Dispensa 1 Vereni Antropologia Culturale

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+UNIVERSITÀ DI TERAMO FACOLTÀ DI SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE ANNO ACCADEMICO 2007/2008 ANTROPOLOGIA CULTURALE PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI 1 DISPENSA 1 VERENI

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Diversamente dalla prima, questa seconda dispensa include tutto il materiale didattico necessario, e quindi può essere scaricata senza bisogno di integrazioni in copisteria

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+UNIVERSITÀ DI TERAMO

FACOLTÀ DI SCIENZA DELLA COMUNICAZIONE

ANNO ACCADEMICO 2007/2008

ANTROPOLOGIA CULTURALE

PIERO VERENI

MATERIALI DIDATTICI 1

DISPENSA 1 VERENI

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STORIA DELLA CULTURA MATERIALE MODULO A 2007-2008 – PIERO VERENI PER UNICAL

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ANTROPOLOGIA CULTURALE 4 CFU

Docente: Piero VereniContattiTelefono: 333 98 12 520Email: [email protected]: martedì pomeriggio dopo la lezione stanza 13 (quarto

livello)

ORARIO E AULE

Mercoledì 15.30-17.30 Aula 16

Giovedì 8.30-10.30 Aula 7

Venerdì 10.30-12.30 Aula 15

A. LEZIONI IN AULA ED ESONERI

Il programma di lezioni è suddiviso in due parti. Nella prima (A1)

verranno forniti i CONCETTI DI BASE dell’antropologia (vedi dettaglio

nel calendario qui sotto), prestando particolare attenzione alle forme

dell’APPARTENENZA COLLETTIVA. I principali oggetti di interesse di

questa prima parte del modulo saranno dunque la concezione

antropologica di CULTURA, la RICERCA SUL CAMPO,

l’ETNOCENTRISMO, il RELATIVISMO CULTURALE, il POTERE, la

PARENTELA, l’APPARTENENZA ETNICA e l’APPARTENENZA NAZIONALE.

Nella seconda parte (A2) del modulo inquadreremo lo sviluppo dei

MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA nel più ampio quadro della

GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA e CULTURALE degli ultimi trent’anni, e

ci concentreremo su alcuni casi specifici anche del contesto televisivo

italiano, proponendo quindi una LETTURA ANTROPOLOGICA DEI MASS

MEDIA e del loro RAPPORTO CON LA CULTURA.

Alla fine di ciascuna parte (A1 e A2) gli studenti sosterranno una

prova scritta in aula (detta esonero), durante la quale dovranno

elaborare una o più tracce che verranno presentate e che riguarderanno

i temi presentati a lezioni e approfonditi sulle dispense e sui libri. Ci

saranno quindi due esoneri scritti da svolgere in aula durante il

normale orario di lezione, il primo dopo circa venti ore di lezione, il

secondo alla fine del modulo.

B. ALTRE ATTIVITÀ FACOLTATIVE DA SVOLGERE A CASA (OBBLIGATORIE PER CHI NON FA ENTRAMBI GLI ESONERI SCRITTI IN AULA)

B1 (esercizio di etnografia) Nel corso della prima parte verrà

proposto agli studenti di presentare un breve “esercizio di etnografia”

che verrà conteggiato nella valutazione finale. Dimensione del testo:

massimo 4000 battute.

B2 (relazione finale) Prima di verbalizzare il voto finale, gli

studenti potranno consegnare un breve elaborato scritto su uno dei

temi discussi nel corso delle lezioni che verrà conteggiato nella

valutazione finale. Dimensione del testo: tra le 4000 e le 8000 battute.

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Informazioni dettagliate sulla natura di questi scritti verranno

fornite in aula e pubblicate online (vedi sotto).

Entrambi gli elaborati dovranno essere dattiloscritti e inviati per

posta elettronica come allegato (solo nei seguenti

formati: .doc, .rtf, .txt) al seguente indirizzo: [email protected],

specificando nel soggetto della mail “Antropologia Teramo0708”. Il

nome del file allegato dovrà essere secondo questo modello

CognomeNomeTE0708B1(B2).doc (ad esempio, la studentessa Maria

Rossi invierà il suo esercizio di etnografia con il seguente nome del

file: RossiMariaTe0708B1.doc, mentre la sua relazione finale avrà

come nome del file RossiMariaTE0708B2.doc). Per ragioni

organizzative non potrò accettare file che non rispettino questo criterio

di denominazione. NB: dopo aver spedito B1 e/o B2 (che possono

essere inviati anche separatamente e in tempi diversi), aspettatevi una

mia mail di conferma entro 48 ore. Se non ricevete questa mail

significa che qualcosa non ha funzionato nell’invio e dovrete

effettuarlo di nuovo, specificando che si tratta di un secondo invio.

VERBALIZZAZIONE DELL’ESAME

L’esame potrà essere verbalizzato a partire dal primo appello utile

(7 aprile ore 14, luogo da fissare). Per coloro (e saranno la grande

maggioranza) che avranno svolto gli esoneri scritti (A1 e A2) e

presentato le eventuali relazioni B1 e B2, la verbalizzazione sarà la

semplice registrazione del voto guadagnato nei mesi precedenti.

Coloro che invece avranno ancora esoneri da recuperare, che cioè

dovranno ancora sostenere “porzioni d’esame”, potranno farlo durante

gli appelli d’esame.

TEMPI DI CONSEGNA DI B1 E B2B1 può essere consegnato a partire dalla quarta lezione del modulo,

cioè da mercoledì 20 febbraio. B2 può essere consegnato a partire

dalla fine del modulo e cioè da mercoledì 19 marzo.

Non sono previste scadenze ultime di consegna, per B1 e B2, che

possono quindi essere consegnati fino a una settimana prima della data

dell’appello a cui vi presenterete per “firmare il verbale”.

TESTI D’ESAME

Per esoneroA1“Prima Dispensa Vereni 2007/08” disponibile presso le copisterie

della zona a partire dall’inizio delle lezioni.

E. Schultz e R.H. Lavenda, Antropologia culturale, Bologna,

Zanichelli, 1999 (solo i capitoli presentati a lezione). I capitoli da

studiare sono i seguenti: 2, 3, 6, 9, 10, 11, 12, 13, 14.

Per esoneroA2

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“Seconda Dispensa Vereni 2007/08” disponibile presso le

medesime copisterie della prima dispensa a partire dall’undicesima

lezione del modulo.

Arjun Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della

globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001. I capitoli da studiare sono i

seguenti: primo, secondo, quarto, settimo.

MODALITÀ DI VALUTAZIONE

Ogni esonero (A1 e A2) verrà valutato con un voto in trentesimi. Il

voto finale sarà costituito dalla media dei due esoneri incrementata del

punteggio assegnato alle attività facoltative eventualmente svolte a

casa (B1 e B2) secondo questo schema: da 0 a 1 punto per l’“esercizio

di etnografia” (B1) e da 0 a 2 punti per la “relazione finale” (B2). Ad

esempio, se uno studente ha avuto i seguenti punteggi negli esoneri:

A1 = 24, A2 = 28, otterrà un voto di base di (24+28/2=) 26, al quale

potranno aggiungersi da 0 a 1 punto se avrà consegnato l’“esercizio di

etnografia” (B1) e da 0 a 2 punti se avrà consegnato la “relazione

finale” (B2). In pratica, B1 e B2 consentono di alzare la media degli

esoneri fino a 3 punti in più. B1 e B2 sono comunque obbligatori

per chi non ha svolto entrambi gli esoneri scritti in aula (A1 o A2),

ma restano comunque consigliati per tutti, visto che consentono di

alzare sensibilmente il voto finale.

Se alla fine del vostro percorso (A1+A2, non importa se scritti o

recuperati oralmente) ed eventuali B1 e B2, il voto che vi proporrò vi

sembrerà inadeguato a descrivere il vostro livello di preparazione (se

insomma pensate di meritare di più), potrete rifiutare il voto proposto

e concordare con me le modalità di ridiscussione del voto. Potrete, ad

esempio, recuperare oralmente un esonero scritto per cui avete preso

un voto basso, oppure potrete consegnare un ulteriore elaborato scritto

da svolgere a casa (un’aggiunta quindi a B1 e B2).

RECUPERO ESONERI

Quanti non abbiano potuto essere presenti a uno dei due esoneri

scritti o a entrambi potranno recuperarlo oralmente durante il normale

orario di ricevimento, senza bisogno di prenotarsi o iscriversi o

informarmi in altro modo. Quando cioè il/la studente/ssa ritiene di

essere preparato/a per superare l’esonero a cui non ha partecipato si

presenterà direttamente all’orario di ricevimento, dichiarando al

momento la sua intenzione di essere interrogato/a sull’esonero che ha

saltato. Per recuperare gli esoneri non sostenuti, si possono utilizzare

anche i normali appelli d’esame. Non effettuerò mai recuperi scritti

degli esoneri A1 e A2.

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STUDENTI NON FREQUENTANTI

Coloro che non possono frequentare porteranno lo stesso

programma dei frequentanti, con i medesimi diritti e i medesimi

doveri. Anche i non frequentanti possono fare gli esoneri scritti alle

date indicate (vedi calendario qui sotto) e anche per i non frequentanti

vale la regola che B1 e B2 sono obbligatori se non ci si è presentati a

entrambi gli esoneri scritti A1 e A2. Il recupero degli esoneri non

sostenuti in aula avviene per i non frequentanti con le stesse modalità

che valgono per i frequentanti.

CALENDARIO DELLE LEZIONI

NB Per ogni lezione viene indicato il tema trattato e il capitolo

corrispondente del manuale (per A1) o del libro di Appadurai (per

A2). Preciso comunque che per la sezione A1 il manuale non

sostituisce quanto spiegato a lezione. Gli appunti delle lezioni sono

considerati parte integrante del materiale di studio. La Prima Dispensa

disponibile integra alcuni dei punti discussi a lezione e non presenti

nel manuale.

(S&L = Schultz e Lavenda; D1 = Prima dispensa; D2 = Seconda

dispensa; Appa = Appadurai)

Mer 13 febbraio. Lezione 1 (ore 1-2): Presentazione del corso. Il concetto antropologico di cultura. S&L Cap. 2 + D1

Gio 14 febbraio. Lezione 2 (ore 3-4): La cultura è appresa, condivisa, simbolica S&L Cap. 2 + D1

Ven 15 febbraio. Lezione 3 (ore 5-6): La ricerca sul campo. Relativismo. Etnocentrismo. S&L Cap. 3 + D1

Mer 20 febbraio. Lezione 4 (ore 7-8): Cognizione e emozione. S&L cap. 6 (Da oggi è possibile iniziare a consegnare B1)

Gio 21 febbraio. Lezione 5 (ore 9-10): Il potere. S&L cap. 9Ven 22 febbraio. Lezione 6 (ore 11-12): Economia. S&L cap. 10Mer 27 febbraio. Lezione 7 (ore 13-14): Parentela, matrimonio,

famiglia (I parte). S&L capp. 11-12 + D1.Gio 28 febbraio. Lezione 8 (ore 15-16): Parentela, matrimonio,

famiglia (II parte). S&L capp. 11-12 + D1.Ven 29 febbraio. Lezione 9 (ore 17-18): Forme di appartenenza

non parentali. S&L cap. 13 (e ripresa di alcuni temi trattati nel cap. 10).

Mer 5 marzo. Lezione 10 (ore 19-20): Introduzione alla globalizzazione da una prospettiva antropologica. S&L cap. 14

Gio 6 marzo. PRIMO ESONERO SCRITTOVen 7 marzo. Lezione 11 (ore 21-22) Uno sguardo sugli -orami.

Appa cap. primo + D2Mer 12 marzo. Lezione 12 (ore 23-24) Etnorami globali. Appa cap.

secondo + D2Gio 13 marzo. Lezione 13 (ore 25-26) Indigenizzare la

globalizzazione. Appa capp. quarto e settimo + D2Ven 14 marzo. Lezione 14 (ore 27-28) Media e identità (I parte).

D2Mer 19 marzo. Lezione 15 (ore 29-30) Media e identità (II parte).

D2 (Da oggi è possibile iniziare a consegnare B2)Gio 27 marzo. SECONDO ESONERO SCRITTO

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. ALCUNI CONCETTI DI BASE

Nelle prime lezioni abbiamo articolato alcuni aspetti basilari dell’antropologia culturale, insistendo esplicitamente su questi argomenti:

1) il concetto antropologico di cultura2) definizione e funzione dell’etnocentrismo3) il relativismo culturale e il suo senso antropologico4) la riflessività5) la ricerca sul campo

1.1. LA CULTURA

Per quanto riguarda a), abbiamo detto che gli antropologi considerano cultura l’insieme dei comportamenti, delle pratiche dei manufatti e di qualunque altra “cosa” prodotta dall’uomo e dotata di queste tre caratteristiche:

1. è appresa2. è condivisa3. ha una componente di natura simbolica

1.1.A. LA CULTURA È APPRESA

Per quanto riguarda la NATURA APPRESA della cultura, ciò significa che non è cultura qualunque COMPORTAMENTO INNATO dell’uomo (come la suzione dei neonati) e abbiamo visto come lo spazio dei comportamenti naturali (innati) negli esseri umani sia estremamente ridotto, tanto che anche la postura eretta (camminare su due piedi) deve in qualche modo essere “attivata” dal gruppo sociale nel quale siamo inseriti (i bambini “selvaggi” allevati da animali non praticano la postura eretta). Mentre cioè gli altri animali si affidano in massima misura a comportamenti innati, che cioè fanno parte del loro corredo genetico e che possono essere trasmessi direttamente alla prole per via biologica (un’ape operaia non impara a raccogliere il nettare, come non impara a fare le cellette esagonali: è il suo modo naturale di comportarsi, e non può fare altro), gli esseri umani devono APPRENDERE (quasi) tutto quello che fanno, e praticamente tutto quello che pensano e dicono. In altre parole, la cultura ha la stessa funzione che ha negli animali il corredo genetico (trasmettere un sapere: il gatto trasmette alla prole la capacità di ritrarre gli artigli e di miagolare), ma si affida all’apprendimento, non alla biologia, e quindi può mutare in tempi infinitamente più rapidi, rivelandosi uno strumento di adattamento senza pari. Se cioè un determinato comportamento innato si rivela non più adattivo (cioè non più adeguato a garantire la sopravvivenza per la specie che lo pratica) può portare all’estinzione di quella specie. Immaginate cosa succederebbe alle api se, per qualche ragione, sparissero i fiori… La cultura invece ha una flessibilità straordinaria, proprio perché la sua trasmissione non passa per via genetica ma

attraverso l’apprendimento. Immaginate che tra le sfortunate api rimaste senza fiori ce ne sia una che per qualche mutazione genetica ha imparato a sopravvivere nutrendosi di qualcos’altro (poniamo, di grano). Certo, quell’ape potrà sopravvivere, ma per poter riprodurre questo comportamento (e per far sopravvivere le api come specie) dovrebbe accoppiarsi e sperare di avere un numero adeguato di successori con il suo stesso corredo genetico (in grado cioè di nutrirsi con il grano invece che con il polline dei fiori). Immaginate invece ora un gruppo umano che si sia specializzato nella caccia ai conigli, e che per qualche ragione i conigli spariscano d’improvviso. Immaginate inoltre che tra i membri di quel gruppo umano uno abbia imparato (seppure casualmente) a pescare o a procurarsi comunque del cibo diverso dai conigli. Le possibilità che questo nuovo comportamento si trasmetta al resto del gruppo sono infinitamente maggiori che nel caso del mutamento comportamentale delle api. Lo “scopritore della pesca”, infatti, non deve aspettare di riprodursi e sperare che la sua prole abbia ereditato le sue competenze in fatto di ami e di lenze, ma può “semplicemente” radunare i membri del suo gruppo e INSEGNARE loro come si pesca. In questo modo, un comportamento nuovo e adattivo può trasmettersi in tempi portentosamente rapidi (se comparati ai tempi della biologia) e attraverso individui diversissimi tra loro (dato che non serve assolutamente che abbiano lo stesso corredo genetico per condividere quel sapere). Ma se un nuovo comportamento può diffondersi in tempi rapidissimi, altrettanto rapidamente può andare perduto se non viene costantemente rinnovata la sua trasmissione alle nuove generazioni. Tutti voi, ad esempio, sapete che in Olanda ci sono moltissime biciclette e molti servizi urbani sono organizzati proprio per facilitare gli spostamenti in bici. Questo comportamento si è diffuso soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, divenendo un segno distintivo dell’Olanda (soprattutto nelle sue aree urbane) in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Ciò significa che le persone che oggi hanno all’incirca cinquant’anni sono cresciute in un ambiente sociale e culturale per cui andare in bicicletta era considerato non solo normale e sano, ma anche “giusto”. Le generazioni più giovani, quelle che hanno all’incirca la vostra età, premono invece perché nei centri storici venga consentito un accesso più semplice alle automobili e ai motocicli: se l’Olanda cioè non trova un modo per trasmettere alle nuove generazioni la “giustezza” dell’andare in bicicletta, è possibile che questo comportamento subisca un drastico calo nei prossimi anni, mano a mano che i giovani saliranno nelle stanze delle amministrazioni e della politica. L’esempio serve solo a far notare come un comportamento, per quanto possa apparire vantaggioso, non viene mantenuto “automaticamente” tra le generazioni, ma ha bisogno di essere confermato e rinforzato ad ogni passaggio generazionale. La trasmissione culturale, quindi, si presente come estremamente flessibile e mutevole:

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una generazione può rifiutare l’acquisizione della generazione immediatamente precedente.

Il fatto che gli individui che apprendono il nuovo comportamento siano estremamente diversi tra di loro (ci sarà quello forte e quello timido, quello intraprendente e quello pigro) costituisce un ulteriore fattore di adattamento potenziale della cultura. Se infatti lo stesso insegnamento è appreso da persone diverse tra loro, è probabile che verrà elaborato in modi diversi: qualcuno non saprà che farsene di quell’insegnamento, altri lo ripeteranno pedissequamente, altri ancora però vi apporteranno delle modifiche (abbiamo sempre pescato con gli ami fatti così, ma se li facciamo cosà peschiamo di più) che possono essere vantaggiose e che possono “tornare” anche all’emissario di partenza (quello che aveva insegnato a pescare per primo). Nel caso delle api, invece, il sistema standard della trasmissione del sapere (come si cava del cibo dal grano) è fortemente omogeneizzante: è bene che chi eredita quel sapere lo erediti per intero e senza modifiche. Mentre cioè la trasmissione per via biologica tende all’uniformazione entro la specie (un eccesso di mutamento genetico può produrre un’incompatibilità riproduttiva e quindi una nuova specie, che farà la sua storia evolutiva separata dalla specie da cui è nata), la trasmissione culturale accetta un grado pressoché infinito di variazione intraspecie. Detto altrimenti, mentre un’ape che impara a mangiare il grano è probabile che smetta di essere un’ape (magari per cominciare a somigliare a una cavalletta), un essere umano che impara pratiche culturali diverse diventa “ancora più uomo”, e non corre mai il pericolo di creare attraverso la cultura una barriera insormontabile con altri esseri umani, dato che la cultura che ha imparato: a) può essere trasmessa ad altri esseri umani che ancora non la condividono; b) può essere mutata dallo stesso portatore (che impara a pescare se spariscono i conigli); c) è comunque non del tutto omogenea già all’interno del gruppo che ne sarebbe il tenutario principale (una comunità di “pescatori” prevedrà comunque persone che pescano meglio e altre che pescano peggio, “stili” e “tradizioni” diverse di pesca, addirittura “scuole di pensiero” conflittuali su cosa sia una buona attività di pesca).

Ma prima di ritornare su questo tema (della complessità “interna” delle culture) riprendiamo il filo della trasmissione del sapere per via culturale, che ci consente di chiarire ulteriormente il concetto antropologico di cultura. Il fatto che la cultura sia un sapere appreso rischia di creare dei fraintendimenti proprio sulla natura di quel sapere. Quel che impariamo, infatti, può essere appreso in diversi modi e, per così dire, a diversi livelli. State leggendo questi appunti perché volete imparare qualcosa di antropologia culturale. In questo caso tutto è piuttosto chiaro: chi deve insegnare (i docenti), chi imparare (voi) e cosa state imparando (la storia della cultura materiale). Altrettanto chiaro il modo in cui state imparando: grazie a un procedimento formalizzato (lezioni, studio) che passa soprattutto attraverso il

linguaggio. Pensate invece ai vostri gusti musicali, o alla vostra capacità di praticare una certa attività fisica (uno sport, un gioco). Chi vi ha insegnato che quel cantante “fa schifo” e quell’altro invece è bravo? Chi vi ha insegnato quello stile di nuoto, a passare bene la palla, a muovervi su una pista da ballo? Avete imparato per imitazione, per rielaborazione, spesso senza sapere chi vi stava insegnando, oppure secondo modalità che non sono state principalmente linguistiche (pensate al ballo, ad esempio, che non si impara “leggendo” o “studiando”, ma “guardando” e “facendo”, anche se prendete delle lezioni: un’attività in cui la componente linguistica della trasmissione non è quella principale).

