Dossier Cambogia

37
Pellegrini sulle strade dell’illuminazione Nella prefazione a “Le terre del Buddha” di Piero Verni - TCI Milano 2001 - secondo un’antica tra- dizione sapienziale orientale esistono tre tipi di viaggiatori. C’è chi procede coi piedi: i suoi passi s’impolve- rano su piste assolate, s’inerpicano su erte sco- scese, si riposano in valli, oasi e locande. Costoro sono i mercanti, i cui percorsi sono comandati da scopi e interessi precisi e il cui viaggio è sempre e solo un transito. C’è, poi, chi avanza per strade e villaggi con gli occhi: costui vuole scoprire e sapere, penetrare in città operose o abbandonate ricostruendone la sto- ria, sostare in antichi castelli, perdere lo sguardo negli arabeschi di un dipinto o di un bassorilievo, contemplare l’orizzonte luminoso di un panorama. Costoro sono i sapienti. C’è, infine, un terzo tipo di viaggiatore: è chi cammina col cuore. Egli non si accontenta di pro- cedere, visitare, sapere, ma vuole vivere con gli uomini e le donne delle regioni attraversate, ascoltarli e parlare con loro e - come dice un afo- risma arabo - “mettere in luce la perla segreta di Dio” che dappertutto s’annida. Costui è il pelle- grino della verità. È naturale che si possano in- trecciare queste esperienze e, per certi versi, è ne- cessario farlo perché piedi e occhi sono sempre indispensabili per viaggiare. Ma la terza esperien- za è quasi al vertice delle altre e paradossalmente può essere vissuta anche senza muoversi dalla propria stanza, leggendo e interrogando testi sacri e nobili, storie antiche e racconti recenti, miti re- moti e testimonianze attuali. Ai viaggiatori del cuore è dedicato questo come gli altri volumi della collana “I luoghi della religione”. Le fedi, infatti, intrecciano sempre spazio e infi- nito, tempo ed eterno, caducità e assoluto, Parola divina e parole umane, Creatore e creatura. Per dirla con un proverbio africano, agganciano una stella che risplende nel cielo al manico dell’aratro che sta ferendo le zolle della terra. È ciò che appare proprio in una religione spesso fraintesa e banalizzata in Occidente, anche a causa di certe “esportazioni” preconfezionate: il buddhismo, in- fatti, sbocciato dalla vicenda affascinante di un principe indiano, Siddharta Gautama, vissuto nel VI secolo a.C., è fiorito sotto cieli diversi dive- nendo un albero gigantesco dalle ramificazioni imponenti. In forma quasi narrativa, ma con finezza ed essen- zialità, Piero Verni conduce il viaggiatore del cuore non solo a conoscere la radice di quell’al- bero, cioè la vita del Buddha e il suo complesso e sorprendente messaggio, ma anche lo avvia verso le terre ove si stende l’ombra maestosa dei rami. Così, ci si incammina verso lo Sri Lanka, la Bir- mania, la Thailandia e la Cambogia ove prevale una forma più rigorosa di buddhismo, l’ Hinayana, “il piccolo veicolo”, o “via stretta”, segnata da un’esigente disciplina interiore. È difficile non pensare a quella splendida capitale mistica che fu Pagan, la città birmana dai cinquemila edifici sacri che aveva già abbacinato Marco Polo ma che riesce persino a emozionare oggi tanti turisti che si muovono solo coi piedi, per stare alla classificazione sopra enunciata. Ma ci attendono anche le sterminate regioni della Cina, del Giappone e del Vietnam: su di esse si leva un’altra grandiosa ramificazione dell’albero buddhista. Essa è indicata col termine Mahayana, cioè “il grande veicolo”, una visione religiosa a respiro più ampio, esteso a tutti gli esseri. Verni, usando un’immagine spaziale moderna, la compara a un’autostrada ben più espansa e veloce rispetto allo stretto sentiero d’altura dell’Hinaya- na. Naturalmente, proprio come accade per le au- tostrade, molti sono gli snodi da cui si dipartono ulteriori percorsi: sono quasi ramoscelli che ven- gono generati dal ramo principale e incarnano scuole e itinerari religiosi differenti. Infine, su quella terra che più è diventata in Occi- dente l’emblema del buddhismo in questi ultimi decenni, cioè il Tibet e la relativa regione hima- layana, per merito della figura del XIV Dalai Lama, si erge un ultimo ramo originale, quello del Vairayana, cioè del “veicolo di diamante”, un simbolo di indistruttibilità legato allo stato illumi- nato della mente. Il nostro pensiero corre subito ai monasteri di quella terra, simili a fortezze dello spirito, assediate ora non solo dalla drammatica contemporaneità politica ma anche da un flusso di visitatori vocianti e superficiali. Sappiamo, infatti, che il buddhismo - che nei secoli si è sfrangiato in tante altre ramificazioni - ora si affaccia anche in Occidente. A fargli da battistrada sono stati anche alcuni fenomeni culturali: pensiamo solo alla con- tinua fortuna di cui gode il romanzo Siddharta che lo scrittore tedesco Hermann Hesse pubblicò nel 1922 o al film Il piccolo Buddha del regista Bernardo Bertolucci. L’Enciclopedia delle religioni in Italia, curata nel 2001 dal Centro studi sulle nuove religioni (edizione Elledici), sotto la voce “Gruppi di origine buddhista” elenca ben settanta denominazioni diverse dai nomi spesso esotici. Ma è indiscutibile che “le terre del Buddha” ri- mangono per eccellenza quelle ove ci conducono queste pagine. Esse, però, non sono solo destinate ai “pellegrini del cuore”. Già dicevamo che necessari sono pure 1

Transcript of Dossier Cambogia

Page 1: Dossier Cambogia

Pellegrini sulle strade dell’illuminazioneNella prefazione a “Le terre del Buddha” di PieroVerni - TCI Milano 2001 - secondo un’antica tra-dizione sapienziale orientale esistono tre tipi diviaggiatori.C’è chi procede coi piedi: i suoi passi s’impolve-rano su piste assolate, s’inerpicano su erte sco-scese, si riposano in valli, oasi e locande. Costorosono i mercanti, i cui percorsi sono comandati dascopi e interessi precisi e il cui viaggio è sempre esolo un transito.C’è, poi, chi avanza per strade e villaggi con gliocchi: costui vuole scoprire e sapere, penetrare incittà operose o abbandonate ricostruendone la sto-ria, sostare in antichi castelli, perdere lo sguardonegli arabeschi di un dipinto o di un bassorilievo,contemplare l’orizzonte luminoso di unpanorama. Costoro sono i sapienti.C’è, infine, un terzo tipo di viaggiatore: è chicammina col cuore. Egli non si accontenta di pro-cedere, visitare, sapere, ma vuole vivere con gliuomini e le donne delle regioni attraversate,ascoltarli e parlare con loro e - come dice un afo-risma arabo - “mettere in luce la perla segreta diDio” che dappertutto s’annida. Costui è il pelle-grino della verità. È naturale che si possano in-trecciare queste esperienze e, per certi versi, è ne-cessario farlo perché piedi e occhi sono sempreindispensabili per viaggiare. Ma la terza esperien-za è quasi al vertice delle altre e paradossalmentepuò essere vissuta anche senza muoversi dallapropria stanza, leggendo e interrogando testi sacrie nobili, storie antiche e racconti recenti, miti re-moti e testimonianze attuali. Ai viaggiatori delcuore è dedicato questo come gli altri volumidella collana “I luoghi della religione”.Le fedi, infatti, intrecciano sempre spazio e infi-nito, tempo ed eterno, caducità e assoluto, Paroladivina e parole umane, Creatore e creatura. Perdirla con un proverbio africano, agganciano unastella che risplende nel cielo al manico dell’aratroche sta ferendo le zolle della terra. È ciò cheappare proprio in una religione spesso fraintesa ebanalizzata in Occidente, anche a causa di certe“esportazioni” preconfezionate: il buddhismo, in-fatti, sbocciato dalla vicenda affascinante di unprincipe indiano, Siddharta Gautama, vissuto nelVI secolo a.C., è fiorito sotto cieli diversi dive-nendo un albero gigantesco dalle ramificazioniimponenti.In forma quasi narrativa, ma con finezza ed essen-zialità, Piero Verni conduce il viaggiatore delcuore non solo a conoscere la radice di quell’al-bero, cioè la vita del Buddha e il suo complesso esorprendente messaggio, ma anche lo avvia versole terre ove si stende l’ombra maestosa dei rami.

Così, ci si incammina verso lo Sri Lanka, la Bir-mania, la Thailandia e la Cambogia ove prevaleuna forma più rigorosa di buddhismo, l’Hinayana,“il piccolo veicolo”, o “via stretta”, segnata daun’esigente disciplina interiore. È difficile nonpensare a quella splendida capitale mistica che fuPagan, la città birmana dai cinquemila edificisacri che aveva già abbacinato Marco Polo mache riesce persino a emozionare oggi tanti turistiche si muovono solo coi piedi, per stare allaclassificazione sopra enunciata.Ma ci attendono anche le sterminate regioni dellaCina, del Giappone e del Vietnam: su di esse sileva un’altra grandiosa ramificazione dell’alberobuddhista. Essa è indicata col termine Mahayana,cioè “il grande veicolo”, una visione religiosa arespiro più ampio, esteso a tutti gli esseri.Verni, usando un’immagine spaziale moderna, lacompara a un’autostrada ben più espansa e velocerispetto allo stretto sentiero d’altura dell’Hinaya-na. Naturalmente, proprio come accade per le au-tostrade, molti sono gli snodi da cui si dipartonoulteriori percorsi: sono quasi ramoscelli che ven-gono generati dal ramo principale e incarnanoscuole e itinerari religiosi differenti.Infine, su quella terra che più è diventata in Occi-dente l’emblema del buddhismo in questi ultimidecenni, cioè il Tibet e la relativa regione hima-layana, per merito della figura del XIV DalaiLama, si erge un ultimo ramo originale, quello delVairayana, cioè del “veicolo di diamante”, unsimbolo di indistruttibilità legato allo stato illumi-nato della mente. Il nostro pensiero corre subito aimonasteri di quella terra, simili a fortezze dellospirito, assediate ora non solo dalla drammaticacontemporaneità politica ma anche da un flusso divisitatori vocianti e superficiali. Sappiamo, infatti,che il buddhismo - che nei secoli si è sfrangiato intante altre ramificazioni - ora si affaccia anche inOccidente. A fargli da battistrada sono stati anchealcuni fenomeni culturali: pensiamo solo alla con-tinua fortuna di cui gode il romanzo Siddhartache lo scrittore tedesco Hermann Hesse pubblicònel 1922 o al film Il piccolo Buddha del registaBernardo Bertolucci. L’Enciclopedia dellereligioni in Italia, curata nel 2001 dal Centrostudi sulle nuove religioni (edizione Elledici),sotto la voce “Gruppi di origine buddhista” elencaben settanta denominazioni diverse dai nomispesso esotici.Ma è indiscutibile che “le terre del Buddha” ri-mangono per eccellenza quelle ove ci conduconoqueste pagine.Esse, però, non sono solo destinate ai “pellegrinidel cuore”. Già dicevamo che necessari sono pure

1

Page 2: Dossier Cambogia

piedi e occhi. Soprattutto gli occhi - che si ferma-no a contemplare templi e statue - sono colmati inquesto volume dallo straordinario apparato icono-grafico approntato da Andrea Pistolesi.Un capitoletto indica inoltre quanto “l’arte delBuddha” abbia i suoi canoni, i suoi simboli, i suoisegreti ammiccamenti.Basti soltanto sostare con lo sguardo davanti allastatua del Buddha nella classica postura della me-ditazione: ogni tratto, ogni segno del corpo, ognioggetto come il trono, il parasole, la ruota, l’albe-ro, l’elefante, il cuscino o il loto rimandano a si-gnificati trascendenti e mistici. È per questo chevisione e conoscenza s’intersecano; è per questo

che viaggiare è anche sostare per ammirare ecomprendere, è vivere un’esperienza interiore checoinvolge appunto occhi e cuore, sensi e spiritua-lità. Solo così si diventa fratelli e amici, pur nelladiversità delle origini, delle fedi e delle culture.Il famoso missionario spagnolo san Francesco Sa-verio (1506-1552) diceva del monaco buddhistagiapponese Ninjit: “Es este Ninjit tanto myamigo, que es maravilha”. Sì, era nata un’amiciziameravigliosa tra due uomini e credenti pur cosìdiversi tra loro.

Gianfranco Ravasida “Il Sole 24 Ore” - 2 dicembre 2001

2

Page 3: Dossier Cambogia

KhmerPopolazione autoctona della penisola indocineseche forma la maggioranza del popolo cambogia-no, con minoranze in Laos e in Thailandia. Dalpunto di vista etnico, i khmer costituiscono un mi-scuglio di genti diverse, convenzionalmente desi-gnate col nome di paleoindocinenesi (veddidi conprestiti mongoloidi), accomunate dalla lingua (ilkhmer, appartenente alla famiglia austroasiatica omon-khmer) e da vicende storico- culturali unita-rie. La loro sede originaria sembra essere stata ilLaos meridionale (regione di Bassak, odiernaPaksé), dove intorno al 500 d.C. si formò un prin-cipato guerriero, tributario del regno induista diFu-nan, fondato secondo la tradizione da un ere-mita, Kambu Svayambhuva, e da una ninfa inviatada Shiva, Mera.In circostanze ancora non ben chiarite, i khmers’impadronirono verso la fine del secolo. VI dellacapitale del Fu-nan, completandone la conquistanel secolo seguente e creando nel bacino del Me-kong il regno di Chèn-la che si considera il primoembrione dello stato cambogiano.Di questa prima fase della storia khmer, conclusa-si nel secolo VIII con la disintegrazione del Chèn-la, si hanno scarse notizie, che in ogni caso atte-stano l’elaborazione di una cultura autonoma(iscrizione in khmer di Ak Yom, 609), il predomi-nio dell’induismo sivaita e harihara (ossia lavenerazione di Shiva e Visnu uniti in una solapersona), la formazione di monarchiecentralizzate , governate da adhirāja o reggitorisupremi. Notizie più precise si hanno invece apartire dal secolo IX, dopo la riunificazione delPaese per opera di Jayavarman II (802-851) e iltrasferimento del suo centro di gravità a nord dellago Tonlé Sap, intorno ad Angkor, il maggiorcomplesso urbanistico e monumentale dellaciviltà khmer. Al secolo IX risale infattil’introduzione del culto dei devarāja o re divini,motivo caratteristico della cultura classica khmerche consiste in un adattamento del śivaismo e chesi incentra sull’adorazione del linga reale, sacrosimbolo della sovranità serbato nel tempio-montagna o piramide-mausoleo.Lo stesso intreccio di motivi induisti derivatidall’India e di tradizioni locali si ritrova nellastruttura sociale del periodo classico, con la strati-ficazione della società in caste chiuse, dominateda un’oligarchia di nobili e religiosi adiscendenza matrilineare e organizzata in clanendogamici, isolata sia dalla massa dellapopolazione, sia dal sovrano, la cui funzione eraperlopiù simbolica in quanto fonte supremad’ogni autorità, incarnazione della legge e

dell’ordine sociale, protettore della religione e delPaese.Dapprima l’induismo, quindi dal secolo XIII ilbuddhismo mahāyāna costituirono religioni for-temente aristocratiche, quasi esclusivamente dicorte, di fronte alle concezioni popolari rimaste alungo tenacemente attaccate all’animismo e alculto degli antenati e divenute terreno fertile perla predicazione del buddismo hīnayāna singalesedella scuola theravāda, i cui richiami all’austerità,all’umiltà, all’eguaglianza e alla giustizia esercita-rono una forte presa sulla massa del popolokhmer. Qualunque sia stato il peso effettivo delladiffusione del buddhismo theravāda nel declinodella civiltà khmer, culminato nella conquista thaidi Angkor (1431), certamente esso poté esercitaretale funzione di solvente in un contesto socialefortemente degradato dal sempre più profondo di-stacco delle classi aristocratiche dal resto dellapopolazione.

Lingua e letteratura

Il khmer o cambogiano è la lingua più importantedella famiglia mon-khmer ed è parlato in modounitario su tutta l’estensione della Cambogia.Conservatasi praticamente inalterata nel corso ditredici secoli, la lingua khmer si è tuttavia arric-chita di numerosi imprestiti lessicali dal sanscritodovuti, come quelli dal pāli, all’acquisizione delcanone buddhistico. È una lingua a radici mono-sillabiche, agglutinante, che ignora totalmente isuffissi, mentre fa largo uso di infissi, specie na-sali. Mancano declinazione e coniugazione, men-tre determinante è la collocazione della parolanella frase; è inoltre presente un ricco sistema vo-calico che distingue le brevi e le lunghe, le apertee le chiuse. La scrittura, di lontana origine india-na, è strettamente fonetica.La letteratura khmer si presenta, ora, un po’ comela parente povera fra quelle indocinesi, ma ebbeun grandioso passato di cui esistono solo fram-menti. Ne sono testimonianza le iscrizioni incisesu stele e pilastri dei templi khmer e soprattuttodell’immenso complesso di Angkor Vat. Databilitra il secolo VII e tutto il XIV, le iscrizioni mo-strano, soprattutto le più antiche, la forteinfluenza del sanscrito e sono talora in versi; lacultura che manifestano è tutta accentrata attornoall’idea del dio-re, idea indiana e khmer passatapoi, per tramite khmer, in tutte le cultureindianizzate del sud-est asiatico.

Page 4: Dossier Cambogia

Nulla invece è rimasto dei coevi poemi e raccontistorico-mitologici in antico khmer. Del resto èpraticamente impossibile datare, e ancor più attri-buire a determinati autori, quello che è pervenutodalla letteratura khmer. Se si divide la materia perargomenti, si rileva innanzi tutto una granquantità di testi religiosi buddhisti, in genererielaborazione di testi pāli. Elementi piùgenuinamente locali si possono ritrovare neitrattatelli in versi, detti chbap, specie di breviarietico-sentenziosi che i giovani apprendevano amemoria nelle scuole-monastero.La storia è rappresentata da annali regali con rela-tive genealogie in gran parte leggendarie. Il teatro(lkhaon) è più precisamente una pantomima ese-guita su un testo recitato o cantato, i cui soggettisono quasi esclusivamente presi dal Ream Ker,versione khmer del Ramayana del secolo XVII.Fra i lunghissimi romanzi tradizionali khmer, dalquadro narrativo di provenienza indiana ma connotazioni realistiche popolari e locali, il più cele-bre è la storia di Vorvong e Saurivong, pieno dimirabolanti avventure di principi e principesse,che si usava raccontare durante le veglie serali. Laletteratura popolare è anche molto ricca di rac-conti, talora di animali, spesso desunti da fonti in-diane: i più rappresentativi sono il ciclo del “giu-dice lepre” (Saphea Tonsai) in cui la lepre compa-re come il giudice furbo che riesce a imbrogliareanimali fisicamente più forti; il Satra Keng Kan-tray, anch’esso libro di tipo “giudiziario” in cui ilre Keng Kantray dà giusti giudizi; il ciclo che haper protagonista una sorta di Bertoldo locale(Thmenh Chey). La letteratura contemporanea nonha ancora prodotto opere di grande valore: diqualche interesse sono solo alcuni romanzi scrittinegli Anni Trenta e Quaranta. Nel 1961 ilgoverno istituì premi letterari a concorso: unprimo premio toccò a Suon Surin per il romanzo asfondo sociale Un nuovo sole sorge sopra lavecchia terra.

