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EDITORIALE I pirati insubrici, storie del Verbano e del Lario 1 Oggi le acque dei nostri bellissimi laghi sono solcate dai placidi battelli della navigazione e, nei fine settimane estivi, da centinaia di roboanti e debordanti motoscafi. Difficile crederlo, ma 5- 600 anni fa ben altri tipi di navigli si sarebbero potuti avvistare al largo... quelli di pirati pronti all’arrembaggio! È a questi personaggi che dedichiamo lo speciale di questo numero. A ben guar- dare, per i più famosi di essi, i Mazzarditi di Cannobio o il Medeghino del Lario, l’appellativo di ‘pirata’ sta un po’ stretto, da un punto di vista storico. Si tratta infatti di individui che seppero ri- tagliarsi ruoli politico-militari specifici e importanti, all’interno del contesto politico dell’epoca, interagendo e rapportandosi direttamente con le autorità e le potenze dominati in quei secoli. Le loro vicende si possono leggere come singolari e affascinanti pagine di storia locale, all’inter- no di processi storici di più vasta e amplia portata che interessarono fasi critiche della vita del Ducato di Milano, come il tormentato periodo di transizione successiva a Gian Galeazzo Viscon- ti o il primo trentennio del Cinquecento che vide la fine della sua indipendenza, nonostante i “disperati tentativi” degli ultimi Sforza. Uno Stato, quello visconteo-sforzesco, definito “leggero” dagli storici ma, forse proprio per questo, più congeniale a cultura e mentalità dei Lombardi... Un’eredità che sarebbe opportuno valorizzare anche in chiave moderna. Tornando alla pirateria, essa fu fenomeno endemico e di lunga durata sui nostri laghi, autostrade d’acqua su cui veniva- no trasportate quantità enormi di merci, fino all’avvento delle prime vie ferrate e del motore a scoppio, destinate ad allettare molti, anche i malintenzionati. Ciò appare chiaro nel contributo di Roberto Corbella, al di là dell’alone leggendario che avvolge le figure dei suoi pirati. In ambito celtico presentiamo le nostre valutazioni sulla recente mostra svoltasi a Brescia che ha riguardato il ritrovamento di una tomba di guerriero cenomane di IV secolo a.C. Il focus si sofferma su Ezra Pound, protagonista della poesia del XX secolo a lungo “silenziato”, nonostante l’assoluto spessore artistico, a causa della sua fede politically uncorrect. Qui è presa in considerazio- ne la sua prima produzione poetica, oltre ai trentennali rapporti d’amicizia col lariano Carlo Li- nati, scrittore al quale - in occasione del festival Insubria terra d’Europa - abbiamo dedicato la pic- cola ma preziosa ristampa di un testo del 1939 dedicato alla Bretagna. Evento la cui terza edizio- ne si è conclusa con piena soddisfazione, come potrete leggere. Segnaliamo infine l’intervista a Paolo Pirola di Brianze, rivista che come noi ha appena doppiato la cinquantesima uscita e che mostra come difesa dell’ambiente e identità debbano necessariamente andare a braccetto, oltre le barriere ideologiche, per il bene della nostra terra, sempre più minacciata dalla cementificazione. Cari amici, a presto, al prossimo numero!

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EDITORIALE

I pirati insubrici, storie del Verbano e del Lario

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Oggi le acque dei nostri bellissimi laghi sono solcate dai placidi battelli della navigazione e, neifine settimane estivi, da centinaia di roboanti e debordanti motoscafi. Difficile crederlo, ma 5-600 anni fa ben altri tipi di navigli si sarebbero potuti avvistare al largo... quelli di pirati prontiall’arrembaggio! È a questi personaggi che dedichiamo lo speciale di questo numero. A ben guar-dare, per i più famosi di essi, i Mazzarditi di Cannobio o il Medeghino del Lario, l’appellativo di‘pirata’ sta un po’ stretto, da un punto di vista storico. Si tratta infatti di individui che seppero ri-tagliarsi ruoli politico-militari specifici e importanti, all’interno del contesto politico dell’epoca,interagendo e rapportandosi direttamente con le autorità e le potenze dominati in quei secoli.

Le loro vicende si possono leggere come singolari e affascinanti pagine di storia locale, all’inter-no di processi storici di più vasta e amplia portata che interessarono fasi critiche della vita delDucato di Milano, come il tormentato periodo di transizione successiva a Gian Galeazzo Viscon-ti o il primo trentennio del Cinquecento che vide la fine della sua indipendenza, nonostante i“disperati tentativi” degli ultimi Sforza. Uno Stato, quello visconteo-sforzesco, definito “leggero”dagli storici ma, forse proprio per questo, più congeniale a cultura e mentalità dei Lombardi...Un’eredità che sarebbe opportuno valorizzare anche in chiave moderna. Tornando alla pirateria,essa fu fenomeno endemico e di lunga durata sui nostri laghi, autostrade d’acqua su cui veniva-no trasportate quantità enormi di merci, fino all’avvento delle prime vie ferrate e del motore ascoppio, destinate ad allettare molti, anche i malintenzionati. Ciò appare chiaro nel contributodi Roberto Corbella, al di là dell’alone leggendario che avvolge le figure dei suoi pirati.

In ambito celtico presentiamo le nostre valutazioni sulla recente mostra svoltasi a Brescia cheha riguardato il ritrovamento di una tomba di guerriero cenomane di IV secolo a.C. Il focus sisofferma su Ezra Pound, protagonista della poesia del XX secolo a lungo “silenziato”, nonostantel’assoluto spessore artistico, a causa della sua fede politically uncorrect. Qui è presa in considerazio-ne la sua prima produzione poetica, oltre ai trentennali rapporti d’amicizia col lariano Carlo Li-nati, scrittore al quale - in occasione del festival Insubria terra d’Europa - abbiamo dedicato la pic-cola ma preziosa ristampa di un testo del 1939 dedicato alla Bretagna. Evento la cui terza edizio-ne si è conclusa con piena soddisfazione, come potrete leggere. Segnaliamo infine l’intervista aPaolo Pirola di Brianze, rivista che come noi ha appena doppiato la cinquantesima uscita e chemostra come difesa dell’ambiente e identità debbano necessariamente andare a braccetto, oltre lebarriere ideologiche, per il bene della nostra terra, sempre più minacciata dalla cementificazione.

Cari amici, a presto, al prossimo numero!

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Dentro al Castello c’era il silenzio e la solitudine dei luoghi abbandoanti. Quasi tutti gli antichi saloni, le arme-rie e i magazzini, erano scoperchiati, le scale e i cammini di guardia impraticabili. Tra le rovine e nei cortiliserpeggiavano i rovi e le edere, spuntava l’erba e si allargavano i cespugli di capelvenere. Contro il buio di unantro fiammeggiava una rosa sospesa a un ramo pendulo. Un albero troneggiava nello spiazzo dove in anticosi erano incrociate le alabarde e gli archibugi.

Piero Chiara“Fioriva una rosa”Le corna del diavolo e altri racconti

Cannero: la Rocca Vitaliana, costruita un secolo dopo la distruzione della Malpaga, il castello che fu covo dei Mazzarditi.

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I cinque figli di Lanfranco Mazzardi, di mestiere beccaio, ovvero macellaio, originario diRonco, piccolo insediamento del Piaggio Citraponte oggi incluso in Cannobio, ma che sulfinire del Trecento dimorava nello stesso borgo che si affaccia sul Verbano là dove il torrenteCannnobino confluisce nel lago, sono passati alla storia con il nome collettivo di Mazzardi-ti o, per meglio dire in lingua locale, Mazzardìt, plurale metafonetico di Mazardìn cioè “pic-colo Mazzardi”. Simonello, Giovannolo, Petrolo detto “il Sinasso”, Antonio detto “il Carma-gnola” e Beltramino nel periodo compreso tra il 1403-1404 e il 1414 de facto presero il con-trollo del centro rivierasco, esercitando il loro potere con metodi brutali, violenti, al di fuoridella legge e mettendo letteralmente a ferro e fuoco molti centri lacuali.

I Mazzarditi fra storia e leggenda. Il loro nome e le loro imprese, già note agli storio-grafi e corografi antichi che si occuparono delle vicende verbanesi, quali GaudenzioMerula1, il Macaneo2 e Paolo Morigia3, ben presto lasciarono la storia per confluire nelmondo trasfigurato ed evanescente della leggenda, così come sospesi in una dimensione ir-reale e impalpabile appaiono all’osservatore i ruderi della for- tezza eretta su-gli isolotti di Cannero, indissolubilmente legati al nome dei Mazzarditiche ivi edificarono il castello della Malpaga, quando il pal-lido sole autunnale riesce improvvisamente a squarciare gliavvolgenti fumi e le brume autunnali che si levano dalla su-perficie dell’acqua. Eppure è proprio in questo luogo langui-do e suggestivo, che sa commuovere pittori e poeti, che siconsumarono turpi vicende di assassini, torture e stupri.

STORIA

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La parabola dei Mazzardìt, i terribili pirati del Verbano

DI GIANCARLO MINELLA

L’ascesa e la caduta dei cinque celebri fratelli di Cannobio si spiegano con le dinamiche politiche del Ducato di Milano all’inizio del Quattrocento, tra crisi e rinascita.

(1) G. Merula, De Gallorum Cisalpinorum Antiquitate, Typis Comini Venturae, , Bergamo, 1592, cap. II, pp. 110 e ss.(2) Dominicum Machaneum, Chorographya Verbani lacus, U. Scinzenzeler, Milano, 1490, pp. 24 e ss. (3) P. Morigia, Historia della nobiltà et degne qualità del Lago Maggio-re, ristampa anastatica dell’edizione milanese del 1603, Alberti libraio editore, Intra, 1983, pp. 106 e ss.

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Pirati lì definì già il Macaneo nella sua opera scritta poco meno di un secolo dopo l’epopeamazzardiana e con tale appellativo sono stati i protagonisti dei più o meno fantasiosi raccontinelle sere d’inverno davanti ai camini di pescatori, naviganti, contadini e mercanti del lagoMaggiore. Una tradizione orale che ha solleticato la fantasia di tanti romanzieri, anche mo-derni, e che certo non poteva sfuggire a Piero Chiara. Fra questi autori locali occorre ricor-dare Giuseppe Torelli, autore de I castelli di Cannero (1861), incentrato sulla triste vicenda diCristina Vitani, vittima delle brame del Carmagnola, e Antonio Giovanola che scrisse nel 1839il racconto storico La Malpaga (Castelli di Cannero) che ci ha restituito anche il canto deiMazzarditi: “Liber scorre il lago, spogliando i passagier. Di vino e belle vago Felice il masnadier!”.