Dobbiamo quindi distinguere un sapere trasmesso in modo FORMALE (tutta l’educazione scolastica è di questo tipo) da uno trasmesso INFORMALMENTE (come i gusti musicali ed estetici in generale), in cui cioè non è chiaro chi abbia il compito di insegnare. Dobbiamo inoltre distinguere un sapere sostanzialmente di tipo LINGUISTICO da un sapere DEL CORPO che non passa necessariamente o principalmente attraverso la spiegazione linguistica. Abbiamo poi accennato a un’altra opposizione importante per chiarire il concetto antropologico di cultura, e cioè quella tra cultura ALTA e cultura BASSA, citando l’esempio della playstation. Una consolle per videogiochi oggi richiede, da parte di un giocatore esperto, una notevole competenza e un duro addestramento: per l’antropologia interessata alle pratiche culturali il fatto che saper giocare alla playstation non sia particolarmente prestigioso (che cioè non venga considerato parte della “cultura alta” come, ad esempio, suonare il violoncello) non muta l’interesse per questa pratica. Per l’antropologia culturale capire come si impara a suonare il pianoforte, a giocare con la playstation o a intrecciare un canestro di vimini (tre attività manuali associate a livelli sociali estremamente diversi) è altrettanto importante, perché in tutti e tre i casi siamo di fronte a comportamenti appresi, e quindi di natura culturale. L’antropologia quindi non distingue tra una cultura alta e una cultura bassa come oggetti di studio: riconosce che gli uomini attribuiscono diversi valori (morali o economici) alle diverse competenze (per cui oggi saper giocare bene a calcio vale molto di più di quanto non valesse trent’anni fa, in termini economici, ma sapere sette lingue straniere è comunque considerato estremamente prestigioso, anche se chi le sa non è ricco) ma è interessata a tutte le forme di competenza. Anzi, uno degli oggetti di studio dell’antropologia è proprio il modo in cui le diverse culture mettono su diverse scale di prestigio o valore le diverse competenze dei singoli.

Un ultimo aspetto, particolarmente interessante per le conseguenze metodologiche che possiamo trarne, della cultura in senso antropologico è costituito dal fatto che non solo spesso non è chiaro chi insegna, non solo spesso non è chiaro come quel sapere venga insegnato, ma a volte non è neppure chiaro che cosa venga insegnato. Può cioè capitare, quando si studia la cultura in senso antropologico, di incontrare

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forme di conoscenza che sono chiaramente apprese, ma che i portatori di quella cultura non sono consapevoli di sapere. Abbiamo a questo proposito raccontato l’apologo dei due archeologi (uno italiano e uno straniero ma che parla l’italiano) che ritrovano dentro una nave un’ancora, un anello e un’anfora. Non ripeterò qui la storia (chi non fosse stato presente se la faccia raccontare da qualche collega) ma il senso deve essere chiaro: chi conosce “fino in fondo” una cultura? Sono gli “indigeni”, cioè i portatori di quella cultura, solo perché dentro quella cultura sono nati e cresciuti? Oppure anche un “esterno” può imparare a conoscere come funziona una cultura che non gli è familiare? Come vedrete, questo è un tema che ricompare quando si affronta la ricerca sul campo e la questione più generale di come sia possibile conoscere una cultura diversa dalla nostra.

1.1.B LA CULTURA È CONDIVISA DAI SUOI MEMBRI

Su questo punto abbiamo insistito soprattutto per quanto riguarda la DELIMITAZIONE delle culture. A tutti noi appare evidente che un americano non è un francese, che un irakeno non è un argentino, che un basco non è un castigliano e così via. Ci sono ovviamente diversi elementi culturali che possiamo utilizzare come tratti discriminanti: la lingua, la religione, l’abbigliamento, il sistema di valori (cos’è bene e cos’è male, in quella cultura). Non possiamo, invece, utilizzare tratti somatici (il colore della pelle, ad esempio) proprio per quanto abbiamo detto sul modo non biologico con cui si trasmette la cultura: tutti conosciamo diversi esempi di italiani di colore, e il caso è ovviamente ancora più nitido nel caso di paesi con una storia più lunga e complessa di immigrazione (Gran Bretagna, Francia, Olanda, per non dire degli Stati Uniti). Questo per dire che, indipendentemente da quello che potremmo presupporre dalle caratteristiche somatiche, gli esseri umani sono in grado di imparare qualunque sistema culturale come “loro proprio” (si chiama processo di INCULTURAZIONE quel complesso meccanismo di apprendimento della cultura “madre”, mentre si chiama ACCULTURAZIONE qualunque processo di acquisizione di una cultura diversa, successivamente al processo di INCULTURAZIONE). Questa evidente disponibilità delle culture ad essere apprese da chiunque deve però spingerci a riflettere proprio sull’entità di quella condivisione. Molto spesso (per ragioni complesse che non possiamo affrontare se non brevemente in questo modulo) tendiamo a “sopravvalutare” la compattezza delle culture, e a considerarle come entità completamente separate una dall’altra: di qui i Nayar, di là i Nuer. Da una parte i Maya, e dall’altra gli Incas. Oppure (il che è lo stesso) da una parte gli Irlandesi e da quella opposta gli Inglesi. In effetti, nessuno può dubitare che le culture tendano a coagularsi attorno ad alcuni elementi caratterizzanti, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi la nettezza con cui crediamo di poter distinguere tra diverse culture è più apparente che reale.

“Dentro” ogni cultura, tanto per iniziare, vi saranno persone con conoscenze diverse, con valori non condivisi e spesso addirittura in conflitto tra loro. Pensate ad esempio a come la cosiddetta “cultura occidentale” stia in questi ultimi anni affrontando un ripensamento profondo della propria dimensione religiosa. L’Islam è compatibile con “l’occidente”? Non importa rispondere a questa domanda (non in questa sede, almeno), mentre è interessante chiedersi cosa quella domanda dà per scontato, e cioè che il Cristianesimo sia invece non solo compatibile, ma un vero e proprio tratto caratteristico dell’Occidente. Ma se il Cristianesimo è alla radice dell’Occidente, non è alla base dell’Occidente moderno anche il pensiero laico e razionalista, il materialismo scientista e l’ateismo come prospettiva antropologica radicale? Chi potrebbe contestare che l’Illuminismo, il marxismo o la psicoanalisi sono prodotti intellettuali assolutamente occidentali (europei)? Eppure è noto a tutti che queste visioni del mondo hanno criticato duramente (pur se in modi diversi) proprio la radici cristiane del pensiero occidentale. Sto cercando di dire che il Cristianesimo è un figlio legittimo della cultura che chiamiamo “occidentale” quanto lo è l’Illuminismo, anche se i due sistemi di pensiero sono per molti versi inconciliabili. Invito gli studenti a pensare altri esempi di sistemi di valori in conflitto entro quella che apparentemente è la stessa cultura. Possiamo parlare di una cultura calabrese? Per molti versi sì, riconducibile a una famiglia omogenea di dialetti e a un passato storico, artistico, politico e addirittura economico (il latifondo) ricostruibile con estrema precisione. Eppure chi non conosce le rivalità che oppongono in Calabria i diversi comuni? Scendendo ancora di livello, chi non si accorge, una volta a Cosenza, che si respira un’aria “culturale” per molti versi riconoscibile, che si è dentro uno spazio segnato da una qualche forma di condivisione? Eppure mi chiedo che cosa avrebbero da dirsi un giovane ultrà del Cosenza e la vecchia signora che tutti i giorni dice il rosario nella chiesa della sua parrocchia, anche se sono tutti e due calabresi. Non dovrebbero condividere un’unica cultura? In realtà, c’è un margine di sovrapposizione tra quanti partecipano alla “stessa cultura”, ma quasi mai una sovrapposizione totale, per le ragioni che dicevamo sul modo in cui apprendiamo modificando soggettivamente quel che impariamo. Nel caso calabrese, poi, l’appartenenza regionale è ulteriormente complicata dalla presenza di tradizioni linguistiche specifiche: l’arbreshe e il grecano sono ancora parlati (soprattutto il primo), e complicano notevolmente il sistema delle appartenenze.

Quindi, primo punto, le culture sono estremamente complicate già al loro interno, per il fatto che i loro membri si dispongono lungo fasce di età differenti (gli anziani sanno cose che i giovani non sanno, e viceversa), su diverse scale sociali (in base al reddito, all’istruzione, all’origine familiare) e su diverse strategie di competenza (chi ne sa “di più” tra un chirurgo e un pianista, tra un botanico e un filologo, tra un idraulico e un elettricista? La domanda non ha ovviamente senso, dato che ognuno

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ha una competenza specifica). Per questa ragione, nessuno possiede tutta la “propria” cultura, e nessuno possiede solo elementi culturali comunque riconducibili alla “propria” cultura (collocatevi dove vi pare, ma se avete tatuaggi o piercing vi sfido a dimostrarmi che si tratta di elementi culturali tipicamente italiani, o calabresi o quel che volete).

Vista da questa prospettiva la differenza tra culture si fa meno rigida e meno netta, dunque. Ma c’è dell’altro che dobbiamo aggiungere per capire effettivamente come si realizza la condivisione culturale, e che forme assume. L’ultimo esempio che abbiamo fatto (i tatuaggi e i piercing) sembrerebbe comunque appartenere alla famiglia delle eccezioni che confermano la regola: va bene, il tatuaggio no, ma sono calabrese e cresciuto qui, prova a dimostrarmi che questo non è tipico e che non caratterizza la mia appartenenza in modo netto! Bene, ci provo, e per farlo anticipo in linea generale l’argomento che proverò a dimostrare per via di esempi. Il punto è che le culture non solo sono immerse nel tempo (cambiano) ma sono nate nel tempo. È questo quello che tendiamo a dimenticare, anche quando siamo disposti ad ammettere i mutamenti in corso (dovrei dire meglio: proprio quando ci lamentiamo dei mutamenti in corso). Riconosciamo cioè i mutamenti in corso (i tatuaggi, i piercing, i ristoranti cinesi) ma tendiamo a collocarli su uno sfondo di immutabilità che non ha alcuna giustificazione storica. Quando pensiamo alla nostra cultura che oggi si cambia e si modifica, si mescola e si intreccia con altre tradizioni culturali, dentro di noi confrontiamo lo stato attuale (di modificazione e mescolamento) con uno stato precedente in cui invece la nostra cultura era pura, intonsa, non ancora mescolata con altre. Il punto è esattamente questo: lo stato originario in cui le culture erano pure e separate NON È MAI ESISTITO, è un’invenzione del nostro modo di pensare al passato, che salta non appena ci confrontiamo con la realtà storica.

Prendiamo un primo esempio. Cosa bevono gli inglesi alle cinque del pomeriggio? Tè, si sa. Il tè è (assieme alle birre poco gassate e tiepide che servono nei pub) la bevanda nazionale inglese (e britannica, più in generale). Si sa quanto il tè con lo zucchero sia stato un alimento essenziale della classe operaia durante le fasi più intense della rivoluzione industriale, ma anche un simbolo dell’emergente borghesia. Questa bevanda è in grado di condensare la forza rude del proletariato (che beve il tè mentre cena, nei mugs, le tazze cilindriche spesso in metallo) e il gusto delle classi dominanti (che bevono tè in tazze svasate di porcellana, rendendolo l’accompagnamento di spuntini nutrienti come i cucumber sandwiches o di cibi “astratti” come la pasticceria). Il tè è quindi non solo un elemento importante del sistema alimentare britannico, ma è quasi un simbolo prediletto di quel sistema e dell’idea di Britishness. Ma da dove viene quel tè? Non è certo un prodotto indigeno, anzi. Il tè non cresce (non può crescere) nelle isole britanniche, è stato importato di recente (da pochi secoli vuol dire di recente) e la regina Elisabetta I o

William Shakespeare (qualcuno oserebbe dire che non erano “tipicamente” inglesi?) non bevevano tè. Eppure oggi siamo disposti ad accettare il tè come una bevanda “tipicamente” o “tradizionalmente” inglese. Se qualcuno poi pensasse che l’usanza oggi tipicamente inglese di sorseggiare tè sia stata assunta dai colonizzatori britannici durante la loro permanenza in India (come se quindi la recente tradizione britannica si basasse in effetti su una più antica tradizione del subcontinente indiano) precisiamo che fino agli anni trenta dell’Ottocento il tè era prodotto solo in Cina, e di lì esportato tramite i commercianti olandesi. Fu solo dopo il 1834 che la coltivazione del tè venne introdotta nel subcontinente indiano.

Il caso della “pasta al pomodoro” – questa volta “tipicamente” italiano – è altrettanto indicativo: nei libri di cucina napoletani dei primi dell’Ottocento esistevano i “maccaroni” e esisteva la “pummarola”, ma i primi si mangiavano a timballo e venivano cotti al forno, la seconda invece si poteva associare alle carni, al pesce e alle verdure, ma non era mai “in coppa” alla pasta. Questo vuol dire che ci deve essere stato un momento nel corso dell’Ottocento in cui si è cominciato a mangiare la pasta con il sugo di pomodoro, e certamente in quel periodo nessuno pensava che la pasta al sugo fosse un piatto “tradizionale” o “tipico”. (Ovviamente non accenno neppure al fatto che sia la pasta come la conosciamo noi sia il pomodoro sono stati introdotti in Italia da pochi secoli).

Ecco, quanto tempo ci vuole perché un’usanza culturale possa essere considerata come caratteristica di quella cultura? Ovviamente la domanda non ha una risposta assoluta, ma va indagata caso per caso. E se si hanno informazioni sufficienti si potrà scoprire che, caso per caso, ogni elemento culturale ha una storia che è fatta di prestiti, commistioni e incroci. È la prospettiva da cui guardiamo alla realtà culturale che ci fa immaginare di provenire da un passato statico messo in crisi dalla mutevolezza del presente. Le culture sono accorpamenti estremamente permeabili e fragili di elementi culturali, che nel corso dei tempi hanno sempre subito modificazioni. Del resto, non può che essere così, se pensiamo in prospettiva storica: non ha senso pensare a una qualunque cultura come qualcosa di originario che “poi” si sarebbe inquinato, dato che questa immagine presuppone che le culture siano state create tutte contemporaneamente e tutte diverse, e che poi, eventualmente, si sarebbero incrociate e commiste. In realtà, il processo storico è stato proprio l’opposto. La diversità culturale è cresciuta proprio grazie alla commistione. Se io che ho imparato a pescare da quello che me l’ha insegnato ci metto del mio (uso le reti invece degli ami) ecco che sto creando una cultura della “pesca con le reti”, che si differenzia dalla “pesca con gli ami”. Se mi hanno insegnato il latino e io lo parlo mescolandolo con le parlate italiche e germaniche, ecco che faccio nascere l’italiano. Potremmo dire che l’italiano è un latino “inquinato”? O dovremmo invece pensare che l’italiano è sempre esistito, ma era stato “coperto” dal latino e si sarebbe

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“scoperto” nel corso del tardo medioevo? Entrambe le ipotesi sembrano vere sciocchezze: l’italiano non è una versione “povera” del latino, e non è un’entità pura

che sarebbe emersa nel suo splendore solo nel corso dei secoli. È piuttosto un prodotto storico, come qualunque altro elemento di qualunque altra cultura.

È forse possibile dare una raffigurazione grafica della concezione antropologica di cultura come raggruppa-mento in uno specifico momento storico di alcuni elementi culturali, e opporre questa raffigurazione al modello che vorrebbe invece le culture come entità separate e a rischio di commistione. Nella figura qui a fianco la sequenza

temporale si sviluppa dall’alto al basso, mentre le diverse linee e le loro forme differenti stanno a indicare i diversi elementi culturali (ad esempio: praticare l’agricoltura, fare i piercing, professare il monoteismo, far uso della televisione, non mangiare il maiale, eccetera, eccetera, eccetera). In questa figura ipersemplificata

rispetto a qualunque condizione reale, gli elementi culturali (raffigurati con i diversi tipi di linea) si spostano nel tempo (sul piano verticale) e nello spazio (sul piano orizzontale). Dato un qualunque momento storico (A, B, C), è possibile individuare specifiche configurazioni culturali come “nodi” (N1, N2, eccetera) attorno a cui si “raddensano” alcuni elementi culturali. Come è evidente, non c’è un momento “originario” per i singoli nodi, e non è neppure possibile stabilire con assoluta precisione dove finisca un determinato

raggruppamento culturale (anche se è possibile individuare per ogni nodo i punti in cui i singoli elementi culturali sono più fittamente intrecciati).

Secondo invece la seconda figura, le culture sono entità nettamente distinte che preesistono a qualunque commistione, che è il prodotto della “corruzione” del tempo. In questo modello, le culture sono l’entità primigenie che il tempo tende a mescolare o a fondere.

Quando quindi diciamo che la cultura è costituita da elementi culturali condivisi dai membri della comunità culturale, dobbiamo sempre stare attenti che non sia l’idea stessa di condivisione a generare l’illusione di una cultura intesa come entità compatta, distinta, nettamente separabile dalle altre culture. La condivisione è quindi un concetto sempre relativo: i membri che diciamo (o che dicono) di appartenere alla cultura x sono tali in quanto ciò che condividono tra loro è maggiore di ciò che condividono con altri individui, che si definiscono (o che definiamo) appartenenti ad altre culture.

1.1.C LA CULTURA È SIMBOLICA

Quanto abbiamo detto sulla natura appresa e condivisa in senso relativo della cultura ci costringe a riflettere più a fondo sul meccanismo di base delle culture umane. Come abbiamo visto, far parte di una cultura vuol dire sostanzialmente condividere attraverso l’apprendimento una serie di pratiche, di valori e di istituzioni. Mentre cioè un’ape appartiene alla specie delle api perché è dotata del patrimonio genetico (e quindi comportamentale) che distingue le api da qualunque altro essere (animato o inanimato), un essere umano appartiene a una cultura perché ne condivide gli elementi avendoli appresi. L’apprendimento, come abbiamo segnalato brevemente, non avviene in modo meccanico, ma attraverso complesse operazioni di trasmissione (formale e informale, a base linguistica e a base corporale, con contenuti espliciti o impliciti). Un qualunque elemento culturale (saper pescare) non può quindi essere trasmesso se chi riceve il messaggio non è in grado di interpretarlo, di rielaborarlo, di farlo proprio, ed eventualmente di inviare a sua volta messaggi per chiedere chiarimenti, per sollevare dubbi o per porre critiche al messaggio ricevuto. Anche la più semplice operazione di trasmissione culturale deve accettare questo meccanismo di base, per cui chi impara deve essere in grado di farlo, il che significa che deve avere una parte attiva e non può limitarsi a ricevere passivamente l’insegnamento (provate a insegnare una cosa qualunque al vostro tavolino, e capirete che cosa intendo). Gli antropologi riassumono questa specificità della trasmissione culturale dicendo che la cultura è un CAMPO SEMIOTICO o, con altro termine, un SISTEMA DI SEGNI. Per capire di che si tratta vediamo brevemente alcune definizioni preliminari.

La semiotica studia i segni (non solo linguistici) intesi come l’unione arbitraria di un SIGNIFICANTE e di un SIGNIFICATO. Il significante è la forma, il “mezzo” che assume il segno per essere veicolato (inchiostro se il segno è scritto, onde sonore se il segno è sonoro, qualunque materiale se il segno non è strettamente linguistico), per cui il segno “cane” è costituito da un significante (che indichiamo convenzionalmente tra barre oblique: /cane/) e da un significato (che indichiamo invece tra apici semplici: ‘cane’). Il significante può essere quanto di più vario possiamo immaginare: in queste pagine,

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N1

N2

N3

B

A

C

N

2

N

1

N

3

B

C

A

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il significante è costituito dalle lettere che vedete scritte, e cioè /cane/, ma potrebbe anche essere qualcosa simile al disegno qui riportato.

Come appare per ora intuitivo, sia il disegno qui a fianco (per quanto maldestro) che le lettere comprese tra le barre oblique /cane/ veicolano lo stesso significato, sono cioè due significanti estremamente diversi che veicolano però lo stesso significato.

Questo intanto ci permette di dire che il RAPPORTO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO è ARBITRARIO, cioè non c’è nessuna ragione “naturale” per cui il significato ‘cane’ debba essere espresso con il disegno che ho fatto, con il significante /cane/, come fa la lingua italiana, o con il significante /dog/, come fa invece la lingua inglese. Se il segno come unione arbitraria di significante e significato e la natura convenzionale del significante sono due concetti facilmente comprensibili, solleva invece più di un problema la natura di quello che finora non abbiamo ancora definito, e cioè il significato.

Senza voler ripercorrere la storia dello studio dei segni (che è ben più lunga della semiotica moderna) e senza neppure pretendere di riassumere un dibattito che coinvolge da sempre la riflessione filosofica, per i nostri scopi sarà sufficiente dire che possiamo concepire due teorie del significato, che qui ci limitiamo a definire brevissimamente.

