto finale si presenta oggi placidamente disteso nella valletta situata ad est del terrazzo che ingloba il sito. Il suo alveo è probabilmente più ristretto rispetto al passato, infatti il Massa riporta nel testo la notizia che il fiume ed il suo delta fossero non solo ben visibili dal mare, ma che il fiume “…entrasse in mare sì copioso, che vi procaccerebbe acqua un’Armata”. La notizia non fa che confermare l’ipotesi che il fiume avesse in passato una portata ben maggiore di quella attuale, che il suo alveo fosse molto più ampio e ramificato e che soprattutto, proprio per la grande portata idrica, possa aver profondamente inciso sull’orogra-fia locale. Il dato può esser confermato dall’individuazione, all’interno della valle di scorrimento del San Bartolomeo, di un paleoalveo che con ogni probabilità lambiva il versante est del terrazzo pleistocenico al di là del quale si trova l’area officinale.

A latere dell’ordinaria attività di studio bibliografico, scavo e rico-gnizione archeologica, si è impostata qui una particolare attività di ri-cognizione e rilievo topografico e di dettaglio che vede l’applicazione e la sperimentazione di nuove tecnologie “importate” dall’orizzonte dei rilievi catastali, affiancato dall’usuale utilizzo delle classiche tecni-che del rilievo archeologico, sia diretto che indiretto.

Nel contesto dell’attuale ricerca le operazioni di survey topografi-co si stanno svolgendo, a livello micro-zonale, all’interno della depres-

7. massa 1709, Vol. I, pp. 35-37.

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Figura 46. Cartografia vettoriale creata in GIS con utilizzo di GPS: si notano le aree di dispersione ceramica, l’area delle fornaci, il San Bartolomeo ed il paleoalveo.

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sione in cui è stato rinvenuto il sito e nel contesto del vigneto adiacente lo scavo, mentre ad un livello macro-zonale esse stanno interessando il comprensorio topografico posto tra l’odierna Alcamo e la fascia co-stiera, con una specifica attenzione anche alla zona di Castellamare del Golfo. Nel particolare caso di Contrada Foggia, in un primo momento si è provveduto ad un’analisi autoptica dell’area descritta per poter definire i margini massimali che avrebbero racchiuso l’area da rilevare topograficamente. Tale operazione si è resa necessaria per realizzare un’analisi iniziale, basata su un primo censimento dei reperti di su-perficie e su una primaria individuazione delle vie di collegamento, in base alla quale individuare l’area di approvvigionamento per elementi utili alla funzionalità produttiva del settore officinale.

Per questo motivo i limiti del primo survey topografico, seguito dai rilevamenti satellitari, sono stati fissati nel San Bartolomeo a nord-ovest, nel terrazzo marino che chiude l’area ad est, nel restringimento della depressione a sud delle fornaci, con la linea di costa limite fisso a nord. Per lo scopo si è tenuto conto di quelle che potrebbero esser state le necessità fondamentali per una siffata area officinale: l’acqua, l’argilla, la vicinanza di percorsi verso l’interno, la reperibilità di ele-menti di combustione, di elementi materiali per l’edificazione delle in-frastrutture utili ad un’area di produzione e lo stoccaggio delle materie prime per la manifattura del prodotto. Dopo aver individuato i limiti anche in cartografia, questi sono stati fissati mediante una prima rete di punti geodetici elaborata attraverso la strumentazione GPS. Con-testualmente si è provveduto alla localizzazione dei punti trigonome-trici di I e II ordine nell’area di Alcamo in modo da poter mettere in relazione tutti i livelli di elaborazione topografica. La maglia di punti così rilevati è stata utilizzata per la georeferenzazione delle cartografie al fine dell’implementazione nel GIS e verrà altresì utilizzata come base per la “mappatura” del terreno che verrà realizzata attraverso la strumentazione GPS. Uno degli scopi primari del survey topografico sarà dunque quello di creare le basi per la successiva elaborazione dei modelli digitali del terreno di tutto il plesso topografico, oltre che della zona prossima alle fornaci.

