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Il ricentramento del messaggio cristiano sulVuomo 451 7.2.3. P roporre levento storico di G esù Cristo COME L'UNIVERSALE CONCRETUM 7.2.3.1. Gesù Cristo come Parola eterna e Parola incarnata Un terzo principio teologico che deve affrontare il problema del rap- porto tra verità assoluta ed evento storico, e cioè del paradosso originario della fede e della teologia cristiane, è la rinnovata comprensione dell’e- vento storico di Gesù Cristo come di un universale concretum76. La storia di Gesù è la negazione di ogni forma di nichilismo, perché innerva il tem- po di eternità, gli conferisce un’efficacia che supera ogni forma di preca- rietà, gli conferisce ‘ragionevolezza’ eterna, che relativizza ogni ragione- volezza storica. L’unicità storica della persona di Gesù di Nazareth, collo- cata nella ‘pienezza dei tempi’, non si oppone ad una sua universalità di significato ed assolutezza di azione liberatrice e redentrice. Il compito primario della teologia contemporanea, allora, non è tanto quello di enu- cleare una ‘essenza’ del cristianesimo o della divinità, quanto piuttosto di annunciare Gesù Cristo, nella concretezza e singolarità della sua persona divina e nella storicità del suo evento di salvezza universale77. Gesù Cri- 76 La rivelazione come storia, quale è concepibile solamente a partire dalla teologia cristiana, è ca- ratterizzata dall’essenziale unità e implicazione delle due dimensioni di 'universale' y cioè Dio, e 'con- cretum' , cioè la storia. Queste due dimensioni deH’economia generale della rivelazione sono state esa- minate a fondo dalla tradizione teologica, a partire da Nicola CUSANO, Della dotta ignoranza, Athé- na, Milano s.d., 195-259 [De docta ignorantia, a cura di E. Hoffmann - R. Kilbansky, Leipzig 1932, 125-179). 77 Si tratta della famosa domanda di Lessing, che coinvolge non solo l’attenzione degli studiosi, ma la risposta di fede di ogni cristiano. Essa afferma che «se nessuna verità storica è suscettibile di dimo- strazione, allora nulla può essere dimostrato per mezzo di verità storiche. Vale a dire: casuali verità storiche non possono mai diventare la prova di necessarie verità razionali»: G.E. LESSING, Sul cosid- detto ' argomento dello spirito e della forza , in Id., La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, La- terza, Roma - Bari 1991, 68-70. Kierkegaard ha esplicitato la domanda lessingiana nella sua doman- da: «Ci può essere un punto di partenza storico per una coscienza eterna? Questo punto di partenza può avere un interesse diverso da quello storico? Si può fondare una beatitudine eterna su un sapere storico?»: S. KIERKEGAARD, Briciole di filosofia ovvero una filosofia in briciole I, a cura di C. Fabro, Zanichelli, Bologna 1962, 91. Vedi T. Di S tefano , La libertà a rischio della verità. Il problema di Les- sing e la soluzione di Kierkegaard, Galeno Editrice, Città di Castello 1985; A. RIZZACASA, Il tema di Lessing. È possibile provare una verità eterna a partire da un fatto storico?, San Paolo, Cinisello Balsa- mo 1996. Shorter rileva opportunamente che, di fatto, Gesù Cristo è quasi sempre captato ed affer- rato come persona storica prima ancora di essere accettato come un soggetto di insegnamento: A. SHORTER, Toward a Theory of Inculturation (1988), Orbis Books, Maryknoll, New York 1997, 61, e Hàring richiama l’attenzione sulla realtà storica di Gesù come fondamento dell’identità religiosa: H.

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PArte de la antropologia de Sanna en su visión y critica de la modernidad y postmodernidad

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Il ricentramento del messaggio cristiano sulVuomo 4 5 1

7.2.3. Proporre l’evento storico di G esù Cristo

COME L'UNIVERSALE CONCRETUM

7.2.3.1. Gesù Cristo come Parola eterna e Parola incarnata

Un terzo principio teologico che deve affrontare il problema del rap­porto tra verità assoluta ed evento storico, e cioè del paradosso originario della fede e della teologia cristiane, è la rinnovata comprensione dell’e- vento storico di Gesù Cristo come di un universale concretum76. La storia di Gesù è la negazione di ogni forma di nichilismo, perché innerva il tem­po di eternità, gli conferisce un’efficacia che supera ogni forma di preca­rietà, gli conferisce ‘ragionevolezza’ eterna, che relativizza ogni ragione­volezza storica. L’unicità storica della persona di Gesù di Nazareth, collo­cata nella ‘pienezza dei tempi’, non si oppone ad una sua universalità di significato ed assolutezza di azione liberatrice e redentrice. Il compito primario della teologia contemporanea, allora, non è tanto quello di enu­cleare una ‘essenza’ del cristianesimo o della divinità, quanto piuttosto di annunciare Gesù Cristo, nella concretezza e singolarità della sua persona divina e nella storicità del suo evento di salvezza universale77. Gesù Cri­

76 La rivelazione come storia, quale è concepibile solamente a partire dalla teologia cristiana, è ca­ratterizzata dall’essenziale unità e implicazione delle due dimensioni di 'universale' y cioè Dio, e 'con­cretum' , cioè la storia. Queste due dimensioni deH’economia generale della rivelazione sono state esa­minate a fondo dalla tradizione teologica, a partire da Nicola CUSANO, Della dotta ignoranza, Athé­na, Milano s.d., 195-259 [De docta ignorantia, a cura di E. Hoffmann - R. Kilbansky, Leipzig 1932, 125-179).

77 Si tratta della famosa domanda di Lessing, che coinvolge non solo l’attenzione degli studiosi, ma la risposta di fede di ogni cristiano. Essa afferma che «se nessuna verità storica è suscettibile di dim o­strazione, allora nulla può essere dimostrato per mezzo di verità storiche. Vale a dire: casuali verità storiche non possono mai diventare la prova di necessarie verità razionali»: G.E. LESSING, Sul cosid­detto 'argomento dello spirito e della forza , in Id., La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, La- terza, Roma - Bari 1991, 68-70. Kierkegaard ha esplicitato la domanda lessingiana nella sua doman­da: «Ci può essere un punto di partenza storico per una coscienza eterna? Questo punto di partenza può avere un interesse diverso da quello storico? Si può fondare una beatitudine eterna su un sapere storico?»: S. KIERKEGAARD, Briciole d i filosofia ovvero una filosofia in briciole I, a cura di C. Fabro, Zanichelli, Bologna 1962, 91. Vedi T. Di S t e f a n o , La libertà a rischio della verità. Il problema di Les­sing e la soluzione d i Kierkegaard, Galeno Editrice, Città di Castello 1985; A. RIZZACASA, Il tema d i Lessing. È possibile provare una verità eterna a partire da un fatto storico?, San Paolo, Cinisello Balsa­mo 1996. Shorter rileva opportunamente che, di fatto, Gesù Cristo è quasi sempre captato ed affer­rato come persona storica prima ancora di essere accettato come un soggetto di insegnamento: A. SHORTER, Toward a Theory of Inculturation (1988), Orbis Books, Maryknoll, New York 1997, 61, e Hàring richiama l’attenzione sulla realtà storica di Gesù come fondamento dell’identità religiosa: H.