La prima è la cosiddetta TEORIA REFERENZIALE, per cui il significato di cane in qualche modo coincide con l’animale o con “l’immagine mentale” che abbiamo dell’animale. Secondo questa teoria, quando dico /cane/ intendo riferirmi all’animale che ho in mente, o a quello che passa per la strada in quel momento. Una teoria referenziale del significato è ben rappresentata dalle definizioni di un vocabolario: per ogni voce si dà una brevissima definizione, astratta da ogni riferimento contestuale.

La seconda teoria invece si può definire TEORIA DELL’USO, e sostiene che il significato è dato dall’insieme di norme, pratiche e consuetudini che possiamo associare a quel segno se vogliamo che sia comprensibile per chi ci sta ascoltando. Secondo questa teoria, il significato di “cane” è dato da tutto quello che potenzialmente possiamo “raccontare” (i semiologi professionisti riprendono il termine filosofico “predicare”) del segno “cane”. Per cui il significato di “cane” è dato dall’uso che facciamo dell’insieme delle informazioni “enciclopediche” che abbiamo di cane.

Questa teoria dell’uso risulta a mia esperienza particolarmente ostica da comprendere in termini astratti, ma solitamente diviene particolarmente evidente quando esplicitata attraverso esempi concreti (il che sembrerebbe confermare proprio la “teoria dell’uso” del significato, visto che sto cercando di spiegarvi il significato di “teoria dell’uso”, e so per esperienza che una sua “definizione” non

riesce a veicolarne il senso quanto una sua “narrazione”). Prendiamo il caso che io vi incontri e vi dica che ieri sera ho mangiato cotolette di cane. La cosa, oltre che stupirvi, credo che metterebbe in dubbio il senso della comunicazione, e quasi di riflesso molti di voi insisterebbero per “chiarire il senso” della mia affermazione. Perché questa richiesta di “chiarimento”? Per la ragione che il vostro significato di “cane” non contempla che l’animale sia commestibile, e anzi associa a questa eventualità una vera repulsione. Insomma, una frase apparentemente chiara e banale come: “Ieri sera ho mangiato cotolette di cane” (che in alcuni paesi asiatici non susciterebbe alcuna richiesta di chiarimento) crea problemi di interpretazione non perché i singoli elementi non siano decodificabili (come se avessi detto: “Ho sambilato catonate di prane”) ma perché entrano in conflitto con la rappresentazione enciclopedica del segno “cane”. Un ulteriore esempio, prima di trarre una conclusione importante. Se entrassi in aula e mi presentassi come Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, mi mettessi una mano nel panciotto e il dito mignolo dell’altra nell’orecchio, e capiste che “sto facendo sul serio”, probabilmente chiamereste l’ambulanza. Eppure “nella mia testa” e nella “vostra testa” potrebbe esserci un’idea alquanto precisa del significato del segno “Napoleone Bonaparte”. Quel che non va, in questo caso, è che il “mio” segno (nella mia testa) e il “vostro” segno (nella vostra testa) non avrebbero uno spazio condivisibile, non sarebbero “negoziabili” e – forti del vostro numero (tutto il mondo contro uno) – potreste dire che il significato che io associo al mio segno è “sbagliato”.

Quel che questi due esempi estremi e fittizi vorrebbero dimostrare è che il significato non può limitarsi a stare “dentro la nostra testa”, ma deve essere SOCIALMENTE CONDIVISIBILE. Detto altrimenti, “IL SIGNIFICATO È PUBBLICO”: è cioè il prodotto di pratiche sociali e ha poco a che fare con “l’oggetto rappresentato”.

Per capire cosa significa il segno “cane” nella cultura X devo quindi ricostruire il significato di quel termine attraverso l’indagine degli usi potenziali e legittimi di quel segno, per cui in Italia “cane” significa (tra le molte altre cose, e detto in modo estremamente semplificato): animale che quando torno a casa mi fa le feste e che devo portare a passeggio; una specie di strano amico poco esigente che mi aiuta a non sentirmi solo.

Se invece cercassimo di capire qual è in significato del termine equivalente in coreano, dovremmo riuscire a concepire anche significati del tipo: animale che produce una carne prelibata e difficile da cucinare.

Come vedete, ha poca importanza (dal punto di vista dell’analisi culturale) stabilire che il termine italiano “cane” e il termine corrispondente in coreano si riferiscono allo stesso “oggetto”, dato che l’identità dell’oggetto fisico non muterebbe la sostanza del problema, e cioè che in italiano e in coreano i due segni vengono usati in modi estremamente diversi, il che equivale a dire che il segno

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italiano “cane” e il corrispondente coreano non hanno lo stesso significato, e che l’unico modo per dar conto di questa differenza è ricostruire quale sia il significato plausibile del segno nel suo specifico contesto culturale o, detto altrimenti, ricostruire il significato pubblico del segno. Ecco allora che siamo tornati alla dimensione pubblica del significato. Non posso sperare di scavare nella mia testa per capire il significato di “cane” nella cultura coreana, ma sono costretto a interagire con i rappresentanti di quella cultura, a cercar di capire attraverso l’osservazione dei loro comportamenti e l’interazione linguistica quale sia PER LORO il significato della parola “cane”.

Ecco, questo è esattamente quello che cerca di fare l’antropologia. Ci sono diversi modi per esprimere questo concetto. Si dice a volte che l’antropologo cerca di “capire le cose dal punto di vista dei nativi” oppure che l’antropologo studia i “significati nativi”, o ancora che l’antropologia studia le “reti di significato”, che sono “reti” perché i segni possono avere come significato un altro segno: se dico che in Italia il cane è “una specie di amico”, mi trovo a dover capire cosa significa il segno “amico”; e se dico che in alcuni paesi asiatici il cane produce una “carne prelibata”, dovrei capire cosa si intende per “prelibata”. I segni rimandano ad altri segni, e l’intreccio con cui i diversi segni si definiscono a vicenda produce una “rete semiotica”. Ma su questo torneremo parlando della ricerca sul campo.

Concludiamo qui invece le nostre brevi riflessioni sul concetto antropologico di cultura. Riassumiamo quanto abbiamo stabilito finora: la cultura è costituita da una rete di simboli appresi e condivisi; l’informazione culturale non passa per via biologica ma attraverso forme di trasmissione che prevedono un ruolo attivo da parte di chi apprende; non è detto che i portatori di un determinato sistema culturale siano completamente consapevoli del contenuto delle loro pratiche culturali, dato che la trasmissione del sapere può essere formalizzata ma spesso passa per canali informali per cui è difficile stabilire chi insegna, chi impara, e che cosa precisamente venga insegnato e appreso; la cultura in senso antropologico può quindi essere alta o bassa, formale o informale, esplicita nei suoi contenuti o implicita; le culture associano arbitrariamente significanti e significati producendo segni culturali che hanno senso (sono riconosciuti come segni) solo se sono condivisi, e quindi possiamo dire che i significati sono pubblici, e non sono “nella testa” degli individui, ma invece costruiti dall’interazione comunicativa tra i membri di quella cultura; lo studio scientifico delle culture è costituito proprio dal tentativo di ricostruire le reti si significato di una determinata cultura, cercando quindi di vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”.

Se tutto questo è vero, possiamo allora dire che il concetto antropologico di CULTURA riassume tutte le pratiche umane che si oppongono alla NATURA, intensa proprio come apparato che precede l’uomo e entro il quale l’uomo si trova ad agire.

Fa parte della natura la nostra struttura biologica, il fatto che siamo mammiferi bipedi, il fatto che abbiamo il pollice opponibile, che non possiamo sopravvivere al di sotto o al di sopra di determinate temperature, che il nostro apparato digerente non riesce a decomporre la cellulosa (per cui non siamo erbivori), che i cuccioli della nostra specie hanno necessità di essere accuditi per un periodo eccezionalmente lungo prima di poter essere autosufficienti. Questi “fatti naturali”, comunque sono modulati dal contesto culturale nel quale cresciamo e devono essere attivati entro gruppi organizzati: facoltà chiaramente ed esclusivamente umane come la postura eretta o il linguaggio articolato non si sviluppano naturalmente, cioè senza l’intervento di altri esseri umani che le attivano e le stimolano, mentre la capacità di miagolare di un gatto sarà presente nell’adulto anche se quell’adulto è stato allevato, poniamo, da una cagna ed è cresciuto in mezzo ai cani.

Il concetto antropologico di cultura è stato espresso nella sua forma canonica per le discipline antropologiche da E. B. Tylor nel suo Primitive Culture (1871): “La CULTURA… è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine ACQUISITA dall’uomo come membro di una società”.

La cultura studiata dagli antropologi non si oppone quindi all’incultura (ignoranza) ma alla natura dell’uomo intesa come insieme delle sue qualità INNATE. Per esemplificare, abbiamo ricordato il mito di Epimeteo, che si “dimenticò” di preservare per gli esseri umani una qualche qualità innata (come invece aveva fatto per tutti gli altri animali creati da Giove) e quello di Prometeo, che proprio per compensare questa mancanza decise di rubare il fuoco agli dei (ingresso dell’uomo nella cultura). Come ulteriore esempio abbiamo ricordato il saggio di Marcel Mauss, “Le tecniche del corpo” (ora contenuto nella raccolta Saggio sul dono e altri saggi di antropologia), in cui appare evidente che anche pratiche considerate estremamente naturali come il camminare subiscono una modulazione da parte della cultura.

Prima di passare a come gli antropologi cercano di studiare le culture definite a questo modo, aggiungiamo un altro paio di concetti che possono essere utili nell’elaborazione di una concezione articolata di antropologia culturale.

2. ETNOCENTRISMO

È una conseguenza praticamente inevitabile dell’inculturazione entro una determinata società, e si può definire come la tendenza a misurare le culture altrui usando la propria come metro di paragone, per cui le altre culture sono giudicate in modo tanto più negativo quanto più si discostano dalla propria. Un altro modo per guardare all’etnocentrismo è quello di considerarlo una tipica strategia culturale che si fa sentire come “ovvie”, “normali” e intrinsecamente “giuste” le scelte culturali

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che condividiamo. La cultura ha cioè tra i suoi strumenti anche raffinati meccanismi di NATURALIZZAZIONE, che ci fanno credere “naturali” (cioè parte integrante dell’essere umano come la postura eretta o l’incapacità fisiologica di digerire la cellulosa) pratiche e giudizi che la semplice comparazione etnografica ci rivela essere culturali. Se infatti possiamo dire che il linguaggio è una qualità naturale degli esseri umani (che deve comunque essere attivata in un contesto culturale) per la ragione che non sono stati mai rintracciati gruppi umani che non avessero una loro lingua, e se possiamo dire che la postura eretta è altrettanto naturale in quanto non ci sono giunte testimonianze di gruppi umani in cui non si cammini sui due piedi, sostenere che – ad esempio – la famiglia composta da padre, madre e figli che vivono sotto lo stesso tetto sia naturale è un’affermazione empiricamente dubbia, dato che conosciamo moltissimi casi di culture in cui il modello normativo e/o statisticamente più rilevante di famiglia non coincide con quello di madre, padre e figli riuniti in un’unica unità abitativa. L’etnocentrismo è quindi quella prospettiva che tende far coincidere con la natura (quindi con l’inevitabile, o almeno con il giusto) le nostre pratiche culturali. Un “vantaggio” immediato dell’etnocentrismo è che consente un notevole risparmio di energie cognitive: se il mio modo di cucinare è quello “giusto”, potrò considerare qualunque altro modo semplicemente “sbagliato” ancora prima di averne verificato l’efficacia o il gusto. In questo modo, posso risparmiarmi la fatica di dover imparare modi nuovi di cucinare, o di procedere a comparazioni complesse per decidere quale sia il modo migliore. Ma lo “svantaggio” evidente dell’etnocentrismo è che limita le capacità adattive dei gruppi culturali. Se i conigli sono spariti ma io mi ostino a considerare la caccia al coniglio il “giusto” modo per procurarmi il cibo e considero quindi la pesca un modo “barbaro”, “immorale” o comunque “sbagliato”, è assai difficile che riesca a sopravvivere.

Il problema dell’etnocentrismo è che i suoi “vantaggi” sono immediati (rassicurazione, convinzione di essere dalla parte giusta e di appartenere al gruppo migliore, risparmio di impegno cognitivo), mentre i suoi “svantaggi” si rivelano spesso sul medio o lungo periodo. Nelle pratiche culturali ordinarie possiamo dire che l’etnocentrismo prevale come attitudine in moltissimi individui e moltissimi gruppi umani. L’antropologia culturale – spesso senza riuscirci – è una disciplina che si pone esplicitamente e consapevolmente l’obiettivo di produrre una conoscenza delle culture umane cercando di superare l’etnocentrismo.

Con i dati che abbiamo fornito finora sembreremmo a questo proposito essere di fronte a un paradosso: abbiamo detto che le culture sono reti di significato, e che ogni cultura costruisce le proprie configurazioni di significato. Abbiamo anche detto che non c’è altro modo di conoscere e interagire con il mondo, per gli esseri umani, se non attraverso queste reti di significato. Le reti, in un certo senso, costruiscono

anche l’illusione di essere naturali. Com’è possibile che in questo quadro di riferimento possa semplicemente esistere il progetto antropologico? Sembrerebbe che ogni individuo sia intrappolato dentro la rete della propria cultura, veda la realtà attraverso quella rete giudicando quel che vede il modo giusto di vedere il mondo. Perché mai qualcuno dovrebbe essere interessato a vedere il mondo dal punto di vista di qualcun altro? E soprattutto: com’è possibile questo “salto” di prospettiva?

Anche in questo caso, dobbiamo tornare a quanto dicevamo sulla delimitazione delle culture. Se è vero che ogni cultura costruisce la propria rete di significati, è anche vero che non esistono reti “isolate”: ci sono sempre punti di contatto, “agganci” tra reti diverse, che consentono proprio quella comunicazione iniziale che può fare da base per la comprensione più profonda. Pensate a come si apprende una seconda lingua. Anche nel contesto più formalizzato possibile (lezioni in aula) se non ci fosse la possibilità per gli interlocutori di far riferimento a un comune sistema di significazione (cioè proprio alla qualità semiotica di qualunque sistema culturale) non sarebbe possibile imparare un’altra lingua. In caso di apprendimento informale questo è ancora più evidente: comincerò magari puntando il dito verso una serie di oggetti e mi farò dire il nome. Poi proverò a ripetere piccole formule di cortesia e saluto. Quindi proverò a individuare modi per far accadere qualcosa (farmi dare un bicchier d’acqua, ad esempio) e così via, entrando poco a poco nelle strutture della lingua che sto cercando di imparare. In modo sostanzialmente simile, lo studio antropologico delle culture cerca di entrare negli intrecci dei significati “indigeni” partendo da quel che si ha a disposizione e da quel che si può condividere. Poco alla volta, pezzo per pezzo, si può provare a ricostruire il puzzle. Ecco quindi che, partiti da una prospettiva, possiamo sperare di ricostruirne un’altra.

3. RELATIVISMO CULTURALE

Non ho molto da aggiungere a quanto indicato nel manuale su questo ingrediente dell’approccio antropologico, se non che il relativismo culturale costituisce la conseguenza inevitabile del rifiuto dell’etnocentrismo. Non c’è molta alternativa rispetto a questo dualismo: o si è relativisti (e quindi si crede che gli esseri umani costruiscano gran parte dei loro sistemi semiotici in base ad associazioni arbitrarie tra significanti e significati (per cui il segno cane può voler dire “amico” o “carne prelibata” a seconda dei diversi contesti culturali) oppure si è etnocentrici e si decide che il nostro significato (“amico”) è quello giusto e che chi non lo condivide è barbaro, stupido o immorale.

Ovviamente il relativismo culturale non significa che tutti i sistemi culturali abbiano pari valore o che un sistema vale un altro. Ma abbiamo il dovere di distinguere le nostre scelte morali dal tentativo di conoscere e capire i sistemi culturali diversi da quello che consideriamo nostro. L’esempio del nazismo sul

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manuale è particolarmente calzante: non si tratta di giustificare il nazismo, né di dire che il nazismo e la democrazia sono due sistemi in qualche modo equivalenti in quanto “incommensurabili” (basati cioè su principi e assiomi incompatibili tra loro, rispetto ai quali sarebbe impossibile scegliere in modo “oggettivo”). Dire che il nazismo è ripugnante è una posizione morale che (dal mio punto di vista) non ha neppure bisogno di essere argomentata, per quanto la considero irrefutabile. Ma questo non risolve la questione antropologica del nazismo, e cioè: come vede(va) il mondo un nazista? Entro quali reti di significato era immerso per far sì che potesse pensare e agire a quel modo? Lungi dall’essere uno sterile esercizio filosofico, analisi di questo tipo possono avere anche ricadute pratiche, perché possono permetterci di individuare specifici elementi culturali o materiali che hanno contribuito in modo determinante all’emergere del nazismo, e possono quindi aiutarci a prevenirne l’insorgenza.

Specifico questo punto perché nella vulgata dei mass media sembra quasi che il relativismo culturale sia la causa di tutti i mali che affliggono il genere umano. Si accusa l’Occidente di aver tradito i suoi valori cedendo a un relativismo che appiattisce tutte le gerarchie morali, cadendo in un baratro di inazione che impedisce di fare delle scelte, tanto più necessarie quanto più il contesto che viviamo sembra farsi via via più drammatico. Ora, a me pare che la situazione della politica internazionale segnali esattamente il problema opposto. Francamente non vedo in giro grandi affratellamenti dell’umanità in nome del relativismo culturale, e non mi pare che il mondo sia retto da politici e amministratori disposti a cedere sui propri principi in nome di una tolleranza buonista nei confronti dell’Altro. Per riuscire a imbottirsi di esplosivo e farsi saltare dentro una scuola elementare; bombardare abitazioni dove si sa per certo che, assieme a uomini armati, si trovano anche civili inermi; falciare con una raffica di mitra un’adolescente che non si è fermata a un posto di blocco; organizzare un comitato di controllo contro “gli immigrati”; compiere atti di teppismo e violenza durante una marcia pacifista; essere del tutto convinti che i nostri avversari politici stiano agendo in completa malafede, e non guidati da un progetto politico semplicemente diverso dal nostro; lamentarsi che questi o quelli “ci portano via le donne e il lavoro”; sgozzare e decapitare con un coltello di fronte a una telecamera degli esseri umani completamente inermi; per poter fare tutto questo è necessaria una tremenda convinzione nella giustezza delle proprie posizioni cioè, in altre parole, una dose enorme di etnocentrismo.

4. RIFLESSIVITÀ

Anche questo è un elemento importante della costruzione del sapere antropologico. La riflessività significa sforzarsi di avere consapevolezza delle regole che guidano il nostro agire e le nostre convinzioni e cercare di ricostruire i sistemi

diversi dal nostro verificando in che misura le regole culturali dell’analista interferiscono con quelle della cultura analizzata. Nell’esempio ancora/anello/anfora, la riflessività è la capacità di pensare e rielaborare le regole fonetiche della lingua italiana. In quell’esempio, la “scoperta” della regola fonologica era il prodotto dell’interazione tra l’archeologo italiano (cioè l’“indigeno”) e quello straniero che conosce però la lingua italiana (che corrisponderebbe all’“antropologo”). È la comunicazione tra i due che permette a entrambi di cogliere una nuova prospettiva: l’italiano si può rendere conto che quel che lui pensava come un unico suono è in effetti la realizzazione di tre suoni diversi, mentre lo straniero può rendersi conto che tre suoni diversi sono riuniti nel sistema fonologico italiano in un unico fonema (non definiremo di che si tratta, ma possiamo pensarlo come a un suono “teorico” che può assumere diverse forme “concrete”, dette allofoni). La riflessività quindi non è (un po’ come il significato) una qualità che sta dentro la testa delle persone, ma il prodotto di un’interazione sociale, che spesso gli antropologi definiscono dimensione DIALOGICA dell’etnografia. Ma con questo ci siamo definitivamente avvicinati al problema della ricerca sul campo, cioè alla metodologia dell’etnografia.

5. RICERCA SUL CAMPO

Abbiamo visto cosa costituisca l’oggetto della ricerca antropologica, e cioè le reti di significati pubblici che chiamiamo culture. Non abbiamo però detto nulla su come, in pratica, gli antropologi si mettano a studiare queste reti. Il capitolo 3 del manuale, dedicato alla ricerca etnografica, è esaustivo e sufficientemente complesso. Qui ci limiteremo ad alcune riflessioni integrative volte a guidare gli studenti nello svolgimento del loro “esercizio di etnografia”.