Ma torniamo all’ambito storico e vediamo quali fonti abbiamo a disposizione per megliodefinire le vicende di questi avventurieri. Pierangelo Frigerio e Pier Giacomo Pisoni hannoprodotto un’ottima e completa ricerca sui fatti che qui ci interessano nel volume I fratelli del-la Malpaga: storia dei Mazzarditi4, dotato di un’ampia appendice documentale. I due stori-ci riconoscono che un valido e oggettivo inquadramento sulle vicissitudini dei Mazzarditi fudovuto al giureconsulto cannobiese Giovanni Francesco del Sasso Carmine (1568- 1636) chescrisse l’Informazione istorica del borgo di Cannobio5, in una prima stesura fra il 1601-16.Il Sasso Carmine si basò, a sua stessa detta, su documenti autentici e cioè sul resoconto di unprocesso del 1459 che vide opporsi davanti al podestà e commissario di Arona i fratelli Pietroe Giovanni Mantelli, figli di quell’Antonio e nipoti di quel Paolo che furono le principali vit-time della ferocia mazzardiana, contro i fratelli Gianpietro e Gianmatteo Mazzardi, eredi deipersecutori. Si trattava di una causa civile con la quale i Mantelli intendevano provare la nul-lità di alcuni atti di vendita notarili, rogati più di mezzo secolo addietro, poiché la sotto-scrizione era stata estorta con l’uso della forza.

Furono ascoltati all’uopo più di venti testimoni. Fra le mani del Sasso Carmine anche undocumento milanese del 1429, l’atto di clemenza del Duca di Milano verso i noti fratelli. Fuproprio merito del Pisoni rinvenire nel 1978 il fascicolo processuale che era stata la fonte pri-maria del Sasso Carmine presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, oltre due testamenti can-nobiesi del 1410 e del 1413 che fanno riferimento ai Mazzarditi. La rilettura degli atti confer-mava l’attendibilità della ricostruzione del Sasso Carmine e permetteva ai due autori di presen-tare le vicende dei fratelli cannobiesi secondo i criteri della moderna storiografia, legandole an-che criticamente al più ampio sfondo storico delle vicissitudini del Ducato milanese del perio-do, ducato cui Cannobio e le altre terre locarnesi appartenevano sin dal 1342. Fu il De Vit, nel-la sua opera dedicata al lago Maggiore6, a relazionare meritoriamente la storia locale dei Maz-zarditi a quella più vasta del Ducato di Milano. L’ascesa di questo gruppo famigliare fu infattiresa possibile dalla grave crisi che investì i domini dello Stato milanese all’avvio del XV secolo.

STORIA

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(4) P. Frigerio e P. G. Pisoni, I fratelli della Malpaga. Storia dei Mazzarditi, Alberti libraio editore, Verbania Intra, 1993(5) G. F. del Sasso Carmine, Informazione istorica del borgo di Cannobio e delle famiglie di esso borgo (a.c. di P.Carmine), s.l., s.a. ma, 1912. Di questo scritto era a conoscenza anche il Morigia, si veda p. 94 dell’op. cit. in nota 3.(6) V. De Vit, Il lago Maggiore. Stresa e le Isole Borromee, vol. I, Prato, 1875, pp. 531 e ss.

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(7) Storico e dirigente industriale (Milano 1920-2004), è stato un decano degli studi verbanesi e suoi saggi sono stati ripor-tati su prestigiose riviste storiche locali.

Se qualche anno dopo la raccolta documentale si completava presso l’archivio Borromeo,ove veniva rinvenuta la relazione della prigionia patita da uno dei Mazzarditi preso le dure car-ceri ducali di Milano, ulteriori significativi apporti critici sono stati dovuti a Giancarlo Anden-na, ordinario di Storia medievale presso l'Università Cattolica di Milano e a Leonida Besozzi7.Quest’ultimo - approfondendo le vicende del borgo di Angera a inizio Quattrocento, l’anticaStaciona sede del contado voluto dal primo duca Giangaleazzo Visconti nel 1397 ed esteso sututte le terre rivierasche del lago Maggiore, quindi anche su Cannobio - aggiunse interessantinotizie, basandosi su altri atti notarili di XV secolo. Mettendo assieme tutti questi contribu-ti, le imprese dei Mazzarditi possono così uscire dalle nebbie della leggenda e del mito popo-lare per assumere connotati più veritieri, soprattutto contestualizzati, che aprono uno squar-cio su un periodo storico particolare, foriero, nella terra dei laghi, di morte e distruzione.

L’ascesa dei Mazzarditi, riflesso della crisi del Ducato tra Lario e Verbano. Il 3 settembre1402 Giangaleazzo Visconti, detto anche il “duca di virtù”, morì inaspettatamente nel castel-lo di Melegnano, colto dalla peste. A seguito della sua improvvisa scomparsa il Ducato di Mi-lano (ormai un esteso stato pluriregionale che oltre all’Insubria comprendeva la LombardiaOrientale, buona parte del Piemonte, dell’Emilia, del Veneto e, Oltreappennino, Siena, Pisa,Perugia e Assisi) si sgretolò nel giro di poco tempo. I suoi nemici esterni, il Papa, gli Este, iMalatesta, Firenze e Francesco Novello da Carrara rialzarono la testa e presto Pisa, Siena,Perugia, Assisi e Bologna furono perse. Ma quella che non resse alla dipartita del carismaticoprimo duca fu la situazione politica interna, sotto la reggenza della duchessa Caterina, che siavvaleva del supporto del camerario Barbavara, alla guida del Consiglio segreto dei sedicinobili voluti dallo stesso Gian Galeazzo, essendo i suoi figli tutti in minore età, Giovanni Ma-ria, Filippo Maria e il loro fratellastro Gabriele Maria. Si ridestarono in molti ambiti cittadi-ni le lotte fra le due opposte fazioni dei guelfi, filopapali e tradizionalmente antiviscontei, ei ghibellini, filoimperiali, benché ormai in quest’epoca si assistesse a uno svuotamento ideolo-gico per cui la contrapposizione Chiesa-Impero appariva sempre più un pretesto, venendo a

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FACINO CANE

DE SACCO

RUSCA

MAZZARDI

SVIZZERA

AMBITI DI INFLUENZA

1410-11

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VALCUVIA

V. TRAVAGLIA

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LUGANOLUINO

LOCARNO

ASCONA BELLINZONA

CANNOBIO

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designare invece le due maggiori parti che lottavano duramenteper la conquista del potere. Scoppiarono tumulti e rivolte, anchea Milano, fomentate sia dai guelfi sia da Antonio Visconti,appartenente a un ramo collaterale della famiglia ducale, che ac-cusava il camerario di seguire una politica filoguelfa e che aspi-rava al trono ducale: Barbavara fu costretto così alla fuga, men-tre la duchessa Caterina fu arrestata e poco dopo morì a Monza.

Il giovanissimo Giovanni Maria, passato dalla parte dei ribel-li contro la madre, assumeva il comando ducale (1404). Intantoi condottieri viscontei, epigoni del potente esercito che GianGaleazzo aveva allestito, manifestavano la tendenza a costituiredei propri domini, come il celebre Facino Cane8, che assunse ilpieno comando ad Alessandria nel 1403 e a Pavia, dove risie-deva Filippo Maria. Anche gli altri rami della famiglia Visconti

cercarono di approfittare dell’incapacità del potere centrale e gli eredi mai domi di Bernabò9

presero il potere a Bergamo. Nel 1402-1403 la fascia pedemontana e alpina insubre si spez-zò in una miriade di situazioni particolari, sovrastate dalla minaccia dei cantoni elvetici di Urie Obvaldo, desiderosi di controllare la via del Gottardo, che per circa un ventennio riuscironoa mettere le mani su Leventina e altre valli ticinesi. Mentre il conte Alberto di Sacco nel 1402si impossessava di Bellinzona e della Val di Blenio, a Como infuriò la faida tra i ghibellini Ruscae i guelfi Vitani, fomentata da alcuni seguaci dei primi confinati a Roveredo, in Mesolcina, cuirisposero i rivali mettendo a ferro e fuoco Civello e Lucino. Nel giugno del 1403 FranchinoRusca, già governatore ducale di Pisa, e Ottone Rusca, capitano di duecento lance a Parma, uni-rono le loro forze e si mossero alla volta della città lariana, tolta ai Rusca da Azzone Visconti nel1335. I due Rusconi scacciarono i Vitani, prendendo il controllo di Como. Franchino dovetteperò lasciare la città già a novembre dello stesso anno dopo la sconfitta subita ad opera del con-dottiero ducale Pandolfo Malatesta a Montorfano, cui seguì l’orribile saccheggio di Como.

Il Rusca si ritirò a Lugano: nel Sottoceneri la presenza di quella famiglia era assai numerosae da qui avrebbe potuto ricevere sostegni per la riconquista di Como. Franchino organizzò ter-ritorialmente e amministrativamente il proprio dominio come “Comunità del borgo e Valle diLugano”, benché dovesse sempre stare attento alla presenza della compagine vitana che avevapartigiani anche nel Luganese. Nel Comasco la lotta tra le due famiglie si prolungò nel tempo.A Cernobbio, come capobanda della masnada ruscona contro i Vitani di Nesso, si trovava ilBianco da Lezzeno, soggetto che avrò un certo ruolo anche all’interno delle vicende mazzar-diane. Nel 1408 Franchino Rusca riuscì infine a strappare Como al dominio visconteo, scac-

STORIA

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(8) I Cane erano originari di Pavia e di parte ghibellina. Bonifacio II, detto Facino, nacque a Santhià (VC) nel 1360 circa edivenne capitano di milizia al comando del Marchese del Monferrato e poi di Giangaleazzo Visconti per il quale conquistòBologna, distinguendosi in molti altri scenari di guerra. (9) Bernabò Visconti, già signore della parte orientale dello Stato di Milano, fu fatto arrestare ed eliminare da suo nipoteGiangaleazzo Visconti nel 1385, il futuro primo duca (1395).

Stemma dei Rusconi, daComo (Museo Civico).

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ciò i Vitani superstiti, guelfi ma sostenuti da Giovanni Ma-ria, e instaurò una signoria estesa dal Comasco al Luganese.Franchino Rusca, nonostante la secolare tradizione ghibelli-na della famiglia, cercò in questi anni rapporti di amicizia ealleanza con i guelfi e con i parenti ostili al duca. Questospiega la sua presenza anche sullo scacchiere del Verbano, raf-forzata dal rapporto di parentela con Pietro Besozzi. Infattinella pieve di Brebbia, il centro di Besozzo fu un attivo fo-colaio della rivolta antiducale in quanto sede del ramo politi-camente più importante dei de Besutio, antica casata di capi-tanei degli imperatori germanici e fidati ghibellini votati sindai tempi dell’arcivescovo Ottone alla causa viscontea. Ma o-ra la fedeltà alla famiglia del Biscione veniva meno. Pietro, ilmaggior esponente dei de Besutio, aveva sposato DonninaRusca, figlia di Lotterio, lo spodestato signore di Como ai tempi di Azzone Visconti, e sorelladi Franchino. Le politiche antiducali di questi due casati non potevano non convergere. Attinotarili coevi attestano i rapporti di cooperazione tra Franchino Rusca e Pietro de Besutio10.

