Antropologia Sociale 0708 SECONDA Dispensa

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI ANNO ACCADEMICO 2007/2008 PRIMO SEMESTRE ANTROPOLOGIA SOCIALE PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI SECONDA PARTE Indice della dispensa 1. Appunti per la lettura di Modernità in polvere 2. Scheda sintentica del volume Modernità in polvere 3. Arjun Appadurai. Parole chiave 4. Introduzione al volume Antropologia dei Media 5. L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica 6. Pastori e pinocchi, balordi e ballerini. il mutamento dell’immagine degli albanesi nei mezzi di comunicazione italiani 7. La soapizzazione dell’anima 8. Appunti su Don Kulick, Margaret Willson, “Rambo’s Wife Saves the Day” 9. Appunti su Elizabeth Hahn, “The Tongan Tradition of Going to the Movies” 10. La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici.

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Questa dispensa contiene tutto il materiale per leggere Appadurai oltre a diversi miei scritti sul rapporto tra identità e mezzi di comunicazione. Tutto il materiale è libero da copyright e quindi questa dispensa è completa e include tutto il materiale (diversamente dalla prima, cui manca il testo dell' articolo di Geertz).

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA

DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI

ANNO ACCADEMICO 2007/2008 PRIMO SEMESTRE

ANTROPOLOGIA

SOCIALE

PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI

SECONDA PARTE Indice della dispensa 1. Appunti per la lettura di Modernità in polvere 2. Scheda sintentica del volume Modernità in polvere

3. Arjun Appadurai. Parole chiave 4. Introduzione al volume Antropologia dei Media

5. L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica 6. Pastori e pinocchi, balordi e ballerini. il mutamento dell’immagine degli albanesi nei mezzi di

comunicazione italiani 7. La soapizzazione dell’anima 8. Appunti su Don Kulick, Margaret Willson, “Rambo’s Wife Saves the Day” 9. Appunti su Elizabeth Hahn, “The Tongan Tradition of Going to the Movies” 10. La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici.

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

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Appunti per la lettura di Modernità in polvere, di Arjun Appadurai,

Roma, Meltemi, 2001 (ed. originale Modernity at Large, Minneapolis-

London, University of Minnesota Press, 1996).

Capitolo primo: “Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale”

In questo saggio, che è quello che ha reso famoso Appadurai tra gli antropologi e non solo,

l’autore cerca di individuare un linguaggio e gli strumenti per parlare del mondo dopo la fine del

progetto della modernità. Se il mondo delle diversità culturali non è più pensabile come

univocamente e unanimemente diretto verso la modernizzazione (concetto divenuto perlomeno

equivoco, se non privo di senso), dobbiamo pensare a nuovi modi di pensarlo.

L’inizio del saggio serve a far capire al lettore che Appadurai non è ingenuo, e sa benissimo che

fenomeni di uniformazione e tentativi di collegare tra loro attraverso il potere e l’economia sono

sempre esistiti, prima attraverso i grandi imperi storici, poi con le diverse ondate del colonialismo.

Quel che oggi è diverso, è la scala su cui i fenomeni di collegamento avvengono e, soprattutto, le

forme culturali di questo movimento. Alle pagine 48 e 49 gli esempi citati servono a dimostrare un

punto essenziale: il passato non è più il possedimento privato dell’individuo (quel che mi ricordo),

né la trasmissione di un corpus di informazioni che appartengono alla mia ristretta comunità di

riferimento (le memorie dei miei nonni, gli album fotografici che mamma raccoglie con cura), e

neppure gli spazi “storici” entro cui mi colloca la “mia cultura ufficiale” (la storia che si impara a

scuola), ma è diventato invece una specie di supermercato della memoria. I nuovi strumenti

tecnologici di archiviazione (audiocassette, dischi, Cd-rom, archivi online, videocamere,

videocassette e videoregistratori) rendono letteralmente fruibile a molti forme di passato che non

abbiamo mai vissuto: oggi posso fisicamente vedere e rivedere l’omicidio del presidente Kennedy,

avvenuto nel 1963, mentre non posso vedere l’omicidio del presidente Lincoln, il che può suscitare

una reazione emotiva completamente diversa al “ricordo” dei due eventi (a lezione, ho cercato di

dimostrare la forza dell’impatto sensoriale raccontando di come ho iniziato a instaurare un rapporto

“personale” con mia figlia, pensandola in tutto e per tutto come un essere umano, quando ho visto la

prima ecografia in cui il suo volto era chiaramente riconoscibile. Mio padre, che all’epoca non

aveva questo strumento di contatto visivo, ha cominciato a pensare ai suoi figli come “persone”

dopo averli visti alla nascita). Oggi, dice quindi Appadurai, posso “ricordare” cose che non solo non

ho mai vissuto (anche la sconfitta di Caporetto apparteneva a questo ordine di ricordi) ma che non

fanno neppure parte di una qualche “storia collettiva” della comunità cui sento di appartenere.

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Questa liberazione della memoria dalle linee della storia rende definitivamente impossibile

concepire “gli Altri” entro quel paradigma evoluzionista di cui abbiamo spesso parlato a lezione,

per cui il sud e l’est del mondo occidentale vengono pensati come “il nostro passato”. Se i filippini

possono pensare al loro presente come al passato di una certa America pop, è molto improbabile

che il loro futuro vada in un’unica direzione, quella che noi abbiamo già percorso. Tanto più che il

magazzino della memoria è disponibile anche per noi, che ci inventiamo un presente sempre più

commisto di passato: i revival, oppure si pensi a come la fantascienza degli anni Sessanta abbia

influenzato la moda degli anni Novanta, o come film come Blade Runner, Terminator o Matrix (che

fingono di parlare del futuro) citino un passato quasi proto-industriale negli stili di abbigliamento,

nella forma “decadente” della tecnologia esposta.

Questo fatto nuovo (la disponibilità del passato a lasciarsi acquisire da soggetti che non ne sono i

“legittimi proprietari”) si può descrivere come un aspetto particolarmente evidente di un fenomeno

più generale, che possiamo definire l’affrancamento dell’immaginazione, cioè la liberazione della

fantasia umana dalle pastoie del pensiero nazionale (vedi quanto detto nella mia introduzione).

Questo ci costringe, come analisti della realtà sociale, a modificare il nostro giudizio

dell’immaginazione come qualcosa di fondamentalmente negativo, che ostacola la comprensione

della “realtà reale” o che al massimo è ininfluente per comprenderne la sua composizione effettiva

(è il vecchio modello materialista e razionalista che ha dato forma e sostanza all’empirismo da cui

nascono le scienze sociali come l’antropologia). A pagina 50 Appadurai ci invita a considerare

l’immaginazione non un elemento fuorviante, e neppure un ingrediente opzionale della vita sociale,

ma una sua componente essenziale: è la nostra capacità di immaginare la realtà nella quale siamo

immersi che letteralmente crea quella realtà.

Quasi per dimostrare che prende sul serio quel che ci chiede di fare (di immaginare

l’immaginazione come parte integrante della realtà nella quale gli uomini vivono) Appadurai

comincia a immaginare nuove parole che ci permettano di capire meglio il mondo in cui siamo.

Queste parole sono:

etnorama (il flusso degli uomini), tecnorama (il flusso della tecnologia), finanziorama (il flusso

del denaro, in tutte le sue forme), mediorama (il flusso delle immagini veicolate dai mezzi di

comunicazione di massa e individuali), e ideorama (il flusso delle idee e delle ideologie, spesso

legate alla politica).

Come indicano le mie insistenti parentesi, si tratta sostanzialmente di flussi, che possiamo

immaginare come diverse correnti di un unico mare: come possiamo individuare la corrente del

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Golfo nell’Atlantico, così possiamo pensare che il mondo attuale sia percorso da diversi flussi, di

persone, macchine, soldi, immagini e idee. Il suffisso -orama (da panorama) sta a indicare che,

diversamente che per i flussi del mare, non abbiamo una terraferma da cui guardare a quei flussi,

ma vi siamo perennemente immersi anche noi. Immaginate allora di essere dentro quel mare e di

guardare a quei diversi flussi che passano: ovunque voi siate, non potrete fare a meno di guardare ai

flussi dal vostro punto di vista (per cui una corrente è più vicina, magari ci siete proprio immersi,

mentre un’altra la vedete solo da lontano, un’altra passa sopra di voi, e un’altra ancora vi sembra

invisibile). A pagina 55 Appadurai insiste su un punto fondamentale: questi flussi sono disgiunti,

cioè si muovono a velocità relative diverse, verso direzioni diverse, con intensità diverse. Stabilire

quali siano gli specifici rapporti di forza tra i diversi flussi è una questione empirica che va risolta

caso per caso: non possiamo sapere in anticipo se un mediorama influenzerà un tecnorama, o

l’inverso, o ancora se i due saranno determinati da un fianziorama. La ragione principale di questo è

l’indebolimento dello stato nazionale come “contenitore” che cercava o fingeva di poter controllare

i diversi livelli della vita sociale: se un tempo c’erano francesi che vivevano in Francia (gruppo

nazionale), dotati di specifiche infrastrutture, entro un sistema economico nazionale, che includeva

il sistema di comunicazione (tv e radio nazionali) e un sistema ideologico (l’essere francesi, per così

dire), oggi ci sono francesi in Francia e molti altri paesi del mondo (etnorama francese), che

utilizzano diversi canali tecnologici (tecnorama), inseriti in un sistema economico per cui il crollo

della Parmalat può mandare in rovina qualche parigino che ha comprato dei bond taroccati

(finanziorama), mentre tutti devono fare i conti (nonostante le resistenze dello stato francese) con

un flusso mediatico (film, tv, canali satellitari, internet) sempre meno controllato dallo stato, che

tanto meno controlla le ideologie dei “suoi” cittadini, per cui, molti cittadini di passaporto francese

e religione islamica interpretano la questione palestinese alla luce della loro capacità di leggere

l’arabo e i giornali in arabo, oppure sotto l’influsso di imam (cittadini francesi) che hanno un

concetto del tutto peculiare (e molto poco francese “tradizionale”) di fraternità.

La disgiuntura tra gli -orami dipende anche dalla volontà degli stati di restringere alcuni flussi

(spesso, quelli finanziari) e restringerne altri (spesso quelli di popolazioni migranti).

Tutto questo si può leggere alla luce di un’altra parola chiave, deterritorializzazione (p. 58). Il

concetto di flusso implica movimento, e il movimento stride con la nostra idea consolidata che

l’appartenenza sia locale o localizzabile. I diversi -orami non sono più individuabili in senso

spaziale, ma vanno percorsi nel loro divenire e nelle loro complicate interazioni.

Di fronte a questo movimento, a pagina 60 Appadurai ci informa su un’importante conseguenza:

gli stati, lungi dall’accettare passivamente il loro indebolimento, sembrano spingere ancora di più

verso l’uniformazione e l’omogeneizzazione (cioè cercano ancora di più di impossessarsi della

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nazione, cioè di fare in modo che il loro confine coincida con quello della nazione, da cui pulizie

etniche, espulsioni, tentativi di assimilazione) mentre, viceversa, le popolazioni in movimento (gli

etnorami) pretendono spesso di “mangiarsi” lo stato, richiedendo diritti nei paesi in cui si muovono

(diritto all’infibulazione? Diritto a praticare la segregazione sessuale?) suscitando risentimenti e

ulteriori reazioni omogeneizzanti. In più, il flusso degli ideorami (le idee di democrazia,

autodeterminazione, diritti umani) fa sì che molte minoranze agiscano consapevolmente in modo

politico, rivendicando l’indipendenza politica e la necessità di un loro stato (è questo il senso della

frase di Appadurai, che stato e nazione cercano di cannibalizzarsi a vicenda). “L’etnicità come

primordialismo diffuso” di cui si parla a pagina 62 è una conseguenza di questi flussi. Un po’ come

ci aveva insegnato Geertz, il contatto con il diverso (migrante o “ospitante”) irrigidisce le

differenze, e un po’ (come insiste Appadurai) il flusso degli ideorami e dei mediorami rende

plausibile un uso politico della differenza culturale su scala planetaria.

A pagina 63 e 64 Appadurai riprende una vecchia terminologia marxista (feticismo delle merci)

per parlare di due forme nuove di feticismo: il f. della produzione, per cui gli stati si illudono di

poter controllare il livello locale dei tecnorami e dei finaziorami, mentre sono essi stessi parte di

questi flussi (è, insomma, l’illusione degli stati di poter gestire un’economia ancora “nazionale”) e il

f. del consumatore, per cui ci si illude che il consumatore sia un attore sociale (possa cioè fare delle

scelte), mentre in realtà il suo margine di scelta è ridottissimo dalle determinazioni dei diversi

flussi.

L’ultimo paragrafo di pagina 64 è importante: si dice che nella globalizzazione risulta palese la

contraddizione dell’Illuminismo, che voleva contemporaneamente riconoscere l’eguaglianza di tutti

gli uomini e la specifica differenza delle diverse culture. Sta dicendo che la globalizzazione ha un

aspetto positivo in quanto rende disponibili nuove informazioni e nuova tecnologia per nuovi gruppi

sociali, ma è anche un male perché stimola un iper-particolarismo culturale e tendenzialmente

isolazionista. Tanto per non perdere il vizio, Appadurai ci ricorda che le questioni sono spesso più

complicate di come vorrebbero farci credere i nostri tentativi di inquadrarle entro schemi semplici.

Il capitolo si chiude con due paragrafi che racchiudono il primo una e l’altro due questioni

importanti. Il primo (pp. 65-68) si chiede sostanzialmente come sia possibile riprodurre e

trasmettere le culture entro questo sistema di flussi. Com’è ovvio, le culture per poter sopravvivere

devono essere in grado di trasmettersi alle nuove generazioni (se di colpo tutti gli italiani

decidessero di parlare francese, fra un’ottantina di anni al massimo l’italiano sarebbe scomparso).

La famiglia (sede dell’inculturazione primaria) è il centro dove si condensano proprio le tensioni

contraddittorie dei diversi flussi, per cui genitori e figli possono essere inseriti in flussi mediatici

profondamente diversi (pensate a quello che guardate voi in televisione, e quello che guardano i

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vostri genitori o i vostri nonni) che si intrecciano con ideorami spesso conflittuali (un figlio no

global con un padre di Forza Italia, una figlia studentessa di arabo che viaggia in Siria e una madre

ancorata al modello femminista), flussi che si intersecano con tecnorami divergenti (spedire gli sms

sembra essere una questione riservata a chi ha meno di 45 anni). Insomma, oggi diventa più

complicato capire come fare per trasmettere il sapere e il fare delle culture.

Il paragrafo finale (pp. 68-70) racchiude due ulteriori questioni, semplici nella formulazione, un

po’ meno nella risposta: a) dati i diversi flussi, cosa vuol dire oggi fare comparazione (una delle

parole chiave dell’antropologia) se i nostri “oggetti” che poniamo a confronto (che compariamo)

non esistono più come oggetti chiaramente delimitati? b) è possibile individuare una gerarchia tra i

diversi -orami, nel senso che possiamo supporre che alcuni condizionino in modo sostanziale gli

altri? Alla prima domanda non c’è risposta certa, se non che oggi dobbiamo confrontare prospettive,

e non più oggetti: come “vede” il flusso dei diversi orami standosene in provincia di Roma e come

invece si vede da Firenze? Ma già localizzare la cosa in termini di Firenze o Roma è fuorviante.

Dovrei invece selezionare un particolare soggetto riconoscibile (la comunità rumena che vive a

Grotte Celoni, appena fuori Roma, i muridi senegalesi che stanno in periferia di Firenze) e tenendo

quell’elemento come fulcro, provare a ripercorrere gli -orami da quel punto di vista. Ad esempio, ci

sono rumeni che si sono specializzati nell’installazione di antenne paraboliche, e che fanno

pubblicità della loro attività in rumeno, con piccoli manifestini che appiccicano sui pali della luce: è

un frammento di mediorama probabilmente invisibile per chi non sia di lingua rumena, ma che può

innestare diversi movimenti: se qualche rumeno chiama la ditta e si fa istallare l’antenna parabolica,

acquisisce la disponibilità di un tecnorama che mette in moto soldi (finanziorama, per quanto

risicato) per entrare in un mediorama altrimenti indisponibile (i canali che trasmettono in rumeno),

aprendo così spazio a ideorami (cosa dicono i politici rumeni degli immigrati all’estero?) e magari

vedendosi canali satellitari internazionali che possono fargli immaginare soluzioni alternative, e

rimetterlo in moto verso altri paesi (etnorama). Ecco quindi che partendo da un piccolo manifesto

mi trovo a dover maneggiare una mole notevole di informazioni e concetti. Con cosa lo posso

comparare? Con i manifesti scritti in altre lingue nello stesso posto? Con altre pratiche di piccola

pubblicità in altre parti? Quale che sia la nostra risposta, il lavoro di comparazione diventa proprio

un esercizio complicato.

Per quanto riguarda la seconda domanda di questo paragrafo finale (se ci sia una gerarchia

determinante tra i diversi flussi) la risposta è quello che Appadurai ci ha dato nel corso del saggio, e

che ripete con un paio di esempi: di volta in volta, caso per caso, dovrà essere la ricerca empirica a

dirmi quali sono i flussi determinanti e quali invece i flussi determinati.

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Mi sono dilungato nella descrizione di questo capitolo perché contiene praticamente tutti gli

elementi per capire come funziona il modello di Appadurai, che vedremo applicato anche negli altri

capitoli. D’ora in avanti, le mie analisi saranno molto più stringate.

Capitolo secondo: “Etnorami globali: appunti e questioni per un’antropologia

transnazionale”.

Il capitolo tenta di rispondere a questa domanda, posta a pagina 76: “Qual è la natura della

località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato?” Detto altrimenti:

va bene gli etnorami, e tutti gli altri -orami, ma questo non toglie che gli esseri umani continuino

comunque a vivere sempre e solo in un posto alla volta: per quanto si spostino e tutto si sposti

intorno a loro, non possono fare a meno di pensarsi “qui”, ovunque il “qui” sia collocato. Dato il

sistema di flussi, come possiamo pensare questo “qui” nuovo? Questa domanda acquisisce un

aspetto centrale per l’antropologia, che come disciplina si è distinta per il suo interesse alla

dimensione locale, al villaggio isolato, al gruppo minuscolo: come fare antropologia in queste

condizioni deterritorializzate?

Avvertenza: in questo testo Appadurai parla spesso di “realismi”: con questo termine dobbiamo

intendere il sistema ideologico (la struttura retorica, se volete) che ci fa sentire immersi nella realtà

come dato di fatto. Abbiamo visto a lezione che il significato è socialmente costruito. Questo vale

per tutti i significati, anche quello di bicchiere, sasso, materia, e realtà. Ci sono diverse strategie

retoriche che le culture applicano per farci sentire a casa nel mondo, e Appadurai chiama queste

forme retoriche “realismi”.

Nel pensiero scientifico occidentale i diversi realismi che hanno dominato non sembrano reggere

più (cioè: ci siamo accorti che sono strategie retoriche). Alcuni di questi realismi sono definiti

brevemente a pagina 76: quello evoluzionista o modernista (tutto il mondo sta andando nella stessa

direzione); quello individualista (poco a poco, gli uomini diventano “individui”, razionali ed

economici); quello della “gabbia d’acciaio”, concetto elaborato entro la cosiddetta “Scuola di

Francorte”) per cui gli uomini sono costretti proprio dalla modernità a subire forme di dominio

sempre maggiori, fino ad arrivare all’oppressione totale, che è perfetta in quanto ha annullato la

nostra consapevolezza di essere oppressi; quello marxista. Tutte queste “grandi narrazioni” non

servono più a capire dove siamo, e quindi dobbiamo rivolgerci ad altri tipi di analisi.

Questi nuovi strumenti analitici non possono sminuire il ruolo dell’immaginazione (vedi quanto

detto nella mia introduzione) e ci costringono a ripensare l’etnografia come disciplina empirica in

quanto legata alla località: se ogni luogo è un punto in cui convergono i diversi -orami, “essere stati

lì” non serve a nulla, come prova della nostra conoscenza, se non siamo stati in grado di guardare ai

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diversi flussi e al modo in cui si intersecavano in quel punto. Se non siamo in grado di inseguire i

percorsi che l’immaginazione fa attraversando un punto, non capiamo molte delle scelte e delle

azioni delle persone che in quel punto vivono (in classe abbiamo discusso l’esempio della cassetta

spedita dall’Australia in Macedonia greca con i “balli tradizionali macedoni”, e degli effetti

immaginativi e politici che può produrre in un contesto locale).

Per dirla con una formula: il nostro interesse per la retorica e la letteratura (la lettura che ho

cercato di fare delle vostre etnografie, come fossero testi letterari di cui cercavo di individuare la

struttura retorica) non è un passatempo per antropologi annoiati che, avendo perso di vista il

primitivo, devono comunque risolversi a passare il tempo, ma dipende dalla natura retorica della

realtà in cui siamo immersi (gli albanesi vengono in Italia perché si sono convinti della bontà

dell’Italia per i loro progetti guardando i telefilm su Italia1). Detto in altre parole: non è in questione

la natura letteraria dell’antropologia, ma la natura letteraria della vita reale.

Chiarito questo aspetto, Appadurai passa a presentare tre esempi che, ciascuno a suo modo, ci

fanno vedere come i flussi si incrocino anche in località ben determinate, e anzi “creino” le località

nel loro intersecarsi. Il primo esempio è autobiografico (pp. 81-83), il secondo letterario (pp. 83-87)

e il terzo cinematografico e documentaristico (quindi anche etnografico, pp. 87-88).

Il senso degli esempi è riassunto a pagina 90: “molte vite sono oggi inestricabilmente legate a

rappresentazioni, e quindi abbiamo bisogno di incorporare nelle nostre etnografie la complessità

delle rappresentazioni espressive (film, romanzi, resoconti di viaggio), non solo come appendici

tecniche, ma come fonti primarie con cui costruire e interrogare le nostre stesse rappresentazioni”.

A pagina 91-92 un altro modo di vedere la cosa, sempre pensando a cosa voglia dire località oggi

per chi fa ricerca sociale, ed è la distinzione tra storia e genealogia (questa distinzione viene

spiegata in modo meno criptico a pagina 102, in un capitolo che non analizziamo, ma che consiglio

comunque di vedere almeno per questo passo). La storia è il collegamento di modelli di mutamento

in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il percorso di determinati flussi nel loro dipanarsi a livello

globale, per cui posso fare la storia del nazionalismo se individuo la sua origine e poi ne seguo il

lento propagarsi sul pianeta come dottrina politica. La genealogia invece significa lo studio delle

condizioni storiche locali che consentono l’indigenizzazione di nuove forme culturali, per cui posso

collegare l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione

della divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico deve fare i conti, a

livello locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi. Nel capitolo quarto Appadurai farà

proprio la genealogia indiana del cricket, cioè racconterà di com’è stato possibile indigenizzare

questo sport britannico per eccellenza.

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Il paragrafo finale è un invito rivolto a chi fa ricerca sociale, e soprattutto agli antropologi:

dobbiamo pensare in modo diverso al nostro rapporto con la località, e smetterla di pensare che il

nostro piccolo campo di ricerca sia un mondo isolato e magari “vergine”.

Capitolo quarto: “Giocare con la modernità: la decolonizzazione del cricket indiano”.

Saggio semplice, che non riassumo nella sua struttura (l’ideologia del cricket; la penetrazione del

cricket in India e le sue ragioni colonizzanti; gli attori dell’indigenizzazione: principi, professionisti

inglesi e australiani, sponsor commerciali; rapporto tra cricket, squadre su base religiosa e

nazionalismo indiano; l’uso dei media: tv, radio e linguaggio, stampa specializzata e biografie dei

campioni come collage della modernità), ma per il quale mi limito a indicare i punti sui quali vorrei

che rifletteste autonomamente (cercando magari ulteriori contesti di applicazione):

Rapporto tra sport e appartenenza collettiva (nazionalismo o altro).

Il ruolo dei professionisti anglosassoni nel trasmettere la cultura del cricket intesa come “tecnica

del corpo”, non solo come teoria, che veicola un sistema complesso di simboli (virilità, agilità, fino

all’“indianità”).

Il rapporto tra sport e media come esempio di intreccio tra un mediorama e un ideorama,che si

rinforzano a vicenda.

L’odierna globalizzazione commerciale del cricket come reazione “uniformante” alla tendenza

“localizzante” dell’indigenizzazione del cricket.

Capitolo sesto: “Sopravvivere al primordialismo”

Lo scopo del saggio è dimostrare che i conflitti “etnici” che dalla fine degli anni Ottanta

sembrano attraversare il mondo con frequenza sempre più allarmante non sono il “riemergere” di

odi congelati (modello Godzilla), ma sono invece la risposta alle politiche uniformanti dello stato, a

volte come reazione, a volte proprio come assecondamento di quelle politiche. L’etnicismo è quindi

la reazione a una pressione esterna, dovuta alle condizioni globali e al tentativo degli stati di

realizzare il progetto originario dell’unità nazionale. Non parliamo quindi di esplosioni etniche, ma

di implosioni (modello Alien, o L’invasione degli ultracorpi).

Per primordialismo alcuni antropologi (pochi) e molti analisti politici intendono la resistenza alla

modernizzazione che si espleta per privilegiare in modo irragionevole o irrazionale i legami

primordiali delle piccole comunità di appartenenza.

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Per prima cosa, bisogna notare che questa definizione mette assieme fenomeni assai diversi: a

pagina 181 Appadurai ci dice che invece bisogna distinguere tra forme politiche di oppressione e

sterminio del diverso e forme invece di resistenza all’omologazione nazionale: farsi saltare in aria

come una bomba umana non configura lo stesso fenomeno che cercare di non pagare le tasse, o non

partecipare all’attività politica del proprio paese.

Comunque, la teoria del primordialismo sostiene che al di là di tutti i legami sociali o politici,

quello che tiene uniti gli esseri umani (alcuni di loro in modo particolare) è prima di tutto un legame

alla loro comunità secondo vincoli “naturali” o comunque “inevitabili”, che di tanto in tanto

esploderebbero prepotentemente in forma violenta. Problema logico: se il primordialismo è

“naturale” come mai la violenza etnica non esplode in modo casuale o uniforme nel mondo, ma in

specifiche aree e in determinati periodi?

Un primo tentativo di risposta dato dai sostenitori del primordialismo è proprio la carenza di

modernizzazione: sono più primordialisti quei gruppi meno influenzati dal processo di

modernizzazione, confermando così l’implicito evoluzionismo della loro posizione: tutti gli uomini

sono stati primordialisti, ma per fortuna abbiamo inventato la democrazia liberale (o il socialismo, o

un’altra versione della modernità come processo inevitabile) e quindi noi siamo sfuggiti alle maglie

mortali di quei legami fatti di faide, sangue e occhio per occhio, mentre loro sono ancora

intrappolati nel loro sistema di relazioni primordiali. Questa proposta interpretativa non tiene conto

però del fatto (evidenziato nella seconda metà di pagina 182) che paradossalmente gli stati nati dalla

decolonizzazione hanno manifestato i segni più evidenti di pratiche violente e etnocide proprio

mentre mettevano a punto il loro progetto di modernizzazione assumendo tutte le istituzioni tipiche

di un “moderno” stato nazionale. Detto altrimenti, quella che a noi potrebbe sembrare la cura del

male si è rivelata esserne una causa, o almeno un fattore di complicazione. Il caso degli eserciti e

delle forze di polizia (che in uno stato moderno dovrebbero costituire l’incarnazione della legalità in

quanto espressione del monopolio dell’uso della forza da parte dello stato per fini benefici) è

esemplare: invece di garantire l’ordine sociale e evitare l’esplosione della violenza politica ed

etnica, molte volte le forze dell’ordine nei nuovi stati sono state lo strumento principale di terribili

pratiche di violenza.

Un altro modo di spiegare il primordialismo entro l’ottica modernista è quello presentato nella

seconda metà di pagina 183: sono vittime del primordialismo quelle entità politiche che non hanno

avuto abbastanza tempo per adattarsi alle pratiche legali della modernità, che insomma hanno mal

digerito la lezione liberare e pacifica della democrazia, reagendo a volte in modo irragionevole. Ma

questo non spiega casi come l’Irlanda, i Paesi Baschi, e non spiega poi com’è possibile che stati per

lungo tempo pacifici e pienamente in grado di maneggiare gli strumenti istituzionali della modernità

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

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dopo molti decenni di pace siano letteralmente esplosi (vedi la Jugoslavia, cui di certo non mancava

una tradizione antica di pratica statale). In realtà, dice Appadurai a pagina 184, non c’è lunghezza

temporale sufficiente a garantire l’immunità da esplosioni di violenza sociale e ormai, dice a tra

pagina 185 e 186, dobbiamo ammettere che le idee di giustizia sociale, di democrazia (pur declinata

nelle sue diverse forme politiche) di pace sociale come bene comune, sono patrimonio comune del

genere umano (non per ragioni “naturali” ma proprio perché il colonialismo prima e la

globalizzazione poi le hanno diffuse su tutto il pianeta), e quindi dobbiamo ammettere che sono

costituiscono un antidoto efficace contro la violenza politica ed etnica.

Nel paragrafo che inizia a pagina 186 Appadurai riassume le tre prospettive interpretative che

possono darci una nuova prospettiva sulle ragioni della violenza politica, e che possono allontanarci

dalla visione primordialista per cui le emozioni naturali provate dall’uomo starebbero alla base dei

conflitti etnici. La prospettiva neomarxista ci costringe intanto a porre l’attenzione sulle ragioni

“sociali” del conflitto: molte volte, i conflitti etnici includono richieste di tipo sociale (maggiori

diritti, equità, autonomia, indipendenza).

Gli studi sul “neorealismo dell’immaginazione” (in cui più direttamente si riconosce Appadurai)

ci segnalano che l’uso della violenza molte volte dipende proprio dal tentativo di realizzare il

progetto dello stato nazionale moderno: ti uccido perché sei diverso, ti violento perché non sei

omogeneo al modello che voglio imporre, ti nego perché non siamo uguali. Questa pressione

negatrice della diversità (che nasce dentro la modernità, e che si rivelerà in pieno con le due guerre

mondiali, che sono guerre di e tra stati nazionali) stimola la nascita di diversità irrigidite, che

possono utilizzare (ribaltato di segno) lo stesso discorso politico al quale cercano di resistere:

un’ideologia basata sulla purezza e la purificazione della nazione ha ottime probabilità di far

nascere qualche minoranza “etnica” al suo interno, proprio perché la sua ossessione per

l’eguaglianza e l’omogeneità tra i cittadini marca fino a compattarle le diversità culturali, che

possono a quel punto pretendere di essere riconosciute come tali. Questo è il culturalismo di cui

parla Appadurai: l’uso a fini politici della differenza culturale. Oggi il cosiddetto revival etnico è

prima di tutto un fenomeno di culturalismo: non tanto identità immobili e uguali a se stesse da

sempre che finalmente pretendono i loro diritti politici, ma gruppi compattati dal discorso

omogeneizzante degli stati nazionali e coloniali (quindi gruppi di formazione relativamente recente)

che premono per ottenere dei diritti politici in nome della loro specificità culturale. Come ha già

fatto a pagina 181, anche qui Appadurai ci tiene a distinguere quei gruppi che pretendono i loro

diritti (e con i quali certo simpatizza, proprio perché può riconoscere che non importa molto se

siano veramente antichi o di recente formazione, quel che conta è che si battano per una vita

migliore o sentita come tale) dai gruppi che invece sono “di forma sostanzialmente negativa,

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

12

caratterizzati in gran parte da odio, razzismo, e desiderio di dominare o eliminare gli altri gruppi”

(p. 189). Sostanzialmente, Appadurai ci tiene a distinguere in modo chiaro il Dalai Lama da Osama

bin Laden: il primo utilizza il culturalismo per chiedere che i tibetani possano veder riconosciuti

alcuni diritti fondamentali, come quello di studiare nella loro lingua e di proseguire come meglio

preferiscono le loro tradizioni culturali, senza subire un processo di cinesizzazione forzata, mentre

Osama utilizza il culturalismo per fomentare l’odio verso tutto quello che lui considera “occidente”.

