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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI 1

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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI

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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI

Diritto delle pari opportunità e non discriminazione

per il Corso di Laurea in Scienze dell’Amministrazione

a.a. 2017/2018

Prof.ssa Silvia Niccolai

Titolo del corso:

Dalla lotta alle discriminazioni al contrasto alla povertà. Continuità e implicazioni delle politiche sociali europee.

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Sommario dei contenuti Dispensa I

I. Nozioni introduttive - Alcune definizioni – Diritto anti-discriminatorio – Pari opportunità – Politiche di parità e non discriminazione.

II. La centralità delle politiche anti-discriminatorie nell’integrazione europea – Le norme dei Trattati. La Clausola orizzontale e il Gender Mainstreaming. Anti-discriminazione e costruzione del mercato comune.

III. Struttura delle politiche anti-discriminatorie – 1.Livello normativo. 2.Livello giurisprudenziale. 3. Livello di Governance. 4. Azione di organismi di supporto e specializzati.

IV. I singoli ‘grounds’ anti-discriminatori. A. Il Genere. 1. La normativa: le direttive in materia di parità di genere; le definizioni o fattispecie tipiche di discriminazione; il principio di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni; il principio di inversione dell’onere della prova e le giustificazioni oggettive; gli organismi per la parità. 2. La giurisprudenza. Giurisprudenza notevole della Corte di Giustizia in materia di discriminazione di genere. Giurisprudenza notevole della Corte di giustizia in materia di pari opportunità. 3. La Governance. Esempi di Governance della parità. L’impegno strategico 2016-2017. La Strategia per la parità 2010-2015. 4. Altri organismi e loro azione. L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE).

V. I singoli ‘grounds’ anti-discriminatori. B. Le altre categorie protette. 1. La normativa. La direttiva ‘razza’. Fattispecie discriminatorie. Deroghe ai divieti di discriminazione. Criterio dei requisiti essenziali determinanti. Azioni positive. Altre componenti della tutela. La direttiva disabilità età opinioni religiose tendenze sessuali. Fattispecie discriminatorie. Criterio delle misure ragionevoli. Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età. Eccezione dei requisiti essenziali. Una lacuna: la discriminazione multipla. Giurisprudenza notevole. In materia di età. In materia di disabilità. In materia di orientamento sessuale. In materia di convinzioni religiose. In materia di discriminazione multipla. 2. La Governance (Esempi). La Strategia europea sulla disabilità 2010 e il Progress Report del 2017. Organismi ulteriori. L’Alto Gruppo di Esperti in materia di disabilità.

VI. L’esperienza anti-discriminatoria italiana. A. La parità di genere. Il Codice della Parità. Definizione di discriminazione. La tutela giurisdizionale. Le istituzioni burocratiche della parità. Le pari opportunità. La legge sulle azioni positive in materia di imprenditoria femminile. La parità di genere come componente del buon andamento amministrativo: i Comitati unici di garanzia. Le donne nelle istituzioni politiche. Altri interventi in materia di parità di genere.

VII. L’esperienza anti-discriminatoria italiana. B. Le altre discriminazioni nei decreti di recepimento delle direttive europee. Fattispecie discriminatorie. Onere della prova. Clausola di salvezza. La disabilità. La legge 104/1992. Il ‘dopo di noi’. Avviamento al lavoro. Età, orientamento sessuale, credo religioso. Discriminazione per motivi razziali. Organismi ulteriori. L’Unar e la Rete nazionale dei centri antidiscriminazioni.

Dispensa II

VIII. APPROFONDIMENTO. Anti-discriminazione e modello sociale europeo. 1.Governare la società in funzione del mercato: approfondendo la funzione assolta dalle politiche antidiscriminatorie nel processo di integrazione europea. 2.L’iniziale inattuazione e la poi vigorosa attuazione del principio di parità da parte della Comunità. 3. Uno strumento di governo della società. Alcuni caratteri distintivi.4. Le politiche antidiscriminatorie come veicolo di cambiamento costituzionale. 5.La trasformazione dei ruoli di genere e la trasformazione dei rapporti tra società e mercato in Europa nel tempo dell’integrazione comunitaria. 6.Un nuovo patto sociale tra i sessi. Per quale visione del mercato? 7.Un

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bilancio. Discriminazioni (o ingiustizie) giustificate in nome dell’interesse economico? 8. La ‘trappola della parità’9. Le politiche anti-discriminatorie come ponte dal welfare al workfare.

Dispensa III

IX. La nuova frontiera delle politiche anti-discriminatorie: il contrasto alla povertà. (Materiali). Il Modello Workfarista. Documenti: Commissione europea: Piattaforma europea contro la povertà (2010) L’Organismo di supporto delle politiche di lotta alla povertà. In Italia: l’introduzione del REIS nel 2017 . Comunicato del Governo sulla approvazione del REIS. Il REIS nel sito del Ministero del Lavoro. Il privato-sociale: l’Alleanza contro la Povertà - Memorandum Governo Alleanza contro la Povertà in merito alla attuazione della legge delega di contrasto alla povertà.

Si ricorda che fanno altresì parte del programma di studio per l’a.a. 2017/2018:

o L’abitare come diritto in movimento, capitolo III pagg. 212-274 del volume “Il diritto costituzionale all’abitare” di Elisa Olivito, Jovene, Napoli, 2017.

o La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca del fondamento costituzionale del diritto all’esistenza dignitosa, di Marco Ruotolo, in Diritto pubblico, 2011, pp. 391-424.

Gli studenti non frequentanti studiano il programma predetto, nella sua interezza.

Per gli studenti frequentanti è organizzato un programma di studio dedicato.

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I NOZIONI INTRODUTTIVE

Alcune definizioni

Diritto anti-discriminatorio

Il diritto anti-discriminatorio consiste negli istituti, norme e principi, orientati a garantire parità di trattamento ai portatori di una serie individuata di caratteristiche, ritenute causa di svantaggio, come il sesso, la razza ecc. (cd categorie protette).

Frutto specifico dell’integrazione comunitaria, il diritto anti-discriminatorio scaturisce dal convincimento delle Istituzioni europee che la parità di trattamento, oltre a costituire un aspetto del fondamentale diritto all’eguaglianza davanti alla legge, rappresenti uno strumento atto a conseguire le finalità economiche e sociali della Ue. L’ambito della protezione anti-discriminatoria, pur potendo essere esteso a ampie componenti della vita sociale, come l’istruzione, l’accesso all’abitazione, e altro, è rappresentato in modo tipico e caratteristico dall’accesso al lavoro e condizioni di lavoro, a partire dalla retribuzione.

Le categorie protette

Attualmente , il diritto anti-discriminatorio europeo protegge le seguenti categorie:

Genere – Razza e origine etnica – Età e Disabilità – Orientamento sessuale – Convinzioni personali

Storicamente, la prima caratteristica che è stata oggetto di protezione discriminatoria è il ‘genere’, che ha rappresentato, fino al 2000, l’unica condizione protetta.

N.B.: Il divieto di discriminazione dei lavoratori per nazionalità – riflesso e pilastro della libertà di circolazione dei lavoratori - costituisce un capitolo a se stante della tematica antidiscriminatoria europea e non è oggetto del nostro studio.

Pari opportunità

La protezione anti-discriminatoria è una tutela negativa contro le discriminazioni: può eliminare una discriminazione esistente e praticata, ma non è uno strumento pensato per operare in positivo nella direzione di compensare svantaggi in cui una categoria si trovi per effetto delle discriminazioni storicamente subite. Il tipo di interventi che astrattamente possono essere messi in campo per compensare una posizione di svantaggio di cui una categoria o un gruppo sociale sia o sia considerato vittima prende il nome di azioni positive o di misure di pari opportunità o anche di discriminazioni positive.

Ad essi si riferisce un principio tradizionale delle direttive antidiscriminatorie europee secondo il quale

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“Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate [nelle direttive comunitarie” (cd. clausola di maggior tutela; cfr. oggi l’art. 27 della Direttiva 2006/54), purché con tali misure non venga contraddetto il principio di parità e non discriminazione.

Politiche di parità o antidiscriminatorie

Il diritto antidiscriminatorio e di pari opportunità confluisce in un più ampio insieme di interventi e di azioni volti alla realizzazione della parità (a cominciare dalla parità tra i sessi).

Definiamo questo insieme di interventi e di azioni una ‘politica’.

La politica di parità e di non discriminazione rientra a sua volta nel più ampio campo della cd. politica sociale europea, e investe categorie e gruppi sociali ulteriori e diversi, ma anche sovrapposti e contigui, alle categorie protette dal diritto antidiscriminatorio in senso stretto (i poveri, gli anziani, i disoccupati, i giovani, i migranti, le madri sole).

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II LA CENTRALITÀ DELLE POLITICHE ANTI-DISCRIMINATORIE NELLA COSTRUZIONE EUROPEA

Le norme dei Trattati. La Clausola orizzontale e il Gender Mainstreaming

Il rilievo delle politiche anti-discriminatorie all’interno del processo di integrazione europea è segnalato dall’importanza che esse rivestono all’interno dei Trattati e di altri documenti fondamentali come la Carta dei diritti fondamentali.

Art. 157 n. 1 TFUE: “Ciascuno Stato membro deve assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro o lavoro di pari valore”;

Art. 19 n. 1 TFUE: “Il Consiglio, previa approvazione del Parlamento, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere tutte le discriminazioni fondate sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica, sulla religione, sulle convinzioni personali, sulla disabilità, l’età o l’orientamento sessuale;

Art. 3.3 comma 2 TUE: “L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore”;

Art. 8 TFUE : “L’Unione, nelle sue azioni, mira a esaminare le diseguaglianze, nonché a promuovere la parità tra donne e uomini” (Principio del Gender Mainstreaming);

Articolo 10 TFUE, Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale (cd. Clausola orizzontale);

Art. 21 e 23 della Carta Europea dei Diritti fondamentali:“E’ vietata qualunque discriminazione fondata sul sesso; la parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi”;

Articolo 20 Carta Europea dei Diritti fondamentali: “Tutte le persone sono uguali davanti alla legge;

Art. 22 e 23 della Carta Europea dei Diritti fondamentali: “E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.

Questo insieme di disposizioni mette in luce che:

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La non discriminazione è un obiettivo dei Trattati; la lotta contro le discriminazioni deve essere integrata in tutte le azioni e le politiche della Ue (Clausola orizzontale); Ogni politica adottata dalla Ue, e in ogni suo momento (dalla progettazione alla valutazione) deve essere valutata nelle sue implicazioni per uomini e donne e tendere a che uomini e donne ne beneficino in ugual misura (Principio del Gender Mainstreaming)

Antidiscriminazione e costruzione del mercato comune L’importanza della dimensione anti-discriminatoria nei documenti ‘costituzionali ‘europei si deve al fatto che il diritto antidiscriminatorio è l’asse principale dell’intera politica sociale europea, un ampio insieme di interventi interamente costruito sull’idea che più ampia è la partecipazione delle persone al mercato del lavoro retribuito, più sono ridotti i costi che altrimenti devono essere sostenuti dai sistemi pubblici. Se un numero sempre maggiore di persone ha un reddito, può pagarsi servizi come l’istruzione, l’assistenza e la previdenza, e il costo di questi ultimi a carico dei sistemi pubblici diminuisce.

In astratto, infatti, sono almeno due le tesi che si contrappongono, quanto a rapporto tra antidiscriminazione e mercato. Alcuni economisti e alcuni giuristi sostengono che imporre politiche antidiscriminatorie al mercato è controproducente, perché limita l’autonomia imprenditoriale e perciò l’efficienza stessa del mercato. Altri sostengono la tesi opposta: un mercato che discrimina si priva di risorse umane importanti al suo sviluppo, e giustifica l’erezione di costosi meccanismi pubblici di redistribuzione delle risorse, come appunto scuole o ospedali gratuiti o a basso prezzo. Le misure antidiscriminatorie, inoltre, non costano, non impongono oneri alle imprese, non le sottopongono a indirizzi di utilità sociale che interferiscano con le politiche e i bilanci societari, mentre invece attivano la risorsa – ossia la forza lavoro – che la società mette a disposizione del mercato. L’Unione europea accede a questa seconda tesi.

Le politiche anti-discriminatorie europee possono essere viste come un pilastro del cambiamento che ha interessato il cd. ‘modello sociale europeo’ (cioè la visione del rapporto tra economia e società), nel passaggio tra le concezioni costituzionali nazionali e quella della Ue.

Mentre gli stati membri adottavano un modello sociale descrivibile come ‘welfarista’ fondato sull’idea che ogni persona è intitolata come tale all’accesso a una serie di diritti di tipo assistenziale, l’UE ha progressivamente introdotto un modello ‘workfarista’ basato sull’idea che diritti ‘sociali’ come pensioni, istruzione, sanità, spettano alle persone in quanto hanno partecipato, partecipano o sono disponibili a partecipare al mercato del lavoro.

Il modo in cui l’Unione europea concepisce le politiche di antidiscriminazione e di pari opportunità è, pertanto, funzionale, e non oppositivo, alle esigenze del mercato e dell’economia. L’idea di fondo che presiede a queste politiche è di farne non strumenti per contrastare tendenze egoistiche o abusive che si manifestano nei luoghi di lavoro, ma di farne strumenti che cooperano a un migliore sviluppo dell’economia, e che procedono in accordo con le sue esigenze, e, questo, sulla base della convinzione, come si ripete, che un mercato del lavoro non discriminatorio è, al tempo stesso, opportunità per gli individui di ottenere benessere, e opportunità per il sistema economico di svilupparsi. In sintesi, le politiche europee si servono dei divieti di discriminazione non propriamente per promuovere il ruolo, la dignità, gli interessi del lavoratore come tale, tanto meno per trasformare i rapporti di forza nel lavoro, ma per di far sì che certe condizioni personali non diventino ostacolo all’inserimento delle persone nel mondo produttivo e alla capacità di quest’ultimo di estrarne valore.

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Sotto questo profilo, le politiche anti-discriminatorie hanno contribuito a modellare una nuova idea della ‘persona’, che tende a smantellare qualificazioni e caratterizzazioni un tempo considerati fermi (come la propensione delle donne per il lavoro di cura) favorendo lo sviluppo in ogni individuo, indipendentemente dal sesso, razza o altre caratteristiche, di una sorta di ‘socializzazione al lavoro’.

I due temi appena descritti

o Le politiche antidiscriminatorie come componente del passaggio dal welfare al workfareo Le politiche antidiscriminatorie come veicolo di una socializzazione fondata sulla

partecipazione al mercato del lavoro

Rappresentano due linee conduttrici del nostro studio.

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(*) Il corso si basa su una mia linea di ricerca per la quale ho ottenuto, nel 2009-2011, una Cattedra Jean Monnet di Diritto Europeo e che è confluita, tra le principali, nelle seguenti pubblicazioni: S.Niccolai, Tra costituzione e amministrazione: la protezione dei diritti in ambito comunitario, in Il Filangieri, 2004; Ead., I rapporti di genere nella costruzione costituzionale europea, in Politica del Diritto, 2006; Ead., La partecipazione politica delle donne in sessant’anni di trasformazioni della politica e delle donne , in Novelli Dau C., Nel segno dell’empowerment femminile, Cagliari, 2006; Ead., Differenze come cose e come valutazioni, in Aa. Vv., Sergio Panunzio. Profilo intellettuale di un giurista, Napoli, 2007; Ead. Derecho antidiscriminatorio, nuevos valores de convivencia y argumentatiòn constitucional, in Revista de derecho constituticional europeo, 2009; Ead., Changing Imanges of Normal and Worthy Life. The Constitutional Potential of EU Gender and Anti-Discrimination Policies, in Niccolai S., Ruggiu I. (eds), Dignity in Change, Fiesole, 2010; Ead., ‘Comprendere le ragioni dei mutamenti’: il Costituzionalismo, la New Governance e l’ascolto della differenza di genere, in Ales E., Barbera M., Guarriello F., Lavoro Welfare e Democrazia Deliberativa, Milano, 2010; Ead., Trasformazioni del senso del lavoro e della cura e argomentazione costituzionale. A margine di una controversia di discriminazione per handicap, in Aa. Vv., Il diritto tra interpretazione e storia, Roma, 2010, con A. Stewart e C. Hoskyns, Disability Discrimination by Association: A Case of the Double Yes?, in Social&Legal Studies, 2011;. When Minorities are 99%. The Lost Currency of Anti-Discrimination Law, in Costituzionalismo.it 2/215; Ead., Il dibattito intorno alla svolta universalistica e dignitaria del diritto anti-discriminatorio, in Politica del diritto, 2014.

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III STRUTTURA DELLE POLITICHE ANTIDISCRIMINATORIE

Le politiche antidiscriminatorie hanno una struttura composita che si articola intorno a quattro livelli:

Normativo Giurisprudenziale Di Governance Azione di organismi ulteriori

1.Livello normativo

Consiste nella

a)posizione, da parte della Ue. di una o più direttive che contengono:

individuazione delle categorie o condizioni protette individuazione delle fattispecie di discriminazione (comportamenti che realizzano

discriminazione) individuazione delle procedure per accertare le discriminazioni e provarle in giudizio

b)eventuale posizione, da parte della Ue, di regolamenti accessori o su aspetti ulteriori e specifici

c)attuazione della direttiva a livello nazionale.

2. Livello giurisprudenziale

Consiste nello sviluppo della interpretazione della direttiva e del diritto nazionale alla luce dei Trattati da parte della Corte di Giustizia.