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sto, la verità di Dio, è allo stesso tempo la Parola eterna, in cui tutto è sta­to creato, e la Parola incarnata, in cui tutto il creato sussiste. Ciò che la ragione umana cerca «senza conoscerlo» (cfr. A t 17,23), può essere trova­to soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la «piena verità» (cfr. Gv 1,14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr. Col 1,17) (FR 34). La Fides et Ra­tio ribadisce la realtà de\V universale concretum quando afferma che «l’in­carnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definiti­va che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto im­maginare: l’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell’uomo» {FR 12). «L’applicazione di un’ermeneu­tica aperta all’istanza della metafisica è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti. Con il suo linguaggio storico e circoscritto l’uomo può esprimere verità che trascendono l’evento linguistico. La verità, infatti, non può mai esse­re limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa» {FR 95).

Dalle testimonianze bibliche sappiamo che già durante la sua vita ter­rena Gesù ha avanzato una ‘pretesa’ universale sia riguardo alla rivelazio­ne di Dio {Gv 1,14.18), sia circa la redenzione dell’umanità. La prova evi­dente di questa sua autocoscienza di validità universale sono le sue asser­zioni escatologiche: «Ma io vi dico», pronunciate nella forza e nella mo­zione dello Spirito Santo. Le istanze attraverso le quali, secondo Baltha­sar, si manifesta la presenza della dimensione universale nell’esistenza storica di Gesù sono: la certezza della validità delle sue parole e azioni («Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno», Me 13,31); la possibilità che gli è data di prendere su di se il peccato univer-

H à RING, La storia di Gesù fondamento e origine di identità religiosa, in Concilium 36/2000, 137-154. Rientrano in questo plesso tematico alcuni studi su Fichte, Schelling, Troeltsch: J. G. FiCHTE, Versu- ch einer Tritile aller Offenbarung (1792), a cura di H. Verweyen, F. Meiner, Hamburg 1983, LII- LXX; W . KASPER, LAssoluto nella storia. Nell’ultima filosofia d i Schelling (1965), Jaca Book, iMilano 1986; X. TlLLIETTE, Schelling. Une philosophie en devenir I, Le systhème vivant (1794-1821)·, II, La dernière philosophie (1821-1834), Vrin. Paris 1970; Id ., L’Absolu et la philosophie: essais sur Schelling, Presses Universitaires de France, Paris 1987; F.W.J. SCHELLING, filosofia della Rivelazione (1856), a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, VII-LXXXIII; M.M. O l iv e t t i , Saggio sulla critica di ogni rivelazione, Laterza, Bari 1998, VII-LX (Fichte); G. MÉDEVIELLE, L’absolu au coeur de l ’histoire. La notion de compromis chez Ernst Troeltsch, Du Cerf, Paris 1998; X. TlLLIETTE, Schelling. Biographie, Calmann-Lévy, Paris 1999.

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sale, per riconciliare tutto il mondo con Dio (2 Cor 5,15-21); la possibili di anticipare la sua passione nelPistituzione dell’eucaristia, con la qua dichiara anticipatamente la sua corporeità come disponibile «per i moit (Me 14,24), anzi indispensabile per la vita di tutti: «Chi non mangia mia carne e non beve il mio sangue non ha in sé la vita» (Gv 6,53)78.

Il periodo dei quaranta giorni dopo la risurrezione, poi, è emblematic di tale universalizzazione dell’opera del Cristo, già operata mediante j Spirito Santo. Infatti, essi «appartengono tanto al tempo terreno come tempo eterno di Cristo. Essi sono un frammento di vangelo, la continui zione dei suoi antichi rapporti coi discepoli, la distruzione, nella reder zione e nell’amore, di ogni distanza e di ogni barriera tra Lui ed essi». I questi incontri personali col Risorto - visto, sentito e toccato con imm< diatezza sensibile dai discepoli - si fa chiara «nel modo più inequivocab le, la 'contemporaneità’ tra Cristo risorto e gli apostoli suoi testimoni»: tempo dei quaranta giorni non è più tempo per la passione o per la mot te, ma è quello della risurrezione e della signoria di Cristo: esso «rivel intera la sua pienezza d’eternità», anzi è «la presenza dell’eternità ne tempo con immediatezza e senza interruzione», inserisce visibilment nella Chiesa il tempo passato, presente e futuro di Gesù Cristo, cioè tutt la sua azione79.

Dall’assunzione di queste istanze bibliche, H.U. von Balthasar, distan ziandosi dalla prospettiva cristologica trascendentale di K. Rahner, hi proposto la concezione di Gesù Cristo come «universale concretum», ec ha ritenuto di trovare la risposta al problema della tensione tra universa le-necessario e singolare-contingente80. Questa affermazione cristologici dell’universale concreto si fonda sulla congiunzione ontologica tra Dio < l’uomo, per cui «Cristo non è né un individuo tra gli altri, poiché è il Die senza uguali in persona, né è la norma come universale, poiché è queste singolo»81. Per questo, Cristo supera la logica del pensiero umano e si col­

78 H.U. VON B a l t h a s a r , Teologica III, Lo Spirito della Verità (1987), Jaca Book, Milano 1992, 162. Cfr. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Queriniana, Brescia 1997, 217- 219. Cfr. anche W. LòSER, *Universale concretum’ come legge fondamentale della ‘oeconomia revelatio­nis\ in W. K ern - H.J. POTTMEYER - M . Se c k l e r , Corso d i teologia fondamentale II, Trattato sulla Rivelazione, Queriniana, Brescia 1990,122-138.

79 H.U. VON BALTHASAR, Teologia della storia (1959), Morcelliana, Brescia 19692, 63-68.80 Cfr. il già citato s tu d io d i V. 1 lOLZER, Le Dieu Trinité dans l ’histoire. Le différend théologique

Balthasar-Rahner, Du Cerf, Paris 1995.81 H.U. VON BALTHASAR, Verbum Caro. Saggi teologici I, Morcelliana, Brescia 1968, 188.

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loca fuori di ogni serie: egli, infatti, è il singolare concreto e personale, che benché uomo è però diverso da tutti gli altri individui, in quanto ciò che distingue un individuo dall’altro, la persona, in Lui è Dio. Così, «l’ir- repetibilità di Cristo è l’irrepetibilità di Dio nel mondo e nessun pensiero astraente, che cerchi di ridurre l’universalità, può appressarsi a questa u- nità per coglierla risolvendola in se stesso»82 *. E per la sola via della 'ragio­ne estetica’ che si può accogliere il fenomeno più occulto, nella sua alte­rità, nella sua misteriosità e grandiosità schiacciante: «come nell’amore tra gli uomini incontriamo l’altro come altro, che nella sua libertà non può essere da me costretto, violentato, così nell’intuizione estetica è im­possibile una riduzione della forza che si manifesta alla mia immaginazio­ne e fantasia»85.

In base alla riproposizione aggiornata di questo principio, quella che viene presentata equivocamente come pretesa di assolutezza da parte del cristianesimo84, non è più un asserto creato dalla cultura europea, non è neppure una comprensione eurocentrica della verità ma, in termini bibli­ci, è l’«una volta per tutte», è la dimensione escatologica dell’evento-Cri- sto. Con l’incarnazione di Cristo, la sapienza di Dio, in cui tutto è stato creato, ha fatto il suo ingresso nella storia in tutta la sua pienezza. Dio ha così rivelato se stesso in Gesù Cristo non solo in modo definitivo ed insu­perabile, ma ha anche indicato definitivamente agli uomini ed al mondo ciò che essi sono e ciò a cui sono chiamati. Gesù Cristo è Y alfa e Vomega, l’origine e il fine di ogni realtà, l’asse e il punto di convergenza dell’intera storia dell’umanità. Da lui proviene la luce su tutte le cose, e rispetto a lui si dividono gli spiriti; come giudice dei vivi e dei morti egli pronuncerà ad un certo punto la parola definitiva.