Fatta salva questa necessaria distinzione, possiamo riassumere questo filone di analisi in questo

modo: una volta che lo stato nazionale ha messo in circolazione l’idea che la diversità culturale sia

politicamente rilevante, quella stessa idea oggi sottratta al monopolio statale dai flussi mediatici,

ideologici ed etnici della globalizzazione, può essere rielaborata entro progetti di contestazione

antistatale consapevole di sfruttare la differenza culturale.

Il terzo filone di ricerca (p. 190) che ci dice qualcosa di interessante contro il primordialismo è

quello costituito dagli studi di antropologia che da un ventennio circa riflettono sulla natura

culturalmente determinata delle emozioni: invece di essere qualcosa di naturale, le emozioni sono

espresse secondo modelli culturali. Questo filone di ricerca si incrocia con quegli studi delle scienze

sociali che da tempo riflettono sul rapporto tra corpo e potere, cioè su come il corpo non sia solo un

oggetto manipolato dal potere, ma possa divenire il ricettacolo di pratiche di potere e di controllo: si

tratta di un tema complesso che abbiamo provato ad accennare diverse volte, e anche l’esempio

“della Playstation” può essere letto come un suo caso particolare: il sistema della produzione

economica e della pubblicità legata a modelli di immaginario complessi fa si che diverse persone

siano disposte ad acquisire complesse pratiche del corpo per soddisfare contemporaneamente il loro

desiderio di gratificazione immaginativa (giocare al videogioco) e il desiderio di guadagno

economico della Sony. Il potere della Sony di produrre macchine efficienti e attraenti e di

commercializzare con successo il suo prodotto si incarna nelle dita dell’abile giocatore, che in un

certo senso o in una certa misura si fa possedere da quel potere, divenendone parte.

Questa metafora serve per spiegare il modello Alien da cui eravamo partiti per spiegare come

Appadurai racconta l’etnicità: più che esplosioni di emozioni interne che stanno lì sepolte dalla

notte dei tempi e che ogni tanto riemergono, gli scontri etnici possono meglio essere interpretati

come implosioni dentro il corpo delle persone di complesse strategie di potere e di immaginazione

delle identità: una volta appreso con il corpo a odiare il nemico, una volta cioè che siano diventate

forme incarnate le complesse rivalità economiche, politiche, religiose e storiche che ruotano attorno

allo stato moderno e alla sua crisi, ci penserà il corpo a trasformare quell’odio in machete, fucile,

esplosivo.

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

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Per concludere, per Appadurai la violenza etnica non è il ritorno di pratiche ataviche, il

riemergere di emozioni primitive perché primordiali, ma è invece la risposta moderna alla crisi

attuale delle appartenenze: sottratti al controllo imbrigliante dello stato accentratore e politicamente

omogeneizzante, i flussi discussi nei capitoli precedente implodono sui corpi delle persone,

insegnando loro le forme dell’odio e dell’appartenenza originariamente sorte entro lo stato, ma

ormai prive del contenitore che le aveva generate e che riusciva (internamente) a contenerle, per

spingerle invece verso l’esterno (il nemico oltre confine). Una volta che lo stato non riesce più –

sotto la spinta della globalizzazione delle idee, delle merci e delle persone – a contenere quei

modelli di appartenenza pura sotto il suo controllo, quegli stessi modelli possono essere rivendicati

blandamente come richiesta di diritti, oppure essere urlati in faccia agli altri come volontà di

distruzione di tutto ciò che non somiglia loro, fosse anche solo il vicino di casa.

Capitolo settimo “Il patriottismo e i suoi futuri”.

Per pure ragioni di tempo, non riesco a dare di questo testo una lettura accurata, ma voglio

almeno provare a veicolare l’idea di fondo e la ragione che mi ha spinto a includerlo nei capitoli del

programma. Per tutto questo corso, abbiamo ragionato cercando di vedere come le appartenenze

non siano un dato di fatto naturale: come impariamo la playstation o a truccarci, così impariamo a

sentirci a casa nella comunità che consideriamo nostra. Questo lavoro di riflessione sulla

costruzione delle appartenenze si è accompagnato allo studio di come quelle vecchie costruzioni

oggi siano profondamente in crisi perché, con uno slogan, “il mondo si è messo in movimento”,

rendendo instabile e friabile il terreno su cui poggiano tutte le appartenenze.

Siamo quindi passati attraverso questo corso cercando di capire che le identità collettive sono

una costruzione, e che questa costruzione sembra oggi potentemente “decostruita” nella sua stabilità

dal processo della globalizzazione. Ma questo lavoro di consapevolezza e decostruzione non è

sufficiente, perché la natura sociale dell’uomo lo porta inevitabilmente a considerarsi parte di

qualche gruppo. Come possiamo ancora pensare di appartenere a qualche comunità, nelle

condizioni attuali? È questa (tradotta un po’ liberamente) la domanda che Appadurai si pone in

questo capitolo. La sua proposta fondamentale è quella di separare il trattino che unisce il totem

politico dello stato-nazione, per far sì il nostro senso di appartenenza non sia limitato ai nostri

doveri civici, e neppure coincida ossessivamente con essi. Elaborando il concetto di transnazione,

Appadurai vuole suggerirci che il nostro senso di appartenenza può riuscire a travalicare i confini, e

che gli stati devono fare di tutto (se vogliono sopravvivere come entità morali, oltre che politiche)

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

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per assecondare questo movimento di liberazione del senso di appartenenza dal contesto politico

che amministra la gestione della cosa pubblica attorno a noi.

Io non so se questo modello sia praticabile, ma un’altra ragione che mi ha spinto a farvi leggere

questo capitolo è la sua parte finale, dove si immagina che siano gli Stati Uniti a incarnare per primi

questo modello di appartenenza transnazionale. Visto il ruolo politico degli USA in questi ultimi

anni, sembra difficile che la proposta di Appadurai trovi piede in tempi brevi, ma non è un giudizio

strettamente politico quello che voglio dare. Il dibattito su americanismo-antiamericanismo mi pare

sia stato viziato in Italia dall’incapacità di riconoscere che gli Stati Uniti, almeno nell’immaginario

di quelli nati tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine degli anni sessanta (per gli altri non

ho le idee chiare a riguardo) abbia incarnato lo spazio totale: il posto del bene e del male assoluto,

in cui poteva letteralmente succedere di tutto, le cose più belle e quelle più orripilanti. Da questo

punto di vista, decidere da che parte stare non aveva per noi molto senso: noi stavamo con gli

indiani, e con Martin Luther King, ma anche con i Rolling Stones e con i film di Ridley Scott

(Alien, Blade Runner, Thelma e Louise). L’America era cioè già transnazionale, perché permetteva

a noi (che la vedevamo solo da molto lontano, in gran parte immaginandocela) di costruircene

l’immagine che preferivamo, selezionando quel che poteva costituire la base della nostra comunità

generazionale.

Mi pare che oggi sia cambiato sia il modo in cui l’America vede se stessa, sia il modo in cui noi

la guardiamo, e non credo che questo cambiamento mi piaccia. Preferisco dunque sperare che

Appadurai abbia visto ancora una volta giusto, e che magari anche l’Europa possa provare a

incarnare quell’idea di compresenza della varietà che non ha bisogno di uniformare le persone per

farle sentire a casa loro.

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Scheda di Modernità in polvere

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Questo libro raccoglie il meglio della produzione di Appadurai degli anni Novanta, ed ha al suo centro

un’attenzione speciale per “le dimensioni culturali della globalizzazione”. Ciò che rende il volume assolutamente unico nel panorama degli studi sulla globalizzazione è la specificità dello sguardo: l’autore ha infatti una formazione antropologica, che gli consente di privilegiare la dimensione locale anche quando rivolge l’attenzione a fenomeni internazionali. Questo significa che invece di dare priorità alla dimensione uniformante dei processi di concentrazione economica e omogeneizzazione politica planetaria, i saggi raccolti nel volume indagano come questi processi vengano vissuti sempre entro un contesto locale, e come cioè “la globalizzazione non sia una vicenda di omogeneizzazione culturale”.

Appadurai elabora un modello di analisi in cui il potere politico, le strutture dell’economia e il sistema

dell’informazione non si sovrappongono più entro i confini di specifici stati nazionali come avveniva nel modello classico della modernità, ma si sono invece trasformati in flussi sostanzialmente indipendenti.

Limite del potere politico (confini) Estensione del sistema economico

Raggio di diffusione dei media

IL MODELLO “CLASSICO” DELLA MODERNITÀ METODOLOGIA D’INDAGINE: per il progetto SOCIOLOGICO, porsi al CENTRO di ogni nucleo, per scoprire come i soggetti vivono ASSORBENDO la modernità; per il progetto ANTROPOLOGICO, porsi ai MARGINI o negli INTERSTIZI tra i nuclei, per scoprire come i soggetti vivono SFUGGENDO alla modernità.

IL MODELLO DEI FLUSSI GLOBALI

METODOLOGIA D’INDAGINE: per qualunque scienza umana, porsi in una LOCALITÀ, per scoprire come i diversi FLUSSI si intreccino in modo peculiare per quel punto

specifico, come cioè la MODERNITÀ non sia solo assorbita o evitata, ma ATTIVAMENTE COSTRUITA da parte dei soggetti.

Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi editore, 2001, pp. Parole chiave: immaginazione, azione, globalizzazione, comparazione,

comunità transnazionale, consumo, costruzione del corpo, costruzione del tempo, culturalismo, deterritorializzazione, diaspora, etnicità, etnografia postnazionale, identità, località, massmedia, migrazione, modernità, nazionalismo, nostalgia, stato-nazione.

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Scheda di Modernità in polvere

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Questo libro ha la preziosa qualità di non limitarsi ad indicare sul piano astratto il passaggio dalla modernità dello stato nazionale alla globalizzazione. Appadurai cioè non è un teorico, ma rimane uno “scienziato sociale” che cerca gli strumenti per investigare la complessità della globalizzazione. Raccontandoci come il cricket (gioco English per antonomasia) si sia incarnato nelle “tecniche del corpo” di decine di milioni di indiani; come la frenesia del numero nei censimenti coloniali si faccia ancora sentire nella quantificazione delle comunità religiose indiane; raccontandoci cosa succede ad un antropologo che torna sul lontano sito della sua ricerca e scopre che il suo miglior “informatore” è emigrato a pochi chilometri da casa sua; come il sistema del pagamento dilazionato con carta di credito istituisca meccanismi di debito completamente slegati dalle piccole ciclicità quotidiane, contribuendo così a costruire una nuova percezione del tempo lineare che si incarna in pratiche di consumo che diventano pratiche del corpo; come la violenza etnica invece di essere la negazione della modernità ne rappresenti l’inevitabile versante osceno, fomentato da quegli stessi stati che dovrebbero esserne minacciati; ricostruendo come sia possibile oggi provare nostalgia per un passato che non abbiamo mai perduto, vivendo in un presente che il sistema dei consumi ci insegna ogni momento a lasciarci dietro le spalle; come in tutto questo gli individui possano ancora immaginare, con ironia e dolore, comunità a cui appartenere senza che queste appartengano ad uno stato; raccontandoci infine cosa significa essere un indiano tamil di educazione britannica e formazione universitaria americana che diventa un antropologo il cui sito di ricerca è anche il suo luogo d’origine, Appadurai sta facendo un lavoro antichissimo (osservare il mondo e gli uomini che lo creano e lo abitano, e cercare di capire) con la cura artigianale di chi accetta che le condizioni di lavoro siano talmente mutate che è giunto il momento di mettere a punto nuovi ferri del mestiere. Questo libro, oltre che uno strumento di lavoro in sé, è un tornio con cui ogni lettore può fabbricarsi i nuovi utensili necessari al suo lavoro.

Indice del volume: Introduzione: Hic et nunc

Messa a fuoco dei temi e degli strumenti: lo studio della modernità sottratto al mito del progresso inarrestabile; la globalizzazione come fenomeno nettamente distinto dall’uniformazione dei costumi; lo sguardo sulle identità etniche come forme tipicamente moderne e post-nazionali dell’appartenenza. L’antropologia come archivio privilegiato per questi studi.

Prima parte: Flussi globali 1. Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale 2. Etnorami globali: note e questioni per un’antropologia transnazionale 3. Consumo, durata, storia

Il mondo si sta riorganizzando dal punto di vista culturale in flussi transnazionali. Mentre cioè nella modernità il sistema produttivo, quello dell’informazione e quello politico si sovrapponevano coincidendo in buona parte con i confini dello stato nazionale, oggi questi flussi si sono liberati uno dall’altro, creando prospettive in conflitto tra loro e in conflitto con la logica degli stati. Come si possono studiare questi flussi indipendenti di persone, merci, informazioni e politiche? Che ruolo hanno gli individui nel manipolare questi flussi?

Seconda parte: Colonie moderne 4. Giocare con la modernità: la decolonizzazione del cricket indiano 5. Il numero nell’immaginario coloniale

Dato che i flussi sono in movimento, fare ricerca sociale significa oggi essere in grado di descrivere in maniera accurata cosa succede a quei flussi da una particolare prospettiva, da un determinato punto di vista. Due casi di studio indiani illustrano come la prospettiva teorica di Appadurai possa avere risvolti metodologici. Primo caso: il cricket in India. Sport importato durante la colonizzazione britannica, il cricket è entrato profondamente nell’ethos indiano: come può una società essere post-coloniale utilizzando uno strumento ludico dei colonizzatori? Secondo caso: come l’uso dei censimenti in India abbia introdotto in loco un concetto di enumerazione che mostra la sua forza fino alle sanguinose dispute tra indù e musulmani nel corso degli anni Novanta.

Terza parte: Locazioni postnazionali 6. La vita dopo il primordialismo 7. Il patriottismo e i suoi futuri 8. La produzione della località

Come si costruisce una comunità in questo nuovo contesto in cui persone, idee, merci e ideologie sono in rapido movimento sul pianeta e sembrano indipendenti uno dall’altro? L’identità etnica è proprio il modo in cui gli individui riescono a pensarsi come membri di una comunità anche quando sono costretti a muoversi sul pianeta o a fare i conti da un punto di vista locale con la natura globale dei processi economici. Criticando in maniera netta qualsiasi approccio primordialista all’etnicità Appadurai propone anche una visione in cui la politica potrà sempre più fare a meno dello stato-nazionale come punto di riferimento centrale della propria espressione.

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Parole chiave

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Arjun Appadurai – Parole chiave

Arjun Appadurai (1949) è professore di Antropologia e professore di Lingue e Civilizzazioni

dell’Asia Meridionale all’Università di Chicago, dove è stato direttore del Chicago Humanities

Studies. Fondatore della rivista Public Culture, dirige il Globalization Project all’università di

Chicago. Attualmente sta conducendo una ricerca sul rapporto tra violenza etnica e immagini del

territorio nei moderni stati nazionali. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Worship and

Conflict under Colonial Rule (Cambridge 1981) e la cura di The Social Life of Things (Cambridge,

1986). Modernity at Large è la sua prima opera tradotta in italiano.

Siti rilevanti

http://anthropology.uchicago.edu/faculty/bio/arjun.html

breve scheda biografica

http://www.indiana.edu/~wanthro/appadurai.htm

ottima scheda generale con personal data e basic concepts di Appadurai

http://www.lemonde.fr/article/0,5987,3260--253665-,00.html

recensione apparsa su Le Monde il 6 dicembre della traduzione francese di Modernity at Large

http://globalizationproject.uchicago.edu/

pagina del Globalization Project diretto da Appadurai

http://www.india-seminar.com/2001/503/503%20arjun%20apadurai.htm

recente saggio di Appadurai sul rapporto tra globalizzazione e violenza

Nota: qualsiasi motore di ricerca dà come esito centinaia di entrate di siti universitari

anglosassoni perché Appadurai è impiegato come testo base praticamente in tutti i corsi dedicati alla

globalizzazione nei suoi aspetti culturali (nuove identità, conflitti etnici, “fine” dello stato

nazionale). In Italia Meltemi ha già avuto un ottimo riscontro dato che Modernità in polvere, pur

essendo uscito solo a febbraio del 2001, è già stato adottato in diversi corsi di antropologia.

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Parole chiave

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Immaginazione

L’immaginazione è divenuta parte del lavoro mentale quotidiano della gente comune in molte

società. È entrata nella logica della vita ordinaria… è diventata una pratica sociale. Non più pura

fantasia (oppio dei popoli, le cui attività reali stanno altrove), non più pura via di fuga (da un mondo

definito prima di tutto da più concreti obiettivi e strutture), non più passatempo per le élites (quindi

non rilevante per la vita della gente comune), e non più pura contemplazione (irrilevante per nuove

forme di desiderio e soggettività), l’immaginazione è diventata un campo organizzato di pratiche

sociali, una forma di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata)…

Azione

Ci sono prove sempre più evidenti che l’uso dei mass media nel mondo produce spesso

resistenza, ironia, selettività e, in generale, azione. Terroristi che prendono come modelli figure à la

Rambo (che hanno a loro volta prodotto molteplici epigoni non occidentali); casalinghe che leggono

romanzi rosa e guardano le soap-opera come parte del loro tentativo di costruirsi le loro vite;

famiglie musulmane che si radunano ad ascoltare i sermoni dei leader islamici su cassetta;

collaboratori domestici dell’India meridionale che visitano il Kashmir in viaggi organizzati: sono

tutti esempi del modo attivo in cui la gente in tutto il mondo si appropria dei media. Magliette,

cartelloni pubblicitari, graffiti, ma anche la musica rap, la street dancing e le baraccopoli indicano

tutti che le immagini dei media sono rapidamente assimilate entro repertori locali fatti di ironia,

rabbia, umorismo e resistenza.

Stato-nazione

Nel corso dei sei anni in cui ho steso i diversi capitoli sono arrivato alla convinzione che lo

stato nazionale, come complessa forma politica moderna, è arrivato al lumicino… l’idea che il

sistema stesso degli stati nazionali sia a rischio non è affatto popolare. In questo libro la mia

persistente attenzione sul trattino che lega la nazione allo stato fa parte di una progressiva

argomentazione del fatto che l’epoca stessa dello stato nazionale sia giunta ad una conclusione.

Quest’idea, che è una via di mezzo tra una diagnosi e una prognosi, tra un’intuizione e una

dimostrazione, dev’essere spiegata in dettaglio.

Tempo

Oggi il passato non è una terra cui tornare in una semplice politica della memoria, ma è

diventato un deposito sincronico di scenari culturali, una specie di archivio centrale del tempo, cui

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fare ricorso come meglio si crede… Tutto questo è scontato, se si segue Jean Baudrillard o Jean-

François Lyotard in un mondo di segni completamente slegati dai loro significanti sociali (tutto il

mondo è Disneyland). Ma vorrei suggerire che l’evidente intercambiabilità progressiva di intere

epoche e atteggiamenti negli stili culturali del capitalismo avanzato è legata a forze globali più

vaste, che hanno lavorato molto per far capire agli Americani che il passato è di solito un paese

straniero. Se il vostro presente è il loro futuro (come in molta teoria della modernizzazione e in

molte fantasie turistiche soddisfatte di sé), e il loro futuro è il vostro passato (come nel caso dei

virtuosi filippini della musica pop americana), allora il vostro passato può ben apparire come una

semplice forma normalizzata del vostro presente.

Modernità

La mia non è una teoria teleologica, che contenga la ricetta di come la modernizzazione

produrrà ovunque razionalità, puntualità, democrazia, libero mercato e un più elevato prodotto

nazionale lordo. …il mio approccio lascia del tutto aperta la questione di dove possano condurre

(in termini di nazionalismo, violenza e giustizia sociale) gli esperimenti con la modernità

consentiti dalla mediazione elettronica. Detto altrimenti, riguardo alla prognosi la mia è una teoria

più profondamente scettica di qualsiasi variante della teoria classica della modernizzazione di cui

sia a conoscenza. Quarto, e più importante di tutti, il mio approccio alla rottura causata dalle forze

congiunte della mediazione elettronica e della migrazione di massa è esplicitamente transnazionale

– addirittura postnazionale – come suggerisco nell’ultima sezione del libro. In quanto tale, si

discosta radicalmente dal modello della teoria classica della modernizzazione, che si potrebbe

chiamare fondamentalmente realista nella misura in cui presuppone la rilevanza, metodologica ed

etica, dello stato-nazione.

Globalizzazione

L’archivio antropologico, e il tipo di sensibilità che produce nell’antropologo professionista, mi

orienta nettamente verso l’idea che la globalizzazione non sia la storia dell’omogeneizzazione

culturale. Quest’ultima affermazione è il minimo che vorrei che il lettore cogliesse da questo

libro… la globalizzazione è in sé un processo profondamente storico, ineguale e addirittura

localizzante. La globalizzazione non implica necessariamente e neppure frequentemente

omogeneizzazione o americanizzazione…

Il problema centrale delle interazioni globali odierne è la tensione tra omogeneizzazione

culturale ed eterogeneizzazione culturale… Spessissimo la teoria dell’omogeneizzazione si

suddivide in una tesi dell’americanizzazione e in una della mercificazione, e spesso le due tesi sono

strettamente collegate. Quello che queste tesi non riescono a cogliere è che le forze che provengono

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da diverse metropoli, una volta importate in nuove società, tendono altrettanto rapidamente ad

essere indigenizzate in un modo o nell’altro.

Comparazione

Quel che vorrei proporre è che iniziamo a pensare alla configurazione delle forme culturali

nel mondo odierno come sostanzialmente frattale, cioè priva di confini euclidei, strutture o

regolarità. Secondo, suggerirei che quelle forme culturali, che ci dovremmo sforzare di

rappresentare come completamente frattali, si stanno inoltre sovrapponendo secondo modalità

che sono state discusse solo in matematica pura (nella teoria degli insiemi, per esempio) e in

biologia (nel linguaggio delle classificazioni politetiche). Abbiamo quindi bisogno di unire una

metafora frattale per la forma delle culture (al plurale) con una descrizione politetica delle loro

sovrapposizioni e somiglianze. Senza questo passo ulteriore rimarremo impantanati in

comparazioni che fanno affidamento sulla netta separazione delle entità da confrontare prima di

poter iniziare un serio lavoro comparativo. Come faremo a comparare forme culturali frattali che

inoltre si sovrappongono nella loro copertura dello spazio terrestre? (cap. 1)

Etnografia

Quello che un nuovo stile etnografico può fare è cogliere l’impatto della deterritorializzazione

sulle risorse immaginative delle esperienze vissute localmente. Detto altrimenti, il compito

dell’etnografia diventa oggi la risoluzione di un enigma: qual è la natura della località come

esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato?

…L’etnografia deve ridefinirsi come quella pratica di rappresentazione che getta luce sul

potere che le vite potenziali immaginate su larga scala esercitano su specifici percorsi di vita

Nostalgia

Queste forme di sollecitazione pubblicitaria di massa insegnano piuttosto ai consumatori a

sentire la mancanza di cose che non hanno mai perduto. Creano cioè sensazioni di durata,

passaggio e perdita che riscrivono le storie di vita degli individui, delle famiglie, dei gruppi

etnici e delle classi. Creando il sentimento di perdite che non sono mai avvenute, questa

pubblicità crea quel che si potrebbe chiamare “nostalgia immaginata”, nostalgia per cose mai

accadute. Questa nostalgia immaginata inverte così la logica temporale della fantasia (che

istruisce il soggetto a immaginare quel che potrebbe accadere in futuro) e crea desideri più

profondi di quelli che potrebbero susciatare la semplice invidia, l’imitazione o la cupidigia

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Cultura

Propongo di considerare culturali solo quelle differenze che esprimono oppure formano la

base per la mobilitazione di identità di gruppo… La parola cultura, nel suo senso non marcato,

può continuare ad essere usata per far riferimento alla dovizia di differenze che oggi

caratterizzano il mondo… Propongo tuttavia di restringere cultura, come termine marcato, a quel

sottoinsieme di quelle differenze che viene mobilitato per articolare il confine della differenza.

Per quanto riguarda il mantenimento del confine, la cultura diviene quindi una questione di

identità di gruppo costituita da alcune differenze tra altre…

Culturalismo

In tutto il mondo molti gruppi, dovendo far fronte all’azione di stati interessati ad includere le

loro diversità etniche entro raggruppamenti rigidi e chiusi di categorie culturali alle quali gli

individui sono spesso assegnati contro la loro volontà, si stanno deliberatamente mobilitando

secondo criteri identitari. Il culturalismo, per dirla in maniera semplice, è la politica dell’identità

mobilitata a livello dello stato nazionale.

Identità

la dimensione primordiale (non importa se del linguaggio, del colore della pelle, della

comunità locale o della parentela) è diventata globalizzata. Cioè i sentimenti, il cui potere

maggiore è la loro capacità di stimolare l’intimità entro uno stato politico e di trasformare la

località in un campo di addestramento per l’identità, si sono ora diffusi su territori vasti e

irregolari con il movimento di gruppi che rimangono comunque collegati l’un l’altro attraverso

raffinate potenzialità di comunicazione mediatica… l’etnicità, un tempo genio contenuto nella

lampada di qualche tipo di località (per quanto vasta) è ora divenuta una forza globale, che

scivola regolarmente entro e attraverso le fratture tra stati e confini

Etnicità

Ci sono prove sempre più chiare che i modelli occidentali di partecipazione politica, di

istruzione, di mobilitazione e di crescita economica, che avrebbero dovuto distanziare le nuove

nazioni dai loro primordialismi più retrogradi, hanno avuto l’effetto opposto. È evidente che

questi rimedi creano disordini iatrogeni… L’aspetto più paradossale è che… molto spesso la

creazione di sentimenti primordiali, lungi dall’essere un ostacolo per lo stato modernizzatore, si

pone molto vicino al cuore del progetto dello stato nazionale. Molti fondamentalismi razziali,

religiosi e culturali sono quindi alimentati deliberatamente da diversi stati nazionali, o da partiti

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al loro interno, con l’intento di reprimere il dissenso; di costruire soggetti omogenei e di

massimizzare la sorveglianza e il controllo…

Corporeità

Ma dato che il cricket, attraverso la convergenza di stato, mass media e interessi del settore

privato, ha finito per essere identificato con “l’India”, con l’abilità “indiana”, con il coraggio

“indiano”, con lo spirito di squadra “indiano” e con le vittorie “indiane”, il piacere fisico che è al

centro dell’esperienza visiva maschile è allo stesso tempo parte dell’erotismo della nazionalità.

Questo erotismo, soprattutto per i giovani maschi della classe operaia e del sottoproletariato, è

profondamente collegato alla violenza, non solo perché tutti gli sport agonistici stimolano

l’inclinazione all’aggressività ma anche perché le contrastanti pretese della classe, dell’etnicità,

della lingua e della regione fanno della nazione una comunità profondamente contestata

Potere e sapere

Le tavole numeriche, le figure e le tabelle consentivano di addomesticare la contingenza – il

disordine narrativo delle descrizioni in prosa del panorama coloniale – entro l’astratto, preciso,

completo e freddo dialetto dei numeri…

La storia del dominio britannico [in India] nel XIX secolo può essere letta in parte come il

passaggio da un uso più funzionale del numero in quel che è stato chiamato il militarismo fiscale

dello stato britannico in madrepatria, ad un uso più pedagogico e disciplinare. Non solo i corpi

indiani vennero gradualmente categorizzati, ma ad essi si attribuirono valori quantitativi… altri

regimi possono aver avuto degli interessi numerici e anche degli interessi classificatori, ma

queste due sfere rimasero in gran parte separate, mentre fu solo nella complessa congiuntura

delle variabili che costituì il progetto del stato coloniale maturo che queste due forme di

nominalismo dinamico si unirono per creare una politica che ruotava attorno a comunità

enumerate auto-consapevolmente (cap. 5).

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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Introduzione al volume Antropologia dei Media, Rai-Eri, in corso di

stampa (2008)

Racconta il mito che Giove assegnò a Epimeteo il compito di attribuire ai diversi animali una

qualità che rendesse ogni specie riconoscibile e distinta. Il distratto Epimeteo diede quindi gli artigli

alle fiere, i garretti agli erbivori, le corna ai bovidi e la pelliccia ai molti che vivevano al freddo, ma

dimenticò di preservare una qualità da destinare all’uomo, che si ritrovò completamente nudo e

senza strumenti efficaci di offesa o difesa. Fu questa la ragione che spinse il previdente fratello,

Prometeo, a rubare il fuoco agli dei1. Impietosito dalla terribile condizione dei mortali, Prometeo

pose a rischio la propria vita per garantire agli uomini uno strumento di sopravvivenza.

Nella forma immaginifica che gli è propria, il mito ci dice che gli esseri umani sono

naturalmente incapaci di sopravvivere senza tecnologia, il che equivale a sostenere che la

dimensione tecnologica è intrinseca alla natura dell’uomo. Diversamente quindi da tutti gli altri

animali, per l’essere umano è impossibile trovare una definizione astratta delle sue qualità naturali,

e sempre bisogna associare alla descrizione dell’uomo la strumentazione tecnologica di volta in

volta disponibile. Quando diciamo che l’uomo vive all’interno della sua cultura stiamo

precisamente ribadendo questa impossibilità di definirne le qualità naturali prescindendo da

considerazioni puntuali sulla lingua, le pratiche, le usanze, le credenze e i manufatti di sua

produzione. Mentre cioè per un qualunque altro animale possiamo pensare a una descrizione del

tutto decontestualizzata (“la volpe è un canide cacciatore che nidifica in tane sotterranee e si nutre

di piccoli animali”), ogni volta che parliamo dell’Uomo dobbiamo necessariamente inserirlo in un

contesto, specificando di quale epoca storica e di quale area geografica stiamo parlando. Se non lo

facciamo, è perché generalizziamo (quasi sempre indebitamente) da un caso specifico a una norma,

il più delle volte attribuendo all’Uomo come specie quelle che sono di fatto le caratteristiche

culturali degli individui da noi osservati2.

1 Traggo questa versione del mito da DAN SPERBER, Il sapere degli antropologi, traduzione di Mariangela

Zanusso, Milano, Feltrinelli, 1984, 135 p. Edizione originale Le savoir des anthropologues, Paris, Hermann, 1982, 141 p.

2 Per una riflessione sistematica sul rapporto tra condizione umana e tecnologia non posso che rimandare in

primis al fondamentale lavoro del grande etnologo e paleontologo francese ANDRÉ LEROI-GOURHAN, Le geste et la

parole. 1. Technique et langage, Paris, Editions Albin Michel, 1964, 323 p. Traduzione italiana di Franco Zannino Il gesto e la parola. Volume primo: Tecnica e linguaggio, Torino, Einaudi, 1977, 254 p. ANDRÉ LEROI-GOURHAN, Le

geste et la parole. 2. La Mémoire et les rythmes, Paris, Editions Albin Michel, 1965, 285 p. Traduzione italiana di Franco Zannino Il gesto e la parola. Volume secondo: La memoria e i ritmi, Torino, Einaudi, 1977 pp. XII, 258-482. Un

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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Se quindi è vero che non possiamo descrivere l’Uomo senza contestualizzarne il quadro

tecnologico, ne deriva sul piano teoretico la necessità di includere questo contesto nell’essenza del

nostro oggetto di studio. Gli antropologi sociali e culturali si riferiscono a questa necessità quando

parlano della natura olistica (dal greco ollon, il tutto) della loro disciplina: pur se analiticamente in

grado di separare i diversi componenti che costituiscono una determinata cultura (lingua, economia,

parentela, religione, tecnologia, eccetera), l’antropologia culturale si prefigge l’intento di essere

olistica, di dare cioè un quadro complessivo di un determinato sistema culturale che ne preservi

l’unicità o, con un termine oggi particolarmente apprezzato, l’identità.