L’antropologia culturale (nell’impostazione del manuale che cerco di trasmettermi) è una disciplina che nasce in un’epoca storica (la seconda metà dell’Ottocento) e in una temperie culturale (il positivismo) segnate dall’empirismo, cioè dalla convinzione che la realtà (sociale o naturale) andasse indagata – per produrre conoscenza scientifica – attraverso l’esperienza diretta e la verifica sperimentale. Da questa tradizione epistemologica l’antropologia ha ereditato la forte convinzione (tutt’ora caposaldo della disciplina) che un aspetto fondamentale della professione antropologica fosse la raccolta diretta di dati attraverso la RICERCA SUL CAMPO. Voglio capire come funziona quel sistema politico, o come è organizzata la divisione del lavoro in quella zona, o ancora quali sono le credenze religiose di quel gruppo? Non posso – dice la prospettiva empirista – affidarmi a resoconti di seconda mano (di ufficiali coloniali, missionari, viaggiatori o commercianti) ma devo personalmente raccogliere i dati che serviranno alla mia analisi di quel determinato fatto culturale.

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La ricerca sul campo è stata quindi considerata la forma canonica della raccolta dei dati antropologici. Come il biologo raccoglie i suoi dati nel laboratorio e lo storico compie le sue ricerca in biblioteca o negli archivi, così l’antropologo compie le sue ricerche stando sul campo, condividendo cioè un lungo periodo di tempo (nella tradizione anglosassone almeno un anno) con la popolazione studiata. La descrizione del suo lavoro, i dati raccolti e le analisi del fatto culturale indagato costituiscono l’ETNOGRAFIA di quel particolare caso o fatto antropologico. Sono quindi state fatte etnografie sul sistema religioso dei Nuer, sugli “strani” scambi commerciali dei Trobriandesi, sui giochi rituali dei Tikopiani, e su innumerevoli altri fatti culturali, praticamente in tutto il mondo (con una preferenza fino a tempi recenti per lo studio di comunità di piccole dimensioni, possibilmente “isolate”: quelle che un tempo si chiamavano società primitive).

Se avete presente quel che abbiamo detto sulla natura semiotica della cultura (una rete di significati) e sulla natura sociale e pubblica dei significati (che sono prodotti dall’interazione sociale, e non se ne stanno buoni buoni nella testa delle persone) vi rendete già conto di quanto la ricerca sul campo descritta in questo modo non corrisponda (o corrisponda molto poco) a quel che un antropologo fa effettivamente. I dati (o fatti) antropologici non possono essere “raccolti” proprio perché sono di natura semiotica (sono segni, e quindi prodotti e riprodotti costantemente dai membri della comunità e dall’antropologo che cerca di studiarla). Non posso arrivare sul campo e “raccogliere” il significato del termine “cane”, perché non c’è nessun posto “empirico” dove questo significato se ne starebbe rintanato per farsi scoprire. Come antropologo, posso guardare e ascoltare, posso fare domande e chiedere chiarimenti, confrontare quel che vedo con quel che so, cercare di mettere assieme i pezzi, formulare un’ipotesi interpretativa su quel che vedo, chiedere in giro se la mia ipotesi è corretta, modificare la mia ipotesi in base a quel che di nuovo mi è stato detto, confrontare la mia ipotesi rispetto a quel fatto culturale nel quadro più vasto di altri fatti culturali di quella cultura (per esempio, confrontare il “cane” come “carne preziosa” con il rapporto che quella cultura ha con altri animali). Insomma, tutto quello che posso fare, come antropologo, è cercare di INTERPRETARE quel che vedo, sento, chiedo, vivo, al fine di ricucire la rete di significato indigena che rende comprensibile ai nativi quel particolare fatto culturale. Vista in questa luce, la rilevanza della ricerca sul campo come esperienza diretta dell’antropologo non viene meno, ma ha un senso diverso da quello previsto dal classico modello empirista. Raccogliere i dati “direttamente” era importante perché si temeva che dei non professionisti (missionari, funzionari coloniali eccetera) potessero raccogliere dati “sbagliati”. Ma se ammettiamo che i dati antropologici (i significati culturali) non stanno “lì”, come le mucche o le pietre, ma sono il prodotto dell’interazione interpretativa tra antropologo e persone che appartengono alla cultura che sta

studiando, ecco allora che il problema di accettare dati da fonti indirette è che non sappiamo come quei dati siano stati prodotti, non conosciamo cioè il processo comunicativo che ha prodotto quel dato antropologico. L’antropologo che invece lavora direttamente sul campo dovrebbe essere in grado, attraverso la riflessività e la consapevolezza della dimensione semiotica della cultura, non solo di “arrivare” a quel particolare significato indigeno, ma anche di raccontare qual è stato il percorso che lo ha condotto a quel significato.

In buona sostanza, la ricerca sul campo è il tentativo di capire un punto di vista diverso dal nostro, ma questa è un’operazione che facciamo costantemente. Ogni volta che non siamo completamente isolati in noi stessi dobbiamo affrontare questo problema: il prof oggi mi ha spiegato il concetto di ricerca sul campo. Che voleva dire? La mia amica mi ha detto di aver letto quel libro, e ha detto che è un libro “particolare”. Che significa? Mio padre ha detto che sarebbe ora mi dessi una mossa con gli studi. Vuole che mi laurei presto? E perché mai? Vuole liberarsi di me quanto prima oppure ci tiene a che io divenga una persona autonoma? Cosa voleva dire quel tale sull’autobus, quando ha detto che gli stranieri dovrebbero essere più rispettosi? E quell’anziano che si lamenta che le ragazze oggi sono “spudorate”, a cosa si riferiva? La vita degli esseri umani è un’incessante operazione di interpretazione, e in questo senso la ricerca antropologica somiglia alla vita. La differenza, la specificità che poniamo nella ricerca sul campo è la sistematicità con cui cerchiamo di mantenere consapevolezza dell’impegno interpretativo. Lavorare con persone che parlano una lingua diversa, che praticano usi e costumi “evidentemente” diversi da quelli cui siamo abituati a vedere e praticare, ci costringe a mantenere all’erta i nostri meccanismi interpretativi. Come antropologo, ho il dovere scientifico di rendermi conto del percorso specifico che mi ha portato a produrre quell’interpretazione. Come antropologo, ho poi ulteriori obblighi: devo sempre tendere alla verifica della mia interpretazione comunicando le mie ipotesi (in forme comprensibili per le persone con le quali interagisco) e valutando la reazione che suscitano. È questo il senso della natura INTERSOGGETTIVA dei dati antropologici. Non sono dati oggettivi nel senso che non posso sperare di poterli raccogliere come se fossero funghi in un bosco. Ma non possono neppure essere dati SOGGETTIVI, di cui io sono l’unico produttore e garante, perché così rischio quasi certamente di fornire interpretazioni che non corrispondono per nulla al “punto di vista dei nativi”. I dati antropologici sono intersoggettivi nel senso che non esistevano prima della ricerca sul campo, ma devono avere un qualche senso condiviso per me e per le persone assieme alle quali li ho prodotti.

Un altro punto fondamentale della dimensione scientifica e interpretativa della ricerca antropologica è la capacità di comunicare quei dati al di fuori del gruppo interagendo con il quale sono stati prodotti. Poniamo che io voglia studiare la

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stregoneria in un contesto culturale, e che io sia in grado di entrare a tal punto dentro quella rete semiotica da farla mia, da diventare insomma un “indigeno”. Questo non è fare ricerca antropologica perché se divento un indigeno, e magari divento uno stregone potentissimo, non sarò più interessato a comunicare il mio punto di vista al di fuori della mia comunità di riferimento. L’antropologo – dice Clifford Geertz – non può fare uno studio sulla stregoneria come se fosse un ragioniere (disinteressandosi quindi completamente dei significati nativi, della rete semiotica che produce il senso della stregoneria), ma non può neppure fare uno studio sulla stregoneria come se fosse uno stregone, perché se si rinchiude completamente dentro la sua rete di significati di stregone non consente a chi ne è esterno di comprenderla. L’impegno della ricerca antropologica è quindi quello di tenere collegate e reciprocamente comprensibili diverse reti di significato, quelle indigena e quelle da cui proviene. Come un apripista o uno scout, l’antropologo traccia percorsi mai battuti prima, provando a creare la strada che ci permette di capire chi è diverso senza farlo diventare uguale a noi, ma senza ridurlo a una diversità assolutamente incomprensibile.

L’esercizio di etnografia che vi ho chiesto di comporre si orienta quindi come un primo tentativo esplicito da parte vostra di fare i conti con questa dimensione interpretativa della descrizione e della comunicazione. Se è vero quel che abbiamo detto sui segni (convenzionali e pubblici nel loro significato, cioè prodotti dall’interazione comunicativa, cioè dalla reciproca interpretazione) non può esistere una descrizione oggettiva di alcunché, ma invece una tensione interpretativa di quel che vedo, sento e dico. In altre parole, ogni descrizione non può che essere un’interpretazione, e quindi qualunque etnografia (anche una breve relazione che cerchi di raccontare come una matricola entra all’università, come si interagisce con un datore di lavoro, come si divide la stanza con un compagno invadente, eccetera) è il risultato di un complesso lavoro interpretativo. L’esercizio che vi chiedo è un primo passo per iniziare a riflettere sui meccanismi retorici che vengono messi in atto in queste operazioni di descrizione.

A scanso di equivoci, dire che ogni descrizione dei fatti culturali non può che essere un’interpretazione (dato che i fatti culturali sono di natura semiotica) non significa assolutamente rinunciare alla scientificità della ricerca antropologia. Se per scienza intendiamo lo sforzo costante di produrre conoscenza verificabile e condivisibile, l’antropologia è e vuole essere una disciplina scientifica. Non può però essere una disciplina che si basa sull’epistemologia dell’empirismo stretto, quello per cui la realtà è tutta esterna e basta solo individuare il metodo preciso per raccogliere i dati. Credo che questa prospettiva (che oggi è stata superata anche per le scienze cosiddette “dure” come la fisica e la biologia), se viene imposta come un feticcio, non produca conoscenza scientifica, in quanto non riesce a produrre dati

rilevanti per il progetto dell’antropologia culturale. Se pretendo di studiare una cultura disinteressandomi dei significato indigeno dei segni che vedo, quel che otterrò sarà una serie di segni di cui non so il significato, o cui attribuisco un significato del tutto arbitrario.

L’antropologia è quindi una scienza interpretativa che sa che i suoi fatti sono prodotti nell’interazione tra l’antropologo e i suoi informatori, e tra l’antropologo e le sue competenze. Scrivere cercando di descrivere un fatto culturale è un’operazione creativa senza essere arbitraria, intersoggettiva senza essere bizzarra o frutto del capriccio. È difficile convivere con una strategia di ricerca che non ci tranquillizza rispetto al metodo che dobbiamo usare. Non si sono regole automatiche da applicare nella ricerca antropologica, non ci sono “protocolli” rigorosi per la metodologia. Ci resta come punto di riferimento la volontà di conoscere modi diversi di pensare e vivere: solo tenendo a mente l’obiettivo finale della ricerca antropologica potremo raffinare nella pratica il modo in cui facciamo ricerca.

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GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]1) Le due strade dell’antropologia

L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).

2) L’omogeneiz-zazione culturale e la legittimazione dell’etnocentrismo

Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro” è sbagliata].

3) Claude Lévi-Strauss: l’etnocentrismo è un preservativo necessario

Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?

4) imperméabilité come una via d’uscita tra relativismo e assolutismo

L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss” (p. 75).

5) Richard Rorty: abbiamo bisogno dell’etnocentrismo perché abbiamo bisogno di coesione sociale e solidarietà di comunità

La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.

6) Differenze tra questi due modi di legittimazione dell’etnocentrismo

G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro, non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).

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7) Il vero problema dell’etnocentrismo: soffoca l’immaginazione

Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).

8) Rifiutare l’etnocentrismo significa in prima istanza riconoscere la diversità all’interno delle nostre società

Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello”, immaginare cioè la diversità culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e pervasività diventa evidente

9) Linguaggio, società e rappresentazioni monadiche delle culture

Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.

10) Le culture erano veramente pure e le società veramente omogenee prima della recente ibridazione? Forse Geertz sta esagerando?

In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.

11) Un apologo dalla morale incerta: l’indiano ubriacone e il rene artificiale, ovvero l’incapacità di immaginare l’altro.

Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).

12) Il ruolo dell’etnografia nel “colmare il salto” della diversità (o

Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una

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almeno nel provarci, nell’immaginare le possibilità di riempirlo)

“apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da tempo i professionisti delle mentalità aleiene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).

13) Il sapere etnografico è importante perché il relativismo (che può senz’altro sorgere da quel sapere) è molto meno pericoloso dell’indifferenza alla diversità

Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia , raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di reciproca comprensione tra le diversità.

14) Conclusioni: l’etnografia è al contempo un’esigenza scientifica e morale dei nostri tempi

Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89).

15) Essere attenti al diverso è “innaturale” ma necessario. Un manifesto del sapere socio-antropologico

“Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.

SuntoL’etnocentrismo, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha

acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci è alieno, senza edulcorarlo, renderlo innocuo o liquidarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il sospetto in inimicizia.

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IL SISTEMA DELLE APPARTENENZE

1. LE APPARTENENZE COLLETTIVE

Dopo aver fornito nel primo modulo alcune indicazioni generali sul concetto antropologico di cultura e sul ruolo e le funzioni delle discipline demoetnoantropologiche, questo secondo modulo intende garantire agli studenti anche gli strumenti di base per riflettere attorno a uno dei temi centrali della ricerca e della teoria antropologica. Il tema che ci proponiamo di approfondire è quello delle appartenenze collettive o, come abbiamo detto nel corso delle lezioni, il tema del “noi” e del “voi”. Tutti “noi” (appunto) usiamo frequentemente la prima persona plurale per riferirci a un raggruppamento umano al quale ci sentiamo di appartenere, oppure usiamo il “voi” (e il “loro”) per delimitare invece un raggruppamento del quale non siamo parte. Normalmente, ci rendiamo conto della volatilità di alcune formazioni, per cui se io dico “voi” studenti che frequentate il mio modulo, mi rendo conto che l’aggregato che definisco è alquanto preciso ma insieme transitorio, visto che fra qualche settimana già non esisterà fisicamente più. Ognuno di noi sa inoltre di appartenere a diversi gruppi contemporaneamente (“noi” studenti di questo modulo, ma anche “noi” studentesse e “loro” studenti, “noi” studenti in sede e “loro” studenti fuori sede, “noi” di Conservazione e “voi” di Storia…). Sappiamo inoltre che, a seconda del contesto, possono variare le appartenenze e chi vi fa parte, per cui “noi” studenti del modulo di antropologia per ciascuno di voi non includerà tutti i “noi” amici, o i “noi” bravi giocatori di tennis, o “noi” cultori di hard rock.

L’uomo è un animale sociale e naturalmente gregario. Non esistono culture in cui tutti i membri vivano sistematicamente isolati uno dall’altro, e ci sono delle buone ragioni adattive perché sia così. Come quasi tutti i primati, gli esseri umani dipendono dai loro simili per la sopravvivenza, e il lungo periodo di maturazione fisica e psicologica che intercorre tra la nascita e la capacità di procurarsi da vivere autonomamente dai genitori ha probabilmente selezionato i modelli comportamen-tali più orientati alla cooperazione e alla cura reciproca. Se gli ominidi non avessero sviluppato una particolare cura per la prole e la capacità di cooperare stabilmente con altri adulti difficilmente la nostra specie si sarebbe evoluta.

Quali che siano le ragioni di ordine evolutivo o ecologico, è certo che gli esseri umani sono particolarmente sensibili alla definizione del “loro” gruppo di riferimento. Semplificando di molto una questione che è più complessa, possiamo dire che gli uomini sentono quasi inevitabilmente la necessità di stabilire (a diversi livelli e con diverse intensità) chi sia “dei nostri” e chi invece non lo sia. Con i “nostri” i rapporti tendono a essere più facilmente cooperativi o comunque regolamentati secondo forme canoniche precise, mentre con gli “altri” può essere predominante un modello di interazione competitiva. Ma al di là di queste generalis-

sime indicazioni, quel che più è evidente nei raggruppamenti umani è il fatto che le diverse unità collettive possono essere sia una inclusa nell’altra, sia parzialmente sovrapposte, sia in totale opposizione. Così, a Siena, gli abitanti della contrada della Torre saranno un “noi” separato dal “loro” delle altre contrade, ma tutti assieme saranno il “noi” senesi, eventualmente incluso nel “noi” toscani, a sua volta incluso

nel “noi” italiani. Queste inclusioni a matrioska (una nell’altra) non esauriscono le appartenenze, dato che il “noi” maschi le attraversa tutte (in opposizione al “loro” femmine), oppure il “noi” di sinistra, il “noi” che siamo appassionati di film horror, e così via. Il modello quindi è visualizzabile come nella

grafizzazione qui a fianco. Una serie di “confini” separano sulla base di uno o più criteri quelli che sono inclusi da quelli che sono esclusi.

Questo modello formale delle appartenenze ci pone immediatamente di fronte a due questioni essenziali, che proviamo a formulare nel modo più diretto possibile:

1. Cosa si intende per “criteri” che separano le appartenenze?2. Chi stabilisce i criteri?La prima domanda ci collega direttamente a quanto abbiamo detto sulla natura

semiotica delle culture, dato che i criteri di inclusione ed esclusione sono proprio dei segni, e quindi stabiliti per via culturale. Un gruppo può decidere che sono membri tutti quelli con determinate caratteristiche fisiche (le classificazioni “razziali” sono proprio di questo tipo, e in fin dei conti si potrebbe dire – esagerando appena un po’ – che l’ideologia nazista della razza ariana considera “noi” i biondi, e “loro” tutti gli altri…); oppure coloro che condividono un particolare credo politico o religioso (i musulmani, i cristiani, e al loro interno i sottoraggruppamenti sciiti e sunniti da un alto, cattolici, protestanti e ortodossi dall’altro, a loro volta ulteriormente suddivisi); tutti coloro che hanno una specifica coscienza politica (i comunisti, i fascisti, i liberali, i radicali); o un determinato livello intellettuale o economico (i borghesi, i proletari, gli intellettuali, gli artigiani); una preferenza sessuale (gli eterosessuali, gli omosessuali, i bisessuali); un genere sessuale (i maschi, le femmine, i transessuali); oppure ancora che sono membri tutti coloro che hanno una cultura comune (gli italiani, i francesi, i bretoni, i fiorentini); oppure che abitano un determinato territorio (i britannici, i romagnoli, i padani). Come è chiaro, i criteri per creare delle separazioni sono praticamente infiniti, intanto perché possono essere combinati tra loro (tutti quelli che abitano in Italia, ma che sono di “origine” abruzzese; tutti i maschi proletari di destra; tutti i cattolici omosessuali di sinistra che vivono nel

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Lazio ma sono di origine straniera) e poi – la vera ragione – perché questi criteri sono segni e in quanto tali possono essere prodotti dall’uomo con un grado di libertà elevatissimo.

Il fatto che i criteri di appartenenza e distinzione siano segni ci costringe a considerare le appartenenze come fenomeni essenzialmente semiotici e quindi –attenti bene – ad ammettere che non esiste un modo “oggettivo” per stabilire l’appartenenza di un individuo a questo o quel gruppo, ma solo un modo intersoggettivo di verificare quell’appartenenza. Questo punto è strettamente legato alla seconda domanda che ci siamo posti più sopra, e cioè chi stabilisce i criteri. Se le appartenenze dipendono dai segni che dicono chi è dentro e chi è fuori, chi “dice” quei segni? Possiamo riformulare la domanda in quest’altro modo: fatto salvo che “noi” siamo in grado di dire chi siamo e siamo anche in grado di dire chi sono “loro”, “loro” sono in grado di fare altrettanto? Se “noi” italiani sappiamo chi sono gli “extracomunitari”, siamo certi che il nostro modo di delimitarli (attraverso un criterio semiotico complesso che dovrebbe essere all’incirca “quelli che sono qui ma non sono cittadini europei né tanto meno italiani, e in più vengono da un generico “est” o “sud” del mondo, spesso legati ad attività manuali, a lavori a basso reddito o ad altre attività semilegali o illegali”, tant’è vero che la categorizzazione di “extracomunitario” non si applica ai cittadini statunitensi) coincida con il loro modo di definire se stessi? Ancora più semplicemente: quando definisco un “loro”, quel “loro” accetta la mia definizione? Nel caso degli “extracomunitari” sembra evidente che le due direzioni della definizione (noi che definiamo loro, loro che definiscono se stessi) non coincidano quasi mai. Tutti quelli che “noi” definiamo “extracomunitari” probabilmente si definiscono altrimenti, in base al criterio nazionale (marocchini, filippini) religioso (musulmani, indù) etnico (tamil, berberi) geografico (maghrebini, africani) o altro ancora.

Quel che conta è che inevitabilmente, nella delimitazione delle appartenenze collettive, dobbiamo tener conto di due direzioni semiotiche: una in base alla quale definiamo chi sia dentro (il “noi”) e una in base alla quale stabiliamo come si suddivida ulteriormente tutto il resto (il “loro”).