Nell’area verbanese ben presto Angera rimase l’unica isola lealista fedele al duca di Milano,accerchiata a nord e a est dai possedimenti dei de Besutio, dei pavesi Franchignoni da Cecina,che tenevano la rocca di Caldè, dei de Sessa in Valtravaglia. A sud, da Sesto Calende, i Viscontidi Castelletto, in buoni rapporti con i de Besutio, da decenni investiti di fictalitia arcivescovi-li, si appropriavano di terre e diritti di giurisdizione del comitatus Angleriae. Nel 1408 FacinoCane allungava il suo domino personale sino all’Ossola inferiore, a Vogogna, mentre, assuntoanche il prestigioso titolo di Conte di Biandrate nel 1406, andava costituendo un vasto domi-nio. Egli, con i Rusconi e gli altri alleati ghibellini, costituì la lega antiducale a cui aderiva ancheil ribelle Estorre Visconti, uno dei figli naturali di Bernabò. Pietro Besozzi nel 1410 avevaricevuto l’infeudazione della pieve di Brebbia da Facino Cane come ricompensa della fedeltàmostrata al condottiero che nel 1408-09 concretizzava il controllo di gran parte del Seprio.

In questo contesto, in cui il Ducato è incapace a sostenere un controllo effettivo sui terri-tori più periferici11, si colloca il successo dei Mazzarditi. I testimoni del processo del 1459 fu-rono tutti concordi nel collocare tra il 1403-04 l’inizio della tirannide da loro esercitata. È darilevare la precocità della loro scalata al potere rispetto alla crisi scoppiata dopo la morte delprimo duca e il sincronismo con i coevi colpi di mano dei Sacco a Bellinzona e dei Rusca a

STORIA

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(10) Il 19 agosto 1408 Pietro Besozzi anticipa 250 fiorini a un messo del cognato per assoldare due bannerie di balestrieri chefurono inviati a rafforzare l’esercito di Franchino, impegnato nella presa di Como. Lo stesso Rusca è presente a Besozzo, pres-so la casa di Pietro, già nel 1405. Tali atti sono citati dal Besozzi in “Le incursioni degli antiducali ad Angera al tempo di Gio-vanni Maria Visconti”, in Libri&Documenti, Archivio storico civico e Biblioteca Trivulziana, anno XIII, n. 2, 1987, Milano. (11) Così esprime il concetto Francesco Cognasso: “Ovunque nelle città viscontee attraverso le notizie che arrivavano da Milanosi ebbe la sensazione che vi fosse un cedimento nel governo centrale. Dovunque i rappresentanti del governo, i referendari, ipodestà rimanevano incerti sul modo di eseguire gli ordini, sentendo che alle spalle non vi era più persona che fortementevolesse." (I Visconti, Dall’Oglio editore, Milano, 1966, p. 363)

Angera, edificio medievale

di Via Visconti.

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Como e Lugano. Pur mancando una documentazione a suffragio, è molto probabile cheanche nel Locarnese si creasse una fazione favorevole ai Rusca, data l’ascendenza che tale fami-glia esercitava e aveva in passato esercitato in questi territori. La relazione fra i Mazzarditi, ilpartito ruscone e l’area lariana è avvalorata da alcune circostanze di contorno, come il supportoprestato ai fratelli cannobiesi dal Bianco di Lezzeno12 e in figure minori di accoliti mazzardianioriginari dell’area lariana, ad esempio il Cazzetta da Cantù. Negli atti del processo recuperatidal Pisoni si dice esplicitamente che l’avvento dei Mazzarditi fu supportato dai Rusca, men-tre il Sasso Carmine riferisce di come loro intervennero “a richiesta e con intendimento, di al-cuni principali Cannobini della fazione guelfa”. Questo fatto nel confuso quadro di inizio XVsecolo non deve sorprendere poiché i Rusconi, ghibellini, pur combattendo contro i guelfi Vita-ni, sostenuti dal Duca, cercarono alleanze con altri guelfi in chiave antiducale. In Cannobio,che dal 1207 godeva della qualifica di borgo, la fazione guelfa filovitana raccoglieva i membridelle famiglie Mantelli, Cervetti, Zacchei e quasi tutti gli abitanti della villa di Cinzago. Ghibel-lini erano i Mazzirono, i Poscoloni, i Sasso e quasi tutte le famiglie del borgo di Cannobio.

Il Sasso Carmine ritrae i cinque fratelli come arditi, valenti e con una certa propensione acommettere atti violenti; essi divennero seguaci dei Rusconi e commisero contro i Vitani “mol-ti ladroneggi, omicidi ed altri mali”13. Finchè, con un autentico golpe, una notte con alcuniseguaci entrarono nel borgo di Cannobio e lo presero senza trovare resistenza. Immediata-mente fecero rafforzare e ristrutturare l’alto campanile cittadino, con l’annesso Palazzo dellaRagione, ed iniziarono a perseguitare le famiglie guelfe, in particolar modo i Mantelli, ucci-dendone molti oppure facendoli prigionieri, mentre le loro case venivano saccheggiate e leloro vigne tagliate al piede. I Mantelli imprigionati nel campanile della città furono sottopo-

sti a sevizie e torture da parte degli ac-coliti dei Mazzarditi, tutti di estrazio-ne popolana e villica, mentre altri fug-girono dal borgo abbandonando le lo-ro proprietà. Fra questi fuggitivi, an-che Paolo e Antonio, i più ricchi e po-tenti di tale nobile e antica famigliacannobina. Antonio trovò rifugio a Bi-zozzero, presso Varese, Paolo a Locar-no, ove la fazione guelfa vitana era mol-to influente. Ma la longa manus deiMazzarditi riuscì a colpirli. Antonio fucatturato dal Bianco di Lezzeno e daisuoi sgherri, mentre Paolo fu preso da

STORIA

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(12) Altrove definito Bianco da Leggiuno, per via della trascrizione di questo toponimo verbanese, originariamente Lezeduno (sinoti la chiara etimologia celtica Leze+dunum), quindi Lezuno, Lezono, che in effetti si può facilmente equivocare col centrodi Lezzeno (Lèscien) sul lago di Como. Il De Vit cade nell’errore e lo chiama Bianco da Leggiuno, p. 511, op. cit., nota n. 6.(13) Op. cit., nota n. 4, p. 20.

Nella cartolina del pittore Ferdinando Tami (1930), i Mazzar-diti fanno impiccare due componenti della famiglia Mantelli.

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alcuni ghibellini della villa di Lossonoe da questi venduti ai Mazzarditi incambio di una certa somma di denaroche fu raccolta dagli stessi imponendouna taglia a tutti i residenti di Canno-bio e della sua pieve. I due furono im-prigionati, ceppi ai piedi, nel campa-nile della casa-fortezza di Cannobio esottoposti a maltrattamenti e torturefino a che consentirono a dare in mo-glie a Giovannolo una loro sorella, Ia-copina, nel frattempo rifugiatasi a Pa-via, e costringendoli a cedere loro, a ti-tolo di dote e di vendita, senza però alcuna pagamento, proprietà e beni. I Mantelli rimase-ro prigionieri per circa dieci anni in condizioni miserabili.

Il potere del terrore. L’azione dei Mazzarditi volle prevedere la costruzione di alcune for-tificazioni che presto fecero realizzare. Un’incursione dei Vitani locarnesi che attaccaronoCannobio, si risolse senza alcun risultato poiché i mazzardiani si rinserrarono nel campanilee nella casa-fortezza mentre attesero i rinforzi rusconi i quali, superiori per numero ai Vitani,costrinsero quest’ultimi a lasciare il borgo: i Mazzarditi compresero subito che abbisognava-no della fondazione di castra per rinsaldare il controllo del territorio.

Poco fuori Traffiume, a ovest di Cannobio, sulla via che porta in Val Cannobina, Petroloeresse un suo castello, di cui oggi rimangono dei resti decadenti sommersi dai rovi e dalla ve-getazione. Tuttavia l’edificio doveva essere di una certa consistenza come si può dedurre daun testamento risalente al 1413 d’un Bartolomeo dei Cortesi redatto “in camera cubicularia”posta “in castro d.ni Petroli de Mazardis”. Interessante rilevare che il sito in cui sorge il castel-lo è la località chiamata Duno, tipico toponimo celtico che identifica alture fortificate: sulposto doveva già quindi esistere un insediamento d’età protostorica del quale però, a quantoben sappiamo, l’archeologia non ha mai fornito riscontro14.

Una terza fortificazione, oltre alla torre campanaria con il vicino Palazzo della Ragione adat-tato a casaforte nel centro di Cannobio, fu edificata nel villaggio di Carmine, dove la famigliaeponima era alleata dei Mazzarditi, su uno sperone roccioso. Infine fecero costruire sul più este-so degli scogli del mini-arcipelago di Cannero il castello della Malpaga sia come riparo da attac-chi provenienti da sud dall’acqua sia come punto d’appoggio da cui agevolmente assalire navi-gli nemici e centri rivieraschi vicini. La consistenza di tale castello è a noi ignota poiché i rude-ri della costruzione oggi visibile appartengono alla Vitaliana, una rocca fatta erigere nel 1519da Ludovico Borromeo in onore della famiglia padovana capostipite dei Borromeo, probabil-

STORIA

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(14) In questo posto esisteva una stazione per la riscossione delle gabelle lungo la strada che collegava il centro lacuale con laVal Vigezzo attraverso la Val Cannobina.

Ancora Tami: i Mazzarditi in una sadica scena di supplizio.

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mente in accordo con la Lega svizzera e in chiave antifrancese (sono questi gli agonizzantianni che sancirono la fine del Ducato indipendente). A seguito di alterne vicende politiche,egli fu costretto a rifugiarvisi e vi morì nel 1526. Nel corso dei secoli la rocca fu progressiva-mente abbandonata e oggi restano solo rovine delle antiche mura rafforzate da torri.

Dai testi documentali si può dedurre che originariamente fosse innalzata una torre circo-lare centrale, con prigioni e alloggi per la guarnigione, circondata da una cinta e/o da una pa-lizzata. L’insediamento fu realizzato grazie al lavoro forzato, senza ricompensa, cui i Mazzar-diti sottoposero molti cannobiesi e al recupero di massi e materiali dallo smantellamento deimuretti di sostegno delle vigne, di case rustiche o di rivali. Alla Malpaga si insediò Antoniodetto il Carmagnola. La tattica dei cinque fratelli e del padre Lanfranco, ancora vivente nel1413 e probabilmente vera mente del clan famigliare, era semplice, cinica e spietata. Essa puòessere efficacemente riassunta nei punti che seguono...