Schematizzando quanto finora sostenuto, possiamo affermare che il contesto tecnologico è

indispensabile a una descrizione del soggetto umano che garantisca la specifica identità dei diversi

agglomerati sociali e culturali. Riducendo ulteriormente questo enunciato, possiamo dire che la

tecnologia è un tratto essenziale delle diverse identità culturali.

Del resto, è comprovato dagli studi archeologici, storici e antropologici il rapporto diretto tra

livello tecnologico e quadro più genericamente culturale: la scoperta dell’agricoltura ha prodotto

non solo la sedentarizzazione di gruppi in precedenza nomadi o seminomadi, ma ha anche

consentito l’accumulo di un surplus produttivo che si è tradotto in stratificazione sociale,

specializzazione produttiva e quindi aggregazione identitaria specifica. Se da un lato la

contrapposizione tra diverse competenze tecnologiche (cacciatori opposti ad agricoltori, ad

esempio) ha sempre prodotto identità collettive e contrastive (quelle che oggi chiamiamo etnie e

nazioni), all’interno delle società cosiddette complesse la costituzione di specialismi produttivi

(artigiani opposti a intellettuali, ad esempio) ha dall’altro aperto la strada a ulteriori frammentazioni

identitarie (caste, classi e strati sociali). Per citare un altro esempio eclatante, l’invenzione della

scrittura ha rafforzato confini culturali e sociali che hanno di fatto prodotto inedite configurazioni di

appartenenza3.

Il quadro tecnologico di un determinato contesto storico non si limita quindi a innestarsi in una

cultura come un’appendice prescindibile, ma si salda direttamente alle radici della creazione

culturale, modificando i rapporti di produzione e le interazioni simboliche al punto da sedimentarsi

in configurazioni di appartenenza del tutto originali.

saggio assolutamente sorprendente per l’originalità della prospettiva teorica nel rapporto tra cultura popolare e tecnologia è quello dell’etnologo tedesco HERMANN BAUSINGER, Volkskultur in der technischen Welt, Stuttgart, Kohlhammer, 1961, 217 p., solo di recente tradotto in italiano: Cultura popolare e mondo tecnologico, traduzione e cura di Luca Renzi, con un saggio di Pietro Clemente, Napoli, Guida, 2005, 276 p. Per considerazioni ulteriori sul rapporto tra uomo e tecnica si vedano i contributi filosofici di UMBERTO GALIMBERTI, Psiche e techne: l’uomo nell’età

della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, 812 p. e EMANUELE SEVERINO, Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998, 267 p. Quest’ultimo, in particolare, si interessa esplicitamente della comunicazione di massa.

3 Un testo di agile lettura − anche se sempre stimolante − sul valore politico oltre che culturale della scrittura è il classico dell’antropologo britannico JACK GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Franco Angeli, 1981, 201 p. Edizione originale The domestication of the savage mind, Cambridge, Cambridge university press, 1977, X-179 p.

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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All’interno del quadro generale del rapporto tra tecnica e identità, questo saggio cerca di studiare

la specifica interazione tra quella particolare tecnologia che si associa alla comunicazione

linguistica e visiva tra esseri umani e quelle specifiche forme di identità che chiamiamo collettive,

che trascendono cioè consapevolmente i limiti della costruzione dell’identità personale. Se ogni

tecnologia entra nella costituzione dell’identità, le pagine che seguono tentano di rispondere a una

specifica domanda: qual è l’interazione tra tecnologie della comunicazione di massa e identità

collettive?

Lo spazio di questo studio è quindi delimitato dal confronto tra mass media e senso di

appartenenza a una comunità. Queste due estremità della questione rivelano un interessante

parallelismo che vale la pena di ripercorrere proprio come introduzione alla discussione che ne

seguirà.

I mezzi di comunicazione di massa e le identità collettive sono due ambiti di studio

apparentemente distanti, ma oggi curiosamente accomunati dall’apparente fragilità di condizioni in

cui versano i loro rispettivi rappresentanti più prestigiosi. Mi spiego. Entro il sistema dei mezzi di

comunicazione di massa, se dovessimo pensare a uno strumento per antonomasia indicativo di tutta

la categoria, difficilmente penseremmo di primo acchito a tecnologie di recente acquisizione come

Internet o il GPRS, e più prosaicamente identificheremmo la grande e mutevole famiglia dei mass

media con la televisione, epitome e sineddoche della dimensione globale della comunicazione. Allo

stesso tempo, proprio mentre sentiamo che la televisione rappresenta quasi simbolicamente l’idea

stessa di comunicazione di massa, non possiamo non pensarla come obsoleta, o perlomeno sotto

l’assedio di nuove tecnologie che – modificando radicalmente le forme di produzione, distribuzione

e accesso al messaggio e puntando sulle premesse filosofiche oltre che tecnologiche del peer-to-

peer – convergono fatalmente a ridisegnare in forme del tutto nuove la pratica del broadcasting. A

questo secondo pensiero ne farebbe quasi certamente seguito un terzo, attento a rivalutare il ruolo

della televisione proprio nel sistema attuale della comunicazione di massa. Detto altrimenti, se

pensiamo ai mass media, sembra plausibile che molti di noi infilino una sequela di riflessioni

perlomeno tripartita:

a) dapprima pensiamo alla televisione generalista come espressione più tipica della moderna

comunicazione di massa, identificata soprattutto con la televisione del boom demografico e del

miracolo economico dei primi anni Sessanta.

b) subito dopo ne cogliamo i limiti strutturali in un contesto produttivo che sembra aver

“superato” il televisore come canale comunicativo, sia “dal basso”, per quanto riguarda la fruizione

nella sua dimensione ipertestuale e quindi non lineare (possibilità di accedere direttamente ai

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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contenuti selezionati, costruzione di contenuti à la carte) sia “dall’alto”, per quanto invece attiene

alle forme della distribuzione (streaming su Internet, canali specialistici, video on demand);

c) infine, mitighiamo sostanziosamente il giudizio espresso in b) tenendo conto che proprio le

innovazioni tecnologiche che sembrerebbero decretarne la fine (e in particolar modo la convergenza

tecnologica e il passaggio alla tecnologia digitale di distribuzione del segnale televisivo) immettono

nel mezzo televisivo nuova linfa che lo fa rinascere ben prima di averne visto le ceneri.

Ebbene, il campo delle appartenenze collettive presenta caratteristiche straordinariamente simili

a quelle che abbiamo indicato a proposito dei mezzi di comunicazione di massa. Se si pensa alle

diverse forme dell’identità collettiva, quasi inevitabilmente la prima ad affacciarsi alla mente sarà

quella espressa dalle moderne entità statali, e cioè la nazione. Come nel caso della televisione,

questo primo pensiero sarà seguito da un secondo in cui il senso di appartenenza nazionale viene

percepito come superato o almeno sotto assedio da parte di altre, più nuove, forme di appartenenza.

A queste considerazioni segue un ripensamento ulteriore, che riconosce la straordinaria capacità

dell’appartenenza nazionale di riproporsi come centrale al dibattito politico internazionale proprio

nel momento in cui sembrava destinata all’oblio. Provando nuovamente a schematizzare questa

tripartizione, possiamo sensatamente sostenere che quando ragioniamo di appartenenze collettive:

a) il primo pensiero vada alla forma di identità garantita dallo Stato nazionale moderno, e cioè

all’appartenenza nazionale come espressione tipica della sua dimensione collettiva;

b) subito ci rendiamo conto di come questa forma di identità sia oggi vigorosamente contestata

“dal basso” (localismi, identità etniche e minoritarie) e “dall’alto” (appartenenze transnazionali e

entità sovranazionali come l’Unione Europea), al punto da suscitare addirittura il dubbio sulla

legittimità dell’istituzione politica che si pone come il suo naturale “contenitore”, e cioè il moderno

Stato nazionale;

c) proprio nel momento che appare di massimo assedio e di delegittimazione, le vicende

internazionali di questi ultimi anni ci dicono invece che lo Stato nazionale, con la sua strutturazione

ideologica dell’appartenenza, sembra rinascere e riconquistare una rediviva centralità politica.

Televisione e nazione sono quindi, oggi, due sovrani indeboliti che tentano di riconquistare

l’antico prestigio entro i loro regni, dopo aver seriamente rischiato di dover affrontare l’onta della

deposizione. Non sappiamo quale sarà l’esito finale del loro sforzo, né se per la sopravvivenza di

entrambe sia più conveniente tra loro un’alleanza o una guerra, ma di certo la diagnosi sulle loro

condizioni generali non è più così pessimistica come poteva suonare sino alla fine del secolo scorso.

Diversi eventi su scala planetaria sembrano aver restituito alle entità nazionali da un lato e alla

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televisione dall’altro (in particolare nella sua funzione di servizio pubblico, come vedremo nel

quarto capitolo) nuova dignità e nuova legittimazione. Detto questo, come ogni riconquista, anche

quella in corso non può prospettarsi come un semplice azzeramento della storia che ha condotto alla

crisi, ma deve articolarsi come un proficuo ripensamento delle sue diverse fasi. Se la televisione di

servizio pubblico e il senso di appartenenza collettiva legato all’identità nazionale stanno oggi

ricaricandosi di senso, questo è possibile non contro il contesto critico degli anni Ottanta e Novanta

del Novecento, ma come risposta positiva a molti rilievi sorti allora. Come vedremo in dettaglio nel

corso del primo capitolo, il contesto generale entro cui matura la crisi parallela del sistema politico

basato sugli stati nazionali e del sistema di comunicazione di massa incentrato sulla televisione si

può condensare nell’etichetta di “globalizzazione”. Sotto questa chiave generale includiamo la

riorganizzazione complessiva del sistema produttivo mondiale, che si è espressa in prima istanza

come un sostanziale ridimensionamento del ruolo degli Stati nazionali nella selezione e nella scelta

delle politiche economiche complessive a favore di nuovi soggetti, inter- multi- e trans-nazionali,

ma che non è assolutamente rimasta confinata al dominio economico, implicando una sequela di

sommovimenti di ordine sociale, culturale e simbolico di cui stiamo ancora valutando le

conseguenze4. In questo quadro introduttivo può dunque essere utile disarticolare alcuni temi

specifici che dipendono dalla globalizzazione come quadro generale, per segnalare a mo’ di guida

propedeutica i temi che ricompariranno costantemente nel corso di questo saggio e che

costituiscono il nucleo teorico della ricerca proposta nelle pagine seguenti. Si tratta cioè di dare

rilievo agli aspetti costitutivi delle identità collettive per come vengono influenzati dal sistema dei

mezzi di comunicazione di massa.

Emissione/ricezione

La prima opposizione, che in una certa misura racchiude tutte le altre, cerca di misurare il potere

da attribuire rispettivamente ai produttori e ai consumatori del messaggio mediatico. Qualunque

teoria della comunicazione prevede un’interazione complessa tra emittente e ricevente, dovuta al

fatto che il messaggio codificato ha bisogno di essere decodificato dal destinatario o da chiunque

4 A uso dei lettori, segnalo alcuni tra i titoli più significativi dedicati esplicitamente al rapporto tra cultura e

globalizzazione e tradotti nella nostra lingua: ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del

significato, Bologna, Il Mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale Cultural Complexity: Studies in the Social

Organization of Meaning, New York, Columbia University Press, 1992, ix-347 p.; ARJUN APPADURAI, Modernità in

polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, traduzione di Piero Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minneapolis Press, 1996, xi-229 p.; JOHN TOMLINSON, Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, traduzione di Giovanna Bettini, Milano, Feltrinelli, 2001, 259 p. Edizione originale Globalization and Culture, Chicago, University of Chicago Press, 1999, viii-238 p.

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intenda altrimenti recepirne il contenuto. La domanda che ci si pone è quindi la seguente: chi ha più

potere, l’emittente che può selezionare i potenziali messaggi o il ricevente che deve comunque

decodificarli e che, apparentemente, non è tenuto a compiere questa operazione secondo le

intenzioni dell’emittente? Ovviamente, il dibattito ha riguardato per lo più la quota di potere da

attribuire al consumatore del messaggio mediatico, ché nessuno sembra negare un sostanziale

dominio da parte del produttore. Posta in questi termini, la domanda diviene quindi: stabilito che

l’emittente gode del potere di far circolare il messaggio, questo potere è assoluto o è mitigato (e se

sì, in che misura) dal potere di interpretazione di coloro che consumano il messaggio? Vedremo

quanto qualunque tentativo di rispondere al quesito ora posto implichi una chiara dimensione

politica, dato che lo spazio interpretativo diversamente riconosciuto ai consumatori dalle varie

teorie diviene direttamente uno spazio che misura il loro grado di libertà.

Al di là di queste considerazione teoriche, il rapporto di potere tra emittente e ricevente subisce

oggi la sostanziale influenza delle mutate condizioni strutturali. Anche se infatti il peso dei

broadcaster nazionali e internazionali è destinato a rimanere centrale e dominante ancora per lungo

tempo, le nuove tecnologie di comunicazione e soprattutto il passaggio definitivo al segnale digitale

(che consente da un lato di superare la cronica scarsità delle frequenze e dall’altro di puntare

decisamente alla crossmedialità) stanno rendendo almeno possibile il superamento della necessità

del broadcasting così come si è consolidato e affermato nel secondo dopoguerra. In altre parole, è

assai improbabile che, per molti anni ancora, i grandi network nazionali e internazionali vedano

seriamente intaccato il loro predominio, ma è certo che dobbiamo ormai considerare conclusa l’era

dell’asimmetria sistematica tra emittenti e riceventi, con i primi sostanzialmente coincidenti con

grandi istituzioni e/o aziende, e i secondi relegati al ruolo di singoli utenti terminali. Almeno in

teoria, è oggi possibile concepire nuovi soggetti produttori che, collocandosi in quell’immenso

spazio intermedio che separa le grandi istituzioni dai singoli consumatori, scompaginano ipso facto

il sistema della produzione grazie alle nuove disponibilità distributive. Se una piccola comunità

locale, o un gruppo di pressione transnazionale, o i membri di una diaspora internazionale, o gli

adepti a una setta/ideologia di qualunque natura e formato sono in grado di produrre contenuti che

possono trasmettere direttamente − senza cioè appoggiarsi al supporto tecnologico garantito da un

broadcaster tradizionale − è evidente che il modo in cui abbiamo finora concepito i rapporti di

potere tra chi produce il messaggio e chi ne fruisce va profondamente ripensato. Stabilire quale sia

la direzione di questo mutamento è questione che si colloca ben al là degli scopi di questo saggio,

che non intende soffermarsi sulle implicazioni antropologiche delle mutazioni tecnologiche in

corso5, ma si limita a inquadrare il rapporto tra tecnologie della comunicazione di massa e forme

5 Su questi temi cfr. BINO OLIVI, BRUNO SOMALVICO, La nuova Babele elettronica: la TV dalla globalizzazione

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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dell’appartenenza. È comunque importante che i lettori tengano almeno in conto i margini della

questione generale. Nel capitolo terzo, infatti, presenteremo e analizzeremo alcuni esempi di questo

nuovo tipo di interazione tra emittenti e riceventi, con particolare rilievo al contesto

extraoccidentale.

Potere e agency

La questione del rapporto di potere tra emittente e ricevente si può porre anche altrimenti, in

chiave più esplicitamente semiotica: il significato del messaggio è circoscrivibile al messaggio

stesso (vi è “contenuto”, per così dire) oppure è “prodotto” dall’interazione tra emittente e fruitore?

Ogni qual volta la ricerca si è indirizzata verso questa seconda ipotesi, l’attenzione si è concentrata

sulla capacità di azione dei consumatori. L’analisi testuale del messaggio emesso non è sufficiente

se vogliamo valutarne gli effetti sociali: è chiaro che a questo scopo pari attenzione va prestata al

sistema produttivo in quanto struttura economica (industria) e politica (istituzione), e un’attenzione

ancora maggiore va rivolta alle modalità di consumo del messaggio. Quando si parla di “etnografia

dei media”, si condensa con tale espressione la necessità di superare l’analisi “interna” del

messaggio per seguirne invece i percorsi “esterni” della sua diffusione e circolazione.

Ma proprio l’attenzione posta alla “vita sociale” dei contenuti mediatici obbliga il ricercatore a

porsi in modo esplicito la questione della dimensione attiva dei soggetti fruitori. Con un anglicismo

ormai assestato, si parla di agency per indicare la capacità del soggetto di interpretare il messaggio

ricevuto secondo parametri anche idiosincratici rispetto alle intenzioni autoriali e, più in generale,

per porre in evidenza il suo spazio di azione che – da semplice “pedina” della rete sociale giocata da

regole e strutture più grandi di lui – lo rende un soggetto dinamico e difficilmente addomesticabile

da parte di qualunque forma esterna di potere. L’etnografia dei media rappresenta in via

preferenziale il potere in forma diffusa all’interno di tutte le relazioni sociali, rendendo quindi

inutilizzabili quei quadri analitici in cui le dinamiche politiche si distribuiscono quasi

esclusivamente lungo un’unica direzione, è cioè dall’emittente al ricevente. Al contrario, nel

modello di analisi che proponiamo non è il Potere Mediatico a condizionare i Soggetti (più o meno

inermi), ma è il sistema di fruizione e di consumo dei mass media da parte dei Soggetti a produrre

Potere Mediatico. Vedremo, in particolare nel secondo capitolo, i vantaggi analitici ma anche i

rischi valutativi di questa impostazione teorica.

delle comunicazioni alla società dell'informazione, Bologna, Il Mulino, 2003, 337 p.

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Flussi: la forma dello spazio

Questo ribaltamento della prospettiva da cui guardare alla produzione del sistema di potere

mediatico scardina un altro assunto sostanziale della ricerca, e cioè la garanzia metodologica di

poter individuare oggetti privilegiati e stabili della ricerca. Se il “documentario etnografico”, il

“film esotico”, la “fiction indigena” o il “reality globalizzato” producono senso solo nel loro uso

effettivo, l’attenzione deve spostarsi dallo schermo agli spettatori, e l’osservazione dell’immagine si

rifrange nell’osservazione degli spettatori (“osservare chi guarda”) e delle loro pratiche quotidiane.

L’etnografia dei media diventa quindi lo spazio necessariamente frammentato per un’azione sociale

decentralizzata, in cui il programma trasmesso e analizzato preventivamente con gli strumenti

dell’analisi testuale sia poi inseguito nella vita quotidiana: quanto se parla? Dove? Chi ne parla?

Quanto e in che modo i personaggi del programma diventano modelli di ruolo? Quanto l’ideologia

del programma eventualmente enucleata nell’analisi testuale trova riscontro nelle credenze, negli

atteggiamenti e nelle pratiche degli spettatori? Quanto di questa struttura ideologica si riversa (e in

che forme e lungo quali canali) dal mondo comunque ristretto della circolazione mediatica

(programmi a loro spettatori) al mondo più vasto delle interazioni sociali?

Una prospettiva di ricerca di questo tipo deve essere in grado di inseguire filoni di indagine più

che specifici oggetti, tendenze più che posizioni, direttrici più che luoghi, in un processo quasi

imitativo dell’impulso deterritorializzante della globalizzazione. Condurre un’indagine etnografica

della fruizione dei mezzi di comunicazione può significare lavorare al contempo in due o più siti di

ricerca, come vedremo nei diversi esempi presentati nel secondo e terzo capitolo.

Spessori: la forma del tempo

Sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel denotare il tempo e le sue scansioni è stato

detto molto, ma sono state le riflessioni di Benedict Anderson sulle comunità immaginate6 che ci

hanno resi consapevoli del rapporto strettissimo tra tempo e identità collettiva. Torneremo

diffusamente nel primo capitolo su questo punto, ma in questa breve introduzione è invece

importante evidenziare un aspetto peculiare, tipico della fase attuale della contemporaneità. La

temperie dei nostri giorni appare affetta da una curiosa schizofrenia: da un lato sembra esservi un

6 BENEDICT ANDERSON, Comunità immaginate. Origini e diffusione del nazionalismo, prefazione e cura di

Marco d’Eramo, Roma, manifestolibri, 1996, 223 p. Edizione originale Imagined Communities. Origins and Spread of

Nationalism, London, Verso, 1983, 160 p.

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eccesso di presente7, dall’altro si assiste alla continua riscoperta e valorizzazione del passato

attraverso la museificazione parossistica del reale (sociale o naturale)8. I mezzi di comunicazione di

massa (e la televisione in primo grado) sono spesso accusati di essere i responsabili principali

dell’oblio generalizzato, ma questo tipo di accuse paradossalmente dimentica che gli stessi mezzi

sono anche i fautori principali del ricordo, della riscoperta della storia e della museificazione del

passato. Il successo incontrovertibile di intere sezioni dei palinsesti generalisti (La nostra storia, su

Rai Educazione e Raitre) e l’esistenza di canali tematici dedicati (History Channel) ci confermano

che la televisione costruisce passato almeno quanto ne distrugge9. Come già accennato, sul rapporto

tra mezzi di comunicazione di massa e forma del tempo avremo modo di tornare, ma è importante

evidenziare da subito il ruolo costitutivo del tempo garantito dai mass media. Fin dai loro esordi la

radio e la televisione si sono strutturate attorno alla programmazione, che ha innescato cicli di

fruizione precisi, in grado di condizionare la vita sociale: la puntuale annualità di eventi come il

Festival di Sanremo, la scansione stagionale dei programmi canonici come quello abbinato alla

Lotteria Italia, la sequenza delle puntate e degli episodi generati dalla serialità della fiction e – per

rimanere in Italia – il mutamento epocale contrassegnato dalla programmazione ventiquatt’ore su

ventiquattro e a striscia che prese piede dopo la riforma del sistema radiotelevisivo del 1975, sono

tutte forme di regolarizzazione del tempo che condizionano la percezione delle identità collettive in

quanto raggruppamenti di individui coesistenti nel tempo oltre che nello spazio.

La simultaneità dell’evento mediatico rispetto alla sua fruizione (il suo avvenire in diretta,

espressione intrinseca della necessità sociale del servizio pubblico) e la rapidità prodigiosa del

passo a cui procede l’innovazione tecnologica (soprattutto per quanto riguarda – non casualmente –

la dimensione delle memorie operative e di stoccaggio e la velocità di calcolo degli elaboratori

elettronici) hanno contribuito però in modo sostanziale alla produzione di una peculiare

conformazione del tempo presente che può dare conto della compresenza apparentemente

contraddittoria di memoria e oblio, di culto del passato e proliferazione di presente. L’idea che il

tempo presente sia in qualche modo “avanti” rispetto alla linea retta dello sviluppo temporale è uno

dei capisaldi del pensiero occidentale, e fonda la modernità nella sua essenza. Anche senza

distinguere la connotazione morale dell’antitesi tra Antichi e Moderni (che ha sempre opposto i

Conservatori ai Progressisti proprio in nome del giudizio morale sulla contemporaneità,

rispettivamente considerata peggiore o migliore del passato; e sul futuro, concepito come

7 Pierre-André Taguieff, L’effacement de l’avenir, Paris, Galilée, 2000, 483 p. 8 “Senza dubbio, il mondo sta subendo un processo di museificazione, e tutti prendiamo parte a questo

fenomeno. L’obiettivo sembra essere la possibilità di giungere al ‘ricordo totale’. Si tratta del sogno di un archivista impazzito?”, in ANDREAS HUYSSEN, “Present Pasts: Media, Politics, Amnesia”, Public Culture, XII (1), 2000, numero speciale Globalization, a cura di Arjun Appadurai, pp. 21-38. La citazione è da p. 25.

9 Cfr. FRANCESCA ANANIA, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, Roma, Rai-Eri, 2003, 253 p.

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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degenerativo dai primi, e migliorativo dai secondi), da diversi secoli gli uomini che partecipano

delle grandi ideologie dell’Occidente hanno la nitida percezione di essere, in quanto contemporanei,

diversi dai loro predecessori. Questa idea comune e venerabile trova ovviamente il suo discrimine

empirico nello spessore cronologico attribuito di volta in volta alla contemporaneità: dove finisce

questa labile epoca storica presente che ci caratterizza rispetto agli altri del passato? Sicuramente,

la querelle rinascimentale tra Antichi e Moderni radunava attorno ai contemporanei diverse

generazioni postmedievali, mentre è plausibile che la modernità dell’Ottocento vedesse i suoi albori

solo nella Rivoluzione Francese. La fine della seconda guerra mondiale ha segnato un ulteriore

spartiacque, relegando in un passato dichiaratamente da superare in toto gli orrori politici e militari

della prima metà del Novecento. Ecco, in questa corsa verso il presente, è come se lo spessore

dell’oggi disponibile si sia fatto via via più sottile: ormai il presente dura pochi istanti, e lo sforzo di

molti di noi è riuscire a non lasciarselo sfuggire di mano. La velocità con cui gli avvenimenti

accadono per essere narrati e il vortice di innovazione tecnologica nel quale siamo immersi (per cui

il computer su cui scrivo queste pagine, che ha sei anni di vita, può essere visto da un ventenne

come un reperto archeologico e commentato con espressioni tipo: “Non avevo mai visto un affare

così vecchio”) hanno fatto del presente una striscia sottilissima di tempo, che ci incrocia giusto per

un istante, prima di essere spinta verso il passato. I soggetti (individuali e collettivi) che si muovono

sul margine di questa striscia devono agire come surfisti (non è un caso che in inglese “navigare in

Rete” sia “to surf the Net”) che, se perdono l’onda, sono destinati ad affondare. Questa forma

peculiare del tempo presente (una striscia che si sta assottigliando sempre più, costringendoci a

vivere sistematicamente “sulla cresta”, pena la rapidissima obsolescenza che combattiamo cercando

di essere edgy, un aggettivo che in inglese significa letteralmente questo: riuscire a rimanere “sul

margine, lungo l’estremità”) può rendere conto del paradosso da cui abbiamo preso le mosse in

questo paragrafo: una brama frenetica e perennemente frustrata di presente (tutti cerchiamo di

tenere il passo con il presente, tutti vogliamo assolutamente farne parte, per cui lo inseguiamo, lo

guardiamo, lo proponiamo, lo vendiamo e lo acquistiamo; ma tutti sentiamo che ci sfugge) che

trova la sua quiete nel solido spessore di un passato finalmente posseduto nella sua museificazione.

Etnografia

Ma posto in questi termini, il tono generale dell’etnografia dei media sembra ancora

irrimediabilmente affetto da una sorta di provincialismo di ritorno. È forse il caso di accordarsi

preliminarmente sul termine “etnografia”. In origine, con questo vocabolo si identificava non tanto

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

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uno stile di scrittura, quanto un oggetto descritto, cioè popolazioni non occidentali, quasi sempre di

piccole dimensioni, raffigurate in un testo che pretendeva di essere esaustivo della “cultura”

espressa da quell’“ethnos”. L’etnografia era, prima di un metodo, il risultato fisico della descrizione

di popolazioni lontane. È solo con il tempo − e in particolare con la riflessione teorica degli anni

Settanta, culminata nel volume collettivo curato da James Clifford e George Marcus dedicato

espressamente alle “retoriche e politiche dell’etnografia”10 − che l’etnografia viene concepita come

un metodo applicabile al di là dei contesti dichiaratamente esotici in cui era nata. Da quel momento,

si può fare etnografia anche rimanendo a casa, dato che quel che conta è l’intenzione dichiarata del

ricercatore di presentare un’esperienza attraverso una serie di metodi di indagine e di scrittura.

Etnografia diventa un approccio di ricerca, un’attenzione per l’interazione faccia a faccia, una

particolare predilezione per le pratiche di produzione e consumo culturale innestate su circuiti di

piccole dimensioni. In breve, etnografia diventa tutto quel che sfugge (metodologicamente ed

epistemologicamente) alla pratica della canonica ricerca sociale di impostazione quantitativa e

incentrata su questionari, interviste strutturate e analisi statistiche.

Nonostante, da antropologo, non possa che apprezzare questa rivalutazione interdisciplinare

della metodologia debole che caratterizza l’antropologia da quasi un secolo, riconosco il rischio di

una confusione terminologica dato che, come abbiamo visto, nel termine “etnografia” sembrano

oggi confluire due significati nettamente distinguibili ma quasi mai distinti:

etnografia1 per intendere l’esigenza di documentare un oggetto indagato rispetto ad aree

marginali, poco note;

etnografia2 per intendere invece il metodo di ricerca basato su pratiche deboli e spesso poco

traducibili in canoni e procedure11.

In questo lavoro sarà mia esplicita cura insistere anche sul significato originario di etnografia,

presentando quindi casi di studio caratterizzati dalla loro distanza nello spazio o comunque da

un’apparente esoticità per i lettori italiani. Duplice è la ragione che mi spinge a privilegiare questa

accezione “antica” dell’etnografia avvicinandomi al mondo dei media, e in entrambi i casi ancorata

all’esigenza di minare quel che, all’inizio di questo paragrafo, ho definito “provincialismo di

ritorno”, l’attuale tendenza cioè − dopo un periodo di rapida e apparente accettazione di modelli

“meticci” e “spuri” di appartenenza culturale − a rinchiudersi troppo facilmente nelle rassicuranti

certezze della propria condizione “domestica”.

10 JAMES CLIFFORD, GEORGE E. MARCUS, a cura di, Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethnography. A

School of American Research Advanced Seminar, Berkeley, University of California Press, 198, ix-305 p. Traduzione e cura di Piero Vereni, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi, 20013, 383 p.

11 Su questa specifica accezione di etnografia come metodo, applicata al caso dei media, vale la pena di consultare FEDERICO BONI, Etnografia dei media, Roma-Bari, Laterza, 2004, XV-160 pp., in particolare alle pp. V-IX.

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

34

Per prima cosa, dobbiamo assumere definitivamente la consapevolezza che la modernità

tecnologica non riguarda solo “noi” (occidentali) ma è un proteiforme stato globale che assume

forme locali che meritano di essere studiate. Volendo essere apodittici, è il caso di sfatare la diffusa

convinzione che la televisione sia nata in Inghilterra e morta negli Stati Uniti. Ha storie di

radicamento e indigenizzazione che vale la pena di inseguire, cosa che cercheremo di fare in questo

libro.

Alcuni dei mutamenti più significativi della televisione su scala planetaria stanno avvenendo non

solo nella capitali mediatiche degli Stati Uniti, dell’Europa Occidentale o del Giappone, ma anche

nelle cittadine e nei villaggi del Brasile, della Cina, dell’India, dell’Indonesia e del Sudafrica.12

Etnografia del media, in questo saggio, significa quindi anche documentazione sullo stato dei

mezzi di comunicazione di massa fuori dai grandi circuiti mediatici noti a tutti (i lettori occidentali e

in particolare italiani). Come già accennato, le identità (e quindi le appartenenze) si creano in

antitesi temporale (antichi/moderni) ma anche spaziale (qui/lì). Ci troveremo quindi a percorrere

spazi inconsueti per molti di noi (Nuova Guinea, interno dell’Australia, Amazzonia, il Canada delle

riserve indiane) ma senza con questo prestare il fianco a facili esotismi.