Immaginiamo lo spazio sociale (l’insieme degli esseri umani) come un piano uniforme costituito da punti che sono i singoli individui. Dato che il piano è praticamente infinito, ogni punto ne può essere considerato il centro, e ognuno di noi si immagina esattamente in quella posizione. Da quel punto centrale, ognuno ritaglia il confine del suo noi (che abbiamo visto può

variare a seconda del contesto: in aula pensate a noi studenti, in palestra pensate a noi del corso avanzato di aerobica, eccetera) e quindi sa dove collocare chi è parte del suo gruppo di riferimento in quel momento. Questo procedimento semiotico si chiama AUTOIDENTIFICAZIONE INTERNA. Assieme a questo processo di identificazione del noi, procedete solitamente a un’ulteriore operazione semiotica, delimitando e dando una forma anche allo spazio “loro”. La suddivisione dello spazio esterno si chiama CATEGORIZZAZIONE ESTERNA.

In parole semplici, vi sarete creati (o, più probabilmente, avrete preso a prestito) dei criteri per definire tutti i “loro”: maschi, ottentotti, extracomunitari, parigini, commissari di Polizia, no global, tabaccai, professori, indiani d’America e italiani d’Argentina). Quel che complica

terribilmente la questione delle identità collettive è che ogni individuo e ogni collettività esegue contemporaneamente queste operazioni semiotiche di autoidentificazione interna e di classificazione esterna, producendo intrecci di appartenenza che possono non solo sovrapporsi solo in parte, ma anche essere direttamente conflittuali per quanto riguarda le diverse delimitazioni. Potrei, ad esempio, aver prodotto un noi che non include il soggetto x, ma quello stesso soggetto potrebbe aver prodotto un noi che invece mi include. Un caso forse a voi noto di questo conflitto tra identificazioni è quello dell’“asfissiante”. Ho ben chiaro chi siano i miei amici, chi i miei semplici conoscenti e chi siano gli estranei. Ho quindi costituito un “noi amici” di cui conosco i confini, e che credo di poter gestire con una certa precisione. C’è però quel tizio (o quella tizia) che non sembra d’accordo: mi cerca, vuole i miei appunti e mi racconta i fatti suoi, mi asfissia, vuole il mio cellulare e pretende che lo stia ad ascoltare nei momenti meno opportuni. Secondo il modello che abbiamo appena presentato, siamo di fronte a rappresentazioni conflittuali del “noi amici”: io non lo/la includo in questo gruppo, mentre lui/lei mi include nel suo. Non ha ovviamente alcun senso chiedersi chi abbia “ragione”, dato che non c’è modo oggettivo di stabilire una relazione come l’amicizia. L’unico modo per risolvere la questione è giungere a un chiarimento, cioè a una negoziazione del significato di “miei amici”, e non è affatto detto che il chiarimento chiarisca alcunché. Se sul piano strettamente personale la faccenda può essere imbarazzante o fastidiosa, una volta trasferita sul piano delle appartenenze di natura più politica la discrepanza tra diverse identificazioni può essere anche molto più problematica. Date le mie origini familiari (anche) venete, mi è capitato di interloquire con persone che pretendevano di farmi sentire parte di un “noi padani”

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che per me è invece una forma di appartenenza che sento completamente estranea alla mia storia personale e alle mie scelte morali e politiche. Cosa fa sì che io non sia padano, se ho tutti i tratti “oggettivi” di questa appartenenza? Non risolviamo il punto adesso (se mai si può risolvere), ma lasciamo che la domanda ci faccia riflettere sul punto centrale, e cioè che per appartenere non basta che qualcuno dica “noi”, perché il suo modo di dire “noi” non è detto che coincida con il nostro.

Stesso discorso vale per la categorizzazione. Il modo in cui io classifico gli “altri” può non coincidere con quello del mio vicino di casa, e la cosa può facilmente creare problemi sia con quelli che classifichiamo (che magari non si riconoscono né nella mia classificazione, né in quella del mio vicino), sia con il vicino stesso, se io penso che il suo modo sia assolutamente errato. Se per lui gli uomini di pelle scura che vendono Cd pirata davanti al supermercato sono “criminali extracomunitari”, mentre per me sono “lavoratori sfruttati dal sistema della globalizzazione”, difficilmente avremo le stesse opinioni su come comportaci nei loro confronti. Ovviamente gli esempi possono essere moltiplicati all’infinito, perché infinite sono le modalità con cui possiamo raggruppare i “nostri” e gli “altri”. Vi invito a pensare qualche altro caso in cui le diverse forme di autoidentificazione e/o di classificazione entrano in conflitto tra loro.

In generale, possiamo dire che l’identità personale e di gruppo è la risultante di due dimensioni di direzione opposta e di forza relativa spesso differente: l’autoidentificazione interna (in astratto, quello che si dice di se stessi. Dal “nostro” punto di vista: quello che noi diciamo di essere. Dal “loro” punto di vista: quello che loro dicono di essere) e la categorizzazione esterna (in astratto, quello che si dice degli altri. Dal “nostro” punto di vista: quello che noi diciamo che loro sono. Dal “loro” punto di vista: quello che loro dicono che noi siamo). Lo spazio politico delle identità si gioca tutto sullo scarto tra queste due dimensioni: una nazione, un gruppo etnico o una minoranza sarà tale solo quando la sua percezione interna di esserlo troverà un riscontro esterno in qualche istituzione che lo riconosca.

Quel che è importante in questo gioco di scatole dell’identità (non sempre scatole cinesi, cioè contenute una nell’altra, ma spesso scatole alternative e su piani diversi) è che ci si renda conto che si tratta di processi semiotici e retorici inevitabili che riguardano qualunque forma di appartenenza collettiva: le identità collettive sono quindi essenzialmente formazioni semiotiche e retoriche (prodotte attraverso i segni e la persuasione, non l’esposizione di appartenenze oggettive) e quindi vanno studiate sotto questa loro dimensione.

2. FAMIGLIA E PARENTELA: INTRODUZIONE

Bene, siamo arrivati a un punto abbastanza sconfortante, dato il nostro bisogno di certezze e garanzie sull’appartenenza. Sembriamo immersi in un quadro sociale in

cui non solo non è chiaro dove siano i nostri e dove collocare gli altri, ma dove addirittura quelli che io considero nostri potrebbero invece non considerami dei loro o, viceversa, dove individui che non voglio facciano parte del mio gruppo premono invece con insistenza per essere inclusi. Tutte le culture umane devono affrontare questo problema, e molte sembrano aver cercato una soluzione in quello che appare un legame ineluttabile, finalmente basato su qualcosa di oggettivo, di certo, e cioè sulla parentela. Che qualcuno pretenda di essere mio sodale in nome di un’amicizia non corrisposta passi pure; che io non trovi un accordo col mio vicino su come giudicare i venditori di Cd taroccati, poco male; ma chi potrebbe mettere in dubbio che io e mia sorella facciamo parte della stessa famiglia; che quel che mi lega a mia cugino è qualcosa di più di un segno o di una negoziazione; che mio nipote appartiene al mio gruppo parentale in modo che non può essere messo in discussione? La parentela, proprio perché ci appare un legame sociale fondato sulla natura, sembra garantirci quel minimo indispensabile e indiscutibile che pretendiamo dal legame sociale. Posso discutere l’appartenenza a tutti i livelli, ma quando si parla di parenti mi sento certo di quel che dico. Posso pure detestare mio padre, mia madre o mio fratello, ma ciò non toglie che la mia relazione con loro è certa e data una volta per tutte. Anzi, posso fare di più: posso costruire la mia rete sociale prendendo proprio quella parentale a modello e punto di riferimento, così chiamerò fratelli i miei correligionari e padri e madri i ministri del mi culto. Sentirò un legame fraterno con quelli della mia nazione (“fratelli d’Italia”), con quelli cioè con cui condivido la “madre” patria. Oppure chiamerò i miei sodali politici con termini che si richiamano all’intimità della famiglia (“camerati”, quelli che condividono la stessa camera) o alla vera amicizia (che è quella “fraterna”, per cui “compagni”).

Ecco allora che la parentela, questa rete di relazioni ovvie e scontate, può permettermi di costruire reti più ampie e complesse, e fungere così da “mattone” della società.

Questa, in sostanza, la ragione per cui gli antropologi si sono interessanti così tanto e fin da subito di questa dimensione della vita sociale. Gli studi della parentela dovevano garantire alla “scienza dell’uomo” quel fondamento naturale che rendesse comprensibili le motivazioni che spingono gli uomini a vivere in aggregati complessi. In realtà, la ricerca sul campo (il tentativo cioè di individuare le basi naturali della convivenza) ha prodotto un effetto paradossale. Partiti per documentare la base naturale della vita sociale, gli antropologi sono tornati “dal campo” con una tale varietà di dati e sistemi di parentela da trovarsi inevitabilmente a mettere in discussione proprio quella naturalità che andavano cercando. Hanno infatti scoperto che, a seconda del sistema di parentela in vigore in una determinata cultura, il padre poteva essere considerato più il marito della madre (e quindi un

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parente “non di sangue”, che chiamiamo “affine”)1 piuttosto che un parente vero e proprio. Oppure che alcuni cugini potevano essere del tutto assimilati ai fratelli, e quindi assolutamente vietati per il matrimonio, mentre altri potevano essere considerati i partner ideali per una relazione matrimoniale. Sempre facendo ricerca sul campo, gli antropologi hanno potuto verificare che il nostro modello di “famiglia” non è universale, e che quindi qualunque tentativo di considerare la società come un’estensione della famiglia si scontrava con la varietà empirica di questo raggruppamento di base.

Per poter entrare nei meandri della parentela, partiremo quindi dalla famiglia intesa come aggregato di persone tramite uno o più vincoli matrimoniali.

FAMIGLIA E MATRIMONIO

Quanto diremo in questo paragrafo è sostanzialmente descrittivo, e non comporta particolari difficoltà. Se si vuole, la vera difficoltà non sta tanto nel descrivere i diversi tipi di famiglia o i diversi tipi di matrimonio, quanto nel fornire una definizione astratta per queste due istituzioni. Cioè, mentre è abbastanza facile raccontare la differenza tra famiglia nucleare e famiglia estesa o congiunta, oppure tra matrimonio monogamico e poligamico, gli antropologi sono in seria difficoltà quando devono definire cosa sia una famiglia o cosa sia un matrimonio.

Cominciamo con il dire che in tutte le società ci sono una serie di attività riconducibili alla sfera “privata”, cioè ad uno spazio fisico chiaramente delimitato, che possiamo chiamare “la sfera domestica”. Tra le attività che spesso si compiono entro questa sfera ci sono: preparazione e consumo del cibo, riposo e attività sessuali, pulizia personale, cura della prole. Non tutte queste attività sono attuate in tutte le culture in quella che abbiamo chiamato la “sfera domestica”, ad esempio a volte il cibo è prodotto o consumato fuori, o l’attività sessuale si pratica fuori, o la cura dei bimbi è affidata ad istituzioni esterne alla “famiglia”. Ecco, ci stiamo avvicinando ad una possibile definizione della famiglia se siamo disposti ad accettare una definizione funzionale, per cui consideriamo famiglia quell’istituzione attraverso la quale vengono di solito espletati gli aspetti basilari di quattro funzioni: 1) sesso; 2) riproduzione; 3) educazione; 4) sussistenza.

1 Dentro il grande contenitore della “parentela” la lingua e la pratica italiana distinguono quelli che

sono considerati parenti “di sangue” dai parenti “acquisiti”. I primi sono legati a noi direttamente (vedremo in che modo) mentre gli affini sono legati a noi tramite un vincolo matrimoniale. Sono parenti, tipicamente, i cugini primi, mentre sono affini i cognati (marito della sorella o fratello della moglie). Utilizziamo la stessa distinzione quando parliamo di “zii carnali” (fratelli dei genitori) e “zii acquisiti” (i coniugi dei fratelli dei genitori).

TIPI DI FAMIGLIE

Famiglia nucleare monogamica e sue variazioni

Partiamo da quella che a noi pare la famiglia “normale”: due genitori di sesso diverso e i loro eventuali figli. Chiamiamo questa famiglia nucleare, e notiamo subito che è composta di due sole generazioni. Vediamo anche che non tutte le funzioni che abbiamo indicato sono espletate da questo tipo di famiglia, per esempio nella nostra società gran parte dell’istruzione avviene al di fuori (asilo d’infanzia e scuola), mentre è vero che una buona parte della sussistenza (almeno nella forma del consumo del cibo) si attua entro la famiglia. Ci sono numerosi esempi di famiglie nucleari con funzioni sostanzialmente diverse da quelle che noi attribuiamo alla nostra. È comune per esempio che i figli maschi di una famiglia fin da tenera età si riuniscano fuori con altri coetanei e passino sempre più tempo tra di loro, fino al punto di costruire abitazioni proprie. Il raggruppamento di membri appartenenti a famiglie diverse può essere fatto su base generazionale, per cui tutti i membri della stessa CLASSE DI ETÀ (un gruppo di persone, spesso non esattamente della stessa età cronologica, ma considerato tale per ragioni rituali o funzionali: i membri della stessa CDE faranno per esempio il rituale di passaggio all’età adulta nello stesso momento, oppure parteciperanno assieme alla prima spedizione di guerra, o alla prima impresa commerciale) possono vivere nella stessa casa o costruirsi uno spazio comune. Altre volte la separazione è effettuata in base al sesso, per cui saranno i maschi a vivere tutti assieme in una casa separata (detta CASA DEGLI UOMINI). È quest’ultimo il caso dei Fur del Sudan. In questi casi la famiglia nucleare esiste solo nel senso che il marito visita la moglie senza alcuna regolarità (diciamo che la sera non deve tornare a casa necessariamente, tutt’altro), mentre questa vive coi figli. I maschi in questo caso mangiano nella casa degli uomini. Un altro esempio interessante di separazione tra cibo e famiglia si ha con gli Ashanti del Ghana. Anche se dormono sotto lo stesso tetto con le mogli, gli uomini di solito mangiano (per ragioni che vedremo in dettaglio quando parleremo della parentela) con le madri, le sorelle e con i figli di queste, anche se il cibo è preparato dalle mogli. Così alla sera i villaggi Ashanti sono tutto un viavai di bambini che portano il cibo dalle case delle loro madri a quelle delle sorelle del padre. Sembra una pazzia, ma vedrete che non appena saprete cos’è un sistema di discendenza matrilineare tutto questo non vi sembrerà più così assurdo.

Una versione ancora più strana della famiglia nucleare si ha nel caso dei Nayar del Kerala (India meridionale) in cui marito e moglie non vivono mai assieme (ognuno vive coi rispettivi fratelli) e si incontrano solo quando lo sposo visita la sposa durante la notte per tornare comunque alla “sua” casa prima dell’alba.

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Ma le famiglie nucleari monogamiche sono ancora sufficientemente “normali”, rispetto ad altre forme di convivenza domestica.

Famiglia poligamica

Nel caso in cui una società consenta matrimoni plurimi (attenzione: non abbiamo ancora definito cosa intendiamo per matrimonio, ma ci arriveremo), viene definita in generale poligamica, con due sottotipi: poliginica quando è l’uomo a potere avere più mogli, poliandrica quando è la moglie a poter avere più mariti, o anche poliginandrica quando sia uomini che donne possono avere più di un partner. Vediamo questi tipi di famiglie poligamiche un po’ più in dettaglio.

poliginia

Secondo alcune fonti, la maggioranza delle culture accetterebbe una qualche forma di poliginia, il fatto cioè che un uomo possa avere rapporti sessuali, affettivi, e di cooperazione nel trattare eventuale prole, legittimi (se non legali) con più di una donna contemporaneamente. Non ci soffermiamo a lungo su questo tipo di famiglia perché è nota anche ai non esperti per il fatto che è presente nel mondo musulmano.

poliandria

Tra i tre tipi di base (monogamia, poliginia e poliandria) è quello più raro, e per molti decenni è stato considerato un’assoluta eccentricità etnografica: il fatto che una donna potesse legittimamente concedere i propri favori sessuali a più uomini non deve aver attratto moltissimo i baffuti antenati fondatori della nostra disciplina. Per fortuna, studi recenti hanno dimostrato che la poliandria, anche se è certamente un modello matrimoniale raro, non è così eccezionale come si pensava. Ci si è resi soprattutto conto che studiare un po’ più in dettaglio la poliandria ci permette di capire un po’ di più e meglio come funzionano gli altri tipi di rapporto matrimoniale. Vediamo dunque un po’ più da vicino tre sottotipi di poliandria:

1) poliandria fraterna. È il caso più conosciuto attestato in Nepal e Tibet, dove un gruppo di fratelli sposa un’unica donna. Di solito è solo il fratello maggiore a celebrare fisicamente il rituale del matrimonio, ma la sposa va a vivere nella casa condivisa da tutti i fratelli, i quali hanno gli stessi diritti sulle prestazioni sessuali della donna. Se la donna non ha figli non è raro che i fratelli prendano come ulteriore sposa la sorella di questa (POLIGINIA SORORALE). Interessante il caso dei Nyinba del Nepal, che pur praticando questo tipo di poliandria cercano di mantenere distinta la paternità di ogni figlio. Cioè i fratelli, controllando gli accessi alla moglie, cercano di sapere chi sia il padre di ogni bambino.

2) poliandria associata. In questo caso la donna può sposare uomini che non sono tra di loro fratelli. Sebbene si pensi che fosse un tempo praticata in certe zone del Pacifico e tra alcune popolazioni indigene americane (Nord e Sud), il caso etnografico più chiaramente documentato è quello dello Sri Lanka, dove una donna può avere fino a due mariti (non di più). In questo caso una coppia inizia come monogamica, e poi un secondo marito può associarsi, marito che rimane in posizione subordinata rispetto al primo. Eventualmente, una seconda donna (spesso sorella della prima, ancora poliginia sororale) può venire sposata dal terzetto dando così vita ad una famiglia insieme poliandrica e poliginica, poliginandrica, appunto.

Se ora guardate a questi due tipi di famiglia poliandrica dal punto di vista dei legami che il matrimonio permette di attuare tra la famiglia dello sposo e quella della sposa, capite bene che la poliandria, soprattutto quando è accompagnata dalla poliginia sororale, restringe gli spazi per l’alleanza. Niente panico e seguitemi: fate finta (vedrete che in molti casi è proprio così) che ogni matrimonio sia un’alleanza tra due famiglie, quella dello sposo e quella della sposa. Se la famiglia A e la famiglia B decidono per qualche ragione (economica, politica, militare) di allearsi e cooperare, il modo migliore per farlo (cioè quello che gli esseri umani hanno sempre teso a fare) è quello di creare un legame di matrimonio tra le due famiglie: una famiglia ci mette lo sposo, l’altra ci mette la sposa. Immaginate che la famiglia A abbia quattro figli maschi: se questi si sposano quattro donne diverse la famiglia A ha la possibilità di creare quattro reti di alleanze, con le famiglie B, C, D, E, da cui provengono le mogli. Ma se i quattro fratelli, come nel caso della poliandria fraterna del Nepal, sposano tutti la stessa donna è chiaro che la rete di alleanze diventa meno fitta, anche se ovviamente si intensifica perché tutti e quattro gli uomini hanno contratto un’alleanza diretta con la famiglia della sposa. Vediamo ora come un terzo tipo di matrimonio poliandrico provochi un fenomeno opposto.

3) matrimonio secondario. Si riscontra solo in Nigeria e Camerun settentrionale. La coppia si sposa, e se cessa di vivere assieme non per questo cessa di “essere sposata”. Ciò significa che uno dei due partner (p.e. la donna) può andarsene dalla casa del marito e sposarsi (matrimonio secondario) con un altro uomo senza per questo perdere i diritti rispetto al primo marito, dal quale può ad esempio tornare per avere un figlio che viene considerato del tutto “legittimo” (di nuovo: ci stiamo impegolando sul matrimonio più del dovuto, abbiate pazienza e appena avremo finito questa tipologia della famiglia parleremo a lungo del matrimonio). Insomma in questo caso sia uomini che donne sono poligamici, ma lo sono in successione cronologica reversibile le donne, mentre lo possono essere in sincronia gli uomini, cioè la donna vive con un uomo alla volta, e può tornare “indietro” da un marito precedente senza perdere i diritti di moglie, mentre l’uomo può vivere con più di una moglie contemporaneamente. In questo caso è evidente che si assiste ad una

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proliferazione delle alleanze, visto che una persona può essere legata tramite matrimonio a diverse famiglie (una per ogni partner), senza che il nuovo matrimonio annulli i precedenti. Se volete, in questo tipo di famiglia non esiste il concetto di divorzio ma la monogamia non è prescrittiva.