La Corte di Giustizia è un attore di portata centrale nella elaborazione dei contenuti, delle finalità e della funzione del diritto antidiscriminatorio europeo. La Corte può pronunciarsi in materia tramite due canali:

a) può essere chiamata a pronunciare l’esatta interpretazione del diritto comunitario quando un giudice nazionale abbia bisogno di accertarla per vagliare la portata e l’interpretazione, oltre che la compatibilità col diritto europeo, del diritto interno ai fini della decisione di una concreta controversia (cd. Giudizio sulla questione pregiudiziale);

b) può essere chiamata a decidere sul ricorso della Commissione contro uno Stato che non avere implementato nel termine, o non ha implementato correttamente, il diritto comunitario(cd. Procedura di infrazione).

Grazie alla funzione della Corte di Giustizia di dettare l’interpretazione del diritto comunitario a cui i giudici nazionali devono attenersi (le sue sentenze hanno ‘forza di legge’), il livello giurisprudenziale garantisce l’uniformità del diritto anti-discriminatorio nei paesi membri, oltre a integrarne e specificarne i contenuti e la portata.

Nella sua giurisprudenza la Corte di Giustizia ha precisato che: 10

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il principio di non discriminazione è ‘aspetto pratico’ e in questo senso un equivalente, del principio di eguaglianza (che i Trattati istitutivi come tale non prevedevano ed è stato formulato nel diritto comunitario solo con la Carta europea dei Diritti fondamentali, emanata nel 2000 e incorporata nel 2009 nel TUE);

“i diritti fondamentali della persona umana fanno parte dei principi generali del diritto comunitario che è compito della Corte fare osservare” e che “la eliminazione della discriminazione per sesso fa parte di quei diritti fondamentali” (Defrenne II, Causa C-149/77, 1978). Il divieto di discriminazioni ha così permesso alla Corte di Giustizia di affermare che la Comunità dispone di un ‘proprio’ patrimonio di diritti fondamentali, che non deriva dalle tradizioni costituzionali nazionali ma è autonomo rispetto ad esse;

il principio di non discriminazione ha "diretta applicabilità" ed è "sufficientemente pieno e incondizionato da poter essere invocato da un privato davanti a un giudice al fine di ottenere la disapplicazione di una disposizione nazionale”. Il divieto di discriminazioni è stato il principale strumento col quale la Corte ha costruito la ‘primazia’ del diritto comunitario nei confronti del diritto interno;

il divieto di discriminazione ha un vastissimo campo di applicazione. Esso si si applica "non solo alle pubbliche autorità ma anche a tutte le convenzioni che disciplinano in modo collettivo il rapporto di lavoro subordinato, come pure ai contratti tra i singoli (Kowalska, C-33/89 1990); "a privato e pubblico, legge e contratto collettivo" (Brunnhofer, C-381/99, 2000). La Corte di Giustizia ha d’altro canto precisato che il compimento delle operazioni comparative necessarie a rivelare o meno la sussistenza di una discriminazione può avvenire anche su scala anche molto ridotta, come "nello stesso stabilimento, pubblico o privato" (Jenkins vs Kingsgate, C-96/80, 1981).

In considerazione di ciò, si dice che la Corte di Giustizia ha interpretato il diritto anti-discriminatorio ‘magis ut valeat’ cioè conferendogli la massima estensione possibile e il massimo possibile di influenza sul diritto nazionale.

3. Il livello della Governance

Consiste nell’implementazione della normativa anti-discriminatoria mediante piani e programmi d’azione finalizzati al perseguimento dei relativi obiettivi. Il livello della governance coinvolge le istituzioni europee, quelle nazionali e quelle locali nonché la società civile e comprende anche una ricca produzione di ‘soft law’ (raccomandazioni, libri bianchi e verdi), la quale orienta gli attori privati e pubblici coinvolti convogliandoli intorno alle iniziative e alle azioni che la Comunità ha ritenuto necessarie per raggiungere i fini delle direttive.

Le direttive anti-discriminatorie sono implementate tramite piani e programmi d’azione per la parità di genere e le pari opportunità, finanziati dal Fondo sociale europeo.

Il Fondo sociale europeo è, a tenore del Trattato, lo strumento finanziario istituito “per migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori nel mercato interno e contribuire così al miglioramento del tenore di vita”. I suoi obiettivi sono: promuovere all’interno della Unione europea la possibilità di occupazione e la mobilità geografica dei lavoratori, facilitarne l’adeguamento alle trasformazioni industriali e ai cambiamenti di sistemi di produzione in particolare attraverso la formazione e la riqualificazione professionale.

Il Fondo sociale europeo (FSE) è dunque lo strumento finanziario di cui la Ue si avvale per raggiungere i suoi obiettivi di coesione sociale. Questi sono descritti in documenti programmatici di

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lungo e medio periodo, predisposti dalla Commissione europea, detti Agende Sociali, e nei documenti di integrazione e aggiornamento delle Agende.

Nel suo complesso, la politica di coesione sociale della Ue è basata sul convincimento che “L’occupazione è la migliore protezione contro l’esclusione sociale”, come si legge nell’Agenda sociale 2000. Questa convinzione è affiancata da altre due, tra di loro connesse, che sono sempre presenti nei documenti programmatici della Ue1 :

l’idea che le tutele dei lavoratori non devono consistere in costi per l'impresa o in diminuzioni della sua capacità competitiva;

l’idea che la protezione del lavoro non debba essere ricercata nella stabilità dell'occupazione e nelle garanzie di status per il lavoratore (come era stato l'approccio nazionale in molti casi) ma nelle garanzie cd. ‘complementari’, che accompagnano la persona nella sua perpetua competizione per il lavoro e nelle alterne vicenda di questa, quali la formazione in vista del reinserimento nel mondo del lavoro (cd. Flexicurity, spesso in italiano “flessicurezza”).

La non discriminazione e pari opportunità sono sempre comparse nelle Agende sociali europee come strumenti per promuovere ‘coesione sociale’ e cioè occupazione o, quanto meno, occupabilità, ovverosia capacità della persona a trovare lavoro e sua propensione a cercarlo attivamente.

La crisi economica successiva al 2008 ha comportato una nuova e crescente attenzione della Ue nei confronti della povertà e dell’esclusione sociale.

Nell’ultimo regolamento sull’uso dei fondi strutturali, n. 1303 del 2013, non discriminazione e lotta alla povertà costituiscono un obiettivo unitario. Il regolamento individua 11 obiettivi tematici orientati alla realizzazione di una strategia europea per una ‘crescita intelligente, sostenibile e inclusiva’ (nel cui ambito e ai cui fini i fondi strutturali sono impiegati); tra questi il nono obiettivo è “promuovere l’inclusione sociale e combattere la povertà e ogni discriminazione”.

All’interno del Fondo sociale europeo sono da menzionare come i principali fondi collegati all’implementazione delle politiche sociali negli anni recenti:

il fondo PROGRESS, Programma Occupazione e Solidarietà sociale, che sostiene programmi volti a sostenere l’occupazione, anche con riferimento a categorie protette, come le persone disabili, e sostiene altresì studi volti all’analisi e sviluppo di nuove politiche;

il fondo FEG, Fondo Europeo di adeguamento alla Globalizzazione, che interviene per finanziare programmi di sostegno ai lavoratori che hanno subito il licenziamento per una trasformazione o crisi del settore in cui operavano.

Per ogni categoria protetta (così come per altri oggetti o fini della sua azione nel campo sociale) l’UE si dota di Strategie, documenti che, con riferimento a periodi determinati, verificano che cosa si è fatto e individuano il da fare per implementare le politiche connesse. Alle strategie Ue sono connesse poi le singole strategie nazionali e una gamma di strategie locali.

Da un punto di vista operativo, le politiche sociali europee si basano sui principi della programmazione, del cofinanziamento, del partenariato.

1 Dall’ Agenda Sociale del 1993 , al Libro bianco su “Crescita competitività e occupazione” del 1996 al Trattato di Amsterdam del 1997 alla Strategia europea per l’occupazione, sempre del 1997, al Patto Europeo per l’eguaglianza di genere del 2006, e oggi, alla strategia ‘Europa 2020” che pone gli obiettivi di crescita nel decennio.

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La Ue individua obiettivi di lungo e medio periodo (programmazione), costituisce fondi destinati normalmente a rappresentare un co-finanzianziamento delle azioni e dei programmi tesi al raggiungimento degli obiettivi e proposti e sviluppati a livello nazionale o locale (co-finanziamento) e che normalmente coinvolgono oltre alle istituzioni nazioni e locali imprese sindacati e a altre articolazioni della cd. ‘società civile organizzata’ nonché le organizzazioni non profit (partenariato).

Tra gli strumenti della Governance europea uno molto importante è il cd. MAC, Metodo aperto di coordinamento, che, applicato all’ambito delle politiche sociali prende il nome di MAC sociale.

Metodo di coordinamento aperto 2

Il metodo di coordinamento aperto nell’Unione europea (UE) può essere descritto come uno strumento giuridico non vincolante (soft law). Si tratta di una forma di politica intergovernativa che non si traduce in misure legislative vincolanti per l’UE e non richiede ai paesi dell’UE di introdurre o modificare le loro leggi.

Il metodo di coordinamento aperto, creato originariamente negli anni novanta come parte della politica sull’occupazione e del processo di Lussemburgo, ha fornito un nuovo quadro di cooperazione tra i paesi dell’UE per far convergere le politiche nazionali verso alcuni obiettivi comuni. In base a questo metodo intergovernativo, i paesi dell’UE sono valutati da altri paesi dell’UE (peer pressure) e la Commissione si limita a svolgere un ruolo di sorveglianza. Il Parlamento europeo e la Corte di giustizia non svolgono praticamente alcun ruolo nel processo del metodo di coordinamento aperto.

Esso viene utilizzato in settori che rientrano nella sfera di competenza dei paesi dell’UE, quali l’occupazione, la protezione sociale, l’istruzione, la gioventù e la formazione professionale.

Si basa principalmente su:

identificazione e definizione congiunta di obiettivi da raggiungere (adottati dal Consiglio); strumenti di misura definiti congiuntamente (statistiche, indicatori, orientamenti); «benchmarking», vale a dire l’analisi comparativa dei risultati dei paesi dell’UE e lo scambio

delle migliori pratiche (procedura monitorata dalla Commissione).

Il metodo aperto di coordinamento serve a individuare le migliori pratiche adottate a livello nazionale che possono servire da modello per altri paesi per l’implementazione delle politiche europee.

4.Azione di organismi di supporto e specializzati

2 La definizione seguente è tratta dal sito EurLex.13

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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI

Per ogni sua politica, la UE crea propri Gruppi di esperti, incaricati di monitorare le politiche nazionali, suggerire nuove azioni, correggere le strategie esistenti, eccetera. Le direttive anti-discriminatorie di genere furono concepite con l’apporto di un gruppo di esperti guidato dalla sociologa francese Evélyne Sullerot, autrice di studi focalizzati sull’importanza della parità di genere specie nel lavoro per il progresso sociale.

Il tema dei gruppi di esperti ci dà l’occasione per annotare che le politiche della Ue non sono concepite in un ambiente principalmente segnato dalla cultura giuridica. Rispetto a quest’ultima, sono prevalenti la sociologia, la statistica, l’economia, la psicologia sociale, la scienza dell’organizzazione, con il loro peculiare bagaglio di metodi e di mentalità. Questo è rilevabile dal particolare linguaggio ricorrente non solo nel soft law ma anche nei documenti normativi della Ue, dove ricorrono espressioni e concetti coltivati tipicamente nelle scienze sociali, come il riferimento a indicatori quantitativi o qualitativi, l’adozione di categorie di analisi sviluppate nelle scienze sociali, eccetera. Spesso con “diritto europeo” si designa ciò che è, piuttosto, la trasposizione in atti giuridici di contenuti caratteristicamente appartenenti alle scienze sociali o all’organizzazione. Nel diritto antidiscriminatorio europeo c’è pochissimo diritto e molta ‘ingegneria sociale’, come ha sostenuto l’autore tedesco A. Somek.

Per effetto delle politiche antidiscriminatorie europee ogni paese membro ha dovuto creare propri organismi per la parità. EQUINET è la rete europea degli ‘organismi per la parità’ esistenti in ogni stato membro.

Una funzione di supporto è assolta dalla Agenzia europea per i diritti fondamentali, che così si auto-definisce: “un organismo indipendente della Ue, finanziato dal bilancio dell’Unione, che fornisce assistenza e consulenza indipendente e basata su prove in materia di diritti fondamentali ale istituzioni e agli Stati membri dell'UE”.

In sintesi: il diritto antidiscriminatorio europeo è una componente essenziale della POLITICA SOCIALE EUROPEA.

La politica sociale europea è l’insieme degli interventi che, in coordinamento con gli Stati Membri, l’Unione intraprende per perseguire obiettivi che attengono alla cd coesione sociale e che essa stessa definisce (cfr. sito EurLex) come “ un ruolo di stimolo in campo sociale, volto a favorire:

o l’incremento dell’occupazione, o la qualità dei posti di lavoro e delle condizioni di lavoro, o la mobilità dei lavoratori, l’informazione e la consultazione dei lavoratori, o la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, o la promozione delle pari opportunità e la lotta alla discriminazione, o la modernizzazione dei sistemi di protezione sociale.

Nella Ue, il governo della società è funzionale al mercato.

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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI

IV I SINGOLI ‘GROUNDS’ ANTIDISCRIMINATORI. A. IL GENERE

1.La normativaLe direttive in materia di parità di genere

direttiva 75/117/CEE Ravvicinamento delle legislazioni relative all’applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e femminile;

direttiva 76/297/CEE Attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda accesso, formazione condizioni di lavoro

direttiva 2006/54, di rifusione delle direttive del 1975 e 1976 o direttiva ‘recast’ che dà organica, sistemazione all'imponente corpus di principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, oltre che alle modifiche e aggiunte intervenute nelle prime direttive antidiscriminatorie dopo il 1975 e 1976, come la Direttiva 97/80/CE sull’onere della prova nei casi di discriminazione fondata sul sesso; la Direttiva 86/378/CEE, di attuazione della parità di trattamento nel settore dei regimi professionali dei sicurezza sociale; la Direttiva 96/34/CE e 92/85 CE gravidanza maternità e congedi parentali; la Direttiva 2004/113 /CE sul principio della parità di trattamento uomo-donna nell’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura.

Sono definite a livello normativo: le fattispecie di discriminazione e altri aspetti della tutela.

Le definizioni (o ‘fattispecie tipiche’) di discriminazione (art. 2 della Direttiva 2006/54):

discriminazione diretta è la situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga;

discriminazione indiretta è la situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari ;

molestie : è la situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di quella persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante o offensivo;

molestie sessuali : è la situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona o creare un clima intimidatorio, ostile, degradante o offensivo".

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Il principio di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni (art. 17)

Il diritto comunitario obbliga gli Stati membri a istituire procedure giurisdizionali adeguate per la tutela delle vittime delle discriminazioni.

Le forme di tutela giurisdizionale devono comprendere il riconoscimento della facoltà per le associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che abbiano legittimo interesse nella materia di esercitare il diritto di avviare in via giurisdizionale e/o amministrativa per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa, procedure finalizzate alla tutela antidiscriminatoria.

I mezzi di riparazione devono essere effettivi, reali ed effettivi, dissuasivi e proporzionati al danno subito.

Il principio dell’inversione dell’onere della prova e le giustificazioni oggettive (art. 19).

Il diritto comunitario impone che la legislazione nazionale, nel dettare le forme di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni, preveda la garanzia, a favore di chi agisce in giudizio, detta dell'inversione dell'onere della prova.

Normalmente, è la parte che si ritiene lesa (ricorrente) che deve provare sia di essere titolare del diritto di cui afferma la lesione, sia che l’altra parte (il convenuto) ha leso questo diritto. Grazie all’inversione dell’onere della prova, invece:

la parte convenuta (es. il datore di lavoro) deve provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento lamentata dal ricorrente. A determinare l’inversione dell’onere della prova è sufficiente che chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti del principio di non discriminazione, abbia prodotto in giudizio elementi di fatto dai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (cd. ‘principio di prova’). In altri termini, chi si lamenta di avere subito una discriminazione non deve provare che essa c’è stata, ma solo fornire elementi di fatto che fanno presumere che essa ci si stata. Davanti a questo ‘principio di prova’, è il convenuto che deve provare che la discriminazione non c’è stata.

Importante in materia di prova è il principio, di origine giurisprudenziale e poi recepito nelle direttive, della giustificazione oggettiva, che è sempre applicabile in caso di discriminazioni indirette, e qualche volta anche in caso di discriminazione diretta.

In base a questo principio, il datore di lavoro può sottrarsi all'accusa di discriminazione dimostrando che il fatto o atto denunciato, sebbene astrattamente discriminatorio, ha una giustificazione oggettiva. Tali sono le esigenze aziendali, comprese le politiche del personale, sempre che si tratti di ragioni che rispondono a un bisogno reale dell'azienda e siano rispetto a quel bisogno proporzionate e necessarie (cd. test di giustificazione delle discriminazioni indirette, posto dalla sentenza Bilka Kaufhaus, C-170/84, 1986, nella quale fu stabilito che retribuire i lavoratori part-time secondo criteri che riducono la retribuzione più che proporzionalmente rispetto ai lavoratori a tempo pieno è una apparente discriminazione indiretta, posto che a prestare lavoro part time sono più le donne che gli uomini, ma può essere obiettivamente giustificato dall'intento del datore di lavoro di

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incoraggiare i propri dipendenti a scegliere il lavoro a tempo pieno, ovverosia da una determinata ‘politica aziendale’).