All’opposto (e questa è la seconda ragione per cui insistiamo su etnografia1), la necessità di

andare altrove rispetto alle nostre abitudini di frequentatori dei media è dettata dalla volontà di

superare definitivamente quell’altro atteggiamento provinciale che consiste nel credere

pregiudizialmente al provincialismo altrui, per cui le audience smaliziate e “attive” si troverebbero

solo entro i confini bianchi e occidentali (con la parziale eccezione del Giappone). Come vedremo,

attribuire alle popolazioni non occidentali in generale un’ingenuità di fondo nei confronti delle

comunicazioni di massa è forse il segnale più evidente del nostro provincialismo, che ci fa credere,

come utenti, di possedere beni e tecnologia per diritto ereditario, e non per difficile conquista e

adattamento. In realtà, la televisione e la radio si sono diffuse su scala planetaria molto rapidamente,

per cui l’ordinaria sfasatura temporale tra Noi e Loro (con noi sempre in anticipo, ovviamente) ha

subito diverse increspature (ad esempio, in Grecia la televisione è stata introdotta nel 1967, mentre

in India le trasmissioni televisive sono iniziate, almeno per l’area di Nuova Delhi, nel 1959) e le

nuove tecnologie della comunicazione sono stranianti, esotiche, eccitanti o sconfortanti per Noi

quanto lo sono per Loro. Poter registrare l’immagine in movimento dei propri figli su di un nastro

12 LISA PARKS, SHANTI KUMAR, “Introduction”, in LISA PARKS, SHANTI KUMAR, a cura di, Planet TV. A Global

Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, ix-470 pp. [pp. 1-17, nello specifico p. 6].

Page 35: Antropologia Sociale 0708 SECONDA Dispensa

Introduzione al volume Antropologia dei Media

35

magnetico e archiviarla in videocassette per renderla reperibile a distanza di tempo è un’operazione

possibile solo da pochi decenni, e non fa molta differenza se ad apprenderne le tecniche è un

impiegato statale della provincia veneta o un contadino dell’Uttar Pradesh indiano, una commessa

di Oklahoma City o un’insegnante algerina. La modernità incorporata nelle tecnologie di

archiviazione e trasmissione delle immagini è intrinsecamente moderna, e non pretende

addestramenti propedeutici, tanto che si può imparare a usare una telecamera con notevole

competenza senza aver mai visto la televisione o senza sapere leggere e scrivere.

Provare a raccontare tutto questo senza rinchiuderci nel facile compiacimento della nostra

modernità o dell’altrui bizzarria è un impegno che questo studio perseguirà in particolare nel

secondo e terzo capitolo.

Appartenere

Il potere relativo dei soggetti, i mutamenti della gestione degli spazi e la nuova concezione del

tempo, la necessaria riarticolazione del rapporto Noi/Loro oltre le comuni gerarchie consegnateci

dalla storia del colonialismo e della modernizzazione classica, costituiscono gli ingredienti di base

di un profondo ripensamento del sistema delle appartenenze collettive. Tradotto infatti per le

identità di gruppo, il lavorio dei media ci costringe a rivedere buona parte del nostro armamentario

analitico classico. Se era la percezione di sé come gruppo compresente nella simultaneità spazio-

temporale a generare l’identità collettiva nella modernità che ci stiamo lasciando alle spalle, il

mutamento di quei parametri fondativi produce un sommovimento sostanziale nell’idea stessa di

appartenenza collettiva, e quindi di identità e comunità. Qualunque sia il nostro giudizio attuale

sulle identità collettive più tipiche della modernità (cioè le nazioni che hanno trovato espressione

politica in un loro Stato), non vi è dubbio che trovassero la loro ragion d’essere in una duplice

convinzione: che fosse possibile racchiudere i propri membri in uno spazio definito (il territorio

nazionale); e che quel movimento politico di confinamento dei propri membri fosse un passo

inevitabile e necessario nello sviluppo di un tempo concepito come gravido di significato nella sua

interezza, per cui il presente era l’ultimo, necessario, gradino del passato. Dentro la modernità che

ha dato vita agli Stati nazionali, cioè, l’istituzione statale era al contempo l’alveo spaziale e il

compimento temporale della nazione. Il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, unito alla

diaspora planetaria che caratterizza i flussi umani dalla seconda metà del Novecento, ha liberato

l’appartenenza collettiva da questa duplice necessità di ancorarsi nel tempo e nello spazio, rendendo

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

36

legittime concettualmente (se non ancora pienamente dal punto di vista politico) identità

diasporiche da un lato, e prive di una chiara radice storica dall’altro.

Studiando i mass media da una prospettiva antropologica cominciamo a prendere

consapevolezza della natura “mediata” di quella che chiamiamo “cultura”. Il mezzo che consente la

cultura umana è certamente il linguaggio e, più in generale, la capacità simbolica dell’uomo, qualità

che si esplicano sempre come − letteralmente − mezzi di comunicazione. Se quindi possiamo

affermare che le culture umane sono fondamentalmente dei mezzi di comunicazione13, ne deriva

che la recente diffusione planetaria dei mass media elettronici modifica radicalmente la natura della

cultura umana. È proprio il rapporto di reciproca interdipendenza tra collettività culturali e

comunicazione di massa che costituisce il nucleo di questa ricerca.

13 Considerazioni estremamente utili sulla natura “mediate” di qualunque dimensione culturale si trovano nella

corposa rassegna di WILLIAM MAZZARELLA, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of Anthropology, XXX, 2004, pp. 345-367.

Page 37: Antropologia Sociale 0708 SECONDA Dispensa

Piero Vereni - Immaginazione e potere

37i

L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica

Locale e globale

Una riflessione sistematica sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione delle

identità collettive non può prescindere da alcune considerazioni di carattere generale sul contesto

più vasto entro cui si costituiscono gli specifici rapporti tra sistema delle appartenenze collettive e

sistema mediatico. In questo capitolo ci soffermeremo quindi a delineare un quadro teorico

complessivo dell’attuale sistema di produzione e fruizione della comunicazione mediata da mezzi

elettronici. A tale fine, sarà inevitabile un confronto anche solo sommario con le principali teorie

della modernità e della postmodernità, per cercare di elaborare una descrizione plausibile della

situazione attuale del rapporto tra media e identità. Questa riflessione ruoterà inevitabilmente

attorno ad alcune parole chiave, tra cui anticipiamo le coppie locale/globale,

modernità/postmodernità e omogeneizzazione/eterogeneizzazione.

È stata notata da tempo l’opposizione tra la crescente uniformità culturale a livello planetario (la

cosiddetta macdonaldizzazione) e la restrizione sempre più evidente dei confini identitari sentiti

come naturali (il cosiddetto revival etnico). Alcuni autori come il sociologo americano George

Ritzer14 e l’economista e filosofo francese Serge Latouche15 si sono concentrati sui modi in cui gli

stili di vita occidentali (spesso considerati coincidenti con quelli americani) si sono imposti su vaste

aree del pianeta imponendo una patina (più o meno spessa a seconda delle prospettive scientifiche e

politiche di volta in volta sostenute) di uniformità economica, politica e culturale16. Di converso,

altri autori come il sociologo britannico Anthony D. Smith17 e gli antropologi Arjun Appadurai18 e

14 GEORGE RITZER, The McDonaldization of Society: An Investigation into the Changing Character of

Contemporary Social Life, Newbury Park, Ca., Pine Forge Press, 1993, XV-221 p. Traduzione italiana di Nicola Raino, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, il Mulino, 1997, 334 p.

15 SERGE LATOUCHE, L’Occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de

l’uniformisation planétaire, Paris, la Découverte, 1989, 143 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 159 p. Lo stesso autore ha ripreso e ampliato la sua teoria del peso della tecnologia occidentale nel processo globale di uniformazione con diversi saggi successivi, tra cui ricordiamo La mégamachine.

Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès. Essais à la mémoire de Jacques Ellul, Paris, la Découverte, 1995, 243 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione

economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 215 p. 16 Gli studi sulla globalizzazione intesa in questo senso uniformante hanno trovato uno dei loro stimoli nel

pionieristico lavoro di IMMANUEL WALLERSTEIN, The Modern World-System. Capitalist Agriculture and the Origins of

the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1976, XVI-244 p. Traduzione italiana di Giuseppina Panzieri e Davide Panzieri Il sistema mondiale dell’economia moderna. 1. L’agricoltura

capitalistica e le origini dell’economia-mondo europea nel 16° secolo. Seconda edizione rivista e corretta, Bologna, Il mulino, 1986, 535 p.

17 Anthony D. Smith, The Ethnic Revival, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981, XXIV-240 p. Traduzione italiana di Anna Paini, Il revival etnico, Bologna, Il mulino, 1984, 364 p.

18 ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione. Traduzione di Piero Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large. Cultural Dimension of GLobalization,

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

38i

Ulf Hannerz19 anno insistito sui processi in corso di progressiva frammentazione dei grandi

“blocchi” che costituivano il pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale20. Da alcuni

decenni, quindi, il mondo sembra attraversato da un duplice e contraddittorio movimento: da un lato

la condivisione sempre più forte e diffusa di modelli culturali e pratiche tecnologiche; dall’altro

l’esclusione sempre più rigida dal proprio orizzonte identitario di ciò che non si conferma al miope

modello della propria appartenenza locale. Questi due fenomeni, apparentemente antitetici,

sembrano invece essere dipendenti, e in grado di crescere simultaneamente: quanto più il mondo si

uniforma (stessi jeans, stessi hamburger, stessa musica, stessa CNN) tanto più l’unità media di

riferimento identitario (il Noi che diamo per scontato) si rimpicciolisce intensificando la sua forza

politica (noi Italiani, Padani, Veneti...). Per i cittadini dell’Unione Europea questo fenomeno è

sempre più visibile: da un lato uniformiamo le nostre monete, le nostre lingue e i nostri gusti

(culinari, estetici, sessuali) e dall’altro rivendichiamo un particolarismo sempre più spinto

(rivisitiamo dialetti moribondi e riscopriamo Palii e sagre che non si celebravano da secoli o che

non si erano mai celebrati). La questione teorica che si pone all’analista è proprio la natura di questa

dipendenza.

Un tentativo di affrontare un simile incrocio problematico consiste nel presentarlo proprio come

antitesi tra globalizzazione, da un lato, e resistenze identitarie dall’altro. In sintesi: l’affermazione

delle identità locali – o comunque esplicitamente esclusive – e il rigetto del cosmopolitismo

sarebbero dovuti al rifiuto dei processi di uniformazione messi in atto dalla globalizzazione. Una

delle formulazioni più articolate di questo approccio interpretativo è senza dubbio quella del

sociologo catalano Manuel Castells21. Nel suo ponderoso lavoro di riflessione sull’“era

Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, 229 p.

19 ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato. Edizione italiana a cura di Arnaldo Bagnasco. Traduzione di Savina Neirotti, Bologna, Il mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale Cultural

complexity. Studies in the Social Organization of Meaning, New York, Oxford, Columbia University Press, 1992, IX-347 p.

20 Sul rapporto tra singolarità globale e molteplicità locali si possono trovare riflessioni antropologiche estremamente interessanti nei saggi di CLIFFORD GEERTZ tradotti da Andrea Michler e Marco Santoro e pubblicati con il titolo Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, 1999, Il mulino, 127 p. La questione della natura poliedrica e non necessariamente orientata dai valori americani della globalizzazione è indagata con numerosi esempi nella raccolta curata dai politologi statunitensi PETER L. BERGER e SAMUEL P. HUNTINGTON, Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002, X-374 p. Nonostante non sia più recentissimo, uno dei lavori più citati sulla teoria della globalizzazione rimane quello del sociologo americano ROLAND ROBERTSON, Globalization. Social Theory and Global

Culture, London, Sage, 1992, X-211 p. Traduzione italiana di Aurora De Leonibus, Globalizzazione. Teoria sociale e

cultura globale, Trieste, Asterios, 1999, 285 p. 21 Questo prolifico autore ha pubblicato alla fine del Ventesimo secolo un’opera in tre parti dedicata alla

riflessione sistematica sull’“era dell’informazione”: MANUEL CASTELLS, The rise of the network society, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1996, XVII-556 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, La nascita della società in rete, Milano, Egea-Università Bocconi, XXXVI-601 p. MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, Malden, MA, Blackwell Publishers, 2004, XXII-537 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Il potere delle identità, Seconda edizione, Milano, Egea-Università Bocconi, 2004, xvi-538 p. End of millennium, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1998, XIV-418 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Volgere del millennio, Milano, Egea-Università Bocconi, XI-470 p.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

39i

dell’informazione” Castells elabora una complessa teoria per cui le emergenti identità della nostra

epoca “si oppongono alla globalizzazione e al cosmopolitismo in difesa delle specificità culturali e

del diritto delle persone a esercitare il controllo sulla propria vita e sul proprio ambiente”22. Anche

se l’analisi di Castells è estremamente raffinata e complessa nell’individuare i nessi causali tra

globalizzazione e costruzione delle identità – per cui, ad esempio, l’identità progettuale dei soggetti

sociali non trova più terreno di coltura nella diradata società civile, ed è invece costretta a

svilupparsi all’interno di formazioni comunitarie di tipo reattivo ed esclusivo – il senso generale che

se ne trae è quello di una qualche meccanicità, per cui l’eterogeneizzazione in forma di revival

identitario può includere fenomeni tra loro estremamente diversi.

Il fondamentalismo religioso, le comunità territoriali, l’auto-affermazione nazionalistica e, persino,

l’orgoglio dell’auto-denigrazione che capovolge i termini del discorso oppressivo (come nella

queer culture presente in alcuni settori del movimento gay) diventano espressione di ciò che io

chiamo l’esclusione degli esclusori da parte degli esclusi e che consiste nella costruzione di

un’identità difensiva...23

Il modello identitario delle appartenenze altro non sarebbe, dunque, che la “naturale reazione”

alla spinta omogeneizzante della macdonaldizzazione, come se una certa quota di differenza

culturale fosse comunque da dare per scontata, essenziale, incorporata nell’ordine precostituito del

cosmo culturale. Ritengo particolarmente deludente questa spiegazione che, come tutte le forme di

naturalismo, si limita a spostare i termini del problema al di là del discutibile: la gente, stanca di

essere massificata dai mobili Ikea e dalla musica pop delle playlist radiofoniche, persegue la sua

tendenza fissipara, la sua esigenza a differenziarsi. Alcune volte questa teoria dell’identità come

reazione all’uniformazione globale si presenta in forme più semplicistiche (e ancor più

naturalizzanti) che sostengono che al fondo del nuovo asfittico particolarismo che ci circonda si

troverebbe l’esigenza (ovviamente “naturale”) degli esseri umani a individuare la propria comunità

sulla base di legami emotivi che non possono essere forniti dalle fredde collettività stereotipate della

globalizzazione24. Insomma: celebrando l’antico rito, o mangiando il piatto tradizionale composto

secondo l’antica ricetta, l’individuo “sentirebbe” un legame con l’identità e la comunità associate a

quel rituale o a quel cibo che nessun “evento mediatico” e nessun hamburger potrà mia fargli

provare. Le comunità autosegregate (per dimensioni o per volontà) che rivendicano oggi una voce

22 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota precedente [il passo è tratto dalle pp. 1-2 della traduzione italiana; il corsivo è mio].

23 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 10-11]. 24 Questa posizione è sostenuta con particolare veemenza da ANTHONY D. SMITH in molti dei suoi lavori, in

particolare in Nations and Nationalism in a Global Era, Cambridge, Polity Press, 1995, IX-211 p. Traduzione italiana di Alessandro Sfrecola, Nazioni e nazionalismo nell’era globale, Trieste, Asterios, 2000, 186 p. A dirla tutta, la critica al naturalismo delle identità che sto brevemente delineando in questo paragrafo è rivolta più a Anthony D. Smith (e al modo in cui la sua teoria è stata ripresa proprio dai mass media) che non a Manuel Castells, il cui impianto teorico è di ben altro spessore.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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politica coprirebbero dunque il buco emozionale inevitabilmente lasciato scoperto dalle istanze

globalizzanti. Questa teoria, per quanto avvincente a prima vista, mi pare soffra di un difetto

analitico (che ha poi ricadute teoriche e politiche notevoli), dato che trascura duecento anni di

sostanziosi successi di quei movimenti politici e ideologici che riassumiamo coi termini

convenzionali di nazionalismo e socialismo. Se cioè fosse vero che abbiamo naturalmente bisogno

di una dimensione ristretta, locale in senso sempre più claustrofobico, per poter soddisfare le nostre

esigenze di identità, appartenenza e comunità, come si spiega che negli ultimi due secoli il mondo è

stato segnato da due forze (il nazionalismo e l’internazionalismo) che smuovevano gli animi e gli

intestini sulla base di principi assolutamente antitetici a questo localismo? Una comunità

immaginata, ci ricorda Benedict Anderson, è immaginata

…poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; il contenuto del

loro legame, dato il loro numero e l’estensione territoriale della nazione stessa, è necessariamente

immaginato, non prodotto da relazioni concrete, a differenza di quanto si suppone accadere in un

modello astratto di società tradizionale, in cui le relazioni faccia-a-faccia risultano prevalenti.25

Tuttavia, per quanto (o proprio perché) immaginata, rimane una comunità, cioè risponde a quelle

esigenze emotive che la teoria del revival come reazione sembra negare quando manchi

l’interazione su piccola scala (lo stesso ordine di considerazioni vale anche per l’internazionalismo

socialista). Provando ad ancorarci alla logica, possiamo dire che se avessero ragione i sostenitori

della natura meccanica della creazione delle identità, allora non potrebbero esistere comunità

immaginate26. Ma dato che sappiamo che le comunità immaginate esistono e sono esistite, se ne

deduce necessariamente che hanno torto quelli che dicono che la gente torna alle tradizioni e alle

parrocchie perché ha bisogno di soddisfare le proprie esigenze di condivisione emotiva nell’unico

spazio realmente possibile, la comunità esclusiva.

25 BENEDICT ANDERSON, Imagined Communities. Reflections on the Origins of Nationalism. Revised and

Extended Edtion, London, Verso, 1991, XV-224 p. Traduzione italiana di Marco Vignale, Comunità immaginate.

Origini e diffusione dei nazionalismi. Prefazione e cura di Marco D’Eramo, Roma, Manifestolibri 1996, 223 p. [p. 25]. 26 A scanso di equivoci, e anticipando quanto verrà elaborato già nel finale di questo capitolo – ma sarà ripreso

nel corso di tutto il saggio – faccio notare che nella concezione originaria di Benedict Anderson “immaginato” non si contrappone di certo a “reale”, come sembra credere, ad esempio, Manuel Castells alla pagina 33 del suo Il potere delle

identità, op. cit. alla nota XX, quando afferma: “L’antitesi tra comunità «reali» e «immaginate» è di scarsa utilità analitica”. “Immaginato” si oppone invece a “oggettivo”, determinabile cioè secondo criteri esterni a quelli dei soggetti coinvolti. Cercando di evitare complicazioni terminologiche, possiamo dire che per Anderson la comunità è “immaginata” perché è un prodotto semiotico (un segno) che acquisisce senso per gli attori sociali che lo costituiscono. Sono i criteri che determinano il confine dell’appartenenza ad essere “immaginati”, cioè “creati” dai soggetti membri della comunità. L’originalità della prospettiva di Anderson consiste nell’aver spostato definitivamente l’attenzione analitica degli studiosi del nazionalismo dai dati oggettivi ai fatti sociali, senza per questo tramutare le nazioni in comunità “irreali”. Al contrario, secondo il principio vichiano (verum ipsum factum), le nazioni sono comunità immaginate perché sono fatte dagli uomini, e quindi conoscibili solo nella misura in cui ci si impegni a ricostruire il percorso di quel fare, che è tutt’altro che irreale.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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Il problema quindi non è com’è possibile che esistano comunità immaginate (Benedict Anderson

ci ha esposto i meccanismi di base del loro funzionamento, e Michael Herzfeld27 ci ha

definitivamente spiegato come non vi sia un vero conflitto tra discorso nazionale uniformante e

pratiche locali individuanti), ma come mai il nuovo processo di omogeneizzazione globale non

riesca a soddisfare a pieno le esigenze comunitarie. Perché quindi, fatta l’Italia si sia riusciti (più o

meno) a fare gli italiani, mentre fatta l’Unione Europea o fatta l’ONU assistiamo all’esplosione di

rivendicazioni sempre più accese di identità locali ed esclusive? Se poi si pensasse che l’Italia

costituisce un caso assai peculiare di costruzione identitaria, vale la pena di volgersi a un altro

esempio che è stato per decenni sinonimo di buona riuscita del processo di costruzione della

nazione, cioè la Francia. Anche se oggi sappiamo quanto sia stato lento, coercitivo e anche violento

il passaggio della multiforme e multilingue Francia medievale alla compatta nazione moderna28, è

fuor di dubbio che la Francia ha incarnato forse l’apogeo del modello del moderno stato nazionale,

l’epitome della coincidenza tra popolo, nazione e Stato. Se così stavano le cose, com’è che negli

ultimi vent’anni la Francia è sempre meno la terra dei francesi (uniformi per lingua, cultura,

passione culinaria e orgoglio) e sempre più la terra multiculturale e multilinguistica dei bretoni, dei

corsi, dei provenzali, dei baschi, degli alsaziani (per non parlare delle legioni di francesi di origine

africana) che ormai contestano sistematicamente il modello dell’uniformità sparando bordate

sull’unità linguistica, religiosa, culturale e (orrore!) culinaria del Paese29?

Se il mondo sociale fosse un sistema razionale che si sviluppa armonicamente, i passaggi

avrebbero dovuto essere nitidi: la frammentazione localistica precedente la Rivoluzione Francese

(enclaves, exclaves, usi locali spesso diversissimi a distanza di pochi chilometri) è stata uniformata

dal processo di nazionalizzazione nel corso di tutto il Diciannovesimo secolo e nella prima metà del

Ventesimo. Il mondo poco a poco ma in modo apparentemente inevitabile si è suddiviso in aree

culturalmente sempre più compatte, trasformando in nazioni moderne quelle che erano mere

27 MICHAEL HERZFELD, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo. Traduzione di Emanuela Nicolcencov,

Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003, 237 p. Edizione originale Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nation-

State, New York, London, Routledge, 1997, XIII-226 p. 28 EUGEN WEBER, Peasants into Frenchmen. The Modernisation of Rural France 1870-1914, Stanford, Calif.,

Stanford University Press, 1976, XV-615 p. Traduzione italiana di Alfonso Prandi, Da contadini a francesi. La

modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, Bologna, Il mulino, 1989, 909 p.

29 Su come la globalizzazione abbia modificato la natura dell’identità nazionale francese si veda PHILIP H. GORDON, SOPHIE MEUNIER, “Globalization and French Cultural Identity”, French Politics, Culture and Society, XIX (1), 2001, pp. 22-41, tema ripreso ed espanso nel volume degli stessi autori The French Challenge. Adapting to

Globalization, Brookings Institution Press, Washington DC, 2001, XI-152 p. Sul caso bretone si veda MARYON

MCDONALD, We are not French! Language, Culture, and Identity in Brittany, London, New York, Routledge, 1989, XIII-384 p. Per quanto riguarda l’identità basca (su entrambi i lati del confine franco-spagnolo, ma con un centro di attenzione sulle province meridionali) si veda JACQUELINE URLA, “Cultural Politics in an Age of Statistics. Numbers, Nations, and the Making of Basque Identity”, America Ethnologist, XX (4), pp. 818-843.

AGGIUNGERE ALTRI CASI

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

42i

espressioni geografiche. Disponiamo oramai di indagini accurate di tipo storico30 e antropologico31

che ci raccontano delle precondizioni strutturali di questo immane mutamento che ha attraversato il

genere umano, ma quel che conta è che conosciamo ormai con sufficiente chiarezza anche i

meccanismi emotivi implicati da questa costruzione nazionale32. Il passo successivo, se appunto il

mondo fosse un sistema razionale, avrebbe dovuto essere la creazione di comunità immaginate di

tipo transnazionale: mutate le condizioni economiche e tecnologiche, i sistemi Stato-nazione

perdono il loro dominio assoluto sullo scenario della politica, per essere affiancati da sistemi-mondo

sempre più complessi: Unione Europea, Nazioni Unite, GATT33, NAFTA

34, NATO35, WTO

36. Questi

sistemi sovranazionali avrebbero tutte le caratteristiche potenziali per porsi come basi strutturali alla

formazione di nuove comunità immaginate: come gli Stati nazionali al loro sorgere, sono funzionali

al sistema economico, si fondano su ideologie condivise dalle élites che li governano, e hanno

apparentemente a disposizione i mezzi tecnologici e mediatici per veicolare un senso comunitario

negli angoli più remoti dei loro rispettivi domini, possono cioè trasformare in un sentimento (o

agganciare a un sentimento) la spinta uniformante dettata da ragioni economiche. Eppure non

funziona, e se pochi decenni orsono i nostri nonni (alcuni di loro, almeno) potevano veramente

pensare di andare a morire per la Patria – un’entità astratta quant’altre mai, su cui però si era riusciti

a innestare un fortissimo senso (immaginato, appunto) di comunità – oggi fa al massimo sorridere

(quando non suscita una decisa repulsione) l’idea di combattere per gli “ideali” dell’Unione

Europea, tant’è vero che il documento di più elevato spessore ideale mai promulgato dall’Unione

Europea (e cioè la sua Carta Costituzionale) è stato sonoramente bocciato quando sottoposto a

referendum popolare in Francia e in Olanda, e il dibattito in corso dopo l’11 settembre riguarda

proprio la quota di violenza che l’Europa sembra pronta ad accettare per definirsi come tale.

L’opinione pubblica europea non sembra generalmente in grado di tollerare il “sacrificio” di alcuno

dei suoi membri, dimostrando dunque una concezione tutt’altro che “sacra” dell’entità in nome

della quale quell’eventuale sacrificio verrebbe richiesto.

Eppure, sappiamo ormai con certezza che gli eurocrati di Bruxelles si sono posti esplicitamente il

compito di produrre un’identità europea, sfruttando gli ordinari apparati istituzionali disponibili ai

singoli stati nazionali: “persuasione” verso la stampa, per indurla a presentare in buona luce

30 Hobsbawm 1990 31 Gellner 1983 32 Anderson 1991, Herzfeld 1997, Nairn Two faces of Nationalism 33 General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio). Si tratta di

un’agenzia delle Nazioni Unite creata con un trattato multilaterale (firmato in una prima stesura nel 1948 e ratificato con diverse variazioni nel 1994) e finalizzata a promuovere il commercio mondiale attraverso la riduzione delle tariffe doganali e dei dazi.

34 North American Free Trade Agreement (Accordo Nord Americano per il Libero Commercio), siglato tra Stati Uniti, Canada e Messico, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994.

35 North Atlantic Treaty Organisation. 36 World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio).

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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l’immagine dell’UE; tentativi di riscrivere la storia dei singoli Stati membri per armonizzarla alla

situazione politica attuale; produzione di simboli viventi dell’istituzione europea come, ad esempio,

l’istituzione di un Premio “Donna Europea”37. Con altrettanta certezza sappiamo che la pedissequa

applicazione al caso dell’Unione Europea delle strategie retoriche e simboliche che avevano

efficacemente contribuito alla formazione dei moderni stati nazionali non ha avuto effetto, o

comunque ne ha avuto in misura largamente inferiore alle aspettative. D’altro canto, proprio il

tentativo di applicare all’Unione Europea le stesse strategie uniformanti tipiche degli Stati nazionali

è una buona indicazione del fatto che l’intento di molti organismi apparente post-, trans- o sovra-

nazionali è stato quello di recuperare su un altro piano il potere perduto degli Stati nazionali:

...ciò che si ricercava [con l’integrazione europea] non era la sovranazionalità, ma la ricostruzione

del potere dello stato-nazione a un livello più alto, ossia un livello in cui fosse possibile esercitare

un certo grado di controllo sui flussi globali di ricchezza, informazione e potere [...] Per questa

ragione, invece di entrare nell’era della sovranazionalità e del governo globale, assistiamo

all’emergere di un superstato-nazione, cioè di uno stato che esprime, nel quadro di una geometria

variabile, gli interessi aggregati dei propri membri.38

La domanda che quindi dobbiamo porci è come mai le pratiche di produzione dell’identità che

sembravano così efficaci se perpetrate da istituzioni legate allo Stato nazionale perdono efficacia

quando vengono replicate da entità “superstatali”, per riprendere la terminologia di Castells. Non è

ovviamente sostenibile l’argomentazione secondo cui queste entità sarebbero artefatte, imposte da

motivazioni di ordine economico, sostanzialmente artificiali, e quindi “la gente” farebbe fatica a

identificarsi emotivamente con esse: le nazioni del Diciannovesimo secolo non erano meno

artificiali, ideologiche e (soprattutto) necessarie al funzionamento del sistema economico di allora

di quanto non lo siano oggi i nuovi soggetti della politica internazionale. La ragione dell’emergere

di identità comunitarie che prescindono dallo Stato nazionale e del fallimento emotivo delle entità

politiche transnazionali va cercata altrove, e in questo altrove si può trovare anche una spiegazione

credo sufficientemente chiara (ma in grado di prescindere da un meccanico legame di

azione/reazione) del rapporto tra globalizzazione economica e ripresa delle identità.

Stato nazionale, appartenenze, mezzi di comunicazione di massa

Con una metafora che anticipa quanto diremo anche nei prossimi capitoli, dovremmo cioè

riuscire a capire perché possiamo guardare la CNN e Teletuscolo con lo stesso interesse, se non

sempre con il medesimo coinvolgimento emotivo, senza spiegare la passione per Teletuscolo come

una reazione alle trasmissioni della CNN. Anticipando l’argomentazione presentata nelle pagine che

37 CRIS SHORE, “Inventing Homo Europaeus”, Ethnologia Europaea, XXIX (2) Winter, 1999, pp. 53-66. 38 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 352-353].

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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seguono, possiamo sintetizzare dicendo che il (nuovo) legame che cinge di un’aura globale il

fenomeno delle identità emergenti deve essere individuato nello scioglimento del (vecchio) legame

tra potere centralizzato, corpi e immaginazione. Mentre prima un potere centrale (quasi

inevitabilmente incarnato dallo Stato) gestiva il monopolio sulle forme impresse ai corpi e

all’immaginazione, garantendosi così quell’omogeneizzazione nazionale necessaria alla sua

sopravvivenza, ora lo Stato ha perso quel monopolio, e quindi le persone e le immaginazioni si

costruiscono e si spostano secondo motivazioni confliggenti, divergenti e comunque non

riconducibili a grandi configurazioni, da cui il sapore locale della loro epifania politica.

Questo lavoro non si prefigge il compito di formulare ipotesi o profezie sulle sorti dello Stato

nazionale. A noi basti dire che, qualunque possa essere il suo futuro, di certo il presente degli Stati

nazionali è segnato dalla fine del privilegio nella gestione monopolistica dell’immaginario dei suoi

cittadini.

Diversi autori hanno posto in evidenza in questi anni il progressivo indebolimento del potere

generale dello Stato, in particolare per quanto riguarda il suo controllo dei mezzi di comunicazione

di massa39. Alcuni studiosi si sono soffermati a descrivere i pervicaci tentativi dei governi di

influenzare il mercato e modificare le infrastrutture delle telecomunicazioni per adeguarle alle

proprie esigenze politiche40. Altri, al contrario, hanno insistito sul ruolo dei mezzi di comunicazione

di massa nel frantumare entità statali41. Comunque sia, quel che è certo è che, oggi, il rapporto tra

governi degli Stati nazionali e mezzi di comunicazione di massa che attraversano il territorio

sottoposto alla loro sovranità nazionale si è complicato, e soprattutto non può più essere dato per

scontato.