Questa insistenza sulla poliandria non è priva di scopo, dal mio punto di vista. Serviva per introdurre il tema che ci porterà al matrimonio, e cioè il rapporto che c’è tra sessualità e riproduzione. Tutte le società umane sembrano in grado di distinguere per i maschi le prestazioni sessuali dalla capacità riproduttiva, mentre questa distinzione sembra avvenire con maggiori difficoltà per quanto riguarda le donne. Cioè, le famiglie poliginiche sembrano ammettere implicitamente che per gli uomini ci può essere sessualità fuori dalla riproduzione, mentre per le donne questo tipo di sessualità slegato dalla riproduzione è in qualche modo pericoloso e va in tutti i modi evitato, legando la donna ad un unico uomo, con il quale è legittimata ad avere rapporti sessuali. Nei casi di poliandria invece sembra riconosciuto alla donna il diritto alla sessualità separato dalla funzione riproduttiva: i Nyinba distinguono chiaramente chi è il padre di ogni bambino, pur permettendo a tutti i fratelli accesso sessuale alla donna. Che vuol dire questo? Forse che la poliandria è rara perché gli uomini (i maschi) fanno fatica ad accettare questa separazione tra sessualità e capacità riproduttiva per le donne? Oppure la sua rarità dipende dal fatto che la poliandria fraterna e quella associata tendono a ridurre l’estensione delle alleanze? Eppure il caso dei matrimoni secondari della Nigeria e del Camerun ci dovrebbero suggerire che non sempre la poliandria coincide con un’intensificazione dell’alleanza, e può anzi portare alla proliferazione delle alleanze. C’è insomma un nodo antropologico interessante dietro la stranezza e la rarità della poliandria, un nodo che ha a che fare certo con limitazioni di tipo “strutturale” cioè di ordine produttivo ed ecologico, ma non c’è dubbio che quelle limitazioni sono a loro volta conseguenze di come la sessualità maschile è vissuta e percepita da coloro che detengono il potere (che sono spesso maschi).

famiglie estese e congiunte

Si chiamano così quelle famiglie in cui (indipendentemente dal tipo di matrimonio sul quale si basano) convivono persone legate da rapporti parentali che travalicano quelli genitori/figli. Se immaginate la relazione tra genitori e figli come una relazione di tipo verticale (il tempo scorre dall’alto al basso, diamo qui indicazioni sui primi rudimenti della grafica della parentela: maschio, femmina, relazione orizzontale Sibling, relazione verticale Teknon/Genitor, relazione orizzontale Coniuge) allora la famiglia nucleare si può immaginare come espandibile in verticale (famiglia verticale estesa) oppure in senso orizzontale (famiglia congiunta).

Notare che non tutti gli antropologi distinguono tra famiglia verticale e famiglia congiunta, e parlano semplicemente di famiglia estesa, quando è più vasta della famiglia nucleare.

famiglie matrifocali

Sono le famiglie in cui il padre è assente. Spesso la madre può vivere da sola coi figli, ed avere una serie di uomini come compagni. Potete intuire da soli che questo tipo di famiglia, essendo priva del maschio, per lungo tempo è stata considerata un’eccezione patologica. Oggi invece la si studia con attenzione, e i migliori casi etnografici documentati provengono dalle Indie Occidentali, dall’America Latina e tra le donne afroamericane delle grandi città degli Stati Uniti. Le famiglie matrifocali possono essere composte da madre e figli solamente, oppure possono essere estese verticalmente (madre della madre) o congiunte (due o più sorelle coi rispettivi figli) o entrambe le cose (sorelle con figli, più la loro madre). In questi gruppi famigliari gli uomini adulti rivestono ruoli marginali come visitatori o amanti, ma non risiedono con le donne. Come vedremo quando parleremo dei modelli di residenza, le famiglie matrifocali hanno una relazione con il modello di residenza matrilocale, ma non coincidono perfettamente con questo.

IL MATRIMONIO

Abbiamo finora parlato dei tipi di famiglie suddividendole anche in base al tipo di matrimonio sul quale si basano (mono- o poligamico, p.e.), ma non abbiamo definito cosa il matrimonio sia. La ragione è che trovare una definizione generale di matrimonio è un’impresa pressoché disperata, e si troveranno sempre delle eccezioni. Il matrimonio è una di quelle classiche istituzioni che sembrano universali, ma che poi hanno talmente tante idiosincrasie locali che risulta ardua una generalizzazione efficace. Emily Schultz lo definisce così: “Il matrimonio prototipico 1) trasforma lo status di un uomo e di una donna, 2) stabilisce il grado di accesso sessuale reciproco dei coniugi, che varia dall’esclusività alla preferenza, 3) istituisce la legittimità dei figli nati dalla moglie e 4) crea relazioni tra i parenti del marito e quelli della moglie.

Questa definizione, per quanto possa apparire vaga e quindi applicabile generalmente, ha alcune notevoli limitazioni. La principale è quella di non considerare unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso. Non si tratta di essere politically correct, ma di dare un’adeguata rappresentazione etnografica dell’estrema varietà delle culture umane sotto questo punto di vista. Evans-Pritchard (uno dei più famosi antropologi sociali britannici) studiò negli anni Trenta i Nuer del Sudan meridionale. Tra di loro, quando una donna non riusciva ad avere figli era piuttosto normale che lasciasse il marito e si sposasse con un’altra donna, diventando “padre”

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dei figli che questa avrebbe generato grazie alle prestazioni sessuali di un fratello o di un amico o di un vicino della “donna-padre”. Il matrimonio era perfettamente legale. Ancora più bizzarra tra i Nuer era un’altra usanza detta “matrimonio con uno spettro”. Se un uomo moriva senza lasciare figli, il suo spirito tormentava i suoi parenti. Uno di loro (spesso un fratello) si prendeva carico della cosa sposando una donna “in nome del morto”. I figli nati dall’unione erano a tutti gli effetti legali figli del morto. Neanche a dirlo, il marito putativo aveva ben poche occasioni di sposarsi per conto suo (non a nome del morto) e quindi finiva per morire senza lasciare figli (dato che quelli che lui aveva contribuito a generare erano in realtà figli del morto). Diventava quindi a sua volta uno spettro che tormentava i suoi parenti e l’istituzione del matrimonio con lo spettro si perpetuava “da un morto all’altro”.

Per ovviare a questo tipo di strane unioni matrimoniali che a fatica verrebbero comprese nella definizione data da Schultz, Kathleen Gough ha fornito questa definizione alternativa del matrimonio:

“Il matrimonio è un legame stabilito tra una donna e una o più persone e consente che a un bambino, nato dalla donna in circostanze non proibite dalle leggi che governano il rapporto, siano riconosciuti i pieni diritti della sua condizione di nascita, comuni ai normali membri della società o del livello sociale del neonato/neonata”. Questa definizione non fa alcun accenno ai diritti e doveri sessuali (punto due della definizione di Schultz) perché ha in mente il caso dei Nayar del Kerala (India meridionale), le cui donne non avevano certo particolari obblighi verso il marito rituale al quale andavano in spose (marito che non viveva mai con la moglie, se vi ricordate), che poteva anche non accoppiarsi mai con la moglie, ma che erano comunque forzate socialmente a iniziare l’attività riproduttiva (ad avere figli) solo dopo che il matrimonio era stato celebrato. Insomma, tra i Nayar non aveva nessuna importanza chi fosse il GENITORE biologico dei figli, e neppure chi fosse il PADRE legale (torneremo diffusamente sulla differenza tra genitore e padre quando parleremo della parentela, anche se potete già intuire che il genitore è quello che fisicamente ha fecondato la donna, mentre padre è quello che ha responsabilità giuridiche, diritti e doveri verso la prole: non sempre le due figure coincidono), dato che i figli crescevano con la madre e i parenti di lei, ma la madre era comunque costretta a sposarsi prima di potere avere figli. La definizione della Gough parla di legame tra “una donna e una o più persone” perché pensa al caso dei Nuer che abbiamo appena visto (altro caso tipico, ancora africano, è nel Dahomey), ma così lascia fuori le unioni legali tra due maschi (in Africa tra gli Nzema del Ghana, studiati negli anni Sessanta e Settanta dalla missione etnologica dell’università di Roma) come nel caso dei maschi Kwakiutl, che possono sposare il figlio maschio di un capo per ereditarne i privilegi (e se il capo non ha figli, possono sposare una gamba del capo, o un suo braccio).

Harris, di fronte all’evidente impossibilità di dare una definizione universale di matrimonio, ne dà se volete una statistica, basandosi su quel che lui considera essenziale dal punto di vista etico: “matrimonio significa l’insieme di sentimenti, comportamenti e regole riguardanti unioni di convivenza eterosessuale e la riproduzione in ambiti domestici” (p.139). Piuttosto insoddisfacente come definizione (lascia fuori tutti i matrimoni omosessuali, e lascia fuori anche il matrimonio Nayar, visto che parla di “unioni di convivenza” cosa che non avviene tra di loro), ma ha il vantaggio di costituire la base per definizioni modulari, per cui il matrimonio Nayar sarà “matrimonio tra non-conviventi” e quello tra donne Nuer sarà “matrimonio donna-donna”.

Funzioni del matrimonio

Bisogna ora guardare alle FUNZIONI del matrimonio, cioè a quel che il matrimonio fa a livello sociale. Ancora una volta, non è possibile generalizzare se non nel senso che il matrimonio sembra il punto sociale in cui si intersecano due mondi di interessi spesso divergenti se non in aperto conflitto: da un lato la necessità di perpetuarsi come individui o come gruppi (il problema della DISCENDENZA, se volete) e dall’altro la necessità di fare il modo che il proprio gruppo di riferimento non sia isolato (il problema dell’ALLEANZA). Il matrimonio permette di tentare di trovare una soluzione ad entrambi questi problemi: da un lato garantisce una forma istituzionalizzata attraverso cui le persone si riproducono e quindi garantisce una continuità al gruppo cui la persona sente di appartenere, ma dall’altro crea dei legami tra i gruppi delle persone che si sposano. Tutta la questione delle funzioni del matrimonio si può vedere come il tentativo della specie umana di rispondere culturalmente a questo duplice problema: come posso riprodurre il mio gruppo e come posso fare il modo che il mio gruppo non sia isolato? A seconda delle culture (e a seconda degli antropologi che studiano), si possono quindi avere due prospettive distinte: secondo la prima il matrimonio è un mezzo per perpetuare il proprio gruppo, secondo la seconda i membri del gruppo sono “pedine” spendibili in matrimoni che garantiscano alleanze vantaggiose. Nel primo caso dunque il matrimonio è il mezzo per procurarsi degli eredi, nel secondo gli eredi sono un mezzo per procurarsi alleanze. Inutile aggiungere che le due prospettive non sono in totale contraddizione, e che anzi il problema di ogni cultura consisterà nel far quadrare al meglio possibile la discendenza e l’alleanza.

A seconda di come venga concepita la parentela, è ovvio che la risposta sarà diversa. Rimangono però alcune funzioni generali che possiamo cercare di elaborare molto liberamente prendendole da Edmund Leach (altro grande antropologo britannico, scomparso nel 1989).

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Ci sono diverse sfere su cui il matrimonio può intervenire:1) sfera della discendenza: il matrimonio consente il controllo sulle prestazioni

sessuali del partner, garantisce chi sia il padre o la madre legale dei figli e determina uno stanziamento economico per i figli (allevamento ed eredità).

2) sfera dell’alleanza: il questo caso il matrimonio lega i due gruppi di provenienza degli sposi in diversi modi: può consentire il controllo economico di un partner (e della sua famiglia) sui beni dell’altro o sulle sue capacità lavorative.

Sia che si tratti della sfera della discendenza, sia che sia quella dell’alleanza, vediamo dunque che il matrimonio riveste importanti funzioni economiche, tanto è vero che in moltissime società esso è percepito e rappresentato più come uno scambio tra gruppi che un contratto tra individui.

Per ragioni che non sono mai state ben chiarite dagli antropologi, ma che dipendono probabilmente dalla biologia di base della specie umana, nelle società umane di cui si ha conoscenza certa (sia storica, sia etnografica) sono sempre i maschi ad esercitare il controllo. Non è questo il momento per dilungarsi su questo delicatissimo punto, che richiederebbe una trattazione a parte, e per ora vi dovrete accontentare del fatto che nelle società umane sono gli uomini “a comandare”. Questo aspetto specifico e (a quel che si sa) universale delle culture umane ha fatto sì che il matrimonio venisse concepito come una forma di scambio tra gruppi in cui sono le donne ad essere scambiate. Cioè il matrimonio è stato spesso pensato come lo scambio di donne in cambio di qualche cosa. Ora capite che lo scambio dipenderà dal “valore” attribuito alle donne in quella particolare società. Se si pensa che la donna abbia un alto valore (in quanto la si considera indispensabile per certi tipi di lavoro, per esempio) sarà normale che il controvalore dello scambio sarà altrettanto elevato. In questi casi il gruppo che prende la donna (per darla in isposa a un suo membro) sarà disposto a pagare quel che in termine tecnico si chiama RICCHEZZA-DELLA-SPOSA. Ovviamente non si tratta (almeno quasi mai) di un acquisto in senso mercantile, prima di tutto per il fatto che nelle società dove si paga la ricchezza della sposa è raro che il pagamento venga fatto in denaro e poi perché anche se di acquisto si trattasse, è sempre acquisto di alcuni particolari aspetti della donna (della sua forza lavoro, o della sua capacità riproduttiva) e mai della sua persona. In molti casi in cui si paga la ricchezza della sposa la donna conserva una buona autonomia e forti legami con il suo gruppo di provenienza. Probabilmente la ricchezza della sposa è una forma di scambio comune nelle situazioni produttivamente in espansione: ogni gruppo sente la necessità di doversi espandere (non c’è il problema di intaccare la portata ambientale) e quindi ha bisogno di riprodursi e di intensificare la produzione: una donna in arrivo può garantire entrambe le cose, e quindi il gruppo da cui proviene dovrà essere adeguatamente compensato.

Se invece i gruppi non hanno bisogno o interesse di espandersi numericamente e in termini di produzione, le donne possono essere poco più che un peso, e quindi sarà la famiglia (il gruppo, ho detto finora, e vedremo tra poco perché) dello sposo a pretendere un risarcimento per doversi accollare il sostentamento di una persona in più. In questo caso il gruppo della sposa la invia allo sposo con un carico di beni detto DOTE, sul quale non mi soffermo perché sapete tutti cosa sia, anche se l’usanza della dote è sempre meno frequente.

Il punto che volevo sottolineare è che il matrimonio dal punto di vista etnografico è meglio rappresentato come una forma di scambio tra gruppi che garantisce la perpetuazione degli stessi, piuttosto che un legame tra due singole persone, e questo scambio interseca su di sé funzioni economiche e sociali importantissime. Vediamo ora un po’ meglio quali sono i gruppi che si scambiano le donne, e perché.

incesto

In tutte le società umane esistono delle regole piuttosto chiare su chi uno possa e non si possa sposare. Normalmente è vietato il matrimonio con membri dello stesso gruppo domestico (della stessa “famiglia”) e non si conoscono culture in cui possa essere legalizzata (se non in casi demograficamente eccezionali) l’unione tra genitori e figli (madre e figlio; padre e figlia). Sul matrimonio tra fratello e sorella ci sono più eccezioni, ma in generale è statisticamente vero dire che non ci sposa entro la famiglia nucleare. Molte società però vanno oltre e proibiscono l’accesso matrimoniale a tutti i membri di una determinata classe, un po’ come se tutti quelli che si chiamano con lo stesso cognome non potessero sposarsi tra di loro. Questi tipi di gruppi, i cui membri possono avere rapporti di tipo lavorativo, rituale o quant’altro molto stretti, ma che non si possono sposare tra di loro, sono detti gruppi ESOGAMICI. Molte volte interi villaggi possono essere esogamici, e quasi sempre le bande nomadi di cacciatori e raccoglitori sono esogamiche.

Come può impedire di sposarsi entro un determinato gruppo, così una cultura può obbligare a scegliere il proprio partner entro un determinato gruppo. Per riprendere l’esempio dei cognomi, come se ci fosse una legge che obbliga ciascuno a sposarsi solo con una persona che porti lo stesso cognome. In questo caso, il gruppo che ha lo stesso cognome è detto ENDOGAMICO, perché attua il matrimonio al suo interno. Un caso tipico è quello dell’endogamia di villaggio.

Endogamia ed esogamia sono quindi sempre termini relativi, si è endogamici rispetto ad un gruppo ma si può essere esogamici rispetto ad un altro. Per esempio: posso essere costretto a sposarmi al di fuori del gruppo dei miei “parenti”, gruppo che chiamiamo LIGNAGGIO (non lo definiamo per ora, e fingiamo che sia il gruppo di tutti i miei parenti), ma al contempo posso essere obbligato a sposarmi entro i

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confini del villaggio. Avremo quindi in questo caso un’esogamia di lignaggio e un’endogamia di villaggio.

La violazione dell’esogamia di base rispetto al proprio nucleo famigliare o parentale è definita INCESTO, e tutte le culture umane lo sanzionano in una qualche misura. Il paradosso del divieto dell’incesto è che mette in movimento le donne e il matrimonio, e l’alleanza, e le questioni economiche ad essa associate. Non sarebbe tutto più semplice se ogni famiglia si riproducesse al suo interno, per così dire, se cioè fratelli e sorelle si sposassero tra di loro e perpetuassero il gruppo da cui provengono? Insomma, non sarebbe tutto più semplice se non ci fosse il divieto dell’incesto?

Certo, sarebbe tutto più semplice, tanto più semplice che probabilmente non ci sarebbero neppure più esseri umani. La complicatezza che il tabù dell’incesto mette in moto è quel che fa stare in piedi le società umane, visto che la necessità di procurarsi le donne al di fuori del proprio gruppo spinge alla cooperazione e alla reciprocità con altri gruppi, verso i quali invece si tenderebbe ad essere in pura competizione. Sapendo invece che da quel gruppo dovrò trovare le mogli per i miei figli, è probabile che cerchi qualche modo di convivenza pacifica, se non proprio di collaborazione. Gli antropologi riassumono questa ragione elementare del tabù dell’incesto con la frase: meglio sposarsi fuori (dal proprio gruppo) che essere fatti fuori (dai membri dei gruppi rivali).

Ci sono anche delle ragioni più direttamente adattive che possono aver spinto ad una selezione culturale adattiva del tabù dell’incesto (per cui avevano più probabilità di sopravvivere quei gruppi che scambiavano le donne con altri gruppi rispetto ai gruppi che si riproducevano al loro interno). Per gruppi piccoli, attorno alla cinquantina di persone, come dovevano essere le bande di ominidi e di primi uomini, è molto pericoloso fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità riproduttive, perché basta una lievissima variazione del rapporto maschi/femmine per mettere il gruppo a rischio di estinzione. Da studi di etnodemografia pare che il gruppo medio di riproduzione debba aggirarsi sulle 500 unità, ben al di sopra della dimensione della banda di cacciatori. Se ogni banda era composta di una quarantina di individui, bisogna pensare che ognuna avesse qualche tipo di rapporto con un’altra dozzina, per garantire la sopravvivenza demografica. Quindi non è improbabile che il tabù dell’incesto (non sposare le tue sorelle o tua madre) abbia favorito in termini demografici quei gruppi che lo praticavano.

2.2. TERMINI DI BASE

Partiamo da qualche semplice definizione.PARENTELA: è l’insieme delle relazioni sociali conseguenti al riconoscimento

(culturalmente specifico) dei legami dovuti alla comune discendenza e al

matrimonio. Normalmente gli antropologi trovano utile distinguere tra CONSAGUINEITÀ, in cui vengono comprese le relazioni parentali tramite comune discendenza, e AFFINITÀ, che riguarda invece la parentela conseguita tramite matrimonio.

PARENTELA COGNATICA. In questo caso un individuo ricostruisce la sua rete di parenti attraverso i maschi e o le femmine con diversi criteri (che vedremo).

DISCENDENZA UNILINEARE: solo uno dei sessi è considerato pertinente per determinare l’appartenenza di un individuo ad un gruppo. La consanguineità passa quindi solo attraverso un sesso, che è considerato fertile rispetto al gruppo: solo i maschi/le femmine sono produttivi per il proprio gruppo, i membri dell’altro sesso saranno utili per la produzione di figli del gruppo del loro partner.

ESOGAMIA: Regola che stabilisce l’obbligo di sposarsi al di fuori di un determinato gruppo, stabilito da quella particolare cultura.

ENDOGAMIA: Regola che stabilisce l’obbligo di sposarsi all’interno di un determinato gruppo, stabilito da quella particolare cultura.

Endogamia e esogamia sono termini sempre relativi e contestuali, e vanno definiti di volta in volta i contesti di applicazione. Un gruppo può praticare l’esogamia a un certo livello (vietando per esempio il matrimonio tra “fratelli”) e l’endogamia a un altro livello (obbligando a cercare il partner entro il villaggio). Esempi ulteriori chiariranno questo duplice concetto.

TABU DELL’INCESTO: forma minima della regola esogamica, presente in tutti i gruppi umani. In tutte le culture abbiamo testimonianza di questo dato di fatto: non ci si può sposare con chiunque. Esiste ciò sempre almeno una regola minima che ci dice: scegli chi ti pare, ma non puoi sposarti con questo gruppo di persone. In molti casi, ci sono restrizioni precise anche sul “chi ti pare”, ma comunque esiste sempre un nucleo di individui con i quali il matrimonio è comunque vietato. Normalmente questi individui includono gli antecedenti, i discendenti e codiscendenti diretti, per cui non ci si può sposare con il padre, la madre, il figlio, la figlia, il fratello la sorella.