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In previsione dell’elaborazione dei modelli digitali, nel corso di queste tre campagne di studio è stata effettuata, in via sperimenta-le, una prima levata di rilevamenti mediante la strumentazione GPS. L’obbiettivo è ottenere quello che in gergo tecnico è definito un “fitto-rittagliato”, cioè stringhe di file alfanumerici contenenti le coordinate assolute in latitudine, longitudine ed altitudine dei punti rilevati sul terreno, ovvero le informazioni relative al “dialogo” tra i satelliti ed il ricevitore. Maggiore è la quantità di punti rilevati, più fitta è la se-quenza dei punti rilevati a terra, più preciso sarà il successivo model-lo digitale. Un risultato conseguito grazie all’applicazione di questo metodo è stato quello di chiarire un particolare aspetto riguardante la micro-viabilità dell’area. Infatti sulla cartografia CTR utilizzata come base di lavoro si nota il tracciato di una via trazzerale che però non è più visibile sul terreno. La prima osservazione di questo particolare aveva fatto ipotizzare che tale via passasse al di sopra del livello di vita delle fornaci per cui sarebbe stato utile contestualizzarla nell’ambito delle fasi antropiche successive alle fornaci. In un secondo momento, invece, conseguentemente alla georeferenzazione della cartografia ed al relativo posizionamento satellitare delle fornaci in cartografia, si è potuto appurare che l’eventuale percorso di questo asse non “tagliava” l’area, bensì la lambiva, passandole accanto e tenendo come limite sinistro la circonferenza di quella che è stata definita come fornace “B”. I prossimi sondaggi chiariranno le situazioni descritte, ma già sin da questo preliminare livello di analisi è possibile arguire quale sia la potenzialità di questo tipo di implementazione del dato rilevato.

Nell’ambito della missione archeologica è anche in via di realizza-zione una piattaforma GIS dell’area a carattere eminentemente archeo-logico, strutturata su più livelli di analisi: scavo, ricognizione archeo-logica, raccolta di informazioni locali, rilievo topografico intensivo, ricerca bibliografica. Il sistema agisce mediante l’analisi e la fusione di tre tipologie di informazioni: quelle cartografiche in senso lato, quelle tabellari e quelle grafiche8.

Il fulcro del sistema è costituito dall’assemblaggio integrato dei dati riguardanti scavo e territorio interessato dalle ricerche; uno strumento

8. allen et Alii 1990, pp. 83-132.

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Figura 47. Overlay tra aerofotocarta 1:10.000 e cartografia vettoriale: grazie alla georeferenziazione ed al posizionamento delle fornaci, si è appurato che l’eventuale percorso della “Regia Trazzera Alcamo-Castellamare” non tagliava l’area, ma la lam-biva, passandole accanto e tenendo come limite la circonferenza della fornace “B”.

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contenente, allo stato per così dire “informatico”, la cospicua mole di materiale informativo prodotto dagli scavi e dal survey archeologico (schede US, schede RA, schede USM, rilievi di dettaglio, planime-trie generali, di fase, di periodo, raster della cartografia acquisita nelle scale utili allo scavo, catalogo ed inventario di tutte le tipologie di re-perti, ecc…). Il GIS diviene il nucleo centripeto della ricerca, con una piattaforma che, la più flessibile e potente possibile, dovrà rispettare le caratteristiche di versatilità e modularità nella gestione e archiviazione dei dati, fermi restando i parametri di espandibilità e potenzialità.

Le ipotesi ricostruttive del paleoambiente elaborate attraverso l’in-tegrazione GIS-GPS potrebbero chiarire se è plausibile ipotizzare un diverso andamento degli alvei in epoca antica, e se questi andamenti fossero relazionabili e compatibili con eventuali infrastrutture di addu-zione e trasporto idrico verso l’area di lavoro delle fornaci. Questo tipo di approccio alla lettura del terreno è in corso di applicazione anche su di una interessante area immediatamente a ridosso dell’attuale linea fluviale che, dall’analisi dell’aerofogrammetria, sembra far emergere la presenza di strutture sepolte (una conferma potrà eventualmente es-sere fornita dall’analisi dei DTM in corso di elaborazione per lo studio del micro rilievo).

Un altro esempio, che può esemplificare i positivi riscontri otte-nibili attraverso il vicendevole utilizzo del sistema GPS e del GIS, può essere dato dai risultati ottenuti, anche dal punto di vista grafico e topografico, nel corso delle operazioni di field walking svoltesi all’in-terno del vigneto in C/da Foggia, adiacente l’area di produzione, con il fine ultimo di rilevare quantitativamente e qualitativamente il cospicuo alone ceramico presente, in un’area di m. 50 x 50, all’interno dei filari della vigna e che sembra di certo esser in stretta correlazione con le fornaci stesse.