Non stiamo certo parlando della fine dello Stato nazionale o del passaggio inevitabile a nuove

forme di governo globale, dato che le pulsioni (più o meno utopiche) che sembravano orientare

parte della teoria fino alla fine del Ventesimo secolo sono bruscamente rientrate nei ranghi dopo

l’11 settembre 2001. Ma se lo Stato nazionale è ancora vivo e politicamente attivo, la novità

irreversibile è data dal fatto che oggi deve contrattare il suo potere non solo con altre entità statali,

ma con istituzioni e attori politici di dimensioni e “formati” eterogenei. L’ingresso nell’agone

39 Sulla perdita del potere dello Stato a seguito della globalizzazione e in particolare sul declino del controllo

governativo sui media si vedano rispettivamente il paragrafo “La globalizzazione e lo stato” [pp. 326-346] e il sottoparagrafo “Reti di comunicazione globale, audience locali, fattori di regolazione incerti” [pp. 339-344] in MANUEL

CASTELLS The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, e la relativa bibliografia. 40 Si vedano a questo riguardo i numerosi esempi citati in MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty. The Global

Information Revolution and Its Challenge to State Power, Cambridge, MA, London, The MIT Press, 2002, ix-317 p. Particolarmente succoso il paragrafo “Interactions and Influences” [pp. 5-12].

41 JOSHUA KALDOR-ROBINSON, “The Virtual and the Imaginary: The Role of Diasphoric New Media in the

Construction of a National Identity during the Break-up of Yugoslavia”, Oxford Development Studies, XXX (2), June

2002, pp. 177-187.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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politico di soggetti superstatali, infrastatali e interstatali − oltre a produrre una serie di mutazioni

strutturali nel sistema produttivo e politico − ha reso l’ambito dei mezzi di comunicazione di massa

un campo di contesa ben maggiore che in passato. La sostanziale marginalità economica dei settori

dell’informazione e dell’intrattenimento li aveva relegati in buona parte entro l’alveo delle singole

comunità nazionali (e quindi statali), fatto salvo il dominio dei grandi centri (economici e

ideologici) di produzione collocati negli Stati Uniti. Ma nelle condizioni attuali gli attori e gli ambiti

di intervento si sono estremamente complicati. Da un punto di vista delle potenzialità strutturali, (e

sempre fatta salva l’eccezione di Hollywood) possiamo dire che per diversi decenni la produzione

massmediatica è stata prevalentemente e preferibilmente nazionale sia per organizzazione sia per

destinazione: il sistema nazionale dei mass media provvedeva a soddisfare tutte e sole le esigenze

del proprio territorio. Secondo questo modello, la divisione del sistema politico internazionale e la

divisione del sistema mediatico tendevano alla quasi perfetta coincidenza: un sistema mediatico per

ogni stato nazionale, uno stato nazionale per ogni sistema mediatico, secondo lo schema della figura

142.

La situazione attuale prevede invece una molteplicità di soggetti attivi e una molteplicità di

destinazioni del sistema mediatico prodotto: non solo gli Stati sono affiancati da altre istituzioni, ma

tutti i soggetti produttivi destinano il loro prodotto mediatico su diversi target, a loro volta statali,

superstali e infrastatali. Da un lato quindi gli Stati si sforzano di proteggere il loro spazio nazionale

dall’ingerenza mediatica di altri soggetti ma nel medesimo tempo − come gli altri soggetti in gioco

− cercano di espandere il loro spazio mediatico al di là dei confini nazionali. Rispetto alla linearità

42 Come già accennato, questo quadro di produzione mediatica nazionale (che riguardava soprattutto carta

stampata, radiofonia e poi televisione) tralascia sostanzialmente l’industria cinematografica, la prima industria mediatica a rivolgersi a una platea effettivamente globale pur se i suoi prodotti agli inizi erano quasi esclusivamente americani: “Già nel 1914, l’85 per cento del pubblico cinematografico mondiale guardava film americani. Nel 1925 le pellicole prodotte negli Stati Uniti raccoglievano oltre il 90 per cento degli incassi cinematografici nel Regno Unito, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Argentina, e oltre il 70 per cento degli incassi in Francia, Brasile e Scandinavia”, EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY “The Rise of the Global Media”, in EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY, a cura di, The Global Media: the New Missionaries of Corporate Capitalism, London, Washington, DC, Cassell, 1997, VIII-262 p. [pp. 1-19. Il passo è tratto da p. 3].

= confini dello stato nazionale

= confini del sistema dei media

Figura 1. La coincidenza tra sistemi statuali e sistemi mediatici prima dell’avvento delle

nuove tecnologie

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

46i

della figura 1, la nuova situazione determina un quadro estremamente complesso, che proviamo a

schematizzare in forma ipersemplificata nella figura 2.

Dal punto di vista della produzione e distribuzione della comunicazione legata a mezzi

elettronici, le differenze rispetto alla situazione precedente schematizzata nella figura 1 sono

sostanzialmente due: la proliferazione di soggetti tra loro difformi e un generale scollamento tra il

luogo giuridico occupato da questi diversi soggetti e i diversi spazi mediatici da essi prodotti43.

Per evidenziare quanto più possibile la concretezza di questi due aspetti, può essere utile

ricostruire brevemente la storia di MED-TV, un caso per molti versi esemplare, che ci guiderà alle

implicazioni direttamente antropologiche e identitarie di questa nuova disposizione

infrastrutturale44.

Collocata giuridicamente sul suolo britannico, MED-TV forniva attorno alla metà degli anni

Novanta un servizio di programmi principalmente in lingua curda (e solo in misura nettamente

inferiore in turco, inglese e arabo), rivolto quindi ai molti parlanti di questa lingua, che

notoriamente non trovano, per la loro specificità culturale, una corrispondenza politica in un’entità

statale, dato che il Kurdistan come area geografica e linguistica si colloca a cavallo di quattro Stati

(Turchia, Iraq, Iran e Siria). Il segnale di Med-Tv utilizzava transporders di proprietà

dell’Eurovisione45 collocati su satelliti Eutelsat46. L’Eurovisione consorzia i principali broadcaster

43 Per luogo intendo un campo delimitato da regole precise, in cui l’intervento è regolato e controllato. Lo spazio

è invece l’opposto, un campo tendenzialmente privo di regolamentazione e in cui i diversi soggetti sono liberi di intervenire. Naturalmente, luogo e spazio sono estremi ideali, e per ogni epoca storica e per ogni contesto è possibile stabilire quale delle due concezioni sia dominante. Per quanto riguarda il sistema delle comunicazioni, sembra evidente che il passaggio in corso sia da una concezione di luogo a una di spazio, e che questo passaggio trovi favorevoli soprattutto gli organismi non statali, e particolarmente ostili gli Stati nazionali costituiti. Su questa opposizione, cfr. MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 23-25.

44 Traggo questo esempio da MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 80-82. 45 Union Européenne de Radio-Télévision/European Broadcasting Union fu fondata nel 1950 con sede a

Bruxelles e oggi raggruppa 74 membri attivi e 44 associati. La rete permanente di Eurovisione, che ha il suo quartier

= soggetto statali

= confini dei sistema dei media

Figura 2. L’attuale discordanza tra sistemi statuali e sistemi mediatici

= soggetti non statali

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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di servizio pubblico in Europa, Nord Africa e Medio Oriente, e dato che il servizio pubblico

radiotelevisivo per ogni singolo Stato è gestito da agenzie che rispondono direttamente o

indirettamente agli Stati corrispondenti, la diffusione del segnale di MED-TV dipendeva, in buona

misura, dalla disponibilità dei gestori dei singoli transponders ad accettare di veicolarne il segnale

nelle porzioni loro assegnate.

Fin dall’inizio, le posizioni politiche espresse in alcuni dei programmi di MED-TV suscitarono il

profondo risentimento del Governo turco, che vedeva il proprio spazio nazionale invaso da

messaggi politici ritenuti inaccettabili. In un primo momento, la Turchia fece di tutto per impedire il

downlink47 del segnale satellitare, favorita in questo da un dettaglio apparentemente trascurabile. In

origine, infatti, il segnale di MED-TV veniva trasmesso da un satellite Hotbird collocato su un’orbita

leggermente diversa da quella utilizzata dai satelliti che trasportavano i segnali Eutelsat più comuni

(cioè più visti) in Turchia. Ciò significava che gli utenti che volevano vedere MED-TV dovevano

orientare la loro antenna satellitare in posizione sensibilmente diversa da quella degli utenti dei più

comuni satelliti Hotbird, rendendosi così identificabili a una semplice ispezione visiva da parte delle

forze dell’ordine. Per proteggere i propri spettatori dal rischio di subire le rimostranze delle autorità

turche, la proprietà di MED-TV si vide costretta a spostare il suo segnale sul satellite comune,

forzando quindi il Governo turco a mutare strategia. Non potendo individuare le antenne

paraboliche e quindi bloccare il downlink, l’attenzione si concentrò sull’uplink, e a questo punto

entrarono in gioco i rapporti bilaterali tra la Turchia e i diversi Stati membri di Eurovisione e

Eutelsat. Sebbene la documentazione ufficiale sia carente, si conoscono diversi casi in cui MED-TV

è stata esclusa dai trasponders sui satelliti Eutelsat in seguito a pressioni esercitate dal Ministero

degli Esteri turco presso i diversi gestori nazionali che garantiscono di fatto l’accesso all’uplink48.

Ma questa soluzione (individuare canali di relazione con i singoli Stati, e premere perché ritirassero

la disponibilità ad ospitare MED-TV sui transponders di loro competenza) era comunque una

risposta di tipo tattico, cui mancava un piano strategico. L’ostacolo da superare per impedire in via

definitiva le trasmissioni di MED-TV era costituito dalla licenza britannica che il servizio in lingua

curda poteva vantare, licenza rilasciata dalla Independent Television Commission49 che garantiva il

generale a Ginevra, impiega fino a 50 canali digitali su un satellite Eutelsat per scambiare programmi soprattutto di natura informativa e di sport. Cfr. <http://www.ebu.ch>.

46 Eutelsat fu istituita nel 1977 come organizzazione intergovernativa per sviluppare e gestire una rete satellitare destinata all’Europa. Il primo satellite della serie Hotbird venne messo in orbita nel 1983, seguito progressivamente da altri 24 lanci di satellite che fanno oggi di Eutelsat uno dei leader mondiali nella tecnologia satellitare geostazionaria. Nell’aprile 2005 i maggiori azionisti di Eutelsat S.A. hanno unito i loro investimenti in un nuovo gruppo (Eutelsat Communications) che, a fine 2005, deteneva il 95,2 per cento di Eutelsat S.A. Cfr. <http://www.eutelsat.com>.

47 Nelle comunicazioni, il downlink è il collegamento da un satellite a una stazione ricevente al suolo. Di converso, l’uplink è la trasmissione di un segnale da un terminale terrestre a un satellite o a un altro tipo di piattaforma aerea.

48 MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, p. 81. 49 Questo organismo britannico di controllo ha cessato di esistere il 18 dicembre 2003, quando le sue mansioni

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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rispetto di una serie di standard di obiettività e imparzialità considerati essenziali. Il passo

successivo – fatale per le sorti di MED-TV – fu attirare l’attenzione del licenziatario sui contenuti

trasmessi, per metterne in luce la partigianeria. Dopo una serie di multe impartite nel 1998, l’anno

successivo l’Independent Television Commission ritirò definitivamente la licenza a MED-TV, che di

lì a poco chiuse le trasmissioni.

Questo apologo (amaro per alcuni, gioioso per altri) include alcuni nuclei portanti attorno a cui

cerchiamo di riflettere in questo capitolo. La volontà di dare voce a una comunità linguistica priva

di una sua espressione statuale si è espressa in questo caso attraverso la ricerca di una visibilità

mediatica. Il fatto che la maggior parte delle trasmissioni di MED-TV fossero emanate in lingua

curda ci dice inoltre che quella visibilità era – oltre che rivolta all’esterno – indirizzata

principalmente ai suoi membri (potenziali o effettivi), in un’opera di rinforzo e sostegno

dell’identità collettiva. Oltre che come dichiarazione di un’appartenenza, dunque, la possibilità di

“trasmettere l’identità” è un modo oggi particolarmente efficace di “produrre l’identità”50. A parte il

caso dell’Iraq, gli spettatori di MED-TV erano in buona parte cittadini abituati a usare la lingua curda

in contesti esclusivamente domestici51. La semplice circostanza di poter seguire trasmissioni nella

loro lingua madre rende plausibile il curdo come lingua di status ufficiale, lo rende quindi

immaginabile in contesti ben diversi da quello domestico. La fruizione di una lingua in un quadro

altamente decontestualizzato come quello televisivo apre cioè spazi altrimenti letteralmente

impensabili di legittimazione politica, al di là e indipendentemente dagli specifici contenuti

trasmessi. In questo senso, il vecchio (e screditato) adagio di Marshall McLuhan “il mezzo è il

messaggio” recupera gran parte del suo valore. La semplice possibilità di utilizzare un canale

satellitare per trasmettere programmi in curdo garantisce a quella lingua un prestigio altrimenti

irraggiungibile, indipendentemente dal contenuto specifico delle trasmissioni, divenendo ipso facto

sono state assunte nel quadro più vasto delle attività dell’Ofcom (Office of Communications), che ha ereditato i compiti di altri quattro organismi, e cioè: il Broadcasting Standards Commission (BSC), Oftel, la Radio Authority e la Radiocommunications Agency.

50 Torneremo in dettaglio su questo tema quando discuteremo la natura e la funzione degli indigenous media nel prossimo capitolo, alle pp. XX-XX.

51 Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il curdo – che già era tollerato nell’uso quotidiano – è diventato la seconda lingua ufficiale dell’Iraq e la prima nella parte settentrionale del paese. In Siria e Turchia l’uso del curdo è vietato dalla legge, mentre in Iran è tollerato anche se non ufficialmente riconosciuto. Sulla soppressione del curdo si veda in generale AMIR HASSANPOUR, “The Politics of A-political Linguistics: Linguists and Linguicide” in ROBERT

PHILLIPSON, a cura di, Rights to Language, Equity, Power, and Education, Celebrating the 60th Birthday of Tove

Skutnabb-Kangas, Mahwah, NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 2000, 310 p. [pp 33-39]; per il caso siriano HUMAN

RIGHTS ASSOCIATION IN SYRIA, The Effect of Denial of Nationality on the Syrian Kurds. A Report by the Human Rights

Association in Syria, dattiloscritto, novembre 2003, 20 p., reperibile in rete all’indirizzo <http://www.mengos.net/events/04newsevents/ngonewsletters/syria-hras/Kurd%20%20Report.doc>; per il curdo in Turchia si veda invece HUMAN RIGHTS WATCH, “IX. Restrictions on the Use of the Kurdish Language” in Turkey:

Violations of Free Expression in Turkey, New York, Human Rights Watch, 1999, 122 p., reperibile in rete all’indirizzo <http://www.hrw.org/reports/1999/turkey/turkey993-08.htm#P941_209664>. In quest’ultimo è riportato anche il nono comma dell’articolo 42 della Costituzione turca che così recita: “Al di fuori del turco, nessun’altra lingua sarà studiata o insegnata ai cittadini turchi in alcuna istituzione di natura linguistica, educativa o scolastica”.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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un messaggio politico per un Governo come quello turco, intenzionato a mantenere il curdo nel

rango delle “parlate locali”.

Questa volontà politica di espressione culturale ha trovato collocazione nella comunità curda

della diaspora, e infatti il servizio in lingua curda aveva come basi produttive Londra e Bruxelles.

Un gruppo politico disperso di un’entità lingustico-culturale priva di uno Stato si è attivato per

generare un’immagine coerente di sé e della propria comunità di origine. Questa immagine è stata

tenacemente contestata da uno Stato (la Turchia) che vedeva in pericolo non tanto la sua sovranità

territoriale, quanto il diritto di gestire la produzione identitaria dei suoi cittadini. All’uso della forza,

lo Stato ha presto dovuto affiancare una raffinata diplomazia che ha incluso da un lato una serie di

accordi bilaterali (perlopiù informali) con altri Stati, e dall’altro l’appello esplicito alle norme che

stabiliscono il diritto di appartenenza a un organismo britannico di regolamentazione.

Un canonico conflitto di interessi e diritti tra minoranza e maggioranza – che si potrebbe pensare

come una questione di politica interna – è stato quindi riscritto sub specie mediatica in modo da

spostare radicalmente il luogo della contesa e gli attori in gioco. La minoranza interna ha trovato

uno specchio e un innesco alla propria identità culturale e politica nella comunità degli espatriati.

Quest’ultima – invece di trattare o scontrarsi con lo Stato o gli Stati che controllano territorialmente

lo spazio occupato dalla minoranza – ha negoziato uno spazio mediatico con organizzazioni non

statali e con gli Stati di insediamento, che a loro volta utilizzavano un cartello internazionale per

rendere operativo quello spazio mediatico. Come la minoranza non ha trattato direttamente con la

“sua” maggioranza, così la maggioranza non ha esercitato una pressione diretta sulla “sua”

minoranza – o lo ha fatto solo fin quando le condizioni tecnologiche l’hanno consentito, fino a

quando cioè l’orientamento delle parabole ha permesso di identificare “oggettivamente” la

minoranza – ma ha intrattenuto una serie di trattative bilaterali con altri Stati e con organizzazioni

non statali per oscurare lo spazio mediatico conquistato dalla comunità della diaspora.

Quale che sia il nostro giudizio sulla specifica vicenda di MED-TV, la lezione che ne dobbiamo

trarre per le nostre riflessioni sul rapporto tra sistema delle comunicazioni di massa e identità

collettive è sostanzialmente che nella misura in cui il sistema mediatico si libera del monopolio

statale, gli Stati nazionali non sono più in grado di gestire autonomamente la questione

dell’identità culturale e politica dei cittadini legalmente sottoposti alla propria giurisdizione.

Anche in questo caso (in cui a risultare “vincitore” è alla fine uno Stato nazionale) lo Stato

maggiormente esposto (la Turchia) non avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi (che rimangono

formalmente di politica interna) se non si fosse posto come nodo di una rete complessa costituita da

altri Stati e altre entità politiche e amministrative non statali.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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Tradotto nella pratica politica dello Stato nazionale classico, questo tipo di dinamica risulta

incomprensibile. Nel modello canonico mazziniano (un popolo per ogni Stato, uno Stato per ogni

popolo) la questione della fedeltà politica e della specificità culturale dei cittadini di uno Stato

sovrano è demandata interamente alla politica interna, qualificando immediatamente come

ingerenza qualunque caso di ingresso di soggetti terzi nella disputa tra gli apparati ideologici di uno

Stato e la coscienza etnica e civica dei suoi cittadini. La questione delle minoranze, sempre

considerata nel quadro dello Stato nazionale classico, ha per lungo tempo ritenuto legittima

l’intrusione di un terzo soggetto solo nel caso in cui questo potesse accampare pretese giustificate

sulla predisposizione nazionale della minoranza, quando cioè potesse a ragione presentarsi come

“vera madre patria” della minoranza sottoposta alla giurisdizione di un altro Stato. La tradizione

risorgimentale e irredentista che ha frantumato in Europa i grandi imperi Austro-Ungarico e

Ottomano nel corso dell’Ottocento e fino alla fine della prima guerra mondiale – in associazione

con la dottrina Wilson dell’autodeterminazione dei popoli52 – ha creato una tradizione di sovranità

nazionale in cui questa associazione esclusiva in termini di identità collettiva tra entità statale e

comunità nazionale ha finito per essere data per scontata. Il punto è che oggi una serie di fattori

strutturali – tra cui spiccano per rilevanza le nuove disponibilità di produzione e distribuzione dei

messaggi veicolati dai mezzi elettronici di comunicazione di massa – rendono obsoleto

quell’automatismo. Se, insomma, secondo il modello classico, era normale pensare che l’identità

dei cittadini turchi fosse una questione che coinvolgeva in esclusiva il Governo turco o al massimo

eventuali Governi limitrofi interessati direttamente (come potenziali “madrepatrie”) dalla questione

delle minoranze, oggi – a livello analitico oltre che politico – dobbiamo fare i conti con il fatto che

la “questione curda” in Turchia passa anche attraverso l’accordo tra la Turchia e – per esempio – la

Slovacchia, se questa, com’è accaduto, ha il potere di impedire il passaggio di MED-TV sui

transponders da lei gestiti.

È questa novità che dobbiamo essere in grado di teorizzare e per la quale dobbiamo produrre nuovi

modelli, senza dunque cedere alla tentazione di credere che nulla sia cambiato (come se gli Stati

avessero mantenuto intatti i loro privilegi) o che sia cambiato tutto al punto di generare una sorta di

caos delle identità in cui non è possibile individuare alcuna regolarità.

Un primo passo per produrre un quadro teorico coerente è ripensare in modo sistematico due

concetti (modernità ed emigrazione) che hanno accompagnato negli ultimi due secoli quello di

appartenenza, e verificare in che modo le mutazioni interne di questi concetti entrino in rapporto

con le modifiche già indicate nel sistema dei mezzi di comunicazione di massa, così da causare un

52 spiegare

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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mutamento radicale nel sistema delle appartenenze. Per anticipare la tesi che intendo argomentare

nelle righe seguenti, si tratta di vedere come:

(a) una concezione della modernità sempre meno evoluzionista e sempre più legata alla

specificità del contesto culturale in cui si realizza e

(b) la metamorfosi della migrazione in diaspora dentro e attraverso il mutamento tecnologico dei

mezzi di comunicazione

(c) abbiano alterato gli equilibri di forza faticosamente raggiunti dagli Stati nazionali nella

gestione dell’immaginazione nazionale e nella produzione di identità collettive.

Le direzioni della modernità

In un rapido e denso saggio53 il filosofo britannico Charles Taylor presenta quelle che lui

considera le due versioni principali della teoria della modernizzazione. Secondo la prima, che

definisce aculturale e che è sostanzialmente un modo di guardare ai mutamenti sociali trascurando

la loro dimensione morale, la modernizzazione caratterizza una fase specifica dell’evoluzione di

tutte le società umane. Indipendentemente dal punto di partenza, tutte le culture umane devono fare

i conti con il progresso, la tecnologia, la crescita dell’individualismo e la secolarizzazione. Proprio

perché non considera le culture come costellazioni di giudizi morali e di valori – oltre che di

specifiche pratiche e tecniche – questa concezione della modernizzazione può pretendere di essere

libera da giudizi di valore, e di restituire le sorti dell’umanità al suo inevitabile destino, che è

riassumibile nel passaggio dalla barbarie (universale) alla civilizzazione (altrettanto universale).

A questa concezione Taylor ne contrappone un’altra, che chiama invece culturale. Secondo

questa teoria alternativa, la modernizzazione delle culture non avviene mai in un contesto privo di

giudizi di valore ma si realizza come opzione fondamentalmente morale, e quindi secondo percorsi

alternativi e spesso divergenti. Detto altrimenti, non c’è una modernizzazione, ma molte forme del

passaggio da una costellazione culturale a un’altra. Scritto nel 1996, il saggio di Taylor concede alla

teoria aculturale della modernità il predominio pressoché assoluto nella teoria e nella pratica

politica. Anche i degenerazionisti, infatti, pur considerando la modernizzazione sostanzialmente un

male, non si discostano da una concezione rigidamente evoluzionista (pur se nella sua variante

negativa, degenerazionista appunto) e unilineare della sua traiettoria. Quello che nella concezione

positiva della modernità è il superamento di una strutturazione culturale, nella concezione negativa

viene visto come una perdita, ma il passaggio e la sua inevitabilità rimangono invariati:

Da un punto di vista, l’umanità si è liberata di una lunga serie di miti falsi e dannosi. Da un altro,

ha perso contatto con realtà spirituali essenziali. In entrambi i casi, il mutamento è concepito come

53 CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, The Responsive Community, VI (3), Summer 1996, pp. 16-25.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

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una perdita di credenza.54

Secondo Charles Taylor, il dominio della concezione aculturale della modernità dipende da una

serie di fattori, non ultimo il fatto che in questo modo si rende ideologicamente inevitabile (e quindi

indiscutibile) il percorso occidentale della modernizzazione. La prospettiva aculturale è quindi in un

certo senso rassicurante rispetto alla traiettoria del nostro percorso socio-culturale, ma questa

sicurezza si sconta come seria incapacità di comprendere il rapporto tra la modernità e le altre

culture:

Credere che la modernità derivi da una singola operazione applicabile universalmente impone un

modello falsamente uniforme ai molteplici incontri delle culture non occidentali con le esigenze

della scienza, della tecnologia e dell’industrializzazione.55

Nello stesso anno di “Two Types of Modernity”, l’antropologo indiano Arjun Appadurai

pubblicava una raccolta di saggi in cui in diversi passi riprende implicitamente l’antitesi di Charles

Taylor tra teoria culturale e aculturale della modernità, ma ponendosi l’esplicito obiettivo di portare

sostegno alla versione culturale della modernizzazione, per cui la “novità” cui assistiamo non può

essere negata ma deve essere declinata nei contesti specifici in cui viene a realizzarsi56. Per ogni

fenomeno culturale, dice Appadurai prendendo spunto dalle riflessioni di Michel Foucault su alcuni

concetti nietzschiani57, possiamo ricostruirne la storia come movimento di diffusione dal luogo di

origine (come processo cioè legato alla globalizzazione) ma con altrettanta cura dobbiamo

indagarne la genealogia, il movimento parimenti storico attraverso cui quel fenomeno si

indigenizza (producendo paradossalmente ulteriore identità locale, come abbiamo visto). La storia,

quindi, è il collegamento di modelli di mutamento in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il

percorso di determinati flussi nel loro dipanarsi a livello globale, per cui è possibile fare la storia

del nazionalismo se si individua la sua origine e poi se ne segue il lento propagarsi sul pianeta come

dottrina politica. La genealogia, invece, significa lo studio delle condizioni storiche locali che

54 CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota precedente, p. 20. 55 CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota XX, p. 24. 56 ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX.Tutto il libro tratta, da diverse prospettive,

proprio il tema della fine del mito uniformante della modernizzazione e la sua ricostituzione in forme locali, e quindi sarebbe vano segnalare al lettore passi specifici. Per la sua particolare pregnanza per il quadro della ricerca che affrontiamo in queste pagine, credo però valga la pena di riportare almeno questo passo, tratto da p. 25 della traduzione italiana: “La macroretorica della modernizzazione sviluppista (crescita economica, alta tecnologia, industria agricola, scolarizzazione, militarizzazione) è ancora presente in molti paesi, ma è spesso interrotta, messa in questione e addomesticata dalle micronarrative di film, televisione, musica e altre forme espressive che consentono alla modernizzazione di essere riscritta più come una versione dialettale della globalizzazione che come il cedimento a politiche nazionali e internazionali su larga scala”. Del resto, il titolo originale Modernity at Large gioca proprio su un’ambiguità glocal, dato che in inglese at large significa sia “in generale” (enfatizzando quindi la dimensione globale della modernità) sia “alla macchia”, come di un prigioniero evaso (con una chiara enfasi della dimensione localizzante e idiolettale di quella modernità).

57 MICHEL FOUCAULT, “Nietzsche, Généalogie, Histoire”, in AA.VV. Hommage à Jean Hyppolite, Paris, Presses Universitaires de France, 1971, II-232 p. [pp. 145-172].

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

53i

consentono la sedimentazione sul territorio di nuove forme culturali, per cui è possibile collegare

l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione della

divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico debba fare i conti, a livello

locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi58.

Questa duplice attenzione analitica (ai fenomeni messi in moto dalla globalizzazione economica

e culturale del pianeta e al loro radicarsi in contesti estremamente locali secondo forme indigene

che li rendono del tutto peculiari proprio nel momento in cui si insediano come fenomeni globali)

cerca ovviamente di tener conto della dimensione culturale di ogni forma di modernizzazione e

quindi supera in maniera intenzionale il modello aculturale classicamente evoluzionista. Soprattutto,

questo approccio permette di scardinare la necessità che sembra correlare alcune variabili nella

teoria aculturale della modernizzazione come, ad esempio, il rapporto tra modello politico, livello di

sviluppo economico e tecnologico e secolarizzazione. Se infatti nella teoria classica della

modernizzazione queste tre variabili sono strettamente correlate (per cui a una crescita tecnologica

dovrebbe corrispondere una progressiva secolarizzazione e un rapido passaggio verso forme di

democrazia liberale), oggi abbiamo piena consapevolezza che vi può essere crescita economica

senza corrispondente passaggio a regimi liberali o democratici (come nel caso cinese) oppure una

sostanziale espansione tecnologica senza segni evidenti di secolarizzazione (come in Iran). In modo

sempre più nitido a partire dalla crisi dell’11 settembre 2001, abbiamo dunque acquisito

consapevolezza non solo analitica ma anche politica che possiamo inscrivere persino forme

apparentemente regressive come il fondamentalismo religioso entro il quadro generale della

modernizzazione59, che quindi si frantuma in diversi percorsi locali che lottano per il predominio.

Perduta la strada maestra dell’evoluzione sociale, la modernizzazione può quindi significare

anche l’acquisizione di competenze tecnologiche per la realizzazione di obiettivi apparentemente

premoderni: la ripresa su nastro magnetico dello sgozzamento dei prigionieri durante la seconda

guerra in Iraq è un esempio particolarmente efferato di questa commistione apparentemente

contraddittoria di mezzi “moderni” (di comunicazione di massa) e di fini “barbarici”, ma nel

prossimo capitolo vedremo invece applicazioni del tutto pacifiche di questo stesso principio. Il

primo punto che dobbiamo tenere presente nel nostro tentativo di realizzare un quadro teorico che ci

consenta di comprendere come i mezzi di comunicazione di massa producano oggi forme identitarie

è che non vi è un percorso necessario che conduca dal tradizionale al moderno, se con quest’ultimo

termine intendiamo il sistema di valori che caratterizza il mondo occidentale. La circolazione dei

58 APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX. I riferimenti all’opposizione storia/genealogia sono

alle pp. 91-92 e 102-103. 59 Cfr. ad esempio la brillante analisi del fondamentalismo musulmano di JOHN GRAY, Al Qaeda and what it

means to be modern, London, Faber and Faber, 2003, 145 p. Traduzione italiana di Lorenzo Greco, Al Qaeda e il

significato della modernità, postfazione di Sebastiano Maffettone, Roma, Fazi, 2004, 155 p.

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messaggi garantita dalla globalizzazione, dunque, non certifica una progressiva omogeneizzazione

culturale del pianeta, dato che i percorsi storici di quei messaggi possono essere molto lontani dalle

loro strategie genealogiche di sedimentazione locale.

Migranti, diasporici e indigeni

Ma, assieme a questo punto, ce n’è un altro che va tenuto presente con chiarezza, ed è – in

estrema sintesi – il passaggio dalle migrazioni alle diaspore. Abbiamo già accennato

nell’introduzione al rapido movimento della popolazione sul pianeta grazie alla diffusione di mezzi

di trasporto sempre più veloci e sempre più economici. L’innovazione tecnologica dei trasporti,

associata alla rapidità con cui si spostano i messaggi attorno al pianeta, ha provocato un radicale

mutamento del modo in cui le comunità si pensano e agiscono come tali. Così, in un saggio

dedicato proprio al concetto di diaspora, l’antropologo americano James Clifford condensa la

situazione attuale:

...le forme diasporiche della nostalgia, della memoria, e della (dis)identificazione sono condivise da

un ampio spettro di minoranze e popolazioni migranti. E popoli dispersi, un tempo separati dalle

terre d’origine da vasti oceani e da barriere politiche, si trovano sempre più in relazioni di frontiera

con la vecchia patria grazie a un viavai reso possibile dalle moderne tecnologie dei trasporti, delle

comunicazioni e della migrazione del lavoro. Aerei, telefoni, videocassette, videoregistratori e

mobilità dei mercati del lavoro, riducono le distanze e agevolano il traffico, legale e illegale, fra i

luoghi del mondo.60

Gli uomini hanno sempre viaggiato cercando altrove migliori condizioni di vita, ma nel farlo

dovevano essere disposti a lasciare dietro di sé buona parte dei loro affetti e delle loro conoscenze.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, questo spostamento ha coinvolto milioni di persone in

fasi diverse, fino a giungere agli attuali movimenti di popolazioni dal Sud verso il Nord del mondo.