2.3. I GRUPPI DI PARENTELA

I gruppi di parentela si distinguono essenzialmente per due variabili che possiamo tradurre in due domande: Reclutano i loro membri tramite entrambi i sessi (gruppi COGNATICI) oppure

attraverso un solo sesso (gruppi UNILINEARI)? Si strutturano attorno a un ego specifico (sistemi EGO-FOCUS) o a partire da un

antenato (ANCESTOR-FOCUS)?

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Prima di vedere la relazione sistematica tra queste due variabili, è necessario fornire delle definizioni quanto più precise di queste due opposizioni e dei termini che le compongono, di modo che sia chiaro come il nostro modo di concepire la parentela non sia che uno dei modi possibili.

2.3.A. GRUPPI COGNATICI VERSUS UNILINEARI

Come tutti i gruppi umani, anche quelli parentali hanno il “problema del reclutamento”: gli esseri umani invecchiano e muoiono, e quindi è necessario che nuovi membri subentrino a quanti non ci sono più. Per diverse ragioni, un gruppo può “decidere” che solo alcuni tra i suoi membri siano responsabili dei nuovi reclutamenti; abbiano cioè il diritto/dovere di introdurre nuovi membri nel gruppo. A seconda che il reclutamento dei membri del gruppo parentale avvenga utilizzando sia maschi che femmine oppure solo uno dei due sessi, i sistemi di parentela (sia ego-focus che ancestor-focus) si suddividono in gruppi COGNATICI o gruppi UNILINEARI. Per comprendere questa prima opposizione, il sistema di trasmissione dei cognomi può funzionare come una metafora efficace: nel nostro sistema, si eredita il cognome dal padre sia che si sia maschi, sia che si sia femmine, ma lo si trasmette ai propri figli solo se si è maschi (altrimenti i nostri figli avranno il cognome di nostro marito). Nel sistema ebraico, invece, si eredita il cognome della madre sia che si sia maschi, sia che si sia femmine, ma lo si trasmette ai propri figli solo se si è femmina (altrimenti i figli avranno il cognome di nostra moglie). Nel sistema spagnolo, infine, almeno per la prima generazione, i figli maschi e femmine ereditano entrambi i cognomi, dal padre e dalla madre. Se invece dei cognomi si trattasse di appartenenza a gruppi di parentela, quello spagnolo sarebbe un sistema COGNATICO (dal termine latino che indicava i parenti su entrambi i lati, mentre i parenti per via esclusivamente maschile erano detti agnati), intendendo con questo che il figlio o la figlia appartiene a entrambi i gruppi, del padre e della madre, mentre il nostro e quello ebraico sarebbero sistemi UNILINEARI, dato che si appartiene a uno solo dei due gruppi, quello del padre nel nostro caso, quello della madre nel caso ebraico.

2.3.B. GRUPPI CORPORATI (ANCESTOR-FOCUS) VERSUS GRUPPI EGO-CENTRATI

I gruppi di discendenza veri e propri (indipendentemente dal fatto di essere cognatici o unilineari) hanno in comune il fatto di basare la discendenza a partire da un ANTENATO COMUNE (reale o mitico) e di funzionare in quanto GRUPPI CORPORATI. Questi due tratti sono essenziali se vogliamo capire come funzionano i sistemi parentali in generale, e se vogliamo capire la differenza tra il sistema cui noi siamo abituati e quelli di altre culture. Vediamo prima brevemente cos’è un gruppo corporato.

I gruppi corporati esistono indipendentemente dai singoli individui che ne fanno parte, hanno diritti e doveri in quanto gruppi (sono delle “persone” come dicono gli Ashanti) e continuano ad esistere anche dopo la morte di un individuo che ne fa parte. Gli individui di un gruppo corporato vanno e vengono, ma il gruppo continua ad esistere. L’essere corporati implica che essi agiscano “come un corpo”: spesso controllano la proprietà terriera (che non è individuale, ma del gruppo) e regolano istituti come la faida, per cui l’uccisione di un membro del gruppo A da parte di un membro del gruppo B può essere riscattata direttamente dal gruppo A: è cioè il gruppo A a ricevere una compensazione, oppure un membro del gruppo A vendicherà il gruppo uccidendo un membro del gruppo B, non necessariamente quel membro responsabile del primo atto violento. Non tutti i gruppi di discendenza sono corporati in questo senso, ma sempre durano “in eterno”, indipendentemente da chi in qualunque momento faccia fisicamente parte del gruppo.

La seconda caratteristica essenziale dei gruppi di discendenza veri ei propri è quella di essere “centrati su di un antenato” (ancestor-focus), per cui i membri del gruppo si riconoscono membri del gruppo in quanto tutti discendenti da un comune antenato.

I gruppi di parentela come il nostro, centrati su ego, sono invece di tipo completamente diverso, anche se in alcuni casi possono essere confusi con gruppi di discendenza. Questi gruppi sono detti ego-centrati (ego-focus) perché il punto di vista da cui la rete parentale è vista è quello di un ego specifico. Questi gruppi ego-centrati formano quelli che la letteratura specialistica definisce PARENTADI (KINDREDS in inglese).

Per capire la differenza tra gruppi ego-focus e ancestor-focus, immaginiamo che in un certo gruppo si considerino parenti tra loro tutti quelli discendenti dall’antenato X, che chiameremo il Gruppo Parentale: il criterio di base è quindi che il Gruppo Parentale è composto da quanti sono discendenti dall’antenato X. Pensate ora invece alla vostra “famiglia” in senso esteso: i vostri parenti non sono vostri parenti perché discendono tutti da un X comune, ma sono invece “vostri” parenti, nel senso che è ognuno di voi (tu che leggi) a “tenerli assieme”. Pensate ai fratelli di vostra mamma e a quelli di vostro papà: sono vostri zii, cioè sono vostri parenti, ma non sono parenti tra di loro, non hanno (quasi mai) alcun legame “di sangue” ricostruibile. Pensate inoltre ai vostri cugini: quelli da parte di papà e quelli da parte di mamma sono tutti vostri cugini, ma tra di loro non sono tutti cugini: il figlio del fratello di vostra madre e quello della sorella di vostro padre, per fare un esempio, sono vostri cugini ma tra di loro non sono cugini. Come vedete la differenza qui è tra quei sistemi in cui la parentela dipende da una persona che “accorpora” attorno a sé un gruppo di parenti (il caso della parentela cui siamo abituati) e il caso invece di quei sistemi che si disinteressano dei singoli individui e esistono come insieme di tutti

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coloro che discendono da X. Chiamiamo quest’ultimo tipo gruppi di parentela “centrati sull’antenato”, e costituiscono i gruppi di discendenza veri e propri, mentre chiamiamo i sistemi come il nostro gruppi di parentela “centrati su ego”, oppure PARENTADI o KINDREDS (figura 1, in fondo a questa dispensa).

I parentadi non sono gruppi di discendenza perché non sono basati su di un antenato comune, ma sui legami parentali che un singolo ego ha con altre persone. La differenza, apparentemente difficile da cogliere, è essenziale. Si può comprendere anche così: mentre in un sistema che funziona con gruppi di discendenza (unilineari o cognatici non ha importanza) ogni individuo entra in un sistema di discendenza che gli preesiste ereditandolo da coloro che hanno il diritto di trasferirglielo (mentre cioè in questi sistemi ognuno eredita il gruppo di discendenza), nei sistemi ego-centrati ognuno costituisce il proprio parentado, che cioè non erediterà come tale dai propri genitori (padre o madre o entrambi, come avviene nei gruppi di discendenza). Ogni individuo (tranne fratelli germani, cioè figli di padre e madre comuni) ha un parentado diverso e ogni parentado cessa di esistere con la morte di ego, mentre il gruppo di discendenza continua ad esistere anche dopo la morte di ego, e gli preesisteva. Le funzioni di un parentado sono quindi assai diverse da quelle di un gruppo di discendenza, visto che il parentado non può, per esempio, essere responsabile giuridico o proprietario terriero, data la sua volatilità. Funziona però assai bene come mezzo di reclutamento per il suo funzionamento a catena: i cugini di cugini si possono facilmente associare. Quel che conta è che i sistemi di discendenza ancestor-focus sono ben diversi da quelli ego-focus, perché i primi hanno un’esistenza indipendente dai singoli, mentre i secondi dipendono dai singoli.

2.3.C. LE QUATTRO COMBINAZIONI POSSIBILI

Nel paragrafo 2.3.A. abbiamo distinto tra gruppi che reclutano i loro membri per via cognatica e gruppi che invece utilizzano un solo sesso (unilineari). Possiamo chiamare i primi come a1, e i secondi come a2.

Nel paragrafo successivo (2.3.B.) abbiamo distinto tra gruppi basati su ego e quelli basati sull’antenato. Possiamo etichettare i primi con b1 e i secondi con b2. Abbiamo quindi due variabili (a e b), ognuna dotata di due valori (1 o 2). Le combinazioni possibili sono quindi 4:

a1+b1; a1+b2; a2+b1; a2+b2. Analizziamole separatamente.a1/b1 è il caso di gruppi cognatici senza discendenza da un antenato: il nostro

caso, che a volte la letteratura specialistica definisce bilaterale.

a1/b2 è il caso in cui la parentela passa attraverso maschi e femmine, ma c’è un antenato comune. Come capite, in questo caso è necessario trovare delle restizioni

pragmatiche, altrimenti tutti sono parenti di tutti. Poniamo il caso che io appartenga ad una società in cui vige questa discendenza (detta anche ambilineare: parenti da tutte e due le parti, e parentela determinata da un comune antenato). Poniamo inoltre il caso che i miei quattro nonni appartenessero a quattro gruppi diversi: A, B, C, D. Quindi io appartengo a tutti e quattro i gruppi. Poniamo ora il caso che i gruppi abbiano dei doveri cerimoniali ben precisi, per esempio che debbano celebrare dei riti in onore degli antenati con un certo ritmo stagionale, e che tutti i membri del gruppo siano tenuti a partecipare a questi riti (immaginate una messa annuale in memoria dei defunti) che si svolgono in spazi separati per ogni gruppo (una messa in una chiesa diversa per ogni gruppo diverso). Se questi riti si svolgono contemporaneamente in spazi diversi, ogni individuo dovrà decidere a quale rito partecipare, limitando così la sua “appartenenza” agli altri gruppi. Capite insomma che la discendenza ambilineare, proprio perché tende ad allargare enormemente la rete parentale, subisce delle restrizioni di tipo pragmatico. La cosa è ben evidente quando l’appartenenza ad un gruppo viene associata a diritti e doveri che coinvolgono beni, proprietà e servizi. Se per esempio i gruppi di cui stiamo parlando sono proprietari della terra coltivabile, oppure l’appartenenza ad un determinato gruppo garantisce l’accesso a terreni di pascolo o aree di pesca o di caccia, o determina le forme dell’eredità, capite che l’appartenenza a tutti i gruppi contemporaneamente è da un lato un enorme vantaggio, ma dall’altro crea sovrapposizioni e conflitti di interesse con gli altri individui: se tutti sono discendenti di tutti i gruppi, come regolare per esempio l’accesso ai territori da coltivare? In questi casi, in cui cioè il principio della discendenza ambilinenare deve essere ristretto, le società che impiegano sistemi di parentela cognatica tendono a restringere le possibilità di appartenenza. Facciamo un esempio reale. I Maori della Nuova Zelanda sono organizzati parentalmente in gruppi di questo tipo, e vivono in unità territoriali (che possiamo per comodità definire villaggi, anche se la definizione non è precisa) detti hapu. Ogni individuo appartiene di diritto a tanti hapu quanti è in grado di individuare nella sua genealogica cognatica: lo hapu del padre, della madre, dei nonni paterni e materni, e così via. Di fatto, egli può risiedere sono in uno hapu alla volta, e coltiverà le terre assegnate a quello hapu. Avrà sempre il diritto di spostarsi in un altro hapu se la situazione demografica o i suoi interessi lo richiedono, ma conta il fatto che potrà sfruttare un solo hapu alla volta. La scelta dello hapu è fatta in base a diversi criteri, e molte volte un uomo tende a risiedere nello hapu del padre, ma non è raro il fatto che un Maori costruirà selettivamente la sua discendenza da un antenato attraverso maschi e/o femmine. Il singolo Maori risalirà il suo albero genealogico attraverso i parenti che gli interessano per arrivare a quell’antenato che giustifichi il suo diritto di risiedere in quel determinato hapu. Se si sposa con una donna che proviene da un lignaggio importante e ricco, potrà

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permettere che i figli nati da quell’unione si riconoscano membri del lignaggio della madre.

a2/b1 Si tratta di gruppi che tracciano la parentela solo attraverso uno dei due sessi, ma non hanno un antenato comune, sono insomma dei parentadi in cui ego seleziona i parenti da un lato solo, quello paterno o quello materno. È un caso estremamente raro, i gruppi che non sono basati sull’antenato tendono ad essere sempre cognatici, a raggruppare i parenti da tutti e due i lati, ma la ricerca etnografica ci dice che alcuni gruppi in Mongolia hanno questo tipo di parentadi in cui si selezionano i parenti solo dalla parte del padre (come se consideraste cugini solo i figli dei fratelli di vostro padre, gli altri no). Ma è un caso sul quale non vale la pena di soffermarci.

a2/b2 È invece quel che ora ci interesserà da vicino. Si tratta di gruppi che esistono in quanto tutti i membri discendono da un comune antenato, ma che selezionano l’appartenenza al gruppo attraverso un solo sesso. Chiamiamo questi gruppi gruppi di discendenza unilineari.

2.3.D. GRUPPI DI DISCENDENZA UNILINEARI

In questo caso abbiamo a che fare con veri gruppi di discendenza, corporati, preesistenti ai singoli membri che vi entrano a far parte, e che sopravvivono alla morte dei singoli membri. I gruppi hanno ruoli specifici, spesso gestiscono direttamente le proprietà terriere o altri beni (che non appartengono quindi ai singoli) e sono definiti in base alla comune discendenza da un antenato comune. Se i membri del gruppo sono reclutati attraverso i maschi, il gruppo è detto patrilineare; viceversa, se solo le donne a garantire la continuità del gruppo, questo è detto matrilineare (figura 2).

Al di là della matri- o della patrilinearità, cioè del modo in cui vengono reclutati i membri del gruppo, gli antropologi trovano conveniente distinguere due tipi principali di gruppi di discendenza unilineari, a seconda che ego sia in grado o meno di ricostruire la sua parentela effettiva con l’antenato che ne costituisce il capostipite. Se cioè l’antenato è legato da una parentela completamente ricostruibile con i membri del gruppo, quel gruppo è detto LIGNAGGIO. Se invece l’antenato da cui i singoli ego dicono di discendere non è posizionabile in una parentela chiara (se cioè il legame che lega antenato e ego non è specificabile in tutta la discendenza) allora il gruppo è detto CLAN. Normalmente le società di interesse etnologico hanno sia lignaggi sia clan. Cioè ogni individuo sa di appartenere ad un lignaggio nel senso che discende da un antenato nei confronti del quale può ricostruire il grado di

parentela, e allo stesso tempo sa di discendere da un antenato anteriore del quale non è in grado di ricostruire il grado di parentela.

A seconda che i lignaggi reclutino per via patri- o matrilineare, verranno chiamati patrilignaggi o matrilignaggi. Allo stesso modo, possiamo parlare di patriclan e matriclan.

Sebbene sia in teoria abbastanza chiara la distinzione tra lignaggio e clan, e sebbene lignaggi e clan possano avere funzioni assai diverse (ci può essere magari esogamia di lignaggi e endogamia di clan), tenete sempre presente che la parentela ha la fantastica possibilità di essere manipolata anche in quelle che a noi apparirebbero chiare relazioni genetico-procreative. Intendo dire che non è impossibile (anzi è del tutto comune) che l’antenato “chiaramente ricostruibile” che costituisce lo stipite del lignaggio sia, in quanto a sua effettiva posizione parentale in posizione assai ambigua: un padre del padre del padre potrebbe essere “in realtà” un fratello del padre del padre del padre, la cui posizione parentale si è nel corso del tempo aggiustata per coprire interessi di lignaggio. Basandosi spesso sull’oralità, la ricostruzione delle genealogie è flessibile. Se volete, i legami di parentela che costituiscono un lignaggio sono basati sulla memoria, ma questa memoria è “una memoria fertile”. Quindi in pratica è spesso difficile stabilire in maniera univoca se si tratta di un lignaggio o di un clan quello con cui abbiamo a che fare. Il senso di questa “confusione”, abbiamo specificato a lezione, è proprio quello di rendere flessibili i legami parentali alle esigenze di natura sociale. Se il mi lignaggio ha bisogno di cooperare con alcuni individui, è molto probabile che “aggiusteremo” le nostre reciproche genealogie al punto da “scoprire” che “in realtà” il mio gruppo e quello di quegli individui con cui intendo cooperare sono parenti. Le conseguenze teoriche di questa adattabilità della parentela alle esigenze sociali sono estremamente interessanti. Eravamo infatti partiti studiando la parentela come il legame “naturale” che consente le relazioni sociali (collaboro con te perché sei mio parente, perché abbiamo lo “stesso sangue”), e invece ci troviamo con dei fatti etnografici che ci spingono a ipotizzare che l’argomento sostenuto possa essere a volte l’opposto (devo/voglio collaborare con te, e allora creo con te un legame di parentela, cioè rendo naturale un legame sociale che di per sé naturale non sarebbe).

Discendenza e residenzaAmmetterò ora di avervi inbrogliati, mettendo il carro della discendenza davanti ai

buoi della residenza. Come potete intuire, nessun gruppo umano si è messo attorno al fuoco a discutere: Bene, allora come decidiamo di discendere, unilineari o cognatici? Ego-centrati o centrati sull’antenato? Le forme della discendenza sono

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rappresentazioni della società che dipendono da come i gruppi di distribuiscono sul territorio, dalle risorse di cui dispongono e dal sistema di allocazione intergenerazionale di queste risorse. Ma era importante che partissimo dalla discendenza per farvi prendere confidenza con alcuni principi di base che vi permetteranno (credo) di capire meglio il rapporto tra discendenza e residenza.

Ci sono cinque casi teorici di residenza, che riassumo brevemente.1) Natolocalità. . Parte dalla premessa che l’unione veramente stabile sia quella tra madri e figli da un lato, e fratelli e sorelle dall’altro. Possiamo pensare ad un’orda di cacciatori e raccoglitori, in cui le donne sono state fecondate ed hanno avuto dei figli maschi e femmine. Una volta raggiunta la maturità sessuale, questi figli maschi possono accoppiarsi in maniera non impegnativa con altre donne di altri gruppi, e le loro sorelle possono fare altrettanto. L’accoppiamento non prevede un allontanamento dalla famiglia di orientamento, per cui i membri rimarrebbero a vivere assieme. I maschi del gruppo

proteggono le donne del gruppo (che sono le loro sorelle), e non si accoppiano con loro per via del tabu dell’incesto, ma si accoppiano invece con altre donne senza vivere con queste. A loro volta, le sorelle del gruppo si accoppiano con uomini di altri gruppi per lo stesso tabu dell’incesto, ma non vanno a vivere con loro né li portano a vivere nel loro gruppo. Se volete: ognuno se ne sta a casa sua e si accoppia con persone che vivono a casa loro. Se però i gruppi sono piuttosto dispersi sul territorio, può risultare difficile avere nelle vicinanze uomini e donne di altri gruppi per accoppiamenti non impegnativi, e allora si possono sviluppare altri casi.

2) Neolocalità. Poniamo che i gruppi siano dispersi per ragioni ecologiche, e che anzi non sussista la possibilità di gruppi di grosse dimensioni. In questi casi la soluzione più indicata potrebbe essere che un maschio lascia la sua famiglia di orientamento, una donna fa altrettanto e i due si uniscono a costituire una nuova famiglia di procreazione. In questo caso è necessario rendere più stabile il legame sessuale, dato che le donne hanno bisogno

dell’assistenza del maschio (i loro fratelli sono lontani) e i maschi hanno bisogno di garantirsi una continuità (le loro sorelle sono lontane).

3) Patrilocalità. Può succedere che sia importante che i maschi vivano assieme, per ragioni di cooperazione (caccia e guerra) e allora daranno via le loro sorelle e importeranno altre donne. Anche in questo caso è importante la regolarizzazione delle unioni sessuali nel matrimonio, perché i maschi hanno lasciato andare via le loro sorelle in altri gruppi, e quindi devono garantirsi la continuità attraverso il matrimonio.

4) Matrilocalità. Se per ragioni strutturali sono le donne a dover rimanere assieme, come potrebbe essere nel caso di coltivatori che fanno ancora affidamento sulla caccia, per cui le donne coltivano i campi e gli uomini cacciano, allora si potrebbe pensare ad un gruppo basato sulle donne, che cedono i loro fratelli alle donne di altri gruppi e importano mariti nel loro gruppo.

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5) Ambilocalità. Infine può essere una strategia utile quella di importare ed esportare maschi o femmine indifferentemente, a patto che il gruppo abbia un

adeguato numero di membri per produrre e riprodursi.

Quel che è importante a questo punto è che teniate sempre presente che quelli di cui abbiamo parlato sono

gruppi residenziali, e non hanno di per sé un rapporto diretto con i gruppi di discendenza. Questi cinque casi ipotetici o teorici non sono cioè di per sé indicativi di alcun gruppo di discendenza, perché non hanno a che fare con alcuna discendenza ma solo con il modo in cui le persone vivono e si distribuiscono sul territorio. È però evidente come questi gruppi residenziali siano facilmente associabili a gruppi di discendenza, nel senso che il caso 1 e 4 sono facilmente associabili con la matrilinearità, il caso 3 con la patrilinearità e i casi 2 e 5 con la discendenza cognatica.

Ci sono due punti che vanno sottolineati:a) incesto ed esogamia. La regola che vieta rapporti sessuali con parenti stretti

(fratello, sorella, padre, madre, figlio, figlia) non è concettualmente la stessa regola che impone di sposarsi fuori dal gruppo di parenti stretti. Cioè: il tabu dell’incesto e la regola esogamica non hanno lo stesso valore concettuale. Nel caso 1 abbiamo visto che non c’è praticamente matrimonio nel senso di un’unione stabile tra un uomo e una donna, eppure si applica il tabu dell’incesto, visto che fratelli e sorelle non si accoppiano tra di loro.

b) l’asimmetria di patri- e matri-linearità. I casi 3 e 4 poi sono speculari fino ad un certo punto, fino al punto cioè in cui questi modelli residenziali tendono a produrre gruppi di discendenza. Se infatti si tratta di gruppi residenziali “puri” si possono considerare uno il converso dell’altro, ma se entra in gioco la discendenza la faccenda si complica. Si deve infatti partire dalla premessa che ci sia un’asimmetria

su base sessuale in molte relazioni di potere, per cui in molti casi e per molti settori sono i maschi a detenere una quota di potere maggiore. Se, per esempio, una qualche forma di potere viene trasmessa da maschio a maschio (eredità, sacralità, sacerdozio o altro) ma il sistema è matrilineare (cioè la trasmissione passa attraverso maschi imparentati per via femminile), questi maschi devono sempre essere in grado di mantenere i contatti tra di loro attraverso le sorelle, che sono i membri produttivi del gruppo di discendenza, mentre se il sistema è patrilineare non è necessario questo contatto tra maschi attraverso le sorelle. In altre parole: “mentre per produrre una situazione matrilineare gli uomini del gruppo consanguineo si devono associare stabilmente con le sue donne, non è necessario che le donne del gruppo patrilineare siano in associazione costante con i suoi uomini” (Fox: 107). Capite meglio questa asimmetria se riprendete i casi 3 e 4. Se il caso 3 sviluppa un gruppo di discendenza patrilineare, i maschi sono già associati e possono trasmettersi il potere direttamente (di padre in figlio) visto che il legame che legittima la continuità è quello del matrimonio (il maschio non si riproduce, si lega formalmente ad una donna e da quella “prende” i figli che ne nascono e li dichiara membri del suo gruppo). Per questo gruppo di uomini le sorelle sono andate via, in altri gruppi, e non hanno alcuna funzione riproduttiva per il proprio gruppo (fanno infatti figli per i gruppi dei rispettivi mariti). Ma prendete ora il caso 4. Cosa succede ai maschi se si sviluppa un gruppo matrilineare? È chiaro che devono trovare un modo di associarsi con le loro sorelle, visto che il loro potere andrà in trasmissione ai figli di queste. I maschi “andati via” da un gruppo residenziale matrilocale che ha prodotto un sistema di discendenza matrilineare devono essere in grado di associarsi con le loro sorelle, pena l’impossibilità di trasmettere il loro potere (o i loro beni) ai loro successori (figli delle sorelle).

E’ questa la ragione che da vita a una strana forma di residenza che non abbiamo incluso in questa sequenza teorica, e che si chiama residenza avuncolocale, cioè residenza con il fratello della madre (avunculus in latino). Questo curioso modo di risiedere nasce proprio dal desiderio dei maschi in un sistema di discendenza matrilineare di avere

presso di sé i propri eredi.Quel che deve essere chiaro è che nei sistemi patrilineari predomina il legame

emotivo tra marito e moglie da un lato e quello di potere tra padre e figlio dall’altro,

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mentre nei sistemi matrilineari il legame emotivo dominante è quello tra fratello e sorella, e quello di potere tra fratello della madre e figlio della sorella.

È molto importante che riflettiate sull’asimmetria che c’è tra sistemi patri- e sistemi matrilineari: non sono uno il converso dell’altro perché in entrambi i casi i poteri detengono una quota sproporzionata del potere. Ho cercato di riassumere questo problema negli schemi della figura seguente, che per ragioni di tempo non ho qui possibilità di discutere in dettaglio.

Terminologia della parentelaPer “teminologia” si intendono i nomi che le diverse culture assegnano ai diversi

parenti e affini. Per noi è ovvio avere un termine per il padre, uno per la madre, uno per fratello e sorella, uno per cugino e cugina, zio e zia, nonno e nonna, cognato,

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suocero, eccetera. Ci sembra che questi termini rispecchino l’effettiva composizione della nostra rete parentale. Ma si tratta un errore prospettico dovuto all’etno-centrismo, che ci fa sentire come naturali e ovvie le scelte culturali nelle quali siamo immersi. Non è affatto scontato che il figlio del fratello di mio padre e quello del fratello di mia madre siano identificabili con un unico termine (cugino), come non è ovvio che il marito di mia sorella e il fratello di mia moglie siano entrambi “cognati”.

Partiamo quindi da un paio di concetti sul modo in cui si organizzano i sistemi di parentela. Sappiamo già cos’è un lignaggio: un gruppo corporato (con diritti e doveri in quanto gruppo, che “agisce come una persona”) composto di persone imparentate tra di loro, persone cioè che possono rintracciare la comune discendenza da un antenato. Abbiamo visto che i lignaggi costituiscono l’unità più piccola, spesso, ma non sempre, su base residenziale (i membri dello stesso lignaggio spesso vivono “assieme”, nella stessa casa, o nella stessa porzione di villaggio) e che queste unità tendono a costituirsi in gruppi più ampi, detti clan, che raggruppano persone che si considerano discendenti (pur non sapendo precisamente in che modo) da un antenato che spesso è mitico e può anche non essere un umano (un animale, una pianta, un essere mitico, quello che costituisce il “totem” del clan). In alcuni casi i clan possono, per diverse ragioni, raggrupparsi in unità ancora più vaste, dette FRATRIE, che sono quindi una forma di raggruppamento più inclusiva. Le funzioni delle fratrie sono spesso cerimoniali o esogamiche, cioè regolano alcuni comportamenti collettivi, come l’esercizio della funzione religiosa o di quella matrimoniale. Se una società ha i clan A, B, C, D, E, F, G, (ognuno composto rispettivamente dai lignaggi a1, a2… an, b1, b2… bn, eccetera), possiamo pensare a tre fratrie, (dei Rossi, dei Bianchi e dei Neri) che raggruppano rispettivamente i clan (A,B,C), (D,E) e (F,G). Quindi ogni individuo è membro di un lignaggio (per esempio a1, di un clan (in questo caso di A) e di una fratria (in questo caso dei Rossi). Nel caso speciale che le fratrie siano solo sue, vengono chiamate METÀ.

Con questi concetti in mente, immaginiamo una società divisa in due metà, in cui cioè ogni membro appartenga ad una o all’altra (indipendentemente da quanti sono i clan), e che questo sistema di metà regoli l’esogamia, per cui ogni membro sa che deve trovare il partner per il matrimonio nella metà opposta (in quella alla quale lui non appartiene). In questo sistema il mondo sociale si divide in “membri della mia metà” (che non posso sposare) e “membri dell’altra metà” (che invece posso sposare). Questa particolare suddivisione della società porta ad alcune conseguenze terminologiche interessanti, che sono particolarmente evidenti nella terminologia che si usa verso gli “zii” e verso i “cugini”. Poniamo il caso di due metà esogamiche matrilineari, per cui ogni membro della società appartiene alla metà della madre, ma non a quella del padre. I figli dei suoi zii apparterranno alla sua metà o a quell’altra a

seconda che siano o meno figli di fratelli di sesso uguale. Cioè: i figli del fratello del padre (fratello del padre = padre = entrambi maschi) e i figli della sorella della madre (sorella della madre = madre = entrambe femmine) apparterranno alla sua metà (e quindi non potrà sposarli), mentre i figli della sorella del padre (sorella del padre = femmina; padre = maschio) e del fratello della madre (fratello della madre = maschio; madre = femmina) apparteranno alla metà opposta (e quindi potrà sposarli). Tecnicamente, i figli di fratelli dello stesso sesso (cioè figli di due fratelli o di due sorelle) si chiamano CUGINI PARALLELI, mentre i figli di fratelli di sesso diverso (cioè i figli di un fratello e quelli di una sorella) si chiamano CUGINI INCROCIATI. Per pure ragioni di sistema, ego non può sposare i cugini paralleli, mentre “potrebbe” sposare i cugini incrociati. Dico potrebbe perché vedremo che in alcuni casi non gli resta apparentemente (terminologicamente) altra scelta da fare, visto che chiamerà con uno stesso termine (che si potrebbe tradurre: “oh tu che sei mia doppia cugina incrociata e moglie potenziale”) tutte le donne della sua generazione che appartengono all’altra metà (cioè tutte le donne potenzialmente maritabili con lui, non vi preoccupate di questo, lo capirete fra un po’, capirete anche cos’è una “doppia cugina incrociata”).

Ho appena detto che la possibilità di sposarsi con un cugino incrociato può a volte non avere alternative. Vediamo come questo avviene, e le conseguenze sulla terminologia. Ma prima è necessaria un po’ di disciplina intellettuale. Quando parliamo di posizioni parentali dobbiamo stare attenti a non sovrapporre i nostri termini con quelli indigeni, per esempio in un sistema che pratica la divisione in metà il nostro termine “cugino” è troppo generico e anzi generatore di confusione, perché non distingue tra i membri di una metà o di un’altra, e infatti abbiamo dovuto aggiungere la specifica ‘incrociati’ o ‘paralleli’ per dar conto del sistema. Questo problema si ripete in continuazione quando si tratta di parentela, e il modo migliore per risolverlo è quello di usare sempre e solo una ristretta serie di termini per costituire le posizioni più complesse elaborando combinazioni di queste. I termini che useremo di qui in avanti sono otto, e li indico con il loro simbolo:

Ma = MadrePa = PadreFr = FratelloSo = SorellaFo = FiglioFa = FigliaMr = MaritoMo = Moglie

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Quindi da ora non diremo più ‘zio’ ,ma ‘FrMa’ oppure ‘FrPa’, e non diremo nonno, ma ‘PaPa’, oppure ‘PaMa’.

Chiarito questo, vediamo quale potrebbe essere in linea teorica il modo più semplice per riprodurre un gruppo umano, e quali le conseguenze sul piano terminologico. Se io ho una sorella e tu hai una sorella, un modo semplice per riprodurci tutti e quattro è quello di “scambiarci le sorelle”. Io non posso riprodurmi con lei per il tabu dell’incesto, e tu altrettanto per la stessa ragione. Ma se io ti “cedo” mia sorella in “cambio” della tua, possiamo perpetuare i nostri rispettivi gruppi familiari con reciproco vantaggio. Questa, in effetti, sembra essere stata la strategia matrimoniale adottata da diversi gruppi umani: non mi posso sposare all’interno del gruppo (con le mie “sorelle”) e quindi organizzo uno scambio sistematico con un altro gruppo che si trova nelle mie stesse condizioni. Ci sono società che ragionano in questi termini quando organizzano i matrimoni. Più correttamente, è possibile analizzare i sistemi matrimoniali di queste società come se fossero governati dal principio per cui un gruppo scambia le sue donne con quelle di un altro gruppo: io ti dò una donna e tu me ne dai una tua. Immaginiamo che questa sia una regola sistematica: due gruppi, magari di cacciatori e raccoglitori, che praticano l’esogamia di gruppo e di tanto in tanto si incontrano per scambiarsi le donne. La situazione di partenza minima è quella di due coppie di fratello e sorella, un fratello e sorella del gruppo A e un fratello e sorella del gruppo B. I due uomini si incontrano in qualche luogo e decidono di “scambiarsi le sorelle”: io ti dò mia sorella (con la quale non posso accoppiarmi per via del tabù dell’incesto) e tu mi dai la tua (con la quale hai lo stesso problema). Dopo vent’anni, possiamo immaginare che i figli di quelle due coppie si incontrino e proseguano sulla stessa linea dei loro genitori, per cui i maschi si scambieranno un’altra volta le donne, e così via nel corso delle generazioni. Cosa succede alle posizioni parentali, cioè come si sistemano e vengono definiti i parenti e gli affini in questo sistema? La situazione è come segue (seguire la figura 3 per capire come in questo sistema non ci sia distinzione tra parenti e affini):

(1) ‘coniuge’ = Mo = FaFrMa = FaSoPa = doppia cugina incrociata(2) ‘cognato’ = MrSo = FrMo “doppio cognato” = FoFrMa = FoSoPa = doppio

cugino incrociato(3) ‘suocero’ = PaMo = FrMa = zio materno(4) ‘suocera’ = MaMo = SoPa = zia materna

In questo sistema non è possibile sposare uno che non sia “già” un proprio parente. Naturalmente i sistemi non sono perfetti, può capitare ad esempio che una coppia non abbia figli maschi, per cui non può prendere donne, oppure non abbia

figlie femmine, per cui non può dare donne. In pratica, la regola dello scambio diretto dice: sposati prendendo un partner della tua generazione tra i membri dell’altro gruppo, un partner che chiamerai con il TERMINE CLASSIFICATORIO di “doppio/a cugino/a incrociato/a”. Ciò significa che nella terminologia parentale i termini indicano categorie di persone, e non persone singole.

Questo breve accenno allo “scambio diretto” (si chiama così quel tipo di scelta matrimoniale per cui ci sono due gruppi i cui membri si sposano obbligatoriamente tra loro) era necessario per darvi una rapida illustrazione di come il sistema degli scambi matrimoniali possa influenzare il sistema terminologico. Concludiamo quindi cercando di proporre una tipologia dei sistemi terminologici.

2.5 TIPOLOGIE DELLA TERMINOLOGIA

Nonostante la varietà straordinaria delle terminologie parentali, gli antropologi si sono accorti già alla fine del secolo scorso che ci sono alcuni modi fondamentali di classificare i parenti e gli affini, che si ripresentano in diverse culture con diverse varianti. Per i nostri scopi, descriveremo quattro modi logicamente derivati da come ogni singola cultura risponde a due domande fondamentali quando classifica i parenti:

a) devo distinguere tra linea diretta e linea collaterale, cioè tra la linea che mi lega direttamente ai miei nonni/genitori/fratelli (linea diretta) e quella che mi lega invece “collateralmente” a prozii/zii/cugini? Chiamiamo questo il principio della COLLATERALITÀ

b) devo distinguere la linea paterna e quella materna? Chiamiamo questo il principio della LINEARITÀ.

Abbiamo quindi due domande, ognuna delle quali prevede come risposta un sì o un no, in tutto quindi quattro possibilità logiche. Se indichiamo con “C” il principio della collateralità, con “L” quello della linearità, con “+” la risposta affermativa e con “–” quella negativa, le possibilità logiche sono:

1) –C, –L: chiamo i miei parenti senza distinguere tra linea diretta e collaterale, e senza distinguere tra lato paterno e materno. Terminologia HAWAIAIANA.

2) +C, –L: distinguo tra genitori e loro fratelli, ma non specifico se questi fratelli dei genitori lo sono dal lato paterno o materno. Terminologia ESCHIMESE.

3) –C, + L: distinguo i parenti per parte di madre da quelli per parte di padre, ma non distinguo tra mio padre e suo fratello, né tra mia madre e sua sorella. Terminologia IROCHESE.

4) +C, +L: faccio distinzione sia tra i miei genitori e i loro fratelli, sia tra lato paterno e lato materno. Terminologia SUDANESE.

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Si capisce meglio questa tipologia se la si affronta in concreto, se cioè ci mettiamo a vedere cosa succede ai nomi dei parenti (genitori, loro fratelli e figli di questi) applicando i diversi principi. Seguire la figura 4, caso per caso.

1) Sistema HAWAIANO. Per via di –C, mio padre è uguale a suo fratello, mia madre a sua sorella, e i cugini paralleli sono uguali ai miei fratelli. Per il principio –L la sorella di mio padre è uguale a mia madre, il fratello di mia madre è uguale a mio padre, e i loro figli (cugini incrociati) uguali ai miei fratelli. Per parlare dei miei parenti avrò bisogno solo di due termini per quelli della mia generazione (un solo termine per i fratelli maschi, per i cugini paralleli maschi e per i cugini incrociati maschi; un solo termine per le sorelle femmine, le cugine parallele femmine, le cugine incrociate femmine), e due termini per quelli della generazione precedente la mia (un termine per mio padre, suo fratello e il fratello di mia madre; un termine per mia madre, sua sorella e la sorella di mio padre).

2) Sistema ESCHIMESE. In questo caso mi serviranno più termini, visto che voglio distinguere tra i miei genitori e i loro fratelli dello stesso sesso. Così avrò un termine per mio padre e uno per mia madre, uno per il fratello di mio padre e uno per la sorella di mia madre. Visto che non mi interessa però distinguere tra lato materno e paterno, gli stessi termini usati per questi “zii” li posso riusare per riferirmi alle sorelle di mio padre (fatte uguali alle sorelle di mia madre) e ai fratelli di mio padre (fatti uguali ai fratelli di mia madre). Similmente, alla mia generazione, distinguerò tra i figli di mio padre e mia madre (cioè i miei fratelli) e invece i figli dei loro fratelli e delle loro sorelle, che però potrò chiamare con un termine unico. Per quanto possiate essere confusi, quello che abbiamo descritto è il NOSTRO sistema terminologico!

3) Sistema IROCHESE. È il simmetrico di quello eschimese: non si distingue tra padre e suo fratello, o tra madre e sua sorella (quindi i loro figli, i miei cugini paralleli, saranno fatti uguali ai miei fratelli) ma si vuole tenere distinto il fratello di mia madre dal fratello di mio padre, e la sorella di mio padre da quella di mia madre, per cui i cugini incrociati, che sono i loro figli, saranno distinti dai cugini paralleli.

4) Sistema SUDANESE. Si distinguono sia il padre da suo fratello e la madre da sua sorella, ma anche il fratello della madre da quello del padre, e la sorella del padre da quella della madre. Non solo distinguo i miei fratelli dai miei cugini, ma anche tra cugini incrociati e paralleli. Sebbene sia piuttosto raro, questo sistema terminologico è interessante perché era quello usato dai Latini (almeno secondo alcune versioni). Pater, Mater, Patruus (fratello del padre), Amita (sorella del padre), Avunculus (fratello della madre) Matertera (sorella della madre). Parallelamente, esistevano quattro termini (sempre in alcune varianti e in alcuni periodi storici) per i cugini: (frater) patruelis (figlio del fratello del padre), amitinus (figlio della sorella del

padre), consobrinus (figlio del fratello della madre) e (frater) matruelis (figlio della sorella della madre).

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I IIIII IV

Linea continua = parentado di ILinea tratteggiata = parentado di II

FIGURA 2. I LIGNAGGI

In grigio = i membri di un matrilignaggio In grigio = i membri di un patrilignaggio

FIGURA 1. IL PARENTADO

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FIGURA 3. LO SCAMBIO DIRETTO

EGO

PA MAFRMA PAMO

MAMO SOPA

PAPA MAPA

MAMA

SO

MO FASOPA FAFRMA

MRSO FRMO FOSOPA FOFRMA

PAMA

MA = madrePA = padreFR = FratelloSO = SorellaFO = FiglioFA = FigliaMR = MaritoMO = Moglie

EsempiFRMA = Fratello della MadreFOSOPA = Figlio della Sorella del

Padre

FIGURA 4. LE QUATTRO TERMINOLOGIE DI PARENTELA

H = terminologia hawaianaE = terminologia eschimeseI = terminologia irocheseS = terminologia sudaneseA numero uguale corrisponde, per ogni sistema terminologico, un unico termine

Cugini paralleli

Cugini incrociati

EGO

H 2E 6I 5S 7

H 1E 5I 1S 5

H 1E 1I 1S 1

H 2E 2I 2S 2

H 2E 6I 2S 6

H 1E 5I 6S 8

H 3E 7I 7S 9

H 4E 8I 8S 10

H 3E 7I 3S 11

H 4E 8I 4S 12

H 3E 3I 3S 3

H 4E 4I 4S 4

H 3E 7I 3S 13

H 4E 8I 4S 14

H 3E 7I 7S 15

H 4E 8I 8S 16