La georeferenzazione delle carte di quadrato e quadrante, sulle quali sono state disegnate a mano tutte le posizioni e le tipologie cera-miche visibili sul terreno, ha permesso la creazione, attraverso il CAD del GIS, di una completa cartografia vettoriale interrogabile per classe ceramica. Tale cartografia permette anche di studiare topograficamen-te l’andamento, la direzione e il legame del suddetto alone con l’area

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di posizionamento delle fornaci e con un settore particolare all’interno del vigneto, che dall’analisi dei primi DTM elaborati attraverso il GPS si era rivelato altimetricamente depresso rispetto al restante piano di campagna moderno. Tale depressione potrebbe esser dovuta alla pre-senza di strutture o di vuoti al di sotto delle quote moderne del terreno; questa ipotesi verrà verificata attraverso futuri sondaggi, ma sin d’ora l’utilizzo del GPS e la sua correlazione alla cartografia vettoriale av-valorano questa supposizione (v. Tavv. XV-XVI). La metodologia GIS combinata con la tecnologia GPS si sta rivelando di grande importanza anche nel formulare ipotesi di carattere topografico circa l’andamento delle murature divisorie delle fornaci e sulla posizione delle fornaci stesse.

Tutti i rilievi di dettaglio, sezioni e planimetrie, dopo esser stati ra-sterizzati vengono vettorializzati e georeferenziati ottenendo così una cartografia numerica che permette di ampliare i margini della ricerca topografica sul campo. Gli obbiettivi principali che si spera di raggiun-gere attraverso la soluzione GIS all’interno del lavoro in corso di svol-gimento presso Contrada Foggia, si innestano su due linee guida: la prima è quella di implementare all’interno della piattaforma GIS tutti i dati riguardanti il rilevamento topografico e di dettaglio realizzato con l’utilizzo della tecnologia GPS; l’altra è quella di utilizzare il GIS non solo come un grande “contenitore” di dati, ma anche come strumento attivo e specifico per la lettura/studio dei dati satellitari riguardanti il contesto archeologico ed il territorio in cui si contestualizza. In questa prospettiva di archeologia del paesaggio gli auspici della missione per queste prime fasi sono quelli di concludere il rilevamento satellitare dei vigneti posti all’interno dell’area di ricerca, ed in seconda battuta di ampliare il raggio d’azione tentando di mappare, mediante l’utilizzo del GPS, tutta la valletta inglobata tra i due terrazzi marini per il suc-cessivo sviluppo dei modelli digitali. La tecnologia GPS verrà altresì utilizzata per l’elaborazione in situ di rilievi di dettaglio.

Infatti oltre all’utilizzo dei classici strumenti di rilievo grafico (carta millimetrata, metro, scalimetro, matita, filo a piombo, stazione totale, ecc…) si sta sperimentando l’applicazione del metodo di rilevamento satellitare anche per l’elaborazione di piante di strato, e di planimetrie

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di dettaglio proprio per comprendere appieno i limiti o i margini di migliorabilità, non in sostituzione degli strumenti classici di rilievo ar-cheologico, ma per un’interagibilità strumentale tra diverse fasi di ana-lisi. Così i resti strutturali della fornace (i ricorsi testacei delle ghiere fa-centi parte della camera di cottura), i limiti di strato, le stratigrafie, sono state rilevati sia con il normale rilievo planimetrico su lucido in scala 1:20, sia mediante l’utilizzo del GPS, al fine di ottenere, oltre alle pla-nimetrie già georeferenziate, anche modelli vettoriali da implementare direttamente sul supporto e per riprodurre sul GIS lo scavo stratigrafico stesso per meglio comprendere situazioni e relazioni areali e spaziali tra i diversi strati antropici.

La filosofia sulla base della quale il GIS diviene strumento vivo di analisi e di pianificazione delle operazioni future impone delle ne-cessità. Queste si traducono nella scelta pratica di un’architettura ge-nerale e di alcuni software che soddisfano le caratteristiche richieste. I software che sono stati impiegati nella realizzazione del sistema in-tegrato, applicato ad Alcamo, si possono classificare in tre gruppi: 1) quelli destinati alla raccolta sul campo ed alla prima elaborazione dei dati; 2) quelli che contengono e rendono disponibili le informazioni per il sistema; 3) il software GIS vero e proprio, lo strumento d’anali-si, il punto d’arrivo nella catena di processing ed editing dei dati. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto e la georeferenzazione delle basi cartografiche si è optato in primis per TNSharc 4.1 Advanced© della Terranova. In seconda battuta si è puntato su MapInfo Professional 7.0© anche per la visualizzazione e la generazione dei DTM per via delle sue buone capacità d’analisi, favorite dai moduli aggiuntivi per visualizzare i rilievi in 3D eseguiti con GPS.