Ma se fino agli anni Cinquanta del Ventesimo secolo l’opposizione basilare era quella tra stanziali e

migranti (con i secondi ferocemente tesi per propria volontà o per la pressione dello Stato ospite a

diventare quanto più rapidamente possibile parte dei primi) la tecnologia associata ai trasporti e alla

comunicazione ha mutato lo scenario, producendo almeno tre categorie distinte di raggruppamenti

identitari in base al loro specifico rapporto con il territorio:

1. Migranti. Continuano ad esistere i migranti. Persone che si spostano, per speranza o per

disperazione, da un posto a un altro e intendono integrarsi nel luogo di arrivo. Si sforzano di

imparare rapidamente la lingua del paese in cui sono ospiti o almeno pretendono che la parlino i

60 JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, traduzione di Michele Sampaolo e Giuliana Lomazzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, 475 p. [pp. 299-342; il passo citato è da p. 302]. Edizione originale Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, MA, - London, Harvard University Press, 1997, 408 p.

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loro figli, per far sì che la loro condizione di forestieri venga rapidamente meno, e si trasformi in

piena cittadinanza. I migranti non intrattengono rapporti stabili o continuativi con il posto da cui

provengono, e quindi ne costruiscono al massimo un’immagine idealizzata, rapidamente oleografica

e sempre più distante dalla realtà. Spesso accettano addirittura una sorta di amnesia che consente un

più rapido inserimento nella comunità di arrivo. L’emigrazione italiana dell’Ottocento (in Francia

prima, nelle Americhe poi) era in massima parte concepita e organizzata come produzione di

migranti, ben disposti a cedere quote rilevanti della loro identità italiana (spesso solo regionale o

locale) in cambio di una prestigiosa e nuova identità “moderna” (francese o variamente americana).

2. Diasporici. Ma la condizione di migranti, necessaria e senza alternative praticabili (se non

l’emarginazione sociale) per quanti partivano fino agli anni Cinquanta, presto si è mutata in una

scelta, dato che la possibilità di mantenere contatti costanti con il luogo di provenienza ha reso via

via plausibile l’alternativa di sentirsi parte di una comunità diasporica. Oggi è, in molti casi,

materialmente possibile spostarsi all’altro capo del pianeta per sempre senza abbandonare non solo

la lingua di socializzazione, ma anche le abitudini alimentari, i gusti musicali, il panorama politico e

i giornali o i programmi televisivi preferiti. Ci si può radicare cioè in un territorio senza perdere il

contatto reale (non solo il legame affettivo) con la propria patria d’origine. Ovviamente, questa

disponibilità non è equamente distribuita sul pianeta (immagino sia difficile sentirsi membro della

diaspora greca, poniamo, in Nuova Guinea) ma i grandi flussi migratori e le mete principali

sembrano rendere strutturale questa condizione. Com’è immaginabile, sono gli Stati nazionali ad

essere scossi nella loro natura costitutiva dalle diaspore, dato che queste minano il requisito

primigenio dello Stato nazionale moderno, e cioè l’uniformazione dei propri membri a un modello

regolare di tratti culturali e valori morali condivisi. La pretesa di una comunità diasporica di

mantenere non solo i contatti, ma anche la propria fedeltà, associati a un paese diverso da quello in

cui si risiede viene giudicata spesso come una vera minaccia all’integrità nazionale, o almeno come

una pratica ambigua e fonte di sospetto.

Lo Stato nazionale, in quanto territorio e tempo comune, è attraversato e, in vario grado, sovvertito

dai vincoli di attaccamento diasporici. Le popolazioni in diaspora non vengono da un altrove allo

stesso modo degli «immigranti». Nelle ideologie nazionali assimilazionistiche come quella degli

Stati Uniti, gli immigranti possono sperimentare un senso di perdita e nostalgia, ma solo sulla

strada verso una patria tutta nuova in un nuovo posto. Le ideologie di questo tipo sono destinate a

integrare immigranti, non la gente delle diaspore. Che la storia nazionale raccontata nella versione

della tradizione parli di origini comuni o di popolazioni formatesi per aggregazioni successive, essa

non è in grado di assimilare gruppi che mantengono importanti fedeltà e connessioni concrete con

una patria di partenza o con una comunità dispersa collocata altrove. Persone il cui senso di identità

è definito nel suo nucleo centrale da storie collettive di spostamento o di perdita violenta non

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possono essere «curate» con la fusione in una nuova comunità nazionale.61

Quale che sia la volontà assimilatrice degli Stati nazionali, le condizioni strutturali dell’identità (i

modi e le forme della sua produzione e riproduzione) rendono ormai disponibile una condizione

diasporica che oggi si rende fruibile anche alle generazioni nate dai migranti. Cittadini “sfocati”

rispetto al centro normativo dello Stato cui appartengono e in cui sono nati, possono a volte

ricostituire un legame effettivo con la terra di provenienza dei loro genitori, o dei loro antenati. In

un movimento paradossale che vanifica la retorica stabilizzante della metafora delle radici, questi

nuovi soggetti diasporici inseguono nel tempo e nello spazio una radicalità sostanzialmente nuova

per loro e per la loro comunità.

Le diaspore attivate nella globalizzazione producono inevitabilmente una pressione politica sugli

Stati. Non tanto e non solo sugli Stati di destinazione, quanto sull’ideologia stessa che sta a

fondamento dello Stato attuale. Le politiche assimilazioniste, viste con favore fino agli anni

Sessanta del secolo scorso, hanno lasciato il campo a progetti sociali in cui le parole chiave sono

integrazione (non assimilazione), e multiculturalismo o intercultura62, non più cultura nazionale.

Legittimando il nomadismo dei sistemi culturali, la diaspora delegittima la vocazione sedentaria

degli Stati nazionali classici, costringendoli a un duplice lavoro empirico (da un lato mediare tra le

diverse culture diasporiche che li attraversano; dall’altro inseguire la diaspora della propria

comunità nazionale originaria) e a un complesso lavoro teorico di giustificazione della propria

esistenza. Se infatti lo Stato nazionale non è più (o non più in modo esclusivo) l’alveo politico di

una comunità nazionale uniforme per cultura e valori, quali sono le basi morali della sua legittimità

come soggetto politico? Ma non è solo contro l’ideologia dello Stato nazionale che prendono forma

le comunità diasporiche, e non sono solamente le comunità diasporiche a minare la legittimità dello

Stato nazionale.

3. Indigeni. Proprio i flussi planetari di merci, messaggi e popoli hanno attivato una nuova

consapevolezza della territorialità, che si traduce in politiche di salvaguardia, di recupero e di

rinforzo del legame “originario” con il suolo. Il movimento zapatista che il 1° gennaio 1994 prese il

controllo di San Cristobal de la Casas e di altri centri dello Stato messicano del Chapas era

composto principalmente di indios tzeltal, tzozil e chol che, sostenuti anche dalle gerarchie

cattoliche (con loro era Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal) si sollevarono contro il Governo

centrale reclamando giustizia sociale. Un elemento interessante del movimento zapatista è la sua

61 JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, loc. cit. ala nota precedente, p. 307. 62 Sul recente passaggio dal multiculturalismo all’intercultura si veda FRANCESCO POMPEO, Il mondo e poco. Un

tragitto antropologico nell’interculturalità, Roma, Meltemi, 2002, 191 p.

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capacità di superare le tradizionali divisioni etniche in nome di una battaglia condotta sulla comune

provenienza: “Ciò che abbiamo in comune è la terra che ci ha dato la vita e la lotta”63.

Questo esempio, ormai estremamente famoso ma cui potremmo facilmente aggiungerne altri64, ci

dice ancora una volta che non è contro la globalizzazione economica e culturale che prendono

forma e si caricano di valenze politiche le identità locali, ma proprio dentro la diffusione planetaria

dell’uniformazione del mercato e dei costumi consentita dall’esportazione dei messaggi e delle

ideologie tramite i mezzi di comunicazione elettronica che trovano nuova linfa le identità locali. Se

non ci fossero i migranti e i diasporici, gli indigeni, con il loro primigenio legame alla terra, non

avrebbero ragione politica di essere tali.

La “riscoperta” dell’autoctonia e della primogenitura investe la legittimazione “territoriale” dello

Stato almeno quanto le diaspore ne incrinano la legittimazione “etnica”. Se cioè la diaspora

planetaria dimostra la permeabilità dei confini stabiliti tra gli Stati sovrani – la loro natura sempre

più simbolica di asserimento della differenza e sempre meno funzionale di gestione attiva della

stessa – così ogni rivendicazione di indigenità interna, venendosi a configurare come una richiesta

di resecazione di uno spazio politico speciale all’interno dei confini nazionali – cioè ponendo un

nuovo confine identitario – nega valore anche solo formale ai confini statali. Ogni movimento

indigenista, nativista, autoctono o comunque connotato in termini di superiorità morale rispetto alle

diaspore e alle migrazioni, proprio delimitando un suo spazio “naturale” (quasi mai coincidente con

lo spazio nazionale in cui è incluso) riduce a mero artificio lo spazio nazionale dello Stato che lo

contiene. Se cioè comincia a trovare una sua legittimità l’idea che il criterio fondativo di una

comunità politica non sia un accordo siglato attorno a una progettualità comune, ma uno spazio

condiviso ab origine e attraversato in seguito da altri più o meno tollerati, la risposta politica dello

Stato nazionale alle identità di questo tipo non può che selezionare tra un’alternativa. O decide di

fare proprio il modello indigenista, assumendo consapevolmente la postura di Stato etnico e quindi

puntando alla definitiva “purificazione” del proprio territorio nazionale da qualunque

contaminazione con gruppi non autoctoni (con tutte le tragedie che questa posizione inevitabilmente

si trascina) oppure cerca di contenere quel modello in un sistema generalizzato di riconoscimenti

giuridici per le diverse comunità indigene eventualmente esistenti sul suo territorio. La risposta

effettiva è spesso una malsicura mediazione tra questi due estremi, come testimoniano, soprattutto

in Europa occidentale, i tentativi ambivalenti di escludere o inglobare nei sistemi di governo i

gruppi politici che mobilitano la propria base e strutturano il loro programma sul richiamo a

un’identità autoctona o indigena.

63 Cit. in MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, p. 87. Castells analizza

diffusamente il movimento zapatista alle pp. 81-93. 64 Citare casi come gli indiani d’America e gli Aborigeni australiani rimandando ai capitoli successivi.

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E se nei contesti extraeuropei molto spesso la contrapposizione è tra indigeni e cittadini di

origine eurocoloniale (inserendosi quindi in sperequazioni di potere precedenti e profondamente

radicate, per cui, per così dire, l’indigenismo nasce in questi contesti costitutivamente fragile e

subalterno e deve lottare anche solo per acquisire una quota politicamente spendibile di orgoglio

identitario) in Europa la sedentarietà primigenia dell’appartenenza si aggancia facilmente a gruppi

storicamente egemonici sul piano economico oltre che su quello culturale, producendo un’ulteriore

emarginazione degli emarginati.

Questa tripartizione teorica dello spazio identitario (migranti, diasporici, indigeni) non si

presenta, dal punto di vista delle singole comunità e ancor meno per quanto riguarda i singoli

soggetti, come un’alternativa, tutt’altro. Lo stesso individuo può rivendicare allo stesso tempo la

duplice natura di indigeno e diasporico, e anzi molto spesso la legittimazione dei diritti richiesti in

quanto popolo di una diaspora (la richiesta formale, ad esempio, di poter utilizzare la propria lingua

madre nel sistema educativo almeno fino a un certo grado di istruzione, come avviene in Australia)

deriva proprio dalla presunta natura indigena dell’identità di provenienza. I macedoni di Grecia

emigrati in Australia (di passaporto greco e di lingua macedone, del gruppo delle lingue

slavomeridionali), ad esempio, possono chiedere che i loro figli in Australia vengano educati in

macedone in quanto lingua autoctona nella regione della Grecia da cui provengono: i loro diritti

diasporici derivano quindi dalla loro autoctonia o “indigenità” in Macedonia65.

Del resto, la compresenza di tratti ambivalenti è inscritta nella natura opportunistica di

qualunque strategia identitaria, e se da un lato gli Stati si sforzano di conservare i privilegi della loro

“comunità originaria” quando questa coincide con le classi economicamente e politicamente

dominanti (com’è in generale il caso in Europa e in Asia), dall’altro gli stessi organismi statali si

battono per il riconoscimento dei diritti dei “loro” compatrioti lontani, anche quando questi si

sentono più migranti che diasporici.

IL SAGGIO È INCOMPLETO. MANCA IL FINALE ANCORA IN FASE DI STESURA

65 Sulla costruzione dell’identità diasporica dei macedoni in rapporto all’identità indigena, e sul ruolo giocato in

questa costruzione dalla comunicazione sempre più fitta tra “i partiti” e “i rimasti” cfr. LORING M. DANFORTH, The

Macedonian Conflict. Ethnic Nationalism in a Transnational World, Princeton NJ, Princeton University Press, 1995, XVI-273 p.

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Pastori e pinocchi

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PASTORI E PINOCCHI, BALORDI E BALLERINI. IL MUTAMENTO DELL’IMMAGINE DEGLI ALBANESI NEI

MEZZI DI COMUNICAZIONE ITALIANI (1997-2006)

Piero Vereni – Università della Calabria

Pubblicato su Achab. Rivista di Antropologia, n. 11, novembre 2007, pp. 47-58

Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c’era la guerra

civile del 1997. L’unica cosa che ho imparato nella guerra civile è

stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perché noi

andavamo al mare. Avevamo questa radio e la portavamo in riva al

mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera davano

un programma di musica rock. “Ora ascoltiamo una canzone, una

pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro sono i Led

Zeppelin”. Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple.

Guardavamo questo mare, le onde del mare, e intanto ascoltavamo

queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico

ascoltavamo e dicevamo: guarda il mondo come è bello di là…

[Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre

2006]

Introduzione

Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo in Macedonia

occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles de

Rapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell’area di confine tra Albania e Grecia.

Durante uno di questi viaggi, a Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore

di matematica in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia

negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccontò che aveva due

figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l’altro in

Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo

quell’estate. Il discorso che il padre tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: “Vai

in Italia, cercati un lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana

e cresci dei figli italiani. Adesso non è tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignità da

difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche anno, quando e se l’Albania

ritroverà un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati

anche tu che provieni da questo Paese”. Ricordo la forte impressione che mi suscitò questo

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Pastori e pinocchi

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imperioso comando di un padre a scordare la patria, la terra dei padri. All’epoca, gli albanesi non

godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in

generale aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con la più

alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili, anche per via delle

caratteristiche somatiche “mimetiche”.

Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare rapidamente il modo in

cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando il Paese

balcanico da gennaio iniziò presto ad attrarre l’attenzione dei mezzi di comunicazione italiani,

soprattutto quando produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese.

Ne emerse un’immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli albanesi, delle loro

motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e più

consistente di questo lavoro.

Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per avanzare alcune

riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazione

dell’identità albanese, e cioè la televisione d’intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio.

Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media nella formazione

delle identità collettive, queste pagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora in

corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media, strumenti di comunicazione sempre

bidirezionali, che molto dicono non solo sulla natura dell’oggetto rappresentato, ma anche sulle

forme culturali del soggetto che attua l’operazione di rappresentazione.

Pastori e pinocchi

Il 1997 è un anno di svolta per l’economia albanese. A partire dalla metà di gennaio le numerose

finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le rimesse

degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il

sistema piramidale della raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una

rendita dal proprio investimento, doveva trascinare con sé una dozzina di nuovi utenti) era giunto a

saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmente volatilizzato. La crisi

colpì la quasi totalità della popolazione residente in Albania e l’inerzia del governo di Sali Berisha

nell’affrontare per tempo la situazione provocò da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni

popolari e scontri anche violenti, periodo oggi è ricordato come la “guerra civile”, anche se non è

mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte.

Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania tra il 15 aprile

e il 12 agosto 1997 la “missione Alba”, condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione per

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Pastori e pinocchi

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aiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritorno della stabilità politica. Per la prima

volta, una missione internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle

truppe coinvolte sul territorio. Si trattò quindi di un’importante occasione per fare vedere, sullo

scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare dell’Italia dopo la fine

della seconda guerra mondiale.

L’intera vicenda ebbe un’intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente partecipò anche

l’Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i “corsivi” di quattro quotidiani italiani

hanno raccontato la crisi dell’economia albanese tra febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo

soprattutto per la sua implicita natura di testo “autoriale”, volendo quindi porre un parallelo tra la

scrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati:

La Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l’intento di fornire un quadro

genericamente esaustivo del panorama disponibile all’epoca, pur se costretto a tralasciare altri

grandi quotidiani “d’opinione”.

Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta attenzione a quel che

accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a catena e non mancano le

manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nelle pagine interne, e quasi nulla che

somigli a un corsivo. Posso citare due colonne non firmate su la Repubblica dell’11/2, anche

perché, primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema che ossessionerà gli italiani di lì a

qualche settimana: “E quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri

ritenute più solide da un punto di vista economico […] non resterà agli albanesi altro che tornare a

imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi”.

Quando l’interesse cresce, predomina un’immagine degli albanesi come “popolo folclorico”:

“…noi andammo all’attacco di quello che, allora, veniva definito ‘il nobile popolo schipetaro’.

C’era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessina ungherese di nome Geraldine:

un bel soggetto per un musical […] Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serene

popolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa

da Bari”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest’icona tra l’agreste e il comico pochi

giorni dopo: “Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero Paese […] trovammo un

mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggi o

buttava reti”, Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano

descritti come “…gente che aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso

lo scambio di carta; parossistica rappresentazione di un capitalismo da film di Frank Capra”,

Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo è lo stesso che

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Pastori e pinocchi

62

pochi anni prima aveva nutrito un meccanismo finanziario del tutto simile, e cioè il sistema dei

junk-bonds, i “titoli-spazzatura” utilizzati negli anni Ottanta da squali della Borsa come Michael

Millken. Si preferisce descriverli in modo lapidario: “Gli albanesi sono dei pinocchi che credono

nel Paese dei Balocchi”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con una curiosa inversione di

oggetto che già sposta l’attenzione da “loro” a “noi”: “…quei gonzacchioni che si son fatti

accalappiare da degli pseudo finanzieri d’assalto – non poi molto diversamente da come noi stessi

negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiare dai vari Virgillito and company”, il Giornale,

Riva, 2/3.

In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la metà di marzo, i corsivisti parlano ancora

con toni compassionevoli, con indubbi risvolti da complesso di superiorità: “…un popolo

dall’animo vuoto più ancora delle tasche”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Ma è meglio chiarire

subito: “Gli albanesi non sono i nostri ‘fratelli separati’. Semmai sono i nostri cugini scalognati”, il

Giornale, Riva, 2/3. Cugini di cui è bene fidarsi poco, soprattutto se si pensa che sono “…una

popolazione che di violenza si è sempre nutrita”, il Giornale, Caputo, 4/3.

Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non sono chiari i

motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non sequitur che risente

evidentemente di un radicato stereotipo della “polveriera” che così bene si accompagna al quadro

“balcanico” (Todorova 1997): in Albania succedono sommosse, quindi c’è il rischio che si

incendino i Paesi vicini.

“L’Albania non è un’eccezione, ma solo l’anello più debole di quella catena che collega la

Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi… legati da un comune destino:

l’incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato”, Corriere della Sera, Cingolani,

2/3.

“Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove condizioni

minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di lì tutti i Balcani”, Corriere della Sera

Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l’est ex-comunista: “Dunque: oggi

in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e, forse, in Russia?” Gazzettino, Ostellino, 4/3 e

qualcuno prevede ripercussioni su tutta l’Europa, senza distinzioni: “…una crisi che destabilizza

ancor più l’area balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l’Europa” Gazzettino, Tito,

14/3.

“Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l’Albania può esplodere il Kosovo […] Poi c’è la

Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l’incendio dei Balcani. La Grecia,

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Pastori e pinocchi

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intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud dell’Albania”, Corriere della Sera,

Cingolani, 6/3.

“Un’altra Somalia, un altro Libano? No, perché l’Albania è qui, è in Europa e per massima

disdetta è anche nei Balcani, nella nostra secolare e già tanto insanguinata ‘polveriera’”, Corriere

della Sera, Venturini, 15/3.

Un altro esperto dell’area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si tratterebbe, per

l’Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile,

della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: “Il nuovo regime di Tirana ha infatti

realizzato dopo il ´91 una metamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindi sostenuta una

‘balcanizzazione’ del paese invece di contrastarla”, la Repubblica, Cavallari, 6/3.

Una versione peculiare di questa teoria del “contagio balcanico” è quella proposta da Robi

Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: “Coinvolgere l’Europa

vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosa sua proprio quella regione

dell’Albania meridionale attorno a Valona che è attualmente in piena rivolta contro il governo di

Tirana; una regione dove tra l’altro è insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura è priva

di qualunque tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale

misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimo tempo così delimitata dal punto di vista

territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e nell’appoggio che le può

provenire dalla madrepatria, la Grecia”, il Giornale, Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto

“Epiro settentrionale” – e cioè i distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet, dove

vive la minoranza grecofona d’Albania – è ben distante da Valona, città del tutto albanese per

cultura e lingua, la Grecia, in realtà, non “rivendica da sempre come sua” alcuna terra d’Albania. Se

è vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione dei territori dell’Albania

meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, è anche vero che nessun governo greco

dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso

alcun organismo internazionale.

In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunque una minoranza di lingua greca

e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese (c’è semmai contrasto tra

governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza numerica della medesima), con il diritto

di scuole in greco e tre quotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell’agosto precedente la crisi

albanese si erano aperte tre nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina,

frutto dell’accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights Watch

1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che

all’epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinki ammetteva che “la minoranza

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greca è una parte integrante della società albanese”. Questo tipo di giornalismo – che trasforma

senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamente irredentista e l’Albania in un oppressore dei

diritti delle minoranze – risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a “balcanizzare i

Balcani”, ad attribuire cioè pregiudizialmente a tutta l’area genericamente “a sud est” istinti

primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui.

Ma questa visione balcanizzante dell’Albania si intreccia con un’altra dimensione dell’analisi,

che indichiamo come “teoria del congelamento”. Secondo questa chiave – applicata con

sistematicità durante il crollo della Jugoslavia – quel che è accaduto in Europa orientale negli anni

Novanta sarebbe la ripresa di dinamiche storiche che i regimi socialisti e comunisti non avrebbe

fatto altro che congelare. Così, si è interpretato il presente usando manuali di storia ed etnologia

scritti prima della guerra, presentando di solito la questione albanese come un token del type

balcanico (“Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, il secondo volume delle memorie di Raymond

Poincaré, intitolato appunto ‘Le Balkans en feu’, si vedrà quanto fosse intrattabile già allora, nel

1912, la ‘questione albanese’”, la Repubblica, Viola, 13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e

cruenti come un ritorno alle origini, intendendo con ciò le condizioni socio-economiche precedenti

all’insediamento dei regimi comunisti. In tutti i giornali considerati per questa indagine abbondano

gli articoli “storici” che mostrano le “analogie” tra l’Albania che subì l’invasione fascista nel 1939 e

quella dell’operazione Alba. “In queste ultime due settimane è tornata in scena, infatti, dopo quasi

mezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche anno di parvenze democratiche, l’Albania dei libri di

storia. Un paese arcaico, privo di un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioni regionali,

il familismo, il clan e le lealtà tribali”, la Repubblica, Viola, 13/3. “Il recupero del passato, del

resto, è una chiave fondamentale per interpretare il caso albanese. Il ‘fis’ (clan), il ‘kanun’ (la legge

consuetudinaria), la ‘besa’ (parola d’onore), la divisione tra il Nord ‘ghego’ e il Sud ‘tosco’, le tre

religioni (musulmana in maggioranza, ortodossa nel meridione, cattolica in alcune zone

settentrionali): tutto ciò che era stato soffocato sotto la cappa della dittatura ideologica, torna

prepotentemente alla luce. La Storia rinasce, come in gran parte dei Balcani”, Corriere della Sera,

Cingolani, 8/4. Questo schema interpretativo della realtà albanese (presentata naturalmente come

una “…ennesima versione della ‘poudrière balkanique’…”, la Repubblica, Viola, 13/3) ha la

curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senza andare in frantumi. Lo stesso Cingolani, che

ha appena scritto che la divisione in clan del Paese sarebbe stata soffocata, congelata dal regime,

aggiunge subito: “Le divisioni sono rimaste pressoché intatte durante la dittatura di Enver Hoxha

che impose un’egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo

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successore, fu appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto”,

Corriere della Sera, Cingolani, 8/4.

Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in un articolo di Sandro Viola:

“L’Albania si rivela in fin dei conti identica – almeno per un aspetto – ad ogni altro paese su cui sia

scesa la sventura del comunismo. L’aspetto cioè del congelamento, dell’eclisse solo apparente e

temporanea, durante il periodo comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia e in Ungheria

sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni

etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in Albania sono tornati

a galla il disordine, l’irrequietezza dei clan, la pratica del brigantaggio che erano sempre stati i

fattori della sua arretratezza. […] Quattro decenni e più di comunismo hanno lasciato sotto il

ghiacciaio del sistema totalitario, sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano.

Nulla ha potuto evolversi, maturare”, la Repubblica, Viola, 16/3.

Banditi e invasori

Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano più gravi e anche

il governo di Tirana ammette che non si tratta più di “pochi facinorosi”, allora sui giornali italiani si

alza il tiro. “L’Albania si è dissolta”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. “In un paio di settimane

la protesta dei truffati ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine

catastrofe umanitaria, politica, diplomatica”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il

ministro degli Interni “potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuove possibili ondate di

profughi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto, “L’Albania non c’è più”, Corriere della

Sera, Biagi, 18/3. “A Tirana è semplicemente crollato lo Stato”, il Giornale, Ricossa, 19/3. E che

sia crollato solo lo Stato è troppo poco per alcuni commentatori: “Ma l’insurrezione è sfuggita agli

apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.

Il climax assume toni da film horror: “In Albania tutto ciò che fa di una massa di gente un

“paese” ossia l’ordine, la legalità, la convivenza, l’amor di patria, la fiducia nell’avvenire, la

tradizione, l’economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell’aria per effetto di una magia

potente da Signore del Male”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati

essenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativa per dati già noti, sembra

rinunciare al suo ruolo, cedendo alle lusinghe della spiegazione “magica”: “L’Albania, a me

sembra, è diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi italiani…

Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una qualche forma di sindrome

albanese”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda al Male, o a una malattia

contagiosa. Questa analisi “irrazionalista” della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo

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affiora prepotente in un nuovo commento: “…ma il grande nemico, lo spirito del male, è spesso

invincibile perché poggia sull’inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell’uomo. E in

Albania sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della giustizia

e della verità…”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati dagli

albanesi si era appena parlato: “Questa, come abbiamo già detto, è piuttosto un’invasione di massa,

[…] una marea capace di esportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta”, la

Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accennerà ancora il decano dei giornalisti italiani: “…l’Albania

con i suoi virus di decomposizione e di guerra di bande”, Corriere della Sera, Montanelli, 30/3.

Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque tentativo di spiegare

razionalmente una sommossa popolare in gran parte comprensibile data l’entità della crisi

finanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo “illogico” e “irrazionale” che

affliggerebbe gli albanesi: di fronte al Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico,

per allontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente).

I corsivisti fanno presente fin dall’inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la crisi

albanese: “È nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo e opposizione […]

Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di profughi. Più di quelle che

quotidianamente già abbiamo” Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non è chiaro cosa intenda Cerruti per

“invasioni quotidiane”, ma l’equivalenza tra sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi è

ribadita anche sul Corriere della Sera: “L’Italia può e deve stanziare aiuti immediati […] ben

sapendo che costerebbe assai più caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell’estate

’91”, Corriere della Sera, Venturini, 4/3.

Un’altra voce autorevole: “Adesso c’è il rischio di una invasione alla rovescia, il terrore che la

Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: ‘Sie

kommen’, arrivano”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3.

La minaccia dell’invasione conferma la necessità di un intervento italiano, visto che se l’Italia

non entrasse in gioco: “Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le

timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo né avremmo il diritto morale di

respingere”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3.

L’escalation prospettata è terribile: “A questo punto tutto è possibile, anche l’impensabile: cioè

la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos può uscire

perfino un’orgia di rissa etnica senza confini ma non senza precedenti”, il Giornale, Pasolini

Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per “precedenti” è presto detto: “L’Albania potrebbe trasformare

l’Europa nel ventre molle occidentale, come la trasformò la Bosnia”, Corriere della Sera, Caretto,

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17/3. “L’Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma un problema dell’Europa. Può essere

l’inizio di una catena di guai per tutti”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3.

Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in Italia: “E

speriamo, questo sì, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali che in

Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia soffiano ancora nelle vele del Fronte

nazionale”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3.

Le tinte fosche con cui si raccontano l’Albania e i suoi abitanti si incupiscono ancor più dopo la

metà di marzo, quando l’Italia si “rende conto” di dover affrontare quel che più spesso viene

definito un “esodo”.

“…l’esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una fuga di

massa…”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. “…esodo albanese, che ha un sapore biblico”, il

Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di “…Puglia invasa dagli albanesi […] La gente [italiana] si

è comportata bene, ha mostrato di capire e compatire malgrado l’impatto tremendo dell’invasione”,

il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza di anni, è utile ricordare che fino a quella data la

cosiddetta invasione riguardava meno di diecimila persone.

Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: “Stiamo difendendo la

nostra frontiera, le nostre città, le nostre famiglie e i nostri figli”, il Giornale, Giannattasio, 28/3.

Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi improntati alla moderazione dei toni e degli

animi: “È solo che ci saremmo aspettati che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in

predicazioni e sermoni a favore della tolleranza […] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette

milioni di benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per l’invasione

dei Visigoti”, la Repubblica, Polito, 27/3.

Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora esotico, limitato

all’oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche l’immagine degli albanesi. Prima di

tutto quelli lì, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: “La ‘terra delle

aquile’ è in mano agli sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi”,

Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un’analisi politica e sociologica per spiegare il

mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: “…quella che sembrava una rivolta popolare

contro una truffa finanziaria si è rapidamente trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi

burattinai: ex dirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalità organizzata

internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e

a sobillare le masse”, la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece decisamente sulla

fisiognomica: “Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si inerpicano sulle montagne brulle.

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Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla

ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta…”,

Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.

La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa in risalto anche dal contrasto con la

bontà italiana del 1991: “I pugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa gente che

arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino i bagni, e non è mica normale. E ci siamo

ritrovati, dopo pochi anni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai

loro zii. Che bella bontà”, il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce

degli albanesi e loro passato pacifico: “Un tempo avevano la religione, la tradizione, il buon senso

dei contadini. Oggi non hanno più nemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del proprio

passato…”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3.