1. Essi si impossessavano di proprietà altrui, obbligando i titolari alla vendita, redigendo ilrelativo atto presso un notaio amico e versando regolarmente il corrispettivo in denaro al ven-ditore. Se non che, recuperavano subito la somma versata senza che il venditore osasse recri-minare oppure inviavano immediatamente i loro sgherri a riprendere con la forza il denaropresso il venditore. Chi si opponeva era imprigionato nel campanile e torturato fino a che noncedesse, ottenendo in questi casi non solo la proprietà ma anche la vita. Pur colpendo con que-ste iniziative soprattutto i guelfi, talvolta ne erano vittime anche famiglie ghibelline.

2. Rapivano persone per chiederne il riscatto. Se questo non era versato, il rapito venivaucciso. In particolare “al Minardo sono arrivati a tagliargli via il membro virile, e poi glielohanno messo in mano per maggior scorno della sua famiglia che si sapeva amica dei Mantelli”15.

3. Non mancavano di usare violenza anche alle donne, nubili o sposate che fossero. Il gestopiù eclatante fu il rapimento della moglie del podestà di Cannobio, vicario locale del capita-no reggente il contado di Angera, il giureconsulto vigevanese Giacomo Pozzi: Cristina fu vio-lentata presso la villa di Sant’Agata. Il Sinasso, come risulta dalla deposizione del testimone Gu-

glielmo Zaccani al processo di Arona,volle fare sua con la forza una giovinet-ta, Francesca, figlia di un suo accolito,tal Antonio detto “Boffo” di Canno-bio, di cui il Mazzardi era stato padri-no! Le donne che si opponevano aitentativi di stupro venivano uccise…

4. Uccidevano gli avversari e colo-ro che avevano imprigionato nei piùsvariati modi: a colpi di mazza, taglian-do loro la gola, impiccandoli, gettan-

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Nella cartolina, il ratto della sposa del podestà di Cannobio. (15) Op. cit., nota n. 4, p. 33.

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doli dall’alto ponte dell’Agostiana,nei pressi di Traffiume nel torrenteCannobino oppure nel lago. Il casopiù raccapricciante si verificò quan-do, legati tra loro con una grossa funedieci uomini di Ascona, fatti prigio-nieri e successivamente uccisi in variomodo dagli sgherri dei Mazzardi,questi furono trascinati in riva al lagoper poi essere gettati, con una grossapietra allacciata alla fune, nelle sueacque... i loro corpi furono rinvenutiqualche giorno dopo a Germignaga.

5. Uccidevano anche coloro che, pur della stessa parte, non approvavano il loro modo difare o non si mostravano collaborativi. Martino Mazzirono, ricco e potente ghibellino di Can-nobio, cercò di ostacolarli in qualche loro malaffare e per questo motivo fu imprigionato nellatorre campanaria, torturato, infine ucciso e ivi sepolto, con la sua abitazione saccheggiata.

6. Effettuavano scorribande per tutto il lago e attaccavano ripetutamente i centri di Ascona,Locarno e Angera. Saccheggiavano e davano alle fiamme le abitazioni dei Guelfi e dei Vitanie facevano anche prigionieri. Uno di questi, Guglielmo Porro, fu testimone del processo del1459 e raccontò come fu preso ad Ascona dai Mazzarditi all’età di sedici anni durante un attac-co e comprato per cinque soldi da Giovannolo Mazzardi per essere usato come servo di casa.

Gli atti del processo rivelano che i testimoni mai usarono l’espressione ‘pirati’ per definire iMazzarditi e non accennano ad abbordaggi e affondamenti di navigli nemici. Azioni di questotipo non sono documentate dagli atti. Edgcumbe Staley16 in un libro che si propone di delizia-re il colto pubblico statunitense con le bellezze della terra dei laghi della Lombardia, ricorre confrequenza a questo appellativo, affermando che i Mazzarditi, di ritorno da un raid, si trovaro-no di fronte la flotta armata e unita dei battelli da pesca di Laveno e Belgirate e una grande flot-tiglia di Pallanza sulla rotta di congiungimento con i navigli dei vicini. Con audacia i corsari diCannobio riuscirono però ad affondare le navi avversarie e a far ritorno alle acque amiche.

Il vicario Pozzi e gli altri ufficiali furono impotenti davanti a tanta prepotenza. Ma certo iMazzarditi non trascurano anche l’aspetto formale del loro potere. Dopo il 1407 nominaronocome proprio “vicario” l’accondiscendente Ambrogio Adobba, a cui affidarono l’estensione de-gli strumenti di acquisto, frutto della loro attività illecita. Velocemente questo clan famigliare e-stese il proprio potere e le proprie ricchezze, nonostante la perdita di Simonello, morto con sicu-rezza prima del 1413. Frigerio e Pisoni ben colgono lo spirito di questi protagonisti che “por-tavano nell’impresa fervore e livore di parvenu, invidia verso chi da tempo aveva raggiunto l’a-

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(16) E. Staley, Lords and Ladies of Italian Lakes, Little, Brown & Co., Boston, 1912 (reprint Kessinger Publishing, 2004). Il librocontiene marchiani errori, ad esempio la denominazione di Traffiume e Malpaga per i due fortilizi sorti sugli isolotti di Cannero.

Il lanciamento delle vittime, legate e imbavagliate, nel lago...

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giatezza e brama di mettere le mani sul peculio altrui. Sperimentata la scorciatoia per arricchi-re, trascurarono la dura e rischiosa carriera del mercante per muovere guerra spietata ai colleghipiù facoltosi”17. Tuttavia è necessario fare una riflessione oggettiva su questi comportamenti,ripresi e stigmatizzati dalla leggenda popolare ma anche dalla letteratura romanzesca.

Giancarlo Andenna, nel suo contributo, “normalizza” le pratiche violente seguite dai Maz-zarditi: “Fu un episodio complesso, da inserire nei difficili anni delle lotte per l’affermazioneducale di Filippo Maria Visconti, dominati dalla violenza di Facino Cane e dal metodo delterrore applicato coscientemente verso i gruppi rivali, che non si comportavano a loro voltain modo dissimile. Si tratta dunque di un fatto da smitizzare e da collocare entro il secolo in cuiavvenne, non assumendo come unica ed assoluta verità le deposizioni testimoniali di parte”18.

Una valutazione incontestabile, esemplificata anche dalla ferocia dello scannamento fraRusconi e Vitani per il controllo di Como nel 1404-0819, benché alcuni episodi specifici riflet-tano un sadismo e una perfidia particolare che certo contraddistinse i Mazzarditi, come la ri-corrente pratica dello stupro o le raffinate tecniche di tortura a cui sottoposero i loro prigionie-ri, in particolare gli sfortunati Paolo e Antonio Mantelli, costretti a bere acqua con calcina, aprendere “pügn sóta’l barbaròzz”, a sopportare getti di acqua bollente e sassaiole.

Apogeo e caduta dei Mazzarditi: la dura legge della Vipera. Nel 1406 la guerra, così la defi-niscono esplicitamente i testimoni del processo aronese, divampava per tutto il Verbano. Il24 ottobre 1406 presso la chiesa di Angera furono convocate tutte le comunità della pieveper stabilire pace e concordia fra le opposte fazioni di guelfi e ghibellini che avevano causatouccisioni, omicidi, incendi, distruzioni, ruberie, furti, ferite... “et percussiones et alia diversaenormia”. Un evento spia del clima antiducale che si respirava fu il tentativo di scaraventarenel lago, dall’alto della rocca di Caldè, il messo Jacobus de Laveno che portava alcune impor-tanti missive di Giovanni Maria al castellano: questa rocca era tenuta dai Franchignoni daCecina, assieme ai castelli di Locarno, cugini dei Rusca20. Nel 1407 Pietro de Besutio ricevela procura della pieve di Brebbia e Valcuvia per trattare la pace col duca Giovanni Maria.

Intanto i Mazzarditi, eliminati i Mantelli, munitisi di fortezze, presero a spadroneggiare peril Verbano. Assalirono Ascona e la Valtravaglia. Fra il 1406-07 attaccarono Locarno, mentre lericerche del Besozzi hanno permesso di datare fra 1405 e inizio del 1406 un blitz notturno con-tro Angera, sede del contado verbanense, tenuto dall’allora capitano generale, residente nella su-perba rocca, dominus Johannes de Valperga: due atti notarili del 31 dicembre 1454 e del 2 gen-naio 1455 redatti dal notaio Balzarino Morigia di Angera ne permettono di ricostruire i fatti21.

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(17) Op. cit., nota n. 4, p. 79.(18) G. Andenna, Andar per castelli. Da Novara tutto intorno, Edizioni Milvia, Torino, 1982, p. 661.(19) C. Cantù, Storia della città e della diocesi di Como, Como, 1829, pp. 460 e ss.(20) L. Besozzi, “Butta a lago l’ambasciatore”, in Verbanus, Alberti libraio editore, Intra, 1990.(21) L. Besozzi, “Le incursioni degli antiducali ad Angera al tempo di Giovanni Maria Visconti”, in Libri&Documenti, Archiviostorico civico e Biblioteca Trivulziana, anno XIII, n. 2, 1987, Milano. Gli atti sono riportati in appendice all’articolo. Da rile-vare che a deporre furono chiamati sei cittadini angeresi.

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Qui Arnoldino de Marris, che deteneva l’appalto delle gabelle e apparteneva a una nobilefamiglia originaria del Gallaratese, consegnò agli assalitori, chiamati da un ghibellino locale,Alberto de Lucho, gli Angeresi che avevano cercato scampo nel campanile durante l’assalto.Molti abitanti del borgo furono rapiti, altri uccisi, il campanile incendiato così come la maggiorparte del borgo. Uomo di pessima reputazione secondo le testimonianze rilasciate dagli Angeresinegli atti citati, egli tramò per la caduta della rocca di Angera in mano ai ribelli. Non riuscì nel-l’intento e Giovanni da Valperga lo imprigionò e preparò una forca sopra il monte di Bronazolodi fronte alla rocca per giustiziarlo, ma il tempestivo intervento di Dionigi da Cardano, nobiledel Gallaratese, permise di riscattare la libertà di Arnoldino dietro pagamento di una taglia.