Per la gestione dei dati tabellari si è puntato, oltre che sugli stru-menti di elaborazione di database di TNSharc© e MapInfo©, anche su Microsoft Excel© ed Access©, capaci di gestire numerosi formati di importazione ed esportazione da altri database garantendo notevoli possibilità di interfacciatura ed acquisizione dati da altre fonti. Access in particolare è molto efficace nelle applicazioni ODBC ed è potente come analizzatore e gestore dei dati e generatore di query di ricerca. Inoltre i moderni applicativi GIS, dotati di ottimi strumenti topografi-

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ci, il loro utilizzo incrociato e l’utilizzo degli ultimi software specifi-camente topografici, consentono la creazione di una piattaforma GIS veramente completa, che contempli al suo interno le informazioni più disparate (dalla catalogazione al remote sensing) e che, soprattutto, possa essere utilizzata come strumento attivo ed altamente specialisti-co per la ricerca archeologico-topografica.

Appare chiaro che in quest’ottica assumono importanza tre ele-menti particolari: 1) la fase di post processing dei dati di campagna; 2) la qualità delle strumentazioni utilizzate per la raccolta dei dati (l’ap-parecchiatura GPS); 3) le risorse utilizzate per la post-elaborazione (gli applicativi GIS e topografici). Con il presente progetto si è iniziata un’opera di mappatura satellitare sia del comprensorio territoriale ge-nerale che dell’area in cui le fornaci e le infrastrutture sono state rinve-nute. Questa tipologia di dati verrà in un secondo momento elaborata mediante vari passaggi (dal ricevitore GPS ai fogli di calcolo Excel, per poi passare ai software GIS e topografici) i quali dovranno pro-durre, alla fine dell’iter, un modello grafico e numerico del territorio e del sito utile alla comprensione, mediante la creazione dei cosiddetti file TIN (Triangulated Irregular Network) finalizzati alla realizzazione di DTM (Digital Terrain Model) e DEM (Digital Elevation Model), della morfologia superficiale del terreno e da essa, di eventuali tracce di antropizzazione o di trasformazioni subite dal territorio in quell’in-terazione uomo/ambiente così importante per la topografia antica in particolare, e per l’archeologia in generale.

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claudio caPelli - michele Piazza *

Analisi minero-petrografiche su anfore Dressel 21-22 da Alcamo Marina

Due campioni (nn. 7440/65 e 7441/68), rappresentativi dell’insieme di anfore Dressel 21-22 rinvenute nelle strutture della c.d. fornace “B” ad Alcamo Marina, sono stati studiati al microscopio polarizzatore su sezione sottile.

Le analisi minero-petrografiche hanno evidenziato come, a parte al-cune differenze secondarie, i due impasti siano ben confrontabili, con-fermando l’omogeneità composizionale e tipologica dell’insieme os-servabile macroscopicamente.

La matrice è ferrica, ossidata omogeneamente in tutta la sezione tra-sversale dei manufatti, e parzialmente vetrificata.

Lo scheletro (v. Tavv. V-VI) presenta un grado di classazione piutto-sto elevato (tessitura iatale). La massa di fondo, di dimensioni inferiori a mm. 0,1 circa, molto abbondante, è costituita essenzialmente da gra-nuli angolosi di quarzo e da resti di microfossili calcarei (prevalente-mente foraminiferi, sia bentonici sia planctonici), quasi completamen-te dissociati dai processi di cottura e talora riempiti da ossidi/idrossidi di ferro. In percentuali accessorie od occasionali sono presenti biotite, mica bianca, feldspati, titanite, anfibolo e zircone.

La frazione maggiore è mediamente abbondante e presenta dimen-sioni principalmente comprese tra mm. 0,2 e 0,4-0,5 (massime fino a ol-tre mm. 1). Le inclusioni sono formate da: prevalenti granuli di quarzo (mono- e raramente policristallino, metamorfico) di forma da angolosa ad arrotondata (v. Tavv. V, a; VI, a) e con superfici spesso opache (vi-sibili allo stereomicroscopio), che suggeriscono una possibile origine eolica; subordinati frammenti di quarzo-areniti (con granuli di quarzo

* Dipartimento per lo Studio del Territorio e delle sue Risorse (DIP.TE.RIS.), Università degli Studi di Genova.