Se questa è l’immagine sempre più fosca e insieme più vaga, meno dettagliata, degli albanesi

d’Albania, quelli che cercano di arrivare qui sono studiati con più precisione.

Una delle descrizioni assieme più analitiche e più “fantasmatiche” di coloro che stanno arrivando

(a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino è di proposito abbastanza ambiguo da far sì che le

accuse agli uni possano cadere anche sugli altri) è quella proposta da un nome di grido: “Ospiti

balcanici che si presentano in compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio

che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo… Ospiti che

sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui

viali ‘del vizio’, si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori…

Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i

costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di

colpa…”, la Repubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito

all’antropologo…

Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l’operazione inversa, di

spiegare perché gli albanesi sarebbero così diversi dagli altri immigrati (e così diversamente

trattati): “…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni dei nuovi schiavi

dell’Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente remissivi come i filippini, non amano i

bambini come le colf somale, non fanno i muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono

cianfrusaglie come i senegalesi. Più che essere comandati, a loro piace comandare”, la Repubblica,

Polito, 27/3.

Senza essere categorici come Biagi (“Da loro riceviamo, per l’interscambio, marijuana, e anche

braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto”,

Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntano comunque su una questione sentita

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come centrale, non appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che

hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito rivela il diritto

degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. “Per intervenire efficacemente dovremmo

avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi si

chiama solidarietà) oppure uno che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi è pronto a

venirgli in soccorso”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una

“…invasione di disperati, ma anche di delinquenti”, il Giornale, Giannattasio, 28/3.

Se per alcuni “…tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali è previsto il

rimpatrio automatico”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando così l’impressione che tra i molti

poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il rapporto è inverso: “…tra i boat-people

dell’Adriatico ci sono più mafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in

porto quando le loro carrette non ce la facevano ‘è stata una pazzia’”, il Giornale, Caputo, 22/3.

L’aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni è ciò che potremmo chiamare “la

natura oggettiva e dicotomica del male”. La distinzione tra buoni e cattivi è in questi corsivi sempre

netta e senza appello. È arduo distinguere i due gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che

di due gruppi si stia parlando. “Quanti saranno i ‘poco di buono’ arrivati con gli 11 mila albanesi?

Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto

della Penisola, si è rivelata quello che il filtro della solidarietà non ci aveva consentito di vedere con

chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio

gratis per i bambini perché inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono i controlli”, il Gazzettino,

Pezzato, 20/3. È evidente la rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico

rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature, ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano:

ognuno di loro può (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi.

Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni, adulti cattivi)

passa allora anche tra i sessi: “Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindici anni,

meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non

capisco quell’orda di uomini d’età compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati

confessano di non avere uno straccio di documento né di voler fornire le generalità e di non essere

arrivati per accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta individuale,

e l’ottuagenaria l’hanno lasciata in Albània [sic] a difendere la casa […] Sono giovani, forti. E

scappano. Disertori non solo nell’esercito e nella polizia: disertori nell’animo e nella vita”, il

Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra “un

sindacalista della Cgil e un suo amico della stessa parrocchia”: “Essi hanno sostenuto la tesi,

tutt’altro che peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i

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bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come ‘schermo’ e rimandare invece immantinente in

Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto

bisogno di protezione”, il Giornale, Caputo, 22/3.

Sono pochi quelli che tentano una difesa “globale” degli albanesi in arrivo: “Via, presi

nell’insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a

mare”, la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà comune tra qualche giorno, dopo

una tragedia che segnerà uno spartiacque, il tema degli albanesi come nostri antenati, come doppio

grottesco degli italiani: “Li guardi un po’ in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella

(onorevole Arlecchino, onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso,

suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa di un

somaro? […] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni”, Corriere

della Sera, Zincone, 28/3.

Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di “…battelli

stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realtà sono soltanto degli emigranti abusivi

reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)”, il Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il

dilemma morale di distinguere tra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso soluzioni

radicali: “I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li

sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano”, il Giornale,

Farina, 27/3.

Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva speronata dalla

nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l’ingresso in acque italiane. A seguito

dell’affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo choc è immediato. Sembra che si sia

realizzato qualcosa di terribile, ma che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto

impresentabile della coscienza collettiva, desideravano che accadesse.

L’affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno nell’analisi dei

corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come è stata

raccontata, fino a quel punto, la “crisi albanese”: “In effetti, nessuno di noi potrebbe spiegare con

un minimo di precisione che cosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopo

cinquanta giorni di convulsioni, è che l’Albania è un paese sconosciuto. Indecifrabile”, la

Repubblica, Viola, 30/3.

Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con più fermezza:

“Ma noi entriamo in crisi psicologica perché dodicimila albanesi sono sbarcati (e già quasi duemila

sono stati riportati al paese di origine con metodi abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno

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uno psicodramma con sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano

accoglienza…”, la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: “Mi ribello all’idea che si nasconda

razzismo, intolleranza, meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione del problema dei

quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in cui già si sono fra

un milione e due milioni di extracomunitari. In realtà si tratta di un problema relativamente modesto

trasformato in un caso nazionale”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4.

Nell’insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: l’Albania è un Paese in

crisi, ma non più quella bolgia infernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo una

settimana prima: “In Albania non esiste una guerra civile, quelli che hanno raso al suolo università,

uffici, caserme, persino i canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un

regime ormai morto e non degnamente sostituito […] La stragrande maggioranza degli albanesi

vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissioni televisive, un

rispettabile nucleo di società civile, una tradizione culturale”, la Repubblica, Bocca, 12/4.

Ma col passare dei giorni l’Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare spazio sempre di

più all’Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento armato in Albania. Questo sia sul

versante interno: “Al quinto giorno [dopo l’affondamento] tutto o quasi è finito in politica

interna…”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l’immagine e il prestigio italiani: “Il successo

dell’Operazione Alba vale dieci ‘manovrine’ per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri

partner nel già radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini dell’Europa per il futuro

prevedibile”, la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: “…l’Italia si gioca più di quanto

creda. Anzi, si gioca tutto. Perché l’incrocio con la tragedia albanese strappa l’Italietta dell’Ulivo

all’eterno teatrino e la pone davanti a un’alternativa grave. Se la missione Alba avrà successo, il

nostro Paese e il governo ne riceveranno enorme prestigio […] E a quel punto, parametri o non

parametri, toccherà a Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l’Italia nel pullman di

Maastricht, anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurrà in un disastro

[…] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe intese che possano

tenere…”, la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l’Italia di quei giorni sembrò decidere di

andare in Albania come via più diretta per “entrare in Europa”. L’impegno militare degli italiani

veniva assunto, prima di tutto, di fronte alla comunità internazionale e ai partner dell’Unione

Europea, per vedere che l’Italia non era più l’Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della

seconda guerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identità: non è l’Albania

che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora grava

sull’Italia.

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Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un editoriale del Times

critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo albanese: “…l’editoriale del Times

contro l’imminente intervento italiano in Albania […] rispecchiava benissimo il senso di superiorità

e gli stereotipi che da sempre nutrono l’atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gli

italiani…”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le

conseguenze politiche che la futura “operazione Alba” potrà avere non tanto sull’Albania (tema

questo del tutto secondario) quanto sull’immagine dell’Italia all’estero: “abbiamo forse ora la

possibilità, se sapremo comportarci correttamente sia sotto il profilo tecnico che sotto quello

politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi – spesso non privi di fondamento – sugli

italiani, da sempre sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del

Regno Unito)”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L’Albania diviene dunque il luogo del riscatto

dell’identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la qualità della nazione. La

questione italo-albanese va misurata non tanto per le possibilità che oggettivamente l’Italia ha di

migliorare la situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente

per quanto l’Albania possa, nel bene e nel male, influire sull’immagine dell’Italia all’estero.

Il carnevale delle identità

Il nuovo tono nel parlare dell’Albania e l’attenzione sempre maggiore prestata al ruolo che

questo Paese può giocare per l’Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi di un’inversione,

di un “carnevale” provocato dagli albanesi con la loro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi

già prima dell’affondamento: “…durante la trasmissione di attualità Italia Radio (emittente

notoriamente vicina al Pds), è intervenuta una signora romana: ‘Ho famiglia, siamo otto persone,

tutte di sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull’Albania. Ebbene, alla fine

abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui durante la campagna

elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti aveva ragione perfino

Tablandini della Lega. I miei, un disastro”, il Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l’unico ad

ascoltare Italia Radio, quei giorni: “Provate a sentire Italia Radio, l’emittente del Pds. Ogni mattina,

al suo filo diretto, si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma

l’invasione”, la Repubblica, 27/3.

Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: “Qui [anche a sinistra] si registra una

ostilità dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti che

sembrano costole della Lega”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3. “‘Buttiamoli a mare, buttiamoli a

mare’. Nei giorni scorsi l’invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei

bar del Nord, ma anche nei caffè del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere

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per difendere la purezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo di

risparmiarli, per carità, dall’invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte”, Corriere della

Sera, Cingolani, 29/3. “Perché la parte più progressista della nostra opinione pubblica sta riservando

agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe permesso nei confronti di somali e marocchini,

senegalesi e filippini?”, la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una

val la pena di essere citata perché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul “carnevale”

albanese: “La prima ragione che ci viene in mente è che gli albanesi hanno la colpa di essere

bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […] Poco, diversi, troppo simili”,

la Repubblica, Polito, 27/3.

Ci si rende subito conto, dopo l’affondamento della nave, del ruolo attivo che hanno gli albanesi

per la costruzione di noi stessi come italiani: “La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo […]

davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che riflette un’immagine reale e non deformata.

Nessuna illusione ottica, siamo proprio così”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa

immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado

veramente di ribaltare l’Italia: “Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti,

l’inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa”, Corriere della Sera,

Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: “…la sinistra ha

lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50

milioni di abitanti non può lasciarsi dominare dal panico politico per l’arrivo di 10 mila profughi.

C’è stata cioè una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti”, la Repubblica, Mauro, 1/4.

Ma tutti – che si parli di svelamento o di ribaltamento dell’identità – sono concordi sul senso

totale di straniamento: “Strani [gli italiani], perché non si era mai visto un governo di centrosinistra,

e per di più sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi.

Strani perché con la stessa bocca predichiamo la solidarietà e poi gridiamo ‘buttiamoli a mare’.

Strani perché a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il leader dei progressisti sia un

reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta

torna la metafora del contagio: “Sembra quasi che per contagio la disgregazione albanese abbia

colpito la nostra classe politica…”, il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che “…dove finisca la

maggioranza e finisca l’opposizione è difficile dire”, la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di

“…un Paese governato dall’incertezza, e con una maggioranza inesistente…”, il Giornale, Cervi,

4/4, non è più all’Albania che si fa riferimento, come due mesi prima (“Tutti sono contro tutti. Non

c’è più maggioranza, non c’è mai stata opposizione”, la Repubblica, 11/2) ma all’Italia.

La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal mondo politico

per coinvolgere tutti: “…il nostro strano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto di

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essere cattolico e solidaristico come pochi, all’improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare

un popolo in fuga. E, cosa incredibile, per poco non ci riesce”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. “Italia:

fino a ieri il paese dell’amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico

e egoista”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. “…il ceto politico e la stampa rispecchiano gli elettori e i

lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano più gli ‘italiani brava gente’ ma una

collettività ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere

‘cortine di acciaio’”, la Repubblica, Bocca, 3/4. “Prima c’era un paese che, tutto sommato

compatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte a un’immigrazione clandestina e di massa

dall’Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni, governo,

maggioranza e opposizione stavano tutti più o meno scomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti,

gli immigrati sono ridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte in commedia […] c’è stata

quella notte, ha sconvolto gli animi e distorto i comportamenti”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4.

Un modo interessante di guardare al problema è quello proposto da Ernesto Galli della Loggia,

in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo l’affondamento della Kater I Rades: “Ma

come è possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione

europea come l’Italia si faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che

sembra quasi non vi sia più una città, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure qualche

decina? […] È possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, è la diffusione ormai

senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al materialismo e al consumismo […] La realtà è che se

una nazione di sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l’Italia si fa

spaventare da una manciata di profughi albanesi è precisamente perché essa non si sente affatto una

nazione. […] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di questo vasto

insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di comunità sparse, legate da un

debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiuto precisamente perché sono

visti non già come dei profughi che arrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli

intrusi non invitati in questa o quella delle tante comunità di cui sopra”, Corriere della Sera, Galli

della Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: “Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha

analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice l’autore, non siamo né razzisti,

né egoisti, né insensibili, siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato […] Tutto questo è

molto triste. Senza nazione e senza Stato non si va lontano, si può essere sconfitti anche in una

battaglia non combattuta contro i pezzenti, nel canale d’Otranto”, il Giornale, Scarpino, 3/4.

È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo “senza nazione e senza Stato”,

quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti così. Marcello Veneziani riprende

l’argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco degli specchi incrociati: “Gli italiani temono

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ondate di immigrati albanesi non perché siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni.

Perché vedono gli albanesi come degli italiani affamati, li temono perché sono la nostra versione

primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernità: li spaventa

l’arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al

contrario, perché temono la fragilità del nostro sgangherato sistema Paese, con tante piccole

Albanie e disoccupazione. Non si fidano dell’Italia e si sentono una comunità nazionale

spappolata”, il Giornale, Veneziani, 5/4.

Albanesi e ballerini

Ma questo ripensamento di sé attraverso l’incontro/scontro con l’altro è esattamente quel che gli

albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cioè il

cronico isolamento imposto dal regime – ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un

confine interno che creava una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere

solo gli autorizzati – si allentò nella seconda metà degli anni Ottanta per crollare del tutto nel 1990.

L’apertura del confronto con l’altro (è noto in questo senso il ruolo giocato dalla televisione

italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa autostima sociale.

Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlato all’epoca di una “…psicosi

pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volontà di autodenigrazione,

autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e notte che questo paese è

maledetto, non ha un futuro e merita di sparire è diventata una moda in alcuni ambienti”, la

Repubblica, Kadarè, 13/3.

Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno spietato stato di

polizia, anche sull’orgoglio nazionale, profuso in quantità massicce dal potere attraverso tutti i

canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo dopoguerra sono cresciuti nella ferma

convinzione (suffragata da continui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita

da una verifica su modelli diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante

altre mai e di gente industriosa e capace.

La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessità di far i conti con il giudizio

degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi sanno benissimo quanto questo

giudizio da parte dell’Altro sia un elemento fondamentale per la costruzione di sé come comunità

etnica e/o nazionale (Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione

albanese si era costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno

costituito il contatto con l’Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, ma in entrambi i

casi la possibilità di giudicare ed essere giudicati veniva di molto limitata dall’ideologia inter-

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nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cui essere valutati,

ma piuttosto un Simile. Tanto simile da dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il

contatto non fosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un’idea di sé che

si basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima

mediatico e poi diretto con l’Occidente ha letteralmente spazzato via questo giudizio. Il fiero popolo

albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese più evoluto del mondo, si è reso conto che

gli equivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terra non erano più usati in occidente

da diversi decenni; che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore di

qualsiasi concorrente dell’ovest; che insomma la superiorità naturale del popolo albanese veniva

messa in discussione dalla realtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990 sempre più

frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi all’estero.

C’è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire un’immagine di sé

come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come è noto “Albania” è un termine prima romano

poi bizantino per designare una regione chiamata invece dagli abitanti “Shqipëria”. Allo stesso

modo, quelli che tutto il mondo chiama “albanesi” (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi,

ecc.) chiamano se stessi “Shqiptarë”.

Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. In macchina

con noi c’era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo con

lui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato in Francia. Madin fortunatamente parlava un

po’ di greco, per cui riuscivamo a comunicarci l’essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la

moschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si

restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada è bloccata da una macchina

in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l’autista al volante. Potrebbe accostare alla sua

sinistra, c’è uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficoltà a far manovra con

scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il

maldestro autista, e lo apostrofa con un “Albanes!” che, dal tono con cui viene pronunciato,

significa con tutta evidenza: “Imbranato!”. Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha detto,

forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello “Odigài san alvanòs”, letteralmente:

“Guida come un albanese”.

Mi spiegherà poi che il termine è ormai d’uso comune, per indicare i fessi, gli incapaci, gli

ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi è diventata in Albania un termine

spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i conti con l’Albania, con le immagini delle

navi cariche verso la Puglia, degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un

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giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptarë, tanto orgogliosi d’esserlo, fieri della loro

storia e della loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi.

Ma quest’immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell’identità albanese si è

lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme la

categorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani vedono gli albanesi) e l’identificazione

interna (cioè il modo in cui gli albanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all’inizio del

terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali.

Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un ragazzo

diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di “buona famiglia” (madre farmacista e padre docente

universitario), Kledi è appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l’hanno iscritto a dieci anni

all’Accademia Nazionale di Tirana, poco distante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver

Hoxha sarebbe morto l’anno successivo, e in Albania diventa sempre più facile guardare i

programmi della televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le

parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione italiana, e le

due attività diventano parte di un solo progetto, che così oggi viene raccontato nelle note

biografiche del suo sito ufficiale (<http://www.kledi.it/Biografia.html>):

Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come Heather Parisi, Lorella

Cuccarini, Raffaella Carrà, Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al

loro fianco, in un grande show.

Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso esemplare di quel che

Appadurai (1996) chiama “immaginazione come pratica sociale”. Il 12 agosto 1991, “mentre era in

vacanza a Durazzo”, si imbarca su una delle navi che facevano la spola tra l’Albania e la Puglia

cariche di disperati e speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall’Italia

quasi immediatamente. Rientrerà più di un anno dopo, chiamato da una compagnia di danza di

Mantova che aveva avuto il suo nome dall’Accademia Nazionale di Tirana. Passa rapidamente alla

televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del programma pomeridiano Buona domenica,

dove rimarrà fino al 2003. Conosce così Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con sé sia a C’è

posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di Buona Domenica e C’è posta per te è in buona

parte adulto, l’audience di Amici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile, e ne

decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la “Kledi Academy”,

una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon successo e che organizza corsi annuali e

stage estivi. Nel frattempo, è diventato anche un attore di successo sia per il cinema (Passo a due,

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La cura del gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani è un altro giorno,

2006).

In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese “vincente”, il primo a raggiungere

in Italia notorietà per le sue qualità artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale,

certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova generazione di albanesi, disposti a proporre agli

inizi del terzo millennio una forma alternativa di identità rispetto al modello “poveraccio o

criminale” che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo

durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana come veicolo

di informazione, sia dall’Albania attraverso le antenne paraboliche, sia una volta giunti in Italia

(Mai 2005, p. 558), ha consentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in

modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario è

stato Amici di Maria de Filippi.

Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si prepara per l’autunno

la settima) è concepito come un game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pieno a

una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i

partecipanti. Le sfide ripetute portano all’eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in

base al giudizio di una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione

del vincitore assoluto. Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza albanese, Anbeta

Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi

Anbeta è una ballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma. La stagione

successiva (2003-2004) gli studenti albanesi della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri

(fratello minore di Ilir Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de

Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell’edizione, entrando anche lui nel

corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005, ha visto la

partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi Selimi. Quest’ultimo è stato

sicuramente il personaggio chiave dell’anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua vena

polemica, la costante rivalità con Marco, un altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli

agli “italiani” perché votassero lui invece di un “albanese”, e con il rispetto profondo mostrato verso

il pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l’attenzione di un pubblico

sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggirano stabilmente

attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti da casa hanno sfiorato il milione a

puntata, anche se la telefonata costava un euro). Anche le successive edizioni hanno visto la

presenza di concorrenti albanesi, ma il programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo

nella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo.

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I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti a modificare in modo sostanziale il

giudizio di molti loro coetanei italiani sull’identità albanese. Se dieci anni fa albanese era sinonimo

di immigrato clandestino, criminale, persona pericolosa o comunque povera (in Grecia girava allora

una terribile freddura: sai qual è la barzelletta più corta del mondo? Turista albanese!) oggi tra molti

giovani italiani “albanese” significa anche spirito di sacrificio, caparbietà, orgoglio e

determinazione. Per molte ragazze, poi, è innegabile che l’uomo albanese abbia assunto

connotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa di Kledi e dei suoi connazionali sul

piccolo schermo.

Questa immagine prodotta dalla televisione italiana ha iniziato a riverberarsi

sull’autorappresentazione degli albanesi, in Italia e in Albania (dove i programmi delle reti

Mediaset sono particolarmente seguiti). Gli “eroi” delle sfide di Maria de Filippi sono intervistati

sui settimanali popolari albanesi e proposti come modelli per la gioventù nazionale. Klajdi Selimi

che, con la bandana in testa e perennemente a torso nudo (come spesso Kledi), dichiara di sentirsi

“un gladiatore più che un ballerino” incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi.

La messa in scena del corpo come strumento di performance di eccellenza ricorda altri casi

famosi: i giocatori di cricket indiani nelle squadre inglesi (Appadurai 1996) o i campioni

afroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi senz’altro naturalizzati, addomesticati dallo

sguardo egemone in funzione di un godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche di

riscattare un’identità smarrita se non esplicitamente sottomessa, in grado di riappropriarsi di una

dignità personale che può diventare condivisa dall’intera comunità di riferimento.

Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpo passa sia attraverso la storia

“occidentale” della disciplina che si apprende, sia attraverso la genealogia delle proprie “origini”:

come la “magia” indiana diventa capacità funambolica sul campo da cricket, e come la “naturalità”

africana diventa potenza esplosiva sulle piste di tartan, così l’orgoglio “balcanico” degli albanesi

diventa capacità di disciplinarsi, di rimanere fedeli all’obiettivo senza cedere alle lusinghe del facile

successo. Così descrive una giornalista italiana le ragioni del successo di Kledi:

Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, ma trasmette l’idea del lavoratore

scrupoloso, preparato e devoto al pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta

con fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa Carbone, sul sito

Leonardo.it).

Questa rappresentazione dell’artista albanese si è rapidamente imposta come role model:

Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altri artisti albanesi sono noti per la loro laconicità – non sempre

dovuta a una scarsa conoscenza della lingua italiana, ma alla esplicita contrapposizione tra dire e

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fare – oltre che per la loro tenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati come persone

“serie”, che vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione

alternativa dell’essere albanese oggi sta chiaramente contaminando l’autorappresentazione degli

albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi di

ascolto che partecipano attivamente al voto da casa.

Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia ricerca è ancora

in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un “ritorno” dell’identità albanese tra gli immigrati in

Italia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi aver trovato una risposta alla richiesta del

vecchio Dhori di dimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, è

finalmente possibile “ricordare” la propria identità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che

unisce in una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione sociale,

la scuola albanese di balletto classico, l’espressione di una virilità estremamente fisica e poco

“ciarliera”, lo spirito competitivo e l’orgoglio di un popolo “tribale” con le esigenze del mercato

televisivo, il sex appeal del body fitness, la telegenia e la capacità di assecondare le fameliche

richieste delle audience più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non

vi è, in tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un’opzione impraticabile di fatto per

gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire comune con i frammenti

della modernità e della tradizione, senza temere il mutamento ma accettandolo come parte

inevitabile di un qualunque sano processo di identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi

nella nostalgia dei bei tempi andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono

come ricordo politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze.

Conclusioni

L’intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere su alcune forme recenti delle

appartenenze e delle identità. La “crisi albanese” del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a

ripensare pubblicamente il senso e il ruolo dell’identità italiana, e le esigenze commerciali di un

programma televisivo italiano hanno contribuito al riposizionamento dell’identità albanese, per gli

attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il

sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale dell’identità.

Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e

identità collettive, mi sento di azzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattito

teorico) che non vi è alcun rapporto causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione

della propria identità. Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai

grandi mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei media

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entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In questo senso, possiamo

dire che i mass media paventati da certi approcci teorici “non esistono”, se per mass media

intendiamo un sistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente “persuasore”, i cui effetti

sociali possano essere resecati da quelli della più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson

1991). Al contrario, un’analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa ci rende

sempre più consapevoli della natura “mediata” della vita sociale in generale (Mazzarella 2004).

Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione e aggregazione di significati che

non possono esistere se non in forma mediata, cioè comunicata: gli stili culturali da cui si proviene,

le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli habitus come archivi consolidati e generatori

sperimentali di pratiche, e i capitali culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro,

agiscono i mezzi di comunicazione di massa. L’antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare

spesso il loro ruolo in nome di un purismo dell’“autentica cultura” che non aveva ragione di essere.

Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che

è altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.

Titolo citati

Appadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-

London, University of Minnessota Press; traduzione italiana Modernità in polvere.

Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001.

Human Rights Watch, 1997, “Albania”, in Human Rights Watch. World Report, 1997. Testo

reperibile online all’indirizzo <http://www.hrw.org/1997/WR97>.

Jenkins, Richard 1997, Rethinking Ethnicity. Arguments and Explorations, London, Sage.

Mai, Nicola, “The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social Exclusion”,

Journal of Ethnic and Migration Studies, 31, 3, 2005, pp. 543-561.

Mazzarella, William, 2004, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of Anthropology,

33, pp. 345-367.

Page, Helán E., 1997, “‘Black Male’ Imagery and Media Containment of African American Men”,

American Anthropologist, New Series, 99 (1), pp. 99-111.

Todorova, Maria N., 1997, Imagining the Balkans, Oxford, Oxford University Press, 257 p.

Tomlinson, John, 1991, “Media Imperialism”, in Cultural Imperialism: A Critical Introduction,

Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 34-67; ora in Lisa Parks, Shanti Kumar,

editors, Planet Tv. A Global Television Reader, New York and London, New York University

Press, 2003, pp. 113-134 [non comprende il paragrafo “Laughing at Chaplin: problems with

audience research”, alle pp. 50-56 dell’originale].

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La soapizzazione dell’anima

82

Piero Vereni, “La soapizzazione dell’anima”, in AA.VV., Best Off. Il meglio delle

riviste letterarie italiane. Edizione 2005, Roma, minimum fax, 2005, pp. 99-106.

Cos’è che fa sì che Maria De Filippi sia così amata dal pubblico generalista e così detestata dai

cosiddetti intellettuali? Prima di stracciarci le vesti e balzare popperianamente sul carro dei mosconi

detrattori del catodo, forse vale la pena di capire come funziona un meccanismo narrativo che ha

implicazioni antropologiche letteralmente sconvolgenti.

Gli sceneggiatori televisivi, gente pratica, dividono il mondo della fiction in due grandi

categorie: low concept, e high concept. A scanso di malintesi, gli aggettivi stanno ad indicare più

l’impegno economico dell’eventuale investimento produttivo che il valore intrinseco delle opere

prodotte, per cui low concept fa il paio con low budget. Comunque sia, high concept indica quel tipo

di fiction in cui i caratteri dei protagonisti sono nettamente definiti e coincidono con un fare

specifico: la caccia al colpevole, la scoperta di nuovi mondi, la ricerca di una via di fuga. Low

concept è invece quella fiction che ruota strutturalmente attorno alla definizione stessa dei

personaggi, perennemente alla ricerca di una loro collocazione sociale o affettiva. Si intuisce quindi

dalle definizioni sommariamente presentate che il tipo principe di fiction high concept è il telefilm

poliziesco, mentre la fiction low concept trova la sua massima espressione nel serial (nella variante

soap opera quando il finale è dilazionato all’infinito; telenovela se il finale per quanto ritardato, è

previsto nella sceneggiatura di base). Low e high sono due idealtipi o caratteri estremi, che

delimitano piuttosto i margini di un continuo narrativo entro il quale è possibile collocare le

specifiche fiction. Così, per fare un esempio a me caro, la serie Star Treck è una fiction high

concept (“alla scoperta di nuovi mondi… lì dove l’uomo non è mai stato prima”), ma il conflitto tra

la razionalità vulcaniana del Dr. Spok e l’emotività dell’umanissimo Dr. McCoy è un tipico caso di

sviluppo low concept che fa da bordone a tutta la serie. Specularmente, il telefilm Ally McBeal è

pensato come un low concept (l’avvocatessa in perenne crisi sentimentale e identitaria) sul quale si

innestano di volta in volta plot basati su casi legali più o meno high (ma mai alla Perry Mason).

Detto altrimenti, una narrazione è high quando punta sulle azioni dei protagonisti (“Presto,

insegua quell’auto!”) che non hanno bisogno di definizioni dato che quello che sono sta tutto nel

loro fare (il tenente Colombo), mentre è low quando si incentra sulla definizione dei personaggi

(“Devo dirti qualcosa, Pedro: tua madre in realtà è la figlia di tuo padre, quindi tuo padre è tuo

nonno, e tua madre è tua sorella”), attività che di fatto costituisce lo scopo primario della fiction di

questo tipo.

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La soapizzazione dell’anima

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Stabilite queste coordinate, è utile ricordare che l’opposizione si può applicare al mondo della

letteratura in generale, che costituisce ovviamente il terreno dove l’opposizione si è anzi

originariamente sviluppata. Ma è proprio quando viene restituita a questo campo di applicazione

che l’opposizione tra high e low dimostra inaspettate implicazioni, dato che è proprio qui che le

implicite connotazioni valutative che mi ero premunito di evitare all’inizio di questa discussione

sembrano tornare prepotentemente all’assalto, ma invertite di segno. Intendo dire che la letteratura

high coincide abbastanza bene con quella che si chiama “di genere” (polizieschi, fantascienza,

erotici, ecc.) mentre quella low sembra sovrapporsi con una certa precisione alla Letteratura con la

maiuscola, a quella che – beata lei – arriva a toccare le vette dell’arte.

Anche se cioè un plot high concept può strutturare la trama di molta Letteratura con la

maiuscola, mi pare indubitabile che ciò che ha fatto di un pezzo di “prosa letteraria” un’opera d’arte

è stato, per generazioni di critici, il tono irrimediabilmente low della struttura ideologica

soggiacente. Possiamo cioè dire che senza la ridicola crisi dell’Innominato (e gli stravizi

conventuali della monaca di Monza, e i trascorsi ribaldi di fra’ Cristoforo) i Promessi Sposi non

sarebbero entrati nel canone con il fragore che li ha contraddistinti. Ciò che per due secoli

(l’Ottocento e il Novecento) ha costituito il fattore discriminante della Grande Letteratura è stata

proprio la capacità degli autori di comunicare gli intimi sommovimenti dell’anima del protagonista,

dimostrandone così l’esistenza in un mondo sempre più secolarizzato. La borghesia (classe sociale

di cui il romanzo è la più compiuta espressione estetica, com’è noto) ha costruito la propria

percezione di sé attraverso la rappresentazione narrativa di un soggetto dotato canonicamente di due

fondamentali caratteristiche: è consapevole dei propri stati d’animo, più importanti per la sua vita di

qualunque condizione materiale; i suoi stati d’animo mutano nel corso del tempo a seguito di

diversi motivi, non ultimo il caso.