Le vicende dell’attacco ad Angera furono narrate anche da due testimoni nella deposizioneresa nel 1459 davanti al podestà di Arona (Antonius Mazardinus e Alberto de Cavarono) senzaaggiungere altri particolari significativi. Il Besozzi, dal confronto del numero di presenti delborgo angerese e costituenti il numero legale della vicinantia (più dei tre quarti degli abitanti)in due riunioni, una del 26 marzo del 1403, quindi prima di ogni possibile attacco dei Maz-zarditi, l’altra il 24 ottobre 1406 per cercare la riappacificazione delle opposte fazioni che ave-vano causato la “vigente guerra estesa pertutto il lago Maggiore”, constata che il nu-mero delle famiglie angeresi decrebbe da100 a poco più di 50: il borgo s’era dimezza-to, parte degli abitanti fuggita, molti eranorimasti vittime delle incursioni antiducali22.

Nel 1408 Antonio Mazzardi ebbe una fi-glia e, a sottolineare il prestigio di cui ormaigodeva il clan famigliare, sappiamo che pa-drini al battesimo furono proprio Pietro Be-sozzi e il nipote Giovanni23. Il 1412 fu unanno di svolta: Giovanni Maria, al culminedella sua impopolarità, fu ucciso a Milano

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(22) L. Besozzi, “Famiglie di Angera nel Medioevo (1123-1449)” in Fabularum patria. Angera e il suo territorio nel Medioevo,Cappelli editore, Bologna, 1988. Lo stesso concetto è riproposto nell’op. cit., nota n. 21.(23) Questi, non volendo attraversare il lago a gennaio, con atto notarile a noi giunto delegarono due procuratori in loro vece, ilfiglio Antoniolo e un tal Maffiolo Luini. Si veda op. cit., nota n. 4, p. 84 e op. cit., nota n. 21, p. 15.

La possente fortificazione della Rocca di Angera.

La morte di Giovanni Maria Viscontidi L. Pogliaghi(1889)

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durante una congiura, poco dopo moriva anche il suo avversario Fa-cino Cane senza lasciare figli legittimi. Il ventenne Filippo Maria (fi-gura a lato), residente a Pavia fin dalla morte della madre, e sprovvi-

sto di mezzi economici e truppe, non era in grado di assumere iltitolo di duca che gli spettava di diritto. Fu così combinato unmatrimonio di interessi con Beatrice Lascaris, figlia di PietroBalbo II conte di Tenda, e fresca vedova di Facino: benché ellafosse molto più anziana del giovane duca, avrebbe portato in do-te a Filippo Maria, quale erede del celebre condottiero, oltre a400 mila ducati, Pavia, Tortona, Alessandria, Novara, il contado

di Biandrate, Varese, il Seprio, Abbiategrasso, la Brianza, la Valsas-sina, Rosate e tutte le terre del Verbano occidentale sino a Vogogna. Le truppe di Facino deci-sero di rimanere fedeli al legittimo erede che ben presto potè sperimentare le capacità militaridel Carmagnola. Alla testa di esse egli marciò su Milano, retta da Estorre Visconti e GiovanniCarlo il Piccinino, unico discendente legittimo di Bernabò, che prese dopo un breve assedio il19 giugno 1412. Filippo Maria fu subito acclamato duca e signore dello Stato di Milano, pron-to a riestendere il dominio della Vipera sui territori perduti sotto l’incauta reggenza del fratel-lo. E a nord la vipera viscontea avrebbe in breve tempo morso mortalmente il leone rosso,simbolo ruscone, e le famiglie minori che ne sostenevano la causa...

Filippo Maria conosceva i padroni di Cannobio: alcuni documenti ufficiali d’archivio lo di-mostrano. Il 22 giugno 1412, solo sei giorni dopo la sua entrata a Milano, il “dux Mediolani etcomes Papiae” fa atto di donazione a favore di Giovannolo Mazzardi della casa milanese confi-scata a Lanzallotto Bossi, maestro delle entrate ducali perito durante gli scontri fra lealisti e ri-belli. Il 24 febbraio 1413 Filippo Maria, che si qualifica anche come Angleriae comes, fa conces-sione di cittadinanza a Giovannolo, Pietro detto il Sinasso, Antonio detto il Carmagnola (Cul-mignole) e Beltramino Mazzardi. I Mazzarditi si professano “servitori fedelissimi” e sono chia-mati “buoni e notabili cittadini e mercanti esperti e probi, nonché persone da lodare”24.Definizione che mal si concilia con quanto in realtà i Mazzarditi andavano compiendo in que-gli anni nelle terre verbanesi. Già Giovanni Maria doveva essere ben conscio della difficile situa-zione in cui era precipitato il borgo di Angera a causa della guerra scatenata dai “fratelli dellaMalpaga”25 se con diploma del 1409 concedeva agli Angeresi l’esenzione decennale dai tributidovuti alla Camera e al Comune di Milano, vero e proprio atto riparatore nei confronti di que-st’isola lealista. Ma le difficoltà dei suoi fedeli sudditi non angustiarono Filippo Maria nei suoirapporti coi Mazzardi... dunque, una professione di realpolitik del Duca: ma per quale motivo?

Già Frigerio e Pisoni convengono che dietro questi atti si intravede “un complesso quadro

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(24) Per Frigerio il padre dei Mazzarditi, Lanfranco, non era un macellaio ma un mercante: “Del resto il casato ben noto e atorto famigerato dei Mazzardi o Mazzarditi deriva da un capofamiglia mercante, secondo la qualifica con cui fu loro conces-sa la cittadinanza di Milano; trafficava probabilmente nei pellami, ciò che gli ottenne la scadente nomea di ‘beccaio’.” (inIndustrie e commercio a Cannobio dal medioevo all’età moderna, 2004, p. 43, disponibile in rete su www.cannobio.net)(25) Usiamo questa felice definizione, coniata da Frigerio e Pisoni e posta anche a titolo della loro opera.

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di relazioni politiche e militari”26 ipotizzando che prima del 1412 i Mazzarditi avessero intrat-tenuto con Filippo Maria, “semplice” conte di Pavia sotto la tutela di Facino Cane, buoni rap-porti in funzione dell’alleanza con i Rusconi e che essi si fossero concretizzati con un contri-buto di uomini e armi contro gli usurpatori milanesi Estorre e Giovanni Carlo Visconti: ciòspiegherebbe l’entità e la rapidità della donazione dell’abitazione milanese.

Salito al trono ducale, Filippo Maria incassò velocemente tutta una serie di attestazioni difedeltà da parte delle comunità lacuali, dal giugno al dicembre 1412, tra i quali anche quelle diBrissago, Tronzano, Pino e Bassano, particolarmente interessanti poiché antiche dipendenzesulla sponda “lombarda” della chiesa cannobiese e anche del comune del borgo, nonché Pallan-za, Intra, Suna, Locarno e le sue valli, e infine la Valveddasca e la Valtravaglia. Anche una partedel Luganese si dava al nuovo duca. La signoria dei Rusconi si sgretolava. Franchino, prima dimorire nel 1412, firmò una tregua con Filippo Maria, rinnovata nel dicembre dello stesso annodal suo figlio Lotterio, grazie anche allo sforzo diplomatico dei due emissari del rex RomanorumSigismondo, giunti in Lombardia ad annunziare la sua prossima venuta. Infatti nel novembre1413 Sigismondo era a Como, proveniente da Bellinzona, ove fu solennemente ricevuto da Lot-terio Rusca che ricevette il titolo di principe dell’Impero e Vicario imperiale per Como e Lo-carno. Nello stesso mese si svolse l’incontro di Cantù tra Sigismondo e Filippo Maria che avevacome ordine del giorno l’incoronazione a Milano di Sigismondo a Re d’Italia e la conferma deltitolo ducale a Filippo Maria. Ma l’intesa fallì per gelosie e rancori scoppiati fra i due protago-nisti. Filippo Maria dovette aspettare così sino al 1426 per ricevere tale agognata conferma.

La politica antiviscontea di Sigismondo portò alla rottura della tregua con Lotterio Rusca.In questa situazione Filippo Maria tentò, attraverso le regalie documentate dagli atti citati, diaccattivarsi l’alleanza dei Mazzarditi con lo scopo di togliere un altro mattoncino dal muro di-fensivo dei Rusca. Lusinghe che certo allettarono i Mazzarditi, ma alla fine essi “dovettero benpresto capire che la politica volpina di Filippo Maria era volta a dividere gli avversari, lusigan-done taluni in attesa di schiacciarli tutti insieme, con implacabile violenza”27. L’intervento diSigismondo, una cui eco deformata probabilmente rimane nel racconto di fra Leandro Albertinella sua celebre Descrittione di tutta l’Italia (1550), bollato come falso dallo stesso Sasso Car-mine, che illustra l’incontro che sarebbe avvenuto fra l’imperatore Federico III e Antonio Maz-zarditi che avrebbe ottenuto, grazie al sontuoso ricevimento, il titolo di conte, fece propende-re i quattro fratelli per il partito rusconiano “lusingati dalle concessioni che si attendevano dalre e che certo gli furono promesse, prima fra tutte la legittimazione del conquistato potere”28.

L’atteggiamento di Filippo Maria verso i Mazzarditi improvvisamente mutò. Non sappia-mo se vi fu anche un preciso casus belli. L’Andenna arguisce che i rapporti divennero compli-cati in seguito al problema della fortezza della Malpaga: “Una precisa legislazione impediva

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(26) Op. cit., nota n. 4, p. 84. (27) Op. cit., nota n. 4, p. 86.(28) Evidente l’errore dell’Alberti: in quei tempi il futuro Federico III non era neppure nato. Federico III d'Asburgo (Innsbruck,21 settembre 1415 - Linz, 19 agosto 1493) fu eletto Re dei Romani quale successore di Alberto II nel 1440. Era figlio di ErnestoI e di Cimburga di Masovia. Col titolo di duca asburgico d'Austria divenne Federico V (1424), Federico IV come re tedesco einfine Federico III con l'incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero.

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infatti di costruire castelli e fortificazionientro il Ducato e Filippo, dopo aver otte-nuto il titolo e il supremo potere, deside-rava riportare l’ordine entro lo Stato”. Ladistruzione che ne seguì di lì a poco raf-forzerebbe l’ipotesi che l’oggetto del con-tendere tra il duca e la famiglia cannobinafosse proprio tale fortezza. “Filippo vollemostrare che i privati cittadini, seppurericchi o nobili, non potevano possedere oerigere fortificazioni senza il beneplacitoo l’approvazione del potere centrale. (...)