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Claudio Capelli - Michele Piazza172

spesso arrotondati; v. Tav. V, b), calcari (subarrotondati o subangolosi; in 7441 sono più abbondanti e di maggiori dimensioni, occasionalmen-te fino a mm. 2; v. Tav. VI, a) e selci (angolosi); rari clasti angolosi di clinopirosseno e plagioclasio (vulcanico); occasionali frammenti di spongoliti (ovvero selci costituite da dominanti spicole di spugna; v. Tav. VI, b). Ad eccezione dei litoclasti calcarei, in 7441 le inclusioni sabbiose mostrano dimensioni medie inferiori, ma sono più frequenti che in 7440.

Le caratteristiche composizionali degli impasti consentono di distin-guere facilmente la produzione di Dressel 21-22 di Alcamo da quella localizzata in Lazio o Campania, caratterizzata da impasti ricchi di ele-menti derivati dalle vulcaniti alcaline plio-pleistoceniche1.

Può essere attribuita allo stesso gruppo di Alcamo, invece, una serie di anfore rinvenute a Segesta ed in altre località siciliane2, caratterizzate da impasti la cui descrizione corrisponde a quanto osservato nel mate-riale oggetto di questo studio. Per tale produzione gli Autori avevano già ipotizzato, sulla base dei dati analitici integrati con quelli archeo-logici, un’origine regionale con uso di materie prime legate al Flysch Numidico.

Da questa analisi preliminare - in attesa di nuove ricerche più appro-fondite, che dovranno prendere in considerazione sia ceramiche di altri tipi e classi rinvenute nel sito produttivo, sia argille campionate nel ter-ritorio circostante - una produzione locale non può essere esclusa. In tal caso, le materie prime utilizzate sarebbero da ascrivere alle successioni sedimentarie pleistoceniche, largamente rappresentate nell’area, che colmano parzialmente il “Graben di Castellammare”. Tali successioni, che registrano una sedimentazione di ambiente prima marino e poi con-tinentale, sono essenzialmente costituite da depositi sciolti caratterizza-ti dalla diffusa presenza di sedimenti a dominante pelitica, spesso ricca in scheletro prevalentemente quarzoso3.

Il quarzo arrotondato caratterizzante la frazione maggiore del de-grassante delle anfore in oggetto è già stato attribuito da Alaimo et Alii

1. Peacock - William 1986, pp. 96-972. alaimo et Alii 1997, infra.3. mauz - renda 1991, pp. 167-180; iid., 1996 (carta geologica).

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Analisi minero-petrografiche su Dressel 21-22 173

(1997) al Flysch Numidico, che potrebbe aver alimentato, con il suo smantellamento, unità sedimentarie più recenti. Di più dubbia attribu-zione sono gli occasionali frammenti di spongoliti; ad un primo esame, questi potrebbero essere riferiti, unitamente ai litoclasti calcarei, alla detrizione delle unità di piattaforma carbonatica mesozoica affioranti nei rilievi circostanti il territorio di Alcamo4.

Infine, un dato da sottolineare, per evitare di incorrere in errori di at-tribuzione negli studi di provenienza nel caso di frammenti non discri-minabili tipologicamente, è la buona somiglianza (con lievi differenze composizionali e tessiturali) degli impasti delle anfore di Alcamo con quelli di molte produzioni nordafricane, caratterizzati dalla presenza dominante di quarzo eolico, talora associato a foraminiferi e a litoclasti calcarei5. Tali analogie sarebbero spiegabili dal fatto che il Flysch Nu-midico affiora sia in Sicilia, sia in Tunisia6.

4. mauz - renda 1996 (carta geologica).5. caPelli 2005, pp. 125-202.6. alaimo et Alii 1997, pp. 46-69; Guerrera et Alii 1992, pp. 217-253.