7.2.3.2. La Parola eterna figlia e madre del tempo

Sul piano del fondamento teologico, Gesù, la Parola eterna, è senz’al­tro il fondamento ultimo ed escatologico di ogni forma di salvezza. E il fondamento ultimo perché, se l’umanità è da considerarsi come la storia di Dio, Gesù è alla base e al centro di questa storia, perché tutto è stato sottomesso ai suoi piedi (E f 1,22), e gli è stato dato un nome che è al di

82 H.U. v o n B a l t h a s a r , Verbum Caro. Saggi teologici I, cit., 189.85 H .U. v o n B a l t h a s a r , Solo lam ore è credibile, cit., 34.84 Cfr. E. Biser, Gesù Cristo - Pretesa e legittimazione, in W. KERN - H.J. PoTTMEYER - M. SECKLER

(edd.), Corso d i Teologia fondamentale II, Trattato sulla Rivelazione, cit., 263-283.

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sopra di ogni altro nome (FU 2,9). È il fondamento escatologico perché Egli è l’unico mediatore di salvezza neirunica economia creatrice e re­dentrice. In Lui formano un’unità il cammino verso la salvezza e la meta di questa stessa salvezza, perché Egli è allo stesso tempo Dio, verso cui si va, e uomo, per mezzo del quale si va. In riferimento alla funzione media­trice dell’umanità di Cristo, s. Agostino affermava: «ambula per hominem et pervenies ad Deum»83.

L’evento di Gesù Cristo, unico mediatore di salvezza (1 Tm 2,5), al di fuori del quale non ce in alcun altro la salvezza (At 4,11), principio della salvezza per il mondo intero (LG 17), ha un rapporto diretto con il patri­monio etico di promozione umana che unisce l’umanità intera e che esi­ste già prima di esso e al di fuori del cristianesimo. Non esiste un cammi­no di umanità che non sia percorso dal cammino dell’incarnazione e della redenzione del Verbo eterno di Dio, una consistente parte della storia u- mana che compia un itinerario salvifico, senza la mediazione dell’unico mediatore Gesù Cristo. Gesù non è una delle tante possibili rivelazioni di Dio nella storia, ma l ’unica rivelazione definitiva, perché l’unica incarna­zione di Dio, l’unica ‘umanazione’ di Dio. L’evento di Cristo non dà mo­tivazioni nuove ad un cammino unificante di salvezza che già esiste, ma produce una ‘sua’ salvezza, una sua umanizzazione del tutto nuova. In al­tri termini, l’evento di Cristo non cristianizza l ’umano che esiste prima di Lui e al di fuori di Lui, ma ‘fonda’ l’umano, anche quello che esiste prima di Lui e fuori di Lui.

Il modo concreto con cui Gesù Cristo, la parola eterna, penetra nelle pieghe della storia umana è illustrato da K. Rahner mediante una rifles­sione sul rapporto dell’incarnazione del Verbo con l’unità dell’umanità. L’umanità è un’unità, scrive il teologo tedesco86. Essa è trattata da Dio co­me un’unità concreta, non solo nell’ordine naturale, ma anche nell’ordine della salvezza, come si dimostra nel fatto del peccato originale e nel fatto della salvezza fondamentale ed universale dell’umanità mediante Cristo. L’unità naturale di tutti gli uomini è qualcosa che preesiste all’umanità, nel senso che quest’ultima non è la successiva addizione puramente idea­le di molti singoli. L’inserimento di ogni singolo uomo in questa unità è

M S. Agostino, Sermone 145, 4, in PL 38, 777. Cfr. M. Th . DESOUCHE, Lhistoire com m e lieu théo­logique et fondem ent d e la théologie pastorale, in Nouvelle Revue Théologique 116 (1994) 404-408.

K. Rahner, L’appartenenza alla Chiesa in qualità di m em bri secondo la dottrina d e ll’'enciclica 'my­stici C orporis’ d i Pio X II , in Saggi sulla Chiesa, Paoline, Roma 1966, 166. Cfr. anche Id., Riflessioni teologiche sul monogenismo, in Saggi d i antropologia soprannaturale, Paoline, Roma 1965, 243-252.

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una realtà che precede il suo stesso libero agire personale. Questa unità reale deirumanità è determinata dairincarnazione del Verbo di Dio, poi­ché, mediante la nascita dalla Vergine Maria, membro di questa unica u- manità, il Verbo di Dio ne è divenuto egli stesso un membro, e ha fatto sì che quest’unica umanità adamitica sia l’interlocutrice del Dio Uno e Tri­no8’. Per il fatto che il Verbo di Dio è divenuto uomo, l’umanità, in forma reale-ontologica già antecedentemente alla santificazione per mezzo della grazia, di fatto è popolo dei figli di Dio. In nessun luogo, dove esistono uomini, considerati concretamente, essi sono solo ‘puri uomini’ nel senso del concetto astratto aristotelico-scolastico dell’essenza dell’uomo. In quanto l’umanità così ‘consacrata’ è già a priori una unità reale, esiste già anche previamente a un’organizzazione sociale e giuridica dell’umanità come unità soprannaturale, un ‘popolo di Dio’ che si estende quanto si e- stende l’umanità. Questo popolo di Dio preesiste, per quanto riguarda la sua organizzazione sociale e giuridica, a quella che noi chiamiamo Chiesa, in modo simile a quello con cui un determinato popolo storico, sul piano della realtà intramondana, precede la sua organizzazione in uno Stato88.

In quest’unica umanità, dunque, in seguito all’incarnazione si è inseri­to a tutti gli effetti Gesù, vero Dio e vero uomo, che si unisce «in certo modo ad ogni uomo» (GS 22). Però, quest’umanità in cui si inserisce Ge­sù non è un suo rivestimento temporaneo, una sua ‘divisa di lavoro’ per il tempo che ha trascorso su questa terra e che ha smesso non appena è sali­to in cielo, ma è una sua condizione eterna. Gesù è da sempre il Figlio e da sempre è il Verbo di Dio incarnato. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eh 13,8), sia come Verbo incarnato che come Redentore. L’uma­nità, allora, è la conseguenza deH’incarnazione e l’incarnazione è il pre­supposto dell’umanità. E senz’altro vero che Dio avrebbe potuto creare il mondo anche senza l’incarnazione. Di fatto, però, la possibilità della creazione è fondata nella più radicale ed originaria possibilità dell’auto- comunicazione di Dio, del poter divenire egli stesso storia attraverso l’in­carnazione del Logos divino. L’uomo potrebbe allora essere definito «il possibile essere diverso dell’auto-alienazione di Dio e il possibile fratello di Cristo»89. La natura dell’uomo altro non è che la potentia oboedientialis

s K. Rahner, L’appartenenza alla Chiesa..., cit., 171.8 K. Rahner, Lappartenenza alla Chiesa..., cit., 173.9 K. Rahner, Considerazioni fondamentali per l’antropologia e la protologia nell’ambito della teolo­

gia. in Mysterium Salutis IV, Queriniana, Brescia 1970,25. Cfr. anche A. Ruiz-Retegui, Algunas con­sideraciones sobre la antropologia implicita en la cristologia de Hans Urs Von Balthasar, in Scripta Theologica 21 (1995) 459-491.

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per l’unione ipostatica, la cifra o la grammatica per la possibile espressio­ne del Verbo eterno nel tempo e nella storia. L’incarnazione del Verbo manifesta e rivela la natura dell’uomo e non la natura dell’uomo esprime l incarnazione del Verbo. In Cristo, l’Uomo-Dio, si manifesta ciò che è e che deve essere l’uomo. «Nell’uomo-Dio Gesù Cristo, il fondamento e la norma di ciò che l’uomo è sono presenti e sono manifesti nella storia stes­sa. L’umanità realmente esistente dunque è creata di fatto perché Dio ha voluto l’espressione di se stesso mediante il Lògos, nel vuoto della condi­zione creaturale e perché questa espressione del Logos significa appunto la sua umanità; in tal modo la possibilità della creazione dell’uomo è un momento della possibilità della libera autoespressione del Lògos, nella quale tutta l’umanità è pensata e voluta come ambiente di questa espres­sione». «Dopo l’incarnazione, prosegue Rahner, l’antropologia dovrebbe essere sempre letta come cristologia incompleta e la cristologia come me­ta e fondamento primo dell’antropologia, poiché in Gesù si è manifestato storicamente ed è dato insuperabilmente e cosa e chi sia l’uomo». In Cri­sto, «la natura è portata definitivamente alla sua salvezza assoluta e quivi solamente è ricondotta a se stessa ed è resa manifesta per l’uomo»90.

La parola eterna di Dio è figlia del tempo, ma parimenti è anche ma­dre del tempo, al quale dà il senso e il significato91. Il Verbo incarnato è figlio della storia, di una circoscritta storia della terra di Palestina, ma è arche padre della storia, che ha riempito della sua presenza reale, ancor­ché nascosta e velata. «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, gra­zia su grazia» (Gv 1,16).

Una riflessione più approfondita su questo versetto del vangelo di Gio­vanni ci permette di precisare meglio tempi e modi del rapporto tra l’e­vento di Cristo e la salvezza. A ben guardare, infatti, il versetto dice che tutti abbiamo ricevuto, ma non che tutti abbiamo ricevuto tutto. Inoltre, tutti abbiamo ricevuto dalla pienezza, ma non tutti abbiamo ricevuto la pienezza.

Ordunque, se tutti hanno ricevuto grazia su grazia, significa che i semi-

K . R a h n e r , Considerazioni fondamentali per lantropologia e la protologia nell’ambito della teolo­gia, cit., 26.

’ Cfr. quanto scrive Lutero a commento di G al 4,4: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio», in M. LUTERO, WA 57, 30.15: «Non fu tanto il tempo a provocare la missione del Figlio, quanto invece la missione del Figlio a costituire il tempo della pienezza». G io v a n n i P a o l o I I ,

nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente, ribadisce che: «La pienezza del tempo si identifi­ca con il mistero dell’Incarnazione del Verbo, Figlio consustanziale al Padre, e con il mistero della Redenzione del mondo» (TMA 1).

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ta Verbi, secondo Pespressione di san Giustino, sono presenti, in misura )iù o meno esplicita, in tutti quanti i tempi e i luoghi dell'umanità, senza listinzione di cultura o di religione. Nessuno è quindi escluso dalla vo- ontà salvifica universale di Dio, ma tutti, indistintamente, sono chiamati fall·unico Dio, salvati dall’unico Redentore, destinati a formare un’unica amiglia umana.

Non tutti hanno ricevuto tutto, però, per la semplice ragione che, in 3rimo luogo e sotto un punto di vista ontologico, una creatura finita e :emporale non può contenere una realtà infinita ed eterna, un singolo uo- tìo limitato e mortale non può esaurire la pienezza della perfezione e l’e- ernità; in secondo luogo e dal punto di vista storico, perché molti uomi­ni sono vissuti prima di Cristo o vivono al di fuori della Chiesa, e non so­no direttamente partecipi della pienezza della vita della grazia, quale si sperimenta all’interno della Chiesa, mediante l’incorporazione a Cristo, che avviene per mezzo del battesimo.

Lo scarto tra la pienezza della grazia in Cristo, «apportatrice di salvez­za per tutti gli uomini» (Tt 2,11), e la partecipazione ad essa da parte del- 1 uomo è, in concreto, lo scarto tra Peternità e la storia, tra l’umanità pie­na e perfetta di Cristo e l’umanità partecipata ed imperfetta degli uomini, tra la stessa umanità eterna e gloriosa di Cristo e la sua umanità terrena della kénósis, svuotata della gloria e della potenza (F//2,6-8).

7.2.3.3. La Parola incarnata e la mediazione della Chiesa

Sul piano storico-culturale, o del divenire, però, egli, la Parola incarna­ta, svolge questo suo ruolo di fondamento ultimo d ’ogni perfezione uma­na, attraverso la mediazione dei cristiani e della Chiesa, che egli stesso ha voluto come soggetti storici del suo eterno progetto di promozione uma­na. Egli, in quanto Verbo incarnato e redentore, è il soggetto ultimo della salvezza. Il soggetto prossimo ed immediato della medesima, però, sono i cristiani e la Chiesa. Gesù Cristo è il soggetto dell’umanizzazione unifi­cante, per così dire, attraverso l’umanità degli uomini-cristiani, perché si è unito a tutti gli uomini, è diventato fratello di ogni uomo. La Chiesa e il cristianesimo sono il soggetto della medesima, attraverso l’umanità dei soli cristiani-uomini. Siccome la storia del cristianesimo è una minima parte della storia dell’umanità, sia dal punto di vista cronologico, perché rappresenta solo duemila anni di storia cristiana contro i circa trentamila di civiltà umana, che da quello numerico, perché la popolazione dei cri­stiani ammonta ad un miliardo contro il resto della popolazione mondiale

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Il ricentramento del messaggio cristiano sull’uomo 45S

che tocca ormai i sei miliardi di uomini, è chiaro che il ruolo di Cristo ( del suo Spirito nella promozione umana unificante è molto più esteso d quello della Chiesa. Origene, nel notare che i brevi millenni della stori; biblica della salvezza, a confronto con gli abissi di tempo degli ‘eoni’ gno siici, estendentesi dalla fondazione del mondo ad Abramo, erano ben po ca cosa, nel De Principiis, per risolvere il problema della commensurabi lità dei tempi biblici con quelli degli ‘eoni’, fece diventare i primi decisiv e fondamentali. I tempi di Cristo, infatti, in quanto tempi del Lògos, son< il fondamento di tutti gli altri tempi, ed interpretano il passato, il presen te, il futuro. Il Cristo è il principio della fine, perché in Lui «s’è fonda mentalmente e irrevocabilmente avverata la radicale autotrascendenz delFumanità in Dio; e questo fatto, come promessa e compito dell’urna nità stessa, per la struttura essenziale della realtà posta in gioco non potr mai più essere superato da alcun’altra più sublime auto-trascendenza del la storia. E ciò perché in Lui sussiste la ‘telos’ M a pienezza, il ciclo com pleto [τέλη των άιώνων]: 1 Cor 10,11) di tutte le epoche precedenti, i: modo insuperabile e insuperato»92.

Su questo piano storico-culturale, tuttavia, l’attuazione del progetto d: vino di umanizzazione unificante, che corrisponde al passaggio dalVesset uomini in Cristo al diventarlo realmente, il passaggio, cioè, dall·essere inr magine di Cristo sul piano ontologico al diventarlo sul piano etico e stor co, non è sempre sicuro ed indolore. Il processo di umanizzazione unii cante portato avanti dalla mediazione della Chiesa ha modalità di sviluf po e di realizzazione che non sempre traducono alla perfezione il pian teologico. Secondo Isaia (Is 5,1-7), Dio ha un sogno per l’umanità, e si ; spetta che la vigna che egli stesso ha piantato produca dell’uva buon Ma la realizzazione di questo sogno l’ha affidata a dei vignaioli che, inv< ce di coltivare la vigna e portare molti frutti, diventano omicidi, uccida do i servi e lo stesso figlio del padrone della vigna (Mt 21,33-43). Il pr< cesso pedagogico della storia universale di salvezza è pieno di delusioni « ducative divine! Anche secondo la prospettiva dominante della GS, D ha un progetto per la famiglia umana (GS 45), chiamata a trasformarsi : famiglia di Dio {GS 40), secondo un modello di convivenza e di recipr cita, ispirato alla Trinità {GS 24), ma questo progetto, pur avendo un tr guardo escatologico sicuro, è esposto a fallimenti e delusioni. La pienez: di grazia di Gesù, in se stessa, è una pienezza escatologica, che si reali

92 K. Ra h n e r , La cristologia nel quadro di una concezione evolutiva del mondo, in Saggi di cristolo e di mariologia, Paoline, Roma 1965,191-192.

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460 L’antropologia della postmodernità

zerà compiutamente, cioè, solo nella fase degli escatologici cieli nuovi e terra nuova. Fin tanto che questa stessa pienezza si sviluppa nella dimen­sione della storia, nella mediazione della realtà umano-divina della Chie­sa, rimane necessariamente una pienezza frammentaria, parziale e incom­pleta.

E frammentaria, perché i cristiani possiedono un unico Signore (E f 4,5), un’unica fede, un unico battesimo, ma non un’unica cultura o un’u­nica tradizione. E parziale, perché la Chiesa non può abbracciare, nella sua concretezza storica e sacramentale-giuridica, tutta la famiglia umana. Sono diversi i gradi di appartenenza ad essa, e quindi sono anche diversi i ^radi di partecipazione all’unica pienezza della grazia, che è Cristo stesso. E incompleta, perché, sino a quando la Chiesa è il popolo di Dio in cam­mino, sarà sempre Chiesa di peccatori, che ha bisogno continuamente di purificazione (LG 8); sarà sempre protesa verso la pienezza della verità divina (DV 8), senza presentare se stessa come la pienezza stessa della ve­rità, il compimento del cammino religioso dell’umanità. Il disegno prov­videnziale di Dio che si realizza progressivamente attraverso la struttura visibile e sacramentaria della Chiesa, si adempirà definitivamente solo nella Gerusalemme celeste, quando finalmente tutti i popoli saranno riu­niti nella Città Santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cam­mineranno nella sua luce (NAe l)93.

9> «La comprensione cristiana della storia non è un mito, e neppure una ‘meta-narrazione’, ma me- moru passionis, ricordo attuattivo della morte e della risurrezione di Cristo. Considerare la storia in­tera alla luce di Cristo significa dunque comprenderla non solo come storia vittoriosa, ma anche, e soprattutto, come storia della passione. Nella forza della speranza, la comprensione cristiana della storia commemora il ricordo del dolore altrui e prende sul serio l’esperienza della sconfitta, come tie­ne irremovibilmente ferma la speranza nel compimento definitivo. Essa si pone dunque al di là del­l’alternativa tra utopie intrastoriche secolarizzate e svuotamento nichilistico del senso della storia. Si attiene al valore straordinario e all’eccezionale dignità di ogni singola vita umana, e salvaguarda la di­gnità e la miseria deH’uomo. Rende giustizia all’uomo nella sua integrità»: W. Kasper, La Chiesa di fronte alle sfide del postmoderno, cit., 188-189.

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Conclusione

L’UOMO IMMAGINE DI DIO,FULCRO DELL’ANTROPOLOGIA RICENTRATA

Nella ricerca che abbiamo fin qui condotto, dunque, abbiamo analiz­zato le coordinate epistemologiche e culturali dell’antropologia sia della modernità che della postmodernità, e ne abbiamo messo in evidenza le a- porie teoriche e le prospettive storiche, i fondamenti filosofici e le conse­guenze pratiche. Alla luce delle indicazioni magisteriali della Fides et Ra­tio abbiamo indicato anche alcuni principi teologici che, a nostro giudi­zio, possono ricentrare il messaggio cristiano, conservando la fedeltà alla tradizione teologica della comunità ecclesiale e tenendo conto delle istan­ze della complessa stagione della postmodenità. La conclusione che ci sentiamo di tirare dalla nostra analisi critica e dalla nostra proposta teolo­gica, ora, è che la concezione dell’uomo immagine di Dio sia ancora in grado di resistere all’usura del tempo ed alla critica filosofica delle varie appartenenze culturali e possa costituire ancora il fulcro di un’antropolo­gia teologica ricentrata1 Il.

1 Per la storia delle diverse interpretazioni del testo genesiaco suirimmmagine di D io nell’uomo, vedi C. W e s t e r m a n n , Zur Auslegungsgeschichte von Gn 1,26-27, Excursus, in Id ., Genesis, Biblischet Kommentar, A ltes Testament 1/1, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1983\ 203-214; G. A. JÒ NSSO N, The image o f God: Genesis 1:26-28 in a century o f Old Testament tesearch, Almquist and Wiksell Internat, Stockholm 1988; H. MAILLET, Quatorze variationi sur le thème biblique de U créa­tion de l'homme à l’image de Dieu, in Foi et Vie 95 (1996) 57-73. B. W e l t e , L’ateismo d i Nietzsche e u cristianesimo, Queriniana, Brescia 1994,38, osserva chel’immagine di Dio nell’uomo è stata descritta o come io penso = razionalità e spiritualità, o come io voglio = libertà. Il primo m odo si riscontrerei) be nella tradizione cristiana e anche in s. Tommaso, di cui si può citare: «Signatum est lumen vultus tu i Domine super nos» (STh I, q.79,a.4,c). Ciò che, quindi, di Dio è nell’uomo è la luce del suo voltoIl secondo modo si potrebbe trovare nella tradizione greca e anche in Nietzsche. Per una nostra in terpretazione della categoria ‘immagine di Dio’ in rapporto aH’uomo, vedi I. SANNA, L’uomo: un esse re libero e responsabile, in Id ., Fede, scienza e fine del mondo. Come sperare oggi, cit., 128-156.

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462 Conclusione

1. In rapporto alla ricentratura del messaggio cristiano sull’uomo, infat­ti, è nostra convinzione che, se si tiene conto di questi principi appena ac­cennati, fra la concezione dell’uomo della modernità, centrata sul primato del soggetto, della razionalità assoluta, della conoscenza scientifica, degli ideali di libertà e di emancipazione, e la concezione dell’uomo della post­modernità, centrata sul pluralismo etico e veritativo, sull’apologià della differenza risolta nel dominio del nulla, si possa trovare una concezione dell’uomo ‘altra’ e diversa, indipendente tanto dagli assolutismi di una ra­zionalità universale, quanto dai particolarismi della frammentarietà cultu­rale, dell’estetica filosofica, del nichilismo etico. L’antropologia teologica che è in grado di offrire una concezione dell’uomo che integri in una vi­sione superiore ed armonica le istanze sia della modernità che della post­modernità è, a nostro giudizio, quella ereditata dalla tradizione ebraico­cristiana e centrata sulla categoria fondamentale dell’uomo come immagi­ne di Dio. La categoria dell’immagine porta in se stessa la dimensione del- l’alterità, della diversità, della differenza, perché la sua essenza è di essere immagine di un altro e il suo compito è quello di far vedere l’altro. Porta in se stessa anche la dimensione della pluralità e della comunione, perché il Dio che è la ragione della sua iconicità è il Dio Uno in tre persone, è la sorgente della comunione e della reciprocità. Porta in se stessa il riferi­mento a Cristo come ^universale concreto’, perché l’uomo in tanto è im­magine di Dio in quanto è immagine di Cristo e questa immagine di Cri­sto è riflessa sul volto degli uomini di tutte le lingue e di tutte le culture.

Il fatto, poi, che l’uomo sia considerato come immagine non solo per natura ed essenza, ma che anche lo debba diventare sempre di più attra­verso un dinamismo di una progressiva assimilazione che si realizza lungo tutto l’arco della sua vita, esprime molto bene il concetto di immagine in un frammento che si avvia a diventare immagine in un tutto. L’uomo via­tore e pellegrino non possiede mai l’immagine completa, ma solo la sua parziale realizzazione nel tempo e nella storia. L’uomo è una immagine di Dio, ma non /’immagine di Dio. E una fra le molte immagini attraverso le quali Dio si rende presente nel mondo, una immagine finita che non può esaurire la rappresentazione dell’infinito. La chiara fragilità di questa im­magine è documentata soprattutto dalla realtà del peccato, che se anche non distrugge con la sua potenza e la sua malizia l’essenza dell’immagine, ne offusca certamente lo splendore e ne svigorisce la potenza spirituale2.

2 A. J. Heschel, Il canto della libertà, Qiqajon, Magnano 2000, fa opportunamente notare che il

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L’uomo immagine d i Dio, fulcro dell’antropologia ricentrata 46;

2. Il messaggio biblico dell’immagine sottolinea che tutto l’uomo è im magine di Dio, nel senso che la dimensione delFimmagine si estende an che alla realtà corporea e non rimane confinata solo nella realtà spiritila le, e che tutti gli uomini sono immagine di Dio. L’estensione dell’immagi ne a tutti gli uomini, oltre a costituire la base della vera universalità dell natura umana, è anche la base di una vera democraticità ed uguagliare degli uomini. Mentre, infatti, nella tradizione delle religioni orientali sol· i sovrani erano considerati rappresentanti delle divinità nazionali, nell tradizione biblica ogni uomo in quanto tale è una manifestazione di Die L’iscrizione geroglifica della statua di Dario I, eretta presso la porta de suo palazzo a Susa, recita che il re è «immagine vivente del Dio re, imma gine fatta a completa somiglianza del Dio perfetto», risale al 500 ca. avan ti Cristo e cioè allo stesso periodo in cui i sacerdoti del tempio di Gerusa lemme esiliati a Babilonia redigevano il testo veterotestamentario sull’im magine di Dio3. La Bibbia aggiunge a questa democratizzazione dell’im magine anche una dimensione relazionale, interpersonale, coniugale. Gl uomini, cioè uomini e donne, sono immagine di Dio, come precisa il te sto di Gen 1,27 e Gen 5,1: «Dio creò l’uomo a sua imagine, a immagin* di Dio li creò, maschio e femmina li creò». L’immagine di Dio si fonda si una relazione interpersonale e sul riconoscimento della differenza sessua le, per il fatto che la donna non deve essere pensata sul modello dell’uc mo, ma come la sua partner, senza la quale non esiste rapporto di com plementarietà io-tu.

L’immagine di Dio afferma che l’uomo è uomo davanti a Dio. L’uorm ha bisogno dello sguardo d ’un altro per essere veramente se stesso e que sto altro, per l’autore biblico, non può che essere Dio. L’uomo è immagi ne non di se stesso, ma di un Altro che egli non riuscirà mai ad afferrare che gli sfuggirà continuamente. Perché l’altro aspetto dell’immagine c Dio è che Dio, giustamente, non ha immagine. L’uomo allora è l’immagi ne di un Dio senza immagine. Il modello che è all’origine della copia no] è un’immagine originale, bensì un Nome originale, un Dio senza immagi ne, ma non senza storia4. I due termini ebraici che indicano immagine

destino dell’uomo è quello di riflettere l’immagine di Dio e non una sua caricatura. La vera immagir non sta tanto in una adesione esteriore al rito, all’istituzione, bensì nell’intimo della persona, nel sua interiorità.

* Cfr. J.G. H e in t z , Ressemblance et Représentation divines selon l’Ancien Testament et le monde s mitique ambiant, in Aa .Vv ., Limitation, aliénation ou source de liberté?, Actes de la 3° Rencontre c l’École du Louvre, La Documentation Française, Paris 1985, 89-106.

4 Quando noi usiamo l’espressione: l’uomo è «immagine di Dio», applichiamo il termine ‘immag

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464 Conclusione

somiglianza, selem e demut, evocano una copia che esiste solo in dipen­denza dal suo modello. Perciò, il testo biblico intende affermare che per Puomo vivere in dialogo non solo con il suo simile, la donna, ma anche con il suo dissimile, Dio, è una necessità assoluta. Come la copia non si può capire se non in rapporto al suo modello, così non si può compren­dere l’uomo se non in rapporto e in dipendenza da Dio5.

3. Limmagine, se viene considerata dal punto di vista ontologico, ha u- na dimensione personale che mette in rapporto Puomo con il mondo del suo essere e della sua libertà, una dimensione sociale che lo lega al mon­do degli altri sia come singoli che come società, una dimensione cosmica che lo rapporta agli ambiti vitali dello spazio e del tempo.

La dimensione personale dell’immagine mette in risalto la libertà, per­ché la collega con Dio, e quindi permette di rispettare lnaltro’ Dio e ri­spettare anche P'altro’ uomo nell’esercizio della sua libertà. La dimensio­ne sociale dell’immagine mette in risalto la reciprocità, perché la collega alla dignità individuale di ogni singolo uomo e ogni singola donna, e per­mette di rispettare l’altro’ secondo un rapporto di pariteticità e non di dipendenza o di complementarietà. La dimensione cosmica mette in ri­salto la responsabilità, perché la collega al ruolo di luogotenenza divina che l’uomo è chiamato ad esercitare nell’universo creato, e permette di ri­spettare P‘altro’ del mondo, secondo un rapporto di responsabilità.

In modo particolare, la dimensione personale dell’immagine costitui­sce la base teorica e pratica del concetto della dignità dell’uomo, e C oli­

ne’, che ha un significato plastico e raffigurativo, ad una realtà personale e metafisica che si può rap­presentare ed esprimere solo con termini metaforici. In effetti, i termini selem e demut che Gen 1,26- 27 utilizza per indicare l ’immagine con il riferimento al divino non sono gli stessi di pesel e temouna che Es 2 0,4-6, e D t 5,8-10 utilizzano nella redazione del Decalogo, per indicare la proibizione della raffigurazione divina con immagini plastiche. I Settanta, quando tradussero in greco la Bibbia ebrai­ca, hanno utilizzato selem e demut sia per il testo genesiaco che per quello dell’Esodo e del Deutero­nomio, riducendo così il concetto dell’immagine al concetto d’una immagine visiva e plastica. Qual­che studioso dell’antico Oriente, tuttavia, fa osservare che non si può parlare del tema deH’immagine nella Bibbia senza un confronto con le rappresentazioni della divinità nell’antico Oriente: «gli acco­stamenti tra il linguaggio figurato della Bibbia ebraica e le rappresentazioni figurative dell’antico O- riente sono troppo numerosi e troppo pertinenti, perché sia possibile ignorare semplicemente questa pista di ricerca»: J.G. H e i n t z , Ehomme créé à l ’image de Dieu, in Foi et Vie 25 (1986) 53-64, qui 60. Per esempio, il termine assiro-babilonese salmu, che significa immagine, statua, effige, ombra, ha la stessa radice dell’ebraico selem , utilizzato da Gen 1,26.

5 Cfr. J .C O T T IN , L'imago Dei': une réponse à l ’enfermement de l’image, in Nouvelle Revue Théolo- lique 120(1998) 404-418, qui 410.

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Il uomo immagine di Dio, fulcro d e ll antropologia ricentrata 465

centra il fondamento dell’‘umanità’ dell’uomo non nella ‘razionalità’, ap punto, ma nella ‘dignità’ dell’uomo. La cultura e la filosofia dell’Occiden te hanno ristretto i confini della dignità umana entro quelli molto angusti della razionalità e si sono collocate al centro del mondo, stabilendo arbi trariamente che è umano ed universale solo ciò che è razionale, ed identi ficando il razionale con l’occidentale. Il pensiero occidentale, così facen do, si è chiuso alla ricchezza teoretica ed evocativa dell’Oriente e di tutte il terzo e quarto mondo. Il fallimento dell’onnipotenza della ragione ed i terribili insuccessi di questa nei campi della politica, della vita sociale, del progresso morale dell’umanità hanno obbligato la riflessione teologica a ricentrare l’antropologia cristiana sulla categoria della dignità dell’uomo, che trova il suo ultimo fondamento nell’immagine di Dio. L’idea della di gnità dell’uomo è una categoria più universale di quella della razionalità del medesimo, perché essa è aperta a valori che non sono solo quelli ra­zionali ed è aperta soprattutto a molteplici razionalità che non sono solo quelle della filosofia occidentale. La fede cristiana collega questo concet­to di dignità dell’uomo con Dio stesso e quindi con il trascendente, che è allo stesso tempo al di sopra e al fondamento dei valori umani. L’umano in quanto tale è più vasto del razionale in quanto tale e il cristianesimo è alla radice dell’umano non del razionale, perché tutto quello che è auten­ticamente umano è cristiano e tutto quello che è autenticamente cristiano è umano. L’immagine di Dio è al fondamento dell’umano e non può esse­re ristretta nei soli spazi del razionale. L’immagine è evocativa, è plurise- mantica e oltrepassa quello che è solamente razionale6.

4. Proseguendo la riflessione sulle implicanze della dimensione personale dell’immagine, si può affermare che essa contribuisca efficacemente alla di­fesa dell’umanità dell’uomo. Il postmoderno, infatti, non è automaticamen­te postcristiano, per il semplice fatto che modernità in quanto razionalismo non è identificabile con il cristianesimo. Postmoderno può essere conside­rato come postrazionalismo, ma il razionalismo è una riduzione, un impove­rimento della ricca e multiforme tradizione cristiana. Il nemico contro il quale bisogna oggi combattere la battaglia di civiltà non è tanto l’ateismo e quindi il problema di Dio-non Dio, ma quello ancora più elementare dell’u­manità dell’uomo e quindi il problema di uomo-non uomo. La Chiesa si

6 Per un approfondimento delle fonti bibliche e patristiche del tema deH’uomo immagine di D io, vedi A.G. Hamman (ed.), L’uomo immagine somigliante di Dio (1987), Paoline, Milano 1991; P. BÜH- LER (ed.), L’humain à l ’image de Dieu , Labor et Fides, Genève 1989.

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466 Conclusione

trova oggi nella necessità di difendere l’uomo per difendere Dio, mentre prima difendeva Dio per poter difendere l’uomo. Ciò che viene messo a ri­schio dal biocentrismo della cultura radicale e da una mentalità di scienza senza coscienza è proprio Pumanità dell’uomo, quel qualcosa che non si può ridurre a semplice materiale biologico. La scienza, cui oggi si è deman­dato il compito di risolvere ogni problema umano, togliendolo dalla fede o dalla religione, dispone di un concetto 'ridotto’ di vita, che consiste nella pura e semplice vita biologica, senz’altro senso né altro significato che oltre­passi la pura e semplice funzionalità degli organi umani. L’uomo è ridotto a materia prima, alla materia prima più importante, come scrisse Heidegger già nel 1951. La individualità della vita personale è diluita nella genericità della vita biologica, nella pura materia biologica, nella funzionalità organica delle 'parti separate’ dell’uomo. La vita umana è diventata un materiale bio­logico, una materia di ricambio, una riserva di donazione di organi. Se l’uo­mo è ridotto a un prodotto della biologia, tutti lo possono manipolare e non è più inviolabile, mentre se è una persona, rimane un mistero che tutti de­vono rispettare nella sua trascendenza. Prima faceva problema impostare in modo corretto il rapporto uomo-sovrumano, e cioè il rapporto dell’uomo con il soprannaturale, con l’alto, con il divino. Ora fa problema impostare correttamente il rapporto uomo-infraumano, cioè il rapporto dell’uomo con le creature a lui inferiori, con il mondo animale e il mondo delle cose.

5. Rispetto alle creature infraumane l’uomo ha un’apertura all’Assolu­to. E quest’apertura all’Assoluto, quest’apertura al trascendente che è un costitutivo di ogni esistenza umana, in qualsiasi modo e all’interno di qualsiasi esperienza religiosa essa venga concettualizzata, è sempre l’eco della chiamata di Dio. In questo senso, Dio è al fondamento dell’umano e quindi anche della razionalità e della dignità dell’uomo. La razionalità è una componente della dignità, dell’apertura trascendentale, ma non la sola componente. Ciò che sta alla base e all’origine dell’umano è pro­prio la chiamata di Dio. Questa chiamata può essere percepita con la ra­gione o con la volontà, con l’intelligenza, sensibile al vero, o con la vo­lontà, sensibile al buono. Ma verum et bonum in Deo convertuntur. In Dio c’è unità di verità e di bontà. Nell’uomo c’è differenza cronologica e assiologica per quanto riguarda la percezione del vero e del bene. Si può partire dal vero per arrivare al buono o si può partire dal buono per arrivare al vero7. Dove questi due itinerari si incontrano, però, è la

7 Cfr. P . DASSELEER, Lexpérience du beau et la connaissance naturelle de Dieu, in Nouvelle Revue Théologique 120(1998) 419-439.

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Uuomo immagine d i Dio, fulcro dell’antropologia ricentrata 46:

preghiera, perché solo essa congiunge l’uomo con l’Assoluto, lasciandi l ’Assoluto che sia Assoluto e l’uomo che sia uomo. È vero che i ciel narrano la gloria di Dio e che tutte le creature della terra e del mare lo dano il Signore. Ma solo l’uomo può pregare, può invocare, può ringra ziare, può stabilire un rapporto interpersonale con l’Assoluto e chiama re Dio suo Padre.

Dio, in effetti, è «colui che chiama» (Rom 9,11; Gal 5,8; 1 Pi 1,15) colui che chiama per nome (Is 45,4). Anche Gesù è colui che chiami (Me 3,13), e solo quando chiama per nome viene riconosciuto com< Gesù (Gv 20,16). Ma se la chiamata è universale, perché tutti sono chia mati, la risposta è personale, perché ognuno deve dare la sua risposti individuale alla sua vocazione personale. Il fatto che Dio chiami per no me e che noi non chiamiamo per nome mette in evidenza che colui ch< chiama è sempre superiore rispetto a chi è chiamato; che Egli chiami per nome e non per natura o essenza o specie; che noi, invece, non riu sciamo a chiamare per nome, ma per nomi. I nomi sono diversi, perchu diverse sono le esperienze umane da essi impersonate. Nessuno possie de Dio, nel senso che nessuno ha concetti definiti e definitivi su di Lui perché sono diversi i ‘nomi divini’ con i quali Egli è universalment< chiamato e pregato. Dio, invece, possiede tutti, perché egli ha un’ide* di tutti, ed ha un progetto di salvezza per tutti, Se l’uomo ha una ‘idea di Dio e la ritrova realizzata nella storia di Cristo, Dio ha un’idea del l’uomo e la realizza nell’incarnazione di Cristo. Cristo diventa, allora, le specchio dell’uomo. Egli, l’immagine perfetta di Dio (2 Cor 4,4; Co 1,15), è il fondamento e la guida perché l’uomo arrivi a scoprirsi nell· sua vita come immagine sua (Rom 8,29; 1 Cor 15,49; 2 Cor 3,18) e, d conseguenza, come immagine di Dio (Col 3,10). Il fatto, tuttavia, ch< l’uomo sia immagine di Dio e che la sua esistenza sia pervasa dalla gra zia e dalla presenza di Dio, non comporta automaticamente che egl possieda l’Assoluto o possiedala verità assoluta. Egli deve cercarel’As soluto e deve cercare la verità assoluta. E questo Assoluto si lascia tro vare in modo definitivo solo nel passaggio della morte, che dischiude h porta dell’eternità.

L’uomo, dunque, non possiede l’Assoluto, ma è aperto all’Assoluto. I lo stesso si può dire del suo rapporto con Gesù. Egli non possiede Gesù ma è aperto all’incontro con Gesù. Infatti, per conoscere Gesù, la vera < perfetta immagine del «Dio invisibile, che nel suo grande amore parla a gli uomini come ad amici» (DV 2), dobbiamo conoscerci nel nostro esse re immagine e somiglianza di Dio, perché «la storia di vita attuale dei cri stiani è un quinto vangelo: appartiene anch’essa al cuore della cristolo

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468 Conclusione

già»8. Ma è vero che noi non ci conosceremo mai esaurientemente in tutte le pieghe della nostra esistenza. Anche se viviamo nell’epoca delle rispo­ste possibili, le domande eccedono le risposte, e la domanda sull’uomo eccede qualsiasi risposta umana. Soprattutto per la domanda sull’uomo vale quanto ha scritto Jung e cioè che «noi dobbiamo certo credere alla ragione, ma essa non dovrebbe impedirci di riconoscere un mistero, quando ci si fa incontro»9. Il mistero dell’uomo rimane in tutta la sua drammaticità ed attualità, così come del resto rimane il mistero della per­sona di Gesù, e non può essere razionalizzato o banalizzato. Quando, nella ricerca di capire chi fosse veramente Gesù da parte dei discepoli, sorsero delle risposte, Gesù impose subito il silenzio (Me 1,24-25; 1,43- 45; 8,30), come a dire che il mistero della sua persona deve rimanere tale, con tutto il suo carico di ambiguità e di contrasto, destinato a sovvertire l’ordine normale delle conoscenze e delle soluzioni. Un mistero che per­mane in tutta la sua consistenza e che fornisce all’uomo di tutti i tempi più ragioni di speranza che modalità di comprensione.

6. In definitiva, nella concezione iconica dell’uomo e del mondo, propria della religione cristiana, l’Assoluto entra nella storia e la redime, pur rima­nendo altro e sovrano rispetto ad essa; la Gloria si partecipa ai giorni degli uomini aprendoli al dono della vita eterna; l’alleanza unisce Dio con l’uo­mo e l’uomo con Dio. Tutti questi elementi che sono in grado di integrare i contrasti e di mettere in rapporto di correlazione gli opposti configurano, di fatto, un’antropologia teologica che meglio rispetta la sensibilità e le i- stanze del postmoderno e che può essere definita, con le parole del teologo napoletano Bruno Forte, un’«antropologia dell’eternità nel tempo»10. Ri­spetto al razionalismo assoluto della modernità, quest’antropologia, per un verso, si pone in maniera necessariamente critica. Il senso dell’assoluta tra­scendenza di Dio e della sua signoria sulla storia, infatti, si oppone ad ogni

8 E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo storia di una prassi, Queriniana, Brescia 1980, 8.9 C.G. JUNG, Esperienza e mistero, Bollati Boringhieri, Torino 1982, 105.10 Cfr. B. FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio d i antropologia ed etica sacramentale (1993), San Pao­

lo, Cinisello Balsamo 19992. Per un commento della proposta antropologica fortiana, vedi C. RO C­

CHETTA, L’antropologia cristiana tra identità e differenza. In margine al libro di Bruno Forte ‘i l eternità nel tempo’, in Vivens Homo 4/2 (1993) 315-335. L’impostazione del teologo napoletano, già presente in qualche modo nelle tematiche teologiche di D. Bonhoeffer e di H. U. von Balthasar, è ribadita dal testo della Fides et Ratio , che noi abbiamo già citato: «L’Incarnazione del Figlio di D io permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto del­l’uomo».

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Duomo immagine di Dio, fulcro dell’antropologia ricentrata 469

enfatizzazione indebita delle possibilità del soggetto umano. L’uomo sta davanti aH’Eterno come creatura - del tutto limitata e contingente - dinan­zi al Creatore. Per un altro verso, essa non nega l’istanza positiva dell’an­tropologia della modernità, che mette in particolare risalto l’infinita dignità del soggetto storico. Il valore della creatura umana è tale che, per amore suo, Dio non esita a compiere il gesto del dono totale, indeducibile e perfi­no scandaloso, del ‘dare’ il suo Figlio unigenito (Gv 3,16)11. L’affermazione della costitutiva dignità dell’uomo, poi, difesa e promossa da quest’antro­pologia, rifiuta ogni concezione nichilista dell’essere umano. Quest’uomo, in quanto partner di Dio, è artefice del proprio destino in comunione con gli altri, ma è anche colui che pecca e colui che soffre, messo alla prova ed esposto alla permanente insidia dell’angoscia e del nulla.

Nell’antropologia dell’eternità nel tempo, il rapporto che l’immagine instaura tra l’uomo e Dio non annulla la differenza e l’alterità tra i due soggetti, ma le garantisce in una misura che è asimmetrica e dialettica allo stesso tempo. E asimmetrica, perché Dio è incommensurabilmente altro e sovrano rispetto all’uomo, il quale è e resta sua creatura. Questa trascen­denza di Dio, lungi dal far concorrenza alla creatura, costituisce la condi­zione di possibilità della sua libertà e, perciò, ne fonda l’autentica dignità. È dialettica, perché i due poli divino e umano non si elidono reciproca­mente, ma si tengono in reciproca tensione, pur nell’infinita distanza e i- neguaglianza, secondo un movimento di negazione, di affermazione e di superamento del tempo nell’eternità. L’impronunciabilità del nome di Dio afferma la trascendenza e l’inafferrabilità dell’essenza divina e contraddice ogni presunta possibilità per l’uomo di catturare l’eterno, fondando il con­seguente dovere di rapportarsi al mistero sempre in tutta umiltà e rispetto.

La radicazione ultima del rapporto tra l’uomo e Dio, ossia fra l’antropo­logia dell’identità, propria della modernità, e quella della differenza, pro­pria della postmodernità, è ovviamente costituita dalla persona di Gesù Cristo, «la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (GS 10). È in essa che l’uomo trova rispecchiata la propria identità e trova rispecchiato anche il rapporto più autentico fra identità e differenza, perché nell’uomo Gesù Cristo, il cielo e la terra, l’eternità e la storia, la divinità e l’umanità si sono incontrati senza mai confondersi ed annullarsi reciprocamente. Nella persona di Gesù, il Verbo incarnato, «trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22). È a partire da Lui che il pensiero umano si è aperto a riconoscere la centralità della persona umana e la sua irriducibile dignità, come misura dell’autenticità di ogni impegno per l’uomo e la comunità degli uomini. 11

11 Cfr. B. FORTE, Dove va il Cristianesimo?, cit., 114-115.