I castelli dovevano appartenere al sovrano, o essere in qualche modo controllati da lui. La colpadei Mazzarditi fu probabilmente di essersi opposti su questo importantissimo punto.”29

Ma vi fu forse un altro evento che fece precipitare la situazione. Frigerio e Pisoni annotanocome, durante la deposizione dell’angerese Antonio Mazzardini al processo del 1459 di Arona,questi riferisse di un’ulteriore scorreria dei Mazzarditi contro Angera nel 1413. All’epoca dellatestimonianza costui aveva 66 anni e narra di accadimenti che lo coinvolsero quando ne aveva20, ben 46 anni prima. Un errore di 7 anni, rispetto al blitz del 1405-06 sembrerebbe eccessi-vo per il teste. Besozzi non prende in considerazione questo secondo assalto nel suo studio.In effetti la sua conferma dovrebbe rappresentare uno degli scopi di una nuova e mirata ricer-ca di archivio. È evidente che se questo secondo attacco alla sede del contado verbanese fossestato compiuto, Filippo Maria Visconti non avrebbe potuto perdonarlo, a maggior ragionese consideriamo il fatto che nel 1413 iniziò la politica di infeudazione ai suoi migliori colla-boratori e congiunti delle località verbanesi.

Nel gennaio 1413 a Gaspare Visconti, consigliere e marescalco generale, è infatti attri-buita Arona mentre da febbraio a maggio le concessioni feudali riguardano il Vergante, Or-navasso, Pombia e Varallo Pombia, Sesto Calende, Omegna e Galliate. Ma soprattutto indata 5 agosto 1412 Filippo Maria aveva confermato, a favore di Angera, il diploma di esen-zione dai tributi già emanato dal suo trapassato fratello Giovanni Maria, intendendo in que-sto modo “antiquam diginitatem et amplitudinem Angleriae restituere”: una dignità che i Maz-zarditi avrebbero infranto in aperta ostilità al duca.

Nel marzo del 1414 il dux Mediolani invia a Cannobio un piccolo esercito di 4-500 armatial comando di Giacomo da Lonate (ovvero Jacopo da Lunate o Giacomo Lunati), nativo diPavia, cui aderirono anche i lacuali desiderosi di vendetta, come Gervaso Poscolonna che fucostretto a cedere la sua vigna ai Mazzarditi, e anche alcuni dei testimoni del citato processoaronese. Il condottiero visconteo espugna il castrum di Traffiume, di Carmine e la casafortedel borgo di Cannobio, indi pone sotto assedio navale la fortezza della Malpaga. Privati dei

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(29) Op. cit., nota n. 18, p. 660.

Veduta de’ castelli di Canero sul lago Maggiore di F. e C. Lose (1818)

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rifornimenti, i Mazzarditi si arresero venendo apatti e salvando la vita. Storicamente priva difondamento la versione che li vorrebbe uccisi egettati nel lago con una pietra al collo. Secondoil Morigia l’assedio si prolungò per due anni.

I castelli della Malpaga e di Traffiume furo-no distrutti e completamente spianati. La paceritornò sul Verbano ma certo furono necessarimolti anni prima di tornare ad una completanormalizzazione se è vero che solo nel 1428 lacomunità di Ascona richiese al duca di poter ri-pristinare l’antico mercato, sospeso dopo le di-struzioni provocate dalla guerra.30 Nel 1416 an-che la questione ruscona fu risolta: Lotterio, te-mendo il peggio, dopo aver retto ad un primo at-tacco del Carmagnola portato al Baradello, vennea patti e cedette Como a Filippo Maria, ottenen-done in cambio un indennizzo economico e l’in-feudazione di Lugano, della sua valle e degli altricentri del Sottoceneri, la città di Locarno com-presa. Nel 1417 anche i de Besutio dovettero ri-nunciare al feudo della pieve brebbiese, restringendo il loro possesso al solo castello eponimo.

Il Carmagnola cannobino passò molti anni agli arresti e nel 1421 lo troviamo imprigionatonella rocchetta di Porta Romana, come risulta dal registro del castellano. Il Sinasso invece andòin esilio a Cerano, ove regolarizzò il suo rapporto con Francesca Boffi, sposandola. Leandro Al-berti cita come luoghi di esilio Intra e Varallo, forse per Giovannolo e Beltramino, che morì pri-ma del 1429. I numerosi beni dei Mazzarditi furono confiscati e donati dal duca al capitanoducale Opizino da Alzate e non furono loro più restituiti, nemmeno dopo il perdono di FilippoMaria Visconti promulgato il 16 luglio 1429, col quale vennero assolti da tutti i loro crimini edelitti di lesa maestà, liberati dal bando e ripristinati nei loro diritti. Nessuno quindi denunziòi Mazzarditi come malfattori e delinquenti comuni. Come chiosa l’Andenna, “i loro delitti era-no politici e la loro pena, il bando e l’esilio, era una pena politica”31. Con buona pace di chi fusommariamente assassinato e depredato in quei difficili anni di transizione per il nostro Stato.

Per le amministrazioni locali interessate a rappresentare lo spettacolo teatrale "I Mazzarditi, i pirati dellago", con conferenze sulla pirateria nei laghi insubrici, si prega di contattare la segreteria di Terra Insubre.

STORIA

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(30) La concessione del diritto di mercato è rilasciato da Filippo Maria il 22 aprile 1428 ed è scaricabile dal sito www.patriziato-ascona.ch. Vi si legge: “A quei tempi, durante quelle guerre, la nostra terra fu devastata e la popolazione si dovette allontanare,cosicché il mercato cessò del tutto e non fu più ripristinato in seguito. Ora però la popolazione è ritornata ad abitare in quellavostra terra, e desidera ripararla dai guasti e bonificarla.” (31) Op. cit., nota n. 18, p. 661.

Locandina dello spettacolo sui Mazzarditi allestito dalGruppo Caronte per il festival Insubria terra d’Europa.

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Il lago Maggiore (o Verbano) dal Medio Evo in poi fu sempre covo di pirati. Le sue rive cosìvarie con coste rocciose, canneti e spiagge offrivano rifugio a bande di disperati che, agendo dasoli per puro istinto di sopravvivenza e rapina oppure protetti da una poco credibile coperturapolitica, trovavano nella pirateria un modo più che discreto per arricchirsi. Certamente i piùnoti di questi Signori del lago furono i fratelli Mazzarditi. Davanti a Cannero sulla sponda oc-cidentale del lago Maggiore sorgono, edificate su di un grande scoglio di roccia, le rovine di unantico castello: secoli fa, per molto tempo, fu il covo di questi quattro fratelli di Cannobio, chedivennero pirati al servizio della famiglia Rusconi, di parte guelfa. Con le loro veloci imbarca-zioni assalivano le grandi barche da carico dirette a Locarno o Arona, derubavano i passeggerie rapivano le donne. Naturalmente solo quelle giovani e belle. Anche i paesi rivieraschi eranospesso vittime delle loro incursioni. La tecnica era sempre la stessa: arrivavano di notte, sac-cheggiavano, incendiavano e se qualcuno cercava di opporsi veniva ucciso subito a coltellate o,se riconosciuto nemico dei Rusconi, catturato e condotto fino sul ponte dell'Agostana, doveveniva massacrato a colpi di mazza ferrata di fronte alla gente di Cannobio. I cadaveri degliavversari politici erano buttati nel fiume dove l'acqua ribolle fra le rocce.

Una delle loro più famose imprese fu l’assalto alla città di Angera. La scusante politica ad-dotta era che dovevano uccidere un membro della famiglia ghibellina dei Vitaneschi, residen-

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Storie di pirati del lago Maggioretra realtà e leggenda

DI ROBERTO CORBELLA

A trent’anni dalla scomparsa, Milano ha reso omaggio al suo illustre figlio: noi lo facciamo ricordando il suo film più “centrale”, “Il gattopardo”.

Barconi da trasporto sul lago. Questo e i due successivi disegni furono realizzati da Emma Mazza per Lasponda magra di Costanzo Ranci, volume stampato nel 1931 dalla Libreria Editrice Ambrosiana di Milano.

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te nel borgo. Giunti silenziosamente di notte. sbarcarono a Ranco per non avere a che fare coneventuali milizie di guardia al porto della cittadina. A Ranco i pirati avevano un complice cheli attendeva coi cavalli. Così arrivarono ad Angera e circondarono il borgo, ma il rumore deglizoccoli, nel gran silenzio di allora, si udì da lontano e mise in allarme il loro avversario. Costui,sceso al lago, salì su una barca e remò fino all'Isolino Pantegora, nascondendosi tra i cespugli.Intanto i pirati erano entrati in paese. Si sentivano le loro grida accompagnate dai colpi dellemazze contro le porte delle case, poi le urla e il pianto delle donne, aggredite da quei diavoliscatenati. Nel suo nascondiglio fra le canne, l'uomo che era motivo di tutto quel disastro nonebbe il coraggio di uscire. Sarebbe stato immediatamente sopraffatto e non avrebbe nemmenogiovato alla gente del paese che i Mazzarditi ormai stava uccidendo, violentando e rapinandocon la scusa che la riteneva colpevole di avergli dato asilo. I pirati, raccolto un ingente bottino,incendiarono alcune case. Le fiamme si estesero a tutto l'abitato, ormai avvolto in una densacortina di fumo. Completata l’opera, i pirati se ne andarono. Quando lo scalpitio dei cavalli siperse in lontananza, l'uomo uscì dal nascondiglio e fuggì lontano. Questa fu probabilmente lapiù eclatante impresa dei pirati del Verbano. Mai più, in seguito, essi osarono assalire un borgo.

Il “Lupo” di Angera. Angera nell’ultima decade del Seicento vide le gesta di una figura mi-steriosa, un pirata nativo di Arona di cui non si ricorda il nome ma solo il soprannome: Ur Luff(il “Lupo”). Attorno a questo personaggio sono nate diverse leggende. Pare fosse un omone gi-gantesco, scuro di carnagione e con una gran barba ispida. Protetto dal corrotto governatoredella città, cui cedeva parte del bottino, il “Lupo” agiva generalmente d’inverno, quando, coper-to dalla nebbia o dalla pioggia assaliva i barconi carichi di merci che transitavano di fronte adArona diretti a nord. Il suo ricetto (dove nascondeva il bottino temporaneamente) era l’Antromitraico, ai piedi della Rocca, che forse proprio da lui più tardi prese il nome di “Tana delLupo”. Lavorava con una banda di pochi seguaci e si mormorava fosse spietato e crudele. Laleggenda dice che, per vendetta, uccise e cucinò un bam-bino figlio di un suo nemico di Taino e poi se lo mangiò.

Un'altra leggenda racconta che fece costruire dai suoiprigionieri un tunnel che passava sotto il lago nel tratto traAngera e Arona. Completata la costruzione, li uccise tuttiper impedire che ne rivelassero l’ubicazione. La galleria gliserviva per comparire o scomparire a sorpresa da una cittàall’altra, per avere sempre una via di fuga sicura. Come tuttii masnadieri dell’epoca anche il “Lupo” aveva il suo puntodebole: le belle fanciulle, soprattutto molto giovani. Si nar-ra che una notte con la sua banda rapisse due sorelle di cuisi era incapricciato e le trascinasse attraverso la famosa gal-leria fino ad Arona, dove aveva il suo covo, tra i ruderi diuna vecchia fortificazione. Dovette essere una notte di vio-lenze alla fine della quale il brigante, distrutto dalla fatica,cadde in un sonno profondo. Le due fanciulle, non reg-

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gendo alla vergogna, si arrampicarono sui resti smozzi-cati di una torre e si suicidarono gettandosi nel vuoto.