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cesare fiori *

Le fornaci romane di Alcamo Marina: analisi mineralogica di campioni di concotto e argilla

Le analisi effettuate avevano lo scopo di definire la composizione mineralogica dei campioni e, sulla base dei risultati, indicare un grado di trattamento termico subito dal materiale. Considerando che i ma-teriali esaminati sono in partenza (prima di aver subito un eventuale trattamento termico) argille montmorillonitico-caolinitiche1, contenen-ti una frazione calcarea (calcite) ed ossidi e ossidi idrati di ferro, le trasformazioni che subiscono in cottura possono in successione essere descritte come segue:

- perdita di acqua debolmente legata, entro 200°C;- deidratazione e ossidazione completa di ossidi di ferro, entro

400°C;- perdita di acqua di cristallizzazione (ossidrili) e conseguente distru-

zione del reticolo cristallino dei minerali argillosi, tra 500° e 700°C;- decomposizione della calcite in CaO e CO2 tra 700 e 800°C;- reazione dell’ossido di calcio con il materiale amorfo derivato da

distruzione dei minerali argillosi oltre 800°C e dalle seguenti reazioni:- formazione di fasi cristalline quali parawollastonite e gehlenite tra

800° e 900°C;- formazione di fasi cristalline quali plagioclasio calcico (anortite) e

diopside oltre 900°C.

La composizione mineralogica dei campioni è stata determinata tra-mite analisi in diffrattometria di raggi-X.

* Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Università di Bologna.

1. vincenzini - fiori 1977, pp. 253-268.

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Cesare Fiori176

Campione US 7

Si tratta di un materiale argilloso che ha subito una cottura a tem-peratura relativamente elevata. L’analisi diffrattometrica (v. Fig. 48) rivela infatti la presenza di minerali di neoformazione in cottura quali plagioclasio calcico e diopside, oltre alla relativa abbondanza di emati-te. Sono completamente assenti i minerali che costituivano la frazione argillosa del materiale prima della cottura, mentre è presente ancora una piccola quantità di calcite che può essere un residuo di quella contenuta nel materiale crudo o una fase di precipitazione secondaria. Le fasi di neoformazione indicano che è stata raggiunta una temperatura superio-re a 900°C.

Campioni US 48 e US 49

Il campione US 49 rappresenta un materiale che non mostra segni di un trattamento termico; può essere definito come un’argilla mista a residui di combustione carboniosi che conferiscono la colorazione nera al materiale stesso. La composizione mineralogica, determinata tramite diffrattometria di raggi-X (v. Fig. 49), mette in evidenza che si tratta di un’argilla montmorillonitica (o smectitica) che contiene anche una piccola quantità di caolinite; i minerali non argillosi sono costituiti pre-valentemente da quarzo, quantità minore di calcite e tracce di feldspato potassico, plagioclasio e ossidi di ferro. Sono state eseguite anche anali-si termiche (v. Fig. 50: termodifferenziale-DTA e termoponderale-TGA simultanee) che hanno permesso di confermare la presenza di materiale organico in parte carbonizzato in quantità di circa il 10%.

Sulla base dell’analisi diffrattometrica (v. Fig. 51), il campione US 48, con colorazione disomogenea dal rossiccio al grigio scuro, rappre-senta un materiale argilloso montmorillontico che ha subito in parte un riscaldamento a temperatura che può avere raggiunto quella di de-composizione della calcite (tra 700° e 800°C); infatti si rilevano solo tracce di calcite, mentre le argille circostanti contengono tale minerale in quantità discreta. I minerali non argillosi sono costituiti prevalente-

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Analisi mineralogica di campioni di concotto e argilla 177

mente da quarzo e, in quantità minore, da feldspato potassico (ortocla-sio). La parte del materiale che ha subito un riscaldamento significativo è rossastra. Il campione esaminato presenta, tuttavia, parti poco cotte di colore grigio scuro che contengono notevole quantità di montmorillo-nite inalterata.

Campione US 58

L’analisi diffrattometrica (v. Fig. 52) rivela che tratta di un’argil-la montmorillonitica (o smectitica) con presenza anche di caolinite; i minerali non argillosi sono costituiti prevalentemente da quarzo, con calcite e tracce di plagioclasio ed ematite. Il materiale ha risentito di un riscaldamento a temperatura relativamente bassa, inferiore a quella di decomposizione della calcite e della completa distruzione del reticolo dei minerali argillosi. La colorazione rossa è dovuta alla presenza di ematite e quindi alla deidratazione e completa ossidazione di ossidi di ferro, per cui la temperatura massima raggiunta può essere valutabile attorno a 400°C.

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Cesare Fiori178

Figura 48. Analisi in diffrattometria di raggi-X del campione US 7.

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Analisi mineralogica di campioni di concotto e argilla 179

Figura 49. Analisi in diffrattometria di raggi-X del campione US 49.