Folclore e musica

Prima dei più recenti mutamenti politici cambo-giani, le tradizioni folcloriche dei khmer, antichedi secoli, risultavano fra le più importanti dell’a-rea indocinese: espressione di un ambiente essen-zialmente contadino, esse costituivano un notevo-le supporto della religione (prevalentemente bud-

dhismo di ramo theravāda) e della tradizione dina-stica.Abitazione popolare tipica dei khmer è la casa ret-tangolare su palafitte, con ingresso a oriente,pareti di bambù intrecciato o a impasto di erbe efoglie; ha un solo vano (ma quella delle famigliefacoltose anche tre o quattro) e la vita domesticasi svolge prevalentemente sull’aia o sulla veranda;sotto l’abitazione si trova il deposito, con attrezzie arnesi per la fabbricazione degli oggetti d’uso.I matrimoni, in genere decisi dagli sposi stessi,venivano organizzati dal me-ba (padrino) secondole modalità stabilite dal sacerdote-indovino(acar); il rito era comune al mondo buddhista, maprevedeva un diverso “elemento” d’unione”: nonl’acqua, bensì la fiamma delle candele; e venivasancito dopo che gli sposi, secondo l’uso, avevanoconsumato le banane reciprocamente scambiate.I morti, avvolti in un lenzuolo bianco, venivanocremati dopo tre giorni dal decesso (giorni tra-scorsi in banchetti dai convenuti) e le loro ceneri,poste in un’urna, erano poi affidate alle acque; imorti per violenza o suicidio venivano invece sep-pelliti.Tra le molte usanze del capodanno khmer, che ca-de tra il 31 marzo e il 29 aprile, tipica era la corsadelle piroghe, che portavano donne in maschera eavevano lo scopo di mettere in fuga i coccodrilliche infestavano i fiumi. Tutti i giovani khmer, aun certo momento della loro vita usavano trascor-rere tre mesi in un monastero; al termine di questoperiodo avevano luogo le feste dell’acqua,durante le quali si svolgevano sfilate di zattereilluminate, pellegrinaggi alle pagode e gite conrinfreschi.Ogni località aveva un suo nume tutelare (niak-ta)con una sua festa particolare, in collegamento conreminescenze indù; inoltre, ai due numi tutelariprincipali, Me Saar (Madre bianca) e KhlangMuong (Vittoria del popolo) venivano dedicatefeste durante le quali si suonavano i granditamburi degli spiriti (skor arak), si sacrificavanoanimali e si facevano offerte ai sacerdoti-indovini, che per l’occasione si esibivano inrappresentazioni fachiresche.

da “Enciclopedia Europea”Garzanti 1977

Page 5: Dossier Cambogia

“I kmer rossi finiranno nell’ombra”Il giapponese Akashi, che ha guidato i 22 mila uomini dell’Onu,

rivendica il successo in CambogiaSihanouk da Pechino propone: “Lasciate le armi e avrete dei ministeri”

Nei diciotto mesi durante i quali ha guidato i 22mila uomini spediti dalle Nazioni Unite in Cam-bogia, il signor Yasushi Akashi è stato assediatodalle cassandre che vaticinavano un ingloriosofallimento della più costosa missione di pace dellastoria: qualche cosa come quattromila miliardi dilire. “I khmer rossi faranno saltare le elezioni,riempiranno le urne di sangue”, dicevano in molti,accusando i Caschi Blu di non aver avuto il co-raggio per disarmare con la forza i 10 mila guerri-glieri di Pol Pot. “La gente voterà, perché è stancadi guerre”, ripeteva con calma il signor Akashi. Amaggio il 90 per cento degli elettori sono andati avotare; oggi a Phnom Penh c’è un legittimo go-verno di coalizione e quasi duemila khmer rossisono usciti dalla foresta per arrendersi.Ma il giapponese Akashi, tornato nel suo ufficioal Palazzo di Vetro di New York, è ancora inse-guito dalle polemiche di quanti sostengono che ilgoverno formato dai seguaci del principe (e oggire) Sihanouk - usciti vincitori dalle elezioni - edagli ex comunisti di Hum Sen - sconfitti - è “unmatrimonio contro natura”. All’Onu si fa caricosoprattutto di essersi lasciata dietro le spalle labomba a tempo dei khmer rossi ancora padronidel 20 per cento del territorio. Il signor Akashi èsempre tranquillo.“Gli occidentali non possono imporre i loro con-cetti di democrazia in Oriente - spiega al Corriere- Solo i criteri di base come il diritto dei popolidell’autodeterminazione attraverso libere elezionie i diritti umani sono universali. E l’Onu in Cam-bogia è stata in grado di garantire un voto che nonesito a definire uno dei più vicini all’ideale di cor-rettezza che si sia mai visto, soprattutto in quellaparte del mondo.Ora tocca a loro scegliere come applicare quellascelta democratica”.

Ma non troverebbe scandaloso un accordo cheportasse nel governo anche i kmer rossi, i ma-cellai colpevoli della morte di più di un milionedi cambogiani?“I kmer rossi hanno boicottato le elezioni perchétemevano di uscirne sconfitti.Ora è chiaro che rimpiangono quella scelta,stanno bussando alla porta del governo.

E la risposta del governo è netta: per trattare deb-bono prima aprire il territorio che controllano efar uscire i loro uomini dalla foresta. Sono sicuroche nella sua saggezza re Sihanouk saprà trovareun buon compromesso. E non mi scandalizzeròper questo. Non si possono dividere per sempre icambogiani in bravi ragazzi e cattivi ragazzi”.Proprio ieri Sihanouk, da Pechino dove è curatodopo un’operazione per un tumore alla prostata,ha dato una prova della sua volontà di mediazioneoffrendo ai khmer rossi incarichi ministeriali incambio della trattativa.Nel suo comunicato, il sovrano pone un solo li-mite: non potranno mai tornare al governo gli uo-mini che pianificarono lo sterminio, Pol Pot, IengSary, Ta Mok, Nuon Chea. Non si fa cenno aKhieu Samphan, che in questi mesi è stato il lea-der “visibile” del gruppo.

Signor Akashi, che cosa si prova a sedersi difronte a un uomo come Khieu Samphan, che fuuna delle menti del genocidio?“I khmer rossi con i quali ho avuto contatti nonsembrano più monolitici come una volta.Mi è capitato di dire a Khieu Samphan ho dei pro-blemi con il Palazzo di Vetro.E lui mi rispose anche io ho la mia New York, al-ludendo al quartier generale dei Khmer rossi”.

Allora è vero, come sostiene l’intelligence thai-landese che c’è una spaccatura. Che Ta Mok, ilcomandante con una gamba sola, sta emergen-do come il più duro e puro, che agisce ancheindipendentemente da Pol Pot?“I thailandesi hanno ottime fonti. Io posso ripeterela previsione che feci mesi fa: se il governo cheabbiamo lasciato a Phnom Penh continuerà ad a-gire correttamente, onestamente, per la ricostru-zione del Paese, alla fine i khmer rossi potrannoessere marginalizzati, ridotti a banditi”.In effetti, i racconti dei khmer rossi che hanno di-sertato sembrano confortare questo ottimismo.“I nostri capi ci hanno ingannati: dovevamo bat-terci contro i vietnamiti rimasti in Cambogia, manon ne abbiamo mai visto uno”, ha detto allaFrance Presse uno di loro.

Page 6: Dossier Cambogia

E un altro, che ha abbandonato la 616madivisione dei khmer rossi, una delle più temute:“È troppo duro vivere nella giungla, di giornomarciavamo per 25-30 chilometri; la nottebivaccavamo su amache. Sempre battersi e fuggi-re, fuggire per tornare a battersi. Ora voglio torna-re al mio villaggio, a piantare riso”.

I disertori sono quasi tutti giovani contadini.Alcuni esperti giurano che il nucleo duro delgruppo è intatto. Ci sarebbero migliaia di sol-dati in sonno nei villaggi e anche a PhnomPenh, pronti a ricevere un segnale per scatena-re l’attacco. “È possibile, ma già a maggio la radioclandestina dei khmer rossi aveva lanciatol’ordine di far saltare le elezioni. E i guerriglierinon si sono mossi.Secondo me perché hanno capito che lastragrande maggioranza dei cambogiani volevavotare”.

In Cambogia lei aveva un mandato che in ger-go Onu si chiama debole, vale a dire uso dellaforza solo per legittima difesa.In Somalia il mandato era forte.Signor Akashi, la sua operazione è stata unmodello?

“Noi abbiamo avuto complessivamente un succes-so. Ma questo non significa che in Somalia si siasbagliato. Il fatto è che quando siamo arrivati aPhnon Penh, nel 1991, c’era già un governo, quel-lo di Hun Sen. A Mogadiscio non c’era niente”.

Però i khmer rossi sono militarmente ben piùforti delle bande somale, hanno tenuto testaall’esercito vietnamita.“Guardi, i signori della guerra di Mogadiscio sonoanche più pericolosi, perché non hanno ideologia,non hanno dottrina politica, si battono solo per ilpotere”.

Che cosa risponde alle accuse di corruzione ri-volte alla sua missione?“Sì abbiamo avuto casi di disonestà, di arroganza,che certo non perdono, ma non più numerosi chenelle altre operazioni. Il problema è che quando sihanno reparti e personale provenienti da tutto ilmondo, con diverse culture e costumi, il comandoha delle difficoltà obiettive. Per questo bisognaandare avanti col progetto di una forza di CaschiBlu permanente, ben addestrata alle operazioni dipace, da tenere sempre pronta a disposizione del-l’Onu”.

Guido Santevecchida “Corriere della Sera” - 23 novembre 1993

Page 7: Dossier Cambogia

Phnom Penhdove torna il sorriso

La capitale della Cambogia, fotografata per laprima volta dopo la firma del trattato di pace cheha messo fine, il 23 ottobre 1991, a vent’anni diguerra civile, è una città in lenta ripresa. Il Paeseoggi punta sul turismo al quale ha da offrire unadelle meraviglie del mondo: i templi di Angkor, lafavolosa capitale dei re khmer.La vita a Phnom Penh riprende all’alba, se alba sipossono chiamare quei pochi minuti che, verso lesei del mattino, separano il buio dalla luce.Si mettono in movimento le migliaia di biciclette,motorini e cyclo che invadono le strade a tutte leore del giorno e della notte; cominciano a suonarei clacson delle automobili, per lo più di fabbrica-zione giapponese o tedesca; si aprono i mercati, lagente sciama dalle abitazioni.Sul Tonlé Sap, il fiume che fa da confineorientale alla città e che proprio qui si unisce alMekong, le barche da pesca arrancano lente perrientrare con il pesce fresco. Eppure, nonostante ilmovimento ovunque brulicante, Phnom Penh èuna città senza colori, un fitto tessuto urbano incui prevale il grigio, se si eccettua il rosso dellaterra nelle strade secondarie non asfaltate,l’intonaco di alcuni edifici importanti, i coloripastello delle facciate di belle case di epocacoloniale che si stanno restaurando per accoglierele ambasciate e le rappresentanze degli organismiinternazionali, oggi tutti presenti nella capitalecambogiana.Il 23 ottobre dell’anno scorso è stato firmato a Pa-rigi un accordo di pace patrocinato dalle NazioniUnite, che ha sancito la formazione di un Consi-glio Nazionale Supremo, del quale fanno parte lediverse fazioni protagoniste della politica cambo-giana degli ultimi venti anni. Presidente del CNSè il principe Norodom Sihanouk che ha ripresopossesso del Palazzo Reale di Phnom Penh, mem-bri ne sono anche i Khmer rossi con i risvolti dicui parleremo.Fatto sta che, essendovi oggi in Cambogia un go-verno legittimo e la pace, almeno sulla carta, sistanno riallacciando i rapporti diplomatici con iPaesi occidentali e col Giappone: l’Unesco ha giàla sua rappresentanza in una sede rinnovata difronte al Palazzo Reale, sono presenti l’Unicef, laFao, l’Organizzazione mondiale per la Sanità,Medecins Sans Frontière, per non parlare del con-tingente di caschi blu inviati dall’Onu a garanziadi un tranquillo svolgimento della vita politica esociale fino alle previste elezioni del 1993.

Questo è sicuramente l’aspetto più vistoso eufficiale dell’inizio di ripresa di un Paesedisastrato dopo circa vent’anni di guerra civile enon, dopo i quattro terribili anni del regime di PolPot e dei suoi Khmer rossi (1975-1979), maaggirandosi per le strade della capitale se nescorgono altri che fanno ben sperare nel futuro.Se ancora in città manca l’acqua potabile, tuttaviala privatizzazione dell’azienda per l’energiaelettrica consente un’erogazione dell’elettricitàquasi regolare, molti alberghi fino a ieri statali eoggi acquistati da privati si stanno facendo ilmake up per accogliere gli stranieri che la politicaper il turismo promessa da Sihanouk dovrebbeportare a Phnom Penh. E già oggi si vedononumerosi gruppi organizzati di turisti giapponesi.Nelle strade si notano frequentemente cantieriedili per ristrutturazioni o nuove costruzioni. Igiovani affollano letteralmente le scuole private dilingua inglese o francese.“Il pericolo è che siano soprattutto i tailandesi e icinesi che sono più ricchi dei cambogiani a com-prare e commerciare nel nostro Paese, creandouna dipendenza economica se non politica”, midice Khantha Noupech, la giovane funzionaria delministero degli Esteri che ci fa da guida. “A ognimodo, noi dobbiamo guardare al futuro, ricreare,costi quel che costi, una nostra classe dirigenteche Pol Pot ha sterminato e questo è il sentimentopiù diffuso fra noi cambogiani e per questo inten-diamo lavorare”.In effetti, analizzando la composizione della po-polazione, balza agli occhi come la generazionefra i 40 e i 50 anni sia scarsa, vi siano più donneche uomini e soprattutto un numero incredibile dibambini e adolescenti. Questi ultimi sono certa-mente il frutto del baby boom dei primi Anni Ot-tanta, quando con la fine del regime di Pol Pot,che teneva separati i mariti e le mogli, le famigliehanno potuto riunirsi. I khmer, così si chiamanostoricamente i cambogiani come khmer è la lorolingua, stanno riappropriandosi delle loro tradizio-ni e della loro religione, il buddismo.Ho avuto l’occasione di partecipare a un matrimo-nio svoltosi secondo il più puro rituale buddista.La cerimonia, o meglio le cerimonie, hanno inizioal mattino presto con l’arrivo dello sposo alla casadella sposa, cui porta i doni nuziali. Segue la la-vanda dei piedi dello sposo da parte della sposa,in segno di rispetto e sottomissione. Comincianoad arrivare parenti e amici, gli sposi sono

Page 8: Dossier Cambogia

splendenti negli abiti di cerimonia oro e arancio.Ovunque sulle stuoie dove ci si accoccola, vi sonoofferte di fiori e di frutta, oggetti rituali in argentoche un assistente religioso usa a seconda deimomenti.Sul fondo vi è una mensa, addobbata con dolci emaialini laccati di un bel giallo vivo.È il banchetto degli antenati: anch’essi devonopartecipare alla gioia dei vivi. Si tratta di un ma-trimonio importante. Il padre dello sposo è CheamYeap, direttore generale del turismo. Vi sono fo-tografi, flash e perfino videocamere. Le invitateindossano le tradizionali gonne lunghe khmer, ri-gorosamente in seta. I modelli sono classiche ho-le, di preferenza usate al mattino, e le phamoung,da sera, che prevedono anche un corpetto nellostesso tessuto. I colori sono sgargianti, i disegnigeometrici appartengono a un preciso repertoriofigurativo. Tutto ciò significa tempi nuovi. Nelpassato regime, che oggi chiamano con il nomeproprio di polpotismo, la gente doveva vestire so-lo di nero e ovviamente di cotone. Intanto le ceri-monie proseguono: il taglio dei capelli degli sposifatto a turno da genitori e invitati per invocarefertilità e prosperità; l’apertura degli ombrelli suigenitori, il kot Khan sha, per esprimeregratitudine e nuova protezione; il rito che prevedeche i polsi degli sposi vengano legati da tutti ipresenti con un filo di puro cotone per siglarel’autenticità di un’unione duratura. Gli sposi sicambiano almeno tre volte e gli abiti sono semprebellissimi, arricchiti da monili d’oro, la scenogra-fia si rinnova con la diversa disposizione deitrionfi di frutta e fiori, dei cuscini e degli apparatid’argento.È ormai l’una, il momento del banchetto. I ban-chetti di nozze sono uguali dappertutto: grandeabbondanza, tante portate, gente allegra. Ma quel-lo cambogiano va segnalato per il dessert. È d’ob-bligo nei matrimoni infatti servire dolcetti mali-ziosamente allusivi al sesso. Sono degli ingenuiinvoltini in foglia di banano che richiamano nellaforma gli attributi maschili e femminili: i NumAnsan Chouk o Chek e i Num Kon. Dopo il ban-chetto, nuovo cambio di scenografia e ancora glisposi mutano abito per accogliere i bonzi che ven-gono a recitare le preghiere di rito. È il momentosolenne in cui il matrimonio è sancito legalmente.Si è nella stagione secca e fa molto caldo. I venta-gli sventolano in continuazione per dare sollievosoprattutto agli sposi che hanno il peso maggioredelle fatiche cerimoniali; gli invitati a tratti si al-zano, si spostano, chiacchierano fra loro. I bambi-ni si distraggono con i giochi di tutti i bambini delmondo, ma senza fare troppo chiasso. Tutti sonocordiali, sorridenti, disponibili e ospitali anchecon noi stranieri, confermando la proverbiale mi-

tezza e affabilità dei cambogiani. E il pensare alletragedie da essi subite fa ancora più male.Basta visitare il Museo di Tuol Sleng o il campodi sterminio di Cholung Ek, a pochi chilometri daPhnom Penh, per rendersi conto dell’entità deldramma vissuto dai cambogiani durante il polpoti-smo. Due cifre valgano per tutto: su una popola-zione di sette milioni di individui, in quattro annisono state eliminate un milione e duecentomilapersone, donne, bambini e vecchi compresi.A Tuol Sleng, una scuola superiore trasformatadai Khmer rossi in sede di polizia e centro di de-tenzione e tortura, vi sono stati circa 20 mila pri-gionieri, di cui solo sette sono sopravvissuti.L’unico torto delle vittime era di essere intellet-tuali, funzionari, borghesi, bonzi o presunti avver-sari del regime. Oggi ancora si risente di questadecapitazione della società. L’alfabetizzazione èinsufficiente e moltissimi bambini non vanno ascuola. Da un lato mancano gli edifici, distruttidurante il polpotismo, dall’altro gli insegnanti,fortemente decimati nello stesso periodo e nonancora riformatisi nella misura necessaria. Me neparla Pich Keo, direttore del Museo Nazionale diPhnom Penh, fino a poco tempo fa Conservatoredei monumenti di Angkor: “Sono il direttore delmuseo, ma tengo anche lezioni alla Scuola di ar-chitettura e archeologia. Abbiamo duemila stu-denti e gli insegnanti sono pochissimi. Sento l’im-pegno per il mio Paese di contribuire a creare unaclasse di giovani istruiti che aiutino la ripresadella Cambogia. Pensi che oggi non c’è nessuncambogiano in grado di leggere il sanscrito o ilpali, le due lingue iscritte sui nostri monumenti.Dobbiamo rivolgerci ai francesi, che ne sono imaggiori esperti. C’erano due specialisti cambo-giani che avevano studiato a Parigi, ma sono statieliminati da Pol Pot. La cesura col nostro passatodoveva essere assoluta. E noi oggi ci ritroviamo abrancolare alla ricerca della nostra storia, dellenostre radici”.Ricerca francamente non facile, se si pensa che lefonti scritte della storia cambogiana sono semprestate scarse. Nell’antichità i fatti venivano regi-strati su foglie di palma, documenti andatidistrutti quasi totalmente col tempo, tanto cheanche per il periodo della splendida civiltà diAngkor (IX-XII secolo), la fonte più ricca di in-formazioni è il diario di viaggio di un diplomaticocinese, Chou Ta-Kuan, che nel XIII secolo visseun anno in Cambogia. Né aiuta la numismatica,dal momento che qui le monete non compaionoprima del XVI secolo né vi sono epigrafifunerarie né necropoli. Fonti importantissime,quindi, sono le iscrizioni di fondazione dei templi,per lo più appunto in sanscrito e pali.