Gli organismi per la parità (art. 20)

Gli Stati membri devono inoltre creare organismi per la parità, ossia di uno o più organi per la promozione, l'analisi, il controllo il sostegno della parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sul sesso e competenti in particolare: a prestare assistenza indipendente alle vittime discriminazioni, anche dando seguito alle denunce da essi inoltrate, a svolgere inchieste indipendenti in materia di discriminazioni, a pubblicare relazioni indipendenti e raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni; a scambiare informazioni con gli organismi europei corrispondenti.

2.La Giurisprudenza La Corte di Giustizia della Ue ha dato vita a una interpretazione del principio di non discriminazione/parità tra i sessi la cui caratteristica è avere stabilito che sono potenzialmente discriminatorie tutte quelle forme di tutela a favore delle donne che, negli ordinamenti nazionali, nascevano dall'idea di una speciale competenza delle donne nel ruolo familiare e materno.

Questo significa che, agli occhi della Corte di giustizia, tutte le tutele riconosciute dalle legislazioni nazionali alle donne, che non si ricolleghino all'oggettivo fatto biologico della gravidanza-parto- allattamento (che solo può giustificare una differenza di trattamento rispetto all’uomo), recano una visione stereotipata della donna, perciò stesso sono discriminatorie (Dekker, Causa C-177/1988, 1990).

Nel concetto europeo di discriminazione vietata rientrano dunque le misure legislative che perpetuano visioni stereotipate del ruolo femminile che si traducono in altrettanti ostacoli a un pieno ingresso delle donne su un piede di parità con gli uomini nel mercato del lavoro.

La discriminazione come stereotipo fa parte di quella caratteristica modalità di procedere della Corte di Giustizia, e dell’intera politica europea di parità, tendente a realizzare una sorta di ‘ristrutturazione morale’, cioè dei modi di pensare e di comportarsi delle persone. Le politiche di parità hanno infatti una caratteristica intonazione comportamentista: esse intendono influire sui comportamenti, gli atteggiamenti, le convinzioni e le scelte degli individui e su scala di massa.

Giurisprudenza notevole della Corte di Giustizia in tema di discriminazione di genere

COMMISSIONE CONTRO FRANCIA, C-312/86 (1988)

La sentenza nasce dall’impugnazione da parte della Commissione europea della legislazione francese attuativa della direttiva 76/207 sulla parità di condizioni nel lavoro. La legislazione francese ammetteva, pur in presenza del divieto di discriminazioni, il mantenimento o l’adozione, a

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livello nazionale, di provvedimenti relativi alla protezione della donna, in particolar modo per quanto riguarda la gravidanza e la maternità, e volti a promuovere la parità delle opportunità per gli uomini e le donne. I diritti speciali delle donne lavoratrici garantivano in particolare: la proroga dei congedi di maternità; la riduzione dell' orario di lavoro, ad esempio per le donne che avessero raggiunto i 59 anni; l' anticipo dell' età pensionabile in relazione al numero di figli; la concessione di congedi per la malattia di un figlio; giorni supplementari di ferie annuali per ciascun figlio; la concessione di un giorno di congedo per la data d' inizio dell' anno scolastico; qualche ora di permesso in occasione della festa della mamma; abbuoni ai fini del calcolo della pensione, a partire dal secondo figlio; sovvenzioni alle madri di famiglia che dovessero sostenere spese di asilo-nido o di custodia dei bambini. La Corte respinse la difesa del governo francese, che era basata sull’argomento che i diritti speciali concessi alle donne, intendevano proteggere le donne e di garantire la loro parità di fatto con gli uomini, e quindi non comportavano discriminazioni. La Corte accolse invece i rilievi della Commissione, secondo cui queste disposizioni erano discriminatorie.

La Corte di Giustizia pose in quella occasione il principio, mai da allora in poi mutato, secondo cui l’ attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità, non può giustificare provvedimenti miranti alla tutela delle donne in considerazione di qualità, come quelle di lavoratore anziano o di genitore, di cui esse non hanno l' esclusiva.

La sentenza sottolinea che taluni dei diritti speciali garantiti alle donne possono rientrare nelle eccezioni all' applicazione della direttiva, e cioè nella clausola di maggior tutela3. Sono quelli che riguardano la protezione della donna in relazione alla gravidanza e la maternità; le altre previsioni invece, sono discriminatorie perché consentono il perdurare dello stereotipo discriminatorio secondo il quale le donne più degli uomini sono responsabili della famiglia e della cura dei figli .

I diritti speciali riconosciuti alle donne in qualità di lavoratore anziano o di genitore sono discriminatori, perché queste qualità che possono essere proprie dei lavoratori di sesso maschile come di quelli di sesso femminile.

GRIESMAR Causa C-366/99 (2001)

Questo caso nasce da una questione pregiudiziale che si originava da una causa sollevata da un cittadino francese, di professione magistrato, il Sig. Griesmar, che rileva il contrasto con le direttive parità della legislazione francese che assegnava solo alle donne magistrato, che, per esempio perché rimaste vedove, avessero cresciuto da sole i propri figli, alcuni benefici nella quantificazione e nell’erogazione della pensione oltre che nel calcolo dell’età pensionabile. Avendo anch’egli cresciuto da solo i suoi figli, Griesmar chiedeva i medesimi diritti.

La Corte ricorda di avere ormai stabilito il principio secondo cui provvedimenti intesi alla protezione della donna in qualità di genitore, qualità che può essere propria dei lavoratori di sesso maschile come di quelli di sesso femminile, non possono trovare giustificazione e sono lesivi della parità.

Essa non accoglie i rilievi del governo francese, secondo il quale la maggiorazione controversa nella causa principale è stata riservata ai dipendenti pubblici di sesso femminile che al fine di tener conto di una realtà sociale, vale a dire gli svantaggi che tali dipendenti subiscono nello sviluppo 3 E’ la clausola, che abbiamo riportato poco sopra, secondo cui “Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda la parità di trattamento, disposizioni più favorevoli [rispetto a quelle fissate nelle direttive comunitarie]”, oggi espressa nell’art. 27 della Direttiva 2006/54, ma già presente nelle direttive degli anni Settanta.

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della propria carriera lavorativa a seguito del ruolo preponderante loro assegnato nell'educazione dei figli.

La Corte conclude che le situazioni di un dipendente pubblico di sesso maschile e di un dipendente pubblico di sesso femminile possono essere paragonabili per quanto attiene all'educazione dei figli. In particolare, la circostanza che i dipendenti pubblici di sesso femminile sono più colpiti dagli svantaggi professionali risultanti dall'educazione dei figli, in quanto sono in generale le donne che prendono a loro carico tale onere, non è tale da escludere la comparabilità della loro situazione con quella di un dipendente pubblico di sesso maschile che abbia preso a carico l'onere di educare i propri figli e sia stato, in tal modo, esposto agli stessi svantaggi di carriera.

Secondo la Corte, la legislazione protettiva considerata non appare idonea a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando tali donne nella propria vita lavorativa. Al contrario, esso si limita a concedere ai dipendenti pubblici di sesso femminile che abbiano la qualità di madre una maggiorazione di anzianità al momento del collocamento a riposo, senza porre rimedio ai problemi che essi possono incontrare nel corso della loro carriera lavorativa.

Secondo la Corte è significativo a tal riguardo il fatto che, mentre l'origine del provvedimento previsto dall'art. L. 12, lett. b), del codice risaliva al 1924, i problemi incontrati nella carriera dai dipendenti pubblici di sesso femminile non avevano potuto, sino a molti anni dopo, essere risolti mediante la normativa impugnata.

Giurisprudenza notevole della Corte di giustizia in tema di pari opportunità

In molti passaggi, le due decisioni appena illustrate, che sono due pilastri della concezione dell’anti-discriminazione adottata dalla Corte di Giustizia, si intrecciano con la definizione del concetto di ‘maggiori tutele’ ammesse nel diritto comunitario, e contribuiscono a scolpire la nozione di misure di pari opportunità da esso ammesse.

Con specifico riferimento alle misure di pari opportunità adottate dagli Stati membri, la Corte, interpretando la clausola di maggior tutela secondo cui gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate [nelle direttive comunitarie”], ha stabilito che questa disposizione:

o ha “lo scopo, preciso e limitato, di autorizzare provvedimenti che, pur apparendo discriminatori, mirano effettivamente a eliminare o a ridurre le disparità di fatto che possono esistere nella realtà della vita sociale;

o e autorizza provvedimenti nazionali in materia di accesso al lavoro, ivi compresa la formazione, i quali, favorendo in special modo le donne, perseguono lo scopo di migliorare la loro attitudine a concorrere sul mercato del lavoro.

L’opportunità di misure positive che affianchino il diritto discriminatorio è stata spiegata dalla Corte di giustizia argomentando che

“disposizioni normative esistenti in materia di parità di trattamento (…) sono inadeguate per eliminare tutte le disparità di fatto, a meno che non siano intraprese azioni parallele da parte dei governi, delle parti sociali e degli altri enti interessati per controbilanciare gli effetti negativi risultanti per le donne, nel campo dell'occupazione, da atteggiamenti, comportamenti e strutture sociali” (sent. Kalanke).

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DIRITTO DELLE PARI OPPORTUNITA’ E NON DISCRIMINAZIONE SA 2017/2018 PROF.SSA SILVIA NICCOLAI

Le azioni positive – che lottano, come le norme antidiscriminatorie, contro gli ‘stereotipi di genere’) sono dunque ammesse, e considerate utili, ma il diritto comunitario pone precisi limiti e vincoli alla loro adozione, almeno nel senso che esse devono attuarsi nel rispetto del principio di parità, secondo come precisato dalla Corte di Giustizia che, con quattro importantissime sentenze emanate tra il 1995 e il 20004 ha dettato i limiti di ammissibilità delle politiche di pari opportunità generando quello che si può chiamare il “modello europeo” di politiche di pari opportunità.

Questo modello può essere riassunto dicendo che misure di pari opportunità che assicurano il risultato (ad esempio: riserva di posti di lavoro a favore degli appartenenti a una certa categoria) sono vietate, fortemente sconsigliate, indubbiate di essere discriminatorie; mentre sono non solo consentite, ma favorite, quelle che si propongono di assicurare – per l'appunto – parità di opportunità (es.: riserva di posti in corsi di formazione professionale agli appartenenti a una certa categoria).

La Corte ha stabilito che le politiche di pari opportunità:

Devono garantire agli appartenenti al sesso svantaggiato l’opportunità di conseguire il risultato sperato, ma non garantire il risultato stesso, e dunque devono tendere sostanzialmente alla formazione professionale degli appartenenti al sesso svantaggiato (il “risultato” che è vietato assicurare con le misure di pari opportunità è il “posto di lavoro”; l'”opportunità” che è consentito garantire è la “formazione”).

Devono essere realizzate mediante piani e programmi amministrativi temporalmente determinati e ancorati a obiettivi concreti parametrati su un dato segmento del pubblico impiego, specialmente se consistenti in misure formative.

Devono prevedere la cd. clausola di riserva, che consenta la valutazione non discriminatoria delle qualità di un eventuale candidato appartenente al sesso avvantaggiato, e lasci aperta la possibilità che sia quest'ultimo, e non automaticamente il candidato appartenente al sesso svantaggiato, a ottenere la preferenza.

3.La GovernanceLe misure di lotta alla diseguaglianza di genere e per le pari opportunità hanno costituito il nucleo più antico delle politiche sociali europee, dove è sempre stato centrale l’obiettivo dell’innalzamento del tasso di occupazione/occupabilità delle donne, perché innalzare il tasso di occupazione delle donne ha significative ricadute sul tasso complessivo di occupabilità e dunque sulla performance economica del ‘sistema Europa’.

La causa dello svantaggio femminile nel lavoro (difficoltà di ingresso e di reinserimento nel lavoro, difficoltà di avanzamento di carriera, minori retribuzioni) è stata reiteratamente identificata nelle tradizioni e stereotipi culturali che legano le donne più degli uomini al lavoro domestico e di cura, da una parte, e nelle legislazioni nazionali che, proteggendo le donne per la loro funzione familiare, corroborano questi stereotipi.

4 Si tratta delle decisioni: Kalanke, C-450/93 (1995); Marschall, C-409/95 (1997); Badeck, C-158/97 (2000); Abrahamsson, C-407/98 (2000).

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Il “doppio carico” femminile determinerebbe:

a) l’inclinazione delle donne verso certi tipi di professioni, ritenute maggiormente capaci di permettere alle donne di assolvere anche ai compiti familiari ma, e per lo stesso motivo, spesso meno retribuite di altre, ciò che sarebbe causa della ‘segregazione’ femminile nel lavoro;

b) la tendenza delle donne a uscire dal mercato del lavoro all’arrivo dei figli e ad avere difficoltà quando, una volta i figli cresciuti, vogliano rientrarvi, per esempio per non disporre di un adeguato aggiornamento professionale;

c) il carattere intermittente delle carriere femminili, che è a sua volta causa di minori retribuzioni.

Scopo delle politiche di pari opportunità è stato dunque tradizionalmente quello di impostare azioni educative volte alla ‘lotta agli stereotipi di genere’, compresa l’azione a favore di una sensibilizzazione degli uomini alla assunzione dei compiti di cura; a favorire programmi di formazione professionale e di aggiornamento e riqualificazione per le donne; a individuare ‘misure di conciliazione’ che permettano alle donne di tenere insieme il lavoro o la famiglia, misure che sono individuate soprattutto nel lavoro part-time e flessibile.

Esempi di governance della parità. L’Impegno Strategico 2016-2017Un quadro della governance europea in materie di genere è fornito dal recente “Impegno strategico a favore della parità di genere 2016-2017” della Commissione Europea. Vi si legge che:

Nel suo programma di lavoro, la Commissione ha confermato il proprio impegno a proseguire le attività intese a promuovere l’uguaglianza tra donne e uomini. È pertanto necessario continuare a incentrare la politica in materia di parità di genere sui cinque settori prioritari tematici esistenti:

o accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e garantire pari indipendenza economica per donne e uomini;

o ridurre il divario di genere in termini di retribuzioni, introiti e pensioni e combattere quindi la povertà delle donne;

o promuovere la parità tra donne e uomini nel processo decisionale; o lottare contro la violenza di genere e proteggere e sostenere le vittime; o promuovere la parità di genere e i diritti delle donne in tutto il mondo.

L’Impegno Strategico presenta le azioni chiave, selezionate per il loro massimo impatto e la fattibilità nel corso dell’attuale mandato della Commissione, e precisa che, “in tutti i settori prioritari, si porrà attenzione al ruolo degli uomini, all’eliminazione degli stereotipi di genere e alla promozione di ruoli di genere non discriminatori. Particolare attenzione sarà prestata alle esigenze specifiche dei gruppi confrontati a molteplici svantaggi, ad esempio, le donne a capo di famiglie monoparentali, le donne anziane, migranti, Rom e disabili.

“Per realizzare gli obiettivi previsti nell’ambito di ciascuna priorità L’Impegno Strategico individua un insieme di strumenti legislativi, non legislativi e di finanziamento, tra cui:

l’integrazione di una prospettiva di parità di genere in tutte le attività dell’UE; la messa in atto di norme sulla parità di trattamento; i programmi di finanziamento dell’UE per il 2014-2020; una continua e migliore raccolta di dati con il sostegno di Eurostat, dell’Istituto europeo per la

parità di genere (EIGE), di Eurofound, del Consiglio d’Europa (CoE) e dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA);

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gli scambi di buone pratiche e l’apprendimento paritario tra Stati membri, nonché la cooperazione con tutti gli attori;

un esame annuale delle azioni chiave poste in essere, di pari passo con la preparazione delle relazioni annuali sui progressi riguardanti la parità tra donne e uomini, al fine di valutare le esigenze per ulteriori interventi in materia. “

Nella definizione in dettaglio delle azioni, compare ad esempio l’obiettivo di “promuovere la parità di genere in ogni livello e tipo di istruzione, anche per quanto concerne la scelta delle materie di studio e di carriera con una connotazione di genere, utilizzando come opportuno gli strumenti politici di cooperazione e gli strumenti di finanziamento esistenti, in linea con le priorità definite nel quadro ‘Istruzione e formazione 2020’ (2016-2019)”

L’Impegno ricorda anche che

“I Fondi strutturali e di investimento europei (fondi SIE), in particolare il Fondo sociale europeo e il Fondo europeo di sviluppo regionale, sono importanti leve finanziarie per la promozione della parità, ad esempio per quanto concerne l’accesso all’impiego, l’avanzamento di carriera, la conciliazione della vita privata e professionale, la parità retributiva per lo stesso lavoro, l’integrazione nel mercato del lavoro delle donne migranti e gli investimenti in infrastrutture per l’assistenza all’infanzia; • il programma “Diritti, uguaglianza e cittadinanza” cofinanzia i progetti nazionali che promuovono una pari indipendenza economica, oltrepassando i rigidi ruoli e stereotipi di genere e sensibilizzando al divario di genere in termini pensionistici, nonché alle relative cause e conseguenze. Il programma investirà inoltre nella prevenzione e nella lotta alla violenza contro le donne, finanziando progetti che sostengono le vittime di violenza, organizzando formazioni destinate ai professionisti di questo settore, svolgendo attività di sensibilizzazione e prevenendo la violenza correlata a pratiche nocive; • mediante il sostegno dell’infrastruttura di servizi digitali per un Internet più sicuro, finanziata dal meccanismo per collegare l’Europa, si sovvenzioneranno servizi di assistenza telefonica negli Stati membri per le giovani vittime del cyberbullismo (la probabilità che siano ragazze è doppia rispetto ai ragazzi;) • nei prossimi sette anni saranno stanziati fondi a favore della parità di genere e dell’emancipazione delle donne e delle ragazze mediante il programma tematico dell’UE “Beni pubblici e sfide globali” nell’ambito dello strumento di cooperazione allo sviluppo che sostiene la cooperazione esterna dell’UE; • le questioni collegate alla parità di genere sono integrate in Erasmus+, il programma di finanziamento dell’UE per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport (2014-2020)”.