Questo provocò le ire del pievano di Arona che sco-municò il pirata. Bisogna dire che fino a quel momentoil “Lupo” aveva goduto di una certa impunità perchéprotetto dal signorotto del luogo, uno dei tanti Viscontidi ramo cadetto. Ora, di fronte alle ire della Chiesa, an-che il Visconti dovette abbandonarlo sia pure a malin-cuore dato che ricettandone la refurtiva costui faceva col“Lupo” degli ottimi affari. Dopo questi fatti le impresedel brigante di Arona vanno diradandosi e il “Lupo”scompare, resta il suo ricordo nel toponimo della “Tanadel Lupo” che ne perpetra la leggenda. Se confuse e pococerte sono le notizie riguardanti la vita di questo brigan-te, ancora più fumose sono quelle relative la sua morte:

tradizionalmente si dice che sia morto annegato durante il crollo della sua galleria sotto il lago,ma un autore ottocentesco accenna a una morte violenta in seguito a una rissa in taverna.

Luison Braghett e Polidoro da Cerro. Anno Domini 1686: il gran barcone a vela del ban-chiere di Bellinzona, proveniente da Sesto Calende, sta compiendo le manovre di ancoraggio.Al largo la tramontana incalza, le onde si sono fatte minacciose, soprattutto per chi deve risa-lirle; per mettersi al riparo, gli Svizzeri sono venuti a ormeggiare al riparo nel porticciolo natu-rale di Travaglia. Come se niente fosse, i pirati, sulle barche nascoste nel canneto, spiano le loropiù piccole mosse, mentre quelli, senza accorgersi di niente, stanno placidamente sul ponte adaspettare che il vento si calmi. Passa il pomeriggio, arriva la notte e il tempo non migliora.L’indomani mattina, infine, al sorgere del sole, il lago sembra più docile. Tosto la barca col teso-ro alza la vela e prende il largo. I pirati, armati fino ai denti, remando, spingono l’imbarcazio-ne fuori dal canneto, alzano anch’essi la vela e salpano. Le due imbarcazioni corsare, a vele spie-gate, intraprendono l’inseguimento. Ma la tramontana riacquista forza. Sotto le violente raffi-che gli scafi si inclinano pericolosamente. I Ticinesi, che non hanno motivo di diffidare, dimi-nuiscono la velatura e decidono di ritornare verso riva, per mettersi al riparo. La fortuna è dallaparte dei camisardi. In una sola lunga bordata manovrano verso il largo per non insospettire lapreda, lasciando il barcone svizzero molto indietro, poi virano di colpo e puntano sul castellodi Caldè, dove si acquattano sotto riva aspettando il passaggio del loro bottino. Alcune ore piùtardi, la tramontana di nuovo perde vigore e la barca del tesoro riprende il suo viaggio.

Eccola! Essa costeggia la riva molto serenamente con una velatura ridotta. E, al momentobuono, i pirati le compaiono dritto davanti. È l’abbordaggio, sciabole in pugno. “Giù le vele,arrendetevi!”, grida il loro capo. Stupito, l’equipaggio non si difende neppure e mentre le dueimbarcazioni derivano col vento i pirati trasportano il bottino a bordo. Poi tagliano tutti i cor-dami, spezzano i remi, legano i marinai alle loro panche e, particolare divertente, fanno lorogiurare solennemente di non guardare in quale direzione si sarebbero allontanati! Per maggio-

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re precauzione, fanno finta di dirigersi verso Cannobio. Quindi. velocemente, cambiano dire-zione per avvicinarsi a Luino. dove hanno il nascondiglio alla foce del Tresa. Sulla riva li aspet-tano con dei carri, sui quali caricare il bottino. Qualche istante dopo, nella più grande anima-zione, comincia la spartizione del mucchio d’oro e d’argento rubati. Una parte di queste ric-chezze andrà all’oste di Sesto Calende che ha fatto la spiata ai Luinesi. Questa è la ricostruzio-ne di una classica azione piratesca effettuata sul lago Maggiore nel Seicento.

Luigi Bassani (o forse più probabilmente “da Bassano”), detto Luison Braghett (Luigione coicalzoncini), fu uno di questi pirati che operarono sul Verbano nel periodo susseguente la Con-troriforma. Di lui si sa poco, come d’altronde degli altri masnadieri dell’epoca. Forse Luigi daBassano era tra quei pirati che per qualche tempo imperversarono tra Maccagno e il Gamba-rogno, trovando rifugio per le loro barche in quel tratto di costa dirupa che ora fa parte delcomune di Tronzano ed è il paradiso dei surfisti. Per diversi anni questi pirati di piccolo cabo-taggio uscivano dai loro covi con le loro veloci pinnacce nei giorni in cui il Maggiore soffiavapiù forte e le grandi barche da carico dirette a Locarno si trovavano in difficoltà. Raggiunta lapreda, un veloce abbordaggio, qualche pistolettata o sciabolata tirata bene sistemava la questio-ne, seguiva un rapido trasbordo del bottino e quindi le imbarcazioni corsare scomparivano indirezione di Maccagno, a quei tempi terra libera e indipendente, che addirittura batteva mone-ta propria. La libertà d’azione di questi briganti durò un ventennio, quindi le continue la-mentele dei buoni borghesi spinsero le milizie dei Tre Cantoni (Uri, Schwyz, Unterwald), a queltempo tutori o padroni del Ticino, ad agire decisamente: in poche settimane i pirati dell’AltoVerbano si dileguarono, fuggendo verso sud, in Lombardia, dove l’ingarbugliata situazione poli-tica e l’ignavia delle autorità permetteva loro ampie libertà. Tracce su questi “pirati” si possonotrovare a Berna all’Archivio di Stato, nelle relazioni in lingua tedesca dei Balivi dei Tre Cantonie negli scritti del Ranci (1895-1942), del Morigia e di altri autori dei secoli scorsi. In questiperò non vi sono dati storici sicuri quanto, per lo più, resoconti di imprese leggendarie eaneddoti curiosi: quello, cioè, che più piaceva ai lettori del loro tempo.

Così viene ricordata la figura di Polidoro da Cerro (in realtà era di Ceresolo) che aveva il suocovo in una forra impenetrabile vicino a Reno e teneva la barca alla fonda in unainsenatura nei pressi. Polidoro era uno di quei pirati che sarebbero piaciuti a Sal-gari: bello, virile, di buona educazione, forse di nascita nobile. Incontrasto la sua ciurma era composta da avanzi di galera ributtanti emalvagi. Più che abbordare i battelli al lar-go questi pirati preferivano attaccare in ac-que basse di modo che, se anche il naviglio si fosse rovesciatosarebbe stato facile recuperare la refurtiva. Tra le sue imprese si ri-corda la cattura di un navicello che trasportava i forzieri pieni dizecchini d’oro delle “gabelle”, i proventi delle tasse incassate.

Si dice che avesse nascosto ingenti tesori, proventi dei suoi ab-bordaggi, vicino a Laveno, in un’anfratto del Sasso del Ferro, e cheprogettasse di ritirarsi a vita privata e vivere la vecchiaia gaudente

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del ricco borghese. Purtroppo commise l’errore di innamorarsi di una sposina, una certa Ce-cilia, che fece rapire proprio il giorno delle nozze e, dopo averla violentata, diede in pasto aisuoi uomini col risultato che possiamo immaginare. La cosa fece molto scalpore e il Capitanodi Giustizia locale non potè esimersi dal raccogliere un piccolo esercito di cinquanta soldati,tutti armati di moschetti e picche, e marciare contro i pirati di Polidoro. I militari batteronoinutilmente le forre boscose tra Cerro e Arolo finchè non scoprirono e incendiarono le imbar-cazioni dei pirati, ben nascoste alla foce del Bardello. Disperato Polidoro attaccò una cascina aMirasole ma venne respinto, inseguito e i suoi uomini in gran parte uccisi. Catturato, venneimpiccato a Ceresolo in riva al lago che aveva visto le sue gesta.

Ul Bianc de Santa Caterina. Il “Bianco”, pirata leggiunese vissuto pare nel XVII secolo, èuna figura ancora più misteriosa del “Lupo” di Angera. Di lui e delle sue imprese sono rimastepoche tracce scritte e anche queste appartengono più alla leggenda che alla storia. Sfrondandole sue storie dagli stereotipi dell’epoca (assalti ai conventi per procurarsi prede femminili, aggua-ti con le barche ai ricchi mercanti che transitavano sotto la parete di roccia del Motto Scigolino,fuga dal carcere travestito da frate e susseguente rifugio nell’eremo di Santa Caterina da dovesarebbe poi fuggito portandosi via un tesoro di ex-voto d’oro e d’argento e tanti altri episodi piùo meno fantasiosi), rimane poco a cui uno storico possa aggrapparsi per delineare un ritrattopiù o meno reale di questo brigante di lago. Sarebbe bello, al riguardo, se qualche lettore potes-se fornire notizie sul “Bianco”. La mia impressione è che ci troviamo di fronte ad un depistag-gio d’epoca molto ben riuscito. A quei tempi numerosi Valdesi in fuga dalla Provenza, doveerano perseguitati dal re di Francia, si rifugiarono in Svizzera e quindi da lì in Lombardia.Questi, perduti tutti i loro averi, per sopravvivere si erano spesso compromessi col brigantag-gio. Tra di essi vi era un certo Jean-Pierre Blanchet, proveniente dalla piccola città di Lutry.Blanchet già da adolescente si lanciò sulle grandi strade dell’avventura: preso possesso dei rispar-mi paterni, li sperperarò fino all’ultimo soldo. Finite le ricchezze, visto che non gli piaceva lavo-rare, fece per un po’ la spia e poi il truffatore, spesso in fuga ma sempre affascinante e di buonumore. Da truffatore a pirata sul lago Lemano il passo è breve, ma quando sente la Legge allecalcagna eccolo fuggire a Sion, passare il Sempione e giungere in Val d’Ossola, dove le sue trac-ce si perdono. E se il misterioso “Ul Bianc”, pirata a Leggiuno, fosse stato il nostro Blanchet(letteralmente “Bianchetto”) che aveva italianizzato il proprio nome? Non lo sapremo mai.

Blanchet ricompare a Losanna anni dopo, tanto ricco da poter acquistare un castello, sposar-si e ottenere una carica politica. Ma evidentemente i soldi non bastano mai e il Nostro si accor-da nientemeno che col duca di Savoia per fare un colpo grosso alle spalle dei banchieri di Lo-

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L’eremo di Santa Caterina del Sasso.