Non è necessario indicare in questa sede le ragioni strutturali che hanno condotto a una simile

concezione del soggetto, mentre è estremamente importante sottolineare l’aspetto distintivo di

questa identità borghese, che si oppone (tramite la sua interiorità) alla vacua esteriorità della classe

nobiliare e (tramite la sua “profonda” introspezione) alla banale e inconsapevole superficialità delle

classi subalterne e strumentali. Dal Werther di Goethe all’Agostino di Moravia, il protagonista del

romanzo moderno è uno stronzetto che non ha nulla da fare se non struggersi per una qualche

relazione (affettiva o di potere) che gli crea dei problemi di identità. Ora, imparare ad apprezzare le

qualità estetiche di un simile modello narrativo è procedimento estremamente complicato, che

necessita di uno specifico e lungo addestramento: i giovani devono essere educati a identificarsi con

soggetti in crisi il cui scopo ultimo non è fare delle cose con il proprio corpo (vangare, scopare,

mangiare, defecare) ma elaborare una qualche concezione raffinata del proprio sé come espressione

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La soapizzazione dell’anima

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desomatizzata e vagamente nevrotica di un qualche malessere di vivere. Per poter giungere a

incorporare questo modello erano necessari – finora – rigorosi strumenti educativi e rigide pratiche

di esclusione. Pierre Bourdieu, nel suo saggio sulla Distinzione, ha illustrato i passaggi necessari per

elaborare una concezione estetica che garantisca un’adeguata appartenenza di classe. Nel caso della

pratica borghese dell’acquisizione di un capitale culturale, particolarmente interessante si rivela la

discussione sulla natura dei titoli scolastici, che Bourdieu identificata chiaramente come marcatori

di una concezione low del soggetto, opposta alle pratiche high dell’autodidatta:

A differenza di coloro che detengono un capitale culturale sprovvisto di certificazione scolastica,

cui si può sempre ingiungere di sottoporsi ad una prova, giacché essi sono solo quello che fanno,

semplici figli delle loro opere culturali, coloro che detengono invece un titolo di nobiltà culturale

(simili in questo a coloro che detengono un titolo nobiliare, il cui essere, definito dalla fedeltà a un

sangue, ad un suolo, ad una razza, ad un passato, ad una patria, ad una tradizione, è irriducibile ad

un fare, ad un saper fare, ad una funzione) devono solo essere quello che sono, perché tutte le loro

attività valgono quello che vale il loro autore, dato che costituiscono l’affermazione e la

perpetuazione di quell’essenza in virtù della quale vengono espletate (Pierre Bourdieu, La

distinction, Paris, Les éditions de minuit, 1979; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto,

Bologna, il Mulino, 1983, pp. 23-24, tranne l’ultimo, i corsivi sono aggiunti).

Ma quel potente saggio è stato scritto prima di Maria De Filippi, cioè prima della soapizzazione

dell’anima. La famosa conduttrice riprende in maniera industriale, portandolo alla perfezione, il

modello di Maurizio Costanzo, che si può riassumere in uno slogan: democratizzare la crisi

borghese del soggetto.

In tutti i programmi di Maria De Filippi (Amici, Saranno famosi (ora ribattezzato Amici di Maria

De Filippi per ragione di copyright), C’è posta per te) qualunque sia il concept (dichiaratamente

low in Amici e C’è posta per te, falsamente high in Saranno famosi, in cui si finge che i protagonisti

debbano battersi per una vittoria finale) la spina dorsale dell’audience, il detonatore dello share, è

sempre e comunque un soggetto qualunque in crisi affettiva e/o identitaria: la madre snaturata che a

settant’anni vuole rivedere le figlie; il panettiere demotivato che cerca la fidanzata della sua

adolescenza; l’atletico, apollineo e afasico ballerino adolescente che deve superare la crisi che lo

contrappone al padre benzinaio che l’ha ostacolato nella sua carriera (ma che a sua volta è in crisi

perché ora, pressato dalle telecamere, riconosce il “talento” del figlio ed è costretto a rivedere la sua

equazione ballerino = frocio).

Credo che il successo di Maria De Filippi consista proprio in questa sua capacità di popolarizzare

un’immagine a lungo elitaria del soggetto occidentale, rendendola fruibile alle masse che, esposte

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per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a

cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Gli ex liceali

distratti, i geometri con il panico da compito d’italiano, i forzati delle 150 ore e i coatti del Cepu

hanno con Maria De Filippi l’opportunità irrinunciabile di prendersi una clamorosa rivincita di

classe, potendo esprimere con tutto il loro corpo quel che la Cultura ha fatto loro solo assaggiare.

Lacrime e sudore, aloni ascellari e scarmigliature, posture goffe e voci roche da scarsa pratica

telegenica, assieme al calcolato vizio della conduttrice di non guardare mai verso la telecamera,

costituiscono lo stile “realista” della televisione di Maria De Filippi (non per nulla il genere cui

appartiene, oggi dominante nelle televisioni di tutto il mondo, è detto reality) che garantisce a chi

guarda la certezza della partecipazione e dell’identificazione. Le classi popolari, che non hanno

tempo da perdere a leggersi pallosissimi bildungsroman senza sugo per giungere a quel

raffinamento della coscienza necessario a percepirsi come “soggetto fragile”, possono attraverso il

tubo catodico fare un corso accelerato di pensiero occidentale, e condensare in un paio d’ore la

filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger.

Gli stessi motivi che fanno di Maria De Filippi un vero guru delle classi subalterne stanno alla

base del disprezzo che verso di lei ostentano i colti, quelli appunto che sono in qualche modo

riusciti a incorporare il modello del soggetto fragile per via letteraria o filosofica. Costoro subiscono

il gravissimo dispetto di vedersi svelare il trucco sotto il naso, il trucco – si badi bene – fondativo

della loro identità. C’è posta per te (ma l’argomentazione si può estendere ai reality show in

generale) costituisce infatti l’anello di congiunzione tra L’Ulisse di Joyce e Un posto al sole,

svelandone così la comune matrice low concept. Prima del reality i sostenitori della cultura alta (che

abbiamo visto essere in effetti low concept) potevano ribadire la distanza del loro modello narrativo

dal serial insistendo sulla patemizzazione esasperata di quest’ultimo, che invece non sarebbe

presente nei romanzi d’Arte. A parte il fatto che l’argomentazione è alquanto speciosa (che cos’è il

flusso di coscienza di Molly se non un effettaccio paragonabile allo slow motion in un film di

Zeffirelli?), la messa in scena dei corpi proletari invasi da anime fragili dimostra senza possibilità di

smentita che quel soggetto raffinato che si supponeva frutto di un incessante lavorio interiore può

esistere anche in contesti del tutto incongrui, vanificando quindi il processo di distinzione.

Maria De Filippi quindi è la profetessa della vera laicizzazione della crisi laica del soggetto, la

divulgatrice di un modello che era nato per essere elitario. Inevitabile quindi che si attirasse gli

strali e gli anatemi di chi di quel modello è vissuto (in senso letterale). Ma ci importa poco delle

piccinerie invidiose della borghesia, mentre ci sembra più interessante seguire gli sviluppi

antropologici e politici di questo modello identitario. Cosa succede cioè nelle pratiche sociali

quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire?

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Quando il narcisistico modello strutturalista (il soggetto è un fascio di relazioni) diviene pratica

quotidiana? Cosa succede veramente quando Luisa non è più quella che fa i vestiti, ma la “madre

degenere”; Lucio non è più il barbiere ubriacone, ma il “padre in crisi”; Antonella non è più la finta

verginella che fa impazzire i tardoni, ma la “ballerina”? Il passaggio da un concetto high (basato

sulla narrazione) a uno low (basato sulla definizione) del soggetto occidentale è avvenuto circa

duecento anni fa (era già compiuto con Fichte), ma la divulgazione alle masse di questo modello sta

avvenendo ora, sotto i nostri occhi. Il revival etnico, la smania delle radici, il culto del farro e della

cucina biologica sono le ricadute ideologiche e mercantili più evidenti di questo mutamento

ontologico radicale. Se io non sono più quello che sono per quello che faccio, ma per quello che

sento e per come mi rappresento di fronte agli altri, se insomma non ha più alcuna importanza

raccontare chi sono, mentre diventa fondamentale definirmi (gay, skater, trans, pacifista, liberal,

scrittore, artista, del Cancro), questo modello identitario veicolato dal piccolo schermo è comunque

troppo esile per darmi sicurezza, spingendomi a barattare la mia storia personale (fatta di azioni che

sul mercato delle identità non valgono più nulla) con qualche favoletta collettiva (i Celti, gli

antenati, le radici).

Vi è quindi un’indubitabile consonanza di fini tra reality Tv e revival etnici e localistici, dato che

in entrambi i casi i soggetti sono sottratti al loro fare individuale (alienati in un modo che Marx non

aveva previsto), disossati come cosce di tacchino, per essere restituiti alla macchina mediatico-

produttiva nella totale convinzione che ciò che conta veramente è il “considerarsi” (mi considero un

buon padre, mi considero un artista, mi considero un padano). Questa assunzione apparentemente

consapevole della propria soggettività ha un effetto destabilizzante proprio in quanto sottrae al

modello delle classi la propria naturalità (critica della borghesia). Ma non è in grado di sottrarre i

soggetti all’alienazione da sé, dato che sostituisce le narrazioni individuali con una serie di

definizioni (c’ho un trauma infantile) pescate più o meno appropriatamente dal mercato della

patologia mentale. Se quindi sul piano ideologico il reality show sbugiarda la borghesia e la sua

distinzione fasulla, su quello politico la deriva rischia di essere reazionaria. Appena imparano a

sentirsi “nuragici in crisi”, anche i minatori sardi perdono nerbo. In un mondo in cui le domande

principali non sono più: “Come arrivo a fine mese?” o “Come faccio a scoparmela/o?” ma “Chi

sono io, veramente?” e “Come posso superare il mio complesso edipico?”, non rimane molto spazio

per progettare (o imporre con la forza) mutamenti strutturali delle condizioni di produzione. La

borghesia è in crisi, quindi. Ma non è che le classi subalterne stiano granché meglio. Vorrà dire che

ci faremo sopra un bel talk show.

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Rambo’s Wife Saves the Day

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DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and

Subverting the Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp.

xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW, RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A

Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2002, xi-416 p. [pp. 270-285].

Si tratta di un saggio per alcuni versi paradossale, dato che da un lato ci mostra gli ennesimi

“selvaggi” incapaci di distinguere tra tecnologia e “magia”, ma dall’altro attribuisce a quegli stessi

uomini “primitivi” acute qualità di costruttori di narrazioni a partire dalla materia bruta fornita dalla

rappresentazione filmica. L’intento degli autori è quello di dimostrare la dimensione attiva della

pratica semiotica implicata dalla visione di immagini che transitano su di uno schermo. La domanda

che si pongono gli antropologi statunitensi Don Kulick e Margaret Willson e che emerge dal loro

resoconto etnografico non è quindi “Come i soggetti si collocano entro le strutture di significato

della narrazione filmica?” quanto piuttosto: “Quali sono i meccanismi di produzione di senso che

gli individui applicano al continuum visivo e sonoro (sostanzialmente insensato) del filmato?” Ora,

non è questa la sede per discettare sulla natura del significato dell’opera d’arte, ma è evidente che

un tale ribaltamento della classica domanda degli studi sulla ricezione può avvenire solo se si è

recepita la critica semiotica del significato elaborata dalla riflessione filosofica fin dagli inizi del

Ventesimo secolo ma che ha preso piede nelle scienze sociali solo a partire dalla “svolta linguistica”

degli anni Sessanta e Settanta. Gli abitanti di Gapun, il piccolo e isolatissimo villaggio di Papua

Nuova Guinea studiato in questo saggio, non hanno una frequentazione costante con i mezzi di

comunicazione di massa: non leggono giornali, non hanno apparecchi radio o televisivi, e solo la

metà di loro ha visto almeno una volta una proiezione filmica, pur se tutti sanno di che si tratta.

Nonostante questa loro scarsa dimestichezza con i mezzi di comunicazione di massa, i gapunesi

non sembrano in soggezione di fronte alla tecnologia occidentale, almeno per quanto riguarda le

“storie” veicolate (e sempre secondo l’interpretazione degli autori, che contesteremo tra poco).

Come nella vita reale gli abitanti del villaggio riprendono, discutono e “reinventano” gli eventi

accaduti ai singoli raccontandoseli e producendo macchine di significazione collettiva (magistrale il

caso di una donna la cui infedeltà coniugale secondo tutti sarebbe stata smascherata da uno stregone

durante una visita che però la donna aveva solo annunciato di voler fare, senza mai realizzarla

effettivamente), così sembrano fare con le narrazioni “artistiche” cui hanno assistito nel corso della

loro vita. Apparentemente incuranti, quindi, dell’intenzione autoriale (CITARE QUI ECO Lector in

Fabula) questi uomini che poco o nulla hanno visto la draivisen (televisione in lingua Tok Pisin, il

creolo da loro utilizzato a fianco della lingua nativa) o i mubin piksa (moving picture) si muovono

agilmente tra le strutture narrative alle quali sono esposti, reinserendole entro quadri cognitivi e

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comunicativi noti. Detto altrimenti, il messaggio visivo viene facilmente addomesticato o

indigenizzato, ricondotto cioè a strutture segniche interne alla comunità e preesistenti all’arrivo dei

mass media. La cultura gapunese, ad esempio, ha elaborato una specifica concezione etnica della

narrazione (stori in creolo), per cui il narratore e gli ascoltatori partecipano in eguale misura alla

costruzione del racconto (attraverso commenti, digressioni, innesti narrativi). Quelle che cioè nel

nostro sistema culturale sono due figure nettamente distinte in termini di potere narrativo (il

narrante e l’ascoltatore), nel sistema gapunese della narrazione si trovano su un piano

sostanzialmente paritetico, contribuendo entrambe alla strutturazione finale del racconto. Bene,

questo modello certamente esotico viene dai gapunesi applicato sostanzialmente intatto alla visione

della produzione filmica occidentale: la struttura narrativa del film Rambo, per citare un esempio

eclatante, viene manipolata dagli “spettatori” in forme impensabili e – per “noi” – illegittime: nella

ricostruzione che ne danno i gapunesi, Rambo prima viene salvato dalla moglie (!), poi muore per

l’assalto di alcuni “teppisti”. Si tratta di una rilettura decisamente imbarazzante per chiunque sia

stato educato al rispetto della produzione autoriale, ma Kulick e Willson insistono sul fatto che i

gapunesi non fanno altro che applicare al film lo stesso tipo di processo narrativizzante che

applicano agli eventi “reali”. Di più: secondo gli autori i gapunesi sono legittimati ad agire in questo

modo dalla convinzione che non vi sia sostanziale differenza tra percezione di oggetti reali e

percezione della loro rappresentazione filmica: le immagini sullo schermo sono null’altro che il

margine esterno degli oggetti rappresentati, contenuti e “trattenuti” dallo schermo stesso. Lo

schermo in Tok Pisin è infatti banis, una parola che indica una rete di divisione, una recinzione o

staccionata, un velo che copre qualcosa che sta sotto o oltre. Lo schermo cinematografico è quindi

per i gapunesi un filtro che “trattiene” i personaggi contenuti in esso, e non una lavagna su cui si

proiettano delle immagini. Il potere di controllo di questa tecnologia (che consente tra l’altro di

vedere Satana o Gesù, dato che i gapunesi si professano ferventi Cattolici) è però in mano ai masta

(gli uomini bianchi, da master) che possono, ad esempio, volare nel cielo con un aereo e tornarne

con una piksa della Beata Vergine ritratta “dal vivo”. È qui, attorno a questa logica subalterna della

tecnologia bianca che conviene riconsiderare in modo decisamente critico l’ottimismo ermeneutico

di Don Kukick e Margaret Willson. Come accennato, i gapunesi sono ferventi Cattolici, ma sono

anche imbevuti di millenarismo: la fine del mondo (o la morte individuale) coincide con la loro

finale trasformazione in uomini bianchi, in masta. Tutta la loro vita, anche quella di spettatori, è

concepita entro questa chiave di sottomissione radicale all’egemonia bianca, espressa

nell’aspirazione ad assumerne nel corpo le parvenze. Particolarmente drammatica in questo senso la

figura di Kruni, un vecchio informatore che, attorno alla metà degli anni Cinquanta, assistette a una

proiezione in cui si vedeva (secondo la sua descrizione) un “secchio” colmo di “medicina”. In

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questo secchio venivano immerse statue di legno, e ne uscivano masta, uomini bianchi vivi e vegeti.

Non sappiamo cosa Kruni avesse visto “in realtà”, quale fosse il film di cui fu spettatore, ma

sappiamo che trent’anni dopo, nel 1985, raccontando a Don Kulick quel che aveva visto, il vecchio

non resistette dal porgli queste “speranzose domande: ‘Sai qualcosa di questa macchina?’ e,

soprattutto: ‘Se io entrassi nella macchina, anche la mia pelle diverrebbe bianca? Diventerei un

masta anch’io?’”66. La “sovversione” del racconto occidentale che i gapunesi effettuano

indigenizzandone la fabula avviene inevitabilmente entro questo quadro di sottomissione, di

subalternità radicale inscritta nei corpi guineani. L’incapacità occidentale di “sottomettere lo

sguardo” gapunese non deriva solo dalla capacità di resistenza indigena al processo di

occidentalizzazione, ma forse con maggior forza dalla distanza profondissima che separa gli abitanti

della palude dal mondo dei masta. Se c’è una qualunque ideologia in Rambo, e se qualcuno interno

al circuito produttivo cinematografico (l’autore, il produttore, il regista) sperava di veicolare

quell’ideologia attraverso le immagini, il fallimento di fronte ai gapunesi di questa prospettiva è

mastodontico fino al ridicolo. Ma più che celebrare la capacità di resistenza dei popoli indigeni, a

me pare che questo amaro apologo di barcollante critica cinematografica ci dica qualcosa di

interessante sulle condizioni minime di efficacia persuasiva del messaggio: qualunque sia quel che

vogliamo veicolare, e quale ne sia la forza intrinseca di verità, come emittenti (e qui gioco

sull’ambiguità del termine, a cavallo tra teoria linguistica e tecnologia delle comunicazioni)

abbiamo bisogno di verificare la struttura semiotica del sistema ricettivo se vogliamo formulare

qualche plausibile previsione sulle modalità di ricezione di quello specifico messaggio. La

dimensione collettiva della costruzione del racconto è, ad esempio, un tratto culturale specifico del

guineani che stride quant’altri mai con la concezione tipicamente occidentale della costruzione

“autoriale” del racconto. Se non si tiene in debita considerazione questa variabile (narrazione intesa

come “imposizione” autoriale agli spettatori opposta a narrazione come costruzione cooperativa tra

un narrante principale e gli ascoltatori), qualunque narrazione occidentale sarà giudicata come

incomprensibilmente distorta. Se invece si accetta di far i conti con la diversità culturale (intesa

come diversità dei sistemi cognitivi di riferimento) la domanda che un emittente serio dovrebbe

porsi è: a quali condizioni posso far sì che gli spettatori di Rambo lo vedano secondo le intenzioni

dell’autore?

Questa semplice domanda sposta immediatamente i termini della discussione generale. Invece di

concentrarmi sulle forme della produzione massmediatica presupponendo di essere, in quanto

66 DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and Subverting the

Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp. xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW, RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2002, xi-416 p. [pp. 270-285]. La citazione è da pagina 281.

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analista o produttore, un ricettore “tipico”, lo sforzo analitico dovrà puntare sulle strutture

interpretative dei riceventi: sono adeguate a leggere Rambo secondo le intenzioni dell’autore? Se

non lo sono, cosa posso fare per renderle adeguate?

Ecco quindi che il mondo della produzione di messaggi trasmessi senza conoscere il destinatario

(messaggi veicolati cioè attraverso i mezzi di comunicazione di massa) si articola, dal punto di vista

della ricezione, attorno a tre grandi nuclei. Al fondo della scala si collocano i gapunesi, quanti cioè

– per le più diverse ragioni – non sono in grado di recepire il messaggio secondo il codice

dell’emittente e, se proprio devono farlo, articolano un’interpretazione tutta interna ai loro

riferimenti culturali e simbolici. All’estremo opposto si collocano invece i professionisti

dell’interpretazione, gli intellettuali in grado di mettere a nudo le strutture narrative e ideologiche

del messaggio. Tra questi due estremi del “non potere” e del “volere” possiamo individuare la

grande area del “dovere”: si tratta di quanti hanno acquisito le strutture essenziali del codice

comunicativo ma non sono in grado di articolare letture alternative rispetto alle preferred readings,

alle “interpretazioni preferenziali” di cui parla Stuart Hall67. Mitica figura dell’immaginario dei

massmediologi, questa massa mediatizzata riceve il messaggio decodificandolo secondo le

intenzioni dell’autore e non riesce a sbloccarsi da lì, incastonata nel gioiello della perfetta lettura

massificante.

67 Stuart Hall, Representations: Cultural Representations and Signifying Practices, London, Sage Publications,

1997.

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The Tongan Tradition of Going to the Movies

91

ELIZABETH HAHN, “The Tongan Tradition of Going to the Movies”, Visual Anthropology

Review, X (1), Spring 1994, pp. 103-111, ora in ora in KELLY ASKEW e RICHARD R, WILK, a cura

di, The Anthropology of Media. A Reader, Malden, MA - Oxford, UK - Carlton, Victoria, Australia,

Blackwell, xi-416 p. [pp. 258-269].

Sulla necessità etnica di contestualizzare

Almeno fino ai primi anni Ottanta del Novecento, i Tongani inserivano la visione dei film al

cinema nel più ampio contesto locale della fruizione del faiva (spettacolo). Come infatti le feste

tradizionali erano guidate da un maestro di cerimonie che contestualizzava l’evento anche per

piccoli sottogruppi di partecipanti (ad esempio rivolgendo una serie di allusioni solo a una parte

precisa degli astanti, senza per questo destare il risentimento di quanti non potevano cogliere i suoi

riferimenti) così la visione dei film (sempre occidentali, quasi sempre americani) era mediata

culturalmente da un “narratore” che adattava la strutturazione narrativa al “contesto di

enunciazione”. In pratica, il film veniva visto da un pubblico vociferante e non necessariamente

interessato a coglierne la struttura narrativa completa, mentre il “narratore” forniva le sue

interpretazioni, spesso libere se non del tutto autonome, di quel che accadeva sullo schermo. La

migliore conoscenza dell’inglese e l’uso sempre più diffuso del videoregistratore nel corso degli

anni Novanta hanno ridotto questa forza contestualizzante e ricondotto la visione tongana a più miti

e più occidentali consigli. Ma fino a quando è stata in uso, la pratica indigena di vedere i film con

l’accompagnamento del “traduttore” dava conto di una specificità culturale non trascurabile, che

possiamo sintetizzare nella necessità della contestualizzazione. Nella concezione tongana del faiva,

la dimensione spettacolare si produce anche attraverso l’interazione tra gruppi di spettatori, e il

narratore, come il maestro di cerimonie nei contesti festivi tradizionali, ha prima di tutto il compito

di attivare la rete comunicativa tra gruppi e sottogruppi dei presenti. Mentre cioè il modello

produttivo entro cui nasce il cinema reifica la produzione di senso entro il messaggio e incapsula il

divertimento all’interno del mezzo di comunicazione, il faiva di Tonga ha bisogno di essere attivato

tra coloro che ne fanno parte. Comparando divertimento e faiva, risalta con particolare evidenza la

tendenza isolante dei mezzi di comunicazione di massa che – diversamente da quel che

sembrerebbe indicare il loro nome – sono rivolti ad un consumo sostanzialmente individuale68.

68 Mentre è infatti evidente che il consumo di radio e televisione si rivolge ai singoli, anche il cinema – con la

sua retorica del religioso silenzio, del buio assoluto e della sala di periferia dove i veri cinefili gustavano in solitudine i capolavori del passato – non sfugge a questa tendenza individuante della produzione semiotica occidentale. L’ispiratore dei cultural studies, il britannico Rayomond Williams, aveva chiara la pulsione individuante, nonostante il nome, dei mezzi di comunicazione di massa: “Questa innovativa forma di comunicazione sociale – il broadcasting – fu oscurata

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The Tongan Tradition of Going to the Movies

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Questa duplice caratteristica del cinema “occidentale” (portatore di un messaggio

decontestualizzato e consumato tendenzialmente da singoli) – che possiamo ragionevolmente

estendere a molti altri mezzi di comunicazione di massa – era vissuta a Tonga come un ostacolo da

superare, dato che si frapponeva tra l’uso del mezzo e la concezione locale di intrattenimento. Per

questa ragione il “traduttore” o “narratore” aveva un ruolo centrale, tanto che “...la gente prima

chiedeva ‘Chi è il narratore?’ e solo dopo si informava: ‘Qual è il film?’” (p. 264).

Possiamo grafizzare questa concezione antitetica del divertimento, che rappresentiamo come

entertainment e faiva, rispettivamente. Nella figura che segue, i cerchi rappresentano gli individui,

mentre il riquadro rappresenta il mezzo di comunicazione e le frecce lo spazio di interazione che

produce, rispettivamente, entertainment o faiva. Nel modello reificato e decontestuallizato della

comunicazione mediatica che è tipico dell’entertainment i singoli fruiscono individualmente di un

messaggio che contiene in sé tutto ciò che gli è necessario per essere tale. Nel modello del faiva,

invece, l’obiettivo da raggiungere non è la fruizione di un messaggio in sé conchiuso, ma

l’interazione sociale tra gruppi e sottogruppi.

dalla sua stessa definizione in termini di «comunicazione di massa», che concettualizzava la sua caratteristica di rivolgersi a molte persone, le «masse» appunto, ma oscurava il fatto che il modo scelto era l’offerta di apparecchi individuali, metodo descritto molto meglio dal precedente termine broadcasting”, in RAYMOND WILLIAMS, Televisione.

Tecnologia e forma culturale e altri scritti sulla tv. A cura di Enrico Menduni, traduzione di Enrico Menduni, Roma, Editori Riuniti, 2000, 206 p. [il passo è da p. 44]. Edizione originale Television: Technology and Cultural Form, London, Fontana, 1974, 160 p.

faiva

narratore

entertainment

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La forza delle immagini

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La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici.

HEVAN O DELL’IMMAGINAZIONE

A Olmo di Martellago ci andavo in bici con la morosa a quindici anni. Eravamo tutti Piero,

Mario, Maria Grazia, Antonio, Germano, Anna, Maurizio, Cristina. Le Jennifer erano ancora di là

da venire, anche se sapevamo che il nome esisteva, in qualche telefilm americano. Di Hevan,

invece, ancora nessuna traccia.

I nomi, i nostri genitori non avevano bisogno di inventarseli. A loro bastava quasi sempre il

parco disponibile dei nonni, dei santi, dei padrini o di qualche morto speciale da onorare.

Jennifer no. Ha sentito il nome Evan da qualche parte, ma ancora non le bastava, non era suo a

sufficienza, e ci ha aggiunto l’acca, come certi ristoratori che una ventina d’anni fa s’inventarono

dal nulla le hosterie. Jennifer aveva fame di immaginazione, aveva bisogno di immaginarsi nomi

alternativi, amori impossibili, futuri da allattare.

La mamma di Jennifer non so se fosse già nonna, non so se potrà mai esserlo. Certo ha vestito

Hevan come fosse il suo nipotino. Con la scuffia. La mamma di Jennifer si era già immaginata

nonna, vedeva carrozzine e pappette, sentiva pianti notturni e ruttini. Come avesse accolto quella

gravidanza della figlia ventenne è sentimento che lascio alla decenza delle storie private. Ma certo

la mamma di Jennifer si era immaginata nonna, e infatti così oggi è chiamata dai giornali: la nonna

di Hevan. La Fallaci divenne (ancor più) famosa per aver scritto (e fatto pubblicare) una

lunghissima lettera a un quasi figlio, cioè a un suo aborto. La mamma di Jennifer è ormai famosa

per aver scattato (e fatto pubblicare) una foto (con il cellulare, immagino) a un quasi nipote.

Anche il direttore del Gazzettino ha un sacco di immaginazione. E quella foto l’ha pubblicata,

scatenando il panico. Ci ho pensato un po’ su. Durante i bombardamenti dell’Afghanistan ho girato

per mesi con in tasca una foto ritagliata da Repubblica: si vedevano, accatastati dentro un carro,

ripresi dall’alto, diversi corpicini massacrati (non so più se direttamente “per errore” o come “danno

collaterale”) da qualche aereo americano. Un bimbo di due o tre anni somigliava pericolosamente a

mia figlia, allora neonata. Stesso labbro sporgente, stessa curva della fronte.

No, lo choc della foto di Hevan non dipende da una morte esposta. Il vero motivo è che non

abbiamo un nome generico con cui parlare di Hevan. Il suo astruso nome proprio è un feticcio cui ci

aggrappiamo o dal quale fuggiamo per non parlare della vera cosa: il nome della specie di Hevan.

Cos’è Hevan? Non è giuridicamente un essere umano, altrimenti l’omicidio sarebbe duplice. Lo

hanno seppellito nella stessa bara di Jennifer, Hevan, e non solo per cedere al patetico. È che non

essendo mai nato non avrebbe uno spazio suo nello spazio dei morti. Per essere sepolti al cimitero ci

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La forza delle immagini

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vuole un certificato di morte, che non si può stilare per uno che non ha mai avuto un certificato di

nascita.

La scuffia in testa, il vestitino, l’espressione corrucciata che si vede nella foto pubblicata sul

Gazzettino sembrano dirci l’opposto: che quello era un bambino, che è stato ammazzato, che ha

diritto come ogni essere umano a una sepoltura e ad avere giustizia.

Ci sono cose che possiamo solo immaginare. Altre che non immagineremo mai. Altre cose,

infine, diventano parte del nostro immaginario solo nel momento in cui le vediamo. L’immagine di

certe cose ce le rende affettivamente plausibili, ci obbliga a pensarle, o almeno muta il nostro modo

di immaginarle. L’immagine dà corpo alla nostra immaginazione. Mio padre ha avuto sette figli e di

nessuno sapeva il sesso prima della nascita. Io ho iniziato ad avere un rapporto affettivo con la mia

unica figlia quando ho visto l’ecografia del suo volto al quarto mese di gravidanza. Quando l’ho

presa in braccio per la prima volta l’ho riconosciuta, perché erano cinque mesi che sapevo che

faccia aveva. Avevo un nome generico di specie, un nome proprio e un’individualità somatica: le

cose che ci servono per creare una relazione. Se adotti un cane randagio, la prima cosa che fai è

quella di dargli un nome. E se la tua cagna fa una cucciolata, darai i nomi ai cuccioli solo quando

inizieranno ad essere riconoscibili uno dall’altro. Specie, nome, soma.

Lo scandalo di Hevan è questo: ora, oltre a un nome proprio bislacco, ha anche un volto, ma

continua a non avere un nome di specie. Se fosse rimasto un flatus della madre o una speranza della

nonna potremmo lavarcene le mani, inveire quel che basta contro l’omicida e tornare a farci gli

affari nostri. Ci torneremo, certo, ma non potremo più fare finta di nulla, ora che abbiamo visto il

volto di qualcosa che possiede un suo nome, ma a cui noi non sappiamo dare un nome.

FOTO CHOC

Mjtia, 9 anni, di Berlino, viene sequestrato da un uomo mentre va a scuola in tram. L’uomo lo porta

a casa sua, lo violenta e lo uccide. Dopo una caccia forsennata, la polizia riesce a catturare il mostro

(non c’è un’altra parola, in questo caso) che tenta di ammazzarsi buttandosi sotto un tram, quasi a

voler finire lì dov’era iniziata questa storia spaventosa per chiunque, e forse un po’ di più per chi

abbia figli.

Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di

pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come

protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare

l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente.

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La forza delle immagini

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Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta

proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una

telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la

spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è

sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla

destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una

maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto

giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il

bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride.

Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo

che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non

avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in

tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due

hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche

passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo

uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per

la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi...

L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci

assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile.

Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà

convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in

cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e

sorridente del bambino veniva devastato dalla paura.

La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è

successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla

una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi

dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E

vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro

l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo

sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che

non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.

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La forza delle immagini

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Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha

senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino

di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa,

che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non

portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più

sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo

orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso

oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso.

Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da

antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il

forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo

evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.