La Strategia per la Parità 2010-2015Nella Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni “Strategia per la parità tra uomini e donne 2010-2015” un capo è dedicato “La gestione e gli strumenti della parità di genere”. Esso rappresenta bene la vastità dei soggetti, delle istituzioni e delle azioni coinvolte nella governance europea in materia di genere.

“Per garantire il progresso, è fondamentale rafforzare la cooperazione con le varie istituzioni e le parti interessate attive nel campo della parità di genere, come i governi degli Stati membri, il Parlamento europeo, le organizzazioni delle parti sociali, la società civile, gli organismi attivi nel campo della parità, le organizzazioni internazionali e le agenzie dell'UE.

“Sulla base di sua relazione annuale sulla parità tra donne e uomini, che si concentra ogni anno su un tema particolare ed identifica le buone pratiche degli Stati membri, la Commissione istituisce un dialogo annuale di alto livello sulla parità di genere, a cui partecipano il Parlamento europeo, le presidenze del Consiglio e le principali parti interessate, come le parti sociali europee e la società civile, per valutare i progressi compiuti nell'attuazione di questa strategia.

“Una stretta collaborazione con i governi degli Stati membri è proseguita tramite il gruppo ad alto livello sull'integrazione di genere. Il comitato consultivo, composto da rappresentanti degli Stati membri, organizzazioni delle parti sociali e della società civile, continuerà a informare la

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Commissione sulle iniziative politiche e legislative. La Commissione intensificherà gli scambi di buone pratiche tra gli Stati membri in tutti i settori che rientrano nell'ambito di questa strategia.

“Essa collabora strettamente con le parti sociali europee e le organizzazioni che rappresentano la società civile.

“L'integrazione di genere è attuata come parte integrante delle politiche della Commissione, anche mediante l'esame dell'impatto e i processi di valutazione. La Commissione intende ampliare la base di conoscenze sulla parità di genere, anche con il supporto dell’Istituto europeo per la parità di genere. Come parte del suo programma di lavoro, l'Istituto assiste la Commissione e gli Stati membri informando sugli indicatori utilizzati a livello dell'UE, adottati nell'ambito della piattaforma d'azione di Pechino per settori particolarmente preoccupanti, ed elaborando se necessario altri indicatori (ad esempio per le donne e l'ambiente).

“La Commissione sensibilizza e pubblicizza i vantaggi delle politiche sulla parità di genere. Essa migliora ad esempio il suo portale Internet sulla parità di genere con link e aggiornamenti sui progressi compiuti.

“La prospettiva di genere è inserita nella progettazione nei programmi d’azione, rafforzandoli con una solida valutazione della situazione delle donne e degli uomini.

“Le Azioni chiave per la realizzazione della Strategia sono volte a:

• esaminare il ruolo degli uomini nella parità di genere; promuovere buone pratiche relative ai ruoli di genere nella gioventù, nell'istruzione, nella cultura e nello sport;

• monitorare la corretta attuazione delle norme dell'UE sulla parità di trattamento, in particolare delle direttive 2004/113/CE e 2006/54/CE; monitorare in che misura è stato tenuto conto della parità di genere nell'applicazione delle direttive sulla non discriminazione;

• sviluppare e l'aggiornare gli indicatori, con il sostegno dell'Istituto europeo per la parità di genere;

• presentare una relazione annuale sui progressi compiuti in materia di parità di genere, in particolare nei settori che rientrano nell'ambito di questa strategia, prima dello svolgimento di un dialogo annuale di alto livello sulla parità di genere tra il Parlamento, la Commissione, gli Stati membri e le principali parti interessate.”

4. Altri organismi e loro azione.

ISTITUTO EUROPEO PER L’UGUAGLIANZA DI GENERE  (EIGE)

L’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) è “l’agenzia dell’Unione europea specializzata nelle politiche di pari opportunità, operativa da maggio 2007, che sostiene l’UE e i suoi Stati membri nella promozione della parità di genere, nella lotta alle discriminazioni di genere e nella sensibilizzazione sulle questioni relative alla parità tra i sessi, e annovera tra i suoi compiti principali la raccolta e l’analisi di dati comparabili sulle questioni di genere, l’elaborazione di strumenti metodologici per l’integrazione della dimensione di genere in tutte le aree politiche strategiche, l’agevolazione dello scambio di

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buone prassi, l’elaborazione di indicatori, l’istituzione di un dialogo costruttivo tra tutti i soggetti interessati e la sensibilizzazione dei cittadini dell’UE in materia.

L’Istituto si compone di tre organismi principali: il Management Board, organo decisionale, il Forum di Esperti (Experts’ Forum), organo consultivo, alle cui riunioni partecipano, con membri designati, gli organismi nazionali di parità come il Dipartimento per le Pari opportunità, e il Direttore dell’Istituto (organo esecutivo). (dal sito della Presidenza del Consiglio Italiana – Dipartimento per le pari opportunità).

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V. I singoli grounds antidiscriminatori. B. Le altre categorie protette

Il modello europeo di antidiscriminazione che si è sviluppato intorno alla parità uomo donna prevede un complesso di disposizioni antidiscriminatorie destinate ad essere implementate in sede normativa e giurisdizionale, nonché attraverso un insieme di azioni piani e programmi inaugurati dalla Commissione e gestiti a livello nazionale col coinvolgimento degli enti di governo locale e della ‘società civile organizzata’ e con il sostegno di organismi di supporto e consulenza.

Questo stesso modello è stato riprodotto nei confronti dei ‘nuovi’ grounds (cioè: condizioni o motivi) antidiscriminatori, quando l’Unione europea ha ampliato la propria protezione antidiscriminatoria a categorie ulteriori e diverse rispetto al genere, adottando, nel 2000, le seguenti direttive:

la n. 2000/43/CE del 29 giugno che attua il principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica,

e la n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

Anche rispetto alle nuove categorie protette – come nel campo del genere - la Ue ha adottato il punto di vista secondo cui il modo e lo strumento per risolvere i problemi di esclusione e marginalità sociale che colpiscono alcune categorie è l’incoraggiamento ad entrare nel mercato del lavoro. E del resto, anche le due nuove direttive antidiscriminatorie, pur sottolineando nei loro preamboli che anche altri momenti della vita associata sono molto importanti per l’integrazione e l’inclusione sociale delle categorie svantaggiate (come per esempio l’istruzione), sono mosse dalla duplice convinzione, analoga a quella che sostiene le politiche antidiscriminatorie di genere, per cui:

lo strumento di soluzione per i problemi delle categorie svantaggiate è la rimozione di comportamenti discriminatori che le colpiscano nel momento dell’accesso al lavoro o nelle condizioni di lavoro, e dunque la promozione di un loro maggiore ingresso e permanenza nel mercato del lavoro;

promuovere l’ingresso nel mercato del lavoro di categorie da esso tradizionalmente escluse o in esso marginali è un contributo allo sviluppo economico del mercato comune, e, in generale, al raggiungimento degli obiettivi dei Trattati.

Si veda, per esempio, il punto 9 del preambolo della direttiva 2000/43:

“Le discriminazioni basate sulla razza o sull’origine etnica possono pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà. Esse possono anche compromettere l’obiettivo di sviluppare l’Unione europea in direzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.

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O anche dal considerando nono della direttiva 2000/78:

“L’occupazione e le condizioni di lavoro sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione degli stessi alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale”.

O nei punti 7 e 8 del preambolo della direttiva 2000/78:

“7. Il Trattato CE annovera tra i suoi obiettivi il coordinamento tra le politiche degli Stati membri in materia di occupazione. A tal fine nel Trattato CE è stato istituito un nuovo capitolo sull’occupazione volto a sviluppare una strategia coordinata europea a favore dell’occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza di lavoro competente, qualificata ed adattabile.

“8. Gli orientamenti in materia di occupazione per il 2000, approvati dal Consiglio Europeo a Elsinki il 10 e 11 dicembre 1999, ribadiscono la necessità di promuovere un mercato del lavoro che agevoli l’inserimento sociale formulando un insieme coerente di politiche volte a combattere la discriminazione nei confronti di gruppi quali i disabili. Esse rilevano la necessità di aiutare in primo luogo i lavoratori anziani, onde accrescere la loro partecipazione alla vita professionale.”

E’ significativo che, esprimere il contenuto e il significato della discriminazione per età, la Corte di giustizia ha precisato che essa ha come obiettivo “una ripartizione non discriminatoria delle possibilità di occupazione tra le generazioni” (così in causa C-341/08, Domnica Petersen). Con questa impostazione, la tutela antidiscriminatoria viene configurata in modo esplicito come una parte delle politiche sociali (nel campo dell’occupazione).

Anche le nuove direttive antidiscriminatorie si incentrano sulla individuazione di fattispecie comportamentali vietate e sulla tutela giurisdizionale come ambito prevalente di realizzazione della protezione antidiscriminatoria (pur presentando qualche significativa differenza, come vedremo, sotto entrambi i profili, rispetto alle direttive antidiscriminatorie di genere); confermano la centralità dell’istituto dell’inversione dell’onere della prova e contengono la richiesta che organismi incaricati del monitoraggio sul rispetto della protezione antidiscriminatoria siano posti in essere dagli Stati membri.

Anche queste direttive sono circondate da una ricca azione di governance e vedono all’opera numerosi organismi di supporto.

1. La normativaLa direttiva razza (2000/43)Fattispecie discriminatorie

La direttiva ‘razza’ prevede quattro tipologie di discriminazione:

diretta, indiretta, molestie e l’ordine di discriminare.

Le prime tre forme di discriminazione sono descritte in maniera analoga a quanto avviene nelle direttive sulla parità uomo/donna, mentre nuova è la figura dell’ordine di discriminare:

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“L’ordine di discriminare una persona a causa della razza o dell’origine etnica è da considerarsi una discriminazione vietata “(art. 1 n. 4 dir. 2000/43).

L’ordine di discriminare è una fattispecie che viene dall’esperienza antidiscriminatoria statunitense. La situazione tipica è questa: un avventore nero chiede, al bar, un bicchiere di birra; il padrone del bar ordina al barista, suo dipendente, di non servire quel nero. Se il barista esegue l’ordine, la responsabilità del comportamento discriminatorio è del datore di lavoro.

Deroghe ai divieti di discriminazione/ criterio dei requisiti essenziali determinanti

La direttiva consente inoltre deroghe ai divieti di discriminazione consentendo che “gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata alla razza o all’origine etnica non costituisca discriminazione laddove, per la natura di una attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato” (art. 4 dir. 200/43).

Questa eccezione, chiamata dei requisiti essenziali determinanti, significa per esempio che una scuola di lingue può voler assumere solo insegnanti madrelingua, pensiamo a una scuola di cinese, che potrebbe voler assumere solo insegnanti madre-lingua cinese; ma sarebbe sproporzionato che essa pretendesse di assumere solo persone di origine cinese per mansioni cui l’essere madre-lingua non è essenziale (mansioni di segreteria, o di portierato, per esempio).

Azioni positive Nella Direttiva ‘razza’ compare la clausola di ‘miglior tutela” o delle azioni positive: “il

principio della parità di trattamento non osta a che uno stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi connessi con una determinata razza o origine etnica” (art. 5: Azione positiva).

Altre componenti della tutela Obbligo di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva (compreso il riconoscimento della

legittimazione ad agire di associazioni e organizzazioni in rappresentanza della persona lesa e col suo consenso) (art. 7);

inversione dell’onere della prova (art. 8); obbligo di istituire organismi per la promozione della parità di trattamento (art. 13) i cui

compiti sono disegnati in modo corrispondente a quanto avviene per gli analoghi organismi richiesti dalle direttive parità uomo donna.

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La direttiva disabilità, età, opinioni religiose e convinzioni personali, tendenze sessuali (2000/78)

Fattispecie discriminatorieIn questa direttiva compaiono le diverse fattispecie tipiche di discriminazione: diretta, indiretta, molestie e ordine di discriminare.

La fattispecie delle discriminazioni indiretta è descritta per lo specifico caso della disabilità però con precisazioni particolari. Dopo avere posto la consueta definizione di discriminazione indiretta, la direttiva aggiunge che una prassi, criterio o disposizione apparentemente neutri che mettono in una posizione di particolare svantaggio gli appartenenti alle categorie protette, rispetto ad altre persone, è una discriminazione indiretta:

a) a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (giustificazione oggettiva);

b) a condizione che, nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale a adottare misure adeguate, conformemente ai principi dell’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi. (art. 2 comma 2).

Il criterio delle misure ragionevoli

L’art. 5, cui la previsione ora citata fa riferimento, è quello che dispone in materia di soluzioni ragionevoli per i disabili. Si tratta delle ‘reasonable accomodations’ già messe a tema nell’esperienza statunitense (e in particolare Americans with Disabilities Acts5).

Si stabilisce dunque che, per garantire il rispetto della parità di trattamento dei disabili, sono previste ‘soluzioni ragionevoli.

Ciò significa che

il datore di lavoro prende i provvedimenti adeguati, in funzione delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o

5 Dove peraltro l’idea dei reasonable adjustments segue una logica un po’ diversa, che è quella di dire: se il lavoratore disabile può, con un piccolo ‘adjustment’ – come indossare occhiali, muoversi con la sedia a rotelle, usare un terminale anziché carta e penna, svolgere la performance che il lavoro richiede, non può essere licenziato (o non assunto) perché è disabile. Infatti nel diritto americano è molto chiaro che i disabili nel lavoro sono protetti nella misura in cui siano capaci di lavorare come gli altri (cioè di assolvere di fundamental requirements del lavoro), e la protezione antidiscriminatoria significa che il loro stato, condizione fisica, aspetto, non deve come tale essere il motivo di misure sfavorevoli adottate nei loro confronti, nascenti da pregiudizi o ostilità. Per questo i datori di lavoro sono molto attenti quando, assumendo, redigono i job requirements o qualifications: essi possono essere accusati di discriminare per disabilità quando negano il lavoro a un disabile che però saprebbe svolgere il ‘job’. L’adjustment influisce anche sulla possibilità di essere riconosciuti come disabili o meno. Chi con gli occhiali ci vede al 100% non può essere considerato disabile, anche se, senza occhiali, non ci vede praticamente per niente. Chi usa le sedia a rotelle o altrimenti le protesi è disabile. Diverse questioni sono sorte in materia di obesità. Cfr., volendo, L. Rothstein e A.McGinley, Disability Law. Cases Materials Problems, LexisNexis, 2006.

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perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.

La direttiva precisa che l’onere non è mai sproporzionato allorché è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.

Pertanto, la previsione della lettera b) dell’art. 2.2. sulle discriminazioni indirette ha il seguente significato. Posto che si dà per scontato che sostanzialmente tutte le norme, i criteri e le prassi intorno cui è organizzato il mondo del lavoro sono indirettamente discriminatorie per i disabili, si limita la possibilità di denunciare il datore per discriminazione indiretta ai soli casi in cui egli sarebbe obbligato dalla legge ad adottare gli accomodamenti ragionevoli (es. ascensori, scrivanie particolari, altri accorgimenti relativi alla disabilità), e questi casi, che devono essere specificati dal diritto nazionale, sono comunque quelli in cui dall’accomodamento ragionevole non nascerebbero spese eccessive per il datore. Si precisa peraltro che l’onere economico dell’accomodamento ragionevole non è mai sproporzionato (dunque non costituisce mai giustificazione) se esistono misure di finanziamento pubblico che supportano l’adozione di quegli accomodamenti.

Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’etàAltre specificazioni sono dettate in relazione alla discriminazione per età, in quanto viene consentito agli Stati di lasciare in vita differenze di trattamento per età quando queste ultime, da una parte, siano oggettivamente giustificate da una finalità legittima nell’ambito del diritto nazionale, compresi “giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale” e quando, dall’altra parte, i mezzi per il conseguimento di tali obiettivi siano appropriati e necessari. Si specifica che tali disparità possono, in particolare, comprendere: la definizione di condizioni speciali di accesso al lavoro o alla formazione, e la fissazione di condizioni minime di età, esperienza professionale o anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione (art. 6 dir. 2000/78: Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età).

Eccezione dei requisiti essenzialiCon riferimento a tutte le condizioni protette la direttiva precisa che una differenza di trattamento collegata alle opinioni religiose o personali, all’età, all’handicap o alle tendenze sessuali non costituisce discriminazione laddove “per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui viene esercitata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento di attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”.

In particolare, gli stati membri possono lasciare in vigore o prevedere disposizioni in virtù delle quali, nel caso di attività professionali di chiese o altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, per la natura dell’attività o il contesto in cui viene esercitata, la religione o le convinzioni personali rappresentino il requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione.

Il senso di questa previsione è ben presente al nostro diritto nazionale, che conosce, da sempre, la figura della ‘impresa di tendenza’. In sostanza, un’organizzazione religiosa non può essere costretta ad assumere dipendenti che non condividano le convinzioni religiose che essa promuove,

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quando questo sia importante per il lavoro che essi svolgeranno all’interno dell’organizzazione; e un cambiamento delle opinioni religiose del dipendente può giustificarne il licenziamento. Così, un istituto di istruzione religiosa può richiedere ai suoi insegnanti l’adesione alla dottrina religiosa e comportamenti di vita coerenti coi precetti di essa; e può licenziarli ove se ne discostino. Ma lo stesso non vale per dipendenti che svolgano attività lontane dal cuore ideologico o religioso dell’impresa, come amministrativi, uscieri, dipendenti addetti alle pulizie, ecc.

Una lacuna: la discriminazione multiplaL’ ancoraggio del diritto antidiscriminatorio a caratteristiche determinate (sesso razza eccetera) che peraltro possono coesistere in una stessa persona, lo rende incapace di cogliere le cd. discriminazioni multiple, cioè tutti i casi in cui una persona è trattata sfavorevolmente ma è impossibile individuare quale esattamente dei fattori di discriminazione di cui è portatrice (si pensi al caso di una donna, disabile e di origine orientale) ‘determina’ la discriminazione.

La figura della discriminazione multipla è menzionata anche nell’art. 14 della direttiva Razza, dove si legge che ‘nell’attuare il principio di parità di trattamento con riguardo alla razza e origine etnica, la Comunità dovrebbe … tendere a eliminare le disuguaglianze, e a promuovere l’eguaglianza tra uomo e donna, dal momento che uomini e donne sono spesso vittime di discriminazioni multiple”. L’introduzione di questa nuova fattispecie discriminatoria, la discriminazione multipla, è da tempo allo studio delle istituzioni europee, ma lontana dall’essere realizzata.

Giurisprudenza notevole della Corte di Giustizia nel campo delle ‘nuove’ discriminazioni

Età

In questo campo, la Corte di giustizia ha svolto un percorso interpretativo che tende a ridefinire la ragion d’essere e le finalità, nonché i limiti di ammissibilità, di un tradizionale istituto del welfare state – la pensione di anzianità - nel nuovo, e diverso, modello sociale europeo. La pensione di anzianità, tradizionale istituto di protezione dei lavoratori viene guardato dalla Corte come una potenziale minaccia per i loro diritti, che può sopravvivere solo a condizione che venga regolamentato in maniera non discriminatoria. Come nel caso della discriminazione di genere, anche nei confronti delle nuove discriminazioni, e specialmente in quella per età, che a causa del suo collegamento con le pensioni di anzianità ha un immediata ricaduta sui sistemi economico-finanziari, la Corte di Giustizia si è disposta in perfetta sintonia con le indicazioni della politica sociale europea, molto chiare in materia di pensioni. Nel Libro Verde Verso Sistemi pensionistici adeguati sostenibili e sicuri in Europa (2010) la Commissione ha scritto che “al fine della sostenibilità dei sistemi pensionistici, occorre dar modo ai lavoratori anziani – uomini e donne – di restare più a lungo nel mercato del lavoro” e che “allo scopo occorre garantire a tutti, indipendentemente dall’età, dal sesso, dall’orientamento sessuale eccetera l’accesso al mercato del lavoro e alla formazione e alle misure a favore delle persone disabili. Allo scopo gli Stati devono adattare i loro strumenti sociali e finanziari e rivedere la normativa fiscale”.

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CASO ROSENBLADT C-45/09)

Nel caso Rosenbladt (C-45/09, 2010) la Corte di Giustizia ha affrontato il problema se costituisse discriminazione per età il caso di una lavoratrice che si era vista negare la possibilità di mantenere il suo rapporto di lavoro dopo che aveva raggiunto l’età pensionabile (nella specie, era stata messa in pensione e poi riassunta con un nuovo contratto a termine). In questione era il problema se il pensionamento per anzianità violi il divieto di discriminazione per età.

La Corte parte dalla premessa che un sistema automatico di pensionamento per vecchiaia esiste da molti anni in molti paesi membri, e concede che esso non può essere considerato ‘in linea di principio eccessivamente pregiudizievole per i legittimi interessi dei lavoratori di cui trattasi’. Inoltre, ‘garantendo ai lavoratori una certa stabilità dell’impiego e la promessa di un pensionamento prevedibile e offrendo al contempo i datori di lavoro una certa flessibilità nella gestione del loro personale, la clausola di cessazione automatica riflette un equilibrio tra interessi divergenti ma legittimi”. Il sistema tedesco viene considerato legittimo non però in forza di queste considerazioni, ma perché prevede che, dopo la pensione, le persone possano continuare a lavorare; il caso offre così alla Corte la possibilità di affermare che un regime automatico di pensionamento d’ufficio che costringa le persone a ritirarsi definitivamente dal mercato del lavoro al raggiungimento di una certa età sarebbe discriminatorio. La sentenza in apparenza difende i sistemi di pensionamento automatico per motivi di anzianità, ma in realtà ne erode la tradizionale giustificazione, che risiede nella nell’idea che esiste una parte della vita in cui si ha diritto a vivere senza lavorare, perché si è diventati troppo anziani per farlo. Eludendo questa ratio del pensionamento per vecchiaia, che non viene mai menzionata, si apre la via al suo superamento, anche perché se la finalità che la pensione assolve è quella che la Corte le attribuisce, di bilanciare interessi opposti del datore e del lavoratore, e non anche quello di difendere un tempo della vita dall’ “obbligo” di lavorare, si tratta di una finalità che può certamente essere realizzate attraverso altri meccanismi che non il pensionamento.

CASO HORNFELD (C-141/11, 2012)

Qui il problema della pensione obbligatoria per vecchiaia era posto in questi termini: se una persona raggiunge il limite d’età, ma ha una pensione molto modesta, è discriminatorio costringerla ad andare in pensione? No, risponde la Corte, a condizione che a questa persona sia consentito trovare un altro lavoro, ovverosia a condizione che non sia vietato, al pensionato, di lavorare), anche stipulando un contratto a tempo determinato con lo stesso datore, cioè con il precedente datore di lavoro. E’ chiaro che, grazie alla linea interpretativa adottata dalla Corte di Giustizia, il divieto di discriminazione per età può finire per questa via per diventare la ‘giustificazione’ di sistemi di calcolo della pensione insufficienti e penalizzanti, eludendo il problema di pensioni troppo basse per consentire a una persona di vivere e anzi implicando l’ammissibilità di sistemi di calcolo della pensione che non garantiscano alla persona il minimo vitale.

CASO HONNIGS (C-297/10, 2011)

Il caso affronta il tema del rapporto tra età e retribuzione. Nel caso Honnigs la Corte di Giustizia ha affermato che assegnare a un neoassunto una retribuzione superiore a quella di un altro neoassunto (nelle stesse qualifiche), solo perché più anziano, è una discriminazione per età. La Corte ragione così: mentre ricompensare l’esperienza acquisita da un lavoratore è in linea di principio un fine legittimo di politica salariale, e per regola generale l’anzianità è un criterio

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appropriato per raggiungere tale obiettivo, retribuire di più un neoassunto ‘anziano’ è un mezzo sproporzionato, e perciò illegittimo, di raggiungere quel fine. Essa cioè confronta le norme che prevedono un aumento della retribuzione via via che il lavoratore permane nelle funzioni (anzianità) con norme che prevedono che se un neoassunto ha già 30 anni guadagna sin da subito di più di uno che ne ha 20; stabilito che entrambe le norme intendono premiare l’anzianità (scambiando cioè l’anzianità di servizio con l’anzianità tout court), la Corte conclude che la seconda norma è irragionevole e quindi discriminatoria. La Corte dà per scontato che il fine delle norme che prevedono una retribuzione maggiore per il neoassunto che abbia una certa età sia quello di premiarne l’esperienza, mentre è piuttosto ragionevole ritenere il contrario, dato che un neoassunto non ha necessariamente una esperienza pregressa nel lavoro o nella mansione. In realtà, le norme che prevedono che un neoassunto più anziano sia pagato di più di un neoassunto più giovane, ove esistenti, appoggiano su motivazioni che la Corte considererebbe ‘stereotipate’: la persona più grande di età ha bisogni maggiori e diversi di una più giovane, per esempio è più probabile che abbia famiglia. Con queste motivazioni la Corte non si confronta, anche perché lo Stato resistente non le solleva, ben sapendo che non sarebbero servite e anzi avrebbero peggiorato le cose. Infatti, con decisioni come Honnings la discriminazione per età, come già la discriminazione per motivi di genere, si muove nella direzione che le differenze di età tra i lavoratori, così come quelle di genere, in linea di principio non andrebbero considerate e considerarle è tendenzialmente discriminatorio.

Disabilità CASO CHACON NAVAS (C 13/05)

Nonostante la sua costante lotta contro gli stereotipi, nei confronti della disabilità la Corte di Giustizia si è attestata proprio su quella nozione medica di disabilità che è considerata, da molti, incapace di percepire le cause sociali della disabilità. La Corte (del resto già del tutto in modo stereotipato …) considera la disabilità una malattia, e una malattia, però, particolare, perché tendenzialmente irreversibile (Chacón Navas, C- 13/05, 2006: “La malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo di divieto di discriminazione nel diritto comunitario”). La Corte non accede alla nozione sociale di disabilità, il cui presupposto è che gran parte degli svantaggi derivanti dalla disabilità sono dovuti al fatto che la vita sociale e lavorativa è strutturata intorno ai normodotati, perché questa implicherebbe trasformazioni del mondo del lavoro e della sua organizzazione troppo profonde e costose.

CASO COLEMAN (C 303/06) (2008)

Nel caso Coleman la Corte si pronuncia sul caso di una giovane donna, licenziata a causa delle troppe assenze sul lavoro dovute alla malattia del figlio disabile. La sentenza ha riconosciuto la nuova figura della discriminazione per associazione, che ricorre quando una persona, pur non essendo portatrice della condizione protetta, viene però discriminata a causa del suo rapporto con una persona portatrice di quella condizione. In questo caso la donna, non disabile, sarebbe stata licenziata per causa della disabilità del figlio.

Orientamento sessuale

CASO MARUKO (C-267/06) (2008)

La sentenza dice invece laddove uno stato scelga di riconoscere in forme giuridiche le unioni omosessuali, il divieto di discriminazioni impone di non differenziare il regime giuridico delle unioni dal matrimonio, almeno per tutto ciò concerne ciò su cui il diritto europeo si applica (condizioni di lavoro e retribuzione).

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Convinzioni religiose

CASO G4S SECURE SOLUTIONS (C-157/15) (2017)

La Corte si pronuncia sul caso di due dipendenti di una azienda privata cui era stato vietato di indossare il velo islamico. Una volta offerta la nozione di ‘religione’ rilevante ai fini della nozione di discriminazione per convinzioni religiose (la garanzia protegge sia l’avere una fede religiosa che il manifestarla), la Corte conclude che nel caso di specie non vi è stata discriminazione diretta e che l’eventuale discriminazione indiretta può ritenersi oggettivamente giustificata da una politica aziendale di neutralità politico filosofica e religiosa nei rapporti coi clienti purché i mezzi impiegati per conseguire tale finalità siano appropriati e necessari.

Discriminazione multipla

La discriminazione multipla, non contemplata nelle direttive, è stata alla giurisprudenza nel caso Galina Meister contro Speech Design Carrier Systems GmbH (Causa C-415/10, 2012). In questo caso, la signora Meister lamentava di essere stata vittima, nel contesto di una procedura di assunzione, di una “discriminazione fondata sul sesso, sull’età e sull’origine etnica”. La Corte non contesta questa presentazione del ricorso. Questo fa pensare casi prospettati in termini di discriminazione multipla siano considerati dalla Corte ammissibili anche in assenza di una norma che formalizzi la fattispecie. Nel caso concreto, comunque, alla domanda della ricorrente, che chiedeva di avere accesso agli atti interni dell’impresa concernenti il procedimento di assunzione, non viene dato seguito, in quanto le direttive sulla parità “non prevedono il diritto, in favore del lavoratore che affermi, in maniera plausibile, di soddisfare i requisiti contenuti in un annuncio di datore di lavoro e la cui candidatura non sia stata accolta, di accedere alle informazioni che precisano se il datore di lavoro, a seguito della procedura di assunzione, abbia assunto un altro candidato”.

2. La Governance (Esempi)Possiamo illustrare la governance delle nuove ipotesi di discriminazioni vietate facendo riferimento alla Strategia Europea sulla Disabilità adottata nel 2010 dalla Commissione Europea.

La Strategia è focalizzata su otto aree di azione:

Accessibilità, Partecipazione, Eguaglianza, Educazione e Formazione, Protezione sociale, Salute, Azioni esterne.

Nel 2017 la commissione ha prodotto un Progress Report sullo stato di attuazione della Strategia, con riferimento a ciascuna delle otto aree di azione.

Scorrere il Report ci permette di capire che, non di rado nel momento dell’implementazione vengono elaborate nuove direttive, o coinvolte regolazioni che riguardano altre materie, incidenti

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sulla discriminazione considerata (come i trasporti). Questo momento dà anche vita a progetti di studio, predisposizione di indicatori, raccomandazioni e guidelines per gli operatori pubblici e privati.

Il Progress Report sulla disabilità annota che:

l’implementazione dell’obiettivo “Accessibilità” ha comportato l’adozione di una Directive on the accessibility of the websites and mobile applications of public sector bodies 2016); il regolamento 1177/2010 (passengers in sea and inland waterways) e del regolamento 181/2011 (bus and coach transport) contengono norme sui diritti dei passeggeri disabili o con mobilità ridotta.

L’implementazione dello stesso obiettivo ha comportato il finanziamento di alcuni progetti di ricerca relativi alle persone con disabilità. Ne ricordiamo anche noi qualcuno per capire una cosa importante, ossia che le politiche anti-discriminatorie europee sono anche punti di riferimento per le politiche europee di finanziamento della ricerca scientifica.

o Il progetto Inclusion (Innovative LBS for social/public dimension) , così descritto: “the main output of the project is a handheld application, that is a location-based service (LBS) solution offering motor-impaired persons improved mobility in safe conditions, helping them navigate traffic safety problems and limited accessibility of public transport”.

o Il progetto PERNASVIP (PERsonal NAvigation System for VIsually disabled People), così descritto: “the outcome of the project is a GNSS-based mobility service dedicated to visually disabled pedestrians in urban environment”.

o Il progetto IEGLO (Infrastructure-based EGNOS/Galileo receiver for personal mobility) così descritto: “ the project focuses on the development of the GNSS solution for the indoor and outdoor tracking, tracing and emergency detection of elderly people. In the frame of IEGLO a small GNSS based tracking device with integrated WLAN and RFID and a user-friendly application were developed”.

L’ obiettivo Partecipazione è stato implementato anche con l’adozione della direttiva sui Diritti di interpretariato e traduzione nei processi penali (2010) che prevede “appropriate assistance for persons with hearing and speech impediments” ma anche con la pubblicazione “of an analysis to assess the political participation of persons with disabilities in the EU with the development of 28 human rights indicators, by the Academic Network of Experts on Disabilities and the Fundamental Rights Agency (2014); e col finanziamento del progetto SIMON, che viene così descritto:

“SIMON is a demonstration oriented project, with four large scale pilots in Madrid, Lisbon, Parma and Reading aiming at promoting the independent living and societal participation of mobility impaired people in the context of public parking areas and multiple transport modes, through the adoption of specific navigation information and access-rights management solutions.

“SIMON proposes a mobile application to support impaired citizens in the use of public and private transport modes. This application not only includes specific information and navigation functionalities, but also make use of e-id mechanisms to propose coordinated tariff policies and

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reduce fraud. In this same context, SIMON enhances the European parking card for disabled people with contactless technologies and integrates mobile solutions to support user unique identification in existing park meters whilst preserving privacy.

“SIMON Consortium includes a balanced set of partners formed by industry and developers (ETRA, LOCOSLAB), disability experts (IBV), public transport operators (CTRM) and parking managers from the municipalities of Madrid, Lisbon, Parma and Reading (MAD, EMEL, INFOMOBILITY, RBC). Five countries are represented in SIMON (Spain, Portugal, Italy, Germany and United Kindom), although it is a project goal to deploy and implement the results at a European level”.

L’obiettivo Eguaglianza è stato implementato con il “ Launch of the High-Level Group on Non-discrimination, Equality and Diversity as a framework for dialogue and policy developments with the Member States at EU level (2015)”;

l’obiettivo Occupazione: è stato implementato con il “Launch of a comprehensive package of policy initiatives on education and employment” che si chiama “Youth on the Move” ed è “ part of the Europe 2020 Strategy, complemented by the Youth Guarantee to support employment of all young people, including those with a disability, and ensure that they do not stay out of a job, apprenticeship, traineeship or education for more than four months (2010 & 2013)”6;

l’obiettivo Educazione e formazione: è stato implementato con la “Collection of data and analysis on the education-related EU2020 targets and the gaps between pupils with and without disabilities at EU level, by the Academic Network of European Disability experts”.

Con riferimento all’obiettivo Protezione sociale la Commissione annota “Ongoing exchanges of good practice between Member States in the area of social protection through the Open Method of Coordination”.

L’obiettivo Salute è implementato da “Telemedicine projects, e.g. the Telehealth Services Code of Practice for Europe or the development of "Next Generation" emergency services, including accessible emergency apps;” e da “A two-year pilot project funded by the European Parliament (VulnerABLE) which is exploring the main health needs, barriers and challenges faced by vulnerable and isolated populations, including people with disabilities, and identifying best practices to support them and ultimately improve their health”.

L’obiettivo Azione esterna viene implementato con la “Adoption of the Strategic Framework and Action Plan on Human Rights and Democracy (2012) and the revision of the Action Plan 2015-2019 with a specific focus on fighting discrimination, including against disability”.

4. Organismi ulterioriAnche intorno alle nuove direttive si è sviluppata una rete di organismi di supporto.

Ricordiamo a titolo di esempio l’Alto gruppo di esperti in materia di disabilità che fornisce annualmente alla Commissione Report sullo stato di attuazione delle normative anti-disabilità nei singoli paesi europei.

6 ‘Vietato’, anche in gioventù, prendersi una lunga vacanza e pensare ad altro che a lavorare o a formarsi per lavorare?35

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VI. L’esperienza antidiscriminatoria italiana. A. La parità di genere

Il “ Codice della parità” Le direttive antidiscriminatorie europee di genere sono state recepite in Italia con diversi atti normativi; il primo e principale tra questi fu la legge n. 903 del 1977 sulla parità di retribuzione e di accesso al lavoro, la quale peraltro, per quanto rappresentasse attuazione delle direttive ‘equality’ del 1975 e 1976, apparve all’opinione pubblica ed esperta del tempo un frutto delle lotte, anche sindacali, per i diritti delle donne nel lavoro e per l’attuazione dell’art. 48 Costituzione sulla parità di retribuzione, e vide la propria matrice europea di fatto quasi del tutto dimenticata o non considerata. Dopo le direttive originarie, la Ue è altre volte intervenuta in materia di genere; è degli anni 1980, in particolare, una direttiva, la n. 92/85 dedicata alla tutela della salute e sicurezza delle lavoratrici madri; ed è degli anni 1990 la direttiva 96/34 sui congedi parentali, che, allo scopo di ‘agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano’ invitava gli stati membri a prevedere nelle loro legislazioni, a certe condizioni, un diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un bambino (diritto che, in nome della parità di trattamento tra uomini e donne, dovrebbe essere attribuito in forma non trasferibile), lasciando agli Stati membri la possibilità di mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli al loro interno. Di solito la normativa interna italiana in queste materie è sempre risultata più avanzata, sotto il profilo delle tutele accordate alle donne, e l’influsso comunitario ha spinto semmai verso una certa estensione agli uomini di alcune garanzie (come il congedo di paternità).

Intanto, anche nuove figure organizzative preposte alla cura delle politiche di non discriminazione e pari opportunità hanno preso forma, come il Dipartimento per le pari opportunità istituito intorno alla metà degli anni 1990 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M. 12 luglio 1997), e la istituzione delle Consigliere e dei Consiglieri di parità (d.lgs. n. 106/2000).

L’insieme degli atti di recepimento del diritto europeo di genere e degli organismi istituiti per la sua attuazione, è stato raccolto nel d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, un Testo unico noto come ‘Codice della parità’, che impianta definitivamente nel nostro paese il modello europeo di protezione anti-discriminatoria.

Definizione di discriminazioneIl ‘codice della parità’ riproduce fedelmente lo schema della concezione europea di divieto di discriminazione, improntata all’idea di ‘trattamento meno favorevole’ rispetto ad altro lavoratore o lavoratrice in situazione analoga’ (cfr. l’art. 25 comma 1), e caratterizzata, nel caso di discriminazioni indirette, dalla salvaguardia di quelle disposizioni prassi o criteri che, pur ponendo i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso “riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo, e i mezzi impegnati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

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La tutela giurisdizionale Il divieto di discriminazioni è tutelato in via giurisdizionale con una azione individuale (che può essere promossa, su delega dell’interessato, anche dalla Consigliera di parità) assistita da una procedura cautelare d’urgenza e dall’inversione dell’onere della prova. Le norme processuali in materia sono ora dettate (con disposizione generale, ossia valida per ogni processo a base discriminatoria, non solo di genere) dal d. lgs. 150 del 2011, art. 28, il quale adotta il modello del rito sommario di cognizione, cioè un giudizio di urgenza che si conclude con una ordinanza che può passare direttamente in giudicato se non impugnata.

Le istituzioni burocratiche della parità Una parte consistente del ‘codice della parità’ è dedicata alla sistemazione di quelle che possiamo chiamare le ‘istituzioni burocratiche della parità’, vale a dire il complesso degli organismi preposti all’implementazione e monitoraggio delle politiche di non discriminazione e pari opportunità nel nostro ordinamento. La creazione di queste istituzioni, specializzate nel ‘governo’ dei temi della parità e non discriminazione, è a sua volta un portato dell’integrazione comunitaria.

Si tratta in particolare di:

La Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna , istituita presso il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e presieduta dal Ministro per le pari opportunità. Si tratta di un organismo collegiale di carattere consultivo incaricato:

- di formulare proposte al Ministro sulle modifiche legislative necessarie a rimuovere situazioni di discriminazione e a conformare l’ordinamento ai principi di parità;

- di curare la raccolta e analisi di dati e informazioni;

- di svolgere attività di studio e ricerca, sull’attuazione delle politiche di pari opportunità.

La Commissione, che dura in carica due anni ed è nominata con decreto del Ministro, è composta da 25 componenti, che vengono dalle: associazioni di donne, dai sindacati, delle associazioni degli imprenditori, o sono prescelte tra ‘donne che si siano particolarmente distinte’ in attività scientifiche, letterarie o sociali; essa comprende anche tre rappresentanti regionali designati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome; quando si riunisce (almeno de volte all’anno), nella ‘composizione allargata’ la Commissione è integrata da un rappresentante di pari opportunità per ogni regione e province autonoma (cfr. art. 3-7).

Il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratrici e lavoratori è invece un organismo istituito presso il Ministero del Lavoro. Presieduto dal Ministro e composto da rappresentanti delle organizzazioni di categoria e del movimento cooperativo e da componenti designati dalle associazioni e movimenti femminili più rappresentativi, e dalla Consigliera nazionale di parità. Il comitato è un importante esempio di organismo di raccordo tra il livello europeo e quello nazionale nella governance della parità. Esso ha tra i suoi compiti quello di formulare “ogni anno un programma-obiettivo di azioni positive nel quale vengono indicate le tipologie di progetti che si intende promuovere, i soggetti ammessi e i criteri di valutazione” e di dare parere sui progetti ammessi al finanziamento (cfr. art. 8-11).

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A livello nazionale, provinciale e nazionale sono istituiti inoltre un Consigliere o Consigliera di parità, nominati dal Ministro del lavoro d’intesa col Ministro delle pari opportunità (e, nel caso dei consiglieri regionali e provinciali, su designazione delle regioni e delle province). Le funzioni di questi organismi sono di tue tipi:

a) da una parte, vi sono funzioni promozionali, di stimolo, conoscenza e consulenza con riferimento alla attuazione delle politiche di pari opportunità e non discriminazione (rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere; promozione di progetti di azioni positive; sostegno delle politiche attive del lavoro, comprese quelle formative, sotto il profilo della promozione e della realizzazione delle pari opportunità; diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi e attività di informazione e formazione culturale sui problemi delle pari opportunità e sulle varie forme di discriminazione, compresa la presentazione di un rapporto annuale sull’attività svolta) (art. 15);

b) dall’altra parte, le funzioni di “attivazione della giurisdizione” , che sono diverse a seconda che si tratti di discriminazioni a carattere individuale o a carattere collettivo.

Nella prima ipotesi (discriminazioni a carattere individuale), il consigliere o la consigliera di parità hanno facoltà di nella possibilità di agire in giudizio su delega della persona interessata, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima (art. 36).

L’altra ipotesi è quella in cui il consigliere di parità rilevi “atti patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori o le lavoratrici lesi dalle discriminazioni” (discriminazioni a carattere collettivo). In queste ipotesi il consigliere o la consigliera di parità può predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni che, se accettato dall’azienda o impresa, diviene esecutivo; oppure possono, in seguito al fallimento di questo tentativo di conciliazione, o in alternativa ad esso, proporre ricorso giurisdizionale in via d’urgenza per ottenere un ordine di cessazione del comportamento pregiudizievole (art. 37).

Molto importante peraltro è, prima del ruolo di attivazione della giurisdizione, il ruolo giocato dalla Consigliera di parità a titolo di conciliazione nel caso di controversie individuali e collettive di lavoro a matrice discriminatoria, una attività che richiede capacità di mediazione e di dialogo e che può rappresentare una valida alternativa alla tutela giurisdizionale.

Va poi ricordata la Rete nazionale dei consiglieri e delle consigliere di parità, organismo che si riunisce almeno due volte all’anno e ha la finalità di rafforzare l’azione delle consigliere di parità consentendo lo scambio di informazioni e di esperienze. E’ presieduto dalla Consigliera Nazionale di Parità.

Consiglieri e consigliere di parità sono infatti istituiti presso ogni Regione.

La consigliera o consigliere di parità costituisce l’organismo con il quale l’Italia ottempera al vincolo europeo concernente la creazione di “organismi per la parità” (cfr. art. 20 della direttiva 2006/54/CE ‘recast’) incaricati di offrire assistenza indipendente alle vittime delle discriminazioni, svolgere inchieste indipendenti, pubblicare relazioni indipendenti e formulare raccomandazioni in materia di non discriminazione e pari opportunità. Rispetto alla caratterizzazione di ‘indipendenza’

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che la direttiva richiede negli ‘organismi di parità’ ha fatto, a suo tempo, molto discutere la revoca per spoils system (considerata legittima dal Consiglio di Stato) che interessò la Consigliera nazionale di parità nominata dal Governo Prodi e decisa poco dopo l’insediamento del successivo Governo Berlusconi, revoca che fu motivata col ‘dissenso’ manifestato dalla Consigliera nei confronti di alcuni provvedimenti che il nuovo Governo intendeva adottare, e circa i cui riflessi sull’occupazione femminile la Consigliera manifestava perplessità.

Completano l’insieme dell’apparato burocratico delle pari opportunità il Comitato per l’imprenditoria femminile (art. 21 ss. del Codice della parità), istituito presso il Ministero delle Attività produttive e dotato di compiti di indirizzo e programmazione nell’ambito degli interventi in materia di pari opportunità e non discriminazione e i Centri per le pari opportunità istituiti a livello locale o aziendale (art. 43).

Le pari opportunità Come ‘azioni positive’ o di ‘pari opportunità’ sono definite le “misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità nell’ambito della competenza statale, dirette a favorire l’occupazione femminile e a realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro”. Di queste azioni il ‘Codice della parità’ offre una elencazione esemplificativa (eliminazione delle disparità nella formazione scolastica, promozione della diversificazione delle scelte professionali delle donne, favorire l’accesso delle donne al lavoro autonomo e imprenditoriale, promozione dell’inserimento delle donne in attività e settori professionali in cui sono sottorappresentate, ecc.: v. art. 42).

Si tratta di volta in volta di misure incorporate in progetti d’azione finanziati da o con il concorso del Ministero del lavoro e altri organismi pubblici e tenendo conto dei corrispondenti finanziamenti europei (art. 44).

La legge sulle azioni positive in materia di imprenditoria femminile In materia deve essere menzionata la legge n. 125 del 1992, di tutela e promozione dell’imprenditoria femminile che promuove una serie di agevolazioni, azioni e di interventi nazionali e locali di finanziamento di attività e di progetti di impresa di iniziativa e responsabilità femminile, o che si volgono a promuovere e valorizzare il ruolo femminile nelle imprese produttive.

La legge è stata a suo tempo oggetto di una importante pronuncia della Corte costituzionale, la sentenza n. 109/1993, che ne descrive alcuni caratteri portanti.

Secondo la Corte costituzionale la legge “prevede incentivazioni finanziarie a favore di imprese a prevalente partecipazione femminile ovvero a favore di istituzioni volte a promuovere l’imprenditorialità femminile, al chiaro scopo di agevolarne lo sviluppo, con riferimento ai momenti più importanti del ciclo produttivo, nei vari settori merceologici in cui operano.

La Corte costituzionale, sempre nella sent. n. 109/1993, ha anche stabilito che, trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le ‘azioni positive’ necessitano di una ‘attuazione uniforme’ a livello nazionale, per cui la fissazione di queste misure deve essere considerata competenza statale, pur nel necessario coinvolgimento di soggetti pubblici diversi dallo Stato nella loro attuazione (“Le discipline giuridiche differenziate in cui le misure di pari opportunità consistono,

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proprio perché presuppongono l’esistenza storica di discriminazioni attinenti al ruolo sociale di determinate categorie di persone e proprio perché sono dirette a superare discriminazioni afferenti a condizioni personali (sesso) in ragione della garanzia effettiva del valore costituzionale primario della ‘pari dignità sociale’, esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese. Infatti, se ne fosse messa in pericolo l’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, il rischio che le ‘azioni positive’ si trasformino in fattori (aggiuntivi) di disparità di trattamento, non più giustificate dall’imperativo costituzionale di riequilibrare posizioni di svantaggio sociale legate alla condizione personale dell’essere donna, sarebbe di tutta evidenza. Ciò non toglie che, nel programma di ‘azioni positive’ previsto, in conformità alla precisa indicazione costituzionale che ne affida il compito alla ‘Repubblica’, siano coinvolti anche soggetti pubblici diversi dallo Stato (regioni e province autonome). Ma un coinvolgimento del genere è costituzionalmente possibile soltanto all’interno di un quadro diretto a garantire un’effettiva coerenza di obiettivi e di comportamenti”.)

La parità di genere come componente del buon andamento amministrativo: i Comitati Unici di Garanzia Col tempo, le nozioni europee di parità e non discriminazione hanno cooperato a produrre una attenzione a come un ambiente di lavoro non discriminatorio sia più performante e produttivo; le scienze dell’organizzazione aziendale hanno sviluppato una idea di ‘benessere organizzativo’ del quale fa parte la predisposizione di strutture e meccanismi aziendali volti a ‘depurare’ l’ambiente di lavoro da fenomeni discriminatori (che disincentivano donne e appartenenti a categorie svantaggiate l’ingresso o la permanenza nel lavoro).

Il concetto di “benessere organizzativo” esprime dunque la consapevolezza che le condizioni emotive dell'ambiente in cui si lavora, l'esistenza di un clima che stimola la creatività e l'apprendimento, l'ergonomia e la sicurezza degli ambienti di lavoro, sono un elemento fondamentale ai fini dello sviluppo e dell'efficienza delle amministrazioni pubbliche. In tal modo, le condizioni interiori, emotive, personalissime del lavoratore diventano oggetto di regolamentazione, vale a dire parte della ‘organizzazione’ del lavoro. Per questa via, la parità e non discriminazione sono entrate come componenti della nozione di ‘buon andamento’ della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.): si è fatta strada infatti la convinzione che per migliorare le politiche pubbliche è importante che le amministrazioni creino specifiche condizioni che migliorino il sistema sociale interno, le relazioni interpersonali e in generale la cultura organizzativa del luogo di lavoro.

A partire dal d.lgs. 165 del 2001 (Norme generali sul lavoro alle dipendenze delle organizzazioni pubbliche) è stato introdotto nel nostro ordinamento l’obbligo di costituzione, nelle pubbliche amministrazioni (comprese le Regioni e gli enti locali, e, nell’ambito della loro autonomia, le Università) di comitati per le pari opportunità e comitati antimobbing, poi sostituiti, nel 2010, con la legge n. 183 del 2000 (“Collegato lavoro”), da un “Comitato Unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”.

Al Cug sono attribuiti compiti propositivi, consultivi e di verifica di attività e provvedimenti dell'Ente che riguardano: l'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico; il miglioramento dell'efficienza delle prestazioni lavorative in un ambiente di lavoro che dovrà essere rispettoso dei principi di pari opportunità e del benessere organizzativo; il contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale e psichica per i lavoratori, dovute a questioni di genere, età, disabilità, origine etnica, lingua, razza, orientamento sessuale. Inoltre, il CUG deve tutelare il trattamento economico, le progressioni in carriera, la sicurezza dei lavoratori anche nel momento dell'accesso al lavoro. I CUG devono agire in collegamento con gli Organismi Indipendenti di

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Valutazione (OIV) di ogni singola amministrazione, previsti dall'art. 14 del D.Lgs. 150/2009, al fine di coniugare le problematiche delle pari opportunità e del benessere organizzativo con le valutazioni delle performance.

Secondo l'art. 57 co. 3 della Legge n. 183/2010, i compiti del Cug all'interno di una organizzazione pubblica sono di tipo propositivo, consultivo e di verifica dei risultati.

I compiti propositivi sono intesi come input ex-ante per gli Enti. Essi possono svolgersi attraverso:

predisposizione di Piani di Azioni Positive (come asili aziendali, convenzioni con ludoteche per i periodi di chiusura delle scuole, telelavoro flessibile e temporaneo per dipendenti con carichi di cura, convenzioni esterne con servizi di cura e assistenza agli anziani, orario flessibile, part time ecc.);

promozione di politiche di conciliazione vita privata/lavoro e azioni per la prevenzione della discriminazione;

iniziative volte ad attuare le direttive comunitarie per l'affermazione sul lavoro delle pari dignità delle persone (promozione della cultura della pari dignità e delle azioni positive);

temi che rientrano nella competenza degli Enti, in cui viene costituito il Cug, ai fini della contrattazione integrativa (orario di lavoro, politiche di conciliazione, formazione, avanzamenti di carriera ecc.);

analisi e programmazione di genere che considerino le esigenze delle donne e quelle degli uomini (bilanci di genere, analisi della numerosità e della distribuzione del personale, analisi dei fabbisogni di conciliazione, sperimentazione di flessibilità ecc.);

diffusione delle conoscenze e esperienze, nonché di altri elementi informativi, documentali, tecnici e statistici sui problemi delle pari opportunità e sulle possibili soluzioni adottate da altre amministrazioni o enti (partecipazione a reti telematiche o reti di Cug. Lo scambio di buone prassi facilita la crescita di saperi e competenze e promuove attività anche sperimentali);

azioni atte a favorire condizioni di benessere lavorativo (creazione di uno sportello di ascolto, rilevazione fabbisogni di conciliazione di servizi, di modifiche di orari ecc.);

azioni positive, interventi e progetti, quali indagini di clima (che attraverso questionari anonimi faccia emergere eventuali disagi e gli ambiti in cui questi avvengono), codici etici e di condotta, idonei a prevenire o rimuovere situazioni di discriminazioni o violenze sessuali, morali o psicologiche, mobbing, nell'amministrazione pubblica di appartenenza (progetti di intervento, anche azioni formative, monitoraggio dell'impatto degli interventi implementati);

promozione della cultura delle pari opportunità ed del rispetto della dignità nel contesto lavorativo anche attraverso la proposta di piani formativi rivolti anche ai Dirigenti (formazione sul significato di discriminazione e mobbing al fine di saperli riconoscere; introduzione dei temi delle pari opportunità e del benessere organizzativo quali elementi di valutazione delle performance);

proposta di modalità di valutazione dei rischi da stress lavoro-correlato (creare un accordo tra Cug e OIV per la realizzazione delle indagini sul benessere dei lavoratori).

Tra i compiti consultivi del Cug rientra la formulazione di pareri (non vincolanti) in materia di progetti di riorganizzazione dell'amministrazione, la predisposizione di piani di formazione del personale, di orari di lavoro, i forme di flessibilità, di interventi di conciliazione, di criteri di

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valutazione del personale, di interventi di contrattazione integrativa sui temi che rientrano nelle sue competenze.

I compiti di verifica sono intesi come una analisi ex-post sui risultati delle azioni positive, dei progetti e delle buone pratiche in materia di pari opportunità.

Entro il 30 marzo di ogni anno il Comitato, tenendo conto della situazione del personale, dovrà relazionare i vertici politici e amministrativi, sull'attuazione all'interno dell'Amministrazione dei principi di parità, pari opportunità e benessere organizzativo e di contrasto alle discriminazioni e alle violenze morali e psicologiche che possono introdurre al fenomeno del mobbing.

In sintesi il Cug è uno strumento che dovrebbe contribuire all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico migliorando l'efficienza delle prestazioni attraverso la promozione di un ambiente di lavoro contraddistinto dal rispetto dei principi di pari opportunità, e perciò dal benessere organizzativo, e contrastando a questo fine qualsiasi forma di discriminazione, violenza morale o psichica per i lavoratori.

Le donne nelle istituzioni politiche Un tema che nel nostro Paese ha conosciuto significative evoluzioni nel corso del tempo è quello che concerne la presenza delle donne nelle istituzioni politiche e le azioni volte a incrementarla sul presupposto che le donne soffrano di una ‘sotto-rappresentazione’ al tempo stesso causa e effetto di un loro perdurante svantaggio. La nostra Corte costituzionale ha sempre negato l’ammissibilità delle cd. Quote elettorali, cioè della riserva di posti, nelle assemblee elettive, all’uno o all’altro ‘genere’, e, in generale, l’ammissibilità di misure che prefigurano il risultato elettorale. Tali sono quelle misure che, anziché rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere certi risultati, attribuiscono loro direttamente certi risultati, come nel caso, appunto, delle ‘quote’ perché queste misure confliggono col carattere universale della rappresentanza politica, riducendola invece, in potenza, alla rappresentanza corporativa di gruppi e categorie (sent. 422 del 1995). La Corte però non è stata ostile a misure che si propongono di riequilibrare la rappresentanza politica dei due sessi, a livello locale, regionale o nazionale, purché, appunto, non attribuiscano ai candidati dell’uno o dell’altro sesso, in partenza, maggiori possibilità di successo elettorale rispetto agli altri. Essa ha perciò ritenuto legittime le norme elettorali regionali (Valle d’Aosta) che imponevano a ogni lista di candidati alla elezione al Consiglio regionale di prevedere la presenza di candidati d’ambo i sessi (sent. 49/2003) e che stabiliscono la cd preferenza di genere (Regione Campania), cioè la regola secondo la quale ciascun elettore può esprimere una o due preferenze, ma qualora ne esprima due la seconda deve riferirsi a un candidato di sesso diverso da quello cui è andata la prima preferenza (senz. 4/2010). Sicuramente, dunque, la giurisprudenza costituzionale degli anni 2000 esprime un’apertura verso il principio del riequilibrio della rappresentanza di genere e considera gli interventi del legislatore a questo fine come legittimati dal perseguimento delle finalità di cui all’art. 3 comma 2 della Costituzione.

Questo atteggiamento della giurisprudenza, che è passata da un iniziale rifiuto a una sostanziale accettazione delle misure positive in materia elettorale, è certamente dovuto anche a alcune importanti modifiche intervenute nell’ordinamento a cavallo degli anni 2000 e precisamente:

- la legge costituzionale n. 2 del 2001, che ha introdotto negli statuti delle regioni speciali la disposizione secondo cui ‘al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, la legge [elettorale regionale] promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”; - la modifica dell’art. 117 comma 7 Cost. (con legge costituzionale n. 3/2001), che oggi recita “le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella

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vita sociale, culturale ed economica, e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive; - l’aggiunta, con legge costituzionale, nel 2003, all’art. 51 della Costituzione, sul diritto di tutti i cittadini ad accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici uffici, della frase finale “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

I nuovi principi costituzionali, in particolare quelli attinenti le regioni ordinarie e speciali, sono stati all’origine di un importante percorso giurisprudenziale che ha visto numerose giunte comunali, provinciali e regionali venire impugnate perché in contrasto col principio di riequilibrio della rappresentanza, in quanto composte da soli uomini o in quanto vi partecipava una sola donna. L’esito di questa imponente vicenda giurisprudenziale è l’affermarsi del principio per cui l’atto politico di nomina della giunta è limitato dal principio di riequilibrio di genere, al pari che da altri principi costituzionali che circoscrivono la discrezionalità politica (così la Corte costituzionale nell’ord. 81/2012 con cui ha respinto un conflitto di attribuzioni sollevato dalla Regione Campania contro il Consiglio di Stato, che aveva annullato la nomina della giunta regionale campana, contenente una sola donna e perciò ritenuta dal giudice amministrativo non congrua rispetto alla norma statutaria che richiede una ‘equilibrata presenza dei due sessi” nella formazione della giunta . In seguito a questa importante vicenda il legislatore ha adottato la legge n. 215/2012, che introduce “disposizioni sul riequilibrio di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali” e stabilisce:

- che nelle elezioni comunali e provinciali le liste dei candidati devono essere formate garantendo la rappresentanza di entrambi i sessi e che nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi; - che, in caso venga adottato il meccanismo della doppia preferenza, la seconda preferenza deve riguardare un candidato di sesso diverso da quello a cui si è data la prima preferenza, a pena di annullamento della seconda preferenza espressa.

A livello statale le attuali leggi elettorali per la Camera e il Senato non prevedono alcuna misura volta a favorire la parità di genere, ad eccezione della blanda regola che stabilisce che una parte, pari almeno al 5%, dei rimborsi elettorali ottenuti dai partiti debba essere destinato ad iniziative finalizzate all’accrescimento della partecipazione attiva delle donne alla politica. Lo stallo che ha colpito il tema della legge elettorale nel nostro Paese non ha naturalmente permesso, sinora, modificazioni più significative: è un fatto che, in assenza di misure ‘promozionali’, la percentuale di donne elette alle elezioni del 2013 abbia avuto un balzo in avanti consistentissimo. Va poi ricordato che la legge n. 90 del 2004, relativa all’elezione dei componenti italiani del parlamento europeo, prevede che nelle liste elettorali devono essere presenti candidati di entrambi i sessi e nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore ai due terzi; il mancato rispetto di questi requisiti non comporta però che le liste siano inammissibili, ma ha come sanzione solo una riduzione del rimborso elettorale.

Nell’ottobre 2017 è in corso di approvazione una nuova legge elettorale nazionale, composta di elementi misti di maggioritario (collegi uninominali) e proporzionale (liste di candidati) la quale prevede il divieto di voto disgiunto tra candidati nei collegi uninominali e liste nei collegi proporzionali e un meccanismo di liste bloccate nei collegi proporzionali, con divieto per l’elettore di esprimere preferenze. In questo quadro, viene inserita la regola per cui sia nella scelta dei candidati nei collegi uninominali, sia nella formazione delle liste bloccate nel proporzionale, nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore al 60%.

Altri interventi in materia di parità di genere

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Le numerose raccomandazioni europee a favore di una maggiore presenza delle donne negli organi direttivi delle imprese e delle società per azioni sono state recepite in Italia dalla legge n. 120 del 2011) che prevede l’obbligo per le società quotate in borsa di riequilibrare la presenza di genere nei loro consigli di amministrazione, secondo un processo graduale messo sotto il controllo della Consob (l’autorità di vigilanza delle borse) e destinato a durare un periodo di tre anni, secondo la filosofia europea che condiziona la legittimità delle azioni positive al loro carattere temporaneo. Nel 2012 è stato approvato un regolamento di attuazione della legge, che ne estende l’applicazione alle società a partecipazione pubblica. Mentre per le società a partecipazione pubblica questo vincolo è stato stabilizzato dai decreti ‘Madia’ del 2017 (le nomine dei ‘manager pubblici’ devono, su base annua, rispettare nella misura di 1/3 il principio del riequilibrio di genere), per le società quotate in borsa le disposizioni emanate nel 2012 non sono state rinnovate dopo la scadenza del triennio sperimentale.

La legge di riforma della professione forense, legge n. 27/2012, impone (senza peraltro prevedere limiti temporali) misure volte al riequilibrio di genere nella composizione dei consigli dell’Ordine, cioè degli organi decisionali e di rappresentanza dell’Avvocatura, affermando che “il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti”. Una norma a tutela della maternità stabilisce poi che la prova della effettività, continuità, abitualità e prevalenza dell’attività professionale, necessaria ad evitare la cancellazione dall’Albo, non è richiesta alle donne in maternità o nei primi due anni di vita (o di adozione) del bambino.

Anche nella magistratura viene avanzata da qualche tempo la richiesta di misure di parità per l’accesso delle donne magistrato alle cariche direttive.

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VII. L’ESPERIENZA ANTIDISCRIMINATORIA ITALIANA. B. LE ALTRE DISCRIMINAZIONI

Le altre discriminazioni nei decreti di recepimento delle direttive europeeLe nuove direttive antidiscriminatorie n. 2000/43 e 2000/78 sono state recepite in Italia coi

d.lgs. n. 215/2003 (attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) e

n. 216/2003 (attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale).

Fattispecie discriminatorieL’impianto dei due decreti è molto simile; in entrambi i casi vengono, intanto, tipizzate le figure di discriminazione.

Queste sono, per la razza e l’origine etnica: la discriminazione diretta, indiretta, le molestie e l’ordine di discriminare (art. 2 d.lgs. 215/03), con la precisazione che non costituiscono atti di discriminazione “quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona qualora, per la natura di una attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima” o che “pur risultando oggettivamente discriminatorie, siamo giustificate da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari” (art. 2 cit. commi 3 e 4).

Sono previste forme di tutela giurisdizionale improntate a procedimenti cautelari d’urgenza, affiancate dalla previsione del previo esperimento del tentativo di conciliazione (art. 4).

La legittimazione ad agire viene conferita anche ad “associazioni e enti” tra le cui finalità programmatiche vi sia la tutela dalle discriminazioni per razza e origine etnica, e che, per poter agire in giudizio, devono essere inserite in un apposito elenco tenuto a cura del Ministero per le pari opportunità; queste associazioni possono agire “in nome, per conto o a sostegno del soggetto interessato” (art. 5).

L’ambito di applicazione della direttiva è riferito, oltre che al lavoro, formazione professionale e attività sindacale, all’accesso alla protezione e sicurezza sociale, assistenza sanitaria, prestazioni sociali, istruzione, alloggio (art. 3 comma 1).

Per l’età, la disabilità, la religione, le convinzioni personali e l’orientamento sessuale , il d.lgs. n. 216 prevede anch’esso le diverse figure tipiche di discriminazione (diretta, indiretta, molestie e ordine di discriminare, art. 2); sono previste anche qui forme di tutela giurisdizionale improntate a un carattere cautelare e d’urgenza e affiancate da procedure di conciliazione. La legittimazione ad agire, “in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, in forza di

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delega rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata a pena di nullità” è attribuita anche alle rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative (art. 5).

Il decreto 216 (età disabilità ecc.)si caratterizza per un approccio molto cauteloso, che accentua caratteri già presenti nella corrispondente direttiva europea. L’ambito di applicazione (art. 3), torna qui ad essere riferito esclusivamente al lavoro (accesso, occupazione e condizioni di lavoro, orientamento professionale e formazione, attività sindacale: art. 3 comma 1), mentre la formula di salvezza secondo la quale “il presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di ingresso, soggiorno e accesso all’occupazione, assistenza, previdenza dei cittadini di paesi terzi e degli apolidi, sicurezza e protezione sociale, sicurezza pubblica e prevenzione dei reati, stato civile, forze armate limitatamente ai fattori di età e di handicap” sembra voler sortire l’effetto di restringere la portata non tanto di questo decreto, ma di quello sulla razza e l’origine etnica, temendo forse che a titolo di discriminazione per “religione” o “convinzioni personali” stranieri irregolari e apolidi possano tentare la strada di mettere in discussione le normative concernenti l’immigrazione.

Onere della provaNel d. lgs. 215, la previsione concernente l’inversione dell’onere della prova è formulata in termini molto indiretti che hanno fatto dubitare della correttezza del recepimento qui operato dal legislatore italiano; recita l’art. 4 comma 3 del d.lgs. 215 che “il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta come presunzioni”. Una medesima formulazione piuttosto elusiva (rispetto alla direttiva europea, che ritiene sufficiente un ‘principio di prova’ per ribaltare l’onere della prova) ricorre nel d.lgs. n. 216/03, art. 4 comma 4.

Clausole di salvezzaIl decreto 216, sviluppando le clausole di salvezza previste dalla direttiva, prevede che non costituiscono atti di discriminazione (art. 3):

o le differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’età o all’orientamento sessuale di una persona qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima;

o i trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale;

o le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da tali enti o organizzazioni o per il contesto in cui sono espletate costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività;

o le differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso atti appropriati e

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necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura e l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile.

Rispetto alla direttiva europea, il decreto si segnala per avere trascurato la notevole serie di specificazioni che quest’ultima dedica alla discriminazione per handicap, ciò che peraltro, può spiegarsi forse con la esistenza di una normativa apposita nel nostro paese dedicata alla tutela della disabilità (l. 194/1992).

Nelle pagine che seguono, cercheremo di fare un rapido bilancio dello ‘stato’ del diritto concernente le nuove categorie protette dopo l’innesto con il diritto europeo antidiscriminatorio.

La disabilitàIn materia di disabilità, l’Italia dispone di una ampia legge quadro, la legge n. 104 del 5 febbraio 1992, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

Il diritto antidiscriminatorio europeo ha inciso con riferimento l’avviamento al lavoro delle persone disabili, e indicando strade ‘economicamente sostenibili’ per la tutela delle persone disabili che rimangano sole.

La legge n. 104 del 5 febbraio 1992, Legge-quadro PER l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

Al fine di garantire il pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata e di promuoverne la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società (art. 1 lett. a), la legge si propone di

prevenire e rimuovere le condizioni invalidanti che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali;

perseguire il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicurare i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata;

predisporre interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata.

La legge, destinata ad essere prevalentemente attuata a livello regionale, individua una serie di campi strategici di intervento, e le misure volte all’inserimento e integrazione sociale (assistenza sociale e sanitaria a domicilio, l’adeguamento delle strutture e del personale dei servizi educativi, sportivi, di tempo libero e sociali, il diritto all’alloggio; i servizi di aiuto personale). In questo contesto, spiccano per importanza il diritto all’educazione e all’istruzione scolastica (art. 12 e ss.) e il diritto alla formazione professionale e all’integrazione lavorativa (art. 17 ss.). La legge segnala anche la consapevolezza che l’integrazione dei disabili non può avvenire senza trasformazione degli spazi di vita e urbani (v. le norme sulla mobilità e i trasporti collettivi, le barriere architettoniche), nel che può essere visto un segnale importante di riconoscimento del fatto che la tutela di un soggetto ‘svantaggiato’, come in questo caso il disabile, coinvolge un insieme di

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nessi più ampi, che investono, in primo luogo, la qualità dell’ambiente circostante e ricadono nella responsabilità di coloro che l’ambiente urbano e architettonico progettano, pensano, mantengono.

Una parte molto importante della legge è anche quella che, a titolo di agevolazioni, riconosce alla lavoratrice madre o in alternativa al padre anche adottivi di un minore con handicap in situazioni di gravità il diritto a prolungare il periodo di astensione facoltativa dal lavoro, e di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito.

