Antropologia Culturale

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Che cos’è l’antropologia culturale? L’antropologia culturale è lo studio olistico dell’umanità, è quella disciplina che ha promosso e sviluppato la cultura come oggetto di studio scientifico, analizzando dunque le differenze culturali tra i gruppi umani. Una scienza caratterizzata dalla sospensione di qualsiasi tipo di giudizio o pregiudizio e dunque senza condizionamenti, ma che studia la diversità culturale con oggettività scientifica e con metodo analitico, che nello stesso tempo aiuta a capire la propria cultura di appartenenza, è come un guardare gli altri per capire noi stessi. È importante dire che il processo di qualsiasi studio antropologico segue necessariamente 3 fasi: La scelta dell’oggetto di studio. Il metodo di ricerca. La storia. Ma come è definita oggi l’antropologia culturale? Oggi l’antropologia è quella scienza che assume come oggetto di studio 4 elementi fondamentali: L’analisi dei codici culturali L’analisi degli apparati simbolici L’analisi delle pratiche rituali L’analisi degli orizzonti normativi di una cultura. In questa definizione di antropologia abbiamo nominato due concetti chiave che sono alla base di qualsiasi studio antropologico, e cioè, il concetto di cultura e quello di codice culturale. Che cos’è la cultura? Una prima definizione antropologica del termine cultura ci viene data nel 1871 da un celebre studioso e antropologo di nome E.Tylor , dove in un testo da lui scritto intitolato “cultura primitiva” definisce cultura : quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, La morale , il diritto, il costume e qualsiasi altro prodotto dell’attività dell’uomo come membro di una società. Oggi sappiamo, sociologicamente parlando che la cultura viene trasmessa attraverso il processo di socializzazione primaria e secondaria, cioè attraverso l’interiorizzazione informale e formale delle norme dei valori.

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Appunti del corso metodi di ricerca demo-antropologica - facoltà di sociologia - tratto dal testo d'esame - storia dell'antropologia di Ugo Fabietti

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Che cos’è l’antropologia culturale?

L’antropologia culturale è lo studio olistico dell’umanità, è quella disciplina che ha promosso e sviluppato la cultura come oggetto di studio scientifico, analizzando dunque le differenze culturali tra i gruppi umani. Una scienza caratterizzata dalla sospensione di qualsiasi tipo di giudizio o pregiudizio e dunque senza condizionamenti, ma che studia la diversità culturale con oggettività scientifica e con metodo analitico, che nello stesso tempo aiuta a capire la propria cultura di appartenenza, è come un guardare gli altri per capire noi stessi.

È importante dire che il processo di qualsiasi studio antropologico segue necessariamente 3 fasi:

La scelta dell’oggetto di studio.

Il metodo di ricerca.

La storia.

Ma come è definita oggi l’antropologia culturale?

Oggi l’antropologia è quella scienza che assume come oggetto di studio 4 elementi fondamentali:

L’analisi dei codici culturali

L’analisi degli apparati simbolici

L’analisi delle pratiche rituali

L’analisi degli orizzonti normativi di una cultura.

In questa definizione di antropologia abbiamo nominato due concetti chiave che sono alla base di qualsiasi studio antropologico, e cioè, il concetto di cultura e quello di codice culturale.

Che cos’è la cultura?

Una prima definizione antropologica del termine cultura ci viene data nel 1871 da un celebre studioso e antropologo di nome E.Tylor , dove in un testo da lui scritto intitolato “cultura primitiva” definisce cultura:

quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, La morale , il diritto, il costume e qualsiasi altro prodotto dell’attività dell’uomo come membro di una società.

Oggi sappiamo, sociologicamente parlando che la cultura viene trasmessa attraverso il processo di socializzazione primaria e secondaria, cioè attraverso l’interiorizzazione informale e formale delle norme dei valori.

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Ovviamente anche il concetto di cultura non è stato sempre lo stesso, sono state date anche altre definizioni alcune di queste anche molto criticate dalla critica post-moderna. È il caso per esempio dell’idea, secondo la quale la realtà stessa sarebbe composta da più culture giustapposte. Una posizione questa fortemente contrastata dalla critica, secondo la quale è inaccettabile l’idea del mondo come un insieme distinto di più culture.

E poi ci sono posizioni di studiosi come Clifford Geertz, dove in un testo da lui scritto intitolato i frutti puri impazziscono sostiene l’idea che una cultura pura non esiste, nessuna cultura nasce dal nulla, la cultura è inevitabilmente frutto di intrecci e ibridi.

E poi c’è lo studioso R.Rosaldo che reinterpreta la definizione di Geertz ridefininendo il concetto di cultura come un insieme poroso di intersezioni (come una spugna assorbente i prodotti dell’attività umana).

Concludendo che non esiste un DNA culturale, la cultura è un prodotto meticciato e sempre soggetta a contaminazioni.

Che cosa si intende invece per codice culturale?

Si intende il sistema di idee e norme informali condivise e interiorizzate dalla società di appartenenza.

Ricapitolando dunque, le domande che si pone l’antropologia sono:

Come si è originato un codice culturale?

Quali sono le forme attraverso le quali gli uomini giustificano e manifestano quel codice culturale?

Il compito dell’antropologo è quindi quello di svelare i codici culturali che orientano le azioni degli individui.

Inutile dire che l’antropologia culturale non ha avuto sempre lo stesso volto che conosciamo oggi e soprattutto non ha avuto sempre le stesse caratteristiche, ma nel corso della storia è stata una disciplina abbastanza discussa e che ha visto variazioni e mutamenti di non poco conto, quegli stessi mutamenti che l’hanno plasmata e modellata fino a dargli il volto che noi tutti oggi conosciamo. E Ugo Fabietti nel libro storia dell’antropologia ci racconta proprio questa evoluzione, di questa disciplina ,in tutti e 3 i suoi componenti fondamentali, cioè come si sono evoluti l’oggetto di studio e il metodo di ricerca nei vari contesti sociali delle varie epoche storiche.

C1 Nascita dell’antropologia

Il contesto storico-politico-ideologico:

Ci troviamo alla fine del 700 e gli inizi dell’800 , in Francia durante la prima repubblica. Il fattore sociale principale che innescò la scintilla che portò ad una prima visione dell’antropologia come scienza ,fu l’idea da parte di scienziati e intellettuali francesi,

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eredi diretti del patrimonio filosofico-scientifico dell’illuminismo, di perpetuare il concetto di scienza come un servizio sociale allo scopo di raccogliere le scoperte e di perfezionare le arti e le scienze, a tal proposito proprio in quel periodo il comitato di istruzione pubblica organizzò un istituto nazionale che avrebbe dovuto promuovere ricerche nel campo della vita sociale dell’uomo, della legislazione, dell’economia politica e della geografia. Emersero dunque, tutti quegli elementi che permettevano di cominciare a concepire una scienza avente per oggetto di studio l’uomo, come essere naturale e sociale dotato di ragione.

Ed è proprio in questo periodo che possiamo cominciare a parlare di origini dell’antropologia. Origini che vedono protagonista un giovane intellettuale dell’epoca, di nome Louis Francois Jouffret che nel 1799 riunisce intorno a se un gruppo di scienziati e intellettuali dando vita alla <<società dell’osservatorio dell’uomo>> e al, per così dire, primo studio antropologico pubblicato, cioè “ letteratura sui selvaggi”.

L’Oggetto di studio:

L’oggetto di studio dell’antropologia culturale ottocentesca è la diversità culturale nelle sue 3 dimensioni fondamentali: spaziale, temporale ed etnica rispetto alla propria cultura di appartenenza.

Diversità spaziale: fa riferimento a culture esotiche cioè lontane nello spazio. Sotto questo aspetto l’antropologia è vista come scienza dell’esotico.

Diversità temporale: svolgere questo viaggio verso società esotiche, significa per gli antropologi fare anche un viaggio nel tempo e non solo nello spazio, aiutando a capire come la società occidentale era stata in passato. L’oggetto di studio erano le società arcaiche anacronistiche. Sotto questo aspetto l’antropologia si propone come scienza del tradizionale o scienza del pre-moderno , cioè ciò che sta alle spalle della modernità.

Diversità etnica: Ossia, le società prive di scrittura, definite erroneamente . all’inizio, come senza memoria e senza cultura. I cosiddetti selvaggi, barbari, incivili. Sotto questo aspetto l’antropologia viene vista come Scienza dei popoli di natura.

Il metodo di ricerca:

Il metodo di ricerca era quello dello studio comparato delle società e delle culture i cui elementi principali erano quelli che troviamo anche nell’opera di L.F.Jouffret, “letteratura sui selvaggi” e cioè:

Moralismo

Pregiudizio

Esotismo

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Meraviglioso

Uno degli scritti che testimonia le novità del progetto della società degli osservatori, porta la firma di De Gerando: quest’ultimo poneva in evidenzia l’importanza dello studio dei selvaggi per una maggiore comprensione dell’umanità. Secondo De Gerando il filosofo doveva farsi viaggiatore, percorrere spazi alla ricerca di quei selvaggi che avrebbero potuto costituire l’esempio vivente della condizione originaria dei popoli civilizzati. La figura del viaggiatore, precorre in un certo senso quella dell’antropologo moderno poiché egli non viaggia soltanto ma pensa, cerca cioè di correlare i dati dell’osservazione e di coordinarli in una teoria.