Page 9: Dossier Cambogia

La Biblioteca Nazionale è in riordino, dopo la de-vastazione operata dai Khmer rossi, grazie a GailMorrison, un volontario australiano.A Phnom Penh si racconta che i libri venivanogettati in strada dalle finestre dai comunisti di PolPot. La gente li raccoglieva di nascosto per con-servarli e alla caduta del regime li ha restituiti allaBiblioteca. Anche il Museo Nazionale ha neces-sità di restauro, di riordino, di inventario e catalo-gazione. Pich Keo è animato da grandissima vo-lontà ma i mezzi, oltre che le risorse umane, sonodel tutto insufficienti. C’è uno spiraglio: nel tita-nico progetto dell’Unesco che, nella persona delsuo direttore generale Federico Mayor, il 29 no-vembre 1991 ha ufficialmente dichiarato i monu-menti khmer patrimonio mondiale da salvare, èprevisto un intervento anche sul Museo Naziona-le. Ma i tempi sono lunghi e i problemi del museosono urgenti: le termiti ne stanno distruggendotutte le strutture in legno e una colonia nutritissi-ma di pipistrelli allocata nei solai ha accumulatouna quantità di guano tale da far temere per la te-nuta dei soffitti. L’edificio del museo, costruitonegli Anni Venti, è uno dei più belli della città. Diun intenso rosso scuro, ha una struttura imponentee conserva al suo interno, seppure in gran disordi-ne, capolavori di arte khmer dal IV al XIV secolo:statue, bonzi, bassorilievi di arte sacra, tutti og-getti di arredo dei templi. Gli oggetti della vitaquotidiana, invece, sono quasi del tutto assenti.Sarebbe una bella palestra per gli studenti di ar-cheologia di tutto il mondo che volessero offrire illoro contributo volontario per la risistemazionedel museo. Nelle previsioni di Pich Keo vi sarà infuturo un centro studi internazionale di arte e ar-cheologia khmer proprio ad Angkor che richiame-rà specialisti di tutto il mondo. E allora perchénon essere fra i primi?Questo Paese ha bisogno dell’aiuto di tutti, qui cisi può veramente sentire utili. In cambio si avrà ilsorriso della gente e l’opportunità di conoscere unmodo di vita così semplice, così privo di bisogni edi consumismo da costituire un’esperienza davve-ro arricchente. Penso, per esempio, con quantaallegria le famiglie della piccola borghesia la do-menica trascorrono la giornata a Kien Svaycraonel distretto di Koki. È quasi un’istituzione chenei giorni festivi ci si rechi a questa spiaggia sullariva di un braccio del Mekong a circa 12 chilo-metri da Phnom Penh lungo la Nazionale n.1Sul fiume sono allineati capanni di bambù, che siaffittano, dove si consuma il picnic. Si può fare ilbagno o una breve gita in barca fino all’isolotto difronte alla spiaggia. I ragazzini del luogo avvici-nano le loro piroghe ai capanni e vendono ai gi-tanti gamberi di fiume arrostiti, uova sode, frutta,dolcetti di riso in foglie di banano. Sulla terrafer-ma un breve viale sterrato è fiancheggiato dalle

bancarelle di un variopinto mercatino di cibo cu-cinato: riso, polli laccati di giallo, crostacei, grilligiganti e tartarughe arrosto. I banchi di fruttasembrano nature morte tropicali con una profusio-ne di banane grandi e mignon, noci di cocco, ana-nas. Ma il frutto protagonista di questa stagione èil goyane, un enorme corbezzolo giallo che con-tiene al suo interno grossi semi dolcissimi.Il fiume scorre lento, appena increspato e coloredel fango. Esibisce la livrea della stagione seccaben diversa dall’aspetto impetuoso che assumenei mesi delle grandi piogge. Qualche mendicantein atteggiamento dignitoso si aggira fra la gente:molti danno del denaro. È solidarietà fra poveri ola compassione che il buddismo insegna? Non sa-prei dirlo. Resto sempre più stupita dal fatto cheuna popolazione che ha molto poco da sorrideremantenga serenità e gentilezza in tutte le occasio-ni. È un modo di essere non limitato ai momentidel relax ma costantemente vissuto nella fatica enelle difficoltà del quotidiano.Indubbiamente alla base non vi può che essereun’intima e partecipata convinzione religiosa. Equantunque si possa riconoscere nei cambogianiuna vena di fatalismo buddista, non vi si ravvederassegnazione. Lo dimostrano l’impegno dei gio-vani che dopo il lavoro vanno a scuola di linguastraniera; la realizzazione in cooperativa di alcunigiornali che affiancano i quotidiani governativi eche si occupano di problemi sociali quali la fami-glia, la scuola, il divorzio e l’aborto; la nascita dialcune microiniziative private legate al turismo.In Cambogia l’industria è pressoché inesistentema diffusissimo è il commercio di tutto: i prodottidell’agricoltura, base dell’economia del Paese,dell’artigianato dei tessuti, seta e cotone, degli og-getti di paglia intrecciata e d’argento. Oltre aigrandi mercati di Phnom Penh dove si trova ognigenere di mercanzia, anche prodotti importatidalla Tailandia e da Singapore, la città haovunque botteghe, bottegucce, bancarelle cheespongono anche solo qualche sfilatino di pane.Uomini e donne tutti con l’inseparabile krama, lasciarpa di seta o cotone per tutti gli usi, dacopricapo a sporta, si affaccendano neltrasferimento delle merci o nella vendita. Si offrein vendita persino la libertà delle rondini. Se nepuò liberare una dalle gabbie che alcuniambulanti portano in giro e dal volo della riacqui-stata libertà si traggono auspici. Nella capitale visono anche quartieri dove si concentranolaboratori di una stessa attività: sarti, falegnamiche fanno bellissimi mobili e gli artigiani del ferrobattuto.Incredibile è il numero delle officine meccanicheche lavorano a pieno ritmo. Né potrebbe esserediversamente, data la presenza massiccia di moto-rini e biciclette.

Page 10: Dossier Cambogia

Alle quattro del pomeriggio sembra che tutti i vei-coli della città si diano appuntamento sull’AcharMean Boulevard, il rettilineo che attraversaPhnom Penh da nord a sud e che i cambogianichiamano gli “Champs Elisées”. Il traffico è in-credibile, al punto che non si capisce più chi tienela destra e chi la sinistra. Ed è l’unico viale sulquale funzionino i semafori. Achar Mean hainizio all’altezza del ponte Chrouy Changvar cheprotende un triste moncone sul fiume Tonlé Sap.Non è stato ancora ricostruito dal 17 aprile 1975quando fu fatto saltare dai Khmer rossi che entra-vano in Phnom Penh per occuparla e che intende-vano tagliare i collegamenti dalla capitale.Chrouy Changvar è rimasto un terribile ricordodell’inizio del regime di Pol Pot, immortalato nelfilm Killing Fields (Urla del silenzio) ispirato allastoria del fotografo cambogiano Dith Pran, testi-mone e protagonista in prima persona: riuscì asalvare il corrispondente del New York Times e isuoi quattro collaboratori dall’esecuzione somma-ria dei Khmer rossi che li avevano sorpresi mentredocumentavano la distruzione del ponte.Poco più a sud vi è l’area del porto sempre pienadi animazione dal momento che molti collega-menti da Phnom Penh avvengono per via fluviale.Il traffico di imbarcazioni stracariche di merci,persone, animali è intenso, incrementato anchedalla situazione delle strade completamente disa-strate. Solamente la Nazionale n. 1 che unisce lacapitale cambogiana a Ho Chi Minh Ville in Viet-nam è stata mantenuta in condizioni di percorribi-lità. Le altre consentono ai soli fuoristrada unavelocità di 20 chilometri all’ora. Ho percorso unadi queste piste: 35 chilometri in circa due ore. So-prattutto nella stagione delle piogge i villaggidell’interno restano isolati. Gli abitanti si rendonoquindi conto dell’importanza dell’unico cordoneombelicale che li tiene uniti al resto del Paese e siprendono cura del fondo stradale. Ma i mezzisono molto primitivi e i risultati scarsi. Ho vistouomini e donne cercare di riempire le buche piùprofonde della strada con fango estratto dagli sta-gni trasportato su grandi foglie di palma e scari-cato in loco. Un palliativo che tuttavia consente ilpassaggio dei carri e di qualche rarissimo camion.Il fiume, anzi i fiumi, sono quindi preziosi ma nonsolo come via di comunicazione, anche come fon-te alimentare essendo ricchissimi di pesce. Lungole rive del Tonlé Sap e del Mekong vivono subarche - una sorta di piroghe coperte - le minoran-ze chams e vietnamite, dedite alla pesca. Propriodietro l’hotel Cambodiana, l’unico elegante alber-go di Phnom Penh, riservato agli stranieri, in unostridente contrasto di stili di vita, vi è una nume-rosa comunità di pescatori piena di bambini ditutte le età. Le barche salpano la sera e rientranocol pescato al mattino. Comincia allora la vita di

terraferma: gli uomini si occupano delle reti, ledonne si dedicano al riordino dell’appartamento-barca, i bambini si riuniscono in gruppetti per gio-care o litigare in piena libertà. Qualcuno coltiva averdura dei fazzoletti di terra proprio sulla riva.Mi sono fermata parecchio a osservare leabitudini di questa singolare gente di fiume.Lungi dall’essere infastiditi dalla presenza diun’intrusa per di più con l’aria curiosa, e di unfotografo, i pescatori ci hanno salutato con cor-diali gesti di mano e sorrisi.Il fiume è un protagonista importante della vitacambogiana. Dalle acque del Mekong in piena nel1373 sono state depositate quattro statue di Budda- dice la leggenda - sulla collina di circa 30 metridi altezza che domina la capitale. Furono trovateda una donna di nome Penh, che qui costruì laprima pagoda per ricoverarle. La leggenda spiegacosì l’origine della città e del suo nome: PhnomPenh, il monte di Penh. Oggi, sulla sommità dellacollina, cui si accede per una scalinata ornata distatue di leoni e di naga, il serpente sacro, vi èuno dei complessi religiosi più frequentati: WatPhnom, il monte della pagoda. E ancora, sulfiume si svolge fra ottobre e novembre la festadelle acque, forse la festa più importante delcalendario khmer che vede sfilare sull’acquainnumerevoli piroghe in gara. L’ultimo dono delfiume è di fertile limo che, dopo le inondazioni,lascia sul terreno, favorendo così le coltivazionidegli abitanti rivieraschi. “Quelli che abitano sulfiume - dice Khantha - sono più agiati deicontadini dell’interno. Chi lavora nelle risaie ha lasopravvivenza legata alla qualità e alla quantitàdell’unico raccolto annuale. E adesso con il pro-blema delle mine inesplose molte risaie rimango-no incolte”.Quello delle mine è davvero il grosso problemadelle campagne. Durante la guerra, ma anche piùrecentemente, i Khmer rossi hanno piazzato indi-scriminatamente lungo le strade e nei campi minedi plastica di fabbricazione cinese. Il materialedelle bombe non ne consente la rilevazione con imetal detector e lo sminamento è difficile. Il ri-sultato è un elevatissimo numero di mutilati fra icivili, bambini compresi. I cambogiani sembranoormai assuefatti a convivere con questi subdolipericoli e con altri più palesi, o per lo meno non silasciano sopraffare dalla paura pur di riprendere avivere in libertà.Chi avesse dei dubbi vada alla stazione ferroviariadi Phnom Penh alle sei e mezzo del mattino,quando sono in partenza gli unici due treni cheuniscono la capitale alla città di Battambang anord e al porto di Kompong Som a sud. La confu-sione è incredibile, il numero dei viaggiatoriappare incalcolabile. Sul marciapiede, se così sipuò chiamare lo spazio fra i due binari dove i

Page 11: Dossier Cambogia

vagoni attendono la locomotiva e il fischio delcapostazione, sono allestite cucine da campo emense provvisorie per mangiare una minestracalda o prendere un tè.Ambulanti con cesti e vassoi vendono panini im-bottiti o spiedini di frutta. I viaggiatori sono lette-ralmente stipati sia nei vagoni merci dove si sie-dono a terra, sia nelle carrozze passeggeri che esi-biscono panche di legno. Si respira ovunque l’al-legra euforia della partenza. Al centro del trenouno o due vagoni sono occupati da militari armatidi mitragliette e bazooka. Il treno attraverso zonepericolose ancora infestate da guerriglieri khmerche spesso assaltano i convogli soprattutto se tra-sportano armi. Tant’è che il treno, di notte, si fer-ma nei pressi di una guarnigione militare per pro-tezione: i 274 chilometri che separano PhnomPenh da Battambang sono coperti in circa duegiorni di viaggio.Un fischio per un attimo zittisce il vociare. Arrivala locomotiva, un vecchio diesel di fabbricazioneaustraliana. Viene agganciata ai vagoni. Poi, duegrandi piattaforme da carico sono collocate da-vanti alla locomotiva. In caso di mine piazzate suibinari, le due piattaforme dovrebbero saltare sal-vando la locomotiva e i vagoni passeggeri. Teori-

camente dovrebbero rimanere vuote dato il rischioche coprono. Invece, come d’incanto, non appenaagganciate al locomotore, sono prese d’assalto eriempite all’inverosimile di viaggiatori, accocco-lati l’uno vicino all’altro, in un colorato intrecciodi kramas, in un diffuso scambio di sorrisi.L’unica spiegazione plausibile è che questi postisono, è ovvio, gratuiti. Ancora una volta fatalismoma non rassegnazione. Ancora una volta ho unmoto di ammirazione.Partono i treni, quasi in orario, di colpo lastazione si svuota di mense e di ambulanti e tornasilenziosa.Penso che avrei potuto fare anch’io quel viaggioverso nord se i tempi della mia vita europea mel’avessero consentito. Ma i programmi, gli impe-gni, il lavoro... insomma quei ritmi che qui hoquasi scordato incalzano.Guardo l’orologio sulla facciata della stazione.Anche questo, come i pochi altri orologi pubbliciche ho visto, non funziona. Ho il sospetto che gliorologi da polso al contrario molto diffusi fra lagente costituiscano per i cambogiani più un orna-mento che un oggetto utile.Perché il tempo, si sa, è un invenzione tutta occi-dentale.

Voglia di pace:i cambogiani sperano ancora

Per capire la Cambogia di oggi - il nome ufficialeè Kampuchea - è indispensabile mettere in fila gliavvenimenti degli ultimi decenni di una storiadensissima e tormentata. Protettorato francesefino all’inizio degli Anni Cinquanta, questopiccolo Paese dell’Indocina proclama nelnovembre del ’53 l’indipendenza, a seguito dellaReale Crociata portata avanti con decisione dal reSihanouk.L’indipendenza è ratificata dalla conferenza diGinevra nel 1954. Dopo un iniziale periodo diconflitti intestini fra le forze politiche cambogia-ne, Sihanouk abdica in favore del padre e fonda laComunità del Popolo Socialista, partito cheottiene tutti i seggi in Parlamento dopo le elezionidel 1955. Sihanouk diventa il Capo dello Stato.Durante la guerra del Vietnam Sihanouk sischiera con il Vietnam del Nord, i Vietcong e laCina e acconsente che il territorio cambogianovenga usato per il transito e per le operazionimilitari contro il Sud Vietnam. Degli Stati Uniti,con cui rompe le relazioni diplomatiche nel ’65,non si fida. Né gli americani si fidano diSihanouk. La situazione precipita nel 1969,

quando con l’accusa, o il pretesto, che laCambogia ospita numerose basi militaricomuniste, da parte statunitense comincia unbombardamento a tappeto della parte orientale delPaese che durerà quattro anni, mietendo unnumero imprecisabile di vittime. Si parla,comunque, di centinaia di migliaia. La politica in-terna non va meglio.I contrasti fra Sihanouk e la sinistra indebolisconoil capo di Stato al punto che nel 1970, mentre sitrova a Parigi, viene formalmente deposto dal ge-nerale Lon Nol. Sihanouk, rifugiatosi a Pechino,organizza un governo in esilio e non esita ad al-learsi con l’ala più estremista della sinistra cam-bogiana, i Khmer rossi, e con i cambogiani filo-vietnamiti. Sempre nel 1970 gli americani inva-dono la parte orientale della Cambogia per stanaree sconfiggere i 40 mila Vietcong che vi si eranorifugiati. Gli effetti della guerra cominciano a es-sere pesanti: centinaia di migliaia di morti, scar-sità di cibo, fuga dalle campagne. L’inurbamentodei profughi porta la popolazione di Phnom Penha quasi due milioni di abitanti da quattrocentomilache erano nel 1962.

Page 12: Dossier Cambogia

Nonostante l’appoggio americano, il potere diLon Nol s’indebolisce fortemente anche per gliinsuccessi riportati nella lotta contro i Khmerrossi che, nel frattempo, infiltratisi in Cambogiadal nord fanno proseliti nelle campagne eoccupano città di provincia. Il 17 aprile 1975 iKhmer rossi, guidati da Pol Pot e da KhieuSamphan, entrano in Phnom Penh. La distruzionedel ponte Chrouy Changvar segna l’inizio delcapitolo più drammatico della storia cambogiana.Il 1975 diventa l’Anno Zero: la Cambogia di ierideve sparire, il potere è in mano all’Angkar,un’organizzazione marxista-leninista radicale chescardina qualsiasi assetto politico, sociale edeconomico precedente. Chiuse le frontiere e icollegamenti con gli altri Paesi, lasciato solo uncorridoio di comunicazione con Pechino, laCambogia deve trasformarsi in un Paese con unapopolazione di soli contadini addetti al lavoro deicampi e al disboscamento. In pochi giorni le cittàsono forzatamente svuotate dei loro abitanti. I duemilioni di Phnom Penh si riducono a pochemigliaia di persone per lo più militari o uominidel regime. A Tuol Sleng, il museo del genocidiodi Phnom Penh, è esposta una fotografia di queglianni che mostra una capitale irriconoscibile,letteralmente vuota.Vengono distrutte le scuole, le fognature, le stra-de. Il servizio postale e la moneta sono aboliti.La precedente classe dirigente è eliminata:medici, insegnanti, funzionari, professionisti. Maanche solo chi parla una lingua straniera o ha gliocchiali.Campi di concentramento per le esecuzioni dimassa sono stati trovati in tutta la Cambogia. Inuno di questi, a Choeung Ek, vicino a PhnomPenh, è stato eretto nel 1988 un monumento allamemoria di tutte le vittime: un ossario dalle paretidi vetro dove sono ordinati i resti delle migliaia diuomini, donne, bambini e stranieri che qui sonostati uccisi. Sihanouk è chiamato dai Khmer rossial potere come capo di Stato, ma resiste tre mesi.È imprigionato nel palazzo e non è ucciso solograzie alle pressioni di Pechino. Scoppiano, nelfrattempo, tensioni e conflitti fra cambogiani evietnamiti soprattutto ai confini dei due Paesi cheprovocano altri morti, soprattutto fra i vietnamiti.

Si giunge così all’invasione della Cambogia daparte vietnamita e il 7 gennaio 1979 cade il re-gime di Pol Pot. Già dall’inizio dell’invasione, Si-hanouk è salvato dai cinesi che lo portano a Pe-chino. A Phnom Penh si installa un governo vo-luto dai vietnamiti con a capo Hun Sen. I Khmerrossi si concentrano nella zona ai confini dellaTailandia.Sihanouk dalla Cina capeggia una coalizione diopposizione al governo filovietnamita di PhnomPenh formata dai monarchici suoi sostenitori, dalFronte di Liberazione Nazionale del popolokhmer, una fazione non comunista guidata da SonSann e i Khmer rossi, di gran lunga i più forti. Laguerra civile infuria.I Khmer rossi compiono sanguinose azioni diguerriglia: piazzano mine nelle risaie e nei pressidelle strade, attaccano i trasporti, uccidono e se-minano il terrore. Le forze governative cercano inpiù occasioni di ricacciarli fuori dai confini delPaese. Questa situazione si protrae fino quasi aigiorni nostri. Grazie all’intervento dell’Onu, il 23ottobre 1991 a Parigi si è fatto un accordo di paceche prevede al governo della Cambogia una coali-zione di quattro fazioni, di cui fanno parte anche iKhmer rossi e i loro leader, Pol Pot e KhieuSamphan. Pol Pot, che non compare mai in pub-blico e che sembra scomparso dalla scena politica,si dice che in realtà guidi dall’ombra il movimen-to. Presidente è il principe Sihanouk. Questa pace,frutto di compromesso per evitare che i Khmerrossi, tagliati fuori dal governo, scatenino unanuova guerra civile, è molto fragile. Sihanouk,che pure è un personaggio contraddittorio, èamato dal suo popolo, ma i cambogiani nonpossono dimenticare quello che il polpotismo hafatto e che ancora fanno alcune frange irriducibilidi Khmer rossi. Resta la speranza che neicambogiani vinca la voglia di pace e di un futuromigliore e che si mantenga l’equilibrio politicofino al ’93 per consentire le libere elezioni.