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Cesare Fiori180

Figura 50. Analisi termiche del campione US 49: termodifferenziale-DTA e termoponderale-TGA.

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Analisi mineralogica di campioni di concotto e argilla 181

Figura 51. Analisi in diffrattometria di raggi-X del campione US 48.

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Cesare Fiori182

Figura 52. Analisi in diffrattometria di raggi-X del campione US 58.

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205

Indici

Abinnericus, 90

Aerofotogrammetria, 150

Alcamo project, 32, 152

Alcolea del Rio, 95

Alessandria, 84

Algeciras (Spagna), 84, 87

Alone di distribuzione, 107, 110, 125, 135-137, 161, 167

Altino, 84

Ambiente C, 37, 40, 42, 54, 68, 69-72, 94

Ambiente D, 37, 40, 42, 58, 60, 71-72

Analfabeti del terzo millennio, 30

Anello distanziatore, 7, 46-49

Antiquarium (Palatino), 32

Antiquarium (Solunto), 86

Antiquarium (Terrasini), 86

Aquilî, 26

Archimede, 29

Arles, 84

Autoptiche e non autoptiche (anali-si), 32, 104-105, 109, 115-116, 164

Basic (linguaggio), 30

Belo, 83, 86-87

Beltran II A (anfore), 87

Bessales, 94

Binford (L.), 102

Bodrum, 84

Bolli laterizi, 7, 25-27, 84, 86-90

Boni (G.), 32

CAD, 141, 151, 154, 157-158, 167,

Cadus, 88-89

Caeionî Albini, 25-26

Caesilî, 26

Callender 4 (anfore), 88-89

Calotta, 19-20, 60, 67

CAM, 154

Camera di combustione, 14-15, 20, 36, 45-46, 49-51, 53-54, 69, 70

Camera di cottura, 20-21, 24, 42, 44-45, 49, 52, 54, 56-63, 67-68, 70, 72, 91, 169

Campionatura, 101, 105, 107, 123

Cartagine, 84

Castro Pretorio (Roma), 7, 89, 90

Catania, 85-87

Cetariae, 85, 90

Cetus, 7

Clarke (D. L.), 102

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Indici206

Cocciopesto, 71

Conductores, 25

Contrada Foggia (Alcamo), 12-14, 16, 19-20, 23, 25, 27, 32-33, 35, 72, 96, 117, 160, 164, 167-168

Crustae, 15, 50

Cumae (Cuma), 84, 88-91

Database, 9, 102-104, 121-122, 124-125, 132-134, 151, 154, 169

Diffrattometrica (analisi), 175-176, 178-179, 181-182

Dressel 1C (anfore), 87

Dressel 2-4 (anfore), 91

Dressel 12 (anfore), 87

Dressel 21-22 (anfore), 7-8, 21-23, 60, 64, 72-80, 82-91, 93, 171-172

Alcamo A (forma), 73-77, 82

Alcamo B (forma), 78, 82

Efeso, 22, 86

El Tejarillo, 95

Entella, 85, 86

Epistéme, 27-28, 30

Favignana, 22

Field walking, 104-105, 111, 120, 167

Fiume Caldo, 162

Fiume Freddo, 162

Flysch Numidico, 8, 23, 83, 172-173

Fornace “A”, 19-21, 25, 36-37, 39-41, 44, 46, 51, 53-54, 56-58, 70, 93

Fornace “B”, 18-19, 21, 37, 39-42, 45, 56-63, 65-68, 70, 72, 80, 90, 93, 107, 165-166, 171

Fornace “C”, 19

Fundus, 7, 96

Furnus, 49-50

Galilei (G.), 29

Garum, 7, 22, 90

GIS, funzionalità 28, 116, 130-135, 147-160, 163-170; metodologia 9, 17, 24, 27, 30-31, 124, 141

Ghiere della camera di cottura, 44-45, 56, 59, 67, 169

GPS, funzionalità 28, 127, 129-130, 141-146, 153, 163-170; metodolo-gia 9, 17, 24, 27, 30-31, 106, 147, 150