In seguito poi si svilupparono altri 2 approcci teorici volti a studiare le società primitive per poi arrivare a spiegare l’origine della civiltà umana. Stiamo parlando della teoria degenerazionista che a sua volta affonda le sue radici in quella creazionista, e poi di quella evoluzionista (che regnerà per tutta l’età vittoriana-1837/1901) in Inghilterra lanciata dagli studi e dalle scoperte di Charles Darwin.

Il degenerazionismo:

Il degenerazionismo si afferma con lo studioso Joseph de Maistre. Secondo questo studioso l’uomo non era affatto progredito da uno stadio di barbarie ad uno stadio di civiltà. Il selvaggio era l’esempio della degradazione dell’uomo a cui quest’ultimo era condannato a causa del peccato originale e rappresentava l’esempio estremo della caduta della grazia divina, il selvaggio dunque, era l’oggettivazione del peccato originale.

Le principali tesi su cui poggiava il degenerazionismo erano le seguenti:

Nessuno aveva fornito una qualche prova del passaggio dallo stato selvaggio alla civiltà

Nessun popolo selvaggio aveva dato prova di aver compiuto un qualche progresso per conto proprio.

La presenza di un qualche manufatto ritenuto di livello superiore allo standard della popolazione che lo possedeva era considerato come il segno del fatto che tale popolazione lo aveva ricevuto da un’altra superiore.

Ciò che veniva negata era l’idea che l’umanità fosse avanzata sul piano materiale e spirituale, unicamente in virtù delle proprie forze.

C2 l’Antropologia evoluzionistica in età vittoriana:

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Contesto storico

Ci troviamo nell’Inghilterra Vittoriana (1837/1901), dove regna un approccio di tipo evoluzionista nell’antropologia, e vede l’emergere di nuove figure intellettuali importanti, come E.Tylor; W.R.Smith G.G.Frazer, Morgan ecc.. con una particolare attenzione per temi affascinanti come la religione; i sistemi di parentela; la definizione del concetto di cultura, la magia.

L’Oggetto di studio:

L’oggetto di studio era la storia e l’evoluzione della società umana nel suo complesso, che appariva, grazie all’approccio evoluzionista come il risultato dell’azione di leggi sempre identiche i cui effetti cumulativi avevano generato stadi di sviluppo contrassegnati da una crescente complessità. Per esempio i primitivi rappresentavano lo stadio più remoto dello sviluppo culturale e quindi considerati inferiori.

Metodo di ricerca:

Il metodo degli evoluzionisti era un metodo di tipo comparativo, facevano cioè una comparazione fra le varie culture, al fine di ricostruire gli stadi dell’evoluzione culturale.

Autori e opere:

Edward Tylor – L’Animismo:

Tylor dedicò attenzione al problema della religione, studiando l’animismo (cioè la credenza nelle anime e negli esseri spirituali in genere, tipica dei popoli primitivi). Tylor notò innanzitutto che l’esperienza del sogno aveva creato i presupposti per lo sdoppiamento della personalità e l’esistenza del doppio: Il doppio sarebbe un’anima che vive all’infuori del corpo. Più tardi l’uomo avrebbe esteso la credenza nel possesso di un anima a tutti quegli esseri e fenomeni naturali che colpiscono l’immaginazione (animali; Piante; fenomeni naturali ecc..). Ma giustamente con l’emergere del pensiero razionale, questa credenza, era andata progressivamente scomparendo fino a riguardare soltanto il cristiano civilizzato. A tylor va tuttavia il merito di aver inserito nel discorso antropologico il concetto di sopravvivenza: cioè una qualunque cosa, credenza, idea o pratica, il cui significato era perito da secoli, ma che poteva continuare a sopravvivere semplicemente perché era esistita in precedenza. Era quindi un “Fossile sociale” che permetteva di risalire all’epoca in cui quell’idea o pratica aveva un significato e quindi comprendere lo stadio di sviluppo culturale precedente a quello attuale.

William Robertson Smith: Riti e simboli:

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Il dibattito sulle origine dell’istituzione religiosa fu ripreso da W.R.Smith, che studiò soprattutto i popoli di origine semitica e le attività rituali. Per Smith infatti il dato primario dell’esperienza religiosa sono i riti e i simboli condivisi dai membri della società. Il fatto di conformarsi o meno ai rituali pubblici era segno del rapporto che l’individuo aveva con la collettività. La religione di un uomo dunque era per Smith un elemento integrante delle sue relazioni politiche. La religione fa dunque da collante sociale. Su queste basi analizzò il significato del sacrificio: esso non era compiuto in favore della divinità allo scopo di conquistarsi la sua fiducia, ma rappresentava una comunione tra la società e una divinità che rifletteva l’unità della società stessa.

Games George Frazer - Il ramo d’oro:

Una delle opere più influenti del suo repertorio etnografico e di particolare rilevanza è senza dubbio “ Il Ramo d’oro” nella quale avanza l’ipotesi che la magia, la religione e la scienza avrebbero costituito altrettante tappe dello sviluppo intellettivo umano. Per Frazer la pratica della magia corrispondeva a una fase dello sviluppo dell’intelletto umano caratterizzato da confusione in un primo momento e ignoranza in un secondo momento. Alcuni uomini avrebbero pensato di accattivarsi il favore delle potenze della natura proprio attraverso la religione, e la nascita della figura del sacerdote come mediatore tra l’uomo e il divino; successivamente ancora l’uomo si accorse dell’impotenza degli dei, così si passò all’osservazione dei fenomeni naturali e alla ricerca delle leggi che regolano i rapporti con la scienza. Frazer può essere considerato l’ultimo esponente dell’evoluzionismo vittoriano e per certi versi il più celebre.

C3 L’Antropologia americana (Morgan).

Contesto storico:

Ci troviamo in America nella prima metà dell’ottocento, l’antropologia si indirizza principalmente verso lo studio dei nativi americani (indiani o irochesi) e vede soprattutto l’emergere di uno studioso di particolare rilevanza intellettuale che dedicò il suo studio principalmente alla cultura degli indiani d’America, o irochesi come lui li chiamava. Stiamo parlando di Lewis H.Morgan.

L’oggetto di studio:

L’oggetto di studio dunque era la cultura degli irochesi, dei quali all’epoca, esistevano e regnavano due concezioni; una positiva e un’altra negativa. Secondo quella negativa: l’indiano era il nemico che impediva all’uomo bianco di espandersi. Secondo quella positiva era chiamato a sostenere, con le sue virtù, la giovane nazione americana. Vi era poi per gli americani un altro problema; essi si ponevano la

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questione: “Gli indiani, possessori del suolo nazionale, erano una nazione?”. A questo quesito “Thomas Jefferson” (secondo presidente USA), stabilì che se gli indiani avessero abbandonato la loro economia di caccia per convertirsi all’agricoltura, avrebbero potuto entrare a far parte della nazione americana. Rispose alla questione il celebre studioso Morgan: ribattendo giustamente, che se gli irochesi si convertissero all’agricoltura smetterebbero di essere indiani a verrebbero meno a un’usanza e a un principio importante della loro cultura.

Metodo di ricerca:

Siamo ancora nella prima metà dell’ottocento, dunque regna ancora il cosiddetto metodo comparativo e un approccio di stampo evoluzionista.

Morgan – “La lega degli irochesi”:

Nella sua opera – “la lega degli irochesi”, Morgan studiò i sistemi di parentela indiani: Ogni nazione era divisa in tribù, ognuna designata da un nome di un animale e gli appartenenti alla tribù, con lo stesso nome. Anche se appartenevano a nazioni diverse, si consideravano fratelli. Ed è qui che Morgan individua un primo elemento interessante e cioè: lo spirito egualitario e democratico dei nativi americani.

Per studiare i sistemi di parentela Morgan, anzitutto stabilì due gruppi di sistemi, corrispondenti a loro volta a due modi differenti di designare i parenti consanguinei e quelli affini, cioè acquisiti grazie a relazioni di tipo matrimoniale. Morgan definì i sistemi di parentela del modello irochese, “classificatori”, poiché i parenti consanguinei in linea collaterale non vengono distinti da quelli in linea diretta (il fratello del padre viene chiamato padre), i sistemi europei sono invece “descrittivi”, poiché operano distinzioni tra i collaterali e i diretti, creando dei termini specifici di riferimento (padre, zio, figlio). Per Morgan I SISTEMI CLASSIFICATORI sono caratteristici di quelle organizzazioni sociali basate sui rapporti di parentela, mentre quelli descrittivi fondano la società sui rapporti di tipo politico – “la società politica”.

Quindi dal sistema classificatorio che non permetteva di distinguere i figli di uno dai figli dell’altro; si passò alla famiglia “monogamica”, con la quale diveniva possibile descrivere i rapporti esistenti tra i membri. Morgan sostiene che nella società politica i rapporti di parentela tendono a perdere la loro funzione dominante a vantaggio dei rapporti fondati sul consenso e la territorialità, tutto questo secondo Morgan per via dei diritti della proprietà privata cioè: la protezione della legge sarebbe venuta a sostituire la protezione fornita dal gruppo di parenti. La nascita della proprietà privata diverrebbe l’unico fattore che spiega la sostituzione del sistema classificatorio con quello descrittivo.

Morgan-“la società antica”

Nella sue opera – la società antica, Morgan distingue la storia dell’umanità in periodo etnici, che sono: selvaggio, barbaro,civilizzato, con l’aggiunta di tre sottoperiodi:

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inferiore;intermedio;superiore. Tale periodizzazione trovava espressione nelle invenzioni e nelle scoperte, caratteristiche di ciascuna fase storica es:

intermedio/selvaggio - pesca,uso del fuoco

Intermedio/superiore – uso dell’arco e caccia.

Ma la civiltà vera e propria avveniva dopo la scoperta dell’alfabeto fonetico.

C4 Lo sviluppo dell’antropologia americana e la scuola di Boas:

a Boas si deve una rifondazione quasi totale dell’antropologia americana. Egli cominciò a concepire il suo lavoro come studio delle singole culture e delle aree particolari, tanto che il suo metodo di tipo comparativo fu definito “Particolarista”. Nella sua celebre opera l’uomo primitivo dimostrò come le caratteristiche culturali di un popolo non avessero nessun rapporto con l’aspetto fisico dei suoi membri. Egli era critico nei confronti dell’evoluzionismo, secondo il quale esiste un sistema superiore che ha portato l’umanità a svilupparsi ovunque. Per Boas era impensabile sostenere che un tale fenomeno era andato soggetto ad uno sviluppo identico in ogni luogo e che gli stessi fenomeni erano dovuti a stesse cause. Per cui egli pensava che l’obiettivo dell’etnologia fosse la conoscenza delle cause storiche che avevano determinato la forma dei tratti culturali propri di certe popolazioni, erano questi i capisaldi del “Particolarismo storico” cioè i fatti storici erano intesi come delle individualità irriducibili, proprie di una determinata cultura.

Il particolarismo storico: (approfondimento)

Il particolarismo storico, è un procedimento induttivo fondato sull’osservazione empirica di un gruppo culturale bel localizzato e volto a mettere in luce le strutture sociali peculiari a partire dal suo specifico sviluppo storico. L’affermazione di Boas secondo cui la cultura non esiste, ma esistono invece diverse culture, trova il suo fondamento che ogni gruppo etnico sia diverso da un altro per il carattere irripetibile della sua storia. Ciò lo porta a ritenere impossibile l’esistenza di stadi di sviluppo comuni a tutta l’umanità. Boas dunque sottolineò, come la storia delle singole culture fosse il risultato tanto del loro sviluppo interno quanto degli scambi con le culture vicine.

Critica all’evoluzionismo e al metodo comparativo:

Nella critica al metodo comparativo adoperato dagli evoluzionisti. Boas, (1896) aveva sostenuto che l’uso che ne era stato fatto portava a commettere numerosi errori. In contrapposizione agli evoluzionisti che sostenevano che esiste un sistema superiore che ha portato l’umanità a svilupparsi ovunque secondo le stesse cause, Boas rispose che non è sempre vero che fenomeni simili o uguali derivano dalle stesse cause ma possono tranquillamente esistere fenomeni simili che si sono sviluppati indipendentemente a partire da situazioni del tutto diverse. Inoltre in sostituzione e in

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opposizione al metodo comparativo. Boas propone un metodo che per certi versi ritiene più sicuro basato proprio sul concetto di particolarismo storico e cioè: Ogni antropologo doveva concentrarsi su una specifica area culturale e ricostruire al suo interno i processi storici, di invenzione e di diffusione, che hanno portato all’attuale stratificazione di tratti culturali.

Boas condusse un importante ricerca sul sistema potlach degli indiani Kwkiutl. Si trattava di rituali di ostentazione che prevedevano la distruzione di grandi quantità di beni considerati di prestigio. Attraverso i ptlach individui dello stesso status si sfidavano in una gara distruttiva allo scopo di affermare il proprio rango pubblicamente, e di abbassare quello dei rivali. Oggi si intende a considerare il potlach, almeno per quanto riguarda il suo aspetto distruttivo, come un meccanismo attraverso il quale venivano sottratti al processo riproduttivo della società quei beni che, se al contrario vi fossero stati immessi nuovamente, avrebbero provocato un’alterazione del sistema e di conseguenza introdotto un elemento perturbatore nella struttura dei rapporti di potere. Per i Kwakiutl , presso i quali Boas lavorò come etnografo il Potlach costituiva una paratica rituale per mezzo della quale diveniva possibile impedire un alterazione del sistema. Boas in sostanza interpretò il potlach come una pratica connessa all’acquisto del prestigio che poteva derivare ad un individuo dal fatto di aver distribuito o distrutto più beni dei suoi rivali e dall’averli perciò superati in generosità. Il potlatch è un esempio di economia del dono, in cui gli ospitanti mostrano la loro ricchezza e la loro importanza attraverso la distribuzione dei loro possessi, spingendo così i partecipanti a contraccambiare quando terranno il loro potlatch. Benché questo tipo di scambio sia ampiamente praticato in tutto il pianeta (basta considerare, per esempio, la pratica occidentale di pagare da bere agli amici), il potlatch è l'esempio maggiormente conosciuto di questo fenomeno.

Boas è stato anche il primo a introdurre il concetto di relativismo culturale che è del resto l’inevitabile conseguenza del particolarismo storico. Questa tesi si fonda sull’assunto secondo cui ogni cultura ha una sua unicità che la rende incomprensibile e impossibile da valutare a tutti coloro che non la studiano dal suo interno.

Allievo di Boas fu Kroeber che affermò che i fenomeni culturali possono essere colti nella loro complessa individualità soltanto nella misura in cui se ne conoscono le relazioni con il resto di quella grande unità che si chiama vita. Le sue critiche si rivolsero anche a Morgan, di cui riteneva che la distinzione tra sistema classificatorio e descrittivo fosse arbitraria. I sistemi di parentela esistenti rivelano infatti, di possedere entrambe le caratteristiche. Comunque sia, il modo di concepire la natura dei sistemi di parentela era nettamente diversa: Per Morgan essi esprimevano la natura dei rapporti e delle istituzioni sociali, per Krober riflettevano la psicologia veicolata del linguaggio, dei soggetti culturali: i termini di parentela rispecchiano la psicologia non la sociologia. Essi sono determinati in primo luogo dal linguaggio, quindi i termini di parentela venivano considerati da krober come sempli espressioni di ciò che al pari dell’economia, dell’arte o della lettarura poteva essere considerato un particolare aspetto della cultura stessa, in questo caso il linguaggio. K, lasciò intendere che i termini di parentela possono essere associati anche a domini semantici diversi da quello parentale, come quando usiamo, per esempio, i termini padre,zio,

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nonno in riferimento a individui che non ci sono parenti in senso stretto. Egli evidenziò otto principi che regolano la costituzione di un sistema terminologico:

1. Differenza tra persone della stessa generazione e generazioni diverse

2. Differenza tra la linea diretta e collaterale

3. Differenza d’età

4. Il sesso del parente

5. Il sesso di colui che parla

6. Il sesso dell’individuo traverso il quale passa la relazione di parentela tra chi parla e colui di cui si parla.

7. Distinzione tra consanguinei e acquisiti

8. Condizioni di vita.

La natura superorganica della cultura:

Nel 1917 Kroeber pubblicò il superorganico , un saggio in cui affermava la discontinuità assoluta tra il livello dei fenomeni culturali e quello tipico di altri fenomeni, come ad esempio quelli biologici e psicologici. La tesi centrale è che l’ordine dei fenomeni culturali è di natura superorganica, irriducibile all’ordine dei fenomeni biologici. I fenomeni culturali anziché situarsi in una relazione di continuità coi fenomeni biologici sono provvisti di una esistenza di tipo autonomo. In questo senso essi sono spiegabili soltanto sulla base di altri fenomeni culturali.

C5 Sociologia francese sulle società primitive:

La riflessione antropologica francese sulle società primitive nell’ottocento non conobbe sviluppi significativi sino alla fine del XIX secolo. La riflessione francese sulle società primitive si sviluppò infatti tardivamente rispetto a quanto era avvenuto in Gran Bretagna ed aveva instaurato un rapporto di dipendenza dalla sociologia. Quest’ultima era una disciplina derivata a sua volta dalla filosofia, e in particolare dalla filosofia positiva di Auguste Comte. Egli sosteneva che la sociologia fosse allo stesso tempo conoscenza e strumento di gestione della società sulla base di criteri di natura tecnico-scientifica.

Comte si propose di spiegare il concetto di credenza comune mediante la sua famosa teoria dei 3 stadi:

stadio teologico – corrisponde allo stadio primitivo

stadio metafisico – attribuire un fenomeno a qualcos’altro

stadio positivo – corrisponde allo stadio contemporaneo: capacità di conoscere e spiegare (pensiero razionale). Comte sostiene che il compito

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del sociologo sia quello di trasportare tutti gli uomini allo stadio positivo.

Ma che cosa sono le credenza comuni?

Si definiscono credenze comuni le opinioni mediamente accettate dai membri di una società le quali non sono il prodotto di una disposizione pienamente razionale, ma dell’intuizione, della tradizione, del sentito dire ecc.

Comte, aveva compreso la funzione socialmente normativa, cioè regolativa sul piano sociale, di tali credenze. All’interno della cosiddetta legge dei tre stadi, è solo nella fase teologica e in quella metafisica che per Comte le credenze comuni sarebbero in grado di svolgere fino in fondo il ruolo di elementi stabilizzatori del sistema sociale. Nello stadio positivo della società invece il carattere razionale del sapere elimina ogni residuo teologico e metafisico dai processi di comprensione della realtà.

Coscienza e rappresentazioni collettive (Emile Durkheim):

Allontanandosi da Comte per il quale i sentimenti comuni erano attivi solo in società dominate da un pensiero pre-positivo, Durkheim individuò il principale di questi elementi nella coscienza collettiva che nell’opera la divisione del lavoro sociale venne da lui definita come “l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una stessa società”. Per Durkheim tutte le società possedevano una coscienza collettiva ed erano quindi comparabili. La stessa sociologia era secondo il sociologo un sapere comparativo che doveva prendere in considerazione il numero più alto possibile di una società per giungere alla conoscenza delle leggi della vita sociale.

Nella sua opera la divisione del lavoro sociale. Durkheim descrive come la maggiore o minore intensità con cui la coscienza collettiva si manifesta nelle diverse società sia in relazione con il tipo di solidarietà vigente tra i membri di esse:

S.Meccanica – vede una coesione sociale spontanea perché tutte le persone condividono le stesse cose (si sta insieme perché si è simili)

S.Organica – si sta insieme perché diversi e quindi si ha bisogno gli uni degli altri.

Cambia dunque il tipo di coesione sociale.

La religione e le sue forme elementari:

Il lavoro di Durkheim che più d’ogni altro risentì delle suggestioni etnologiche di allora è “le forme elementari della vita religiosa”. Quest’opera rispondeva al tentativo di elaborare una teoria generale della religione e della società attraverso l’individuazione di quegli elementi – che entrano a far parte di tutti i sistemi religiosi e sociali.

Il problema di individuare queste rappresentazioni fondamentali, venne risolto da Durkheim elaborando una teoria che spiegò il carattere unitario della religione come fatto sociale: Il totemismo. Il totemismo è una forma di religione in cui il grupo si identifica con un animale, o un fenomeno naturale, che sarebe diventato sia il simbolo del gruppo, sia dell’antenato comune ai membri del gruppo, sia, infine, un oggetto di

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culto da parte dei membri di esso. Durkheim considerava il totemismo come il sistema religioso più semplice al cui interno agivano rappresentazioni di natura collettiva indipendenti dalla psiche individuale, rappresentazioni che erano la “proiezione ideale del gruppo sociale”. L’unità del gruppo, la solidarietà dei suoi membri, la consapevolezza di non poter esistere al di fuori della società spingono gli individui a idealizzare la propria unione la quale si trova rappresentata in un simbolo cioè il totem, in questo senso quindi Drkheim ci dice che la religione è un importantissimo collante sociale perché in un certo senso attraverso il totem la società adora se stessa.

La religione è un potere ai quali gli individui obbediscono, ma non è un dominio, ma piuttosto un potere morale, che non è altro che il rispetto che gli individui hanno per la società. La religione in definitiva appare come un sistema di rappresentazioni e riti attraverso i quali gli individui partecipano misticamente e collettivamente a questa entità provvista di forza sovrannaturale che è il corpo sociale. Per Durkheim un rito, un ruolo, una credenza, erano tutti fatti sociali: egli d’altronde, considerava i fatti sociali come l’oggetto specifico della sociologia; insieme di azioni e rappresentazioni identificabili sulla base del potere che essi avevano, di esercitare una costrizione sugli individui (imponendo l’adesione alle regole).

I concetti di fatto sociale e di coscienza collettiva introdotti dal grande sociologo E.Durkheim, ebbero una forte influenza all’interno della sociologia e dell’etnologia francese, scatenando una riflessione di non poco conto all’interno delle discipline, riflessione che di conseguenza portò lentamente a un distacco tra il pensiero sociologico e quello etnologico. La riflessione consistette nel tentativo di cogliere, dietro i fenomeni sociali, le ragioni nascoste, del loro accadere.

Il prelogismo di Lucian LèVY Bruhl:

Fu uno degli studiosi che più sviluppò in maniera originale le idee di Durkheim. Nel suo primo lavoro “la morale e la scienza dei costumi” Bruhl cerca di dare una risposta alla domanda: esiste una morale oggettiva? Cercò dunque di comprendere il diverso significato che l’esperienza morale può assumere in contesti sociali differenti. Questo pensiero lo fece avvicinare presto all’etnologia e alle società primitive. Infatti in un’altra sua opera intitolata psiche e società primitive cerca di delineare una teoria generale della mentalità primitiva: secondo Bruhl le rappresentazioni collettive non erano sbagli di valutazione compiuti dalla mente rozza del primitivo (come pensavano gli evoluzionisti) ma erano rappresentazioni comuni ad un dato gruppo sociale e trasmissibili di generazione in generazione, che si imponevano agli individui attraverso la pratica sociale, e per tali ragioni erano veri e propri fatti sociali. Egli portò in un certo senso l’idea di Durkheim secondo cui la forza del pensiero sociale si impone agli individui. L’individuo non sviluppa un suo proprio giudizio sulla realtà ma è influenzato da ciò che la società gli impone. Questo spiega come alcuni individui di società primitive continuino a praticare la magia nonostante gli effetti negativi o nulli.

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Bruhl sostiene poi che la mentalità dei primitivi sarebbe caratterizzata da un tipo di logica che tende a coordinare tra loro quelle che sono le rappresentazioni di natura mistica, una logica che viene definita dallo studioso pre-logica: cioè la mentalità dei primitivi interpreta in modo diverso dal nostro quel che noi chiamiamo la natura e l’esperienza. Si preoccupa delle cause di ciò che accade. Ma non le cerca nella stessa direzione. Vive in un mondo in cui innumerevoli potenze occulte da per tutto presenti sono sempre attive o pronte ad agire. È importante precisare che il concetto di pre-logico, non sta a designare una forma meno evoluta rispetto al logico, ma indica piuttosto una differenza di tipo qualitativo tra l’attività mentale del civilizzato e quella del primitivo.

C6 L’antropologia in Italia:

Nei primi anni del 900 la cultura antropologica italiana mostrava un certo ritardo rispetto agli altri paesi europei, un ritardo dovuto soprattutto a sua volta, al ritardo con cui si era avuta l’unità d’Italia. In particolare gli studi , riguardarono principalmente le tradizioni popolari, in particolare quelle regionali portando alla nascita della cosiddetta demologia. L’effettivo iniziatore degli studi demologici nel nostro paese fu Giuseppe Pitrè. Egli compì una lunga opera di raccolta e di registrazione etnografica delle tradizioni popolari della sicilia e pubblicò “la biblioteca delle tradizioni popolari siciliane” composta da 25 volumi che raccoglievano proverbi favole credenze, pratiche magico-mediche, giochi popolari chiamando demopsicologia l’ambito di questo genere di studi.

Tra gli altri esponenti ricordiamo Alberto la Mormora, che raccolse notizie sulla vita delle popolazioni sarde tentando una comparazione con i popoli dell’antichità classica. Dopo qualche anno si ha una raccolta di canti popolari di Niccolò Tommaseo.

Nella seconda metà dell’ottocento, assunse consistenza un indirizzo che mirava alla ricostruzione storica di diffusione e di distribuzione delle forme liriche. I maggiori rappresentanti di questo indirizzo furono Alessandro d’Ancona e Costantino Nigra.

Particolarmente rilevante fu il lavoro di Nigra e la sua teoria del sostrato etnico: Nigra sviluppò l’idea secondo la quale l’Italia si presenta, dal punto di vista della produzione lirica popolare divisa in due aree: una superiore ed una inferiore. Della prima facevano parte le regioni a nord dell’Appennino tosco-emiliano, della seconda tutte quelle a sud di quest’ultimo. Nigra ricondusse i motivi prevalenti dell’area superiore all’elemento narrativo, storico-romanzesco, e quelli dell’area inferiore all’elemento lirico-amoroso, ciascuno con una propria struttura interna. Cercò dunque di collegare la canzone storico-romanzesca dell’area superiore superiore, alle liriche dello stesso genere presenti nell’area francese e iberica. Inoltre egli cercò di mettere in rapporto le peculiarità dei contenuti delle liriche delle due aree con i dialetti qui parlati, finendo poi per ricondurre queste differenze alla grande divisione tra un mondo italico ed un mondo celtico, entrambi nascosti sotto una strato latino.

Ma la figura più rilevante dell’etnografia di fine 800 e inizio 900 è senza dubbio Lamberto Loria: nel 1911 Loria organizzò la mostra di etnografia italiana. Si cercò di offrire ai visitatori un’immagine il più possibile autentica della vita dei nostri ceti

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popolari. La mostra risultava basata su due concetti: Finzione ed autenticità. I costumi veri non esistevano più quindi bisognava produrre dei nuovi secondo un vecchio modello. È proprio attraverso questa finzione che Loria e i suoi collaboratori perseguirono un ideale di autenticità mettendo così in funzione un meccanismo interessante di costruzione identitaria.

C7 l’etno-sociologia francese:

I concetti di fatto sociale , coscienza collettiva ecc. introdotti da Durkheim ebbero una notevole influenza sull’antropologia francese. In particolare lo studio delle rappresentazioni collettive, costituì l’ambito entro il quale si collocò il lavoro di Robert Hertz. Due dei suoi studi più importanti e particolarmente rilevanti furono: “la rappresentazione collettiva della morte” e “la preminenza della mano destra. studio sulla polarità religiosa”.

La rappresentazione collettiva della morte:

Il metodo di studio di Hertz era quello di isolare il fatto sociale in quanto tale dalla sua forma culturale, partendo da una prima analisi di fenomeni particolari per poi cercare attraverso una comparazione più ampia, di conferire ad essi una validità generale. È così, che nel saggio sulla rappresentazione collettiva della morte, egli si concentrò sul costume della seconda sepoltura, conducendo la propria analisi su materiali provenienti dall’area del Borneo (Indonesia). Per Hertz al contrario di quello che sostenevano gli evoluzionisti ( tylor e frazer) le credenze dei primitivi relative al fenomeno della morte, non costituivano delle spiegazioni e quindi l’origine del pensiero religioso, ma piuttosto per Hertz non erano altro che delle rappresentazioni collettive: cioè processi mentali che come Durkheim aveva sostenuto, erano condivisi da tutti i membri di una società. L’Attenzione di Hertz fu attratta come si è già detto, da alcuni rituali messi in pratica dalle popolazioni del Borneo. Questi consistevano in due riti distinti intervallati da un periodo di lutto. Alle prime esequie, le quali seguivano immediatamente la morte dell’individuo seguiva, dopo un certo tempo, un altro rito, più solenne del primo, durante il quale veniva data una sistemazione definitiva ai resti del defunto. Era questo il rito della seconda sepoltura che Hertz prese come punto di partenza per la sua riflessione sul significato sociologico della morte in quanto oggetto di rappresentazioni collettive.

Studiando la morte Hertz, mise in rilievo il fatto, che al di là della sua natura di fenomeno biologico. La morte si riveste presso tutte le società, di emozioni e di rappresentazioni diverse, non solo, nel loro aspetto culturale, ma anche nel loro significato sociologico, facendoci capire come il fenomeno della morte non si limita a mettere fine all’esistenza corporea, visibile, di un vivo, ma essa distrugge contemporaneamente l’essere sociale che si sovrappone all’individualità fisica.

Esempio:

Alla morte di un capo o di un uomo investito di grande dignità, un vero e proprio panico si impadronisce di tutto il gruppo. Al contrario la morte di uno straniero o di uno schiavo , passerà quasi inosservata e non darà luogo ad alcun rito.

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Tutto questo a dimostrazione del fatto che la morte di strugge il rapporto dell’individuo con il gruppo di cui fa parte e dal quale trae la sua stessa identità sociale. Per questo motivo la comunità avverte la morte di un suo membro come una minaccia alla propria coesione: essa deve ristabilire quell’equilibrio che la scomparsa di un individuo ha alterato, mediante una serie di rituali atti allo scopo (i rituali funebri). Attraverso tali rituali il defunto è ragionevolmente distaccato dalla comunità dei vivi e reintegrato in quella dei morti e degli antenati. L’attenzione di Hertz sul tema della morte, fu attratta da alcuni rituali messi in pratica dalle popolazioni del Borneo:

Questi consistevano in due riti distinti intervallati da un periodo di lutto, alle prime esequie subito dopo la morte dell’individuo, seguiva dopo un certo tempo, un altro rito più solenne del primo, durante il quale veniva data una sistemazione definitiva ai resti del defunto. Era questo il cosiddetto rito della seconda sepoltura che Hertz prese come punto di partenza per la sua riflessione sul significato sociologico della morte in quanto oggetto di rappresentazioni collettive.

Nell’esistenza di questo doppio rito funebre Hertz individuò infatti il carattere fondamentale che la morte riveste presso tutte le società, ossia quello di una transizione, un passaggio dal mondo visibile a quello invisibile, dalla comunità dei vivi a quella dei morti. In questo senso secondo Hertz i riti funebri assomigliavano a riti come la nascita o il matrimonio. Da tutto ciò dedusse che qualsiasi società sana non può ammettere che un individuo che ha fatto parte della sua sostanza e che porta il suo marchio, sia perduto per sempre, l’ultima parola spetta sempre alla vita.

La preminenza della mano destra:

In questo saggio Hertz sostiene che l’asimmetria organica per cui la destra risulta prevalere sulla sinistra non spiega anche la sua prevalenza sul piano simbolico, per lui dunque la destra rappresentava una vera e propria istituzione sociale e andava analizzata in termini di rappresentazioni collettive. Per spiegare dunque questo fenomeno Hertz riprese l’opposizione dei concetti di sacro e profano già spiegati da Durkheim e R.Smith. Sostenendo dunque che queste due dimensioni spingono gli esseri umani a strutturare l’intero universo secondo un principio bipolare. Tutte le cose esistenti sono concettualmente distribuite tra questi due opposti, la destra e la sinistra così come il sacro e il profano ( per es. è visto in modo sinistro tutto ciò che è male).

I riti di passaggio: Arnold Van Gennep:

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A Van Gennep, in riti di passaggio afferma che i riti scandiscono il passaggio da uno stato sociale all’altro degli individui presso Tutti i gruppi umani. All’interno di ogni rito distingue 3 fasi:

1. Separazione (riti preliminari)

2. Margine (riti liminari)

3. Aggregazione (riti post-eliminari).

Lo studioso da particolare importanza alla fase di margine poiché essa consentiva di ridurre l’aspetto traumatico del passaggio dalla fase iniziale di distacco da una determinata condizione alla fase della incorporazione in un’altra categoria sociale sottoforma di acquisizione di un nuovo status sociale. La fase di margine era anche quella più delicata poiché la condizione non definitiva di chi si sottoponeva al rito era considerata come portatrice di forze giudicate pericolose per la comunità.

Marcel Mauss: L’omologia strutturale,i fatti sociali totali e la teoria del dono:

L’omologia strutturale:

Uno dei primi lavori originali e importanti di Mauss fu quello dedicato allo studio delle forme primitive di classificazione, scritto in collaborazione con Durkheim, questo saggio si proponeva di mostrare come gli esseri umani non raggruppano istintivamente in categorie oggetti ed esseri animati i quali fanno parte del repertorio della loro esperienza; essi invece li raggruppano avendo in mente la ripartizione degli stessi esseri umani in gruppi sociali. Per sviluppare questa idea di un omologia tra l’ordine della società e l’ordine attribuito dagli esseri umani al mondo, i due autori considerano la società degli aborigeni australiani, come punto di partenza della loro analisi. Le società australiane si presentavano come divise in classi matrimoniali, cioè gruppi esogamici non fondati sulla discendenza, ma su altri criteri di appartenenza. Durkheim e Mauss considerarono la divisione in classi matrimoniali caratteristica delle popolazioni australiane come il sistema più semplice di organizzazione sociale esistente e cercarono di stabilire come la classificazione delle persone, degli animali e delle cose avvenisse secondo criteri omologhi corrispondenti alla divisione della società in classi matrimoniali. Ad ogni classe fornita di un nome di animale,era associata una serie di fenomeni naturali, di animali e di oggetti. Il mondo era in tal modo ordinato, classificato, dagli aborigeni australiani, in categorie direttamente legate alle suddivisioni della loro società.

Il fatto sociale totale:

Meno preoccupato di sviluppare un sistema teorico come Émile Durkheim, Marcel Mauss si inscrive però nella continuità della sociologia durkheimiana. Illustrando l'idea di "fatto sociale totale”: con studi concreti, si preoccupa di mostrare come uno solo fenomeno significativo consente di vedere le strutture sociali sottostanti nella loro totalità.

Lo studio sugli eschimesi fu un primo tentativo di applicare il suo oggetto teorico, l'ormai famoso fatto sociale totale, ad un fenomeno empirico, ossia al modo in cui le popolazioni eschimesi si strutturavano fisicamente all'interno del proprio territorio a seconda dei periodi dell'anno. Per fatto sociale totale, Mauss intendeva specifici fatti in grado, da soli, di convogliare una gran quantità di altri fenomeni di natura analoga. In tal modo diventava possibile porre l'attenzione non ad una serie di rappresentazioni collettive, quanto ad un singolo fenomeno, in grado, però, di dar conto del modo in cui veniva strutturata la società da parte dei suoi

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membri. Il fatto sociale totale doveva configurarsi come un punto di partenza da cui fosse possibile spiegare i differenti aspetti sociali di un gruppo. Scoperto il nocciolo centrale di una struttura, era possibile, per estensione, avvicinarsi alla conoscenza di tutto ciò che esisteva proprio in funzione di esso, compresi i relativi livelli simbolici. Nel saggio, dunque, Mauss studierà il diverso modo che hanno le società eschimesi di strutturarsi sul territorio a seconda delle differenti stagioni dell'anno, viste in stretta dipendenza con l'organizzazione delle attività economiche.

Teoria del Dono

Molto conosciuta e importante per la storia dell'antropologia, la teoria del dono di Marcel Mauss oggi viene tuttavia considerata obsoleta da alcuni autori. La teoria, espressa nel suo celebre "Saggio sul dono", nasce dalla comparazione di varie ricerche etnografiche, tra le quali lo studio del rituale potlach di Franz Boas e del Kula di Bronislaw Malinowski. Lo scambio dei beni, anche se di valore intrinseco non fondamentale, è uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane e costituivano per Mauss dei tipici esempi di fatti sociali totali poiché erano strettamente legati ad altri aspetti della vita sociale. L'autore suppone che il meccanismo del dono si articoli in tre momenti fondamentali basati sul principio della reciprocità:

1. dare

2. ricevere – ( l'oggetto deve essere accettato)

3. ricambiare.

Il carattere di obbligatorietà di questi scambi per Mauss era dovuto ad una qualità intrinseca del dono, costituita dalla forza magica di colui che l'ha ceduta. Se l'equilibrio non viene ristabilito ricambiando il dono, lo scambio viene interrotto e la forza si scatena contro il trasgressore.

Nel formulare questa interessante teoria, Mauss potrebbe essere stato influenzato dalla teoria dell' HAU che è lo spirito della cosa donata secondo i Maori della Nuova Zelanda. Per Lévi-Strauss il fatto che abbia assunto una teoria indigena come spiegazione del fenomeno è sia un progresso che un limite, in quanto lo HAU non è la ragione ultima degli scambi, che secondo lui nascono invece da principi inconsci.

La comparazione tra diverse "prestazioni totali" indusse Mauss a formulare il concetto di "fatto sociale totale", intendendo con ciò quei momenti cruciali della realtà umana che, nel loro accadere, coinvolgevano la pluralità complessiva dei livelli sociali. Come ebbe modo di affermare Lévi-Strauss, che di Mauss si dichiarò apertamente discepolo, ciò che animava l'opera di Mauss, e il "Saggio sul dono" in modo particolare, era lo sforzo di comprendere la vita sociale come sistema di relazioni.

C9 Il tramonto dell’evoluzionismo e la ricerca sul campo in Gran Bretagna:

Il periodo compreso tra l’ultimo decennio del XIX secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale rappresentò una fase di transizione per l’antropologia e in particolare per l’antropologia britannica. Fu un periodo in cui prese sempre più consistenza l’attività di ricerca sul campo. Alla base di questo cambiamento c’era innanzitutto il fatto che la Gran Bretagna aveva dei vasti possedimenti coloniali rispetto alle altre potenze europee , questo consentì a cittadini e soprattutto a funzionari dell’amministrazione coloniale, di entrare in contatto con queste popolazioni

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extraeuropee, questa fu dunque la ragione principale che portò ad un più rapido sviluppo sia dell’antropologia accademica che dell’attività di ricerca empirica. Furono negli stessi anni promossi alcuni importanti progetti e spedizioni come “etnographic survey of the united Kingdom”, the imperial Gazzetter of India , lo stretto di torres ecc….

Questo nuovo metodo della ricerca sul campo trovò tra i suoi primi sostenitori e fondatori lo studioso William H.R.Rivers. Per quest’ultimo il ricercatore sul campo era quello che viveva un anno o più in una comunità studiando tutti i dettagli della loro vita e della loro cultura, in cui egli giunge a conoscere personalmente tutti i membri della comunità, e non si limita a informazioni di carattere generale, ma studia ogni aspetto della vita e delle usanze nei dettagli pratici e mediante l’uso della lingua locale.

I suoi interessi si rivolsero allo studio dei popoli primitivi ed in particolare alle terminologie di parentela. Si avvicinò alla tesi di Morgan, secondo la quale le terminologie di parentela erano la conseguenza linguistica delle relazioni sociali. Lui voleva ribadire il carattere sociologicamente significativo dei sistemi terminologici di parentela e connetterli alla vita sociale presso cui il termine era in uso. Il metodo consisteva nel chiedere ad un individuo i nomi dei suoi parenti più prossimi e come li designava, lo stesso veniva fatto con i parenti più lontani, sia in linea diretta che collaterale, fino a raggiungere un quadro esaustivo delle terminologie impiegate. Si potevano stabilire così, differenze e somiglianze terminologiche tra i parenti . Il metodo era molto semplice e poteva essere capito sia dal ricercatore che dal nativo e permetteva di superare le distanze tra i due ponendoli sullo stesso livello.

Rivers, profetizzò anche l’avvento del ricercatore professionale, che sarebbe prevalso in futuro, un ricercatore cioè che dedica tutte le attenzioni al lavoro etnologico, senza preoccuparsi dei compiti di carattere amministrativo. Inoltre Rivers pone una riflessione su un nuovo stile di ricerca, una ricerca che non si limita allo studio sociologico alla religione o alla tecnologia di un popolo, ma entra nel profondo della vita sociale cercando di cogliere il perché le culture si manifestano in una certa maniera, ponendo dunque le prime basi per quello che in seguito verrà chiamato funzionalismo.

C10 Funzionalismo e Malinowski:

I funzionalisti consideravano le istituzioni sociali (riti, strutture di parentela, miti ecc..) come dei dispositivi che rivestono un ruolo (cioè una funzione) nell’ambito di quell’insieme coerente che è la società. Tre sono le nozioni fondamentali che caratterizzano l’approccio funzionalista: quella di utilità (che risponde alle domande: a che cosa serve ? qual è la funzione?), quella di causalità (quali sono le cause?) e quella di sistema (qual è il posto nell’ambito dell’insieme?)

Negli anni precedenti al primo conflitto mondiale, gli studi antropologici in Gran Bretagna avevano subito importanti trasformazioni, sia a livello delle iniziative di ricerca sia a livello metodologico. Questo periodo fu testimone di un grande sviluppo

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dell’attività etnografica condotta dai primi antropologi professionali provenienti dalle università del regno unito.

Il 1922 in particolare, fu un anno decisivo in quanto fu l’anno di pubblicazione di un libro considerato una pietra miliare della storia dell’antropologia. IL 1922 è l’anno di pubblicazione di Argonauti del pacifico occidentale di Branislaw Malinowski. Malinowski fece il suo ingresso sulla scena dell’antropologia britannica al ritorno dalle isole trobriand, quindi alla fine della guerra trovando dunque una situazione sociale segnata dal conflitto mondiale. La stagnazione della disciplina, dovuta al clima di quegli anni, lo favorì, anche perché egli seppe fare tesoro di quanto la tradizione britannica, legata alla ricerca sul campo, gli aveva lasciato.

Malinowski diventò presto una sorta di mito per l’antropologia, era l’antropologo sul campo per eccellenza, dotato di particolari capacità e qualità che lo meterebbero in grado di penetrare, e quindi di cogliere dall’interno la vita delle popolazioni che egli studia. Malinowski fu infatti colui che diede il via alla pratica della cosiddetta “osservazione partecipante”: una nuova tecnica di inchiesta che consentiva ai ricercatori di entrare in un rapporto empatico con i nativi (ossia con l’oggetto di studio).

Osservare partecipando voleva dire cercare di prendere parte il più possibile alla vita degli indigeni allo scopo di cogliere il loro punto di vista, la loro visione del loro stesso mondo. Nacque così il mito Malinowski, fu il simbolo dell’uomo avventuroso che rotti i legami con il proprio gruppo e lasciatosi dietro le spalle le convenzioni sociali, si immergeva nelle altre culture, fu una figura rassicurante e di cui andarne orgogliosi per tutta la comunità antropologica. Quando però i diari segreti dell’antropologo vennero pubblicati a 25 anni dalla morte, questo mito subì un durissimo colpo. Diciamo pure che scoppiò una sorta di poccolo scandalo nell’antropologia. In effetti Malinowski risultava attraverso le pagine dei suoi diari un tipo tutt’altro che mite e controllato e da quanto emerge sempre da questi famosi diari sembra che lo studioso passasse gran parte del suo tempo desiderando di essere altrove.

Ma se da un lato i diari di Malinowski hanno contribuito a sfatare un mito, dall’altro sono di particolare importanza, perché sollevano un problema di natura epistemologica fondamentale per l’antropologia: cioè di come e quanto l’antropologo sia davvero in grado di cogliere il punto di vista dell’indigeno (dell’oggetto di studio). Proprio in questo oscillare di stati d’animo, sentimenti e predisposizioni, sta appunto ciò che Malinowski, avvertiva come “il disagio” epistemologico dell’antropologia. Malinowski è colui che in questo senso, ha posto, seppure in forma indiretta uno dei problemi centrali dell’antropologia odierna, che consiste nel poter valutare in quale misura le interpretazioni di coloro che costituiscono l’oggetto di studio dell’antropologia, contribuiscono a determinare le interpretazioni degli antropologi.

Gli argonauti del pacifico occidentale, fu una delle opere più importanti di Malinowski: Argonauti non era una descrizione delle componenti della cultura delle isole trobriand ma, come tutti gli altri libri di Malinowski su questa popolazione, partiva da un aspetto particolare della vita di essa, per poi aprirsi sugli altri. L’oggetto di studio di argonauti, era infatti costituito da una forma di attività di scambio praticata da un certo numero

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di comunità stanziate su isole anche molto lontane tra loro ma comunque comprese entro un area geografica circoscritta (cerimoniale Kula).

Nella sua opera “gli argonauti del pacifico occidentale”, Malinowski si focalizzò su una particolare forma di attività di scambio che avveniva nelle isole Trobriand. Questa forma di scambio veniva chiamata Kula (nella lingua locale). Lo scambio Kula è uno scambio di tipo cerimoniale di cui Malinowski comprese la portata sociologica in senso generale, e cioè la funzione che esso assolveva nel mantenere e nel rafforzare i rapporti tra gli individui e i gruppi.

Come funzionava questo cerimoniale di scambio?

Tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio, circolavano due tipi di oggetti 1) collane di conchiglie rosse (soulava) 2) braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le prime circolavano solo in senso orario i secondi solo in senso contrario. Ciò dipendeva dal fatto che gli oggetti appartenenti ad una categoria potevano essere scambiati solo con oggetti dell’altra categoria: collane contro braccialetti e braccialetti contro collane. Gli oggetti circolavano in continuazione restando nelle mani del loro possessore solo per un periodo limitato di tempo, essi non uscivano mai dal circuito di scambio e venivano barattati nel corso di visite che gli abitanti delle diverse isole si scambiavano periodicamente. Tanto i preparativi per la partenza, quanto gli scambi, avvenivano secondo rituali precisi accompagnati da pratiche magiche. Durante le visite gli scambi Kula erano accompagnati da un commercio di tipo profano mediante il quale venivano scambiati oggetti in possesso di un valore d’uso (gimwali). Un altro aspetto interessante della vita locale, messo in luce da Malinowski fu l’esistenza di ciò che gli antropologi chiamarono poi sfere di cambio: cioè ambiti non comunitari fra loro entro cui circolavano oggetti di natura differente. Conchiglie e bracciali potevano essere scambiato solo tra loro e non contro un qualsiasi altro oggetto.

Il desiderio di fornire un’immagine accettabile del selvaggio, come essere ragionevole, le cui pratiche sociali erano dotate e avvenivano secondo una precisa coerenza, spinse Malinowski a interpretare il fenomeno del cerimoniale Kula come un fenomeno tipicamente economico. In questo senso possiamo dire che lo studioso commise un piccolo errore:

Circoscrisse la sua analisi al solo processo di circolazione

Dedicò poco spazio allo scambio profano che sempre si accompagnava allo scambio cerimoniale.

In realtà il fenomeno Kula non è affatto da intendere come fenomeno economico, in senso stretto. Tuttavia non si può negare che sia comunque un modo di integrazione dell’economia in una determinata società. Infatti poco dopo l’analisi condotta da Malinowski sullo scambio Kula mise in evidenza l’esistenza di una rete di rapporti tra individui, clan tribù, fondati su ciò che da allora in poi sarebbe entrato a far parte del lessico comune col nome di principio di reciprocità – definita come: la prestazione o la cessione di beni materiali tra soggetti che sono legati da un vincolo extraeconomico,

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con la previsione di avere successivamente una restituzione di tali beni, in modi, quantità e tempi fissati da norme culturali.

Questo principio, descritto in Argonauti, pose le basi per il lavoro successivo di malinowski pubblicato pochi anni dopo intitolato “diritto e costume nella società primitiva”: quest’opera così come Argonauti era il tentativo di attribuire un aspetto di coerenza a pratiche connesse con il controllo sociale che erano state molto spesso svalutate da autori precedenti. Anche in quest’opera dunque riemerge l’idea dell’esistenza di un principio d’ordine non codificato, se non nella pratica tradizionale, in grado di svolgere una funzione strutturale dell’agire sociale, cioè l’idea di un principio di reciprocità come immanente alla vita sociale delle popolazioni primitive, da questa idea Malinowskì, arrivò ad una conclusione importante: il diritto non è contenuto in uno speciale sistema di decreti… il diritto è il risultato specifico della configurazione di obblighi che rende impossibile all’indigeno di sottrarsi alla propria responsabilità senza subirne in futuro le conseguenze.

Perché è importante l’opera argonauti del pacifico occidentale?

Quest’opera inaugura innanzitutto una nuova epoca nella pratica della ricerca sul campo dando vita al metodo dell’osservazione partecipante che fu senza dubbio un elemnto di innovazione anche sul piano teorico oltre che pratico:

1. Nasce una nuova concenzione di cultura e della società come complessi di fenomeni reciprocamente correlati.

2. L’oggetto di studio viene rappresentato come qualcosa che poteva essere colto attraverso una prospettiva di tipo olistico

3. L’oggetto di studio dell’antropologia risultava costituito da parti tra loro correlate in senso funzionale per il mantenimento della totalità.

Il concetto di funzionalità lo ritroviamo in tutte le opere di Malinowski.

Malinowski studiò anche la famiglia tra gli aborigeni australiani, con questo libro, malinowski sfatò il luogo comune della promiscuità primitiva secondo la quale i rapporti sessuali tra individui non erano regolati da nessuna norma. Malinowski sostiene che non è mai esistita questa pratica , e afferma contrariamente a quanto si pensa, che gli aspetti sessuali della vita sociale degli aborigeni australiani, lungi dal possedere i caratteri della promiscuità indiscriminata, sono al contrario soggetti a strette norme, a restrizioni e a regole precise.

Nell’opera “sesso e repressione sessuale tra i selvaggi”, Malinowski in opposizione all’ipotesi della promiscuità primitiva, oppone elementi ricavati statisticamente, che evidenziano come la famiglia nucleare sia di gran lunga la più praticata e la più diffusa. La famiglia elementare è per Malinowski la cellula originaria della società, in quanto è il luogo della riproduzione biologica e dell’educazione culturale.

Nel suo ambito è bandito l’incesto, in quanto disgregherebbe la famiglia e i rapporti che si instaurano intorno ad essa, quei rapporti che servono da modello a tutte le altre strutture sociali.

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Dunque la società risulta essere il prodotto dell’estensione dei rapporti familiari, e la pratica dell’esogamia (cioè lo sposarsi al di fuori del proprio gruppo di aprenti stretti), costituisce una rete di rapporti, di affinità con membri diversi da quelli familiari. La società si sviluppa dall’estensione dei legami familiari, in quanto gli affini, cioè i parenti acquisiti, si comportano come i parenti di sangue.

Malinowski tendeva a stabilire un rapporto di anteriorità e successione tra questi due fenomeni culturali, attribuendo ad essi, il carattere di risposta e di soluzione, ossia di problemi connessi alla sopravvivenza e alla perpetuazione del gruppo: la proibizione dell’incesto viene concepita come risposta ad una potenziale disgregazione dei legami familiari, mentre l’esogamia è un mezzo per risolvere efficacemente la proibizione stessa.

Funzionalismo allargato e funzionalismo ristretto:

Nel testo una teoria scientifica della cultura, Malinowski da un immagine della società e della cultura come un insieme di pratiche e comportamenti tra loro integrati tendenti al mantenimento dell’equilibrio interno alla società e del funzionamento di essa. Questo approccio fu denominato funzionalismo ristretto. In parallelo a questa concezione coesisteva l’idea di cultura come un complesso apparato spirituale, materiale e comunicativo, con il quale gli esseri umani risolvono problemi specifici e soddisfano, bisogni fondamentali. UN apparato strumentale pensato, come una serie di risposte da parte dell’uomo alle necessità imposte dall’adattamento all’ambiente esterno. È questo ciò che potrebbe essere definito funzionalismo allargato. In sostanza Malinowski ci dice che gli esseri umani risolvono i problemi materiali con risposte culturali. Esempi:

Al bisogno di cibo si risponde con l’elaborazione di strutture economiche, con le modalità degli usi culinari e delle buone maniere a tavola.

Al bisogno primario di riprodursi e all’istinto sessuale, l’essere umano risponde con l’organizzazione dei sistemi di parentela e degli scambi matrimoniali entro leggi precise e codificate.

Dalle risposte ai bisogni primari nascono a loro volta bisogni secondari o derivati, che coincidono con l’esigenza di organizzare e di mantenere la coesione sociale, a cui si risponde con le istituzioni politiche ed economiche. Nascono poi ulteriori bisogni chiamati integrativi, che accedono al livello del simbolico e che soddisfano altre necessità, come ad esempio il linguaggio, la tradizione orale e scritta, l’arte , la religione, la magia.

La magia per Malinowski, non è anteriore alla religione e alla scienza (come diceva frazer), ma è un processo primordiale che afferma il potere autonomo dell’uomo di cercare dei fini desiderati. Essa mette in grado l’uomo di compiere con fiducia i suoi compiti importanti. La funzione della magia è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo, quindi anche la magia come qualsiasi altra istituzione culturale, anche la più esotica e bizzarra assolve A UNA FUNZIONE SPECIFICA.

Da ricordare: la teoria del cambiamento culturale di Malinowski, secondo la quale il cambiamento culturale avviene tramite l’intersezione di due culture differenti.

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Cap 16 Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra:

De Martino: il problema del magismo e il concetto di presenza

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale furono, per gli studi etno-antropologici italiani, anni difficili. Gravava su questi studi l’ombra della compromissione con il regime fascista, nelle sue varianti coloniale e razzista. Un momento importante di rilancio per gli studi di carattere etno-antropologico venne dall’antropologo napoletano Ernesto De Martino.

Nel 1948 De Martino pubblicò “il mondo magico”, secondo alcuni il libro più importante dello studioso napoletano. In questo libro, in sintesi , E.De Martino costruisce la sua interpretazione del magismo come epoca storica nella quale la labilità di una presenza non ancora decisa viene padroneggiata attraverso la magia, in una dinamica di crisi e riscatto. Due sono i punti di riflessione principali, che Ernesto De Martino svolge ne “il mondo magico” :

La polemica condotta contro il cosiddetto storicismo pigro, secondo lo studioso, incapace di aprirsi alla comprensione di ciò che è situato oltre i confini della civiltà occidentale. Da questo punto vista è bene ricordare la critica e l’opposizione che De Martino muove contro lo storicismo di Benedetto Croce il quale circoscriveva tutte le attività dello spirito in quattro categorie (estetica, concettuale, economica, etica).

Il tema della presenza nel “mondo magico”: si tratta di due temi strettamente connessi. Che nel loro richiamarsi reciproco, vengono da De Martino costantemente intrecciati, con la conseguenza che non è possibile affrontare l’uno senza occuparsi anche dell’altro.

Con questo libro (il mondo magico) De Martino dà una ricostruzione dell’età magica come momento di sviluppo della storia dello spirito. Essa è un epoca in cui i confini tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto sono ancora incerti. Ma anziché risolversi in una partecipazione mistica, come riteneva l’etnologia di ispirazione irrazionalista, questa incertezza crea un dramma: quello della crisi della presenza, del rischio per l’uomo di essere annullato, il rischio appunto di non esserci, di non esistere. Di fronte a questa crisi, è la magia a salvare l’uomo che appare come un insieme di tecniche per riscattarlo da questa crisi e rassicurarlo del proprio esserci. Il magismo per De Martino è dunque un tentativo coerente, da parte dell’uomo di affermare la propria presenza nel mondo.

Quindi la magia per De Martino non è né una forma imperfetta di razionalità come credevano gli evoluzionisti né una semplice risposta allo stress emotivo procurato da situazioni dall’esito incerto, come credeva Malinowski. Ma è una lotta ingaggiata dagli esseri umani per poter esistere.

Nell’esplorazione del Mondo magico De Martino solleva un’altra riflessione importante e cioè: che non dobbiamo studiare il fenomeno magico cercando di verificare la sua efficacia reale o meno, semplicemente perché quando ci si pone il problema della realtà dei poteri magici, bisogna inevitabilmente chiedersi che cosa si intende per

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realtà. Quindi il problema non ha per oggetto soltanto la realtà di tali poteri ma anche il nostro stesso concetto di realtà.

IN un’altra sua opera importante intitolata “Morte e pianto rituale” del 1958 De Martino introduce il concetto di perdita della presenza: In questa opera è particolarmente strana l’assenza di qualsiasi riferimento o richiamo all’opera di Hertz (rappresentazione collettiva della morte) e all’opera di Van Gennep (riri di passaggio) sebbene l’opera di De Martino presenti delle notevoli analogie con queste opere. A cominciare da Hertz. De Martino infatti impiega lo stesso termine utilizzato da Hertz , scandalo, per designare l’atteggiamento della società di fronte alla perdita di un proprio componente. Richiama invece Van Gennep, quando parla della necessità degli esseri umani di far passare il defunto nel valore, ovvero in una dimensione culturale che lo recuperi come pura eticità dopo che lo scandalo della morte ha messo in dubbio la continuità della presenza.

Il concetto di destorificazione:

è in questo contesto che assume particolare rilevanza il concetto di destorificazione, attraverso il quale si intende indicare la tesi demartiniana per cui ogni di riscatto magico-religioso è di intendersi come alienazione da un sé angosciante e come processo che a sua vota consentirebbe di stare nella storia come non ci si stesse.

L’etnocentrismo critico:

De Martino è fermamente convinto della grandezza della civiltà occidentale ma al tempo stesso ritiene che tale grandezza si manifesti nella capacità di tale civiltà, l’unica a possederla, di spingersi al di là delle proprie colonne d’ercole, aprendosi al confronto con le altre civiltà, era questo quello che De Martino chiamava etnocentrismo critico: ossia quell’atteggiamento di chi pone in causa il proprio etnos nel confronto con gli altri etne, e si apre alla prospettiva di un umanesimo molto più ampio di quello tradizionale, che il nostro autore, ne il mondo magico – aveva qualificato come umanesimo ristretto perché limitato alla cultura occidentale. L’etnocentrismo è inevitabile – precisa De Martino, - nella misura in cui il giudizio che noi occidentali formuliamo intorno alle culture extraoccidentali “non può non essere etnocentrico”, ossia fondato su categorie elaborate all’interno della nostra civiltà; ma deve essere critico, ossia non dogmatico e consapevole della limitatezza strutturale del proprio giudizio. In particolare, la presa di coscienza dell’inevitabilità dell’etnocentrismo non deve essere assunta come la prova dell’impossibilità né della comunicazione tra culture, intese come organismi chiusi,né dell’allargamento dei confini dell’umanesimo: a ciò si oppone infatti il postulato della comune umanità in base al quale, a prescindere dalle etnie di appartenenza, siamo tutti ugualmente uomini.

Il timore del relativismo culturale:

In De Martino non c’è alcun accenno a quella problematica che può essere definita come la “costruzione del dato etnografico” in quanto risultante del processo tra antropologo e oggetto di studio. Gli “osservati” stanno in un rapporto di pura passività e non concorrono a determinare – con le proprie interpretazioni della realtà vissuta – le

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interpretazioni dell’osservatore. Per De Martino insomma l’incontro etnografico non suscita il problema del punto di vista del nativo, ma si limita a suscitare una doverosa autocritica concettuale da parte dell’etnologo nel segno di un umanesimo etnografico. Il pericolo dell’umanesimo etnografico –scrive –De Martino – è il relativismo culturale (Gli assertori di tale teoria combattevano l’etnocentrismo, negando l'esistenza di un'unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali, poiché ogni cultura era portatrice di istituzioni ed ideologie che non avevano validità al di fuori della cultura stessa. Emerse un nuovo punto di vista che facilitò

una profonda comprensione e un più sottile apprezzamento delle culture molto diverse dalla propria. Si comprese, così, che i bisogni umani universali potevano essere soddisfatti con mezzi culturalmente diversi e che ciò che era considerato morale in una cultura poteva essere amorale o eticamente indifferente in un’altra). Solo l’occidente per De Martino ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso largo di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre… ma questo confronto non può essere condotto che nella prospettiva per cui l’etnologo occidentalizzato assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene.

Giuseppe Cocchiara:

G.Cocchiara fu particolarmente influenzato da Robert Marett di cui ne fu anche allievo . Secondo quest’ultimo le cosiddette “sopravvivenze”, quelli che E.Tylor chiamava fossili sociali, non erano affatto dei fossili sociali inerti. Cocchiara riprese questo concetto sostenenendo che le tradizioni popolari, anche quando riecheggiano antiche esperienze religiose e sociali, sono sempre per il popolo “storie contemporanea” in cui le medesime sopravvivenze si stemperano in continue rielaborazioni che possono anche avere una loro particolare organicità. Nessuna tradizione avrebbe senso e valore se essa non fosse pienamente accolta dal popolo e che con significati che possono cambiare da un’epoca all’altra.