Raffaella Ceccopierida “Le vie del Mondo” - marzo 1992

Page 13: Dossier Cambogia

Presentazione di AngkorLa foresta pomeridiana tratteneva tutti i verdi etutti i gialli del mondo entro i suoi orizzonti di fo-glie; la brezza impigliatasi nei rami più alti nonemetteva canto alcuno. E in quel momentomagico vidi le torri coronate a quattro volti, al disopra delle mura della città di Angkor. Quattrovolti mi fissavano con benevolenza dall’alto deiloro sette metri; all’interno si ergeva la splendidaAngkor Thom e nella luce del tramonto ognipietra era viva o sembrava tale. Fu un momentomeraviglioso, sedici anni fa, quando giunsi per laprima volta ad Angkor.Volti silenziosi e senza tempo, con occhi consa-pevoli e quella bocca straordinaria, la sorridentebocca khmer, ricurva, ampiamente arcuata e sol-levata agli angoli: una caratteristica della gentekhmer, che è bellissima, vigorosa e snella al tem-po stesso, arguta e semplice, mite e tuttavia capa-ce di fiere passioni, intelligente e profondamentecoraggiosa.Dovevo fermarmi quattro giorni; rimasi cinquesettimane. Poi vi ritornai. Ritornai altre dodicivolte. “Quando si incomincia ad amare Angkor,non si può fare a meno di tornarvi, di finire i no-stri giorni in Cambogia”. Così, durante una dellemie visite, mi disse Groslier, il solerte Conserva-tore francese di Angkor. Egli è uno di quelli chemangiano, dormono, vivono, amano e sognanosoltanto in funzione di Angkor. Già suo padre erastato Conservatore; poi è divenuto lui il custodedi quei monumenti, ha continuato il loro restauroe li ama profondamente. Oggi Groslier èangosciato: la guerra è arrivata e Angkor vivesotto la minaccia del saccheggio e della rovina...Non c’è film o fotografia, non c’è nulla che possapreparare all’incontro con Angkor. Riesce perfinodifficile parlarne se non in termini superlativi,poiché è colossale, enorme, prodigiosa, sensazio-nale, grandiosa. Se non la si ama, la si odia. Colo-ro che odiano Angkor o che “non ci vedono nientedi speciale” sono coloro che non possonoconcepire lo smisurato, il fastidiosamente non-utile. “A che serviva?” chiedono. La risposta èche nessuno di questi templi o monumenti fucostruito per essere comunque usato dall’uomo.Angkor non è il Partenone, né il Colosseo.Angkor fu costruita per l’idea della divinità, perrendere stabile per mezzo della pietra il poteredivino dei suoi re. Ma i re, i nobili e il popolo nonabitarono mai questi templi di pietra. Vivevano incase di legno o di paglia, entro e intorno alla cintadei templi. La città di Angkor è il più grandecomplesso di templi e monumenti del mondo, e

nessuno di questi fu mai destinato ad essereutilizzato da semplici mortali.Il re, dopo aver costruito il proprio monumento, vistabiliva vicino la sua dimora, giacché esso assi-curava il suo potere, quello del suo linga, del suogoverno, del suo culto. Esso racchiudeva la suadivina sostanza; il suo corpo non era chel’involucro umano, ma che grandiosi templi,enormi, assolutamente incomparabili! Testimo-nianza della grandezza e dell’opulenza della ci-viltà angkoriana, che durò cinque secoli. Qui sor-geva la capitale di un regno fra i più potentidell’Asia meridionale.Le cronache cinesi narrano che, una notte di due-mila anni fa, un Dio apparve a un giovane dell’In-dia meridionale di nome Kaundinya e gli disse:“Cerca un arco, sali sulla tua barca e salpa verso ilsole nascente”. Recatosi al tempio il mattino se-guente, Kaundinya trovò sul pavimento un arco euna faretra piena di frecce. Prese il mare, e il ven-to spinto dal Dio lo guidò attraverso le onde inburrasca fino alla costa di un paese dove regnavala bellissima regina Foglia di Salice. La reginafece mettere in mare la sua canoa da guerra perrespingere l’intruso, ma Kaundinya la colpì con lesue frecce e Foglia di Salice gli si sottomise.Si sposarono e nacque così la dinastia dei rekhmer. Nel XII secolo, il regno raggiunse l’apicedella sua potenza col grande re Jayavarman VII alquale si devono numerosi monumenti, fra cuiPreah Khan, Banteay Kdei e Tà Prohm. Ma la suamaggiore impresa fu la costruzione della città diAngkor Thom di due miglia quadrate. Proprio nelsuo centro (considerato centro del mondo, umbili-cus, omphalos) sorse il Bàyon, forse il più stranoe favoloso monumento del mondo.Il Bàyon è una scultura non un architettura.Costituisce un enigma finché, improvvisamente,lo si guarda e si esclama: “Ma è un loto, un fioredi pietra!”. Infatti, è un enorme fiore, la cui torrecentrale si erge per oltre quaranta metri sopra icortili. Vi sono inoltre sedici grandi torri e qua-ranta più piccole, ognuna delle quali ha quattrofacce. Quattro facce, otto occhi, moltiplicati per ilnumero delle torri; occhi che abbracciano con illoro sguardo il mondo intero fino al più lontanoorizzonte, il visibile e l’invisibile. Così come gliocchi del sole maturano le messi, quelli del Bàyontengono in equilibrio il mondo, garantiscono cheil sole e la luna non mutino posto giacché la vistaè comando e possesso, è immortalità attraverso laconsapevolezza. Si dice che le facce raffigurino ilgrande re Jayavarman VII, la cui compassione eracosì grande che egli soffriva profondamente per le

Page 14: Dossier Cambogia

sventure dei suoi sudditi: così, i suoi occhi molti-plicati più volte vegliano sul loro benessere oltrela morte...Il Bàyon è quindi anche un monumento astrologi-co, giacché oggi come mille anni fa il popolokhmer crede negli indovini e nelle profezie, neipresagi e nel malocchio, in mille metodi perpredire il futuro ed evitare la sfortuna. Il Bàyonconteneva un’enorme statua di Jayavarman comeBuddha; sua unica funzione era quella dicelebrare la divinità del re. Ma nessun khmerandrà mai al Bàyon di notte, né oserà maiavvicinarvisi: si ritiene infatti che ciòsignificherebbe tentare il destino e incorrere inuna morte immediata.Il mio incontro con il Bàyon è difficile da descri-versi. Mi arrampicai su per le scalinate fino allagalleria superiore: un groviglio folle, un edificioschiacciato dalle sovrastrutture, un labirinto digallerie e cunicoli, un opprimente abracadabra. Etuttavia, in questa sovrabbondanza c’è ancheun’aspirazione mistica, una preghiera di pietra.Fra tutte quelle facce, sotto il cielo cambogiano,ci si sente trasportati indietro nella storia ai grandigiorni di Angkor: quei tempi sono tuttora presenti,scolpiti in pietra, nelle gallerie.Le gallerie illustrano le grandi guerre che com-portarono la ricchezza del regno angkoriano.Scolpiti nella bella arenaria con la quale Angkor fucreata e che costituisce un materiale eccellente, ibassorilievi, splendidi e pieni di vigore, illustranola storia di quei secoli: le guerre coi Cham, legrandi battaglie. Ma vi sono anche scene di pace,poiché coloro che scolpirono questa straordinaria ebellissima fantasia non dimenticarono di ritrarre sestessi. Così come i costruttori di cattedrali, i mura-tori e i carpentieri fecero comparire la propria im-magine dietro quella dei santi, i Khmer di Angkorscolpirono la loro vita, la loro gioia, la loro morteal di sotto dei grandi fregi di guerre e trionfi, dielefanti in battaglia e di guerrieri su carri, dieserciti in marcia, di nobili su palanchini...Al di sotto delle maestose processioni, vediamo iKhmer vivere e costruire case, mangiare e bere,assistere a combattimenti di galli, comperare evendere; vediamo donne partorienti, uomini chepescano e lavorano la terra, guidano carri trainatida buoi, arrostiscono pesci su gratelle di bambù,siedono sotto parasoli e assistono a spettacoli dacirco. Vi sono funamboli e lottatori; un’orchestrasuona, e questi stessi strumenti musicali, carri,reti da pesca, falci, volti, corpi, gesti si vedonoancor oggi nei villaggi e nei campi dellaCambogia.I Khmer di oggi sono realmente i discendenti diquelli che costruirono Angkor e usano ancora glistessi arnesi di allora, anche se la radio a

transistor e la motocicletta, la permanente e lajeep si avviano a cambiare il modello di vita.Angkor Vat, il più grande, il più proporzionato(secondo i canoni occidentali) ed il più armoniosodei templi, è la prodigiosa pira funeraria di un redivinizzato. Ha un’area di chilometri 1,2 x 1,3 edè completamente circondato da un fossato scavatoa braccia. Cortili, scalinate e torri fiaccano la resi-stenza del turista più instancabile. Ma quale ric-chezza di cose da vedere! Nelle gallerie lunghecentinaia di metri ecco le grandi epopee del Ra-mayana e del Mahabharata e lo splendido Visnu,che procede allo scuotimento del Mare di Latteper trarne l’elisir della vita. Un grosso serpente siattorciglia intorno a una montagna, che demoni edivinità fanno ruotare per agitare il latte, e dal ma-re emergono tutte le creature del mondo, fra cui lamoglie di Visnu, Laksmi. Ecco la grande battagliadegli eserciti delle scimmie contro Ravana, il remalvagio che rapì Sita; ecco le imponenti scene dibattaglia. Le sculture sono così numerose cheogni pietra ne è interamente ricoperta. Alcunesono imponenti, altre delicate come trine.Centinaia e centinaia di bellissime figure femmi-nili, una diversa dall’altra, ornano le pareti.Mi ci vollero quasi cinque giorni per vedere tuttoil tempio - mettendo a dura prova i miei poveripiedi - e ancora non ne conosco tutti i particolari.Numerose sono le leggende riguardanti AngkorVat, ma esso non è temuto come il Bàyon. Quisoleva dar spettacolo il balletto reale cambogianoquando regnava ancora il principe Sihanouk, chetanto fece per assicurare pace e prosperità al suopopolo. Ahimè, dopo il colpo di stato contro dilui, il paese è dilaniato dalla guerra ed anche Ang-kor Vat è minacciata. Già statue e bassorilievistanno facendo la loro comparsa sui mercati diPhnom-Pehn la capitale, giacché nessuno sipreoccupa più di questa eredità inestimabile.Banteay Srei è forse il tempio che riscuote mag-gior favore fra gli europei. Personalmente, lo tro-vo meno stimolante: è troppo bello, troppo perfet-to. Piccolo, squisito, delizioso, tutto in pietra rosa,Banteay Srei, “cittadella delle donne”, fu erettonel 967 d.C. Lo vidi per la prima volta sedici annifa, quando era accessibile soltanto in jeep; ora ilturista può disporre di una buona strada. La suaestrema bellezza fa di Banteay Srei il tempio piùminacciato di tutti, anche perché è isolato nellaforesta. Elefanti selvaggi solevano vagare intornoe ricordo ancora il loro forte odore che permeavanei luoghi mentre sedevo ad osservare il sorgeredel sole.Più di Banteay Srei, amo Banteay Samrè, che è,come il Bàyon, un tempio che sembra far esplode-re la pietra con un’appassionata violenza che i-gnora ogni canone. Di fronte ad esso, la mia im-

Page 15: Dossier Cambogia

maginazione fermenta e si agita come un “mare dilatte”.C’è uno squisito ritegno nella scultura khmer, chenon è mai erotica; anche se colma di sensualità.Altrettanto non si può invece dire della gente, cheama gli scherzi anche pungenti. Ma è gente pulitache non pensa al male; senza essere lasciva, godeenormemente la vita e i suoi canti d’amore sonodeliziosamente schietti.Tà Kèv, la torre di cristallo (1000 d.C.), Prè Rup,la piramide chiamata anche “il corpo ruotante”, el’enorme Bàkong sono tutte rappresentazioni diMonte Meru, la grande montagna cosmica delmondo a cinque piani. Monte Meru è l’ordine del-l’universo. E sempre in funzione della divinità,dell’essenza divina, del potere e della gloria, enon del corpo.La favolosa enormità di Angkor altro non è se nonpoderosa espressione in pietra della volontàdell’uomo di vivere al di là di se stesso, di domi-nare il tempo e lo spazio oltre gli anni concessiglisulla terra. L’Induismo e il Buddhismo, uniti allaviva immaginazione e alla straordinaria maestriadel gruppo etnico khmer, si unirono per dar vita auna cultura che durò molti secoli.Al tempo del suo massimo splendore, sotto il re-gno di Jayavarman VII, fu costruito il Bàyon. Maalcune parti del Bàyon rimasero incompiute, comese una grande guerra o un pestilenza avesse fer-mato lo scalpello dello scultore. E il Bàyon fu in-fatti l’ultimo dei grandi monumenti.Si rimane sbalorditi di fronte agli elenchi di doniin oro e argento e al numero di uomini chiamati acavare la pietra dal monte Kulen, a trasportarlasul luogo, a costruire e scolpire. Non fu usato ce-mento: i cubi di pietra accuratamente squadrativenivano disposti in maniera da combaciare per-fettamente, reggendo soltanto grazie al loro peso eall’equilibrio determinato dalla precisione del ta-glio. Nei monumenti come Angkor Vat, pressochéogni pietra è scolpita o incisa, dalle fondamentafino alla cima. Si pensi al lavoro che ciò implica,alle centinaia di migliaia di uomini che dedicaro-no anni e anni - sessanta o settanta - a un solo mo-numento... Si pensi all’oro e all’argento, alle perlee alle pietre preziose impiegati per questo cultoall’essenza divina dei re...Così Angkor morì del suo stesso splendore, dellasua stessa magnificenza e megalomania architet-tonica. Nel 1432 fu definitivamente abbandonataquale capitale del regno. I canali di irrigazioneche l’avevano tenuta in vita andarono in rovina, egiunse un altro invasore: la giungla. Gli alberivennero; ricoprirono pietre e teste; soffocaronoAngkor. Ma Angkor non fu dimenticata dai con-tadini khmer, anche se parve dimenticata da colo-

ro che avevano deciso di edificare una nuova ca-pitale, Phnom-Pehn.Viaggiatori francesi sentirono parlare di una me-ravigliosa Città degli Dei, celata nel cuore dellagiungla. Un missionario spagnolo vi si era imbat-tuto per caso nel XVII secolo, ma aveva credutoche fosse stata costruita da Alessandro Magno!Poi, un giorno, un francese più avventuroso deglialtri seguì le piste nella giungla e scorse sopra lacima degli alberi le torri coniche di Angkor Vat.La profezia aveva predetto, dicevano i contadini,che dopo cinquecento anni, Angkor sarebbe risor-ta... E in effetti fu in questo XX secolo, esatta-mente dopo cinque secoli, che la scuola francesedi archeologia, sotto la guida di nomi illustri, rico-struì una buona parte di Angkor, facendone ilgioiello e l’orgoglio della Cambogia, la settimameraviglia del mondo, incredibile e preziosa espe-rienza per tutti coloro che sono sensibili alla bel-lezza e alla grande arte.“Come la grazia della primavera sui giardini, co-me la notte di plenilunio per la luna, così, vio-lando la bellezza del tuo corpo nel suosplendore... gli occhi degli uomini si sono voltiverso di te, simili ad api verso l’arnia, per placarela loro sete di bellezza”.Ahimè, oggi di nuovo la guerra è tornata. E gli in-dovini lo avevano predetto. Un anno o poco piùprima del colpo di stato del 1970 contro il princi-pe Sihanouk, capo della Cambogia - il re che ave-va abdicato per regnare democraticamente - gli in-dovini avevano formulato oscuri presagi di trage-dia e dolore: Sihanouk e il suo regno avrebberoincontrato giorni di sventura; un invasorestraniero sarebbe venuto e il popolo avrebbe sof-ferto come per un violento flagello; Sihanouk sa-rebbe stato costretto ad andarsene e ciò avrebbesignificato morte e calamità per molti. Tutto que-sto fu predetto dagli indovini un anno prima chetali eventi si verificassero. Io c’ero e li ho uditi.Ma la profezia va oltre: Sihanouk viaggerà versooriente, verso il sole nascente, e non verso occi-dente, poiché quella è la direzione della morte; edall’oriente, dopo mille giorni, Sihanoukritornerà, e il regno sarà nuovamente in pace e lagloria di Angkor sarà resa al popolo khmer.Questa è la profezia. Oggi, nei villaggi intorno adAngkor, gli abitanti accendono le loro radiolinenel silenzio della notte e ascoltano la voce delprincipe Sihanouk che trasmette da Pechino. E giànelle giungle circostanti la guerriglia del popolokhmer, che tanto a lungo lottò per l’indipendenza,si prepara ad agire per far sì che, un giorno, ilPaese possa essere nuovamente in pace.

20 luglio 1971

Han Suyinda “Civiltà Khmer” - Mondadori 1983

Page 16: Dossier Cambogia

Ankgor VatIn una ipotetica storia dei capolavori d’arte creatidal genio umano nel corso dei secoli, Ankgor Vattroverebbe certamente luogo come l’opera piùrappresentativa dell’età classica della civiltàkhmer. Infatti, questo è il monumentocambogiano che meglio evidenzia la somma delleesperienze artistiche, tecniche e spirituali di quelpopolo e più compiutamente ne esprime lacreatività. Con Angkor gli artisti khmerraggiungono quel punto al di là del quale non puòesserci che eccesso o ripetizione o manierismo, inuna parola decadenza, da intendersi peraltro noncome elemento esclusivamente negativo mapiuttosto come periodo di stasi, di attesa, in cui ifermenti dell’età nuova possano maturare esvilupparsi.La realizzazione del monumento è merito chedeve essere ascritto ad una folta schiera di artisti eartigiani e non, come vorrebbero alcuni, al geniocreativo di un solo uomo, architetto reale o sovra-no che fosse. Del primo del resto non conosciamoneppure il nome, chè tutte le opere d’arte khmerci sono pervenute assolutamente anonime; ilsecondo era Suryavarman II, menzionato nellastoriografia come protagonista di numerose, sepur effimere, conquiste territoriali e esaltatodall’epigrafia come eroico guerriero. Suryavar-man apparteneva alla dinastia fondata nel 1080 daJayavarman VI, un sovrano di cui non è stata rin-venuta alcuna iscrizione nè alcuna fondazione re-gale compresa nel territorio di Angkor. Le notiziegenealogiche che lo riguardano si trovano su stelefatte incidere dai suoi due più autorevolisuccessori, Suryavarman II e Yayavarman VII, edè per questo tramite che ne conosciamo ladiscendenza dalla nobiltà di Mahidarapura (cittànon identificata) e l’assenza di qualsiasi legame diparentela con i sovrani delle precedenti dinastieangkoriane. Non è improbabile peraltro cheYayavarman VI si fosse eletto sovrano dellaCambogia (e come tale fosse stato consacrato dalbrahmano Divakarapandita) ed avesse fondato lanuova dinastia mentre ad Angkor regnava ancorail sovrano legittimo Harsavarman III o il suosuccessore (forse Nrpatindravarman).Certo Divakara fece una buona scelta abbando-nando Harsavarman per il nuovo sovrano, perchènon solo fu da costui colmato di doni ma, comeabbiamo visto, rimase vrah guru di tre gene-razioni di sovrani e in tarda età potè far inciderequelle iscrizioni di Phnom Sandak e Preah Viheargrazie alle quali ci sono noti molti degli avveni-menti di quegli anni.