Graben di Castellammare, 172

Grado (relitto di), 84

Harris (matrix o diagramma di), 28, 36-37

Herculanum, 84

Hermeros (C. Cornelius), 90

Intensità (nella ricognizione archeo-logica), 103, 105, 110, 112, 116, 120

Ipercotti ceramici, 37, 41, 50, 52, 57, 60, 64, 92, 94, 102, 115, 132

Koyré (A.), 29

Lamboglia (N.), 32

Lampedusa, 85-86

Lateres crudi, 56, 59-60

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Indici 207

Levanzo, 22

Lione, 84, 93

Liquamen, 7, 90

Locres, 84

Lucus Augusti, 95

Luni, 84

Maes (bollo), 25-26

Maesia (gens), 7, 26-27

Maesii Titiani, 7, 23, 26-27

ramo macedone, 7

Macedonia, 7

Marsala (Lilybaeum), 7, 22, 26

Martres-de-Veyre, 46, 49, 54

Masada, 84

Microscopio polarizzatore, 171

Mineralogica (composizione), 175

Minero-petrografiche (analisi), 22, 171

Mljet, 84

Modello, 9-10, 16, 31, 101, 104, 107, 120, 123, 129, 133, 139, 170

Modî, 26

Molinello (canale), 15, 109, 161

Monte Iato, 84-85, 87, 91

Muffola (fornace a), 20-21, 54

Napoli, 84, 89

New technology, 30

Opus testaceum, 15, 49, 56

Orwell (G.), 30

Ostia, 84

Ostia LIV (anfore), 88

Otium, 30

Padova, 84

Palermo, 7, 26, 85

Piano di cottura, 19-20, 50, 52-54, 56

Picatianus (C. Maesius), 26-27

Pompei, 7-8, 84, 88-91

Port-La-Nautique, 88

Post processualista (archeologia), 30

Postumus (M. Curtius), 86

Praedium, 23

Praefurnium, 14, 19-20, 24, 36, 44-46, 48, 50, 56-57.

Punta Raisi, 12

Regia Trazzera Alcamo-Castellam-mare, 161, 166

Ricognizione di superficie, 102, 105-106, 108-112, 114, 116-122, 124-126, 130-132, 135-138, 148, 150, 162, 165

Rilevamento, 9, 17, 24, 27-28, 31, 105, 116, 127, 129-131, 139-146, 159, 168

Rilevanza (nella ricognizione archeo-logica), 116

Rilievo, 31-32, 114-115, 129-131, 136, 139-142, 145-147, 150, 158-162, 165, 169

Rischio archeologico, 102, 105, 107, 109, 111, 150

Roma, 7, 83-84, 89-91

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Indici208

Rover, 31, 145-146

Rubefazione, 15, 38, 45-46, 48, 54, 56, 60, 67, 73, 79,

San Bartolomeo (fiume), 8, 12, 15-16, 19, 35, 96, 97, 110, 138, 161-164

San Vito lo Capo, 12, 22, 85

Saragozza (Spagna), 83, 87-88

Scala grafica (concetto di), 111, 114, 127, 129-131, 135, 154, 169

Scarti di produzione, 38, 41, 49, 51, 62, 72-78, 81, 87, 91, 93-94, 102, 115, 132

Scombridi, 22

Segesta, 16, 85, 162, 172

Sēres, 27

Settefinestre, 84, 91

Sigillata (terra, ceramica), 21, 46, 54, 92, 94, 96

Silk Road, 27

Sistematiche e non sistematiche (ri-cognizioni), 105, 106

Solanto, 85-86

Solunto, 8, 86

Sophrosýne, 29

Stereomicroscopio, 171

Stereoscopica (lettura), 150

Strutture murarie, 35, 40-44, 57-58, 72, 101, 158

Suburbanitas, 24

Survey territoriale, 17, 24, 28, 102, 104-106, 116, 162, 164, 167

Symmachi, 25-26

Tèchne, 27-28, 30-31

Tèchne perì tòn bíon, 31

Termini Imerese (Thermae Hime-raeae), 7, 26, 85, 86

Termodifferenziale-DTA (analisi), 176, 180

Termoponderale-TGA (analisi), 176, 180

Terrasini, 85

Tituli picti, 21, 88-90

Total Station (stazione totale), 28-29, 106, 129, 140, 168

Fabii Titiani, 26

Tubuli fittili, 7, 20, 54-55, 94

Tunnidi, 22

Vendicari, 85-86

Vernice nera (ceramica a), 57, 92, 94

Vernice rossa (ceramica a), 57

Vibo Valentia, 84

Vilici, 25

Villa, 7, 23, 25-26, 91, 95

Viri clarissimi, 24-25

Visibilità (nella ricognizione archeo-logica), 109-110, 120-121, 123-124

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di gennaio del dalla «Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» Ariccia (RM) – via Quarto Negroni,

per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma