Diritto Fallimentare

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14.10.2008 Del presupposto soggettivo se ne occupano varie norme tra cui molte contenute nella legge fallimentare e una contenuta nel c.c. all’art 2221 che peraltro fa salve le leggi speciali. Nel finale avevamo visto il riferimento alla categoria dei soci tipologicamente illimitatamente responsabili di cui all’art. 147, articolo che alla fine nel quinto comma codifica quella che era la giurisprudenza circa la fallibilità delle società occulte, con soci occulti, tranne uno che è noto. Il fondamento della fallibilità di questi soci non è l’affidamento dei terzi perché altrimenti non si spiegherebbe il quinto comma, né la previsione del quarto comma. L’inserzione di questo quinto comma crea una particolare modifica del sistema, se non altro ai fini dell’esposizione al fallimento, non occorre la spendita del nome per essere considerati imprenditori. Presupposto oggettivo L’art 2221 del c.c. dice che sono soggetti alle norme sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori, che esercitano un’attività commerciale, in caso di insolvenza. L’art.2221 non ci da una definizione di insolvenza, nozione che noi troviamo nella legge fallimentare all’art. 5, articolo non modificato dalle ultime riforme. Articolo 5 Stato d'insolvenza . L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. L’art 2221 è sfasato rispetto alla normativa concordataria perché l’art. 160 che è la prima norma sul concordato preventivo, strumento classico ancorché fortemente innovato, non prevede più come presupposto soggettivo lo stato di insolvenza, ma lo stato di crisi. Tale articolo all’ultimo comma specifica “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”, comma introdotto con una legge finanziaria, perché si era affermata una interpretazione per la quale stato di crisi e stato di insolvenza erano ritenuti concetti del tutto estranei l’uno all’altro, ed era stato proprio il Tribunale di Treviso ad affermare questa tesi assurda: assurda perché siccome lo stato di crisi è meno che lo stato di insolvenza, non si sa bene cos’è lo stato di crisi, per il quale non c’è una definizione, e si 1

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14.10.2008Del presupposto soggettivo se ne occupano varie norme tra cui molte contenute nella legge fallimentare e una contenuta nel c.c. all’art 2221 che peraltro fa salve le leggi speciali. Nel finale avevamo visto il riferimento alla categoria dei soci tipologicamente illimitatamente responsabili di cui all’art. 147, articolo che alla fine nel quinto comma codifica quella che era la giurisprudenza circa la fallibilità delle società occulte, con soci occulti, tranne uno che è noto. Il fondamento della fallibilità di questi soci non è l’affidamento dei terzi perché altrimenti non si spiegherebbe il quinto comma, né la previsione del quarto comma. L’inserzione di questo quinto comma crea una particolare modifica del sistema, se non altro ai fini dell’esposizione al fallimento, non occorre la spendita del nome per essere considerati imprenditori. Presupposto oggettivoL’art 2221 del c.c. dice che sono soggetti alle norme sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori, che esercitano un’attività commerciale, in caso di insolvenza. L’art.2221 non ci da una definizione di insolvenza, nozione che noi troviamo nella legge fallimentare all’art. 5, articolo non modificato dalle ultime riforme.

Articolo 5 Stato d'insolvenza. L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

L’art 2221 è sfasato rispetto alla normativa concordataria perché l’art. 160 che è la prima norma sul concordato preventivo, strumento classico ancorché fortemente innovato, non prevede più come presupposto soggettivo lo stato di insolvenza, ma lo stato di crisi. Tale articolo all’ultimo comma specifica “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”, comma introdotto con una legge finanziaria, perché si era affermata una interpretazione per la quale stato di crisi e stato di insolvenza erano ritenuti concetti del tutto estranei l’uno all’altro, ed era stato proprio il Tribunale di Treviso ad affermare questa tesi assurda: assurda perché siccome lo stato di crisi è meno che lo stato di insolvenza, non si sa bene cos’è lo stato di crisi, per il quale non c’è una definizione, e si considera come una tensione nei conti dell’impresa, una difficoltà legata a uno squilibrio nell’indebitamento.Lo stato di crisi è una situazione di difficoltà finanziaria, di flusso di liquidità che però non significa necessariamente insolvenza, fermo restando però che lo stato di insolvenza è sicuramente stato di crisi. Conseguenza aberrante era che affermando l’assoluta estraneità dei due concetti l’imprenditore che aveva uno stato di crisi grave perché insolvente non avrebbe potuto ricorrere al concordato preventivo, non poteva quindi non fallire.L’insolvenza dunque è uno stato di crisi che si è incancrenito, portando alla situazione di cui all’art. 5 secondo comma. La norma non dice che cos’è a dir la verità lo stato di insolvenza, ma dice come di manifesta ai terzi: si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori, fatti che devono essere percepiti dai terzi. Questi fatti devono inoltre dimostrare che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Questa nozione sostituisce quella della vecchia legge fallimentare, che in realtà era contenuta nel codice del commercio del 1882: la vecchia disciplina faceva dipendere il fallimento dalla cessazione dei pagamenti del commerciante, cioè l’inadempimento era considerato un tutt’uno con la situazione di decozione (insolvenza) che porta al fallimento. Ma ci si è resi conto che la cessazione dei pagamenti non è sinonimo di insolvenza: perché uno può non pagare perché non vuole e non necessariamente perché non può ( e il caso del cattivo pagatore), magari perché nel frattempo i soldi necessari per pagare sono investiti in qualche prodotto molto più redditizio rispetto agli interessi moratori che dovrò pagare al creditore nel frattempo. Di volta in volta perciò bisognerà valutare la circostanza in cui maturerà il mancato pagamento, valutando anche il Registro Informatico dei Protesti.D’altra parte non si può nemmeno dire che chi adempie sia necessariamente solvente: bisogna fermarsi sull’avverbio “regolarmente”, il quale indica i mezzi regolari, ordinari dell’impresa, cioè la

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liquidità che l’impresa si procura via via attraverso l’attività d’impresa. Pagare allora non vuol dire necessariamente ricorrere ai mezzi ordinari dell’impresa perché si può pagare in molti modi, con l’indebitamento eccessivo, con l’indebitamento con gli strozzini, modi tutti rovinosi che portano necessariamente alla cessazione dell’attività. Il problema è che questi mezzi non sono sempre noti alla generalità dei terzi, ma solo all’imprenditore e quindi il problema diventa quello di far emergere al più presto l’insolvenza con la possibilità di attivare le procedure che servono ad evitare il fallimento stesso.Art. 67 legge fallimentare: articolo dedicato alle revocatorie. In questo articolo si parla di “prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso”, questo perché il 25% è stato assunto dalla giurisprudenza e poi codificato dal legislatore come la soglia oltre la quale vi è il bisogno sfrenato di liquidità. Prima si utilizzava l’avverbio notevolmente, che qui era più indicato perché ogni volta che si introduce una soglia, sappiamo che introduciamo un elemento di rigidità. Il notevolmente consentiva al giudice di apprezzare e valutare il singolo caso. Poi è previsto che “sono revocati, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato d'insolvenza del debitore: 2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento”. Qui si parla di atti estintivi e non di pagamenti che vengono effettuati in denaro perché si fa riferimento tipo alla datio in solutum, in genere pagare un debito di denaro con mezzi diversi dal denaro è evidentemente espressione di mancanza di liquidità.Altre situazioni di normalità possono essere quelle del n. 3 “i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti”: questo vuol dire che si era partiti con un debito non garantito contando nel cash flaw che era la garanzia del creditore, ma poi si chiede una garanzia reale prima ancora che il debito sia scaduto perché sento che il soggetto avrà difficoltà a pagare e lui me la concede perché altrimenti lo faccio decadere dal beneficio del termine. Al n. 4 sono indicati anche garanzie date per debiti scaduti. Sono tutte situazioni qui fotografate come atti revocabili, come atti anomali dell’impresa che ci possono dare l’idea di cosa voglia dire soddisfare regolarmente le obbligazioni assunte. Molte volte si dice che non c’è insolvenza finché il creditore riceve credito, credito che si può ricevere anche dallo stesso creditore. In genere un imprenditore non ha mai rapporti con una sola banca e non di rado succede che per tappare un buco da una parte si chiede l’aumento di fido dall’altra, e non sempre le banche si parlano tra loro. Dopo Basilea 2 dovrebbe essere un po’ più difficile concedere credito a soggetti non molto stabili economicamente.Non sempre avere credito dai propri creditori è sinonimo di salute e le circostanze vanno verificate.Naturalmente la regolarità va valutata in maniera dinamica: non è la statica che ci interessa, quindi un bilancio in cui abbiamo un saldo passivo non significa che il soggetto sia insolvente. Ciò che conta è la liquidità di volta in volta necessaria, procurata con mezzi ordinari. L’essenziale è il flusso di redditi. Se il soggetto è insolvente ai sensi dell’art. 5 si va a vedere però se l’indebitamento non eccede i 500.000 e allora ancorché insolvente non fallisce, perché lo si ritiene antieconomico. Dall’altro lato non si può nemmeno dire che un bilancio con un attivo reale di molto superiore al passivo sia sintomo di non insolvenza.La giurisprudenza afferma l’esubero del passivo sull’attivo non rileva a meno che non si tratti di un debitore in liquidazione, perché se ci troviamo di fronte a una tale impresa che non esercita più l’attività allo scopo di conseguire nuovi utili, e in tal caso si avrà insolvenza.Questa cosa però va presa con le molle perché oggi sappiamo che la delibera che mette in stato di liquidazione la società nel stabilire i poteri dei liquidatori, può stabilire la continuazione provvisoria dell’impresa o di un ramo della stessa ad opera dei liquidatori, in funzione della conservazione dell’avviamento per il miglior risultato della liquidazione stessa. Anche qui quindi bisognerà vedere nel singolo caso lo stato di liquidazione della società stessa.

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Insomma l’insolvenza è una situazione da valutare dinamicamente in funzione non di parametri assoluti e statici.

21.10.2008Art.5 stato di insolvenza: l’insolvenza non è riconducile a un situazione statica ma dinamica. L’esubero passivo sull’attivo non vuol dire che l’imprenditore sia insolvente. Quello che conta è che l’imprenditore sia in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, dove per regolarmente si intende riferito sia al tempo, sia al mezzo, dove il mezzo è l’ordinaria liquidità dell’impresa ovvero il credito che l’impresa riceve da terzi o dai suoi creditori.Nella pratica si parla di consolido, o consolidamento per indicare il tempo in cui diventa ad esempio un’ipoteca per un mutuo concesso dalla banca, irrevocabile in ipotesi di fallimento del soggetto che ha ricevuto la somma di denaro; ciò vuol dire che non può più essere resa inefficace e che quindi la banca trascorso tale periodo gode del privilegio. Sono tutti concetti che vanno bene per un’impresa corrente, quando l’impresa è in liquidazione il discorso cambia un po’ perché in tale fase l’eccesso di passivo sull’attivo può essere significativo.Lo stato di insolvenza è preceduto dallo stato di crisi, che è quello stato che mi consente di accedere alle procedure come il concordato preventivo che servono ad evitare lo stato di insolvenza. La crisi intesa come tensione finanziaria non è definita dalla legge perché il legislatore vuole lasciare che l’accesso alle procedure volte ad evitare il fallimento sia il più pronto e agevole possibile.Il problema non è tanto che sia dichiarato il fallimento ma è importante che il tutto avvenga nei tempi giusti, per evitare di accrescere la situazione disastrosa dell’impresa. In passato il concordato preventivo aveva lo stesso presupposto del fallimento (stato di insolvenza) e quindi consisteva in un differimento della procedura di fallimento, dilatando in questo tempo ulteriormente i debiti e quindi lasciando ben poco nel patrimonio al momento della effettiva dichiarazione di fallimento. Il legislatore con la riforma ha sciolto questa situazione ponendo come requisito per il concordato lo stato di crisi, che non è situazione di insolvenza. Oggi l’insuccesso di un concordato preventivo non determina necessariamente un fallimento. Il legislatore si è reso conto che il problema delle imprese non è di punire ma di salvare il salvabile e questa preoccupazione del legislatore che ha portato alla privatizzazione delle procedure concorsuali ha portato a un fallimento simile a quello prima della legge del 1942. Infatti oggi si cerca di tornare a un privatizzazione che è ispirata all’idea che trattandosi di tutela del credito, è giusto che se ne occupino debitore e creditore e non lo Stato.

Articolo 6 Iniziativa per la dichiarazione di fallimento. Testo modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006 n.5, in vigore a partire dal 16 luglio 2006. Quindi fino al 15 luglio 2006 vige : “ Il fallimento è dichiarato su richiesta del debitore, su ricorso di uno o più creditori, su istanza del p.m. oppure d’ufficio”. Si può notare che è sparita la possibilità di procedere d’ufficio, cosa che non era molto appartenente al diritto civile. Il procedimento officioso si trova nell’ambito penale. L’idea che il fallimento fosse una sanzione afflittiva in qualche modo restava in questa officiosità del procedimento, anche se questo aspetto così criminale era stato sostituito dal dirigismo economico: le imprese malate debbano essere eliminate dal mercato e questo deve essere deciso non dal mercato ma dal politico che presiede al mercato. L’idea era che il fallimento serve un interesse non dei privati e degli imprenditori, ma un interesse pubblico che il mercato sia basato su imprese sane. Il fallimento d’ufficio non era portato alle estreme conseguenze perché da sempre esiste ed è sempre esistito l’art.118 della legge fallimentare, che disciplina i casi di chiusura del fallimento: il primo caso si ha se nel termine stabilito per le insinuazioni non sono state proposte domande di immissione nel passivo. Se nessuno si presenta a chiedere di essere pagato non puoi per forza tenere aperto un procedimento, in base anche al principio di economicità del processo.Ora se le banche mi concedono i soldi per pagare il piccolo creditore che aveva presentato ricorso, così la procedura viene chiusa perché non ci sono altre richieste dei creditori e viene fatta quindi la desistenza se ha solo fatto il ricorso. Prima appena fatta la desistenza veniva immediatamente aperta la procedura d’ufficio, perché si era in presenza di una possibile bancarotta preferenziale.

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Ora questo non è più possibile. Queste procedure venivano definiti concordati stragiudiziali definiti nulli dalla giurisprudenza per violazione di legge. E’ comunque sempre prevista, oggi, l’istanza da parte del p.m., il quale è un soggetto che interviene anche nell’ambito civile a tutela dell’interesse coinvolto. Questo p.m. è un soggetto che avendo comunque il potere di fare la richiesta di fallimento, ha comunque l’iniziativa anche “quando l'insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile (vecchia situazione del fallimento d’ufficio), oppure ha l’iniziativa quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore” cioè in casi in cui c’è il pericolo del compimento di atti criminosi puniti cioè dalla legge fallimentare con reati propri. Prima della riforma c’era la possibilità di richiedere il fallimento dal p.m solo nel caso in cui ci fossero fatti sintomatici del crimine punito dalla legge fallimentare che esige il fallimento come requisito per la imputazione della bancarotta fallimentare, b. fraudolenta ecc..Di fatto il procedimento d’ufficio non è che se è stato eliminato rientra nel potere del p.m. perché certo che il p.m ha un dovere generale di tutelare l’interesse pubblico ma è già un filtro e quindi non è detto che una volta presentati gli atti in procura venga fatta richiesta di fallimento.Esempio: nel caso del fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa deve essere proposta entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, è stato quindi privilegiato la tutela della pubblicità dei terzi. E’ una6 regola che è stata modificata in ordine alla fattispecie: ante riforma si prevedeva la cessazione in fatto, adesso si parla di cancellazione dal registro delle imprese. Il principio di effettività ritorna al secondo comma, dove si dice “In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma”.…alcune precisazioni sull’imprenditore cessato…Se la qualità di imprenditore è elemento costitutivo della fallibilità (esposizione al fallimento), il venir meno di questa qualità dovrebbe significare il venir meno della esposizione al fallimento. In realtà da sempre il legislatore ha considerato che il fatto della cessazione è nella disponibilità dell’imprenditore stesso, sia che sia una persona fisica che sia una società. Potendo questo fatto essere deciso dall’imprenditore e siccome il fallimento è una procedura esecutiva di diritto speciale e siccome c’è di mezzo l’interesse anche dei terzi, il legislatore ha sempre ritenuto che non si possa rimettere la decisione della fallibilità alle esclusive mani del soggetto fallibile e siccome la fallibilità è collegata all’esercizio dell’impresa la fallibilità non può senz’altro venir meno con la fine dell’impresa perché questa è nelle sole mani del fallito. Non si tratta di sganciare l’inizio dell’impresa dall’esposizione alla fallibilità, ma viene sganciata dall’esposizione alla fallibilità la fine dell’impresa, altrimenti si lascerebbe la procedura in mano all’imprenditore stesso.Chiedere il fallimento comporta un generale effetto di separazione patrimoniale: il legislatore ha dato un anno di tempo per far operare la separazione del patrimonio del cessato (art.11), come se in quell’anno l’impresa esistesse ancora. Prima della riforma si parlava di cessazione, la quale essendo valutata secondo il principio cardine dell’impresa dell’effettività dominava anche nella cessazione dell’impresa: questa si può ritenere cessata quando si ha la disorganizzazione completa dell’azienda, attraverso la vendita a qualcuno o liquidandola. Si passava poi alle società: sono un problema perché si diceva che la società è impresa, cioè il primo atto di organizzazione dell’impresa societaria è la costituzione della società, attraverso un negozio giuridico. Simmetricamente verrebbe da dire che la cessazione dell’impresa societaria si verifica allorquando si chiede la cancellazione dal registro delle imprese della società. Ma qui i giudici sostenevano bisognasse distinguere tra società di persone e società di capitali, perché per le prime l’iscrizione nel registro non ha efficacia costitutiva e perciò non si può dire che la cancellazione sia costitutiva dell’estinzione dell’impresa societaria. Quindi si considerava cessata l’impresa quando è totalmente disgregata, cioè quando

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sono terminati tutti i rapporti con i terzi, quindi quando sono stati pagati tutti i creditori sociali. Quindi la società cancellata non è estinta.Questa idea era talmente forte che la giurisprudenza la estendeva anche alle società di capitali dove l’iscrizione è costitutiva, e quindi non considerava altrettanto costitutiva la cancellazione. In relazione all’art. 10, l’anno di decadenza non cominciava mai a decorrere, o meglio decorreva dal pagamento dell’ultimo debito sociale, momento a partire dal quale non c’erano più creditori e quindi non aveva più senso. Quindi la Corte Cost., nel 2000 con la sentenza n. 319, stabilì che il principio di certezza delle situazioni giuridiche va valutato rispetto all’interesse dei terzi che verrebbero colpiti dal fallimento e quindi ci deve essere un termine chiaro dal quale far decorrere il termine di un anno che decorre dal giorno di cancellazione del registro delle imprese. Questo è un criterio idoneo a ripristinare il principio di certezza delle situazioni giuridiche, a cui ha interesse il mercato nel suo complesso.

28.10.2008

Problematiche soggettive (art. 10): in base al principio di certezza delle situazioni giuridiche, la Corte Costituzione con la sentenza 319/2000 aveva stabilito che la fallibilità non poteva essere dichiarata oltre l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese. Questa regola del primo comma va ragguardata con quella del secondo comma e cioè che in ossequio alla, ritenuta generale, efficacia dichiarativa della pubblicità sul registro delle imprese, è possibile dimostrare per il creditore e p.m. il momento della effettiva cessazione ovviamente successivo a quello risultante dal registro, in modo che il termine di un anno viene fatto slittare in avanti, allo scopo di rendere ancora possibile il fallimento dopo l’anno dalla cancellazione del registro.Il problema riguarda le società non iscritte: ovviamente non sarà una società di capitali ma una società di persone,la quale seguirà le regole della società semplice. Problema che si è posta la Corte costituzionale è se le società irregolari, che dovrebbero essere comunque marginali, ovvero gli imprenditori che non si sono iscritti nel registro dell’impresa violando i loro obblighi, se questi potevano o no beneficiare della sentenza della Corte Costituzionale e quindi se il principio dell’anno vale o no anche per questi soggetti. Una soluzione è che se non hai voluto iscriverti non puoi beneficiare di questa norma dell’anno: ma è una soluzione non accettabile in un ottica commerciale perché il problema che la Corte Costituzionale ha messo in rilievo è la tutela dei terzi. Nell’ambito civilistico nemmeno l’annullamento del contratto è opponibile ai terzi in buona fede.Ci possono essere rapporti esauriti (c’è il pericolo della revocatoria), rapporti conclusi nella loro esecuzione ma che hanno lasciato un credito, rapporti ancora aperti. Tutti questi soggetti possono essere contro la dichiarazione di fallimento e quindi favorevoli al fatto che il tempo decorra più in fretta possibile. Il problema non è l’equità per il singolo caso a l’equità per la generalità dei soggetti.La giurisprudenza che si è posta il problema dopo la Corte Costituzionale, ha sicuramente affermato la necessità di far operare il termine di un anno anche per i soggetti non iscritti. Se il soggetto non era iscritto però gli deve essere data la possibilità in primo luogo ad egli stesso di opporre ai terzi il fatto che ha cessato l’attività da più di un anno.Ad esempio c’era una caso in cui un soggetto aveva trasferito l’attività: qui c’era di mezzo un atto portato a conoscenza dei terzi con un mezzo idoneo a rendere a conoscenza i terzi della cessazione dell’attività.Il principio di certezza delle situazioni giuridiche esige che i terzi sappiano con precisione fino a quando il loro debitore è esposto a fallimento.Ipotizziamo che ci sia un creditore che ricorre, cioè che fa la richiesta di fallimento, nei cui confronti però il debitore riesca a dimostrare che l’anno è già trascorso, non con la cancellazione nel registro delle imprese ma con la pubblicità di fatto. Di conseguenza il Tribunale deve respingere il

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fallimento perché è già scaduto il termine. Ma ci possono essere anche altri creditori che erano stati dimenticati nella comunicazione del dies a quo, ma i quali non hanno fatto richiesta di fallimento; se ci fosse la dichiarazione d’ufficio e quindi prima del 16 luglio 2006 il Tribunale poteva dichiarare tranquillamente il fallimento perché poteva dimostrare che c’erano i presupposti e riteneva di dover tutelare gli altri creditori dichiarando il fallimento, anche se poi il fallimento veniva chiuso perché nessun creditore nel termine stabilito presentava domanda di insinuazione, ma intanto la dichiarazione c’era.Il venir meno della dichiarazione d’ufficio comporta oggi che il giudice non si può più occupare della tutela dei terzi: questa è una delle conseguenze della privatizzazione delle procedure di fallimento. Privatizzazione e contrattualizzazione, uno dei grandi problemi delle procedure concorsuali per evitare il fallimento era questo della contrattualizzazione, ma al di la non erano veri e propri contratti, ma si concretizzava più in una omologazione del giudice, cioè del Tribunale fallimentare. Oggi si può dire che la privatizzazione va di pari passo con la contrattualizzazione, cosa però non molto positiva perché contrattualizzare le procedure sottraendole all’autorità giudiziaria da si più respiro ai privati, ma ci sono anche i creditori deboli che vengono lasciati privi di tutela, approfittandone i creditori forti. L’omologazione avrebbe dovuto servire per farsi carico delle ragioni di chi non poteva prevalere nel potere contrattuale.Nelle procedure concorsuali il censo è rappresentato dall’entità del credito: chi più ha credito più conta. E’ evidente che in tutti questi accordi basati sul principio corporativo censitario, le banche finivano sempre per prevalere.AUTO-FALLIMMENTONell’istruttoria prefallimentare, i primi provvedimenti presi sono quelli di portare i libri in Tribunale. Ma quando un soggetto porta spontaneamente un libro in tribunale si ha l’auto fallimento. C’è dunque un diritto di fallire? Evidentemente no!Nel suo complesso il fallimento non è disponibile perché è una deviazione dai principi generali che si giustificano in presenza di determinato presupposti. C’è un diritto di chiederlo ma non c’è n diritto ad ottenerlo. Ma c’è un obbligo di chiederlo? Il tutto dipende dall’art. 217 – Bancarotta semplice – all’interno del quale si vede che al n. 4 È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell'articolo precedente:…4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; …Da questo articolo si deduce l’obbligo di chiedere tempestivamente il proprio fallimento da parte dell’imprenditore allo scopo di non aggravare il proprio dissesto, conoscendo egli il proprio stato di dissesto.La legge vuole attraverso questa minaccia, che non ha mai funzionato, far si che i creditori già lesi da una situazione di dissesto vengano lesi ancora di più dal fatto che il fallimento non venga dichiarato. Questa logica vorrebbe che i famosi fatti esteriori dell’art.5 fossero ampiamente conosciuti e conoscibili. Esempio potrebbe essere una azione esecutiva mobiliare: fatta perché il debitore non ha pagato e il creditore si è stancato di aspettare. Ma non esiste un registro delle esecuzioni mobiliari. Nemmeno le banche riescono sempre a saperlo.Nella vecchia legge fallimentare c’era l’obbligo di comunicare tutti i protesti, da parte del Presidente del Tribunale, ogni 15 gg. alle camere di commercio. Poi è stato creato il registro informatico. Ma allora uno sta attento a non farsi protestare.E’ stata scelta un’altra via diretta a favorire gli accordi che cercano di eliminare l’insolvenza, più che portarla tempestivamente a conoscenza di tutti: i concordati stragiudiziali, che la legge ha sottratti dall’area del sommerso e li ha giuridicizzati.

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Il concordato preventivo che è l’ultima spiaggia per evitare il fallimento, da noi, è accessibile su domanda dell’imprenditore, non dei suoi creditori, quindi anche se lo sapessero tutti non si potrebbe fare molto perché può chiederlo solo l’imprenditore.Siamo ancora in una situazione molto carente sotto il profilo dell’anticipazione del fallimento o della conoscenza dello stato di insolvenza allo scopo di evitare il danno.Il problema sta nel fatto che non possiamo mettere il fallimento in un mercato non certamente santo in mano ai creditori, perché così socializziamo l’impresa. Il legislatore spera che privatizzando il fallimento, spinga i creditori più forti (cioè le banche ) a porre in essere i tentativi per porre rimedio all’insolvenza, e qualora ciò non avvenga la strada scelta sia quella della dichiarazione del fallimento perché tanto prima si dichiara tanto meglio è, e non effettuino la scelta di perseguire i debitori, facendo così trascorrere ulteriore tempo.

04.11.2008

AVVIO DEL PROCEDIMENTO Il processo di fallimento assomigliava più al processo penale che civile già nella fase di avvio: questo perché la dichiarazione d’ufficio quando era ammessa faceva si che il fallimento partisse senza e anzi contro la volontà di tutti coloro che erano interessati. Oggi questo non si può più dire perché non è più un procedimento officioso. Ma non è nemmeno un processo come quello civile retto dal principio del dispositivo. Non c’è un 309 nel processo fallimentare cioè un articolo che prevede che qualora non ci si presenti per due udienze consecutive il processo di estingue. Nel fallimento c’è un residua minima parte in cui è possibile in qualche modo condizionare l’evolversi della procedura, ma in realtà quando il procedimento parte, quello che domina è una officiosità nell’interesse della collettività dei soggetti che vengono toccati dal fallimento ( non solo creditori ma anche tutti quei soggetti che ancora non lo sono). Esiste una collettività di soggetti la protezione dei cui interessi, esigono che la procedura abbia poi uno svolgimento ispirato largamente al principio officioso.I poteri del Tribunale sono stati molto ridotti con la riforma del 2006/2007: in particolare il tribunale non è più l’organo che ha in mano tutta la procedura ma è l’organo di suprema istanza del controllo di legalità, è un vero e proprio giudice. Nell’ambito di questi poteri certamente il tribunale conserva dei poteri inquisitori, posto il fatto che non può essere un mero processo civile.Competenza ( art. 9 l. fal.)La competenza a dichiarare il fallimento è del Tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. Il problema nasce con le società che hanno la sede legale; ma qui non si parla di sede legale ma di sede principale. Questo perché oltre alla sede principale c’è la sede amministrativa, che è non tanto il luogo dove la produzione avviene, ma è il luogo dove vi sono coloro che determinano gli indirizzi concreti della attività esercitata, dove l’attività viene diretta. Da sempre la sede amministrativa è considerata, ai fini fallimentari, sede principale perché il fallimento esige amministrazione, non è una mera procedura esecutiva, ma anzi soprattutto dopo la riforma il tentativo anche una volta aperto il fallimento è quello di arrivare non a una disgregazione dell’azienda in maniera integrale ma di salvare il salvabile, cioè la parte più produttiva del patrimonio. Oggi più che in passato ci è una tendenza conservativa. Proprio perché esige amministrazione da sempre, anche quando questa tendenza non era così forte, era preminente l’esigenza della prossimità al centro dell’amministrazione. Anche questa competenza non è la competenza di diritto comune ma è una competenza di tipo funzionale, determinata non da un occasionale criterio di collegamento, ma dalle stesse finalità della procedura: questo lo si può capire soprattutto dall’art. 22, nel quale al penultimo comma si dice che il provvedimento con cui si respinge l’istanza è reclamabile dal soggetto che voleva avere il fallimento, in Corte d’Appello e se questa accoglie il reclamo non dichiara il fallimento ma rimette d’ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento e questo perché è una competenza inderogabile in quanto funzionale. La cosa si continua a vedere anche in altre norme relative alla competenza: art. 9 secondo comma,

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aggiunto dalla riforma perché frutto di giurisprudenza consolidata. Posto che non di rado la sede legale viene scelta in funzione dell’ambiente che c’è in quella sede a livello di tribunale, la giurisprudenza aveva dichiarato che il trasferimento della sede nel periodo precedente al fallimento non produce effetto. Questo pensiero della giurisprudenza è ora stabilito dall’art 9 secondo comma, ponendo come limite un anno.L’art. 9-bis disciplina una serie di problematiche delle quali ci interessa una sottolineatura.Se non è una competenza funzionale, l’eccezione di incompetenza deve essere sollevata dalla parte nel primo atto difensivo; dopo di che è ancora onere della parte, qualora il giudice si ritenga incompetente, riassumere presso il giudice competente, proprio perché vige il principio dispositivo. Qui invece al 9 bis il provvedimento che dichiara la incompetenza del tribunale, nei cui confronti è stata presentata istanza, è trasmesso in copia al tribunale dichiarato incompetente, il quale dispone con decreto l’immediata trasmissione degli atti a quello competente. Quindi il tribunale competente non va adito a cura dell’interessato, anche perché qui l’interessato non esiste, e pertanto gli atti vengono trasmessi d’ufficio.La liquidazione coatta amministrativa ( vedi solo nozione) è disposta nei confronti di determinati soggetti, in genere sottoposti a controllo come le banche, cioè soggetti che essendo sottoposti al controllo da parte di una istituzione pubblica, sono tenuti all’osservanza di determinate regole. La liquidazione coatta amministrativa ha un presupposto più ampio, non solo il dissesto, ma anche la irregolarità di funzionamento che può portare a dissesto.In questa procedura si innesta il momento giurisdizionale quando vi è la liquidazione, la quale prevede la tutela di determinati diritti.Esempio emerso perché qualora si chieda il fallimento di una banca ci sarà un difetto di giurisdizione.

Altra particolarità riguarda il caso in cui si ha una società articolata, ad esempio la classica sede secondaria con rappresentanza ( con a capo un institore), sede che può essere sotto un circondario diverso rispetto alla sede principale: si dice in tal caso che il fallimento può essere dichiarato tanto dall’uno quanto dall’altro. Questa è la regola della prevenzione elaborata dalla giurisprudenza: chi per primo ha dichiarato il fallimento prosegue. E’ un esempio che può riguardare una persona fisica, socio di una società illimitatamente responsabile, che però è anche titolare di un’altra impresa a titolo individuale, le quali possono avere sede presso più Tribunali.

Il procedimento prefalllimentare è stato oggetto di particolare interventi perché il legislatore a differenza della disciplina vigente ante-riforma ( fino al 15 luglio 2006) ha voluto che sin dal primo momento ( cioè fin dall’istruttoria prefalllimentare) ci si ispiri al principio del contradditorioL’art. 15 l. fall. disciplina il “Procedimento per la dichiarazione di fallimento” e precisamente al primo comma dispone che “Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinnanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio.” Ma in realtà il sesto comma ci dice ciò che avviene in realtà, perché accade sempre che il tribunale faccia uso della facoltà concessa al sesto comma di delegare l’audizione delle parti al giudice delegato, ora giudice delegato per l’istruttoria e poi sarà di regola nominato giudice delegato al fallimento e costituirà uno degli organi del fallimento. Quindi si sottolinea che il g.d. è in genere il giudice che viene già delegato all’istruttoria prefallimentare.Il primo atto, a meno che non vi sia stata la richiesta di auto fallimento, è la convocazione del debitore e di coloro che hanno fatto istanza per il fallimento ( uno o più creditori). All’ultima parte del comma 4, si stabilisce che in ogni caso, il tribunale dispone che l’imprenditore depositi i bilanci relativamente agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata ( cioè un bilancio alla data della istanza). Questo ordine non è necessario nel caso si auto fallimento, cioè nel caso in cui l’istanza provenga dallo stesso debitore (portare i libri in tribunale). C’è un obbligo di legge ex art. 217 per l’imprenditore di chiedere il fallimento nelle circostanze che comporterebbero l’incriminazione.

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Non c’è un diritto al fallimento ma un obbligo di chiederlo in determinate circostanze. Anche in questo caso deve depositare tutti i libri contabili e anche fiscali, deve depositare l’elenco dei creditori e una situazione aggiornata per poter svolgere le opportune indagini. Quindi in caso si auto fallimento c’è un anticipazione della produzione documentale.Le relazioni tecniche di cui parla la norma sono delle perizie contabili di parte, ad esempio per illustrare il mancato possesso delle soglie richieste dall’art. 1. Sono previsti dei termini brevi per la presentazione documentale, termini che possono essere ulteriormente abbreviati, non però come una volta che c’era la convocazione in giornata, convocazione ora non più ammissibile. La cosa particolarmente interessante è che questo decreto dispone la presentazione di tutti questi documenti, al fine di verificare la sussistenza dei requisiti richiesti sia soggettivo ( art. 1 ) che oggettivo ( art. 5 ). E attraverso la possibilità di presentare relazioni peritali, la possibilità di nominare da parte del giudice un c.t.u. si salva il contradditorio, ma allo stesso tempo questa fase si protragga per molto tempo e ciò è pericoloso non solo per l’aggravarsi del dissesto e per la possibilità per il fallito di sperperare l’attivo, ma quanto perché il passare del tempo obiettivamente a prescindere da qualsiasi comportamento produce effetti ( ad es. il consolidamento dei termini per quanto riguarda l’esercizio delle azioni revocatorie) Anche se le azioni revocatorie fallimentari sono meno temibili e meno efficienti di prima della riforma, ci sono ancora e c’è pur sempre il criterio fondamentale per cui le azioni revocatorie colpiscono atti che vengono compiuti in un determinato tempo anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento: una volta questo periodo era di un anno o due anni, ora sei mesi o un anno.Se si consolidano i termini di aggredibilità dell’atto pregiudizievole questo è un pregiudizio.Nella vecchia legge fallimentare, quella anteriore al regio decreto 267 del 1942, la sentenza dichiarativa di fallimento stabiliva la data anteriore alla sentenza stessa in cui il tribunale dichiarava che erano cessati i pagamenti. Tutti gli atti in questo intervallo di tempo erano atti precari.Il legislatore del 1942 ha scelto una strada diversa, stabilendo un periodo sospetto ( quello dei sei mesi o dell’anno) nel quale l’insolvenza è presunta e questo comporta il pericolo di consolidamento per la rigidità stessa del criterio.Secondo problema dell’attesa è che potrebbe venir meno il requisito di fallibilità per il decorso del termine dell’anno. Questo spiega perché prima della riforma il procedimento era estremamente contratto. L’impostazione originale del regio decreto prevedeva che il tribunale aveva semplicemente la facoltà di sentire il debitore nella istruttoria pre-fallimentare, e ciò significava che non veniva convocato. La corte costituzionale intervenne con una sentenza interpretativa di accoglimento dichiarando illegittimo l’articolo nella parte in cui prevedeva la mera facoltà e non un obbligo.Il legislatore si è fatto carico di tutti i problemi che sono sorti nel secondo comma stabilendo che il tribunale può, su istanza di parte, emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio dell’impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento pre-fallimentare e verranno confermarti o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza. Può disporre provvedimenti innominati di conservazione del patrimonio: ad esempio si sta affermando la prassi della nomina di un amministratore giudiziario, sollevando l’imprenditore dall’amministrazione dell’impresa, oppure vengono disposti provvedimenti di blocco dei beni, i quali però sono solo parzialmente idonei perché valgono a impedire le azioni che il debitore può compiere per distrarre beni, per occultare beni. Ciò posto queste misure valgono a impedire atti di distrazione ma non servono a bloccare il consolidamento: i termini si fermano quando viene pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento. Il modo del legislatore per ovviare a questo era quello di prevedere la sospensione dei termini, ovvero stabilire che i termini andassero calcolati con riferimento alla data della presentazione dell’istanza in tanto in quanto il fallimento fosse dichiarato.Questo comporterà che il tribunale farà di tutto per contrarre nei limiti della legge la fase di istruttoria pre-fallimentare se vi è imminenza della scadenza di questi termini: ma questo non è un

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gran vantaggio perché in realtà questa fase istruttoria viene spesso utilizzata per cercare una soluzione extra-fallimentare della crisi, per implementare quelle soluzioni concordate che escludono l’apertura del fallimento che fanno venir meno l’insolvenza.Naturalmente in una situazione di questo tipo il tribunale farà di tutto per mettere fretta, per contrastare la richiesta di tempo, tanto più che la scomparsa della dichiarazione d’ufficio comporta una conseguenza: una volta succedeva che un creditore faceva istanza, e magari erano in corso trattative per sistemare la situazione con l’accordo delle banche ma bastava che partisse uno dei creditori estraneo a questo accordo; allora si chiedeva al giudice una settimana di tempo per perfezionare l’accordo, le banche sborsavano il soldi per tacitare il creditore “controcorrente” e quest’ultimo allora presentava la desistenza, affermando che non era più interessato alla dichiarazione di fallimento perché soddisfatto nel suo credito. Il tribunale se questi accordi fallivano non aveva problemi a dichiarare il fallimento perché c’era la procedura d’ufficio. Oggi invece qualora uno proponga istanza di desistenza, non è più così indifferente la cosa perché il dissesto si aggrava ma non c’è la possibilità di una dichiarazione d’ufficio.

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L’istruttoria potrebbe concludersi con il rigetto e il relativo reclamo in corte d’appello. Ma la fase di istruttoria pre-fallimentare potrebbe concludere anche con il fallimento.Il legislatore su questo binario della procedura che si avvia con la sentenza dichiarativa di fallimento ha fortemente innovato. La sentenza dichiarativa di fallimento ha un contenuto complesso perché non si limita a dichiarare il fallimento del soggetto, accertando che il soggetto è imprenditore commerciale, non sotto-soglia insolvente, ma da anche una serie di provvedimenti che servono a strutturare il procedimento successivo.La sentenza dopo aver dichiarato il fallimento nomina due organi (altro organo è il tribunale che non solo dichiara la sentenza ma anche sovrintende a tutta la procedura):

- il giudice delegato per la procedura che sarà normalmente colui che era già stato delegato a compiere la procedura per l’attività istruttoria pre-fallimentare

- il curatore, il quale è un professionista che accetterà o meno la nomina, il quale sarà un professionista appartenente all’albo degli esperti contabili, dottori commercialisti.

Inoltre la sentenza da una serie di disposizioni importanti sotto il profilo del cadenzamento della procedura: da per l’ultima volta l’ordine di produrre i documenti contabili se non c’è stato l’autofallimento oppure se il soggetto regolarmente convocato è rimasto contumace nella istruttoria pre-fallimentare e poi stabilisce due termini:

a) il primo è un termine perentorio di 30 gg. prima dell’adunanza, per presentare le domande di insinuazione cioè con riferimento ai creditori per domandare di essere pagati, cioè di partecipare al concorso, con riferimento ai terzi che hanno diritto su beni in possesso del fallito per proporre domande idonee a chiedere la restituzione del bene o quanto meno per ottenere la separazione formale dai beni del fallito. Termine perentorio non significa che poi tali domande non possono essere più presentate ma se presentate dopo la scadenza verranno considerate tardive e quindi saranno postergate rispetto alle domande tempestive, a meno che la tardività non dipenda da colpa del soggetto che avrebbe potuto proporre la domanda tempestivamente ma non l’ha fatto. Quindi nel fallimento ci può essere per effetto di questa distinzione temporale una alterazione del concorso di tutti i creditori. Queste domande devono essere presentate perché devono poi essere tutte verificate. L’insieme delle domande (cosiddetto “fascicolo fallimentare”) costituiscono lo stato passivo che verrà esaminato in contradditorio con i creditori e con i terzi in un’adunanza di esame e di verifica dello stato passivo al termine della quale il giudice emetterà un decreto che rende esecutivo lo stato passivo, decreto che costituirà la base per effettuare i pagamenti.

b) Altra importante novità è quella prevista all’ultimo comma seconda parte: la sentenza produce i suoi effetti dalla data di pubblicazione che avviene mediante deposito in

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cancelleria. Nella seconda parte di tale comma si stabilisce che gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese, perché a norma dell’articolo successivo il giorno dopo il deposito in cancelleria, la sentenza è notificata, è comunicata ed è annotata presso l’ufficio del registro delle imprese delle varie sedi amministrative e legali. Questa seconda parte è stata aggiunta a tutela dei terzi. Si potrebbe dire che la sentenza dichiarativa di fallimento cristallizza le situazioni giuridiche esistenti alla data della sentenza stessa, rispetto alle evoluzioni che queste situazioni potrebbero avere, e in effetti hanno per certi aspetti fuori dal fallimento: ad esempio la cristallizzazione opera nei confronti dei crediti e questi non creano più interessi ( art. 55) fino alla chiusura del fallimento agli effetti del concorso. Altro effetto del fallimento è l’apertura del concorso ( art.51): questo significa che nessuna azione individuale esecutiva o cautelare può essere iniziata o proseguita. Ma se per caso succede che io che sono il debitore fallito per determinati debiti ho un coobbligato (fideiussore) con me che non è fallito, tranne che il fallimento si chiuda in determinati modi, il creditore può rivolgersi al fideiussore(che è fuori dal fallimento) anche in costanza di fallimento, per tutto l’ammontare del credito interessi compresi, perché nei suoi confronti continuano a decorrere perché lui è fuori dal concorso. In qualche modo quindi crea un universo parallelo in cui cosa importante sono le regole che vigono al suo interno, regole che possono avere una portata solo endofallimentare ma che in alcuni casi possono avere una portata ultra-fallimentare ( quando si impone la cessione di rapporto contrattuale che vale per tutti e non solo all’interno del processo).Ma in linea di massima la regola è che il fallimento crea un ambiente a sé.

Quindi tornando alla sentenza dichiarativa si capisce che questa situazione è particolarmente delicata proprio nei rapporti con i terzi, le azioni esecutive. Nei confronti del fallito l’effetto principale è lo spossessamento, cioè la perdita della amministrazione e della disponibilità dei propri beni, non la titolarità che rimane al fallito; viene meno l’amministrazione e la disponibilità che sono attribuite all’ufficio fallimentare: questo significa che il fallito non può dopo la sentenza dichiarativa vendere un bene suo, e non può né fare né ricevere un pagamento perché sono atti che ledono la par condicio. Il fallimento crea cioè un fenomeno di separazione del patrimonio.Tutto ciò che non serve alla vita personale e familiare, viene acquisito dall’ufficio fallimentare e viene segregato in questo universo parallelo. Quindi se il fallito vende un proprio bene la vendita non è viziata, è valida ed efficace, ma non è opponibile alla massa, è relativamente inefficace, cioè rispetto a tutti coloro che fanno domanda di insinuazione. Il terzo non può pretendere di farsi dare il bene, ma questo vincolo non nuoce ma è posto nell’interesse del fallimento. Poi il curatore può valutare che nel singolo caso è opportuno dare corso alla vendita e allora la rende efficace totalmente.Se un creditore decide di restare fuori dalla procedura, può correre il rischio di un effetto esdebitatorio derivante dal fallimento, cioè la cancellazione delle obbligazioni civili di chi ha accettato di stare dentro ma anche di chi ha accettato di stare fuori.C’è solo un temperamento sugli effetti riguardo dei terzi: fino alla riforma tutti gli effetti si producevano indistintamente con la pubblicazione della sentenza; questa pubblicità ai sensi dell’art. 17 costituisce anche il limite invalicabile della buona fede dei terzi: chi paga prima della iscrizione nel registro delle imprese della sentenza, paga bene per effetto di questa nuova previsione.In tutte queste vicende è fondamentale la data certa, perché la data certa di un atto mi dice se sono dentro o fuori dall’applicazione di determinate regole.(Anche se il terzo riesce a dimostrare la data certa, non è che rimane fuori dallo stato parallelo, ma diventerà un’inopponibilità all’esito di una sentenza.)L’art. 18 è stato riscritto con la riforma 2006/2007:dal momento che l’istruttoria pre-fallimentare avveniva attraverso un procedimento caratterizzato da sommarietà, se uno non riusciva a convincere il tribunale o si non essere un soggetto fallibile o di essere un soggetto insolvente, il fallimento era praticamente automatico, nonostante il diritto di difesa che la corte aveva inserito. Allora la scelta

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del legislatore era che contro la sentenza dichiarativa di fallimento, si poteva proporre opposizione allo stesso tribunale che l’aveva dichiarata; potevano chiederla il fallito e qualsiasi altro interessato. (Il fallimento provoca anche lo scioglimento della comunione.) Si trattava, in ultima istanza, di rispettare il principio di difesa, solo che invece che tutelarlo nella fase pre-fallimentare lo si slittava alla fase post-fallimentare, imponendo l’opposizione davanti allo stesso tribunale, cosicché ci fosse anche il rispetto dei gradi di giudizio (considerando che poi si poteva ricorrere in cassazione).C’era però una serie di problemi: l’opposizione veniva proposta allo stesso tribunale che aveva dichiarato il fallimento e la Corte era intervenuta sostenendo i giudici che si esprimevano sulla opposizione non potevano essere gli stessi che avevano dichiarato il fallimento. Questo crea problemi ai tribunali più piccoli.C’era però anche un altro fatto: questa opposizione non sospendeva il procedimento fallimentare e quindi teoricamente il giudice poteva vendere tutto se gli riusciva, sicché quando l’opposizione fosse stata accolta, il debitore ex-fallito si ritrovava senza nulla in mano, perché a tutela dei terzi e del mercato era previsto che gli atti legalmente compiuti nel fallimento ( nel rispetto delle regole interne fallimentari) restavano salvi nonostante la revoca.C’è un’esigenza di strutturare il procedimento garantendo il diritto di difesa, con una opposizione però che non aveva difetto di tutela per il debitore. In realtà i giudici ci andavano calmi e non si vendeva nulla se si vedeva una opposizione fondata.Oggi le cose sono cambiate sotto molto aspetti: la cosa più interessante è che è sparita l’opposizione, ora c’è un reclamo in corte d’appello. E’ vero che il reclamo non sospende gli effetti della sentenza impugnata, ma salvo gli effetti di cui all’art. 19: proposto il reclamo la corte d’appello su richiesta di parte ovvero il curatore può sospendere in tutto o in parte la liquidazione dell’attivo. Non è una sospensione totale degli effetti della sentenza, ma sicuramente degli effetti più gravi.

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Abbiamo visto la possibilità di reclamo (non appello) della sentenza dichiarativa di fallimento, reclamo per evitare qualsiasi riferimento al procedimento ordinario di impugnazione e perché finisce con l’avere un effetto devolutivo, tipico dell’appello un tempo. Qui è previsto espressamente che il collegio della Corte d’Appello, sentite le parti, assuma anche d’ufficio tutti i mezzi di prova che ritiene necessari, nel rispetto del contradditorio. E’ un procedimento sui generis, camerale ma che avviene secondo le garanzie del contradditorio. Questo reclamo si conclude o con una sentenza che rigetta il reclamo o con una che accoglie il reclamo, revocando il fallimento. Ma se il fallimento è revocato restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura. Infatti l’art. 19 prevede che su richiesta possa essere chiesta la sospensione per lo meno della liquidazione dell’attivo.

ORGANI DEL FALLIMENTO Qui ci troviamo di fronte a una novità, non in relazione agli organi che sono sempre quelli: Tribunale, Giudice delegato, curatore e infine il comitato dei creditori. Una volta questo era anche l’ordine di importanza: il Tribunale era investito dell’intera procedura fallimentare, poi c’era il giudice delegato che, nel precedente sistema, dirigeva il fallimento e che quindi aveva i veri poteri. Oggi invece il giudice delegato vigila, non dirige, sulla regolarità della procedura: si dice che sono diventati i notai della procedura, perché hanno il compito di assicurare la legalità sostanziale del procedimento. Poi veniva il curatore che agiva secondo le direttive del giudice delegato: il curatore è l’organo privato esterno, che viene nominato e necessita da parte del curatore stesso dell’accettazione. Non è molto proficuo essere curatore a livello economico, perché il compenso dipende dalla massa attiva, compenso che viene dato prima della liquidazione degli altri debiti. Il curatore è il propulsore del fallimento, è quello che decide come procedere nella amministrazione e nella liquidazione del patrimonio del fallito, è l’imprenditore del patrimonio del fallito. Imprenditore perché in base all’art 104 potrebbe verificarsi che il Tribunale con la sentenza

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dichiarativa del fallimento, disponga l’esercizio provvisorio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, sempre che dalla interruzione possa derivare un danno grave (ai creditori). Una volta si richiedeva danno grave e irreparabile, secondo la logica dei provvedimenti cautelari. Qui invece si chiede solo il danno grave e purché non si arrechi pregiudizio ai creditori. Non si può continuare provvisoriamente l’impresa quando continuare sarebbe ancora più gravoso continuare l’impresa per i creditori.In questa norma già fa capolino il Comitato dei creditori perché finora sembrerebbe che l’organo che fa il fallimento sia il curatore. Ma invece no: una volta sotto il curatore c’era il comitato dei creditori, e non serviva a niente perché poteva solo emettere pareri non vincolanti, vincolanti solo nel caso di esercizio provvisorio (vecchio articolo 90). Ora il Comitato dei creditori, nominato dal giudice delegato, emette dei pareri che sono il più delle volte vincolanti, sono delle vere e proprie autorizzazioni in realtà, che vincolano l’organo propulsore, cioè il curatore. Ora il Comitato dei creditori è il vero organo direttivo del fallimento perché condiziona l’organo gestore. Il curatore è soggetto per gli aspetti formali al giudice delegato, mentre per gli aspetti sostanziali è soggetto al comitato dei creditori.Ad esempio, oggi il curatore deve muoversi sulla base di un programma, per poter decidere come amministrare passività/attività. Il primo atto che compie il curatore dopo l’accettazione della nomina, è la presa in custodia dei beni del fallito e la redazione degli inventari degli stessi. Entro 60 gg. dalla redazione dell’inventario, il curatore predispone un programma di liquidazione da sottoporre alla approvazione del Comitato dei creditori: questo programma altro non è che la pianificazione ed indirizzo in ordine a modalità e termini di realizzazione dell’attivo e deve indicare la possibilità di provvedere alla continuazione provvisoria dell’esercizio dell’impresa o la possibilità di effettuare l’affitto dell’azienda, deve indicare se ci sono proposte di concordato fallimentare (da non confondere con il concordato preventivo), deve indicare tutte le azioni da proporre e il loro possibile esito (Art. 104-ter vedi nello specifico). Prima queste decisioni le prendevano il curatore con il giudice delegato, ora devono essere indicate nel piano. Il Comitato può modificare il programma, non è limitato ad approvare o respingere. Poi il programma approvato è comunicato al giudice delegato che autorizza l’esecuzione degli atti ad esso conforme: questo è il controllo di regolarità, il quale riguarda, in seguito alla riforma, non l’autorizzazione del giudice delegato a singoli atti, ma un’autorizzazione generale per tutti gli atti che sono necessari a porre in essere le misure previste dal programma di liquidazione che sono conformi al programma, cioè all’attività di liquidazione in generale.Il programma di liquidazione, però, è in mano ai creditori e quindi il curatore è il mandatario dei creditori, è lo stesso curatore personalmente nelle mani dei creditori, perché sempre a conclusione dell’adunanza per l’esame dello stato passivo, i creditori presenti all’adunanza, che rappresentano la maggioranza dei crediti che sono stati ammessi dal giudice all’esito della verifica alle ripartizioni possono effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori e possono chiedere la sostituzione del curatore, indicando al tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo. Novità introdotta con l’articolo 37 bis:"Conclusa l'adunanza per l'esame dello stato passivo e prima della dichiarazione di esecutivita' dello stesso, i creditori presenti, personalmente o per delega, che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, possono effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori nel rispetto dei criteri di cui all'articolo 40; possono chiedere la sostituzione del curatore indicando al tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo.Il tribunale, valutate le ragioni della richiesta di sostituzione del curatore, provvede alla nomina dei soggetti designati dai creditori salvo che non siano rispettati i criteri di cui agli articoli 28 e 40 (2).

I “creditori presenti” non è un vero e proprio organo. C’è comunque un controllo da parte del tribunale che valuta le ragioni della richiesta (comma 2). Non c’è giurisprudenza assodata in merito.Paradossalmente non c’è stata la ressa per far parte del comitato dei creditori, nonostante l’aumento delle competenze perché ciò comporta la necessità di persone che siano in grado di assumersi queste competenze. Inoltre, ha senso che un creditore dichiari la sua disponibilità a far parte del comitato dei creditori, solo se è un creditore forte in grado di determinare le maggioranze, ad

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esempio, per un concordato. Quindi sono solo le banche che sono i creditori forti e che hanno certe competenze, che però sono state restie, almeno fino a gennaio 2008, per la responsabilità che viene attribuita ai componenti del comitato, dal momento che è stata aggravata la responsabilità data ai componenti del collegio sindacale: si applica l’art.2407 secondo comma in quanto compatibile. Il comitato dei creditori è stato gravato della responsabilità di chi entra a far parte del collegio sindacale di una S.p.A.. Il decreto correttivo ha introdotto il primo e terzo comma: al secondo comma è previsto che i sindaci sono corresponsabili con gli amministratori per gli atti di quest’ultimi per omessa vigilanza, e quindi a titolo di colpa. Il soggetto che nella procedura fallimentare sta al posto degli amministratori è il curatore.Prima del 01 gennaio del 2008 i componenti del comitato dei creditori rispondevano, oltre che per i fatti propri, anche degli effetti degli atti del curatore, pur non avendo gli stessi poteri di controllo che i sindaci hanno nei confronti degli amministratori. Il comitato dei creditori non è che non ha dei poteri di controllo ma questi poteri nei confronti del curatore sono difficilmente replicabili. Il comitato ed ogni componente, possono ispezionare in qualsiasi tempo le scritture contabili e i documenti della procedura e hanno diritto di chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al fallito, potere di controllo che è caratteristico dei soci non amministratori. Oggi il riferimento al secondo comma è stato espressamente tolto: siamo in una deresponsabilizzazione che dovrebbe essere funzionale alla partecipazione dello stesso alla attività della procedura. L’assenza del comitato è un problema, ma la legge stabilisce che qualora il comitato mal funzioni provvede il giudice delegato. La mancanza in fatto del comitato o di una sua operatività rimette in capo il giudice delegato. L’auspicio del legislatore, con il decreto correttivo, è che le banche tornino a far parte del comitato dei creditori con la loro competenza e autorità, fermo restando che la disponibilità a far parte del comitato riguarda casi non tra i più comuni perché per come sono costruite oggi le procedure concorsuali e soprattutto le cosiddette procedure di soluzione concordata della crisi idonea a evitare il fallimento…delle due l’una: o si è riusciti a trovare un’intesa tra creditori e fallito che ha portato a travasare nel fallimento il contenuto di quegli accordi oppure in fatto non ci sarà altro che liquidare l’azienda vendendo l’azienda in blocco o i singoli cespiti. Molto spesso se un accordo non si è trovato per difficoltà di trattativa o per altre situazioni, si fa un affitto di azienda, cercando di individuare un soggetto interessato all’affitto prima e all’acquisto dopo, per riuscire a mettere in piedi un piano di liquidazione che preveda la cessione in blocco, con la cessione dei cespiti non strumentali. L’affitto di azienda può essere stipulato anche prima della presentazione del programma di liquidazione, perché l’affitto è già un possibile esito della ricerca di un piano di liquidazione. L’affittuario verrà scelto, oltre che sulla base del canone anche sulle garanzie che egli presta, e sulla base dei piani di recupero, del rispetto dei livelli occupazionali.Per le imprese meno “appetibili” si può prevedere anche un comodato per incentivare la continuazione di tale azienda. Il fallimento, attraverso i suoi organi gestori è chiamato solo a realizzare al meglio. E se questo significa accettare l’opponibilità di un atto in opponibile, la responsabilità poi per tale atto sarò del curatore.Articolo 38 Responsabilità del curatore. Il curatore adempie ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico. Egli deve tenere un registro preventivamente vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, e annotarvi giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione (1). Durante il fallimento l'azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori (2). Il curatore che cessa dal suo ufficio, anche durante il fallimento, deve rendere il conto della gestione a norma dell'art. 116 . La presenza di un comitato dei creditori che è chiamato ad approvare il piano di liquidazione, può costituire anche entro certi limiti, un incentivo al curatore a svolgere il proprio incarico con più tranquillità, avendo la copertura del comitato.Per vedere gli atti che il comitato può compiere vediamo l’art 41Articolo 41 Funzioni del comitato

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Il comitato dei creditori vigila sull'operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri nei casi previsti dalla legge, ovvero su richiesta del tribunale o del giudice delegato, succintamente motivando le proprie deliberazioni.Il presidente convoca il comitato per le deliberazioni di competenza o quando sia richiesto da un terzo dei suoi componenti.Le deliberazioni del comitato sono prese a maggioranza dei votanti, nel termine massimo di quindici giorni successivi a quello in cui la richiesta è pervenuta al presidente. Il voto può essere espresso in riunioni collegiali ovvero per mezzo telefax o con altro mezzo elettronico o telematico, purché sia possibile conservare la prova della manifestazione di voto.In caso di inerzia, di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del comitato o di urgenza, provvede il giudice delegato (2).Il comitato ed ogni componente possono ispezionare in qualunque tempo le scritture contabili e i documenti della procedura ed hanno diritto di chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al fallito.I componenti del comitato hanno diritto al rimborso delle spese, oltre all'eventuale compenso riconosciuto ai sensi e nelle forme di cui all'articolo 37-bis, terzo comma.Ai componenti del comitato dei creditori si applica, in quanto compatibile, l'articolo 2407 , primo e terzo comma, del codice civile (3).L'azione di responsabilità può essere proposta dal curatore durante lo svolgimento della procedura. Con il decreto di autorizzazione il giudice delegato sostituisce i componenti del comitato dei creditori nei confronti dei quali ha autorizzato l'azione (4)Altra novità è l’integrazione dei poteri: il curatore nell’ambito del programma di liquidazione è chiamato a compiere una serie di atti, che sono atti di straordinaria amministrazione, previsti dall’art. 35, previa autorizzazione del comitato dei creditori.Articolo 35 Integrazione dei poteri del curatoreLe riduzioni di crediti, le transazioni, i compromessi, le rinunzie alle liti, le ricognizioni di diritti di terzi, la cancellazione di ipoteche, la restituzione di pegni, lo svincolo delle cauzioni, l'accettazione di eredità e donazioni e gli atti di straordinaria amministrazione sono effettuate dal curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori.Nel richiedere l’autorizzazione il curatore formula le proprie conclusioni anche sulla convenienza dell’atto richiesto, e queste motivazioni seguono una ratio di trasparenza.Altro esempio è l’art.42 comma 3: in linea di principio i contratti che sono in corso di esecuzione nel momento in cui viene dichiarato il fallimento ( contratto corrispettivo non eseguito da nessuna delle due parti) nel fallimento si considerano sospesi: né continuano di diritto né si sciolgono di diritto, perché la legge stabilisce lo scioglimento o la continuazione di diritto, per quei rapporti la cui utilità nel fallimento viene valutata ex ante nello scioglimento o nella continuazione ( es. contratti bancari si sciolgono, l’assicurazione danni continua).E’ il curatore che, su autorizzazione del comitato, decide se all’esito della sospensione va sciolto o si continua il rapporto. E’ forse sotto il profilo della rilevanza dei rapporti tra gli organi fallimentari è forse l’aspetto più rilevante della privatizzazione delle procedure fallimentari.E’ il comitato dei creditori che è arbitro del destino del patrimonio del fallito.La partecipazione al comitato dei creditori è gratuita e quindi è ancora più difficile che i creditori più importanti “perdano tempo” per tali riunioni, considerando poi che non si sa quanto si riesce a recuperare. E’ per questo che è concessa la videoconferenza. Il compenso è eventuale e comunque nelle forme del 37 terzo comma: cioè non superiore alla misura del 10% rispetto a quello del curatore.

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EFFETTI DEL FALLIMENTOSI fanno ricondurre a 4 grandi categorie:

1. effetti per il fallito2. effetti per i creditori del fallito 3. effetti per le controparti dei rapporti pendenti ( contratti in corso di esecuzione)4. effetti nei confronti delle controparti di rapporti esauriti nel periodo sospetto

1. Effetti nei confronti del fallito.Effetto fondamentale è quello che risulta dal primo comma dell’articolo 42: lo spossessamento e cioè dalla data della sentenza dichiarativa il fallito perde l’amministrazione e la disponibilità.

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Non è una perdita della titolarità o della proprietà e non è una perdita della capacità: gli atti che il fallito compie sono atti perfettamente validi e in linea generale produttivi di effetti, ma non produttivi di effetti nei confronti del fallimento. In merito l’articolo precisa “ dei suoi beni esistenti alla data del fallimento”: cioè il fallimento attua si e no la regola della garanzia patrimoniale generica (art 2740), perché la attua in una maniera difforme dalla specifica previsione del 2740 perché tale articolo prevede che “ Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con i tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse, se non nei casi previsti dalla legge”. Quindi vediamo che il fallimento in linea di principio non riguarda tutti i beni dell’imprenditore, ma solo quelli esistenti alla data di dichiarazione del fallimento. Quindi bisognerà vedere che sorte hanno i beni posteriori. Sotto il profilo soggettivo poi, il fallito non risponde di tutte le sue obbligazioni. All’art. 44 è previsto che proprio perché perde la disponibilità dei beni, tutti gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono inopponibili, cioè inefficaci rispetto ai creditori. Quindi il fallimento risponde solo delle obbligazioni contratte precedentemente al fallimento stesso. Anche sotto il profili soggettivo non è una attuazione perfettamente conforme al principio della responsabilità patrimoniale generica del 2740, perché il fallimento rappresenta una sorta di cesura rispetto al passato. E’ una cristallizzazione dei rapporti. Quando si trova scritto che il fallimento è una specie di pignoramento universale è vero ma anche no, perché le regole del pignoramento non escludono l’intervento di creditori successivi. C’è un ulteriore deroga al 2740 da quanto risulta dal secondo comma: i beni che pervengono al fallito dopo la dichiarazione sono compresi nel fallimento anche quelli, dedotti però le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi ( art. 42). Apparentemente nel fallimento entrato anche i beni futuri, ma con una stranezza e cioè il fatto che i beni futuri vanno a soddisfare la massa creditoria. A meno che tu non abbia un credito garantito, ma con una garanzia forte (pegno o ipoteca), generalmente il fallimento falcidia il credito. Ne verrebbe che i beni che pervengono dopo, vanno a soddisfare le ragioni dei creditori anteriori al fallimento, secondo la legge generale della falcidia fallimentare, e allo stesso tempo coloro che sono creditori in relazione alla operazione necessaria ad acquisire questi beni, hanno il diritto di essere pagato per intero. E questa cosa non va tanto bene: quindi la prassi aveva già elaborato la regola “ purché il curatore le voglia acquisire queste attività” e cioè le acquisisce e deduce le attività in quanto in tanto sia vantaggioso, altrimenti ne verrebbe una preferenza ingiustificata per taluni creditori. E’ una regola ora formalizzata, con la precisazione però della previa autorizzazione del comitato dei creditori. Se manca l’autorizzazione l’atto non è legalmente compiuto. Può rinunciare ad acquisire i beni qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione, risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi. Altro punto da chiarire in relazione all’art. 45 è che in realtà non è neanche del tutto vero che il fallimento sia un procedimento esecutivo a vantaggio delle sole obbligazioni anteriori con i soli beni esistenti nel patrimonio prima della data dichiarativa, perché in base all’art. 45 ci sono beni che alla data del fallimento non fanno più parte del patrimonio perché il fallito ne ha disposto anteriormente e quindi senza il vincolo dello spossessamento e quindi ne ha disposto validamente ed efficacemente. Il curatore è un sostituto ora del fallito ora dei suoi creditori. Dal punto di vista del fallito effettivamente i beni venduti prima hanno determinato la perdita della titolarità sul bene, ma dal punto di vista dei creditori che sono terzi rispetto a quella operazione di vendita, viene adottata la regola che se le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi sono state compiute dopo la data di dichiarazione del fallimento, allora queste formalità non sono opponibili al fallimento. Le formalità le ricaviamo dalla disciplina del pignoramento: le trascrizioni per i bene immobili, non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante, anche se sono anteriori al pignoramento, le operazioni consistenti in alienazioni di beni immobili e beni mobili iscritti, trascritte dopo il pignoramento, le cessioni di credito per le quali occorre la notifica anteriore al pignoramento. ( qui si può tranquillamente sostituire la parola pignoramento con fallimento per avere le regole per rendere opponibili ai terzi gli atti di cui

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parla l’art 45). Per i beni che non sono né beni immobili, né beni mobili iscritti, né cessione di crediti, si utilizzerà la regola del possesso + data certa. Le alienazioni senza data certa anteriore al pignoramento….vedi articolo.Questa regola la dobbiamo traguardare con la disposizione dell’art. 16 ultimo comma, seconda parte: la sentenza produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ma gli effetti nei riguardi dei terzi di producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese. Viene cioè costituita la categoria del terzo in buona fede: l’art 45 si deve leggere in combinato disposto con il 16. Le formalità che restano senza effetto, relative ad atti posti in essere fra il fallito e altri soggetti che non suoi creditori, (atti posti in essere prima della sentenza dichiarativa e formalità poste in essere dopo la sentenza dichiarativa): bisogna capire se prima o dopo la iscrizione della sentenza dichiarativa nel registro delle imprese, cioè capire come considerare l’acquisto se queste formalità sono stata compiute dopo la pubblicazione della sentenza ma prima della iscrizione nel registro delle imprese ( ipotesi residuale): tendenzialmente l’acquisto si considera opponibile. Dovrebbe comunque rimanere in vigore la clausola che rimane opponibile a meno che non si dimostri (il fallimento) che il terzo era comunque a conoscenza del fatto. D’altra parte, però, questo riferimento che bisogna fare dimostra ancora una volta che il fallimento è tutta altra cosa rispetto al pignoramento: qui abbiamo singoli atti con singole formalità, mentre nel fallimento abbiamo universalità di effetti e di azione, cioè tutti gli atti sono sottoposti a quella condizione di inefficacia che è data dall’iscrizione della sentenza dichiarativa nel registro delle imprese. E allora dal 2914 possiamo risalire anche al 2913 – Inefficacia delle alienazioni del bene pignorato – e al 1153. Il pignoramento è travolto dalla b.f. perché riguarda pur sempre una cerchia circoscritta di soggetti, il creditore pignorante o comunque quelli che intervengono con lui. Quindi c’è il 1153 anche nel pignoramento, ma non c’è nel fallimento: una volta questo no era secco perché non c’era il disposto dell’articolo 16, che in qualche modo ci dice che non ci può essere b.f. una volta iscritta la sentenza del registro delle imprese. Ma è una buona fede tipizzata, non c’è un vero 1153 nel fallimento.Nell’art. 44 si precisa che sono inefficaci i pagamenti dopo la sentenza dichiarativa, sia eseguiti che ricevuti: il solvens che non riesca a dimostrare che il pagamento è andato a buon fine, cioè è stato riversato dal fallito nelle casse del fallimento, sarà costretto a ripetere il pagamento, potendo poi esperire l’azione per la ripetizione dell’indebito nei confronti del fallito che risponde con il suo patrimonio personale, non nei confronti della massa fallimentare, dei beni del fallimento. Oppure può aspettare che il fallimento cessi e in tal caso se rimane qualcosa torna a far parte del patrimonio dell’ex-fallito e su questo potrà rifarsi.Il fallito non perde tutti i suoi beni, e non solo in relazione ai beni futuri, ma anche in relazione ai suoi beni personali, che rimangono nel patrimonio personale, entro i limiti per quanto occorre al mantenimento suo e della famiglia, stabiliti dal giudice delegato secondo uno standard medio.Altra cosa interessante sempre sotto il profilo degli effetti del fallimento sono i rapporti processuali, norma riformata anch’essa: si ha la sostituzione del curatore nella posizione del fallito, quando vengono fatte valere ragioni del fallito stesso, nelle controversie anche in corso. L’esclusione riguarda il caso delle questioni inerenti a un risvolto penalistico: la circostanza di essere fallito è un presupposto per i reati propri di bancarotta e altri, previsti dagli artt. 216 e ss.. La grande novità è il terzo comma: l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo. Prima non era automatica l’interruzione, bisognava richiederla secondo le regole del codice di rito e se ciò non avveniva succedeva che il processo andava avanti in un universo parallelo. Quella regola era ispirata al solito discorso della convenienza o meno.Il curatore quindi sostituisce il fallito per difenderlo o per far valere ragioni nei confronti dei terzi. Troveremo la parola concorrenti e concorsuali: creditori concorsuali sono quelli il cui titolo è sorto anteriormente alla sentenza dichiarativa di fallimento, concorrenti sono quei creditori

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normalmente concorsuali, cioè per credito anteriore, che hanno proposto domanda di insinuazione, domanda che conviene sempre farla per tutta una serie di motivi.Quello dello spossessamento è il fondamentale effetto di natura patrimoniale del fallimento sul fallito. Ci sono però anche effetti del fallimento sul fallito di natura non patrimoniale, ma personale. Una volta questi effetti erano particolarmente incisivi ed erano vincolati all’iscrizione del nome del fallito nel pubblico registro dei falliti, e ciò era una conseguenza dell’antico carattere infamante dell’insolvenza prima e del fallimento poi.Dalla iscrizione nel registro dei falliti, dipendeva tutta una serie di incapacità speciali e le conseguenze personali a cascata erano molto penalizzanti.Oggi le conseguenze personali sono state rimodellate sulla funzione fondamentalmente economica e non mercantile del fallimento: sono disciplinate agli art. 48 e 49.Una volta tutta la corrispondenza diretta al fallito veniva dirottata al fallimento, cioè al curatore, norma che veniva elusa facendosi recapitare la posta alla nonna, al bar.Quindi ora è stata modificata la norma prevedendo che il fallito è tenuto a consegnare tutta la corrispondenza al curatore, riguardanti i rapporti compresi nel fallimento.L’articolo 49 influisce nella libertà di locomozione: una volta se il fallito voleva andare a fare le vacanze, il curatore gli si presentavano i carabinieri con il mandato di accompagnamento, perché serviva il permesso del giudice delegato. Ora è solo tenuto a comunicare ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio.

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Abbiamo visto gli effetti del fallimento per il fallito: ricordiamo lo spossessamento, che attua per modo di dire il 2740, sia perché si tratta di una procedura che riguarda i creditori concorsuali e a loro riserva i beni esistenti anteriori alla data della sentenza dichiarativa, riserva anche i beni che sopravvengano successivamente, in tanto in quanto gli organi del fallimento ritengano che l’acquisizione di questi beni sia più vantaggiosa delle spese necessarie ad acquisirli. Lo spossessamento investe, in realtà, anche beni che sarebbero già fuori del patrimonio del fallito alla data della sentenza dichiarativa, ma che sono fuori in maniera non opponibile alla massa dei creditori concorsuali, che diventeranno o no concorrenti in base alla loro decisione di presentare domanda di insinuazione.La mancata opponibilità nei confronti del fallimento può dipendere dalla circostanza che si il negozio in base al quale la titolarità è fuoriuscita prima del fallimento è un negozio valido, ma non sono stati posti in essere le formalità richieste prima della data del fallimento ( in realtà prima dell’iscrizione della sentenza dichiarativa nel registro delle imprese). Questo spossessamento non toglie tutti i suoi beni perché gli lascia un patrimonio personale, nel limite di quanto necessario per vivere dignitosamente, limite stabilito dal giudice delegato.I beni costituiti in fondo patrimoniale non possono essere toccati, e quindi costituisce ottimo metodo di salvaguardia quando uno dei due coniugi sia imprenditore commerciale.Una curiosità è inerente ai beni di natura strettamente personale: si fa riferimento a beni personalissimi, il diritto all’onore, al decoro personale, all’integrità fisica e si dice che in realtà qui si tratta di diritti la cui attivazione è ispirata da una decisione altrettanto personale. Acquisire questi diritti alla massa vorrebbe dire che anche il suo esercizio sarebbe rimesso al curatore e giudice cautelare. Il discorso dell’integrità fisica, se viene lesa in maniera tale da impedire la continuazione del lavoro, il giudice deve prevedere un sussidio a favore del soggetto leso. Ma siccome che questo sussidio lede l’interesse della massa creditoria, anche questo diritto viene incluso nel fallimento. C’è un patrimonio personale precario che deve essere garantito altrimenti si dovrebbe provvedere con il patrimonio del fallimento.Altri sono gli effetti personali, che oggi sono meno gravosi rispetto al passato.

2. Effetti nei confronti dei creditori del fallito

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Il fallimento non opera in maniera indiscriminata ma con l’obiettivo di rendere più celere la procedura esecutiva in cui esso consiste. Abbiamo già detto che in realtà è l’effetto tipico non del fallimento soltanto ma di tutte le procedure concorsuali, del concordato preventivo, dell’accordo di ristrutturazione e dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. In tanto è promosso il concordo, in quanto viene dal giorno della dichiarazione di fallimento viene reso impossibile iniziare nuove azioni e quelle che sono già iniziate non possono essere proseguite.Quindi la dove la disciplina generale del codice civile del 2741 parla di concorso dei creditori, lo dice ma con riferimento a una situazione molto diversa e qui il concorso è universale, è un concorso generale, quindi c’è un divieto assoluto in linea di principio alla esecuzione individuale. Si era verificato con la riforma del 2006, la grande riforma che aveva, secondo la legge delega di riforma, aveva l’obiettivo di deflazionare il numero delle procedure fallimentari, una diminuzione delle procedure fallimentari ma dall’altro lato erano aumentate le procedure di esecuzione individuale. E queste a loro volta provocarono un aggravio inutile di costi. Quindi nel 2007, con la riforma della riforma, si è modificato l’art. 1, ripristinando una soglia di fallibilità meno difficile da raggiungere, in modo tale da aumentare le procedure fallimentare e diminuire quelle individuali. Prima del 2006 esisteva una procedura concorsuale, l’amministrazione controllata, la quale consisteva sostanzialmente nel blocco delle azioni esecutive, cioè bloccava i pagamenti. Ma era una procedura che non prevedeva nessuna modalità di gestione del patrimonio indirizzata al risanamento della attività.L’art. 52 dopo averci detto che le azioni esecutive sono bloccate, ci dice che il fallimento apre il concorso, e cioè ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’art. 111, nonché ogni diritto reale o personale mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme della legge fallimentare.“anche se munito di prelazione” : il fallimento blocca le azioni esecutive ma non cambia la natura e gli accessori del credito, il fallimento rispetta le cause di prelazione. Qui il termine privilegiati si deve intendere non in senso stretto, cioè come quei creditori muniti di privilegio generale o speciale, ma intendiamo in senso lato i creditori muniti di una causa legittima di prelazione. AI privilegiati si oppongono i chirografari, cioè quei creditori che non hanno nessun titolo di prelazione.“trattato ai sensi dell’art. 111”: i crediti appartenenti a questi categoria sono i crediti che vanno pagati in prededuzione. L’art. 111 ci indica l’ordine con cui le somme che di volta in volta arrivano al fallimento per effetto della liquidazione di cespiti, vanno distribuite. Più in basso ci sono i creditori chirografari, poi i creditori privilegiati e sopra tutto i crediti prededucibili, che sono quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge. Sono tali il credito per le spese a carico dell’erario per la gestione del fallimento, il compenso del curatore che in qualche modo è una spesa che sorge in funzione o in dipendenza delle procedure concorsuali, le spese che si devono sostenere per l’esercizio provvisorio dell’impresa, le spese sostenute per acquisire beni pervenuti successivamente se si ritenga utile, le spese che dipendano dal subentro del curatore in certi contratti, insomma c’è tutta una serie di spese e di crediti che maturano dopo la sentenza di fallimento ( non tutti però sono prededucibili ) e che vanno pagati in prededuzione.Nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare neppure in parte i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura per “insufficienza dell’attivo”: in altre parole se si vede che non c’è la possibilità di pagare nessun creditore e nemmeno le spese prededucibili, il fallimento si chiude.Questo significa che essere creditore privilegiato o superprivilegiato non ti da la garanzia di essere pagato. Prima della riforma l’unica possibilità di venire pagato per intero, riguardava i crediti producibili e i creditori privilegiati in senso lato, in tanto in quanto il fallimento si chiudesse mediante concordato fallimentare. Tanto il concordato fallimentare che chiude il fallimento tanto il concordato preventivo che evita che inizi, oggi ammettono che la proposta non preveda il pagamento integrale dei creditori privilegiati. Non vi è più l’interesse a spingere per un concordato

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da parte dei creditori privilegiati, ma anzi ne hanno interesse i creditori chirografari ( banca, cioè creditori forti) che possono spingere per la conclusione di un cordato che preveda la riduzione della percentuale di soddisfacimento anche dei creditori privilegiati, che in genere non sono le banche.“nonché ogni diritto reale o personale mobiliare o immobiliare”: abbiamo visto che ogni creditore o terzo che vanti diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, non ha un credito, ma il bene che è detenuto dal fallito non è suo e quindi non può essere appreso con l’azione esecutiva, ma è appreso al fallimento attraverso l’inventario fatto dal curatore. Se il fallito detiene dei beni, e questi entrano a far parte dell’inventario, toccherà al legittimo proprietario proporre domanda di insinuazione, al fine di essere accertati.Una disposizione che esenta dal divieto di cui all’articolo precedente – divieto azioni esecutive – si trova nella legge bancaria 385/1993: è il credito fondiario che è il credito che le banche erogano per l’acquisto di immobili e che viene garantito con ipoteca sull’immobile. Questa ipoteca gode di un trattamento specialissimo, la quale diviene efficace nei confronti di tutti i terzi anche in sede di revoca, trascorsi dieci giorni dall’iscrizione: si consolida in dieci giorni. Revocare la garanzia che accede a un credito, significa rendere quel credito agli effetti del fallimento che ha disposto la revoca chirografario: la garanzia c’è ma non è opponibile. In genere le garanzie si consolidano i sei mesi o in un anno. Non solo questa garanzia ipotecaria si consolida in un termine così breve, ma anche (art. 41 tub) l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari, può essere iniziata o proseguita anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore, eccezione al divieto di azioni esecutive individuali. E’ un privilegio processuale, non sostanziale, perché nella esecuzione il cui procedente è la banca, il curatore può intervenire a tutela degli interessi dei creditori, e la somma ricavata dall’esecuzione viene attribuita al fallimento per la parte che eccede la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca: ciò significa che se, come in genere accade, il bene è più che capiente rispetto al credito garantito, l’eccedenza va restituita non al fallito ma alla banca. In buona sostanza ha il senso di favorire la vendita coattiva di un bene che in ogni caso verrebbe venduto, tranne che non vengano fatte domande di insinuazione o che i beni restanti fossero più che sufficienti. La ragione di tutto questo è una ragione storica, che in realtà non c’è più, ma la Corte Costituzionale ha sostenuto che le banche hanno comunque diritto di godere di una certa stabilità, anche perché altrimenti il prestito senza garanzia costerebbe sicuramente di più. In Italia c’è tutta una giurisprudenza sorta apparentemente a beneficio delle banche ma che in realtà sono a beneficio dell’economia. La ragione era storica perché le banche a fronte di questa operazione emette le cartelle fondiarie, e cioè collocavano tra il pubblico dei titoli di credito, nei quali le famiglie investivano i propri risparmi, recuperando subito i soldi dei finanziamenti erogati, sicché allora tutte le ipoteche andavano di fatto a garanzie non della banca ma degli investimenti cartoralizzati. Quindi anche il privilegio processuale rispondeva a questa logica, cioè consentire che non ci fossero interruzioni nel flusso della liquidità derivante dalla escussione di varie posizioni di inadempienti.Questa cosa è venuta meno quando con il testo unico è stato posto un limite a tutto ciò, eliminando l’emissione delle cartelle fondiarie, però le regole acquisite sono rimaste.Una regola simile la troviamo anche nella legge fallimentare, all’art. 53: i crediti garantiti da pegno o assistiti da privilegio speciale, possono essere realizzati anche durante il fallimento, però devono essere riconosciuti dal fallimento, quindi dopo che sono stati ammessi al passivo. La novità portata dal decreto correttivo è che in realtà, anche qui, abbiamo un privilegio processuale, che tende ad avvicinare questa situazione, sotto il profilo del modus procedendi, a quella del credito fondiario perché per essere autorizzato alla vendita il creditore deve fare istanza al giudice delegato; il giudice delegato determina le modalità della vendita, le quali prevedono (con un grande passo avanti rispetto al passato) che la vendita avvenga con procedure che garantiscano la trasparenza. Il giudice delegato può anche autorizzare il curatore a riprendere le cose (mobili), perché possono essere utili per aumentare il valore del compendio a cui ineriscono, ma pagando il creditore, oppure può anche autorizzare a procedere con la vendita ma da parte del fallimento.

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La logica rimane che ogni diritto che si vanta e si vuole far valere contro il fallimento va accertato secondo le regole del fallimento, altrimenti viaggia in un altro mondo, cioè quello del patrimonio personale.

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LA DETERMINAZIONE DEI CREDITI NEL FALLIMENTOE’ una materia molto combattuta perché la determinazione della massa passiva, cioè dell’insieme dei debiti (visti da parte del fallito) di cui viene chiesto il pagamento mediante domanda di insinuazione che va riconosciuto ammissibile al concorso, rappresenta chiaramente la posta principale di quel passivo. Il procedimento avviene nell’operato congiunto di curatore e giudice delegato, organi che devono attenersi a una serie di regole. La caratteristica del rapporto giuridico di credito è che è un rapporto dinamico, il quale a seconda dei casi può maturare interessi compensativi o moratori; questo comporta delle difficoltà nei confronti di una procedura che ha per finalità di fissare la situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, per procedere alla sistemazione generalizzata di tutti i rapporti giuridici. Queste regole vengono riassunte dall’espressione tecnicamente convenzionale della cristallizzazione dei crediti. La prima norma importante è l’articolo 55 comma 2:I debiti pecuniari del fallito si considerano scaduti, agli effetti del concorso, alla data di dichiarazione del fallimento.Qui abbiamo crediti in realtà sarebbero scaduti secondo la legge del rapporto, ma che si considerano tali agli effetti del concorso. Questa regola viene messa in relazione con l’art. 1186, che è la norma che dispone la decadenza del beneficio del termine per insolvenza del debitore. Nel linguaggio del 1186 l’insolvenza non è quella dell’art 5 l. fall., ma a noi questo non interessa perché siamo dentro al fallimento e dunque per noi è sufficiente anche quella insolvenza all’insolvenza dell’art 5. E’ una norma che si trova regolarmente in relazione con il secondo comma dell’art 55, anche se bisogna dire che questa norma è richiamata a proposito fino a un certo punto, laddove si dice “agli effetti del concorso”: infatti il 1186 esprime una regola generale, mentre l’art. 55 si esprime relativamente al trattamento che il debito credito deve ricevere in sede di liquidazione concorsuale. La dichiarazione di fallimento determina la scadenza ai fini del concorso dei crediti pecuniari non scaduti secondo la legge del rapporto. Quelli non pecuniari non scaduti, quindi o una prestazione diversa dalla dazione di denaro o una dazione di denaro ma determinata con riferimento ad altri valori, e quindi sono debiti di valore e non di valuta, in qualche modo scadono anch’essi perché ne viene fissato il valore pecuniario alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, e per quel valore concorrono. Non scaduti sono anche i crediti non sottoposti a condizione, perché c’è un’incertezza perché la condizione può avverarsi come no: vengono fatti partecipare anch’essi al fallimento, secondo regole che sinteticamente comportano non l’attribuzione immediata delle somme a questi creditori, ma l’accantonamento in appositi conti vincolati, come se avessero diritto al pagamento, somme attribuite solo laddove si realizzi la condizione.In linea di principio tutti i crediti, scaduti e non scaduti vengono assoggettati al fallimento come se scadessero alla data della sentenza dichiarativa, o comunque al valore in denaro che alla data della sentenza dichiarativa essi hanno. Altra considerazione che si può trarre dalla elaborazione giurisprudenziale: si era posto il problema se una volta dichiarato il fallimento il valore per cui il credito concorre, stabilito con effetto alla data della sentenza dichiarativa, debba essere un valore che va rivalutato: si è deciso, con l’eccezione dei crediti di lavoro, che il valore resta fermo, cioè è un credito di valuta, perché da un lato la rivalutazione potrebbe essere una conseguenza del fatto che sono debiti di valuta, oppure perché la rivalutazione potrebbe essere richiesta come un maggior danno, ma questo non è possibile perché in realtà il fallimento non viene mai considerato un fenomeno equiparabile all’inadempimento dell’obbligazione.Il fallimento non è inadempimento, anche se può manifestarsi attraverso l’inadempimento.

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Questo è il valore del credito, ma ora bisogna vedere gli accessori: in linea di principio, per una ragione anche pratica, il fallimento come cristallizza il credito, così ne cristallizza gli accessori. L’art. 55 afferma che “la dichiarazione di fallimento sospende (agli effetti del concorso) il corso degli interessi, tanto convenzionali quanto legali, fino alla chiusura del fallimento”. Quindi gli interessi continuano a correre dopo e fuori del fallimento, nel caso che vi sia un coobbligato in bonis del fallito, al quale ci si rivolga per il pagamento. Questa regola, leggendo il prosieguo della norma, è si un principio, ma un principio che patisce eccezione più di quanto era previsto nella vecchia legge fallimentare, perché si dice “a meno che i crediti non siano garantiti da causa legittima di prelazione, salvo quanto disposto dal terzo comma dell’articolo precedente.”Originariamente nella legge del 1942 non c’era la parola privilegio, ma la cosa riguardava solo l’ipoteca e il pregno; la parola “privilegio” l’ha aggiunta la corte costituzionale. La logica era quella di una norma di eccezione, ma di forte eccezione, basata sul fatto che in qualche modo i crediti ipotecari e i crediti pignoratizi, si partecipano al concorso, ma hanno una via tutta loro, godendo di una garanzia reale. Allora in questa logica si diceva che visto che in genere il bene è largamente capiente per la tutela che in fatto si è procurata il creditore, rispetto al credito da pagare, è anche ammissibile che su quel bene vengano calcolati anche tutti gli interessi. Diverso è il discorso di coloro che viceversa concorrono si, ma su una massa indeterminata di beni: qui la difficoltà di legata alla mancanza di cristallizzazione è una difficoltà pratica notevole.Questa scelta del legislatore era evidenziata dal fatto che l’art. 54 non menzionava il privilegio e quindi era inteso come norma che chiariva il 55, facendo così capire, secondo questa visione, che in realtà laddove si parlava di privilegio si intendeva il privilegio speciale sopra determinati beni mobili e sopra determinati beni immobili, che sono equiparati, anzi in certe situazioni prevalgono, al pegno. La logica delle due norme lette assieme faceva si che l’art. 55 andasse letto solo con riferimento a pegno, ipoteca, privilegi sopra beni mobili, e privilegi sopra beni immobili.La Corte Costituzionale si pronunciò relazione al privilegio lavoristico (anni 80-90), art. 2751bis n. 2: in omaggio all’art. 36 della Costituzione e quindi in una logica che si impone a quella dell’esecuzione fallimentare che di per sé viaggia secondo regole applicabili alla generalità dei soggetti, sostenne che il mancato riferimento dei privilegi all’art. 54, è illegittimo nella parte in cui si riferisca ai privilegi generali per i crediti retributivi dei lavoratori. Quindi gli interessi non vengono sospesi anche sui crediti assistiti da privilegio generale per rapporto di lavoro e questo comporta che ci sia una continua necessità di ricalcolo.Ma poi venne presentata l’ulteriore questione di legittimità costituzionale, in base alla quale si sosteneva che bisognasse estendere l’esenzione dalla sospensione degli interessi anche tutti gli altri crediti muniti di privilegio generale e quindi non coperti dal 54-55, perché in fin dei conti sono anch’essi crediti muniti di causa legittima di prelazione: la Corte Costituzionale, dimenticando la logica della normativa e dimenticando che questa normativa risponde all’esigenza di far salva, nei limiti del possibile, la scelta di una controparte di non aver voluto seguire la fiducia del creditore, disse che la sospensione del decorso degli interessi sui crediti, non di lavoro, assistiti essi pure da privilegio generale e non speciale, doveva intendersi ispirata ad una irragionevole disparita di trattamento. E quindi oggi il legislatore all’art. 54 scrive privilegio tout court, replicando l’art 55, recependo questa giurisprudenza costituzionale. Quindi oggi bisogna dire che la regola della sospensione del decorso degli interessi vale solo per i creditori chirografari, e questo non è poi un vantaggio perché se più creditori vengono sottratti alla logica del concorso paritario del fallimento, più in qualche modo i creditori chirografari sono tentati o di evitare il fallimento con tutti i mezzi, leciti o illeciti, e quindi incrementando la commissione di reati fallimentari. Più gente ammetti a fruire di benefici nel concorso, più coloro che non sono coperti da privilegio, sono spinti a procurarsi garanzie forti (pegno o ipoteca) che vanno a danno degli stessi soggetti che si sarebbero voluti tutelare estendendo il privilegio: alla fine il legislatore rendendosi conto che è impossibile resistere sistematicamente, con un criterio di equità, a questa logica dei creditori chirografari forti (banche), ha fatto scrivere la riforma della legge fallimentare all’ABI, cioè all’associazione bancaria, prevedendo che tutti questi grandi vantaggi che hanno i

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creditori privilegiati in senso lato, comprensivi dei vantaggi che hanno i creditori privilegiati in senso stretto (creditori deboli che non possono procurarsi una causa di prelazione e perciò gliela procura la legge), siano comunque messi in coda a tutti quando c’è il fallimento.Oggi sia le procedure per evitare il fallimento ( concordato preventivo e accordo di ristrutturazione dei debiti) sia le procedure per chiudere il fallimento attraverso l’accordo con i creditori ( concordato fallimentare) non prevedono più che debbano essere pagati per intero i creditori aventi causa legittima di prelazione, e prevedono che il voto determinante di queste procedure sia quello dei creditori chirografari “forti” che hanno imposto di votare secondo alcune regole.Quindi:

1. cristallizzazione: fissa per tutti i crediti scaduti e non scaduti, per quelli non scaduti fingendo la scadenza agli effetti del concorso, vengono fermati per quel valore che alla data del fallimento hanno, persino i crediti condizionali si considerano come non condizionali. Vengono cristallizzati anche gli interessi ai fini del concorso e fino alla chiusura del fallimento, dunque gli interessi dopo la chiusura decorrono e decorrono come se non avessero mai cessato di decorrere: eccezione a tale regola sono i crediti assistiti da pegno e ipoteca e privilegi assimilabili, poi con l’intervento della Corte Cost. eccezione estesa ai crediti per rapporto di lavoro inizialmente e poi coperti da qualsiasi privilegio generale. In caso di incapienza della garanzia, la parte di credito non coperto diventa chirografario.

19.11.2008

Il fallimento va a regolare i crediti concorsuali, cioè quelli che hanno causa anteriore ( in maniera opponibile) al fallimento, rispettando le posizioni soggettive così come sono state regolate dalle parti. Resta in mezzo quella categoria di creditori che hanno una prelazione ex-lege, non potendo procurarsela altrimenti perché creditori deboli. Se il fallimento rispetta in linea di principio queste posizioni giuridiche, a cominciare da coloro che si sono premuniti di garanzia, rispetto a coloro che non hanno garanzia, rispetta anche le cause legittime di prelazione. Ulteriori conseguente sono poste con il passaggio del tempo, attraverso la cristallizzazione dei rapporti giuridici.(vedi lezione precedente per cristallizzazione e per interessi.)L’art. 54 terzo comma, una volta stabilito al primo comma che il decorso degli interessi continua sui crediti non chirografari, stabilisce come decorrono questi interessi, anche qui secondo la logica che il fallimento riconosce le peculiarità del rapporto così come si era costituito prima della sentenza dichiarativa di fallimento, prevede che sugli interessi si estenda il diritto di prelazione, nella misura generalmente prevista nel codice civile ( artt. 2749, 2788, 2855 ), limitatamente inoltre alla capienza del bene vincolato alla garanzia (art.54 comma 1).La estensione della garanzia dal capitale agli interessi non è generalizzata, non comprende né tutti gli interessi, né copre tutto il tempo per il quale maturano: la prelazione ha luogo per gli interessi dell’anno in corso alla data del fallimento. Possono essere sia interessi compensativi, che convenzionali, che corrispettivi. In pratica abbiamo una copertura che comprende un periodo solare in ipotesi anche successive alla sentenza dichiarativa: gli interessi maturati successivamente però non sono più coperti integralmente ma solo nel limite dell’interesse legale. Scelta del legislatore che vuole calmierare la distribuzione del vantaggio.Il problema è capire come gli interessi eccedenti la misura convenzionale e quegli interessi che non rientrano in ipotesi nel periodo coperto antecedente dalla prelazione e che comunque non sono stati pagati, debbano essere trattati. E’ un credito non coperto da prelazione e quindi che concorre con gli altri crediti chirografari, secondo le regole generali. Ma la disciplina del fallimento è un po’ diversa: quello che noi andiamo dicendo risponderebbe alla regola che se non vi è capienza la somma va pagata in concorso, ma allora non avrebbe senso questa espressa riserva “salvo quanto disposto dal terzo comma dell’articolo precedente”. Secondo una interpretazione ispirata al principio di economicità delle espressioni normative, non c’era bisogno di precisare questa circostanza posto che comunque l’art 54 si collega il terzo comma con il primo che enuncia la regola di cosa succede

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quando manca la copertura. Allora per dare un senso autonomo, la giurisprudenza (non la dottrina che è ostile ) costante della Cassazione,lo intende in un senso molto più pregnante:cioè posta la regola che ciò che non trova capienza concorre in chirografo è già enunciata nel 54 primo comma, l’espresso richiamo del terzo comma nel diverso contesto dell’art. 55, significa che gli interessi sui crediti muniti di causa legittima di prelazione sono riconosciuti nel fallimento, cioè continuano a decorrere nel fallimento, solo nel limite in cui la legge generale li copre con la prelazione. Dove non c’è la copertura della prelazione, quegli interessi, anche se su crediti coperti da prelazione non corrono in assoluto, né in prelazione né in chirografo.La Corte costituzionale ha affermato che si tratta di una scelta che non comporta violazione della parità di trattamento.Questo è stato previsto per evitare di ridurre al massimo quanto a disposizione dei chirografari e per evitare che i creditori forti siano tentati per evitare il maggior danno, di porre in essere politiche contrattuali nel periodo di incubazione dell’insolvenza ( solitamente non noto ai terzi ma noto a questi creditori forti, ossia le banche) idonee a deviare l’applicazione delle regole fallimentari con mezzi opponibili al fallimento. Questa idea era tutta contenuta nell’insieme di questa disciplina, anche laddove in una prima fase, cioè prima dell’intervento della Corte Costituzionale, si tendeva ad evitare che la prelazione riguardasse tutte le ipotesi che fuori dal fallimento avrebbero la copertura con l’estensione completa che avrebbe fuori dal fallimento la copertura stessa. Altro discorso riguardante il rispetto delle situazioni pregresse al fallimento, con tratti molto peculiari, al punto da mettere in discussione la fondamentale acquisizione che tutto ciò che si produce, tutti questi effetti sono dentro al concorso e non fuori: il problema è la compensazione all’art. 56.Articolo 56 Compensazione in sede di fallimento.I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento. Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore. Al primo comma è enunciata la regola generale, al secondo comma è enunciata l’eccezione, commi che sono in qualche modo legati ma allo stesso tempo anche distinti.Al primo comma si stabilisce una regola inerente i creditori concorsuali e il fallito che allo stesso momento è contro creditore: come sappiamo quando i crediti sono liquidi esigibili e omogenei, nel momento in cui lo diventano si estinguono per la parte corrispondente (compensazione legale).In prima battuta la norma si occupa della compensazione legale; la compensazione non può essere rilevata d’ufficio ma è eccepita: quindi da questo punto di vista la norma inizia col dire che l’eccezione di compensazione può essere opposta al fallimento. Il problema è se si può opporre l’eccezione solo per una compensazione già verificatasi oppure anche per una compensazione non ancora verificatasi ma che si verificherà dentro il fallimento. Per quella già verificatasi non c’è problema, ma è pacifico. Il problema si ha quando alla data della dichiarazione di fallimento non si siano verificati i presupposti della compensazione, quindi il primo comma aggiunge “ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento” quindi sembra stabilire una molto limitata possibilità che si eccepisca una compensazione già non prodottasi prima del fallimento e cioè che il credito e il controcredito siano innanzitutto certi, anteriori come titolo alla sentenza dichiarativa di fallimento, liquidi, omogenei, ma non ancora scaduti dal lato del creditore concorsuale. D’altra parte nei suoi confronti il fallito ha un controcredito che è già scaduto. Da questo punto di vista la norma non sarebbe altro che lo specchio dell’art 55, laddove dichiara scaduti, agli effetti del concorso, i crediti pecuniari non ancora scaduti alla data della sentenza dichiarativa di fallimento. Quindi la norma direbbe semplicemente che se i debiti pecuniari del fallito scadono con effetto dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento, a quella data si produce la reciproca esigibilità e dunque la compensabilità. In buona sostanza avremmo una figura speciale di compensazione legale stabilita dall’art. 55 e confermata dal primo comma art.56. In realtà non è così: se non operasse la compensazione vorrebbe dire che i due rapporti per la parte corrispondente non si estinguono,

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quindi il creditore continua a vantare il suo credito verso il fallito per 100, nello stesso tempo però il fallito ( anzi il fallimento) continua a vantare il controcredito di 100: ciò significa che il creditore deve pagare in cash 100 e riceverà sul proprio credito che gli potrà dare il fallimento. Ovviamente questa cosa non riguarda solo il credito e fallito ma riguarda tutta la massa. Non riconoscere la compensazione andrebbe a vantaggio anche della massa dei chirografi. Esempio regole della cessione del credito: il 1248 mostra che la compensazione opera come garanzia impropria. Questa logica viene rispettata dal fallimento. Però in giurisprudenza di è posto il problema della doppia mancata esigibilità e quindi nell’ipotesi in cui anche il controcredito non è scaduto, ma scadrà nelle mani del curatore. Questo problema va al di là della logica della prima interpretazione. La prima lettura dell’art. 56 è che come il fallimento rispetta le garanzie proprie, così rispetta la garanzia impropria in cui consiste la eccezione di compensazione perché se la compensazione si è verificata prima è un rapporto esaurito i cui effetti non possono essere travolti dal fallimento, o non si è verificata prima perché o non è scaduto prima il credito del terzo in bonis verso il fallito o non è scaduto prima il credito del fallito nei confronti del terzo in bonis. Posta questa alternativa l’art. 56 comma 1 risolverebbe la situazione in cui la mancata compensazione dipenda esclusivamente dalla mancata scadenza del credito che il terzo in bonis ha nei confronti del fallito, fermo restando che il controcredito deve essere scaduto prima della sentenza dichiarativa di fallimento. Allora in questa lettura la norma non sarebbe altro che una applicazione del 55 secondo comma. (vedi norma)E’ un ragionamento un po’ assurdo perché in materia di fallimento l’iniquità o l’equità delle soluzioni bisogna verificarle nella logica fallimentare che si instaura a partire dalla sentenza dichiarativa. Ma sostengono che sarebbe iniquo far dipendere da una circostanza occasionale, e cioè che il fallimento venga dichiarato il giorno prima o il giorno dopo la scadenza, l’applicabilità della compensazione. Però se ci veniamo a chiedere che cosa succede quando il controcredito non sia già scaduto alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, ci veniamo a chiedere qualcosa la cui soluzione non può più dipendere dall’art. 55 perché qui si parla della scadenza del controcredito e non del credito. Ma è proprio vero che l’art 56 è il mero adattamento della operatività della compensazione con riferimento alla scadenza del credito, scadenza non avvenuta prima del fallimento, per effetto della regola dell’art.55? Perché l’art. 55 dice che si i debiti pecuniari del fallito, cioè i crediti verso il fallito, si considerano scaduti alla data di dichiarazione del fallimento, ma agli effetti del concorso. Se cioè io volessi far valere quel credito verso un coobbligato del fallito non fallito, non è che io posso andare alla data della sentenza dichiarativa a chiedere il pagamento ma devo aspettare la scadenza, perché scadono agli effetti del concorso. Nel momento in cui io riconosco la compensazione questa opera con effetto reale, estingue veramente e non agli effetti del concorso debito-credito, non sono più tenuto a pagarlo. Quindi non è vero che l’art. 56 sia un mero specchio del 55 secondo comma perché verrebbe fuori che la compensazione opera a tutti gli effetti sulla base di un effetto (la scadenza dei debiti pecuniari del fallito) che la legge dispone operativo solo endo-fallimentarmente.Se ci fosse un concreditore del fallito, potendo opporre la compensazione io escludo il mio debito anche nei confronti di quest’ultimo.

24.11.2008

…continuazione sulla compensazione..Abbiamo visto che la compensazione può operare qualora il fallito, oltre a essere debitore, è nei confronti dello stesso soggetto creditore per titolo anteriore: è importante questa anteriorità del credito e controcredito perché se il credito sorge per effetto del fallimento, ad es. nell’esercizio provvisorio all’interno del quale l’ufficio fallimentare matura un credito nei confronti di un soggetto che fosse anche creditore concorsuale, in tal caso non sono crediti reciproci dal punto di vista del 1243, perché il credito del creditore concorsuale verso il fallito sta nella regolazione concorsuale, ma il controcredito va regolato in maniera autonoma, perché non è del fallito ma del fallimento.

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La anteriorità è sempre presupposta perché fonda la reciprocità: tutto ciò che viene dopo ha regole diverse.La compensazione è opponibile al fallimento perché viene trattata come una sorta di garanzia ( in senso improprio) e proprio la circostanza che vi è l’opponibilità della compensazione, quest’ultima non si regge sulla circostanza che il credito eventualmente non scaduto scada alla data della sentenza dichiarativa del fallimento per effetto dell’art. 55 secondo comma. Ma il riferimento al 55 secondo comma è un riferimento improprio, perché quanto previsto è con riferimento al concorso, mentre qui questa ulteriore possibilità data dall’art. 56 di eccepire la compensazione non ha effetto ai fini del concordo ma ha effetto assoluto. Il problema che si era posto era , ferma l’anteriorità, cosa accadeva se anche il controcredito fosse a scadere dopo la sentenza dichiarativa: in un primo tempo la Cassazione argomenta dall’art 2917 c.c. il quale prevede che “ Se oggetto del pignoramento è un credito, l’estinzione di esso per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento, non ha effetto in pregiudizio al creditore pignorante o ai creditori che ne intervengono”: la giurisprudenza ha considerato la compensazione come causa successiva estintiva e quindi se il controcredito scade dopo la sentenza dichiarativa di fallimento non dovrebbe essere opponibile al fallimento e quindi il controcredito del fallimento rimane tal quale e il fallimento ha diritto di incassarlo per intero. Cause è un’espressione generica. Successivamente però la giurisprudenza ha maturato una visione più liberale, dicendo che in realtà la causa di cui parla il 2917 va intesa non come circostanza in senso generico, ma va intesa come riferimento al momento genetico del credito, quindi si riferirebbe a tutto ciò che avrebbe causa successiva. Ma se ha causa successiva il controcredito, se cioè il titolo per cui il controcredito nasce è successivo, è evidente che non c’è compensazione, così la norma non avrebbe senso.Il secondo comma dell’art 56 è ancora più divertente: Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore.Un soggetto è debitore del fallito per 100, non vuole pagare e va da un creditore, sempre anteriore alla data del fallimento, si suppone chirografario, proponendogli di pagargli una quota del suo credito superiore all’atteso all’esito della conclusione del fallimento: quindi il soggetto da debitore diventa anche creditore, e oppongo in compensazione questo credito. In pratica ottengo che locupleto 90, la differenza fra i dieci che pago a un terzo e i 100 che al fallimento non pagherò perché ho eccepito la compensazione. Il fallimento ci rimette 100/95 ma io attraverso il meccanismo compensativo al fallimento non pago niente e ci rimetto quello che costa l’operazione.Ma questa compensazione non è opponibile perché è una atto tra vivi fraudolento, caso previsto dal secondo comma del 56. Il legislatore non agisce sulla nullità della cessione del credito ma sul piano della opponibilità, si agisce sul piano degli effetti e in particolare sull’effetto compensativo. Quindi siamo nell’ambito dei rimedi revocatori ( 2901 e ss. c.c.), i quali tolgono di mezzo sono gli effetti che intralciano.Solo per atto tra vivi perché se avviene mortis causa non c’è la frode e quindi non è escluso dalla compensazione.Questa è una revoca legale dell’effetto compensativo, non del negozio di cessione del credito.Questo ci introduce al terzo grande gruppo degli effetti del fallimento.Artt. 61-63 – Norme che disciplinano quelle situazioni in cui il varco fra i due universi paralleli permane. Il fallimento crea si un universo parallelo e quindi devia la sistemazione dei rapporti giuridici agli effetti del fallimento ma con alcune rilevantissime eccezioni tipo la compensazione. Articolo 61 Creditore di più coobbligati solidali.Il creditore di più coobbligati in solido concorre nel fallimento di quelli tra essi che sono falliti, per l'intero credito in capitale e accessori, sino al totale pagamento. Il regresso tra i coobbligati falliti può essere esercitato solo dopo che il creditore sia stato soddisfatto per l'intero credito. Articolo 62 Creditore di più coobbligati solidali parzialmente soddisfatto. Il creditore che, prima della dichiarazione di fallimento, ha ricevuto da un coobbligato in solido col fallito o da un fideiussore una parte del proprio credito, ha diritto di concorrere nel fallimento per la parte non riscossa. Il coobbligato che ha diritto di regresso verso il fallito ha diritto di concorrere nel fallimento di questo per la somma pagata.

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Tuttavia il creditore ha diritto di farsi assegnare la quota di riparto spettante al coobbligato fino a concorrenza di quanto ancora dovutogli. Resta impregiudicato il diritto verso il coobbligato se il creditore rimane parzialmente insoddisfatto. Articolo 63 Coobbligato o fideiussore del fallito con diritto di garanzia. Il coobbligato o fideiussore del fallito, che ha un diritto di pegno o d'ipoteca sui beni di lui a garanzia della sua azione di regresso, concorre nel fallimento per la somma per la quale ha ipoteca o pegno. Il ricavato della vendita dei beni ipotecati o delle cose date in pegno spetta al creditore in deduzione della somma dovuta. L’art. 61 stabilisce che questo soggetto in base ai principi generali della solidarietà passiva ha diritto di concorrere per l’intero in ciascuno dei fallimenti, così come avrebbe, se non fossero falliti, diritto di chiedere l’integrale pagamento a ciascuno dei condebitori solidali. Qui non può farlo prima verso uno e poi verso l’altro, sono procedure parallele, ma ci saranno dei raccordi fra le due procedure per impedire che si paghi più del necessario. Ma se per caso il fallimento B è più capiente ( vedi schemi) e ha già pagato ma oltre i limiti della ripartizione interna ai condebitori solidali, il 10 di diventa credito di regresso fra i due fallimenti. Ha diritto anche il fallimento B di agire contro il fallimento A. Ma non potrà essere pagato B finché non sarà pagato il creditore, cioè l’eventuale insolvenza di A si ripercuote non sul creditore, ma sul condebitore fallito, cioè abbiamo una postergazione. Quindi viene completamente rispettata la disciplina generale con una postergazione fallimentare fra creditori.Molto interessante è l’art. 62 che concerne l’ipotesi in cui il creditore sia stato pagato in parte da A prima del fallimento.IL creditore che è parzialmente pagato da A per la parte non pagata ha ancora azione verso A, e ce l’ha contemporaneamente. Ma la legge dice che tutto ciò che il fallimento dovesse dare al non fallito A per pagare il credito di regresso, deve refluire comunque verso il creditore parzialmente pagato fino al concorso del pagamento integrale. Anche fuori del fallimento si crea una postergazione tra il creditore e il coobbligato in ipotesi non fallito, per ciò che quest’ultimo avrebbe diritto di ricevere dal fallito, ma che non può trattenersi perché sono soldi del creditore che è stato pagato solo in parte ( tipo quando il datore paga direttamente il coniuge del lavoratore gli alimenti).(non chiede all’esame i rapporti tra coobbligati, ma se glieli diciamo ci da il bacio in fronte)

26.11.2008Terzo gruppo degli effetti del fallimento

4. effetti nei confronti delle controparti di rapporti esauriti nel periodo sospettoSi tratta di effetti su atti esauriti ma che sono stati compiuti in un periodo sospetto e che pertanto vengono resi o dal legislatore ex lege o su iniziativa del fallimento per il tramite del procuratore vengono resi inopponibili al fallimento: quindi siamo nell’ambito della revocatoria, ma è una revocatoria speciale disciplinata dall’art. 66. Prima del 2006, si diceva che il fallimento si fa per una ragione sola: per poter esperire le revocatorie fallimentari, e quindi per poter rendere inefficaci tutta una serie di atti che avevano comportato diminuzione del patrimonio fallimentare o comunque diminuzione del vantaggio per i creditori concorrenti, cosicché il valore di queste attribuzioni, che i terzi non potevano più opporre al fallimento, erano acquisite alla massa attiva. Ovviamente il terzo maturava a sua volta un diritto nei confronti del fallimento, ma un diritto regolato, ancorché nascesse all’esito dell’azione del curatore, concorsualmente e cioè da pagarsi in moneta non buona ma fallimentare, e in chirografo. Solo nel fallimento era reintegrabile il patrimonio del fallito. Se era quiescente questa impresa significava che non aveva avuto più rapporti e quindi era importante cercare qualcuno che la rilevasse se c’era, perché con il fallimento non ottenevi nulla. Ma se non era quiescente e il fallimento era capitato nel bel mezzo dell’attività, allora si aveva senso chiedere il fallimento con la revocatoria, perché si recuperava un bel po’ di roba. La revocatoria colpisce si la frode, ma le revocatorie fallimentare non colpivano solo la frode: il limite assoluto della revocatoria di diritto comune è quello degli atti dovuti perché se c’è un’obbligazione di pagare un debito scaduto, anche se c’è l’intento fraudolento, questo è coperto dall’obbligazione giuridica, non rileva più l’intento. Non si può revocare (in via ordinaria) quell’atto che è adempimento di un debito scaduto. E quindi chi ha il credito che scade prima anche se viene pagato di buon grado dal debitore, questa è la logica

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del concorso del diritto comune; se paga spontaneamente il dovuto, senza necessità dell’azione esecutiva, non può essere soggetto a revocatoria.Nella revocatoria fallimentare invece troviamo una norma che afferma che sono pignorati anche i debiti liquidi ed esigibili. Quindi quel limite della revocatoria ordinaria è tolto perché in qualche modo il debitore se è un imprenditore commerciale sopra soglia e quindi esposto a fallimento, non ha solo il dovere di pagare i debiti via via che scadono, ma ha anche il dovere di chiedere il proprio fallimento se continuare significa aggravare il proprio dissesto.Il periodo sospetto ora è di sei mesi, una volta era un anno, ma con la riforma le revocatorie fallimentari sono state contratte.La logica sarebbe quella di dire che per evitare che l’imprenditore procrastini eccessivamente la decisione di portare i libri contabili in tribunale, bisogna creare un conflitto di interessi tra lui e i soggetti che trattano con lui, avvertendo questi ultimi se nel momento in cui in vengono a conoscenza dello stato di crisi e di insolvenza dell’imprenditore, non si attivano con una istanza di fallimento, poi vengono penalizzati rendendo inopponibili tutti gli atti che questi hanno concluso con il fallendo nel periodo sospetto. Quando si dice che si vuole creare un cordone ombelicale attorno al fallendo si intende il tentativo di creare una fascia di atti precari, per costringere i creditori a non seguire l’insolvente nel tentativo di salvare il salvabile. Lo scopo non è quello di far fallire l’impresa ma quello di agire con i metodi disposti dalla legge in modo da non pregiudicare i creditori deboli.Questo spiega perché vengano colpiti in primo luogo i pagamenti dei debiti scaduti: non ci interessa la frode ma il pregiudizio. C’è stata una disputa in giurisprudenza in relazione al pregiudizio: il pregiudizio a cui noi facciamo riferimento nella revocatoria ordinaria, è la diminuzione patrimoniale che mi rende incapiente il patrimonio al pagamento dei successivi; qui non va inteso in tal senso ma si dice che la revocatoria fallimentare è rivolta a colpire quel pregiudizio in cui consiste la lesione della par condicio. Il pregiudizio nel periodo sospetto è in re ipsa.Caso professionista - compenso con privilegio obbligato comunque a restituire il compenso ricevuto nel periodo di sospetto.E’ un calcolo che non si può mai fare ex ante perché ci sono tutte le spese prededucibili. Nelle situazioni peggiori quindi può capitare che non prenda niente nessuno.Pregiudizio è anche la presenza di una garanzia, quindi il far venir meno una garanzia, cioè non far venir meno il credito ma rendere inefficace la garanzia, significa far rifluire l’oggetto della garanzia nella massa attiva e quindi dalla garanzia di uno alla garanzia di tutti. Tutto ciò si basa sul presupposto che sia l’atto di disposizione, sia il pagamento sia la costituzione di garanzia, siano opponibili al fallimento e che quindi siano stati compiuti anteriormente, ma in maniera tale (art.45) che le formalità per renderlo opponibile ai terzi siano state compite prima dell’iscrizione nel registro delle imprese. Perché altrimenti non c’è bisogno di revocare l’atto ma semplicemente il curatore ne disconosce l’opponibilità al fallimento. La revocatoria va a colpire rapporti esauriti e che sono opponibili al fallimento, se non sono opponibili non c’è bisogno di revocatoria.Vedremo che la posizione di “buona fede del terzo” viene suddivisa in due posizioni: non è conoscenza della frode, ma il terzo viene salvato se ignora la situazione oggettiva che rende l’atto revocabile, cioè l’insolvenza; ma se il terzo ignora l’insolvenza non sempre viene salvato: si distinguono quelle situazioni in cui l’atto avviene in maniera tale da essere sintomatico di insolvenza, casi in sui il terzo deve rendersi conto dei segni sintomatici e in tal caso si presume, salvo prova contraria, che l’insolvenza fosse conosciuta; ci sono altri atti non sintomatici e in tal caso bisognerà provare la conoscenza dello stato di insolvenza. Quindi nelle revocatorie fallimentari gran parte degli atti sono coperti da una presunzione di mala fede e in relazione a questi atti vincere la presunzione è molto difficile perché la giurisprudenza giunge a dire che quello che conta non è la conoscenza in concreto ma la conoscibilità. La diligenza va valutata secondo la categoria di appartenenza.Questa logica si ispira al fatto che per ridurre il danno, non solo per i chirografari ma alla luce di quanto detto circa il peso delle spese prededucibili di tutti creditori concorsuali anteriori, bisogna

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impedire che ci sia una diminuzione del patrimonio, sicché prima viene bloccato questo patrimonio meglio è. L’unico modo è dichiarare il fallimento e se non avviene bisogna trovare il mezzo per riportare indietro le lancette dell’orologio.In passato, questo meccanismo veniva perseguito attraverso la retrodatazione degli effetti della sentenza di fallimento: il tribunale dichiarava da quale data decorrevano gli effetti della sentenza. Il legislatore del 1942 ha scelto l’altra via del periodo sospetto, una volta stabilito in due anni per gli atti sintomatici, un anno per gli atti non sintomatici.Nella riforma del diritto societario, si trova la restituzione dei finanziamenti anomali, quelli fatti cioè in epoca di crisi, di tensione, nelle società a responsabilità limitata, che vengono revocati di diritto se entro un anno interviene il fallimento della società. Questi sarebbero postergati nel pagamento rispetto agli altri creditori sociali.Ci sono nell’ordinamento una serie di norme che non sono state toccate dalla legge fallimentare e quindi ora c’è un po’ di confusione. Le direttrici della riforma hanno riguardato la riduzione del periodo sospetto da due anni a una anno per gli atti sintomatici, da un anno a sei mesi per gli atti non sospetti, ciò significa che l’atto che sarebbe astrattamente revocabile si consolida prima.L’intervento più radicale è stato quello relativo ai profili di esenzione dall’azione revocatoria, perché questa disciplina delle azioni revocatorie fallimentari era in realtà limitata da alcuni paletti nel 1942, che riguardavano operazioni considerate meritevoli di tutela per ragioni più forti di quanto fossero considerati meritevoli di tutela i creditori dell’imprenditore: es. classiche operazioni di mutuo fondiario. Erano ipotesi confinate in una norma che non aveva rilevanza, col tempo però sono state esentate da revocatoria tutta una serie di operazione, e sono operazioni che vedono dal lato del revocando una banca (casualmente). Tutte queste operazioni e quindi tutte le somme che venivano restituite dalla banca venivano esentate tutte dalla revocatoria. Quindi almeno per alcuni settori, soprattutto quello bancario, non c’era nessun atto revocabile.Questo aveva già creato una grossa distorsione dell’applicazione dell’istituto della revocatoria. Quindi all’esito del suo esperimento venivano lesi i chirografari deboli, soggetti che avrebbero invece dovuto essere tutelati dallo strumento revocatorio.La giurisprudenza ha reagito, si era perfino affermata l’idea che fossero non revocabili perché il percettore è un monopolista legale. Ma non c’era scritto da nessuna parte che i pagamenti ai monopolisti legali fossero irrevocabili, se l’era inventato la giurisprudenza. Vi era in realtà un contrasto fra la magistratura superiore (Cassazione) e le corti di merito che sono quelli che fanno il fallimento e quindi tendono a dar ragione al fallimento, mentre la Cassazione ragiona per alti principi. Quindi le corti di merito revocavano e poi tutto andava in Cassazione la quale dichiarava irrevocabile l’atto. Era un effetto positivo della distorsione della procedura fallimentare. L’argomento specioso era che l’obbligo fondamentale che ha il monopolista legale è quello di dover contrarre con tutti e deve praticare la parità di trattamento secondo i mezzi ordinari dell’impresa, quindi i monopolisti legali sostenevano che, visto l’obbligo di contrarre, non possono rifiutare il pagamento del debito liquido ed esigibile, perché è esercizio del suo diritto. Il rifiuto del pagamento diventa un illecito, perché consiste una violazione dell’obbligo di contrarre. Questo ragionamento viene superato sostenendo che non è vero che il monopolista legale ha l’obbligo di ricevere il pagamento perché ha l’obbligo di contrarre, perché l’obbligo di contrarre è subordinato all’obbligo di non contrarre se viene dichiarato il fallimento. C’è da sottolineare che un soggetto che ha l’obbligo di contrarre con milioni di persone ha la percezione dello stato di insolvenza dello stesso solo quando non paga, perché non riesce a percepirlo prima ( in relazione anche a quella conoscenza/conoscibilità).Il legislatore ha pensato bene di depotenziare le revocatorie, confermando tutte le vecchie esenzioni legali (tranne questa che era giurisprudenziale) e prevedendo nell’art. 67 terzo comma una vasta gamma di esenzioni, sulla cui interpretazione si sono accese molte dispute. La logica di questo intervento è che coloro i quali assicurano la liquidità all’impresa per continuare, non vanno penalizzati. E’ la logica del passaggio da una impostazione sanzionatoria anche del fallimento, a una logica anche nel fallimento di salvataggio, non dell’imprenditore, ma di quella minima capacità

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produttiva, che consentono la minore dispersione di risorse possibili, potenziando anche le procedure dirette ad evitare il fallimento.

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Analisi delle norme sugli effetti del fallimento relativi agli atti pregiudizievoliLo scopo della revocatoria è di ripristinare la par condicio creditorum, secondo la categoria di appartenenza, nella ipotesi in cui il fallimento fosse stato dichiarato a tempo debito e quindi quando il fallimento si è prodotto, nella presunzione di legge che il dissesto si sia prodotto sempre prima e precisamente nel periodo sospetto. Questo comporta la possibilità per il soggetto che viene compulsato con la revocatoria, il terzo cioè, di provare che all’epoca del compimento dell’atto il dissesto non sussisteva; soprattutto oggi con la riduzione dei termini è ben difficile provare che l’insolvenza non sussistesse in questo tempo ridotto anteriore al compimento dell’atto. Quindi di fatto la revocatoria opera quasi automaticamente. Il conoscere non è il conoscere psicologico effettivo. Proprio perché poi la situazione posta alla base di questa situazione non è la frode ma la lesione della par condicio, ci sono alcuni atti che non hanno neanche bisogno di essere aggrediti dalla azione revocatoria intentata dal curatore, perché di per sé sono fatti oggetto di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento e perciò vengono revocati ex lege. Tipicamente appartengono a tale categoria gli atti a titolo gratuito, i quali sono privi di effetto rispetto ai creditori se compiuti dal fallito nei due anno anteriori al fallimento: l’ordinamento ritiene che coloro che hanno avuto senza contraccambio debbano restituire a coloro che devono avere perché hanno già dato. Però ancora una volta il fallimento non travolge le situazioni giuridiche oltre certi limiti, infatti qui vengono fatti salvi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, con il limite però che la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante.C’è poi la categoria dell’art. 65, la quale riguarda i pagamenti anticipati: sono revocati ex lege quei pagamenti anticipati di crediti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o dopo se tali pagamenti sono stati eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione del fallimento. Qualche volta si trova scritto che questi pagamenti sono revocati perché assimilati agli atti gratuiti per l’aspetto dell’anticipazione o perché essi sono di per se sintomatici di un accordo collusivo fra creditore e debitore, nel senso che il creditore si fa pagare prima perché sa del dissesto in itinere. Quindi avremmo un pagamento preferenziale punibile anche a titolo di bancarotta. Ma la ratio non è questa, ma si collega all’art.44 ove di afferma che tutti gli atti che il fallito compie dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci. Se il fallito cioè visto che la scadenza è posteriore alla data del fallito, avesse atteso la scadenza, non avrebbe potuto effettuare un pagamento efficace. Siccome l’ha fatto prima i creditori non possono essere danneggiati da una circostanza occasionale.L’art. 65 non è l’anticipazione dell’art 64 ma dell’art 44. L’art. 66 disciplina l’azione revocatoria ordinaria: cioè nel fallimento è esperibile l’azione revocatoria pauliana e con le caratteristiche della stessa; quindi non la si può esperire oltre i limiti per cui la stessa è esperibile fuori del fallimento, non quindi contro i debiti liquidi ed esigibili, perché questo è un limite strutturale di questa azione. Qui l’azione non viene esercitata dal creditore ( perché c’è il blocco delle azioni esecutive) ma viene esercitata dal curatore negli interessi di tutti i creditori. In proposito c’è una controversia sulla sorte dell’azione intentata dal creditore contro il debitore poi fallito: la giurisprudenza sostiene, in contrasto con buona parte della dottrina, che questa azione diviene improcedibile. L’azione esercitata dal creditore contro il debitore poi fallito, se il curatore non subentra quell’azione procede ma non produce effetti per il fallimento. Al massimo il curatore può subentrare e farla propria, ma allora nell’interesse della massa dei creditori. Secondo parte della dottrina non dovrebbe divenire improcedibile, perché ci può essere sempre l’eventualità che il fallimento si chiuda con una particolare situazione e che pertanto l’azione possa a fallimento chiuso ritornare utile al creditore che l’aveva inizialmente intentata. Quindi l’azione dovrebbe poter continuare, salvo produrre i suoi effetti alla chiusura del fallimento.

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Altro art. collegato è il 69bis: Decadenza dall'azione. Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell'atto.Fa riferimento alle azioni revocatorie non solo speciali ma anche ordinarie. La ratio dell’introduzione di questa norma è il principio di certezza delle situazioni giuridiche: c’è tempo tre anni per la verifica degli atti revocabili o meno e per decidere se chiedere la revocatoria, ma comunque non più di 5 anni dal compimento dell’atto. Questo significa che la revocatoria ordinaria ha un termine prescrizionale di 5 anni che può essere ridotto: una volta i 5 anni decorrevano a ritroso dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento, ma ora no perché sono collegati alla doppia decadenza. Se c’è un atto compiuto 4 anni prima alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, non posso colpire l’atto con una revocatoria fallimentare, per la quale il periodo sospetto non si estende così in là, ma lo potrei colpire con la revocatoria ordinaria sempre però che sia dentro ai primi tre anni e comunque non oltre i 5 anni dall’atto ( questo non è più un termine prescrizionale ma una decadenza).L’azione revocatoria ordinaria è comunque di poco agevole utilizzo all’interno del fallimento.Norma portante è l’art 67Articolo 67 Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie (1) . Sono revocati, salvo che l'altra parte provi che non conosceva lo stato d'insolvenza del debitore: 1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso; 2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; 3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti; 4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti. Sono altresì revocati, se il curatore prova che l'altra parte conosceva lo stato d'insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento.Non sono soggetti all'azione revocatoria: a) pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso; b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca; c) le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado;d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dall'articolo 28, lettere a) e b) ai sensi dell'articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile;e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata, nonché dell'accordo omologato ai sensi dell'articolo 182-bis; f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito; g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all'accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.Le disposizioni di questo articolo non si applicano all'istituto di emissione, alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario; sono salve le disposizioni delle leggi speciali .

Al primo comma troviamo gli atti sintomatici dello stato di insolvenza: questi atti vengono resi inefficaci dal curatore, ma assistiti dalla presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza nel terzo che viene aggredito. La scientia è la conoscenza dello stato di insolvenza che si presume, è il terzo a dover dare prova contraria (probatio diabolica). Qui il curatore agisce tranquillamente. Vedi norma. Al n. 1 si trovano i cosiddetti atti sproporzionati: qui il legislatore è intervenuto abbattendo il limite di tempo e ponendo il limite della notevole differenza che la giurisprudenza è arrivata a quantificare

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nel quarto. ( se qualcuno ti regala qualcosa c’è sempre l’imbroglio). Il problema è che questa soglia pone un limite, un vincolo, perché ci possono essere mercati uno sconto di questo tipo non è anomalo, ma il giudice è vincolato a ritenerlo sintomatico. Questa soglia contraddice lo scopo della revocatoria.Al n. 2 ci sono i pagamenti (non in senso stretto) anomali: la tipica estinzione è la datio in solutum. Ancora una volta una mia previsione in ordina allo smercio di beni si è rivelata fallace o quanto meno incongrua alla mia situazione. Se ho un debito pecuniario e non lo pago in denaro vuol dire che ho un problema di liquidità. Altro esempio è una cessione di credito che però non è abituale nei rapporti tra debitore e fornitori o nell’ambito di quel settore: qui il legislatore non è intervenuto e quindi è compito del giudice valutare se quel mezzo estintivo è o non è anomalo.Al n. 3 ci sono le garanzie reali volontarie: qui è praticamente impossibile dare la prova della ignoranza o mancata conoscenza della insolvenza perché in tale ipotesi si fa riferimento a debiti preesistenti alla costituzione volontaria della garanzia quindi sorti senza alcuna garanzia reale: l’unico motivo che potrebbe spingere un debitore a costituire volontariamente una garanzia è l’aver subito dal creditore una minaccia di fallimento in caso di rifiuto di concessione della garanzia. Sappiamo che il fallimento rispetta i privilegi che si sono costituiti regolarmente al momento del sorgere dell’obbligazione ma queste garanzie costituite nel modo di cui al n.3 ledono la par condicio tra i creditori. Questi creditori che minacciano il fallimento sono creditori molto forti, tipo le banche, le quali concedevano un aumento di fido in cambio di una garanzia, di tale importo però che copriva non solo il debito concesso ma anche tutti i debiti preesistenti. Il guaio è che purtroppo il reati di bancarotta non vengono mai perseguiti con la dovuta severità, ma agiscono solo in relazione alla bancarotta fraudolenta in ipotesi particolarmente gravi.

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….continuando con l’analisi dell’art. 67…Al n. 4 c’è un’ipotesi pur sempre sintomatica, ma che il legislatore considera meno grave: questa minore gravità si ripercuote sul periodo sospetto che non è più l’anno ma sono i sei mesi, e cioè il periodo sospetto breve. La sintomaticità si ha nel momento in cui il debito viene a scadere e il debitore (che entro sei mesi poi fallirà) non ha di che pagarlo e ottiene una dilazione di pagamento, ma questa volta il creditore si ripara chiedendo una garanzia volontaria. La cosa è meno sintomatica perché è normale che un creditore che è stato scottato chieda una garanzia, ma allo stesso tempo questa richiesta è indicativa del fatto che il creditore conosceva lo stato di insolvenza del debitore.Questi del primo comma sono gli atti sintomatici; al secondo comma ci sono gli atti non sintomatici: qui proprio perché non sono sintomatici, il terzo può averli compiuti nella assoluta ignoranza della situazione di dissesto, anzi è probabile e quindi non c’è più la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza. Sarà il curatore che dovrà provarlo, ma anche qui al curatore sarà sufficiente provare che al momento della conclusione dell’atto, esistevano circostanza, fatti esteriori, i quali il soggetto, munito della diligenza propria della cerchia di soggetti a cui appartiene in concreto il terzo, poteva e doveva considerarli come fatti sintomatici di insolvenza. Questi atti sono innanzitutto i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili: la norma indica che la revocatoria fallimentare è funzionalmente diversa dalla revocatoria ordinaria perché in quest’ultimo caso non possono essere revocati i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili. Ma nella revocatoria fallimentare l’eventus damni non è la frode ma la lesione della par condicio creditorum.Poi non sono sintomatici, gli atti a titolo oneroso, quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestuali ( qui è normale che la garanzia venga richiesta). L’aggiunta della indicazione di “terzi” fa riferimento alla possibilità che ci sia un’azione che si ripercuote sul soggetto fallito a prescindere dal fatto che sia debitore o no. Il termine è di sei mesi.Ulteriore novità della riforma è il terzo comma che è stato aggiunto: in origine le disposizioni relative all’esenzione dalla revocatoria erano queste ora quarto, terzo comma inerente al credito fondiario e tutta la serie di leggi speciali che fin dagli anni ’50 avevano reso esenti le banche dalla revocatoria.

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Nello specifico questo nuovo terzo comma prevede tutta una serie di casi che possono essere raggruppati in tre gruppi di intervento: cominciando da quella meno interessante, c’è innanzitutto la tutela della fondamentale esigenza abitativa, che è implementato nella lettera c e che troviamo poi anche in un provvedimento legislativo che completa questa disciplina. Il secondo gruppo è di coloro che hanno collaborato per la ricerca di soluzioni concordate della crisi: uno dei grossi problemi della situazione anteriore era che l’imprenditore in difficoltà si recava in banca, la quale incaricava un professionista per la redazione di un piano di recupero, il quale lavorava un sacco ma poi il soggetto falliva comunque, e inoltre il professionista oltre a perdere la parcella veniva imputato per concorso in bancarotta. Quindi nell’ottica di favorire le soluzioni concordate della crisi, il legislatore non solo le aumenta, ma cerca anche di costruire una sorta di protezione per coloro che vi hanno presso parte: i casi sono quelli della lettera g) che riguarda l’esenzione dalla revocatoria dei pagamenti per ottenere la prestazione di servizi strumentali (attività di consulenza) all’accesso delle procedure concorsuali e di concordato preventivo; della lettera d) che riguarda gli atti i pagamenti e le garanzie, poste in essere in esecuzione del concordato preventivo, nonché dell’accordo omologato di cui al 182bis. L’accordo omologato di cui al 182bis è l’accordo di ristrutturazione dei debiti, è un’altra di queste procedure di soluzione concordata della crisi. E’ il tentativo di cercare un accordo meno complesso del concordato preventivo ma con una finalità molto simile, accordo che si realizza sulla base di misure che sono postergazione di crediti, pagamenti, costituzione di garanzia, misure tutte pensate allo scopo di mettere sulla linea di galleggiamento. Tutte le operazioni compiute per dare esecuzione o a un accordo di questo tipo o a un concordato preventivo, sono fuori dalla revocatoria. In precedenza la giurisprudenza oscillava sul punto, mentre ora si può tranquillamente cercare queste soluzioni, anzi è conveniente se non altro per dare l’irrevocabilità agli atti compiuti in sede di soluzione concordata.Infine c’è la lettera d, la quale è essa stessa costitutiva di una di queste procedure di soluzione concordata della crisi: riguarda gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse sui beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria (cioè un piano che ripristina la sua solvibilità) e la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dall'articolo 28, lettere a) e b) ai sensi dell'articolo 2501-bis, quarto comma, del codice civile. I requisiti dell’art. 28 sono i requisiti per diventare curatore e il rinvio al 2501- bis è la norma in tema di fusione mediante indebitamento. Non si sa che cos’è il piano di risanamento perché non ci sono stati casi pratici, saltano fuori solo se c’è il fallimento, non c’è omologa. Il piano è un progetto di intervento economico-finanziario: nella pratica è sempre successo che quando il debitore è in difficoltà va in banca, la quale fornisce i soldi per pagare i debiti in scadenza, e fanno un accordo di postergazione, il tutto per tamponare l’insolvenza presente. Questi si sono sempre chiamati concordati stragiudiziali: la giurisprudenza fino agli anni ’80 li considerava nulli perché li considerava si rivolti ad evitare il fallimento ma non rispettando le procedure previste dalla legge e dunque erano in frode alla legge. La scelta era o fallisci o eviti il fallimento tramite la procedura a o b.Successivamente però la giurisprudenza è venuta a più miti consigli, dicendo che in realtà questa operazione in tanto in quanto mira ad evitare l’insolvenza, di per sé non è immeritevole di tutela perché si comincia a percepire che l’impresa funzionante è un interesse che va al di la dell’interesse dell’imprenditore. Quindi ammette questi concordati stragiudiziali purché non ledano la par condicio creditorum, e cioè questi concordati stragiudiziali consisterebbero in rinunce parziali o no, temporanee o no, ad esigere il credito, accompagnate da nuova finanza, necessaria questa a pagare regolarmente coloro che nel pactum de non petendo non vogliono entrare. Quindi secondo la giurisprudenza se il pactum de non petendo non coinvolge tutti i creditori, ma gli altri non subiscono pregiudizio perché comunque vengono pagati, grazie anche agli altri creditori, allora il concordato stragiudiziale è valido.

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Questa operazione naturalmente poteva esser condotta nella maniera più arbitraria possibile e allora il legislatore del 2006 che vuole evitare in qualsiasi modo il fallimento, giuridicizza questi concordati stragiudiziali, e per evitare che siano fraudolenti ne chiede l’attestazione da un professionista. Poi qualora il piano non vada a buon fine, c’è una valutazione del giudice sul progetto, e si valuterà anche la responsabilità del professionista. La valutazione del tribunale sull’idoneità, rende o meno revocabili tali atti. Ma allora, data la rischiosità dello stesso, non ci sarà nessun professionista che sarà disposto ad attestare questi piani.Nel secondo gruppo dalle revocatorie per tutti gli atti inerenti ad operazioni tipiche o no di salvataggio dell’impresa.Il terzo gruppo sarebbe riconducibile, lett. a), b) ed f), all’esonero dalla revocatoria degli atti intercorsi tra il debitore che poi sarebbe fallito e i fornitori, di beni o servizi ( let. a ), fornitori di denaro (let. b ), fornitori di energie di lavoro ( let. f): con esclusione della lettera f che pone alcuni problemi, il punto di maggiore discussione si ha in relazione alle lettere a e b.Tornando al primo gruppo, la lettera c tutela il diritto all’accesso alla casa di abitazione e continua la disciplina anticipata con il d.lgs. 122/2005: in diritto privato si parla della tutela del soggetto che stipula il preliminare con il costruttore di un immobile. Il soggetto ha l’onere di verificare il registro delle imprese e il registro informatico dei protesti quando vuole acquistare un immobile, per evitare di essere pregiudicato da una revocatoria fallimentare successivamente. Infatti se la revocatoria viene esperita non posso invocare la mia ignoranza perché potevo informarmi.Questa tutela, nell’art. 10 del decreto è una tutela estesa all’ipotesi in cui ci sia stato il fallimento, e questa norma completa la tutela della lettera c del terzo comma art. 67 terzo comma: questo perché nel 67 si parla di vendite, preliminari di vendita trascritti aventi oggetto immobili, mentre nella legge 122 si parla del caso di immobili da costruire. E’ la lex fall. che completa la legge 122.La cosa interessante nella legge 122, è che non è menzionato il coniuge, nemmeno nella legge fallimentare, e quindi si suppone che i coniugi debbano avere la stessa residenza.Altra cosa interessante è che siccome si parla di conclusi a giusto prezzo non si fa riferimento alle vendite sproporzionate e quindi nel caso di maxi sconto non sono coperto da questa tutela. Problema è capire qual è il non giusto prezzo: opinione comune è che il giusto prezzo sia contenuto entro il quarto. Questo per evitare che il fallito cerchi di trovare finanze in maniera rovinosa.

03.12.2008

Lettera a del terzo comma art. 67: a) pagamenti di beni e servizi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa nei termini d'uso. Questa frase è insidiosa, non tanto per la parte che fa riferimento all’esercizio dell’attività d’impresa, in relazione alla quale c’è opinione concorde generale, facendo riferimento ad un’impresa non in fase di liquidazione, intendendo l’attività corrente. Il problema è che si parla di pagamenti tout court e pagamenti in termini d’uso, non si parla di debiti scaduti: l’espressione “termini d’uso” è molto controversa. Una opinione sostiene che questa è un’espressione generica che vuol fare riferimento al tempo e alla modalità del pagamento che è d’uso, uso inteso in senso debole come pratica. Ma pratica fra chi, fra i due soggetti debitore e fornitore o pratica del settore di attività? Secondo alcuni pratica dei soggetti della transazione. Ma personalizzata così la cosa si rischia che i due soggetti si mettano d’accordo, cioè il fornitore dica “ io non ti consegno se non mi paghi” e quindi in tal caso si ha una chiarissima modalità di pagamento anomala. Quindi in questo modo la norma diventerebbe l’esatto contrario della funzione originaria della revocatoria, e quindi quella minaccia di rendere inefficaci gli atti se hai conosciuto lo stato di insolvenza, verrebbe rivoltata in garanzia di non farti restituire nulla anche se a conoscenza.Secondo Menti, invece, bisogna partire dalla ratio di queste norme: l’intento del legislatore è di evitare il fallimento in qualsiasi modo, attraverso delle procedure particolari. Il legislatore non ha d’altra parte perseguito quella che era stata la prima tendenza riformatrice, cioè quella di istituire gli istituti di prevenzione e allerta e di prevedere degli obblighi di comunicazione posti a carico di vari

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soggetti circa la situazione di difficoltà delle imprese. Ma questi istituti costano e bisogna istituire i supporti di questa informazione.Questo significa che non ci sono possibilità oggi come in passato di conoscere le situazioni di crisi. E per dichiarare il fallimento si attende troppo tempo in modo che la situazione peggiora ulteriormente. Quindi bisogna fare in modo che coloro che vengono a conoscenza dello stato di insolvenza per primi, non utilizzino questa informazione “privilegiata” per ottenere dei vantaggi e ledere però la par condicio. Questo significa che i fornitori hanno tutto l’interesse a chiedere il fallimento o quantomeno di incentivare una soluzione concordata per risolvere la crisi, perché se poi viene dichiarato il fallimento il legislatore “penalizza” i fornitori che non si sono attivati tempestivamente attraverso la revocatoria. Quindi non si deve considerare la revocatoria come una franchigia per tartassare l’impresa fina all’ultimo chiedendone pagamenti.Il legislatore perciò fa salvi questi pagamenti solo se sono stati fatti non conoscendo lo stato di insolvenza, altrimenti vengono revocati. Questa argomentazione recupera un po’ quella giurisprudenza che considerava illeciti i concordati stragiudiziali. Ora c’è un atteggiamento premiale nei confronti di coloro che collaborano.Quindi termini d’uso vuol dire che se la situazione dei rapporti fra imprenditore e fornitore è quella da sempre in corso tra di loro, o da quella abituale nella cerchia di quei soggetti, non c’è ragione che il soggetto se non è a conoscenza dello stato di insolvenza venga menato.In altre parole, l’espressione che “non sono soggetti a revocatoria i pagamenti nei termini d’uso” va ad integrare il secondo comma. Termini d’uso è una espressione generica, che fa riferimento alle pratiche, mentre al secondo comma si parla di debiti liquidi ed esigibili, qui si invita il giudice a guardare il caso concreto, gli accordi intercorrenti tra le parti. Non si può nemmeno dire, quando si parla di termini d’uso, che si debba fare riferimento alle norme di legge.Finché il rapporto si tiene nei termini d’uso, la diligenza del fornitore, non è una diligenza che deve necessariamente esercitarsi oltre i limiti consueti.La norma ci dice che un fornitore non ha l’obbligo di consultare il registro informatico dei protesti del debitore finché dall’altra parte non gli arriva un segnale di difficoltà. La norma mi dice che le imprese devono essere nel limite del possibile scaricate dai costi di una eccessiva informazione, anche perché se gli rendi costosa la via onesta il soggetto sceglierà la via disonesta.In questo modo si ottiene che il fornitore è tra i primi che viene a conoscere l’insolvenza, si attiva per trovare un accordo e si riesce a rendere efficiente la disposizione premiale dell’irrevocabilità.La lettera b va coordinata con l’art. 70: qui si parla di rimesse effettuate su un conto corrente bancario. I rapporti bancario non ce n’è uno che non sia disciplinato tramite conto corrente. La banca può concedere un fido all’imprenditore, io posso prelevare in qualsiasi tempo, qualsiasi importo perché la banca me li mette a disposizione, l’importante è non sforare il fido, perché la banca non dovrebbe concedermi di sforare, e se sforo vado fuori dal contratto. Quando ho finito di pagare i miei fornitori dico ai clienti di accreditare quanto a me dovuto direttamente in c/c. Quindi può essere che il c/c non arrivi mai a sforare il fido perché ci sono rimesse. Tutte queste operazioni danno origine a un flusso contabile. Nel frattempo tutte le iscrizioni contabili hanno un valore meramente di documentazione, salvo che tu abbia sforato il fido, perché in tal caso, essendo uscito dal rapporto di fido, hai aperto un mutuo ma senza fissazione di un termine e quindi in assenza del termine devi il tuo debito subito. Ma in realtà la banca tollera la non restituzione immediata, ma è la rimessa che va ad azzerare il mutuo questa è pagamento del debito liquido ed esigibile.Si stabilisce che “b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;” Le rimesse che riducono lo scoperto, l’ultimo pagamento a chiusura del conto da parte di una posizione di cliente debitoria, l’ultima rimessa fatta su un conto che si chiude per effetto del fallimento, secondo il diritto vivente fino alla legge fallimentare erano pagamenti di debiti liquidi ed esigibili.

09.12.2008

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Abbiamo visto che le rimesse non sono in presenza di alcune condizioni, soggette a revocatoria. La giurisprudenza, prima dell’80 considerava revocabili tutte le rimesse; poi si afferma l’idea che nella normale gestione del conto concorrente finché le rimesse si limitano a ripristinare la provvista, cioè riducono la passività che però non hai ecceduto i limiti del fido, non sono revocabili, ma sono atti neutri, ad eccezione della ultima rimessa, quando il conto si chiuda il conto per effetti del fallimento, e del pagamento che il cliente alla chiusura del conto debba fare per restituire le passività.Sono diverse quelle rimesse che vanno a ridurre una passività che è anche in tutto o in parte scopertura, cioè che va oltre il fido: questa rimessa è revocabile per la parte che eccede, perché ha natura di pagamento di un debito liquido ed esigibile, visto che corrisponde ad un mutuo e in relazione a tale somma c’è l’obbligo di pagare subito.Le banche ovviamente si lamentavano perché nel caso in cui il soggetto sforasse più di una volta, veniva revocata la somma di tutti gli sformanti mentre la banca sosteneva bisognasse revocare la massima somma di sforamento.La banca può consentire molti sforamenti, ma controllandone l’entità può ottenere una migliore esposizione al fine della revoca. La giurisprudenza ha sempre negato alle banche questa impostazione, e lo dice anche la Cassazione, per una ragione di serietà di concessione del credito.Queste operazioni che le banche difendevano, sono legate all’interesse delle banche di operare senza trasparenza, allo scopo di evitare l’insolvenza di clienti nei cui confronti le banche non hanno garanzia. Quindi il legislatore della riforma viene parzialmente incontro alle banche: intanto detta una norma sulle rimesse che prima non c’era, ma non per esentarle in quanto tali, quanto per esentarle nel caso in cui esse siano espressive della conoscenza di uno stato di insolvenza da parte della banca: “ le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”. Quindi se ne ricava a contrario che le rimesse effettuate su un c/c che abbiano ridotto in maniera…restano revocabili. Si nota che sparisce la nozione di scopertura. Si ammette che della scopertura non possa rispondere la banca.Visto che le scoperture che vengono tollerate adesso non hanno una origine negativa, di una cattiva tecnica bancaria, lasciamole stare. Ma se abbiamo delle rimesse che riducono il debito in maniera consistente e durevole (durevole da valutare nel caso specifico), significa che la banca ha detto al cliente o rientri o qui la situazione si mette male. Allora il cliente provvederà in altro modo, cercherà di farsi pagare dai fornitori in contanti, ecc.Questa situazione è quindi sintomatica di conoscenza dello stato di insolvenza, perché una banca che fa da cassiere non smette di farlo senza motivo, perché è il suo compito.Quindi tale rimessa è irrevocabile in quanto tale perché c’è un tentativo di rientro in vista del fallimento.Finché la banca decide se rincorrere o no l’insolvenza del proprio debitore-cliente, conoscendone la causa e l’origine, le operazioni che la banca impone al cliente, senza più esercitare l’attività di cassa, tutte queste operazioni non rientrano nella normale gestione e quindi sono operazioni revocabili. Le banca non può esigere di essere trattata come cassiere, e quindi avere l’irrevocabilità delle operazioni, quando cassiere non lo è. La banca si lamenta perché nonostante tutto questa norma imponeva loro un esercizio oculato dell’attività di finanziamento: esse richiamarono l’art. 70 ove si stabiliva che qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti continuativi e reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d'insolvenza, e l'ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Quando c’è di mezzo un rapporto continuativo e reiterato il fornitore può vedersi revocato al massimo l’importo che nel periodo sospetto rappresentava la maggiore estensione del suo debito. La

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logica era che il fornitore nel momento in cui si accorge dell’insolvenza del suo cliente/debitore, ha il problema se continuare o meno la fornitura, perché se continua è soggetto a revocatoria, ma se termina la fornitura, non è detto che riesca ad essere soddisfatto, ma soprattutto magari è l’unica liquidità che percepiva.Nel frattempo questo cercherà di spingere il debitore a quelle operazioni che consentano di ottenere la irrevocabilità dei pagamenti. Ma siccome queste soluzioni sono ad iniziativa del debitore, non è detto che egli sia sollecito nel chiedere queste procedure. Da questo punto di vista quindi è equo limitare il peso della revocatoria.Le banche quando lessero questa norma sostennero che nei rapporti coordinati e continuativi rientrano anche i rapporti di conto corrente e quindi la regola del massimo scoperto si applica anche a loro. Si pose quindi il problema di concorso fra i due articoli: secondo Menti il 67 è una norma speciale che si applica a fattispecie speciali di conto correnti.Poi cambio il governo e purtroppo nel settembre del 2007 è stata inserita l’espressione “ derivanti da conto corrente bancario” creando una norma che non ha senso perché tutto l’art. 67 viene messo in un angolo dall’art. 70, perché non ha più senso guardare se una esposizione debitoria è stata ridotta o no in maniera consistente, ma si va semplicemente a vedere la massima estensione del debito. La banca quindi non estinguerà il conto ma lo bloccherà in modo da usufruire della irrevocabilità, cosa che non succederebbe nel caso il rapporto di estinguesse. Questo escamotage non è utilizzabile dal fornitore.Il professore ha proposto l’incostituzionalità di tale norma per disparità di trattamento, e anche per violazione della delega.

10.12.2008Esenzioni soggettive ( revocatoria dirottata o deviata)L’atto non viene reso inefficace in capo a un soggetto ma in capo ad un altro. Ad esempio la revocatoria dei pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, si esercita e produce effetto nei confronti del destinatario della prestazione. La norma che è prototipo di queste idea di deviare la revocatoria, è una norma che c’è da sempre nella legge fallimentare che è l’art. 68 cioè il pagamento di cambiale scaduta, ratio che ritroviamo in una norma intermedia della legge speciale sul factoring.Il problema della cambiale è che colui che si presenta come portatore finale del titolo cambiario, ad esigere il pagamento, e ci presume che il debitore sia in situazione di insolvenza, è tra l’incudine e il martello, perché se si tratta del portatore finale, egli ha sia l’azione cambiaria nei confronti dell’obbligato principale, sia l’azione di regresso nei confronti dei giranti a lui precedenti; ma per esercitare l’azione di regresso bisogna levare il protesto, cioè bisogna presentarsi al debitore principale, chiedere il pagamento e al rifiuto redigere un processo verbale, che è il protesto. Occorre levare il protesto, non tanto per far constare il mancato pagamento, ma quanto per mettere a conoscenza tutti attraverso la notifica del protesto, del fatto che non c’è stato il pagamento e quindi che di può essere chiamati a pagare in regresso. Io che sono il portatore finale, mi trovo tra l’incudine e il martello, perché per agire in regresso devo avere il protesto, e per effettuare il protesto devo avere il rifiuto di pagamento dal debitore principale; ma se il debitore principale mi paga io ottengo un pagamento revocabile perché poi fallisce. Quindi io non ho l’interesse ad evitare il pagamento, perché mi trovo nella possibilità di recuperare il pagamento non fatto da altri soggetti che rispondono in via di regresso, d’altra parte però per agire contro questi soggetti devo avere il protesto…ecc.Articolo 68 Pagamento di cambiale scaduta.In deroga a quanto disposto dall'art. 67 , secondo comma, non può essere revocato il pagamento di una cambiale, se il possessore di questa doveva accettarlo per non perdere l'azione cambiaria di regresso. In tal caso, l'ultimo obbligato in via di regresso, in confronto del quale il curatore provi che conosceva lo stato di insolvenza del principale obbligato quando ha tratto o girato la cambiale, deve versare la somma riscossa al curatore. Devo presentare la cambiale per il pagamento onde in caso di rifiuto di pagamento poter levare il protesto per mantenere l’azione di regresso, ma c’è il rischio che nel momento in cui presenti il titolo io riceva un pagamento, che non posso rifiutare, ma che allo stesso tempo è revocabile.

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La legge dice, non ti revoco il pagamento perché ti trovavi tra incudine e martello e non si poteva pretendere da te di non presentare il titolo perché solo in tale maniera tu conservavi le tue pretese giuridiche. In tal caso però l’ultimo obbligato in via di regresso, se il curatore prova che conosceva lo stato di insolvenza, deve versare la somma riscossa al curatore, visto che ha messo in circolazione il titolo solo per liberarsi del debito.Questa norma è il prototipo della revocatoria deviata, non verso chi ha ricevuto il pagamento, ma verso colui che ha tratto vantaggio dall’avvenuto pagamento.La revocatoria agisce in funzione del ripristino della par condicio.La norma che è implicata è l’art.6 della legge 52 sulla cessione dei crediti di impresa: Il pagamento dal creditore ceduto al cessionario, non è soggetto alla revocatoria prevista dall’art. 67. Tuttavia, tale azione può essere proposta nei confronti del cedente qualora il curatore provi che egli conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto alla data del pagamento del cessionario.Qui abbiamo che l’impresa cede al factor il credito, in genere il factor pro solvendo, anticipa, dedotte alcune somme, l’importo al cedente e alla scadenza il debitore ceduto paga al cessionario. Quindi il pagamento effettuato al cessionario, non è soggetto a revocatoria; tuttavia la stessa azione può essere proposta nei confronti del cedente (l’impresa) alla data del pagamento al cessionario. Se però tu cedente conoscevi l’insolvenza alla data del pagamento al cessionario, a questo punto il pagamento deve essere restituito al fallimento, perché è lui che ne approfitterebbe.Relativamente agli atti compiuti tra coniugi: la legge ha ipotizzato che quando il creditore e il debitore non è un soggetto qualsiasi ma l’uno il coniuge dell’altro, allora le regole generali vengono un po’ modificate nel senso che il periodo sospetto si estende alla costanza di matrimonio e vi è sempre la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza. In realtà la giurisprudenza dice che questa norma non si applica nella maggioranza dei casi perché non si applica in caso di regime di comunione legale dei coniugi.Tornando agli effetti della revocazione…al secondo comma è stabilito che “Colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.” Se ho ricevuto un pagamento e mi viene revocato ho diritto di riceverne la restituzione dal fallimento in chirografo.Se per caso il revocando ha trasferito il bene a terzi, si fa riferimento alle norme circa la revocatoria ordinaria e circa la ripercussione degli effetti dell’atto inefficace nei confronti del terzo acquirente da colui che ha compiuto l’atto.

Il quarto gruppo di effetti del fallimento sono gli effetti per le controparti dei rapporti pendenti (contratti in corso di esecuzione).Qui la riforma ha fatto qualche guaio: artt. 72 e ss. legge fallimentare. La vecchia disciplina non prevedeva una esplicita regola generale ma prevedeva una serie di discipline speciali per singoli rapporti. Per esempio l’art. 72 era dedicato alla compravendita, il 73 alla vendita con riserva di proprietà, il 74 la somministrazione.Ora c’è anche una norma generale che è contenuta nel riscritto art. 72 (questo non vuol dire che in passato non ci fosse una norma generale): laddove il legislatore non stabiliva che un determinato rapporto continuasse come se nulla fosse ovvero si sciogliesse di diritto per effetto della dichiarazione di fallimento, se non era prevista una di queste due regole alternative, il rapporto entrava in uno stato di quiescenza attendendo che il curatore, con una valutazione economica decidesse se continuare o se sciogliersi dal rapporto. Continuare significa che il rapporto prosegue secondo la legge originaria del rapporto nei confronti del fallimento; quindi il rapporto continuava e il fallimento come incassava al cento per cento i crediti doveva pagare anche i rapporti che continuavano al cento per cento. La logica era che dove il rapporto non si presta a valutazioni dubbie sulla sua utilità per il fallimento la legge prevede la continuazione di diritto, perché è sicuramente utile. Ad esempio il fallimento del locatore non scioglie i rapporti di locazione in corso e il fallimento subentra nel contratto. Altro esempio è il contratto di assicurazione.

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Ci sono contratti invece che non possono continuare, come quelli disciplinati dall’art 78 quali il conto corrente, il mandato e la commissione. Non possono proseguire o perché nocivi o perché incompatibili con gli effetti del fallimento.Ci sono poi altri contratti per i quali non è così certa la classificazione, e in tali casi il curatore dovrà valutare se sospendere o meno il contratto. Si tratta di contratti pendenti, la cui disciplina la troviamo al 2558 del c.c., in cui ci sono rapporti che non sono ancora arrivati a definirsi, perché altrimenti ci sarebbero debiti e crediti. E’ un contratto a prestazioni corrispettive, nessuna delle quali è stata completamente eseguita.Devono essere rapporti opponibili al fallimento: vale la stessa regola della revocatoria e cioè vale la stessa regola per cui il fallimento in primo luogo verifica se il contratto è opponibile o no, fermo restando che nel valutare l’opponibilità o meno di un atto, il fallimento di comporta da sostituto del fallito per rendere opponibile ciò che non lo sarebbe, e da terzo per non farsi opporre ciò che lo sarebbe. Queste scelte sono poi soggette alla approvazione del comitato dei creditori.La normativa della riforma ha aggiunto una serie di rapporti, tra i quali il leasing, elaborando una serie di regole che vengono reinterpretate in maniera intelligente, ed ha introdotto una norma generale che è quella dell’art. 72.Questa norma ci da la sia la definizione di rapporto pendente ai fini di questa disciplina e la disciplina di genere: “Se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l'esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto.Regola generale: sospensione dei rapporti pendenti E’ una norma devastante perché in precedenza proprio con riferimento alla compravendita, il vecchio art. 72 distingueva fra fallimento del compratore e fallimento del venditore. La distinzione diceva che se fallisce il compratore, il contratto si sospendeva, in attesa della scelta del curatore; in caso di fallimento del venditore, il contratto si sospende a meno che la proprietà non sia già passata prima del fallimento al compratore in bonis. La logica era: se tu hai venduto un bene, e poi a esecuzione non ancora completata, ma comunque la proprietà è già passata, che senso ha riprendersi il bene? Vorrebbe dire dopo doverlo vendere in sede fallimentare con un deprezzamento inevitabile, quindi conviene dare esecuzione al contratto e riscuotere il prezzo. In tal caso il legislatore stabiliva che il contratto non fosse sospeso.Purtroppo nei nuovi manuali si trova che questa regola è prevista per la tutela della proprietà, ma della proprietà al fallimento non importa nulla.

15.12.2008…Rapporti giuridici preesistenti al fallimento e pendenti..L’art. 72 ci da la nozione generale e ci da anche la disciplina generale quando non vi sia una norma speciale che contenga una disciplina specifica per determinati rapporti.Questa disciplina specifica è di due tipi: o si prevede la continuazione del contratto o si prevede lo scioglimento del contratto, entrambi ipso iure, perché il rapporto di cui si tratta o è senz’altro utile al fallimento, e quindi se ne prevederà la continuazione con le regole generali del contratto oppure è senz’altro contrario all’utilità del fallimento o che prevedono una posizione economico-giuridica che postula l’autonomia del soggetto, questi vengono sciolti di diritto.Tutti gli altri, bisognerà vedere se è applicabile una delle due regole per analogia, e in caso contrario si applicherà la norma generale.Disciplina generale: sospensione in attesa che il curatore si pronunci. A disposizione delle parti perché il curatore non si dilunghi nella decisione, c’è un interpello, che deve essere esercitato in passato era in non meno di 8 gg. ora non più di 60 gg; in mancanza di ogni pronuncia decorso il termine, il contratto si intende sciolto. Il curatore si deve attivare solo laddove il rapporto sia utile.Altra regola interessante è questa: il fallimento può essere previsto nei contratti come una vicenda rispetto alla quale il rapporto può essere sciolto? La giurisprudenza tendeva a distinguere ma alla fine l’idea fondamentale è che il fallimento una volta dichiarato deve sostituirsi alla valutazione del

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singolo rapporto in una valutazione complessiva di tutti i rapporti. Quindi sono inefficaci le clausole negoziali che fanno dipendere la risoluzione del contratto dalla dichiarazione di fallimento, fermo restando che la risoluzione non può essere neanche chiesta. Altra cosa è l’azione di risoluzione promossa prima del fallimento nel caso che colui che sarebbe poi fallito, avesse già inadempiuto le sue obbligazioni: questa risoluzione può essere opposta, fatta salva l’eventuale efficacia della trascrizione della domanda. L’art 72bis si collega alla disciplina del decreto lgs. 122/2005 della tutela degli acquirenti degli immobili da costruire. (non è da sapere ma come al solito bacio in fronte)

Art. 72quater: articolo che riguarda il leasing, il quale era un contratto non disciplinato all’evidenza prima della riforma, sul quale la giuri aveva costruito nel tempo una regola pretoria. La stessa giurisprudenza si era preoccupata di risolvere il problema del caso in cui a fallire fosse il contraente utilizzatore. Nella pratica succede che le società di leasing in qualche modo cercavano di prevaricare i creditori deboli: la giuri dice che bisogna distinguere tra due specie di leasing, quello si godimento e quello traslativo. Il leasing di godimento è stato posto in essere per quei beni di veloce obsolescenza, mentre il leasing traslativo, termina solitamente con il pagamento del riscatto, visto che il bene ha mantenuto un valore alla fine della locazione. Questo si può vedere dalla particolare entità dei canoni: il locatore-società concedente, tenderà ad incassare il prezzo del bene perché non può scaricare tutto sul maxi-canone.La giurisprudenza aveva detto che qualora si qualificasse come leasing traslativo, si applicavano le regole della vendita a rate, mentre nel caso di leasing di godimento le regole erano quelle della locazione.Disciplina della locazione: art. 80 anche se in realtà è locazione di beni immobili si ritiene sia applicabile anche alla locazione di beni mobili. Essa prevede che la dichiarazione di fallimento non sciolga il contratto, fermo restando che esiste la norma che il curatore può in qualunque tempo recedere dal contratto. Disciplina della vendita: art. 73 prevede che il curatore può subentrare nel contratto o può scioglierlo, ma se si scioglie il venditore deve restituire le rate di prezzo già riscosse, salvo un compenso per l’utilizzo. Quindi la giuri diceva, che se il leasing è traslativo e quindi nei canoni pagati è già incorporato il prezzo, il venditore deve restituirmi tutta quella porzione di prezzo che ha incassato di più rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il vero canone di locazione.La giurisprudenza cioè aveva elaborato una regola per la quale il concedente di leasing non avrebbe potuto speculare più di tanto. In qualche modo si trattava di uno strumento per portare ad equità un rapporto che nasceva squilibrato.Il legislatore del 2007 ha introdotto la dicitura “avvenute a valori di mercato”, ma per il resto l’art. proviene dalla riforma del 2006. Il legislatore ha superato l’impostazione della giuri non facendo distinzioni, perché un margine di dubbio interpretativo c’è in relazione a queste situazioni. Non sempre è agevole, sulla base delle clausole negoziali andare a vedere se un leasing è traslativo o di godimento. Quindi il legislatore del 2006 raccoglie la sostanza dell’insegnamento giurisprudenziale ma dal punto di vista del fatto: al contratto di locazione finanziaria si applica l’art. 72 e quindi si sospende. In caso di scioglimento del contratto il concedente ha diritto alla restituzione del bene, ma avendo ricevuto tutte le rate (e in queste rate può esserci come non esserci il prezzo incorporato), è tenuto a versare alla curatela differenza tra il credito residuo il linea capitale. Si considera questa somma e si va a vedere cosa fa il concedente del bene che riceve in restituzione, il quale cercherà di rimettere il bene sul mercato. Comunque con una vendita avvenuta a valori di mercato, può succedere che il nostro concedente ricavi una somma inferiore o superiore al credito residuo in linea capitale. Ammettendo che il bene fosse un bene utile anche dopo la scadenza del rapporto (leasing traslativo), il nostro utilizzatore fallisce e il bene viene restituito, e il concedente lo vende a un valore di mercato corrispondente al valore del bene. Ma in questo modo lui viene a locupletare il valore che ha già incassato in parte sulle rate incassate. Quindi il legislatore afferma che se il concedente viene ad avere una somma superiore a quello che ti sarebbe stato dovuto se il contratto fosse continuato, allora significa che

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egli ha già percepito una parte di quello che il bene valeva monetariamente. Allora questa somma che incassi dal terzo, in realtà la deve restituire per questa differenza al fallimento. Il valore per cui vendo il bene al terzo, se questo bene ha un valore oltre la scadenza, sarà un valore superiore all’uso dello stesso per il periodo residuo di durata del contratto.Il legislatore dice che nel momento in cui io sciolgo il contratto, è giusto che il concedente trovi qualcuno per ottenere il mancato guadagno, ma non è giusto che questo si arricchisca, perché il di più è a lesione dei creditori del fallimento. C’è di mezzo la tutela dell’esercizio del credito.LA disciplina del 2007 ha introdotto quel “a valori di mercato”: ciò significa che nel momento in cui il fallimento restituisce il bene perché il curatore lo scioglie, ha l’onere di eseguire una stima del bene, e lo restituisce. Il concetto fondamentale è che prima non essendoci questa espressione, la società concedente di leasing, trova un compratore o locatore compiacente e glielo loca giusto al credito residuo di capitale e quindi senza restituire nulla. Altro problema è quella di costruire le rate in maniera che il credito in linea capitale sia tutto scaricato alla fine e all’inizio ci sono i capitali. Ma al di la della classificazione che il concedente fa, l’ufficio fallimentare effettua nuovi calcoli in modo da essere proporzionato il tutto.Tutto ciò nell’ipotesi in cui il contratto sia stato fino al quel momento eseguito correttamente: nel caso fosse inadempiente già prima, il concedente sarà creditore quanto alle somme non pagate prima della sentenza dichiarativa, e controparte del rapporto pendente. Quindi “Il concedente ha diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene.” Lui recupera sempre il bene, lo alloca, riceve una somma, e se ha un credito maggiore per l’impagato da quello che ricava dall’allocazione del bene, egli si insinua per la differenza maggiore, insinuarsi non in prededuzione però.Siccome lui aveva la irrevocabilità nel caso in cui i pagamenti fossero stati fatti, lui in caso di inadempimento aveva tutto l’interesse a chiedere una soluzione concordata della crisi.Questa riserva per la somme già riscosse, per avere un senso postula che il concedente di leasing per le somme già riscosse abbia il diritto di trattenersele anche se era a conoscenza dello stato di insolvenza, anche se pagamenti non avvenuti nei termini d’uso.Questo significa che il nostro concedente permette e ha permesso la continuazione dell’esercizio d’impresa, certo che se l’ha fatto senza predisporre le opportune cautele dovrà sopportarne le conseguenze.Questa norma non positivizza la giurisprudenza, ma una prassi virtuosa di alcune società di leasing, che hanno posto alcune clausole per evitare il controllo arbitrario della giurisprudenza sulla natura del contratto di leasing.

16.12.2008

Ci siamo soffermati sul leasing, perché la disciplina del fallimento persegue degli obiettivi, la sistemazione dei rapporti giuridici non sconvolge i rapporti stessi, ma li modifica secondo una logica che non è sempre uguale, ma è una logica del fatto economico.La logica formale ci dice che il bene non è di proprietà dell’utilizzatore, è un locazione finanziari, ma è una locazione per modo di dire: innanzitutto è un finanziamento,che passa attraverso uno strumento che è simile alla locazione. La giurisprudenza ha detto che può essere una locazione nei rapporti tra privati, ma nei rapporti tra imprese io voglio acquisire un bene costoso. Quindi non è che quel bene lo possa prendere in locazione e poi lo lasciarlo perdere, perché su quel bene si basa tutta la mia impresa.Nel leasing traslativo c’è il finanziamento di un acquisto. In realtà ci troviamo di fronte ad un contratto in cui quello che è fondamentale è che il curatore ha la possibilità di evitare o meno il peso del finanziamento e se ritiene di non doverlo sopportare di sciogliersi. Sciogliere vuol dire restituire il capitale e non pagare più gli interessi. In realtà qui il capitale non mi è stato dato se non sottoforma di bene, vuol dire restituire il bene, ma se ti restituisco il bene, tu concedente me lo rimetti in circolo. Se tu lo vendi per un prezzo che è superiore al capitale che ti devo restituire, vuol dire che a suo tempo ti ho dato delle somme in conto capitale di cui adesso ne approfitti.

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Vorrà dire che se tu devi riavere il capitale e non riesci a procurartelo dal terzo, ti insinuerai per la restante parte. Il vantaggio è che in ogni caso c’è una compensazione; anche qui c’è un meccanismo simile a quello dell’art. 56. Se ci si pensa bene si ha un credito del concedente alla restituzione del capitale, che è un debito del fallimento, che non è ancora scaduto, ma che scadrà durante il fallimento, e che viene portato in compensazione con quello che il fallimento dovrebbe aver se potesse trattenere il bene. Nella discrasia di questi valori succede che siccome la società di leasing ha diritto a recuperare il finanziamento mi deve versare il di più che ha conseguito dalla vendita, perché altrimenti ricaverebbe una somma superiore al capitale a cui ha diritto alla restituzione; se ricava di meno ha interesse a chiedere l’attribuzione del capitale residuo ma in moneta fallimentare. La stessa cosa vale per quanto non pagato prima del fallimento: si ha la compensazione.Il senso di tutto questo è che la società di leasing siccome esercita professionalmente l’attività di finanziamento, deve poter rientrare dei finanziamenti per lo meno sotto la voce capitale. Gli interessi è giusto che non li abbia per il periodo in cui il contratto è stato sospeso e poi sciolto. E’ giusto anche formalmente perché sono interessi chirografari che non decorrono all’interno del fallimento.Se si penalizza la società di leasing si penalizza anche il mercato, e lo stesso discorso vale per le banche: questi soggetti vanno puniti nell’abuso e non quando esercitano la loro attività.Quindi questa norma vede il leasing non come una locazione, ma come un contratto di finanziamento, e dove la evoluzione del contratto, qualora venga sciolto, è la evoluzione di un finanziamento che deve essere restituito. Ma siccome il finanziamento non è avvenuto nelle forme canoniche, è stato dato un bene e non una somma di denaro, che devo comunque restituire, allora si deve traguardare il valore del finanziamento residuo che va restituito sul valore residuo del bene. La società di leasing ha diritto di recuperare non più sul valore residuo del bene dell’entità del finanziamento attribuito in linea capitale.

Altro svarione è quello dell’art. 74, il quale è stato riscritto dal decreto correttivo. Il vecchio art. 74 disciplinava la somministrazione, ed era una norma a favore dei fornitori. Nel caso di somministrazione il contratto si sospendeva. Oggi c’è una norma ad hoc che è l’art. 104, se c’è la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa i contratti pendenti, salvo che il curatore non voglia sospenderli o scioglierli, continuano. A meno che non ci sia un’utilità anche i contratti di somministrazione si sospendono. Il problema è che il secondo comma aggiungeva che se il curatore decideva di subentrare in questi contratti, e cioè diventa a tutti gli effetti il sostituto dell’originario contraente, deve anche pagare le eventuali prestazioni insolute prima del fallimento. Questa norma altera la regola della par condicio perché le prestazioni insolute prima del fallimento danno origine a un debito del fallito e non del fallimento ( in tal caso opererebbe la prededuzione) e quindi tali debiti dovrebbero essere pagati con moneta fallimentare. Questo spingerebbe il fornitore, nel momento in cui avverte il dissesto del proprio somministrato, lo invita a sospendere l’esecuzione della prestazione. Questo fa si che egli se viene poi dichiarato il fallimento non abbia prestazioni insolute, ma fa anche si che il fallimento acceleri perché viene a mancare la fornitura.Bisogna quindi evitare che il fornitore sia indotto a cessare le forniture per non ricevere poi il pagamento, trattandosi di un chirografo. Questo si fa garantendogli per lo meno nel caso del subentro il pagamento integrale della prestazioni anteriori.Con il decreto correttivo, il legislatore ha pensato bene di introdurre una rigidità formale dove non era necessario. Il legislatore ha detto che questa era una norma pensata per i rapporti ad esecuzione continuata, ma non è vero perché era destinato ai rapporti di fornitura. Certo che era un rapporto ad esecuzione continuata ma non era questa la caratteristica principale.Articolo 74 Contratti ad esecuzione continuata o periodica.Se il curatore subentra in un contratto ad esecuzione continuata o periodica deve pagare integralmente il prezzo anche delle consegne già avvenute o dei servizi già erogati.Per esempio un contratto di lavoro, un contratto di agenzia, un contratto di rappresentanza commerciale, sono tutti contratti ad esecuzione continuata per assurdo e questo vuol dire che tutti i

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crediti privilegiati, comunque concorsuali, vengono trattati nel caso che il contratto continui, come non concorsuali. Quindi si ha una dilatazione massima dei soggetti che vengono sottratti al concorso. Altra norma è l’art. 79: qui si tratta del contratto di affitto di azienda anteriore, al quale di ricorre proprio perché nell’imminenza del fallimento, si suole costituire o trovare una società esistente alla quale dare in affitto l’azienda. Dare in affitto l’azienda perché in questo modo la procedura quando viene dichiarata non trova un’azienda, ma un’azienda affittata, con un contratto registrato e un canone in linea con il prezzo di mercato. Una volta il giudice stabiliva la sproporzione, oggi c’è il 25%. In qualche modo con questa via si riusciva a bloccare il fallimento, applicando la regola generale che il fallimento del locatore, non scioglie il contratto di locazione.In linea di principio il contratto non si scioglie perché il locatore incassa il canone. Ora la nuova norma aggiunge che se la durata del contratto supera i 4 anni, il curatore entro un anno dalla dichiarazione di fallimento ha facoltà di recedere con un equo indennizzo per l’esercizio della facoltà di recesso. E’ per cercare di ridurre i tempi del fallimento.L’art. 79 stabilisce che il fallimento non è causa di cessazione del contratto di locazione, ma entrambi le parti possono recedere entro 60 gg. dalla data di dichiarazione di fallimento.Sotto il profilo del fallimento del conduttore d’azienda, la norma non aggiunge niente rispetto al passato, ma prevede la novità del diritto di recesso entro 60 gg. dell’affittuario.

17.12.2008

Il fallimento è pure sempre una procedura rivolta a soddisfare pretese creditorie, se non ci sono domande si insinuazione questa è delle cause di chiusura. Se ci sono domande di insinuazione, in realtà queste domande devo essere vagliate all’interno del fallimento; possono essere domande di rivendicazione, di separazione, non solo di pagamento.La procedura si risolve con un decreto di ammissione, se ritenuta ammissibile, altrimenti c’è un provvedimento di non ammissione. Questi provvedimenti sono soggetti a impugnazione, non solo chi non è stato ammesso ma anche chi è stato ammesso potrà fare impugnazione per l’ammissione di qualcun altro. All’esito di tutto questo contenzioso si forma e viene esecutivo lo stato passivo.

Articolo 96 Formazione ed esecutività dello stato passivoIl giudice delegato, con decreto, succintamente motivato accoglie in tutto o in parte ovvero respinge o dichiara inammissibile la domanda proposta ai sensi dell'articolo 93. [ Il decreto è succintamente motivato se sussiste contestazione da parte del curatore sulla domanda proposta.] La dichiarazione di inammissibilità della domanda non ne preclude la successiva riproposizione.[ Con il provvedimento di accoglimento della domanda, il giudice delegato indica anche il grado dell'eventuale diritto di prelazione.]Oltre che nei casi stabiliti dalla legge, sono ammessi al passivo con riserva:

1) i crediti condizionati e quelli indicati nell'ultimo comma dell'articolo 55;2) i crediti per i quali la mancata produzione del titolo dipende da fatto non riferibile al creditore, salvo che la

produzione avvenga nel termine assegnato dal giudice;3) i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunziata prima

della dichiarazione di fallimento. Il curatore può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione.4) Se le operazioni non possono esaurirsi in una sola udienza; il giudice ne rinvia la prosecuzione a non più di

otto giorni, senza altro avviso per gli intervenuti e per gli assenti.5) Terminato l'esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con

decreto depositato in cancelleria.Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso.

Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dall’esame all’esito dei giudizi di cui all’art. 99, fissa i termini esatti del concorso, cioè chi e in che modo deve essere pagato. Che effetto ha? L’ultimo comma risolve un’antica querelle, cioè se questo accertamento ha una funzione endofallimentare o anche una funzione extra fallimentare: la norma stabilisce che il decreto produce effetti solo ai fini del concorso.

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D’altra parte però l’art. 120 all’ultimo comma dice: “Il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per gli effetti di cui all'articolo 634 del codice di procedura civile.”Questo è un effetto extra-fallimentare; siamo nell’ambito degli effetti della chiusura. Con la chiusura cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito; riprende il sopravvento il mondo normale. Dunque i crediti riconosciuti o non riconosciuti rimangono il linea di principio contestabili, però il fatto di avere una ammissione per decreto o per sentenza dell’esistenza del credito, permette di ottenere il decreto ingiuntivo.Quindi gli effetti sono comunque endo-fallimentari ma con qualche ripercussione esterna.(Riapertura del fallimento non capita mai!)

Esdebitazione ( artt. 142 e ss.)E’ un beneficio che consegue alla chiusura del fallimento, ma non riguarda chiunque ma solo le persone fisiche. La scelta è stata un po’ criticata. Le persone fisiche sono gli imprenditori individuali e i soci limitatamente responsabili delle società indicate dall’art. 147, cioè le società di persone e le s.a.p.a, qualora questi soci siano persone fisiche.L’esdebitazione consiste nella liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, per esaurimento dell’attivo.La scelta è stata criticata perché non comprende le società. Ma la funzione di questa norma per chi la vede come una norma diretta a favorire l’apertura tempestiva del fallimento, l’avrebbe voluta estesa a tutti, invece chi la vede come norma diretta a favorire la ripresa dell’attività economica da parte dell’ex fallito che in quanto esdebitato è liberato anche dalle conseguenza relative all’incapacità, la limita alla persona fisica, e questa sembra essere stata la scelta del legislatore. Per la società di persone il fallimento è causa di scioglimento (2308), mentre per le società di capitali il 2484 non ripropone più la causa di scioglimento prevista nella norma ante riforma, ma si ritiene che comunque anche per le società di capitali il fallimento sia causa di scioglimento, fermo restando che il curatore ha il dovere, quando il fallimento si chiude per esaurimento dell’attivo, ha il dovere di chiedere la cancellazione dal registro delle imprese a prescindere dal tipo di società.Dunque non è per essa utile l’istituto della esdebitazione. Questa è una scelta che il legislatore ha fatto, scelta però che è un po’ in contrasto con i requisiti per l’esdebitazione: dall’un lato protegge l’interesse alla ripresa all’attività , dall’altro però i requisiti sono quelli del fallito collaborativo, cioè che non ha ostacolato la procedura, fornendo le informazioni dovute. Però tra i requisiti c’è anche il fatto di non aver in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura, e quindi anche colui che ha tempestivamente richiesto il proprio fallimento. In altre parole in questa serie di requisiti ci sarebbe il premio per il fallito che agevola l’emersione della crisi e quindi la tempestiva dichiarazione di fallimento, il che riguarda tutti i soggetti fallibili. Mostra di percorrere la via di un interesse della ripresa all’attività, ma d’altra parte pone il requisito della collaborazione. Questa norma potrebbe portare a chiedere il fallimento solo per avere l’esdebitazione.

Art. 118 – Casi di chiusura: qui non viene nominata l’ipotesi del concordato fallimentare, che è una via che consente di definire le pretese dei creditori con una modalità concordata con il debitore. Non ha nulla a che fare con il concordato preventivo, che viceversa previene il fallimento, anche se la struttura è molto simile, fermo restando che questa uguaglianza c’era prima della riforma per certi aspetti, poi tolta con la riforma del 2006 e ripristinata nel 2007. La logica è quella di agevolare la definizione senza dover attendere una lunga e difficoltosa attività di liquidazione. E che questo sia lo scopo lo si vede dalla innovazione apportata con la riforma, rispetto al precedente concordato fallimentare: la proposta di concordato che una volta poteva essere proposta solo dal fallito, oggi può essere presentata da uno o più creditori o da un terzo. Tale terzo si chiama assuntore perché sul suo patrimonio assume gli obblighi esecutivi derivanti dal concordato, è un soggetto che avendo la liquidità immediata per pagare i debiti nella misura stabilita, offre questa liquidità in cambio della cessione delle attività fallimentari, che liquiderà al meglio.

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In prima battuta lo possono presentare questi soggetti; addirittura adesso il fallito non può presentare la proposta se non decorso un anno dalla dichiarazione di fallimento e questo perché c’era una prassi un po’ truffaldina, cioè c’erano i fallimenti che rifinanziavano il fallito. Prima succedeva che in considerazione degli effetti del concordato, cioè secondo l’art. 135 fondamentalmente una parziale remissione del debito sia per i concorrenti che per i non concorrenti, il soggetto chiedeva il proprio fallimento, poi presentava un assuntore, che utilizzava denaro in nero del fallito, che aveva un patto di restituzione delle attività fallimentari che gli sarebbero pervenute per effetto dell’assunzione, e quindi il fallito chiedeva il concordato e all’esito di questa operazione recuperava l’attivo che si comprava pagando per il tramite dell’assuntore una parte dei creditori stessi nella misura della percentuale concordata; poi il giorno dopo, avendo assunto tutti gli obblighi derivanti dal concordato, poteva aprire l’attività più pulita di prima.E’ criticato il fatto che il curatore non possa chiedere il concordato, perché la possibilità di chiedere il concordato da parte del curatore avrebbe chiuso la possibilità di utilizzare il concordato preventivo in maniera illecita.Unica differenza quindi che presenta con il concordato preventivo, è che quest’ultimo può essere richiesto solo dal debitore.Una volta la proposta doveva essere contenuta entro griglie precise, in particolare ( elemento oggi di eguaglianza dei due concordati) una volta bisognava ci fosse almeno la possibilità di pagare al 100% i crediti privilegiati oltre che quelli prededucibili: cioè il concordato, cioè la remissione parziale di debito riguardava i chirografari. Nel tempo, soprattutto a seguito delle introduzioni successive di privilegi, come cause legittime di prelazione del credito, si era ottenuta una dilatazione della platea dei non chirografari, ottenendosi la inversamente proporzionale possibilità di accedere al concordato, perché la somma richiesta per arrivare al concordato era sempre più alta.Nel concordato preventivo poi anche i chirografari dovevano essere pagati almeno nel 40%, rendendo quindi praticamente impossibile utilizzarlo.Questa situazione che era diventata da eccezionale nella previsione 1942, diventa pressoché ordinaria quando i chirografari si assottigliano, con la conseguenza che non ce n’è più per nessuno.Il legislatore prevede ora il contrario: “la proposta può prevedere che i creditori muniti di pegno, privilegio, ipoteca non vengano soddisfatti integralmente per la fattibilità del concordato.” Viene ovviamente messo il paletto perché non può diventare una scelta selvaggia: la proposta deve contenere una serie di misure che vengono definite per risolvere la situazione e allora questa non integrale soddisfazione è compatibile con le finalità liquidatorie nel rispetto della par condicio, (par condicio che va attuata anche nel concordato fallimentare), purché il piano proposto preveda la soddisfazione di questi creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in ragione della propria collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, e quindi in caso di liquidazione senza concordato, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione giurata di un professionista.Il trattamento stabilito per ciascuna classe, non può avere l’effetto di alterare l’ordine derivante dalle cause legittime di prelazione.La proposta potrebbe prevedere ad esempio il 100% dei privilegiati e il 5% dei chirografari, creando due classi. Ora non è più il legislatore che crea le classi ma è chi fa il piano. Si possono stabilire anche classi all’interno degli stessi creditori chirografari tipo stabilire di pagare i fornitori al 100% e pagare coloro che non lo sono all’80%, purché ci sia il rispetto dell’omogeneità di classe. Oppure la classe può essere costituito da un unico soggetto, purché sia davvero unico, nel senso che l’interesse economico che egli rappresenta non sia posseduto da nessun altro, cosa alquanto difficile ( es. fornitore estero).Ristrutturazione dei debiti: un tipico strumento è attribuire ai creditori azioni o quote od obbligazioni o altri strumenti finanziari, in cambio della partecipazione al concordato. Ciò accade spesso con la banca, che è creditrice e rinuncia al proprio credito in cambio di azioni, sottoscrivendo un aumento del capitale che viene sottoscritto dalla banca: la banca conferisce il debito (?ma come conferisce il debito?) cioè la banca rinuncia al proprio credito che comporta una diminuzione del

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passivo, e poi l’impresa aumenta il capitale e la banca conferisce il debito. Sta di fatto che poi la banca mette in vendita la quota e rientra in tal modo del credito originario. Queste operazioni oggi non solo sono concesse, ma anche transitano in quello che è il contenuto consigliato della proposta di concordato preventivo.Ultima possibilità all’ultimo comma dell’art. 124:La proposta presentata da uno o piu' creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell'attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell'oggetto e del fondamento della pretesa. Il proponente può limitare gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta. In tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli articoli 142 e seguenti in caso di esdebitazione (3).L’assuntore è un soggetto che ha la liquidità per pagare in cambio del trasferimento dell’attivo esistente e dell’attivo che arriverà, anche se con il depotenziamento delle revocatorie quello che arriva è molto inferiore rispetto al passato.Questa proposta deve essere accettata, tramite voto: art 128. Il concordato e' approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato e' approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi (2).Una volta serviva anche la maggioranza per teste, oggi basta la maggioranza per credito, perché lo scopo è quello che passi. Se è approvato deve essere omologato: in passato l’omologa era una decisione che il tribunale prevedeva nell’interesse di coloro che avevano votato contro. Ora la disciplina è quella del 129.Decorso il termine stabilito per le votazioni, il curatore presenta al giudice delegato una relazione sul loro esito.Se la proposta e' stata approvata, il giudice delegato dispone che il curatore ne dia immediata comunicazione al proponente, affinche' richieda l'omologazione del concordato, al fallito e ai creditori dissenzienti e, con decreto da pubblicarsi a norma dell'articolo 17, fissa un termine non inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta giorni per la proposizione di eventuali opposizioni, anche da parte di qualsiasi altro interessato, e per il deposito da parte del comitato dei creditori di una relazione motivata col suo parere definitivo; se il comitato non provvede nel termine, la relazione e' redatta e depositata dal curatore nei sette giorni successivi.L'opposizione e la richiesta di omologazione si propongono con ricorso a norma dell'articolo 26.Se nel termine fissato non vengono proposte opposizioni, il tribunale, verificata la regolarita' della procedura e l'esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame.Se sono state proposte opposizioni, il Tribunale assume i mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti di ufficio, anche delegando uno dei componenti del collegio. Nell'ipotesi di cui al secondo periodo del primo comma dell'articolo 128, se un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesta la convenienza della proposta, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.Il tribunale provvede con decreto motivato pubblicato a norma dell'articolo 17.Fare opposizione significa essere disposti a pagare il costo di una causa. Mentre una volta l’omologa era d’ufficio e doveva essere esperita comunque, ora se non c’è nessuno disposto a intentare opposizione, significa che non hai interesse a difenderti e quindi il Tribunale effettua il verbale, senza fare alcun controllo.

13.01.2009

PIANO DI RISANAMENTO ( rappresentazione di una bozza di un piano di risanamento)C’è un’attestazione del professionista che deve ai sensi dell’art.67 lett. d, la ragionevolezza di questo piano idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e assicurare un riequilibro della situazione finanziaria.Questo piano nella pratica viene ad essere il prodromo dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.Ci sono dei debiti e una situazione di sbilancio, e non c’è la liquidità per farlo: in questi casi l’imprenditore in crisi cerca i soldi da qualche parte: può andare in banca a chiedere credito, oppure vendere la merce sottocosto, oppure altre operazioni a rischio anche penale.La norma dice che copre quegli atti con la irrevocabilità se sono compiute sulla base di un piano, piano che a differenza dell’accordo di ristrutturazione e dell’accordo preventivo, non passa né

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attraverso il controllo del giudice né dei creditori. E’ un accordo stragiudiziale e segreto, perché non è pubblico: il legislatore ne da copertura se il piano proposto è ragionevole: quindi è necessaria la firma di qualcuno che se ne assumi la responsabilità, cioè il professionista. Se tutto va bene sono destinati a non apparire. Questi piani emergono quando c’è il fallimento, prima sono noti solo all’imprenditore e a quei due o tre soggetti che vi hanno aderito. Ma se le cose vanno male, qualora il giudice dichiari la revocabilità di taluni atti si può opporre il piano, che però deve avere data certa, data certa che è un problema. Si oppone quindi questo piano, il quale se non è ragionevole, comporta la responsabilità del professionista (responsabilità civile). Quindi qui il controllo è fatto ex-post, a differenza degli accordi di ristrutturazione e del concordato preventivo in cui il controllo viene fatto ex ante, dai creditori ai quali la procedura viene notificata e che quindi procedono al controllo di merito, e dal tribunale che esercita il controllo di legalità sostanziale.Qui la difficoltà sta nel far combaciare l’esigenza di segretezza con quella di evitare una elusione delle norme fallimentari di sottrazione alla revocatoria.Nel momento in cui il professionista firma il piano di risanamento effettua anche un’analisi della società, sia dal punto di vista storico che patrimoniale, per poi descrivere il piano di risanamento nello specifico.Non si parla di un risanamento dell’impresa ma di un ripristino all’equilibrio finanziario, cioè si cerca di eliminare l’insolvenza, fermo restando che se c’è uno squilibrio economico, l’insolvenza si riproporrà.Il fallimento oggi è pensato anche in funzione di emersione di quelle operazioni, sempre fatte, allo scopo di danneggiare i creditori, tirandola per le lunghe.L’unico modo per rendere la data certa, secondo Menti, è l’autentica notarile o la firma digitale.

ACCORDO DI RISTRUTTURAZIONE (art. 182-bis)Si può cominciare cercando nuova finanza per una situazione debitoria che è illiquida, e si può continuare con un accordo di ristrutturazione.E’ un concordato stragiudiziale: si tratta di trovare i soldi per fare pagamenti regolari. Ci potrebbe stare anche che la banca eroga un nuovo finanziamento e mi postergo…Qui non si può parlare di effetto sdebitatorio, perché qui si tratta di pagare tutti a tempo debito. Con l’accordo di ristrutturazione si esce in piazza: Articolo 182 Bis Accordi di ristrutturazione dei debitiL'imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all' articolo 161, l'omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d) sull'attuabilità dell'accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei.L'accordo e' pubblicato nel registro delle imprese e acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione.Dalla data della pubblicazione e per sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore. Si applica l' articolo 168, secondo comma.Entro trenta giorni dalla pubblicazione i creditori e ogni altro interessato possono proporre opposizione. Il tribunale, decise le opposizioni, procede all'omologazione in camera di consiglio con decreto motivato.Il decreto del tribunale e' reclamabile alla corte di appello ai sensi dell' articolo 183, in quanto applicabile, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese.

Che cosa sia lo stato di crisi non si sa, ma il tribunale di Treviso sostenne che non poteva accedere al concordato chi era in stato di insolvenza. Lo stato di crisi comprende anche lo stato di insolvenza, ma non solo: lo stato di crisi è una situazione prodromica dello stato di insolvenza, è una situazione di tensione finanziaria che fa ritenere che può venire a mancare la liquidità. L’accertamento dello stato di crisi va valutato con molta attenzione, perché con l’effetto che queste procedure hanno bisogna evitare di abusarne.Lo stato di crisi si accerta presentando dei documenti (art. 161), documentazione che deve essere presentata anche per il concordato preventivo: vedi articolo elenco dei documenti.Il piano e la documentazione di cui a questo articolo devono essere accompagnati da una dichiarazione del professionista che attesti la veridicità e l’attuabilità dell’accordo.

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E’ il professionista stesso che attesta che il progetto è un piano fattibile: ma la differenza è che nell’accordo di ristrutturazione deve attestare l’idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. Quindi chi non ci sta deve essere regolarmente pagato.…..I coobbligati in solido in via di regresso non possono opporre il concordato perché a loro il concordato è estraneo…Qui si tratta di ottenere una liquidità o un respiro da chi ci sta, per poter pagare chi non ci sta. Deve essere almeno il 60% dei crediti che aderiscono all’accordo.E’ una procedura che mette in piazza la cosa, il legislatore stabilisce infatti che l’accordo deve essere pubblicato nel registro delle imprese. Questa pubblicità ha due effetti: quella di far retroagire l’effetto della omologa e quello di porre il blocco delle azioni esecutive per 60 gg.Dopo la riforma del 2006 non era previsto il blocco delle azioni esecutive, e quindi succedeva che non appena si pubblicava l’accordo i creditori chiedevano la dichiarazione di fallimento.Il legislatore ha quindi introdotto con il decreto correttivo il blocco delle azioni esecutive.Effetto della omologa è quello della attestazione della ragionevolezza del perito. Nell’accordo di ristrutturazione l’effetto della irrevocabilità è legato al giudizio del tribunale.Il tribunale deve verificare la congruenza della valutazione del professionista.Non è che gli esperti rifanno la valutazione, ma partono dalla valutazione fatta dagli altri.Il tribunale non si sostituisce agli esperti, ma valuta la dichiarazione dell’esperto nella sua congruità.Ciò posto non è richiesta nessuna particolare scalettatura dei creditori, l’importante è che ci sia il 60% dei crediti.

Il concordato preventivo prima della riforma era un beneficio, era una possibilità data all’imprenditore onesto e sfortunato: c’erano tutta una serie di requisiti soggettivi e solo a questi soggetti veniva concesso il concordato.Quindi in passato la possibilità di capire se i crediti indicati erano crediti capaci di esaurire le Oggi al concordato preventivo possono accedere non solo gli imprenditori onesti, ma anche quelli disonesti. Lo strumento di inserzione del professionista serve per far si che il tribunale a cuor leggero procedere all’omologa, fermo restando che c’è qualcuno che attesta la situazione dell’impresa. E un professionista no farà mai un piano se non trova una contabilità in regola, o comunque idonea a ricostruire la regolare situazione patrimoniale-economica.Art. 160 – Presupposti per l’ammissione alla procedura.Il nostro concordato preventivo può costituire il terzo passo. Non ci sono più requisiti soggettivi, se non quello di essere imprenditore commerciale fallibile.Il presupposto oggettivo è completamente mutato. Pagamento integrale di tutti i creditori privilegiati di tutte le spese di giustizia, e pagamento di almeno 40% …In qualsiasi momento iniziata la procedura, non si usciva dal concordato preventivo se non con il pagamento integrale o con il fallimento. Oggi non è più così, può avvenire ma non è sempre così.Non c’è più l’automatismo del fallimento e ciò è più appetibile.Ora non è richiesto più nulla. Non è più richiesto il pagamento integrale dei creditori privilegiati.La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno e ipoteca…Siccome qui c’è un effetto esdebitatorioLe regole sono che in qualsiasi modo si preveda il recupero della funzionalità economico-finanziaria dell’impresa, anche con sacrificio di quei creditori che non ci stanno, vedi comma 160.

Art.177Crediti ammessi al voto sono di coloro che subiscono la falcidia. Ma se sono previste diverse classi occorre anche che questa maggioranza si verifichi in ciascuna classe.

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