Pronipote di Jayavarman VI, Suryavarman “presela regalità, unificando un doppio regno”.La citazione è tratta dall’iscrizione di Vat Phu: idue regni qui indicati dovrebbero essere quello diDharanindravarman I, fratello cadetto di Jayavar-man, e quello di Nrpatindavarman della dinastiadi Angkor.È una strada probabilmente difficile e quasi sicu-ramente contrastata quella che conduce il giovanesovrano al trono, e di lotte sarà costellato anchel’intero arco della sua esistenza. Egli volge la suaattenzione dapprima verso oriente, promuovendocampagne militari contro il Dai Viet con l’aiutodei Cham; quindi, fallita l’impresa per il venirmeno di tale alleanza, contro il Champa stessoche, colto di sorpresa dal repentino mutamento difronte, capitolò e dovette subire per qualche anno(1145-1149) l’occupazione khmer. Anche ad oc-cidente le ambizioni territoriali di Suryavarmannon poterono attuarsi pienamente. Le cronacheT’ai danno infatti notizia di una contesa tra ilprincipato di Lavo (Lop’buri), già da tempo pos-sesso cambogiano, e quello di Haripunjaya, occu-pato dai Mon, contesa che, nonostante le inizialivittorie dei khmer, non portò ad una definitivasconfitta dei Mon.I particolari di questi avvenimenti ci sfuggono, lacronologia è incerta, le fonti potrebbero esseretendenziose. Sta di fatto che il regno di Suryavar-man II ha significato qualcosa nella storia dellaCambogia sia per la sua estensione (secondo laStoria dei Sung esso confinava a nord con ilChampa, ad est con il mare, ad ovest con il regnodi Pagan in Birmania e a sud con quello malese diGrahi), sia per la sua importanza politica, comesta a dimostrare il titolo di “gran vassallo” con-ferito al sovrano dall’imperatore cinese.Se i dati suesposti ci restituiscono l’immagine diun monarca ambizioso e potente, continuamenteimpegnato in grandiosi disegni politici, il tempiodi Angkor Vat esprime forse meglio di altro lavolontà di potenza e di magnificenza “imperiale”di questo sovrano. Cos’è dunque Angkor Vat?“...Il capolavoro dell’arte khmer, costruito durantela vita del re per servirgli in seguito da tempio fu-nerario nel quale egli doveva essere divinizzatosotto l’aspetto di una statua di Visnu con il nomepostumo di Paramavisnuloka”: così il Coedes, maper verificare l’esattezza di una simile definizionesarà bene procedere alla descrizione dettagliatadell’edificio.Al momento di porre in opera il suo monumentaletempio-montagna, Suryavarman II si trovò ad af-frontare un problema di non facile soluzione: il

Page 17: Dossier Cambogia

reperimento di un’area abbastanza vasta per con-sentirgli di costruire un’opera degna della suagrandezza e delle sue aspirazioni. Quale che fossein quell’epoca il tracciato urbano della città diAngkor, quello dell’antica Yasodharapura ovveroquello della futura Angkor Thom, le costruzionidei sovrani del X ed XI secolo occupavano buonaparte del suolo disponibile. Suryavarman scelsedunque l’estremo angolo sud-est di Yasodharapu-ra, uno spazio evidentemente libero da edifici inmateriale durevole e che poteva usufruire della re-te di canali predisposta da Yasovarman per la suacapitale.Un fossato largo 200 metri delimitava un’arearettangolare di circa un chilometro quadrato: lun-go i suoi lati, una scalinata continua permetteva acoloro che abitavano nell’area al di là del fossatoe soprattutto a quelli che risiedevano all’internodell’area sacra (non è da escludersi che lo stessore vi avesse fissato la sua dimora) di attingervil’acqua.Essendo il tempio orientato verso ovest, in corri-spondenza di questo punto cardinale si snodavaun lungo attraversamento assiale fiancheggiato dauna splendida balaustrata a forma di naga checonduceva fino all’ingresso del primo recinto.Qui giunto, il fedele di ieri come il turistaodierno, si imbatte in un gopura straordinaria-mente sviluppato nel senso della lunghezza, com-posto da un gruppo centrale di tre torri, sopraele-vato, e da due ingressi laterali, in piano.Le costruzioni sono collegate tra loro da una gal-leria a volta che poggia all’interno su un muropieno e all’esterno su pilastri quadrati: il porticato

è completato dall’aggiunta di una seminavata piùbassa, ancora sorretta da pilastri.L’area sacra inizia oltre questo portale e la stradadi accesso, pavimentata a grandi lastre e delimi-tata ancora una volta da una balaustrata di nagainterrotta da sei gradinate per lato, costituisce ilpercorso obbligato per avvicinarsi al tempio.Ai lati, due “biblioteche” e due stagni artificiali,quindi una vasta terrazza sul cui lato occidentaletrova posto una piattaforma a pianta cruciforme adue piani. Si giunge poi all’ingresso del tempiovero e proprio.Angkor Vat, come dicevamo, è un tempio-monta-gna, una piramide ottenuta con la sovrapposizionedi tre terrazze. La prima di esse è delimitata dauna galleria perimetrale, interrotta solo daigopura che si trovano in corrispondenza dei punticardinali e dai padiglioni d’angolo a piantacruciforme. La galleria è del tipo già descritto, igopura e i padiglioni d’angolo sono resiaccessibili da ampie gradinate. Se si procedesull’asse ovest-est, una volta superato l’ingressoci si trova di fronte ad una delle più interessantirealizzazioni angkoriane: il chiostro cruciforme.Dai tre corpi che costituiscono il portale dellagalleria perimetrale si accede dunque a tre gallerieparallele che conducono alle scalinate di accessoalla terrazza superiore, anch’esse coperte con unagalleria a volta; un’ultima galleria, ortogonale alleprime, determina una suddivisione dello spaziointerno in quattro settori separati, cioè in quattrocortili scavati al centro a guisa di piscine, chedovettero originariamente essere adibiti a scopicultuali.

Il Bayon

Alla seconda fase dello stile appartiene anche ilprimo nucleo del Bayon, oggi non visibile perchèinglobato nella costruzione successiva. Si trattavaprobabilmente di un tempio-montagna. Esso se-gnava infatti il centro di Angkor Thom e, secondoil simbolismo cosmologico connesso con la cittàkhmer, non poteva essere altro che un tempio-montagna. La parte centrale è stata successiva-mente allargata smisuratamente, tanto che vaquasi a toccare la galleria sagomata che lo circon-da. Tuttavia anche questa doveva far parte dellapianta originaria: infatti la sua parete interna mo-stra delle decorazioni che non possono esserestate eseguite per la mancanza di spazio dopo l’al-largamento del massiccio centrale; di queste èleggibile un Lokesvara di grandi proporzioni. Ilfrontone con figura di Lokesvara è un elemento

caratteristico della seconda fase dello stile, anzipossiamo dire che nella prima non è attestato enella terza è molto raro. Costituisce dunque unprezioso elemento di datazione.Nella terza fase questa galleria è stata completatacon quattro ambienti d’angolo, per ricondurre lapianta a un quadrilatero. Degli ambienti di raccor-do sono menzionati nelle iscrizioni, e il Parmen-tier ne ha rinvenuto le tracce sul terreno; doveva-no esserci sedici di questi ambienti a collegare lagalleria esterna con quella più interna, quattro perogni lato, che venivano così a delimitare sedicipiccole corti. Ma poco dopo la fine del regno diJayavarman VII essi furono demoliti.

Donatella Mazzeo e Chiara Silvida “La Civiltà khmer” - Mondadori 1983

Page 18: Dossier Cambogia

Viaggio ai templi della Cambogianell’impero del dio-re

Attorno al lago Tonlé Sap, il cuore azzurro della Cambogia,mille anni fa raggiunse il massimo splendore l’impero dei khmerdi cui restano stupendi templi dal complesso simbolismo cosmico

“Alzai gli occhi verso le torri ammantate di vege-tazione che giganteggiavano su di me, quando im-provvisamente mi si agghiacciò il sangue: vidi unenorme sorriso guardare in basso nella mia dire-zione, ed un altro sorriso sopra un diverso muro epoi tre, cinque, dieci che apparivano da ogni dove.Mi stavano osservando da tutte le parti”.La memorabile impressione che Pierre Loti, unoscrittore francese giramondo, riportò agli inizi diquesto secolo nel suo “Il pellegrino di Angkor”,vedendo i giganteschi volti sorridenti che ornanoil tempio dei Bayon della città khmer di AngkorThom in Cambogia non è stata diversa dalla mia,solo che a me il sangue si era gelato quattro anniprima quando, preparando una proiezione sul bud-dhismo indiano e gli influssi che questo avevaavuto nel Sud-est asiatico, vidi per la prima voltale immagini dei templi khmer.Non credevo che fosse ancora possibile provareun’emozione così profonda di fronte alle vestigiadel passato, una sensazione così intensa di sco-perta. Percorrere i bui corridoi festonati di liane,camminare sotto costruzioni diventate piedestallid’alberi, salire gradini alti e ripidissimi è stata unagrande ed irripetibile avventura.Il pensiero dei serpenti, dei crolli, delle mine dicui tanto avevo sentito parlare non mi ha mai mi-nimamente sfiorato: ad ogni passo mi si offrivaqualcosa che andava ben oltre la gratificazionedella curiosità e dell’interesse intellettuale.Evento tanto raro nella vita, la realtà non solo nonsmentì le aspettative, ma le superò.Fu nel secolo scorso che il naturalista franceseHenri Mouhot descrisse per la prima volta nel suoIl giro del mondo le meraviglie della città cambo-giana di Angkor, attirando l’attenzione dell’occi-dente sulla civiltà khmer.Dei fasti dell’impero khmer che raggiunse l’apo-geo tra il IX e il XIII secolo, restano le imponentirovine nella giungla e sono queste con i loro bas-sorilievi a raccontare la vita di mille anni fa.L’antica società khmer ruotava attorno alla figuradel sovrano considerato come un dio ed era strut-turata in classi: l’oligarchia principesca, isacerdoti, la popolazione militare e civile -

quest’ultima organizzata in corporazioniartigianali e con il commercio esercitato dalledonne e dai cinesi - e gli schiavi. I sacerdoti piùimportanti erano d’ascendenza indiana e sitrasmettevano le cariche per linea materna,elemento che aggiunto ad altri rivela gli stretticontatti tra la civiltà khmer e quella indiana.Ci fu infatti già nei primi secoli dell’era cristianauna forte ma pacifica indianizzazione dell’Indoci-na ad opera dei brahmani, la casta sacerdotale in-dù e in un secondo tempo dei missionari buddhi-sti. I brahmani portarono in Cambogia la grandecultura indiana su richiesta degli stessi signorilocali che videro nel complesso apparato ritualeindù il mezzo per consacrare la loro recente so-vranità.I monaci buddhisti diffusero il messaggio delBuddha tra la popolazione e questa religione finìper scalzare l’induismo e diventare il credo uf-ficiale della Cambogia a cui aderisce ancora oggil’88% della popolazione.Fu comunque la cultura indù più che quella bud-dhista ad ispirare i grandi templi della giungacambogiana che testimoniano un singolare ed af-fascinante sincretismo di elementi autoctoni edimportati: il locale culto khmer degli antenati edella montagna sacra si fuse con l’ideale indù delmonarca universale, signore dell’ordine sociale ecustode della legge divina, e con i miti della mon-tagna cosmica, asse del mondo e suo perno ordi-natore.Tutto ciò fu sancito per la prima volta nel IX se-colo con un grandioso rito brahmanico celebratosul sacro monte di Phnom Kulen per il re Jaya-varman II che ricevette dal dio Siva, uno degliaspetti divini più importanti della religione indù,il linga, la pietra che lo simboleggia e che da quelmomento divenne anche il tabernacolo dell’essen-za regale, una sorta di palladio.Con l’avvento del buddhismo ai linga si sostituìl’immagine del Buddha.Nacque così il mito del Devaraja, il dio-re protet-tore dell’universo, la cui dimora non potevaessere altro che il tempio-montagna.

Page 19: Dossier Cambogia

Pertanto ogni sovrano edificava durante il suo re-gno un tempio personale che ospitava il linga,simbolo della sua regalità e della sua essenza divi-na, e che alla sua morte ne diventava il mausoleo,una sorta di corpo architettonico.Tutta l’architettura khmer è ispirata al simbolismodella montagna cosmica, il luogo più alto dove ilmondo degli uomini e quello degli dei comunica-no, sorta di torre di Babele, ed è proprio la torre-santuario quadrata con piramide a gradini che co-stituisce la più antica soluzione architettonicakhmer, in mattone, arenaria o laterite. Prima iso-late e poi raggruppate su un basamento in numerodi tre o di cinque, le torri si evolvono in seguitonello scenografico complesso del tempio-monta-gna a quiconcia, cioè a cinque torri, quattro dispo-ste agli angoli del perimetro quadrato e una alcentro, collegate da gallerie colonnate.Sono i miti indù dell’origine del mondo a dettarele regole per la costruzione: il tempio-montagnasorge in un bacino che simboleggia l’oceano co-smico, le acque primordiali nel cui grembo caoti-co era racchiusa la vita in attesa di essere manife-stata. L’importanza del barey, il bacino khmer, èfondamentale nell’edificazione dei centrireligiosi: il potere regale si fonda infatti, oltre chesulle motivazioni sacre, sulla capacità disfruttamento delle acque per le risaie: così il re,trasponendo il mito in una dimensione praticafunzionale, diventa la fonte e il distributore dellavita.Il corpo principale del tempio coincide con il mi-tico monte Meru che nella visione indù è al centrodell’universo e simboleggia l’asse ordinatore chetrasforma il caos originario nel mondo manifesto.I cinque picchi del Meru giustificano il motivodelle cinque torri a quiconcia.Le porte che si protendono in speciali padiglionifuori dalla costruzione ai quattro punti cardinalicelebrano l’estensione del potere regale su tuttol’universo. Quanto al ponte con la balaustra co-stituita da serpenti che collega la città e il tempio,cioè il mondo degli uomini e quello degli dei,questo rimanda all’arcobaleno che raccorda cieloe terra e alla pioggia di cui i serpenti sonoportatori.Ogni elemento è volto a sottolineare la dimensio-ne divina: i cigni e i garuda, i mitici esseri inparte umani e in parte avvoltoi che compaionoalla base delle costruzioni, stanno ad indicare chequeste sono i carri o i palazzi volanti degli dei.All’interno la presenza delle statue del Devarajaribadisce la trasformazione della costruzione uma-na in dimora celeste. La scultura opera una sortadi rito magico e per questo viene eseguita anchelà dove non si vede e non soddisfa dunque alcunaesigenza estetica.

La statua principale diventa il tabernacolo dellospirito regale e deve essere resa viva tramite unaparticolare cerimonia definita “apertura degli oc-chi”. Defunto il re, questa diviene il luogo che neospita le ceneri.Al santuario, casa del dio-re o suo mausoleo, ilpopolo poteva accedere solo parzialmente: gliambienti più interni - e più sopraelevati - eranoaperti solo al sovrano e ai sacerdoti.Furono proprio questi templi meravigliosi acausare la fine della potenza khmer: le coscrizionidi massa per alimentare le schiere di lavoratoriforzati, il dispendio di mezzi ed energieindebolirono l’impero e costrinsero i sovrani adabbandonare la zona di Angkor.Sul regno dispotico del dio-re la giungla ha stesoil suo sudario. Dalle rovine dei templi la pioggiaha cancellato i forti colori delle pitture che proba-bilmente non avrebbero incontrato il nostro gusto,mettendo a nudo il sobrio e splendido gioco dellapietra, e pare di trovarsi di fronte agli scheletri dianimali possenti stretti fra i tentacoli del verde,sottomessi ma non vinti.Dell’esistenza di allora sono rimaste soltanto levuote forme architettoniche, splendide proprioperché cristallizzate dal tempo in visioni di un al-tro mondo. Non più gli uomini, ma le loro idee,nella bellezza pura delle rovine. Una bellezza co-struita con il sangue dei nemici vinti obbligati allaschiavitù, del popolo khmer costretto forse aperiodi di lavoro forzato.Ma chi ci dice che tanta sofferenza non fossedavvero illuminata dalla fede e che il re-dio nonrappresentasse la guida e il modello morale per ilsuo popolo? I volti impenetrabili delle statuesorridono ambigui nella giungla.Negli ultimi giorni del mio viaggio in Cambogiaai sorrisi imperscrutabili delle torri del Bayon sisono sostituiti altri volti, quelli straziati delle vit-time dei khmer rossi che compaiono nei docu-menti del famigerato carcere S 21 di Phnom Penh.Dimenticare l’uomo per ricordare solo i suoi mo-numenti è unafuga dalla realtà. Lungo le strade inriva ai canali, nelle risaie, nei mercati, nei villaggiho incontrato gente dignitosa e gentile che na-sconde il suo terribile e recentissimo passato nelprofondo dello sguardo.Il mio sogno è diventato un incubo. Mi sono chie-sta come possano nell’uomo convivere grandezzae degenerazione a questi livelli.Prima di lasciare Angkor sono tornata ad unadelle sue capitali della giungla: ad Angkor Thon.Un lungo viale conduce alla porta principale e lofiancheggiano gigantesche immagini di ugualeimportanza: gli dei e i demoni.

Page 20: Dossier Cambogia

Un poco di storia

I Khmer, per anni considerati un popolo misterio-so, sono probabilmente legati al ceppo paleoindo-nesiano e risultano già attestati in Indocinaattorno alla zona di Bassac (Vietnam) sul corsodel medio Mekong nel II secolo avanti Cristo.Tra il I e il VI secolo d.C. furono vassalli del re-gno Indù del Fu-nan, citato da fonti cinesi, che eralocalizzato sul delta del Mekong e inglobava gliodierni Vietnam, Laos e Cambogia.Una volta disgregatosi il regno, un gruppo khmernoto con il nome di Kambuja (figli di Kambu), -un personaggio legato alla mitologia indù - fondòun regno autonomo a nord del Tonlé Sap, ilgrande bacino che costituisce il cuore dell’attualeCambogia.Dopo un periodo di anarchia nel IX secolo, il reJayavarman II, probabilmente proveniente da Ja-va, con la quale i khmer erano in rapporti di sud-ditanza e in cui la sua famiglia aveva vissuto co-me esiliata, unificò il paese e fondò quattro capi-tali nella futura zona di Angkor.I suoi discendenti espansero i domini khmer finoal Fiume Rosso, sconfiggendo e rendendo vassallii potenti Cham del regno Champa sul mare cinesemeridionale.Nel XIII secolo iniziò una fase di decadenza checulminò nel 1431 con la presa della capitalekhmer di Angkor ad opera dei sovrani del vicinoregno del thai (circa l’odierna Thailandia): le in-vasioni di questi e degli annamiti del Vietnamcontinuarono per tutto il XVI secolo, finché nelXIX le pianure attorno a Battambang e a SiemReap furono annesse dall’allora regno del Siam(Thailandia) e la Cambogia divenne vassalla diquesto e del Vietnam.

Per ricuperare parte della propria sovranità terri-toriale nel 1854 la Cambogia chiese aiuto alconsole francese di Singapore e nel 1863 divenneprotettorato francese, riottenendo l’indipendenzacome monarchia nel 1954.Dopo l’avvento al potere dei khmer rossi e il ge-nocidio da loro compiuto tra il 1975 e il 1978, edopo l’intervento vietnamita, la Cambogia è orain attesa delle elezioni che avranno luogo a finemaggio ed è presidiata dall’Untac, i contingentiinternazionali mandati dall’Onu che garantisconole “attività di transizione in Cambogia”.I khmer rossi, lungi dall’essere stati debellati,hanno fondato il Partito democratico della Kam-pucea e sono attestati nella zona di frontiera diPailin, famoso luogo di estrazione diamantiferacon un volume di traffici per un milione di dollarial mese; qui coloro che lavorano per i khmer per-cepiscono stipendi 20 volte superiori a quelli otte-nuti nelle zone fuori dalla loro influenza.La difficile situazione politica è aggravata da unfosco panorama economico in cui l’inflazione èdel 300% e dai problemi connessi con 350.000profughi che attendono di essere sistemati.

Marilia Albanesedocente di cultura indiana e lingua hindi presso l’ISMEOda “Alba” - 21 maggio 1993

Page 21: Dossier Cambogia

Terzani su Angkor... Io lessi Maugham, sdraiato su una delle panchenella stanza da pranzo. Una volta sbarcato, anchelui era andato a Phnom Penh e da lì ad Angkor.Come tanti altri visitatori, era rimasto colpito so-prattutto da Ta Prom, il tempio lasciato alla giun-gla, perché lì, nella natura che si riconquistava lepietre messe dall’uomo, aveva sentito “la più po-tente di tutte le divinità”.A me invece hanno sempre fatto più impressione itempli dove l’opera dell’uomo in sé m’era apparsasfiorare il divino.Ci sono alcuni posti al mondo in cui uno si senteorgoglioso di essere membro della razza umana.Uno di questi è certo Angkor. Dietro la sofisticatae intellettuale bellezza di Angkor c’è qualcosa diprofondamente semplice, di archetipico, di natu-rale che arriva al petto senza dover passare per latesta. In ogni pietra c’è un’intrinseca grandezza dicui uno finisce per portarsi dietro la misura.Non occorre sapere che ogni particolare aveva peri costruttori un suo significato, che ogni pietra,ogni scultura, ogni cortile, ogni pinnacolo eranotasselli nell’immenso mosaico che doveva raffigu-rare i vari mondi, compreso quello superiore, conal centro il mitico Monte Meru. Non occorre esse-re buddisti o hindu per capire. Basta lasciarsi an-dare per sentire che ad Angkor, in qualche modo,ci si è già stati.“Le rovine di Angkor mi erano già apparse nellevisioni dell’infanzia, erano già parte del mio mu-seo”, scrisse Pierre Loti nel 1901, quando, Pelle-grino d’Angkor, si avventurò nella giungla ricor-dandosi come, da bambino, avesse cercato dallafinestra della casa paterna di vedere quellemitiche torri.Nel 1972, dall’alto di una finestra del GrandHotel di Siem Reap, quelle torri, le torri diAngkorwat, le avevo viste anch’io, ma non eroriuscito ad arrivarci.I Khmer Rossi avevano occupato l’intero com-plesso dei templi e quelle guglie grigie, sopra ilverde della foresta, mi parvero un irraggiungibilemiraggio. La strada che dall’albergo conducedritta ai templi era tagliata al settimo chilometroda un fossato. Quello era il fronte e avvicinarsivoleva dire mettere la propria vita in mano a qual-che cecchino nascosto in un albero.Quando, otto anni dopo, riuscii a fare gli ultimisei chilometri di quella strada, Angkor mi parveancora più commovente, più tragica, piùmisteriosa di come me l’ero immaginata.Il regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi era statoappena rovesciato dall’intervento vietnamita e icambogiani che si incontravano, ammalati e affa-

mati, sembravano i superstiti di una razza persa edisorientata che non aveva più alcun rapporto conla grandezza testimoniata dai suoi monumenti.Con il passare dei secoli i Khmer s’erano dimenti-cati di Angkor, la loro grande capitale, costruitafra il nono e l’undicesimo secolo e abbandonatanel 1431, dopo che i siamesi l’avevano messa aferro e fuoco. Non fosse stato per Mouhot, che“riscoprì” Angkor per il mondo, e per gli stessicambogiani, i Khmer non avrebbero avuto unastoria cui rifarsi.Eppure in quell’immenso complesso c’era tutto.C’era la vita: quella passata e quella futura. Sì,perché Angkor era, fra le tante cose, anche unasorta di profezia lasciata per i posteri nella pietra.O almeno così parve a me, quando ci arrivai fra ilgridare delle scimmie e il frinire delle cicale.Quella impressione da allora non mi ha mai la-sciato.Ero l’unico visitatore. Mi accompagnava PichKeo, una delle vecchie guide, sopravvissuto aimassacri di Pol Pot. La Cambogia era un immensocampo di morte e la grandezza di Angkor mi pa-reva rispecchiare stranamente la grandezza diquella tragedia.In uno dei grandi bassorilievi vidi le stesse scenedi tortura, di gente squartata, fatta a pezzi, impa-lata, uccisa a bastonate, o data in pasto ai coc-codrilli, di cui avevo sentito parlare viaggiandoper il Paese. Le stesse storie che avevo sentitoraccontare dai sopravvissuti dei campi della morteerano lì, nella pietra, scolpite dieci secoli prima.Una profezia? Un ammonimento? O semplice-mente la constatazione dell’immutabilità dellavita che è sempre gioia e violenza, piacere etortura? Nei bassorilievi era così. Accanto allescene di spaventosa sofferenza, c’erano quelle digrande serenità; accanto ai boia che incutevanoterrore, c’erano le ballerine dai corpi sinuosi.Orge di dolore e orge di felicità, il tutto sotto igrandi sorrisi di pietra, sotto gli occhi socchiusi diquelle misteriose facce nella giungla. Non avevodubbi: il messaggio di Angkor restava quello cheera stato da secoli. Sull’architrave di una portauna mano antica aveva scalpellato una scritta chePich Keo tradusse: “Il saggio sa che la vita non èche una fiammella scossa da un vento violento.”

................................................................................

.

L’uomo che nel 1860 aveva “scoperto” Angkorper l’umanità - e per i turisti - aveva pagato quellasua conquista con la vita.

Page 22: Dossier Cambogia

Pochi sanno che la sua tomba è ancora lì, a est diLuang Prabang, e io volli andare a rendere omag-gio a quell’avventuroso scienziato, Henri Mouhot,la cui storia mi ha sempre affascinato.Mouhot era un naturalista francese che viaggiavanell’Indocina appena diventata colonia.Prima di partire per la sua spedizione, con l’ideadi risalire il Mekong fino in Cina, aveva letto ilresoconto di un frate che dieci anni prima avevaaccennato a strane rovine nella giungla, poco lon-tano dalla cittadina di Siem Reap, ma non avevaun’idea di che cosa aspettarsi. Un giorno, adden-

tratosi nella foresta, dove si faceva compagniacantando tra sé e sé la Traviata, come raccontanelle sue lettere, Mouhot d’un tratto, in mezzo alfogliame fitto sotto gli alberi giganteschi, si sentìguardato da due, quattro, dieci, cento occhi dipietra che gli sorridevano. Ho sempre cercato diimmaginarmi che cosa avesse provato in quelmomento; un momento per il quale era valso ilsuo viaggio, e la sua morte.”

Tiziano Terzanida “Un indovino mi disse” - Longanesi 1995

Page 23: Dossier Cambogia

I templi decapitati di AngkorContinua il saccheggio dello straordinario parco archeologico

nella giungla cambogiana.Il Paese non dispone di norme efficaci né di fondi sufficienti per la tutela.

Uscita esangue e traumatizzata da trent’anni diguerra, la Cambogia cerca oggi di ricostruirsi.I problemi attuali, fra cui spiccano l’estrema po-vertà e una classe politica troppo abituata a gesti-re con violenza il potere, restano gravi, ma sem-brano poca cosa rispetto alla ferocia omicida deiKhmer Rossi, all’invasione vietnamita o alla guer-ra civile che ha diviso il Paese fino all’altro ieri.Il compito di ricostruzione è complesso: la Cam-bogia si ritrova priva di strutture di base, e sia ilcorpo legislativo sia il sistema educativo e sanita-rio, sia l’economia del Paese rappresentano al-trettanti “lavori in corso” che cominciano solo oraa uscire dall’emergenza.Tuttavia, il Paese può contare su uno dei maggioripotenziali turistici dell’intera regione: la costanon è sfigurata dalla speculazione immobiliare ele città offrono un’atmosfera unica, fra i fasti delpassato coloniale e gli eccessi odierni da “ultimafrontiera” della legalità, che si mescolano all’ar-chitettura tradizionale e al profumo degli onnipre-senti gelsomini.E in Cambogia si trova il principale tesoro dellaregione, racchiuso nel parco archeologico di Ang-kor, dove furono costruite le città imperiali di e-poca khmer, dal IX al XII secolo.Oggi, quello che rimane dell’impero khmer (chesi estendeva su un’area che comprende il Viet-nam, il Laos, la Birmania e la Thailandia attuali),sono 400 chilometri quadrati di giungla, dove sitrovano circa 1.550 templi fra i più seducenti espettacolari del pianeta, passati dal 1992 sottoprotezione dell’UNESCO in quanto patrimonioartistico dell’umanità.I templi vennero costruiti in diverse tappe.Fino al XII secolo i sovrani khmer, induisti, dedi-cano le loro opere architettoniche a Shiva e Vish-nu, ai quali amano collegarsi in linea diretta.Nel 790 appare Jayavarman II, il fondatore delprimo regno khmer indipendente. Riscattatosi dal-la dominazione di Giava, Jayavarman II stabiliscela capitale ad Angkor e inizia la santificazione deiluoghi, richiamandosi alla divinità induista Shiva.La protezione di Shiva è sancita con l’edificazio-ne di un tempio in cima a una montagna (simbolodel mitologico Monte Meru, residenza di Shiva)

nel quale è conservato l’emblema a forte conno-tato sessuale della sua potenza, il linga.Da questo momento in poi, la sacralità dei luoghiè incontestata e ribadita dai sovrani successivi,che edificheranno nuovi templi-montagna in cimaai quali proteggere altrettanti linga, come provadel perdurare del favore di Shiva verso i regnantidi Angkor.Ma è il successore di Jayavarman II, Indravarman(877-889) che getterà le vere basi della gloria diAngkor, caratterizzata non solo dai templi, ma an-che da un sofisticato sistema idraulico che renderàfertilissima e ricca una zona poco favorita dallecondizioni naturali. Gli immensi lavori di irriga-zione, che dimostrano in livello di conoscenza in-gegneristica molto sviluppata, consentirono la co-struzione di risaie a terrazze, garantendo la suffi-cienza alimentare dell’impero. E, cosa ancor piùimportante per il tipo di civiltà teocratica che sistava delineando, i lavori idraulici formano parteintegrante dei rituali religiosi: come in ogni terraafflitta da periodiche inondazioni, chi controlla leacque afferma di essere in relazione privilegiatacol divino.Con la costruzione di Angkor Vat, cattedrale vi-snuita fatta erigere da Suryavarman II (1113-1145), l’architettura dei re khmer sviluppa unostile e un’opulenza mai visti prima.Dominata da cinque torri scolpite, Angkor Vat èinteramente ricoperta di bassorilievi che rappre-sentano eleganti apsara (danzatori celesti), sinuo-si naga (serpenti mitologici) e alcune scene deldramma epico indiano Ramayana.Vista dall’alto, la cattedrale forma un mandala,una rappresentazione del cosmo per lo sguardoesclusivo degli dei.Dopo le delicate torri di Angkor Vat, il massimomomento di gloria architettonica khmer arriva conla conversione al buddismo di Jayavarman VII,che si lascia trasportare talmente dalla sua devo-zione da far costruire molti più templi di quantol’impero possa permettersi.Jayavarman VII dirige i lavori della città muratadi Angkor Tom (“Angkor la Grande”).Larghi viali fiancheggiati da animali mitologiciportano al centro, dove si trova il Bayon, uno deimonumenti più belli ed enigmatici di Angkor, ca-

Page 24: Dossier Cambogia

ratterizzato dalle 54 “torri dei volti”, ognunadecorata con quattro imponenti ritratti dal sorrisodolcissimo e misterioso del Buddha Avalokites-vara.Così, all’apogeo dello splendore architettonico diAngkor corrisponde il declino militare e la primainvasione delle truppe cham tailandesi. Dopo unaseconda invasione, un secolo dopo, la corte khmersi sposta verso sud, per stabilirsi poi a PhnomPenh, e fino agli inizi del 1900 il territorio consa-crato dai re khmer è in mano tailandese.Durante mezzo millennio il fasto di Angkor restaun ricordo, che si stempera col passare degli anni.I templi, ricoperti in breve tempo da una giunglafitta e tentacolare, sono meta dei pellegrinaggi deipiù devoti, e continuano ad essere visitati daicontadini che abitano nella zona e che depositanoofferte di fiori, riso e incenso ai piedi delle statuebuddiste, ma la memoria di come vennero co-struiti questi prodigi di scultura, architettura eidraulica va scomparendo.Quando Pierre Loti visita Angkor, nel 1901, solo ipipistrelli abitano le rovine khmer.Non di meno, dall’epoca del protettorato francesefino a oggi, la storia khmer e la grandezza artisti-ca di quell’epoca è riscoperta come la base stessadella nazione cambogiana: un passato gloriosotramite il quale credere alle possibilità per il futu-ro. Oggi le cinque torri di merletti del tempio diAngkor Vat sono divenute il simbolo della Cam-bogia, riprodotte al centro della bandiera nazio-nale.I templi, non più alla mercé della guerra civile,sono vittime dell’avidità di contrabbandieri e ri-cettatori.I furti, ad Angkor, sembrano essere un’antica tra-dizione: gli invasori cham, nel 1400, saccheggia-rono centinaia di statue, che si trovano oggi inBirmania.

Nel 1863, quando la Cambogia divenne un protet-torato francese, molti pezzi presero la strada dellaFrancia, fino a quando la salvaguardia dei templinon divenne una priorità sancita per legge.Uno dei più famosi ad aver sfidato questa legge fulo scrittore André Malraux che, in un’azione dipuro brigantaggio, aveva cercato di risolvere isuoi problemi finanziari trafugando e rivendendole statue del tempio di Bantheay Srei, ritrovandosiper questo in prigione.Oggi Phnom Penh non ha a disposizione gli stru-menti legislativi e i fondi per sorvegliare un’areaarcheologica così vasta, resa ancora più vulnera-bile dalla mancanza di un inventario completodelle antichità. Questo significa che se anche unpezzo chiaramente trafugato compare sul mercatointernazionale, non è possibile recuperarlo, in as-senza di un numero di catalogo che lo identifichi.L’unica tutela dimostratasi incisiva è il provvedi-mento preso dagli Stati Uniti, che, per non correreil rischio che un pezzo di valore varchi i confinicambogiani, proibisce l’introduzione negli Usa diqualunque tipo di oggetto in pietra provenientedalla Cambogia, anche contemporaneo.Resta da vedere se gli altri Paesi affamati dei te-sori di Angkor, ovvero il Giappone e i membridell’Unione Europea, vorranno seguire l’esempioUsa.Frattanto, la Cambogia sta dimostrando di voleraffrontare sul serio il problema, e mettere fineall’impunità: quest’estate, per la prima volta, uncolonnello dell’esercito è stato denunciato per ilsuo ruolo nel furto di un reperto dell’anno Mille,un’azione che potrebbe costituire un importanteprecedente.

Ilaria Maria Salada “Il Sole 24 Ore” - 5 novembre 2000

Page 25: Dossier Cambogia

La babele di Angkor VatUn progetto tuttora in corso per il restauro dell’antico sito archeologico

coinvolge équipe di varie nazioni che lavorano a stretto contattoma con metodi radicalmente diversi

La presenza di una dozzina di équipe di differentinazionalità, ognuna al lavoro su un tempiodiverso all’interno di un unico sito archeologico,in un Paese a cui manca la necessaria esperienzanel campo della conservazione, sembrerebbeessere la ricetta perfetta per il caos più completo.In questa totale assenza di regole, a qualcuno po-trebbe anche venire la tentazione di sperimentarenuove tecniche e procedimenti chimici, nella con-sapevolezza che pochi saranno i controlli effet-tuati.Ciononostante, Angkor Vat, in Cambogia, il piùgrande sito archeologico al mondo, si presentacome un ritratto dell’ordine, senza nessuno diquei problemi che possono essere facilmenteassociati a un impegno multinazionale di questotipo. Ciò si deve in larga misura agli sforzidell’UNESCO, che ha classificato Angkor Vatcome World Heritage Site nel 1992, allestendo unInternational Coordination Committee (Icc).I presidenti di tale commissione sono gli amba-sciatori francese e giapponese nella capitalePhnom Penh: i due Paesi infatti, sono impegnatiin prima linea nella campagna di conservazione.“Ogni proposta che provenga da uno dei Paesicoinvolti, Cambogia compresa, viene sottopostaall’Icc”, dichiara M.C. Ragavan, direttore del cen-tro di documentazione di Siem Reap, città dove sitrova il sito di Angkor.Oltre alla Francia e al Giappone, ci sono équipeprovenienti da Germania, Stati Uniti e Cina.Gli archeologi indonesiani hanno dovuto lasciareil sito alcuni anni fa, quando avevano ormai ter-minato il lavoro, a causa della crisi finanziaria cheha colpito il loro Paese. In passato, durante l’oc-cupazione vietnamita della Cambogia, c’erano an-che squadre ungheresi, russe e italiane.I francesi hanno abbandonato Angkor durante laguerra del Vietnam, a cui fece seguito il regime diPol Pot e l’invasione vietnamita, ma ora stannoscrupolosamente continuando il loro lavoro altempio Baphuon, che contiene un Buddhasdraiato lungo quaranta metri (il più grande dellaCambogia).Secondo l’architetto francese Pascal Royère “Ilprogramma di conservazione prosegue fin dal1995 con il supporto del ministero degli esteri

francese ed è una grande sfida per tutti i conser-vatori che operano ad Angkor.È cominciato tutto alla fine degli Anni Cinquanta,continua Royère, quando fu necessario sceglieretra il restauro dei monumenti e il loro completoabbandono. L’Angkor Conservation Office (all’e-poca diretto dai francesi) decise di agire.Per quanto invasivo, un intervento di questo tipoera l’unica soluzione possibile, vista lacondizione in cui versava il sito. Si optò per imetodi di conservazione propri dell’EcoleFrançaise d’Extrème Orient, messi a punto esperimentati nel corso di lavori su monumentidell’inizio del XX secolo.L’anastilosi tecnica, ovvero la ricostruzione diuna rovina realizzata utilizzando le sue stessecomponenti, è stato il punto di partenza. Abbiamosmantellato l’intera struttura, un pezzo alla volta,blocco dopo blocco, inventariando ogni singolaparte; il tutto è stato poi sistemato nella forestacircostante. Ci sono circa 300mila pezzi sparsi suuna superficie di dieci ettari; rimetterli insieme èun po’ come comporre un enorme puzzle tridi-mensionale. Per complicare ulteriormente lecose, i Khmer Rossi hanno distrutto gli archivi. Ilnostro lavoro consiste nel decifrare un librocomposto di diversi capitoli: a volte è necessariopartire dalla scrittura perché la situazione ècambiata radicalmente”.Il German Angkor Conservation Programme(Gacp) è invece impegnato nella conservazionedel tempio di Angkor Vat, considerato il piùgrande monumento religioso in pietra al mondo,classificato dall’UNESCO tra i siti in pericolo.L’équipe è impegnata al ripristino di 360 delle1850 figure femminili in arenaria che “versano inuna grave situazione di abbandono”.Julia Diezemann, conservatrice dell’Università diColonia, ha descritto il procedimento di induri-mento della pietra ottenuto ricorrendo al silicatoetilico. Grazie a questa sostanza chimica si ottieneil consolidamento dei sali solubili nocivi: quandol’alcol evapora, rimangono i silicati e il quarzo.L’esperienza tedesca nel trattamento di cattedralirealizzate in arenaria, come quella di Strasburgo,si è rivelata molto utile. L’obiettivo del Gacp èquello di “mantenere le superfici scolpite nel loro

Page 26: Dossier Cambogia

stato attuale; altrimenti si correrebbe il rischio ditrasformarle in pilastri di pietra”.I tedeschi hanno finora investito nel progetto 1,8milioni di marchi (quasi un miliardo e ottocentomilioni di lire), facendo ricorso alla più modernadocumentazione computerizzata e alle tecniche diformazione delle immagini per preservare il mo-numento. Tra queste, la misurazione millimetricadella quantità d’acqua presente nell’arenaria, perriuscire a elaborare un trattamento in grado di sta-bilizzarne la superficie.Julia Diezemann spiega che, grazie alle tecniche aultrasuoni, è spesso possibile trovare il modo piùveloce per trattare una struttura in degrado. I tede-schi stanno inoltre trasmettendo le competenze

acquisite ai cambogiani, per consentire loro diproseguire il lavoro e di preservare in futuro ilsito da soli.Royère, alla domanda se ci sia stato o meno unconflitto tra i vari metodi utilizzati ad Angkor, harisposto così: “Ogni monumento ha una propriapersonalità, come ogni paziente ha sintomi e pa-tologie specifiche. Ogni monumento richiede per-ciò una diagnosi differente, in base alle dimensio-ni, alle origini e così via”.

Darryl D’Monteda “Il Giornale dell’Arte” - ottobre 2001

Page 27: Dossier Cambogia

La strategia del regnoÉ un buon momento per le monarchie, anche in Europa.

Succede che re ed ex re favoriscano accordi di pace,contribuiscano a tenere uniti Stati che rischiano di frantumarsi,

procurino affari alle aziende dei loro Paesi, ottengano picchi di ascolto in Tv.E magari dimostrino insospettabili qualità politiche vincendo le elezioni. Tra i casi più recenti, ed emblematici, c’è quello di Simeone di Bulgaria.

Ha fondato un partito con il suo nome due mesi prima del voto.Ha conquistato la metà dei seggi in Parlamento, diventando Primo ministro.

Dopo essere diventato Primo Ministro della Re-pubblica di Bulgaria, avendo vinto con largo mar-gine le elezioni del 17 giugno scorso con un par-tito fondato appena due mesi prima, l’ex re Si-meone II ha detto che “gestire un’azienda o esserecapo di un Governo è sempre questione di orga-nizzazione, di capacità di lavorare in squadra”. Inqueste parole c’è l’immagine di una generazionedi sovrani - in carica o in attesa di svolgere unruolo e da tempo impegnati soprattutto in campoeconomico - che stanno restituendo attualitàall’istituzione monarchica.In buona parte sono re-comunicatori, perchéfanno picchi di audience in Tv, ma dimostranoanche precise qualità politiche vincendo elezioni,favorendo la pace tra le fazioni, contribuendo atenere uniti Paesi che rischiano di frantumarsi.Nell’era della globalizzazione, alle Nazioni chetemono di perdere identità o unità, la monarchiasembra talvolta in grado di offrire nuove certezzein almeno tre direzioni: tradizione, tecnologia,televisione.Di valori tradizionali, con tutta la loro portata le-gittimante, la gente ha spesso bisogno, specie do-po il crollo delle ideologie e il fallimento di for-mule politiche improvvisate. E le casate reali, ca-riche di storia, hanno buone carte da giocare.Al contempo sono aperte al mondo della tecnolo-gia e i loro esponenti migliori sono poliglotti, ma-nager, esperti in finanza e commercio internazio-nale che si muovono a loro agio nell’economiaglobale. La televisione, infine, avvicina i reali allemasse, recuperando l’antico “diretto” contatto tramonarchia e popolo a spese della farraginosa in-termediazione esercitata dai partiti, dalle forzeeconomiche e dalla burocrazia.In occasione di nozze, funerali, matrimoni e na-scite, i reali possono contare su quel sapore difiaba che nessun effetto speciale cinematograficoriesce a creare in modo altrettanto efficace.

I belgi sembravano impazziti, il 26 ottobre scorso,all’annuncio della nascita dell’erede al trono; e igiapponesi hanno pianto, il 2 dicembre, quandodopo otto anni di attesa, alla principessa Masako eal principe ereditario Naruhito è nata una figlia:per farla salire al trono, verrà probabilmente cam-biata la legge che ne preclude l’accesso alle don-ne.Non c’è da meravigliarsi di questa popolarità me-diatica che riguarda sempre meno la cronaca rosae sempre più la politica. In passato - primadell’avvento dei giornali, della radio e della Tv -le monarchie sono state grandi network comunica-zionali, dettando forme e contenuti.E poi si è visto che le decapitazioni, le fucilazionie gli esilii comminati ai re, accusati di “fare leguerre” per gloria e ambizione personali, nonsono stati certo risolutivi rispetto alla bellicositàtra i popoli e gli Stati.Oggi capita che re ed ex re agevolino la pace o nefungano da catalizzatori; si prestino a mediazionisenza esibizionismi; garantiscano una discretaospitalità a segrete trattative internazionali; fac-ciano affari e li procurino alle aziende dei loroPaesi nello spirito della globalizzazione che ripro-duce quella “cuginanza” che un tempo legava legrandi famiglie reali.Un esempio: il primo bond in euro emesso dalnuovo Governo bulgaro guidato dall’ex re Simeo-ne - 250 milioni e scadenza di sei anni - ha regi-strato una domanda cinque volte superiore all’of-ferta. Per dirlo con una battuta, monarchia (o unex re, in questo caso, che vince le elezioni) vuoldire fiducia.Questo è un buon momento per le monarchie, an-che in Europa. É una coincidenza, certo, ma il 30dicembre scorso, alla vigilia dello storico giornoin cui l’euro è entrato nelle tasche di oltre 300 mi-lioni di cittadini, nel palazzo reale di Bruxelles ilre dei Belgi Alberto II e il re di Spagna Juan Car-los assistevano al passaggio di consegne della pre-

Page 28: Dossier Cambogia

sidenza europea dal belga Guy Verhofstad allospagnolo José Maria Aznar. Si può ben dire che idue sovrani hanno tenuto a battesimo la nuovamoneta. D’altronde dei dodici Paesi che hannoadottato l’euro, otto sono Repubbliche ma quattrosono regni. Poiché la moneta unica circola anchenella Repubblica di San Marino, nel Vaticano (as-similabile a una monarchia elettiva) e nel Princi-pato di Monaco, il rapporto diventa di 6 a 9.Se Gran Bretagna, Danimarca e Svezia entrerannoa far parte del gruppo, com’è assolutamente pre-vedibile, le monarchie e le repubbliche sarebberoin parità. E qualche monarchia potrebbe rinascerea Est, tra i Paesi candidati all’ingressonell’Unione Europea.Nella vita politica, sempre più dipendente daisimboli, la monarchia non incarna più quello delpotere, ma rappresenta agli occhi di molti qualco-sa che oggi è forse più necessario: il senso diidentità di un popolo, l’idea di appartenenza allaNazione dei suoi cittadini e, nel disincanto gene-rale, la convinzione, o l’illusione, che ci si possariferire a qualcuno che, per natura propria, resta aldi sopra delle parti. Certo il rischio, sempre in ag-guato, è che la tradizione come valore si trasformiin un ritorno al passato, con la riproposizione divecchie rivendicazioni, portatrici di nuovi conflit-ti.Uno scenario tipico è quello dell’Europa dell’Est,e dei Balcani in particolare, dopo la fine del co-munismo. Nessuna monarchia è stata restaurata,ma diversi ex re si sono inseriti nella nuova arenapolitica. Senza fortuna per l’albanese Leka, quelloalto più di due metri, buon giocatore di basket mache con scarso senso politico si era alleato conl’Uck in Kossovo.Tutte da scoprire le possibilità di Alessandro Ka-rageorgevic in Serbia. Come un uragano pieno dipromesse si è abbattuto il ciclone elettorale di Si-meone II di Bulgaria, dal 24 luglio Primo ministrodella Repubblica.Simeone di Sassonia Coburgo Gotha, figlio del reBoris e di Giovanna di Savoia, è nato a Sofia nel1937. Fatto suo il motto “mai dire mai”, due mesiprima delle elezioni fondò un partito, dandogli ilpropri nome: Movimento Nazionale Simeone Se-condo. Da solo ha conquistato la metà dei seggi inParlamento con il 43% dei voti e si è alleato con ilMovimento Diritti e Libertà (espressione dellaminoranza turca), forte di altri 21 deputati. Cosìha formato il suo Governo, che ha preso il largocon 141 voti a favore, 56 contrari e 46 astenuti.Un colpo mediatico? Tutt’altro. Senza dubbiohanno contato i fallimenti dei Governi post-comu-nisti, ma soprattutto ha giocato il suo passato.Re a sei anni, dal 1943 al 1946, fu costretto all’e-silio da un referendum svoltosi sotto controllo co-munista. Senza mai abdicare, fu prima in Egitto,

poi in Spagna (dove il generalissimo FranciscoFranco gli concesse l’asilo politico), infine negliStati Uniti, dove frequentò un’Accademia militarecome “cadetto Rilski”. Si è quindi dedicato a unasistematica attività di contatti internazionali - eco-nomici, politici e culturali - favorito dall’ottimaconoscenza di sei lingue, tra cui l’italiano. Nel1996 fu autorizzato a tornare in patria e il 6 aprile2001 dichiarò che avrebbe voluto operare attiva-mente per la rinascita del Paese, il suo ingressonella Nato e nell’Unione Europea, senza dichiara-re in modo esplicito di volere una restaurazionemonarchica. Intanto si sveglia alle cinque e mezzoogni mattina, confessa che fare il premier “è fati-coso” e precisa: “Non posso rinascere per to-gliermi di dosso il bagaglio storico che porto”.Nella vicina Romania, Michele I Hohenzollernsente avvicinarsi il suo momento. Quando si recòin patria per la Pasqua del 1992, un milione dipersone accorse per festeggiarlo. Nel giugno scor-so è stato il primo firmatario di un appellounitario ai romeni in patria e nel mondo. Secondofirmatario, il Beatissimo Teoctis, patriarca dellaChiesa ortodossa romena. La cosa curiosa è che ilterzo firmatario è il Presidente della Romania, ilpost-comunista Ion Iliescu, il cui mandato, nonpiù rinnovabile, terminerà alla fine del 2004, an-che se lui non vuole uscire di scena.Il manifesto è un inno ai valori nazionali, alle tra-dizioni, all’identità cristiano-ortodossa, alla de-mocrazia e alla tolleranza; ma è soprattutto un bi-glietto da visita per entrare al più presto nellaNato e nell’Unione Europea. Il documento è statoredatto un mese dopo che Michele era stato invi-tato ufficialmente nella residenza presidenziale diPalazzo Cotroceni, e milioni di romeni avevanoassistito all’evento attraverso la Tv. Eppure pro-prio Iliescu, appunto nel 1992, aveva bloccatol’ex re all’aeroporto di Bucarest.Michele ha compiuto ottant’anni, quindi il “mo-dello Simeone” non sembra proponibile, ma i ro-meni non hanno dimenticato i suoi meriti. Salitoal trono nel 1940, dovette fare i conti con il mare-sciallo Antonescu, alleato di Hitler, che trascinò ilPaese in guerra. Il 23 agosto 1944 il sovrano fecearrestare Antonescu, concluse un armistizio conStalin e portò la Romania a fianco degli Alleati,accorciando di sei mesi la guerra per il suo Paesepoiché i tedeschi decisero di non resistere sui Car-pazi. Negli ultimi anni è tornato più volte in Ro-mania, dove gli sono state restituite alcune pro-prietà e gode di un vitalizio, uffici di segreteria,mezzi di trasporto e sicurezza garantiti dalloStato.La novità del buon rapporto con Iliescu risale allafine del Duemila, quando l’ex re prese posizionecontro la candidatura dell’estremista di destra Va-dim Tudor, favorendo così la rielezione di Iliescu.

Page 29: Dossier Cambogia

Questi “recuperi” monarchici si fondano, oltreche sui fallimenti dei Governi post-comunisti, siadi centro-destra sia di sinistra, sulla percezionedel ruolo che oggi i monarchi possono svolgere insituazioni specifiche.Nessuno dubita che la crisi persistente tra fiam-minghi e valloni in Belgio non esplode anche per-ché c’è un “re dei Belgi” che assicura al Paeseuna propria identità.Tutti riconoscono il ruolo storico che Juan Carlosdi Borbone ha svolto in Spagna nel difficile pas-saggio dal franchismo alla democrazia, e quelloche continua a svolgere. La sua presenza e la suacapacità di mediazione hanno bloccato tentativireazionari, facilitato il rinnovamento delle forzepolitiche e la loro alternanza al Governo, aiutatola Spagna a crescere sul piano del prestigio inter-nazionale.Quasi superfluo ricordare la monarchiabritannica.Dal prossimo 31 maggio, in occasione del cin-quantesimo anniversario dell’incoronazione diElisabetta II, per quattro giorni tutti i sudditi delleisole britanniche faranno festa. Festa anche neiPaesi del Commonwealth che non hanno optatoper la forma repubblicana e che riconoscono Eli-sabetta come capo di Stato, dal Canada all’Au-stralia (dove un recente referendum ha con-fermato l’attaccamento alla Corona).La monarchia, insomma, come formidabile stabi-lizzazione istituzionale. Con questa veste, dopol’attacco anglo-americano ai talebani, è stato pre-sentato a tutto il mondo, attraverso la Tv, il vec-chio re afghano Mohamed Zahir, in esilio a Romadal 1973 in seguito al colpo di Stato filosovieticoche lo privò del trono e condannò a quasi trentaanni di tormenti il popolo afghano.L’autorità morale dell’ottantottenne ex re, vera opresunta, è stata preziosa per indurre i capi dellediverse etnie a mettersi d’accordo su un Governoprovvisorio. Anche se sono rimasti in pochi a ri-cordare ciò che Zahir Shah, salito al trono nel1933, era riuscito a fare dopo il 1963, quando im-pose una Costituzione che prevedeva l’elezionedemocratica del Parlamento (Grande Assemblea oLoy Djirga) e l’esclusione dei membri della fami-glia reale dai posti di Governo.Un fattore accertato di stabilità e di preservazionedell’identità nazionale è indiscutibilmente la mo-narchia giapponese, la più antica tra quelle esi-stenti. Ne prese atto già nel 1945 il “proconsole”americano, generale Douglas Mac Arthur: neldettare la nuova Costituzione democratica, purabolendo la “natura divina” dell’imperatore, capìche, per risollevare il morale di un popolo chesentiva la sconfitta anzitutto comeun’umiliazione, non bisognava togliergli l’unico

elemento di identità e di continuità storica che glirestava.Così Hiro Hito rimase sul trono, dov’era salito nellontano 1926, per restarci fino al 1989, anno dellamorte: 63 anni di regno che trovarono il loro acmeil 1° gennaio 1946 quando, fatto senza precedenti,parlò alla radio. Per i giapponesi ancora prostratidalla guerra, egli era la reincarnazione stessa delladivinità solare Amaterasu Omikami che si rivol-geva ai comuni mortali per dire loro, con voce unpo’ stridula ma ferma, che rinunziava alle prero-gative divine e che d’ora in poi sarebbe stato “ilsimbolo dello Stato e dell’unità del popolo sovra-no”. Un’operazione perfettamente riuscita.Tra Mediterraneo e Atlantico, perché il Maroccosi affaccia su entrambi, regna dal 1999 Moham-med VI. É succeduto ad Hassan II, rimasto sultrono per 36 anni. Un trono importante, visto chequella dinastia discende direttamente dal profetaMaometto, lungo la linea degli Alauiti.A metà del XIII secolo la famiglia lasciò l’oasi diYanboo An Nakhil, sul Mar Rosso, per installarsinel Marocco meridionale. Così quella marocchinaè una delle case regnanti più antiche. L’obiettivodichiarato del giovane sovrano è di inserire il suoPaese nel vivo delle relazioni internazionali, eco-nomiche e politiche, abbandonando quel cultodella segretezza (e della spietata repressione diogni forma di opposizione) che era proprio delpadre. I primi passi di Mohammed lo hannosubito accreditato sulla scena interna ed esteracome un sovrano moderno ed efficace: bastipensare alle decisioni di scarcerare i prigionieripolitici, di ridimensionare sensibilmente lacensura, di dichiarare guerra alla corruzione.Agli antipodi dei re mediatori tra fazioni rivali ori-mediatori di errori altrui, stabilizzatori e superpartes, magari per conto terzi, c’è l’esempio di unsovrano politico puro e battagliero, che è stato ca-pace di giostrarsi e sopravvivere tra la Francia, ilGiappone, la Cina, il Vietnam, gli spietati KhmerRossi e le iniziative dell’Onu, e alla fine ha ridatoun po’ di pace e di coesione al suo Paese, la Cam-bogia, riprendendosi il 24 settembre 1993 queltrono al quale era stato elevato, appena dicianno-venne, nel 1941 per restarci fino al 1955.Parliamo di Norodom Sihanouk Vaman, nato nel1922, studi a Saigon e Parigi. Vitalità,immaginazione, senso della comunicazione nongli hanno mai fatto difetto, tanto che, musicista ecompositore, si è dedicato anche al cinema e allatelevisione, realizzando per il piccolo schermouna versione cambogiana del Petit Prince diSaint-Exupéry. Né ha tralasciato di scrivere unlibro di memorie e di spionaggio: La mia guerracon la Cia.Per sessant’anni, Sihanouk è stato protagonistadella storia politica del suo Paese: re eletto, Primo

Page 30: Dossier Cambogia

ministro, capo di Stato (con il trono affidato allaRegina madre), sbalzato dal trono nel 1970 e con-dannato a morte, Presidente per un anno con iKhmer Rossi e poi da questi trattenuto adomicilio coatto, di nuovo re provvisorio e infinere a pieno titolo anche se con compiti onorifici.“Né comunista né obbediente”, si autodefinì unavolta, bensì patriota, neutralista, pacifista - socia-lista - buddhista, liberale un po’ libertario per re-miniscenze di formazione francese. Avrà que-st’anno la soddisfazione di ospitare il vertice del-l’Asean, l’associazione delle Nazioni del Sud-Estasiatico (la sua “patria” più grande), cui parte-ciperanno anche Cina e Giappone, i due gigantivicini che hanno condizionato nel bene e nel malela sua vita e quella del suo Paese.Ma le aree più interessanti per la monarchia resta-no i Balcani e il Medio Oriente. La scomparsa diHussein di Giordania, nel febbraio 1999, ha la-sciato in quest’ultima area un grande vuoto di

esperienza diplomatica e saggezza personale. Perquanto il suo successore Abdallah II sembri averetutte le carte in regola per colmarlo: oltre all’im-pressionante serie di lauree e master e a una per-fetta conoscenza dell’inglese, il giovane sovranoha un piglio riformista e sogna di conciliare la tra-dizione dell’Islam con sviluppo e tecnologia.Il punto critico è invece l’Arabia Saudita, dovesembra mancare proprio quell’apertura alla mo-dernità che caratterizza altre monarchie, specieeuropee. Anche se il problema, in quella regione,va ben oltre la formula istituzionale.E senza dimenticare che l’abolizione della monar-chia in Egitto, Iraq, Afghanistan e Iran, sia pureper motivi diversi e in contesti particolari, nonsolo non ha giovato alla stabilità ma ha apertospazi all’integralismo e a guerre sanguinose.

Alessandro Cornellida “Ventiquattro” - febbraio 2002

Page 31: Dossier Cambogia

Repertorio dei beni culturali naturalisticidella Cambogia elencati nella lista Unesco

del Patrimonio dell’Umanità

I templi di Angkor

Patrimonio dell’Umanità dal 1992

L’area archeologica di Angkor, che copre circa200 chilometri quadrati, comprende diverse capi-tali dell’Impero Khmer ed è la più alta ed emozio-nante testimonianza dell’arte di questa civiltà.Angkor rappresenta per i Cambogiani il simboloper eccellenza del potere e della gloria dei loroavi e per gli stranieri una delle più belle sorpreseche l’universo artistico del Sud Est Asiatico possaloro riservare.

Il nome di Angkor evoca le immagini di favolositempli nascosti nel cuore della giungla, le figurein pietra avvolte da una vegetazione invadente, ilmistero di una civiltà che scomparve un giornosenza alcuna spiegazione.Ricorda, inoltre, una grande campagna internazio-nale volta a far emergere tutti i tesori ancora na-scosti nella foresta.Con il nome generico di Angkor, che significasemplicemente “la capitale”, si indica attualmenteun vasto complesso di monumenti appartenenti al-le diverse capitali dell’Impero Khmer, che furonoedificati nell’attuale Cambogia fra i secoli IX eXV.Oggi soltanto i fantastici templi-montagna posso-no essere ancora ammirati: tutte le abitazioni, in-fatti, compresi i palazzi destinati a ospitare il so-vrano e la famiglia reale, furono costruiti con ma-teriali deteriorabili e non sono sopravvissuti altrascorrere del tempo e all’aggressione della fore-sta.Solo da pochi anni hanno avuto inizio le campa-gne di scavo che hanno portato alla luce il sistemaviario e le opere idrauliche (specialità nella qualeil popolo khmer si rivelò particolarmente abile)dell’antica capitale, che oggi sono ancora oggettodi studi approfonditi.

L’Impero KhmerSecondo la tradizione khmer il mitico fondatoredella stirpe fu Kambu, dal quale il Paese prese ilnome: Kambuja, Cambogia.

Per molti secoli il territorio rimase frazionato inuna serie di piccoli regni bellingeranti e fu unifi-cato da Jayavarman II (802- 850) che fondò l’Im-pero Khmer e si fece consacrare “re dei re”.Alla fine del IX secolo uno dei successori di Jaya-varman, Yashovarman I (889-910), trasferì la ca-pitale del regno in una città appena creata: Ang-kor.Il sovrano inaugurò una tradizione che sarebbestata puntualmente rispettata dai suoi successori:costruì un grande “tempio di Stato” sulla collinaPhnom Bakhenfg e, su una superficie di 7 chilo-metri per 2, un non meno imponente baray, o ser-batoio d’acqua, il Baray Orientale.Nel XV secolo i Khmer vennero sconfitti dai Thaie la capitale fu saccheggiata.Angkor venne in seguito abbandonata, anche sesolo temporaneamente; in realtà la data in cui essafu definitivamente lasciata dai suoi abitanti restaancora un mistero.Fra la fondazione e gli anni del declino, Angkoraveva già assunto le dimensioni di un complessomonumentale. Molti re khmer avevano spostato ilcentro della città intorno al proprio tempio diStato, cosicché esistevano varie Angkor dispostel’una accanto all’altra. Due di esse, però, primeg-giavano per sfarzo e bellezza: la sacra Angkor Vatdi Suryavarnam II (1113-1150), la cui costruzionecoincide con l’apogeo dell’arte khmer, e la gigan-tesca Angkor Thom, fondata alla fine del XII se-colo da Jayavarman VII, che incarna l’ultima fase,decadente ma ancora splendida, dell’impero cam-bogiano.

Templi buddisti e induistiOgni capitale del complesso di Angkor segue lostesso schema urbano, con poche varianti.L’elemento principale è sempre il tempio di Stato,situato al centro, dove si esercitava il culto delleprincipali divinità indù, fra le quali il Devaraya,ossia il “re degli dei”.Vi erano anche altri templi minori, dedicati aShiva, Visnu o Budda, un palazzo reale, che gene-ralmente era situato a nord del tempio di Stato,quartieri residenziali e una muraglia quadrangola-re che proteggeva tutto il complesso. Un elemento

Page 32: Dossier Cambogia

essenziale, soprattutto per scopi agricoli, era ilbaray che consentiva, attraverso un ingegnoso si-stema di canali, di mantenere le risaie allagate an-che nella stagione secca.La forma canonica dei templi di Stato, che neltempo subì un’evoluzione, era quella del tempioAngkor Vat. Questo capolavoro dell’arte khmerpresenta la particolarità di essere dedicato a Visnue non a Shiva, com’era invece consuetudine.La pianta di Angkor Vat è quadrata. Il santuariocentrale è circondato da tre gallerie concentricheregolarmente scandite da colonne poste ad altezzacrescente; sul santuario si ergono cinque torri aforma di boccioli di loto, di cui la centrale è unpoco più alta delle altre, che ricordano il profilodel Monte Meru, la mitica montagna aurea dellareligione induista. Ornate da numerose decorazio-ni scultoree, le torri giustificano il nome ditempli-montagna che è stato dato a questi edificicaratteristici dell’architettura khmer.L’ultima grande opera dell’Impero Khmer fuAngkor Thom, in cui l’armonia raggiunta dall’artekhmer lascia il passo alla sproporzione delle di-mensioni colossali, che sembrano pregiudicare labellezza dei monumenti.Il tempio di Stato, il Bayon, dedicato a Buddha, èuno dei monumenti più celebri di Angkor Thom,ma anche uno dei più alterati dalle successive mo-difiche.Alla morte di Jayavarman VII, gli induisti dedica-rono il tempio a Shiva e distrussero molte imma-gini di Buddha. In seguito il tempio ridivennebuddhista.Nel Bayon la pianta classica del tempio-montagnasi modifica a causa del dilatarsi delle dimensioni:oltre cinquanta torri, ognuna delle quali decoratacon quattro volti giganteschi del re JayavarmanVII come bodhisatva (essere misericordioso cheha raggiunto il penultimo grado della perfezioneprima del nirvana), circondano la torre centrale.Se l’architettura di Angkor Thom sacrifical’armonia delle proporzioni per desiderio di gran-dezza, la scultura riporta il visitatore aun’atmosfera più mistica e raccolta. Le figure cheornano il tempio mostrano un atteggiamento tran-quillo con gli occhi socchiusi e le labbra che ac-cennano il famoso “sorriso khmer”: esso non è al-tro che l’espressione dell’ideale buddhista, la su-prema pace interiore, a cui senza dubbio aspirò ilpio Jayavarman VII, trasformando le pietre delsuo remoto impero tropicale in un eterno inno agliinsegnamenti del maestro Siddharta.

Page 33: Dossier Cambogia

Fumatori delle pagodeDietro la facciata idilliaca di antica capitale,

Luang Prabang nasconde una realtà drammatica.Il regime apre al turismo, ma l’oppio resta il commercio più fiorente.

Verso mezzogiorno, quando l’aria si surriscalda,non resta che cercare ombra sotto il patio di unodei graziosi locali, il Canadian Bar o lo Scandina-vian Bakery, che si affacciano sulla strada princi-pale, dai mille nomi. Calma piatta.A quell’ora Luang Prabang l’antica capitale realedel Laos, sonnecchia sulle rive melmose dei duecorsi d’acqua che la accerchiano, il Mekong, laMadre di tutti i fiumi, e il Nam Khan, un suo af-fluente.Il rumore del traffico diventa un mormorio. Dalquartiere degli argentieri non arriva più il battitodi martelli e scalpelli che cesellano coppe, vassoi,calici, gioielleria. I vecchi telai di teck usati pertessere stoffe di cotone e seta si concedono unapausa. Le dimore dell’epoca coloniale francese, lecase tradizionali in legno e le decine di pagode fi-nemente intarsiate sprofondano sotto un fitto tettodi fogliame. Immobilizzata dalla calura, la stessavegetazione sembra finta. È come se il tempoavesse iniziato a viaggiare a ritroso e fosse tornatoal 1975. In quell’anno i comunisti abbatterono lamonarchia.Il potere fu assunto dal Pathet Lao, il partitounico. E da allora, per un quarto di secolo, la ca-pitale del leggendario regno di un milione di ele-fanti, venne punita con un isolamento quasi totale.Oggi è diverso. Le botteghe smunte della stradaprincipale si sono trasformate in boutiques dove sipuò fare shopping in dollari o con carta di credito.Un piccolo segnale, ma importante. Messo allecorde dalla crisi economica, il regime comunista,uno degli ultimi al mondo, ha dovuto fare cauteaperture al turismo e agli investimenti stranieri.La stasi è finita. La gente parla, confida paure esperanze. I vecchi argentieri, per esempio, rim-piangono l’epoca in cui le offerte votive al sovra-no venivano portate, come quelle al Buddha, sulrecipiente più prezioso che la famigliapossedesse, e l’oro era troppo caro: “Allora sì chesi guadagnava bene”.Nei templi buddhisti si insegna l’inglese.Kham Pai, un novizio ventenne, sussurra: “Sap-piamo troppo poco di ciò che accade fuori dai no-stri confini. L’Occidente non riesco neppure aimmaginarlo. Per questo, come molti compagni,ho deciso di imparare l’inglese. Voglio dialogare

coi turisti”. Lentamente, il vento dell’Ovest si in-sinua negli interstizi di questo Paese remoto edenso di misteri.Una parte dei laotiani quei misteri non li conoscedavvero. La maggioranza finge di non conoscerli.A Luang Prabang regna un’atmosfera quasi idilli-ca. “Ultimo rifugio dell’innocenza e della felici-tà”, la definiscono i dépliant. Ma la sua immagineda Shangri-La dello spirito è uno schermo che na-sconde una realtà drammatica.Se, durante la stagione secca, ci si inerpica per leimpervie alture del Nord, si scoprono segreti chescottano. Lassù, tra le montagne, vivono tribù di68 etnie diverse. Quasi tutte sopravvivono graziealla coltivazione dell’oppio che cresce solo oltre imille metri. Naturalmente, le guide locali che por-tano i rari turisti in visita a villaggi sperduti, rag-giungibili dopo ore o addirittura due-tre giorni ditrekking, negano l’esistenza delle distese di fioridi papavero. Ammettono solo che il governo con-cede piccoli appezzamenti alle tribù che usanol’oppio come medicamento, con divieto di farnecommercio. Ma basta entrare in uno dei tanti vil-laggi akha, il gruppo tribale più legato alle proprieradici birmano-tibetane (le donne sono facilmentericonoscibili per i copricapi fatti di lastre d’argen-to e guarniti di vecchie monete) e più insofferentedel potere centrale, per vedere volti inebetiti,sguardi annebbiati dall’oppio. Sono uomini-larve,ormai incapaci di lavorare.Il governo di Vientiane, la capitale dove ancorasventola la bandiera rossa con falce e martello, èimpegnato a bruciare i campi di papavero da op-pio. In cambio, l’Onu costruisce infrastrutture epromuove colture alternative per le tante tribù chesopravvivono in condizioni primitive al di là diboschi profondi e selvaggi.Questa è la versione ufficiale.La verità, però è un’altra. I campi esistono ancora,appartati, lontani dai villaggi. Se, al tramonto,quando gli uomini rientrano dai campi, ci si ad-dentra in una qualunque capanna di bambù a pala-fitta, si avverte subito l’odore acre della droga.Disteso su una stuoia, l’uomo attinge l’oppio dauna ciotola, lo preme nella pipa con uno stilettoriscaldato sulla fiamma di una candela e inizia ilviaggio. Solo ai maschi è concesso fumare.

Page 34: Dossier Cambogia

Le donne devono badare ai figli e alla casa. Dopol’inalazione, l’espressione dell’uomo è cambiata.Lui, ormai, si trova nell’Altrove. I bambini, intan-to, offrono una dose: 10mila Kip, poco meno diun dollaro, per una tavoletta scura, densa come re-sina. Il fumatore è convinto che l’oppio sia un cal-mante offertogli spontaneamente dalla natura.Ignora di essere il primo anello di una catena didollari e morte che arriva fin nel lontano Occi-dente.Nella stagione della fioritura, tra febbraio e mar-zo, i narcotrafficanti cinesi piombano come falchisulle montagne del Laos e trattano con i capi deivillaggi l’acquisto dell’oppio a prezzi irrisori.A quel punto, con la connivenza di molti gover-natori delle province del Laos settentrionale chefungono da intermediari, inizia un vorticoso com-mercio illegale.Appena passata la frontiera cinese, il costo s’im-penna. Quando poi l’oppio è stato trattato (cotto),il prezzo di un chilo sale vertiginosamente, fino a300-500 dollari. In seguito la merce passa in Bir-mania e soprattutto in Thailandia da dove, aprezzi ulteriormente gonfiati, vola in Occidenteper essere convertito in eroina. Per ottenere unchilo di eroina occorrono cinque chili di oppio.“L’oppio è la miglior medicina del mondo”, sen-tenzia uno strano personaggio laotiano che si de-finisce antropologo-ginecologo e che ogni annotrascorre mesi nelle tribù akha delle quali ha im-parato il dialetto, incomprensibile alle guide turi-stiche. “Questi esseri umani credono che gli albe-ri, le pietre, l’acqua e il vento siano spiriti.Se somministrassimo loro antibiotici, li condanne-remmo a morte.

La natura è più grande della scienza”.Ma la natura è anche matrigna. Sui pendiiscoscesi del Nord la temperatura oscilla tra gli 8gradi notturni e i 35 diurni. Durante il periodo delmonsone i fiumi che corrono verso la pianura sialzano di una decina di metri, trasformandosi inuna massa d’acqua limacciosa che sferza violente-mente le rive e imprigiona le tribù dietroun’insormontabile muraglia verde. Forse per di-fendersi dalla forza degli elementi i nativi hannoforgiato nei secoli credenze religiose, un misto dianimismo e buddhismo, secondo le quali la vita èun sogno e la morte un evento naturale dopo ilquale anch’essi entreranno nel mondo deglispiriti.Del resto, il sincretismo è diffuso anche a LuangPrabang. I geni ancestrali, scolpiti in pietra, fannola guardia davanti alle pagode dorate.Per fortuna, le notti in questo minuscolo Eden tro-picale sono calme e dolci. Seduti davanti alla por-ta di casa, i vecchi commentano i fatti del giorno eosservano le ultime piroghe che attraversano ilMekong per raggiungere i villaggi della riva op-posta. A nessuno nell’oscurità (che a Luang Pra-bang come a Vientiane è resa più profonda dallamancanza di elettricità) viene in mente che questoPaese, così quieto e sereno, è il terzo produttoremondiale di oppio dopo Birmania e Afghanistan.E che l’Occidente, lungi dall’essere vittima, è sta-to e resta il maggior complice dei contrabbandieridi morte della Repubblica Popolare Democraticadel Laos.

Massimo Dinida “Il Sole 24 Ore” - 5 maggio 2002

Page 35: Dossier Cambogia

Repertorio dei beni culturali naturalisticidel Laos elencati nella lista Unesco

del Patrimonio dell’Umanità

La città di Luang Prabang

Patrimonio dell’Umanità dal 1995

La “città delle cento pagode” è un complesso ur-banistico singolare, lontano dal concetto europeodi città e assai diverso dagli altri centri del Sud-Est Asiatico.La sua unicità deriva dalla combinazione di varielementi, rurali e urbani, civili e religiosi,orientali e occidentali. Nel suo vasto patrimonioartistico spiccano eleganti complessi monastici,mentre le tradizionali case lao sono costruite inlegno e poggiano su piattaforme.

Quando Buddha, nel corso di uno dei suoi viaggi,si fermò a riposare in questo luogo, nel cuore diuna regione montuosa del Laos settentrionale,dapprima sorrise, poi annunciò che qui sarebbestata costruita una capitale ricca e potente.É solo una leggenda, ma sottolinea l’importanzadi Luang Prabang, che sorge su una penisola for-mata dal fiume Mekong e dai suoi affluenti, ilNam Khane e l’Huai Hop, in una conca argillosacircondata da colline.Esiste un’altra leggenda più verosimile relativaalla fondazione di questa città, in parteconfermata dai resti archeologici e dai toponimidella regione. La sede di Luang Prabang sarebbestata scelta da due eremiti che incantati dallabellezza del luogo, lo battezzarono col nome diXieng Dong.I primi colonizzatori furono i Khas, originari didifferenti regioni, che vennero poi cacciati daiLao, un popolo proveniente dal nord guidato dalleggendario Khum.Quest’ultimo, dopo aver conquistato tutta la re-gione, chiamò la città Muang Giava. Fu qui chenel 1353 il principe laotiano Fa Ngnum si fece in-coronare re del Lan Xang, il regno di “un milionedi elefanti”. La ricchezza e l’influenza della cittàpossono essere attribuite da un lato alla sua posi-zione strategica, in quanto sorgeva in un puntonodale della Via della Seta, dall’altro al suo ruoloreligioso, poiché era il principale centro del bud-dhismo nella regione.Muang Giava rimase capitale del regno fino al1563, anno in cui la corte decise di trasferirsi a

Vieng Chan (l’odierna Vientiane), situata 210 chi-lometri più a sud e dunque più lontana dalla mi-naccia delle armate birmane.Proprio in questo periodo Muang Giava fu ribat-tezzata Luang Prabang in onore di Pra Bang, lacelebre statua d’oro di Buddha proveniente dallaCambogia e trasportata in città poco dopo la suaproclamazione a capitale.Alla fine del XVII secolo, dopo la morte del reSourigna Vonsa, nel regno del “milione di elefan-ti” si verificò una grave crisi che portò, agli inizidel XVIII secolo, alla scissione in due Stati indi-pendenti: Vientiane e Luang Prabang. Nel 1828 ilregno Vientiane si disgregò dopo la distruzionedella città e la deportazione dei suoi abitanti aopera dell’esercito thai. La stessa città di LuangPrabang subì numerosi saccheggi e devastazionitra il 1887 e il 1893, anno della colonizzazionefrancese. La sua ricostruzione e il suo ritorno allafunzione di capitale religiosa e politica si devonoal re Sisavang Vong (1904-1959), la cui opera fucompletata dai suoi successori. Luang Prabangrimase la sede della monarchia fino al 1946.

Una città e molti villaggiLe città del Laos differiscono molto dal concettoeuropeo di centro urbano. Luang Prabang è uncomplesso regale e amministrativo ben protetto ecompletato da templi e monasteri. Intorno al nu-cleo centrale si sviluppavano piccoli villaggi indi-pendenti che, sebbene provvedessero ai bisognidella città sovrana, non facevano parte dellastessa entità amministrativa.Svolgevano la funzione di centri commerciali, adifferenza della città vera e propria che non pos-sedeva alcuna comunità di commercianti, com’eraabituale all’epoca sia in Cambogia che in Thai-landia.Le residenze della famiglia reale, le dimore deinobili e i centri religiosi sono ubicati sulla peniso-la, separata dal resto del centro abitato da murache vanno da un fiume all’altro. La maggior partedegli edifici adibiti al commercio si trova sullerive del fiume Mekong, mescolata a case private.La strada che attraversa la penisola in tutta la sualunghezza è costeggiata da un lato da templi e mo-nasteri e, dall’altro, da case tradizionali e colonia-

Page 36: Dossier Cambogia

li. Il legno è il materiale che predomina in quasitutte le costruzioni; solo i templi furono edificatiin pietra. La case di mattoni, che si affiancano aquelle di legno sono a uno o due piani con ter-razze, balconi o altri elementi decorativi in legnoche conferiscono alla città un’impronta coloniale,testimonianza dei molti anni di protettorato fran-cese iniziato il 1893 in seguito al trattato franco-siamese.

Case tradizionali in legno e monasteriLe case tradizionali lao sono costruite in legno edivise in due zone: da una parte le stanze private edall’altra la terrazza destinata alla vita di relazio-ne. Poggiano solitamente su piattaforme sostenute

da pali che lasciano uno spazio libero sottostantein cui uomini e animali possono ripararsi e lavora-re.I muri vengono costruiti con fusti di bambù inne-stati su una struttura di legno. Gli elementi checostituiscono la casa sono assemblati senzal’aiuto di chiodi. Alcuni edifici sono formati daun insieme di graticci in bambù induriti con unimpasto di sabbia, paglia di riso, oli vegetali ebrandelli di pelle di bufalo.I monasteri costituiscono uno degli elementi piùcaratteristici del paesaggio urbano di Luang Pra-bang. Generalmente sono suddivisi in tre zone checomprendono rispettivamente i luoghi di culto insenso stretto, gli edifici annessi a questi ultimi ele costruzioni destinate ad accogliere i residenti ei visitatori, come ad esempio i refettori.

Page 37: Dossier Cambogia

SOMMARIO

PELLEGRINI SULLE STRADE DELL’ILLUMINAZIONE....................................................................................... 1

KHMER...............................................................................................................................................................................3

Lingua e letteratura....................................................................................................................................................3Folclore e musica.........................................................................................................................................................4

“I KMER ROSSI FINIRANNO NELL’OMBRA”..........................................................................................................5

PHNOM PENH...................................................................................................................................................................7

DOVE TORNA IL SORRISO........................................................................................................................................... 7

Voglia di pace:...........................................................................................................................................................11i cambogiani sperano ancora................................................................................................................................... 11

PRESENTAZIONE DI ANGKOR..................................................................................................................................13

ANKGOR VAT.................................................................................................................................................................16

IL BAYON.......................................................................................................................................................................... 17

VIAGGIO AI TEMPLI DELLA CAMBOGIA............................................................................................................. 18

NELL’IMPERO DEL DIO-RE....................................................................................................................................... 18

Un poco di storia....................................................................................................................................................... 20

TERZANI SU ANGKOR................................................................................................................................................. 21

I TEMPLI DECAPITATI DI ANGKOR........................................................................................................................23

LA BABELE DI ANGKOR VAT....................................................................................................................................25

LA STRATEGIA DEL REGNO......................................................................................................................................27

REPERTORIO DEI BENI CULTURALI NATURALISTICI.....................................................................................31

DELLA CAMBOGIA ELENCATI NELLA LISTA UNESCO....................................................................................31

DEL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ....................................................................................................................... 31

I templi di Angkor.....................................................................................................................................................31

FUMATORI DELLE PAGODE..................................................................................................................................... 33

Il regime apre al turismo, ma l’oppio resta il commercio più fiorente................................................................ 33

REPERTORIO DEI BENI CULTURALI NATURALISTICI.....................................................................................35

DEL LAOS ELENCATI NELLA LISTA UNESCO..................................................................................................... 35

DEL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ....................................................................................................................... 35

La città di Luang Prabang.......................................................................................................................................35