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sanna che trasportano su vascelli il loro oro da una parte all’altra del lago. Con un temerario ab-bordaggio il colpo grosso riesce. Prima Blanchet accantona 26 sacchi di monete d’oro destinatial duca, quindi si preoccupa di nascondere il bottino nella cantina del suo castello. Il pirata, si-stemati per sempre i problemi economici, pensava di poter riprendere il ritmo placido della suavita borghese... ma questa volta si era spinto troppo in là. Il subbuglio, l’agitazione e il via-vai ditutti quei brutti ceffi nel giardino di Blanchet erano stati notati dai vicini. Egli verrà denuncia-to e la perquisizione al castello porterà al recupero del bottino: arrestato, torturato, venne infinedecapitato. Resta il dubbio se Blanchet non fosse stato “Ul Bianc” in una parentesi lombarda...

I Naufragatori. Nei secoli XVII e XVIII vi fu anche un altro tipo di pirateria che interessò igrandi laghi lombardi. In periodi di crisi economica o turbolenza politica, quando si allentavala morsa del governo centrale e si era a un passo dell’anarchia, ecco gli abitanti dei piccoli cen-tri rivieraschi formare delle bande dedite al brigantaggio sommerso. Possiamo chiamarle “co-operative di pirateria”, imprese criminali - alle quali partecipavano spesso tutti gli uomini valididel paese in tempo di carestia - che si scioglievano quando l’emergenza passava o era stato rac-colto sufficiente bottino per supplire alle magre risorse del loro mestiere di pescatori-contadini.

Capolago per il lago di Varese, Arolo, Ispra, Ghiffa e Feriolo per il lago Maggiore sono a voltecitate quali covi di queste bande criminali occasionali. La tattica di quella gente era molto sem-plice: una spia (di solito donne che giravano per i mercati) avvertiva quando si sarebbe effettua-ta una spedizione di merci preziose via lago. Il giorno convenuto, gli uomini del paese prepara-vano una trappola: un gruppo di donne con bambini (per non destare sospetti) si imbarcava suuna zattera saldamente ancorata in un punto (ad esempio le “Fornaci” di Ispra o il Sass Cavalascdi Ranco), dove vi era una fila di scogli sommersi a poca distanza dalla riva. Alla vista del barco-ne da trasporto che attendevano, le donne si mettevano a gridare aiuto e ad attirare in tutti i mo-di l’attenzione. Solitamente l’equipaggio del naviglio accostava, vuoi per curiosità vuoi perchéattratti da donne giovani e piacenti, e il barcone si arenava e a volte fracassava la prua sugli sco-gli. Nella confusione che seguiva, gli uomini del paese si gettavano in acqua e salivano numerosia bordo, massacravano a coltellate e a colpi d’ascia tutti i membri dell’equipaggio per non lasciartestimoni e, portato a riva il bottino, bruciavano il barcone per cancellare ogni traccia della loroimpresa. Questa era pirateria imposta. Imposta dalla fame, dal malgoverno e dalla disperazione.Tra i nostri antenati ci furono anche questi naufragatori, diventati pirati per nutrire i loro figli.

Armi, tattiche e imbarcazioni. Una trappola frequentemente usata dai pirati lacustri eraquella detta “del naufrago”: saputo dell’arrivo di una nave contenente preziosi, le barche dei pi-rati si nascondevano dietro una punta boscosa e quando il battello era in vista, uno di loro sigettava in acqua aggrappato a un trave e nuotava incontro al vascello gridando aiuto. I buonimarinai lo issavano a bordo e il pirata recitava la parte del povero naufrago e raccontava una sto-riella plausibile. La nave proseguiva il viaggio e quando si trovava all’altezza dell’imboscata ilfinto naufrago repentinamente tagliava le sartie facendo cadere l’albero. Disalberata, la nave eraimpossibilitata a muoversi e veniva facilmente abbordata dai pirati con le loro veloci pinnacce.Altro trucco di cui facevano spesso uso i corsari era quello di lasciare uno dei loro in un ango-

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lo remoto del lago, in un punto dove le “nonne”da carico erano costrette a bordeggiare. Attiratal’attenzione dei marinai, il finto frate li chiamavaa riva e quando il battello stava per approdare, ipirati l’accerchiavano con le loro barche piùmaneggevoli e seguiva la battaglia. Solitamente,se si arrivava all’abbordaggio, i pirati avevano lameglio mentre in caso di scontro in acque aperteil risultato era deciso dalla potenza di fuoco edalla velocità di manovra dei contendenti.

Quali erano le imbarcazioni usate ai quei tempi sui nostri laghi? Innanzitutto vi era la gran-de chiatta a fondo bombato, senza deriva, timone a remo e albero dotato di una grande velaquadra. Lenta e poco manovrabile, poteva però portare grandi carichi ed era molto sicura in ac-que agitate. Era la più usata per le merci. Questi barconi andavano solo col vento in poppa otutt’al più al gran lasco, potevano bolinare poco per cui se dovevano andare da sud a nord sfrut-tavano il vento Inverna che soffia di mattina, mentre al pomeriggio vi era il vento di Tramonta-na (se forte, era chiamato Maggiore) per andare da nord a sud, per cui generalmente la mattinaall’alba partivano da Arona o Sesto e risalivano il lago finché vi era vento. Se quando cadeva ilvento non avevano raggiunto la meta, allora accostavano e passavano la notte presso la riva. Lamattina ripartivano. Il ritorno seguiva le stesse modalità in senso inverso. Il vento più forte erail Mergozzo che soffiava da Fondo Toce verso Cerro e a volte faceva paura, tant’era violento.

Dopo la chiatta, vi era l’imbarcazione detta “lucia”, soprannominata anche “nonna”, la clas-sica barca del lago di manzoniana memoria, a fondo piatto con la copertura di tela a galleria,lunga a volte anche 8-10 m, usata per la pesca ma anche per il trasporto di merci e persone; so-litamente era mossa coi remi ma, se vi era una bella brezza di poppa, montava un piccolo albe-ro con vela quadra. L’imbarcazione utilizzata dai pirati per le loro imprese era la “pinnaccia” chepoteva raggiungere una lunghezza di 8 m. Veloce e agile era attrezzata con albero e vela latina epoteva portare una ciurma di 6 marinai. A volte per gli agguati ai navigli che si accostavano obordeggiavano sotto riva i pirati usavano i “triass” a remi: a fondo piatto. lunghe 6-7 m, veni-vano manovrate solo coi remi ed erano simili allepiù piccole barche da pesca tradizionali dei nostrilaghi tuttora usate. Furono in uso fino a tutto ilXX secolo. La barca detta “galeone” o “battell” in-vece non si usa più: lunga 15-20 m, cabinata constiva, aveva un piccolo castello a poppa che ripa-rava il timone e un albero con vela latina e fioc-chi (o “genova”) sul bompresso. Fu la più grandeimbarcazione che solcò i nostri laghi. Questi na-vigli erano armati con una o più spingarde (simi-li a quelle usate ancora oggi per la caccia alla sel-

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“Nonna”

“Triass”

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vaggina di passo) e con grossi archibugi montati superno rotante che sparavano a mitraglia,ovvero venivano caricati con tutto: dai coccidi vetro ai pezzi di ferro, chiodi e anche pie-tre. Quando colpivano avevano un effetto de- vastante e provocavano delle orribili ferite.

A volte per disalberare le barche o stracciare le vele, e così immobilizzare il naviglio, si usavasparare con l’archibugio, da distanza ravvicinata, due palle di piombo incatenate tra loro. Il tiroa mitraglia era mirato ad allargare il più possibile il campo di tiro utile, più che a uccidere sitendeva ad azzoppare e a mutilare gli avversari, per poi finirli in fase d’abbordaggio. Grosse pi-stole a pietra focaia con caricamento a ruota e archibugi leggeri detti moschetti (da cui ‘mo-schettiere’) che sparavano palle tonde di piombo con discreta precisione. Le spade non eranocerto i fioretti dei film di cappa e spada ma lunghi e pesanti spadoni manovrati con due mani,a volte con lama ondulata o seghettata, capaci di troncare la gamba di un uomo con un colpo.Ma più comunemente si usavano i c.d. cutlass, sciabole corte a lama larga. In assalti e abbor-daggi la ciurma era armata di coltellacci eredi degli scramasax longobardi, di scuri da macellaiocol manico lungo un metro o più, da usare a due mani, nonchè di mazze chiodate o ferrate.

Conclusione. Questa, per sommi capi, la storia di alcuni dei più noti pirati del lago Maggio-re, storia intrigante e piena di misteri in cui è difficile scindere la realtà storica dal complesso ditradizioni orali e romantiche leggende ottocentesche. Restano infatti pochissimi documenti d’e-poca e le storie sono sempre di seconda mano, riferite anni dopo i fatti. È possibile, col tempo,che possano anche emergere nuove fonti. Ma già così mi pare logico trarre questa conclusione:il lago Maggiore, gloria dell’Insubria e uno dei più belli al mondo, si merita questi personaggi,questi pirati, queste vicende di lotte selvagge, belle donne, oro e sangue: tutto ciò fa parte del suofascino. L’autore di questo scritto lo percorre da cinquant’anni con amore e affetto, prima comegiovane pescatore su un triass, poi in barca a vela a far regate, ora con un kayak che scivola tra leonde e penetra negli anfratti più nascosti. Posso assicurarvi che, soprattutto d’inverno, quandosolo i veri laghitt escono al largo, strane ombre emergono dalla nebbia e le canne sussurrano ditesori perduti e di feroci abbordaggi. Veri o leggendari che siano, lasciamo al lago i suoi pirati.

Bibliografia

AA.VV., Grida della Lombardia austriaca prenapoleonica (a c. di R. Leydi); AA.VV., Inchieste napoleoniche suicostumi e tradizioni nel Regno Italico (carteggio cisalpino), Archivio di Bellinzona (tramite concessione AAT)L. Bertarelli, Piemonte, Lombardia, Canton Ticino, Touring Club Italiano, Milano, 1913 P. A. Curti, Tradizioni e leggende, Colombo, Milano, 1856, voll. I-IV A. Gheerbrant, Bianco, AST, vol. I, AV LosannaC. Avalle, Leggende diaboliche della storia italiana, Torino, 1846AA.VV., Streghe, briganti, diavoli e santi (Racconti della Lombardia), Manoscritto Gribaudo, TorinoC. Ranci, La sponda magra, Libreria Editrice Ambrosiana, Milano, 1931AA.VV., L’albero del tempo, Angera, 2003Le fonti orali: P. Muschin, L. “Gnacia” Costantini, A. “Balin” Cantabene

FOLKLORE

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Armi dei pirati.

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