Avviamento al lavoroSulla base della legge 104/1992 e di ulteriori interventi normativi (in particolare la legge 469/1997) il nostro sistema di avviamento al lavoro delle persone disabili si basa sulla previsione di ‘quote di riserva’ a favore di persone disabili, quote che ciascuna impresa deve dichiarare in relazione alla sua ampiezza. La filosofia per cui l’inserimento al lavoro ‘cura’ le discriminazioni, sostenuta dal diritto antidiscriminatorio europeo, ha portato a una conferma e a un rafforzamento del nostro metodo di avviamento riservato al lavoro a favore dei disabili; la legge di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, legge 92/2012, nota come Legge Fornero, ha esteso la base con riferimento alla quale viene calcolata la quota di posti riservati ai disabili nelle imprese. Mentre prima non vi rientravano i lavoratori a scadenza o a termine, oggi le imprese devono considerare come propri dipendenti tutti coloro che in esse lavorano con un ‘vincolo di subordinazione’. Viene così alzata la base di calcolo sulla quale è misurata la ‘quota’ riservata ai disabili, che è pertanto incrementata, anche se il cambiamento introdotto dalla legge Fornero può essere anche inteso come la presa d’atto del fatto che il mercato del lavoro è ormai dominato dalle forme di occupazione precaria e tutti, disabili compresi, sono uguali davanti al ‘contingent job’.  

Il ‘dopo di noi’

La legge 16-6-2016, intitolata “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno famigliare” ha introdotto disposizioni per affrontare il futuro delle persone con disabilità gravi dopo la morte di parenti che si siano presi cura di loro.

Con un approccio innovativo rispetto ai modi tradizionali di affrontare i temi della disabilità nel nostro paese (che ha consistito nel gestirli attraverso i sistemi pubblici di previdenza e assistenza) la legge, con lo scopo di evitare l’istituzionalizzazione della persona disabile, ma anche di coinvolgere nella assistenza ai disabili il capitale privato,

“disciplina misure di assistenza, cura e protezione nel superiore interesse delle persone con disabilita' grave, non determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità, prive di sostegno familiare in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non sono in grado di fornire l'adeguato sostegno genitoriale, nonché in vista del venir meno del sostegno familiare, attraverso la progressiva presa in carico della persona interessata già durante l'esistenza in vita dei genitori”, prevedendo la agevolazione delle erogazioni da parte di soggetti privati, la stipula di polizze di assicurazione e la costituzione di trust, di vincoli di destinazione e di fondi speciali, composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario anche a favore di enti del Terzo settore non commerciali, che operano prevalentemente nel settore della beneficenza in favore di persone con disabilita' grave.

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Età, orientamento sessuale, credo religioso Età, orientamento sessuale e credo religioso rappresentano tre condizioni verso le quali il diritto antidiscriminatorio europeo può sperabilmente valere a suscitare una attenzione e una sensibilità maggiori di quelle sinora dimostrate dal nostro ordinamento. Sebbene ciascuna di queste situazioni sia astrattamente tutelabile anche in assenza di una tutela specifica in quanto ‘condizione personale e sociale’ in relazione alla quale sono vietate distinzioni (art. 3 comma 1 Cost.), è innegabile che l’averle espressamente rubricate come possibili cause di discriminazione può originare una maggiore sensibilità verso di esse, quanto meno nell’ambito lavorativo, e anche al di fuori di esso.

EtàIl giudice del lavoro italiano ha spesso utilizzato la nuova categoria della discriminazione per età per sindacare e giudicare illegittime quelle procedure aziendali che, per scegliere i dipendenti da avviare alla ‘mobilità’, adottavano il criterio dell’età, tendendo a selezionare i dipendenti più anziani, più vicini alla pensione, e pertanto di solito anche più costosi, in termini di contributi, per l’azienda.

Orientamento sessualeQuelle attuative delle diritto antidiscriminatorio europeo in materia di accesso e condizioni di lavoro sono le uniche norme del nostro ordinamento che tutelano, come tale, la posizione della persona omosessuale. Esse hanno incoraggiato l’adozione, a livello locale, di misure come l’inserimento delle coppie omosessuali nelle liste per gli alloggi di edilizia popolare o l’adozione di significative politiche anti-discriminatorie nel campo della formazione (per esempio del personale ospedaliero o delle forze di polizia), dell’istruzione, ecc. Con riferimento al diritto alle relazioni affettive è intervenuta la legge n. 76/2016 sulle c.d. unioni civili, che riconosce come “formazione sociale specifica” quella costituita da persone dello stesso sesso.

Nel periodo recente, è allo studio delle Camere un provvedimento di legge volto alla punizione delle manifestazioni ‘omofobiche’ del pensiero. Le manifestazioni del pensiero costituenti offesa all’omosessualità o istigazione all’odio nei confronti delle persone omosessuali dovrebbero cioè, secondo i promotori di questa iniziativa legislativa, essere punite penalmente, e ciò mediante la aggiunta di queste ipotesi di reato a quelle già contemplate nel nostro ordinamento a titolo di istigazione all’odio razziale da una legge del 1975 (cd. Legge Mancino), che a suo tempo fece molto discutere con riferimento al rispetto del diritto di libertà di manifestazione del pensiero. Analoghe preoccupazioni può suscitare l’idea del divieto di ‘manifestazioni omofobiche’.

In materia di orientamento sessuale devono essere, sia pure brevemente, menzionati i problemi concernenti la condizione delle persone transessuali e intersessuali.

Quanto al transessualismo, ricordiamo che in Italia fin dal 1982 la legge permette il cambiamento di sesso sui documenti anagrafici alle persone transessuali che si sono sottoposte a un intervento chirurgico di rimozione dei genitali e a interventi ormonali incidenti sui caratteri sessuali secondari. Da alcuni anni la giurisprudenza, anche costituzionale, ammette che il cambiamento dei documenti di stato civile possa precedere l’operazione chirurgica, che viene resa così sostanzialmente non più necessaria.

L’intersessualità è la condizione delle persone che, alla nascita presentano un principio di organi genitali primari e secondari dell’uno e dell’altro sesso. In alcuni paesi, come negli stati uniti, la

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prassi raccomandata è quella di operare questi bambini appena nati eliminando i caratteri di uno dei due sessi. Purtroppo, con l’adolescenza, non di rado la scelta del sesso operata chirurgicamente si rivela non corrispondente con l’orientamento sessuale che la persona sviluppa effettivamente. Questo apre a una catena di operazioni inverse e corrispondenti trattamenti ormonali, costosissimi per la salute fisica e psichica. Recentemente, negli Stati Uniti, si è sviluppato un movimento di opinione a favore del ritardo degli interventi sino all’adolescenza o alla maggiore età. Questa, in teoria, è la regola raccomandata nel nostro paese, ma le prassi effettivamente seguite sono poco studiate e ancor meno conosciute. In Germania, nel 2013, la legge ha invece introdotto la categoria del ‘terzo sesso’ per la registrazione dei bambini alla nascita.

Credo religiosoIn materia di credo religioso, le nuove direttive antidiscriminatorie europee non toccano, grazie alle clausole di salvezza che le accompagnano, la peculiare situazione di favor che nella scuola italiana riceve la religione cattolica.

Discriminazione per motivi razziali Prima dell’avvento delle norme antidiscriminatorie europee che considerano la razza e l’origine etnica una causa protetta di discriminazione, il nostro ordinamento si era già dotato di una importante normativa relativa all’immigrazione, fondata sulla distinzione tra immigrato regolare (dotato cioè di permesso di soggiorno) e immigrato irregolare, ossia non dotato di permesso di soggiorno. Le norme antidiscriminatorie interne, così come le nuove norme antidiscriminatorie europee, valgono solo per gli immigrati ‘regolari’; e il solco che differenzia la condizione degli immigrati irregolari da quella degli immigrati regolari si è nel tempo, e specialmente negli anni recenti, profondamente approfondito sino a superare, secondo molti autori, i limiti consentiti dalla ragionevolezza, e, questo, anche sulla base delle specifiche politiche europee adottate per contrastare il fenomeno dell’immigrazione. Su questa complessa e delicatissima materia, che meriterebbe un insegnamento a se stante data anche la complessità della normativa ad essa riferita, ci limitiamo a ricordare che l’atto di diritto interno storicamente più rilevante in materia di condizione giudica dell’immigrato è la legge n. 40 del 6 marzo 1998 n. 40, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (cd. Testo unico Turco-Napolitano). Benché in gran parte modificata (nelle parti concernenti la concessione dei permessi di soggiorno, le norme sull’immigrazione irregolare e le quote e flussi di ingresso, dove vi sono stati numerosi successivi interventi normativi, a partire specialmente dalla Direttiva ‘Rimpatri’ 2008/115/CE recepita con D.L. 89/2011, così come è accaduto con riguardo alle procedure di espulsione e trattenimento degli stranieri irregolarmente soggiornanti), la legge rimane parte importante del nostro patrimonio giuridico soprattutto per l’ampia e ricca definizione di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (Art. 41) che essa contempla:

“… costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.”

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Si tratta di una definizione riecheggia l’ispirazione solidarista e personalista della nostra Costituzione perché si estende al godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali in ogni campo della convivenza e lega l’istanza antidiscriminatoria alla esigenza di assicurare a ciascuno la pienezza di quei diritti e quelle libertà. L’ampiezza di finalità e di oggetto di una simile concezione antidiscriminatoria è confermata dalla serie di atti che sono identificati come “in ogni caso” discriminatori dall’art. 42, che così recita:

2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: ) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;

b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;

d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;

e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

3. Il presente articolo e l'articolo 42 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea presenti in Italia.

Peraltro, anche per quanto riguarda lo status dell’immigrato regolare sono molte le perplessità che le normative oggi vigenti sollevano quando guardata da un punto di vista antidiscriminatorio. Intanto, l’assunzione al lavoro dello straniero non comunitario è sottoposta a regole speciali (cd contratto di soggiorno) molto più gravose di quelle richieste per gli stranieri non comunitari e tali da configurare una possibile discriminazione per motivi di nazionalità.

In particolare, le norme sulla condizione dello straniero, che legano la regolarità del soggiorno alla esistenza di un rapporto di lavoro (una volta licenziato, lo straniero ha 6 mesi e un giorno di tempo per trovare un nuovo lavoro, pena l’espulsione), si ripercuotono negativamente sulla possibilità per lo straniero di acquistare la cittadinanza italiana.

La nostra legge sulla cittadinanza, la n. 91 del 1992, stabilisce che gli stranieri nati in Italia possono chiedere la cittadinanza solo ‘se risiedono in Italia legalmente e ininterrottamente dalla nascita al

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compimento della maggiore età”, il criterio della continuità e regolarità del soggiorno significa che i genitori dovevano a loro volta risiedere legalmente nel paese al momento della nascita e viene solitamente applicato con la discutibile conseguenza che se i genitori hanno mandato il figlio per un periodo nel paese d’origine, per esempio per motivi di istruzione, i requisiti per chiedere la cittadinanza vengono. Lo straniero non nato in Italia può chiedere la naturalizzazione solo dopo dieci anni di soggiorno regolare in Italia (il termine è di quattro anni per gli stranieri comunitari, tre per gli stranieri di origine italiana, due se stranieri di origine italiana il cui soggiorno in Italia è iniziato quando erano minorenni).

L’acquisto della cittadinanza è dunque legato alla regolarità del soggiorno, e quest’ultimo alla continuità del lavoro: questa concatenazione determina, nei fatti, conseguenze altamente sfavorevoli per la persona immigrata la quale, come numerose indagini rilevano, pur di non risultare senza lavoro o non in regola è spinta: a pagare essa stessa il datore per essere assunta con regolare contratto; a lavorare gratuitamente in cambio del contratto di lavoro; a comprare (per cifre che vanno da 3000 a 5000 euro) un contratto di lavoro fasullo. Oltre alla regolarità del soggiorno, è condizione per la naturalizzazione il non aver commesso reati, diversi da quelli che implicano ‘pericolosità sociale’ ( i quali sono causa di espulsione); viene così dato un rilievo molto grande a infrazioni di piccola gravità e spesso, per l’immigrato, difficilmente evitabili (come le frequenti condanne per violazione del diritto d’autore cui vanno incontro gli immigrati che vendono borse o altri oggetti per strada).

Infine, particolarmente spinosa per le conseguenze pratiche che può avere, è la norma che concerne l’acquisto della cittadinanza per matrimonio: qui il termine per acquistare la cittadinanza è due anni di residenza in Italia dopo il matrimonio (o un anno in caso di figli). La disposizione può diventare un limite alla scelta di divorziare ed espone di fatto molte donne straniere al ricatto del marito italiano che, minacciando di chiedere la separazione, le sottopone a soprusi.

Si noti, infine, che, pur in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, l’ottenimento della cittadinanza è frutto di una valutazione discrezionale dell’amministrazione, valutazione che viene fatta tenendo conto dell’interesse dello stato o della comunità nazionale ad accogliere come nuovo cittadino il richiedente, e non nell’interesse della persona che chiede il provvedimento; la durata del procedimento raggiunge mediamente i tre anni.

Un miglioramento di questa legislazione è stato tentato nel corso della XVII legislatura con l’introduzione di regole più favorevoli al conseguimento della cittadinanza per i figli di persone extracomunitarie, nati in Italia (cd. Ius soli), ma apparentemente senza successo.

La condizione di immigrato è un delicatissimo crocevia di molteplici fattori di discriminazione. Un recente filone di studi ha richiamato l’attenzione su come in particolare la condizione della donna migrante, spesso impiegata in Italia nel lavoro di ‘badante’, offra un modello esplicativo della condizione che viene descritta come discriminazione multipla, incrociandosi, nel determinare lo svantaggio di queste persone, il sesso, la razza e l’origine etnica, la religione.

Organismi ulteriori. L’Unar e la Rete Nazionale dei Centri AntidiscriminazioniIn relazione all’attuazione del d-lgs. 2003 n. 215 di recepimento della direttiva ‘razza’, è stato istituito, nel 2011, l’Unar, Ufficio per la promozione della parità di trattamento delle discriminazioni fondate sulla razza e sull’origine etnica. Vediamo la descrizione che esso stesso da si sé nel suo sito.

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L’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (UNAR) è stato istituito con il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, di recepimento della direttiva comunitaria n. 2000/43 CE ed opera nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

UNAR ha la funzione di garantire, in piena autonomia di giudizio e in condizioni di imparzialità, l’effettività del principio di parità di trattamento fra le persone, di vigilare sull’operatività degli strumenti di tutela vigenti contro le discriminazioni e di contribuire a rimuovere le discriminazioni fondate sulla razza e l’origine etnica analizzando il diverso impatto che le stesse hanno sul genere e il loro rapporto con le altre forme di razzismo di carattere culturale e religioso.In particolare UNAR:

fornisce assistenza alle vittime di comportamenti discriminatori nei procedimenti intrapresi da queste ultime sia in sede amministrativa che giurisdizionale, attraverso l’azione dedicata di un apposito Contact center;

svolge inchieste al fine di verificare l’esistenza di fenomeni discriminatori nel rispetto delle prerogative dell’autorità giudiziaria;

promuove l’adozione di progetti di azioni positive in collaborazione con le associazioni no profit;

(Tra i quali di particolare rilievo La Strategia Nazionale LGBT e la Strategia Nazionale Rom e Sinti, NdR).

diffonde la massima conoscenza degli strumenti di tutela attraverso azioni di sensibilizzazione e campagne di comunicazione;

formula raccomandazioni e pareri sulle questioni connesse alla discriminazione per razza ed origine etnica;

redige due relazioni annuali, rispettivamente per il Parlamento e per il Presidente del Consiglio dei Ministri;

promuove studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni e le organizzazioni non governative che operano nel settore, anche al fine di elaborare delle linee guida o dei codici di condotta nel settore della lotta alle discriminazioni fondate su razza o origine etnica.

La Struttura dell’Unar

Il D.P.C.M 11 dicembre 2003, relativo alla costituzione e all’organizzazione interna dell’UNAR, prevede che l’Ufficio, per l’attuazione dei propri compiti, si avvalga di un contingente composto da personale appartenente ai ruoli della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di altre amministrazioni pubbliche, nonché di esperti anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell’assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell’analisi delle politiche pubbliche.

L’Ufficio si articola in due servizi:

Servizio per la tutela della parità di trattamento, che raccoglie, mediante un Contact center, le segnalazioni pervenute su possibili casi di discriminazione, procede all’analisi e all’esame di

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ciascun evento denunciato, fornisce alle vittime un’assistenza immediata attraverso la formulazione di consulenze e pareri qualificati, da rendersi anche in giudizio.

Servizio studi, ricerche e relazioni istituzionali, rivolto alla promozione di studi, ricerche, corsi di formazione e campagne di sensibilizzazione, informazione e comunicazione pubblica sui temi del contrasto alle discriminazioni.

L’Unar coordina la Rete Nazionale dei Centri Antidiscriminazioni

A partire dal 2007, in aderenza con quanto indicato dal comma 12 dell’art. 44 del T.U. sull’immigrazione e dal Decreto Legislativo 215/2003, l’Unar ha promosso la costituzione di Centri Regionali Antidiscriminazioni quali “presidi” finalizzati sia alla rilevazione e presa in carico dei fenomeni di discriminazione, sia alla diffusione della cultura del rispetto delle differenze.

La sottoscrizione di Accordi e Protocolli d’Intesa con numerose Amministrazioni Regionali e locali e la collaborazione di molte associazioni di settore hanno contribuito alla diffusione di queste strutture su tutto il territorio nazionale, articolate sulla base di linee guida che tenevano conto di alcune buone pratiche sperimentate da Regioni virtuose quali l’Emilia Romagna.

Il progetto e la realizzazione della Rete Nazionale dei Centri Antidiscriminazione ha avuto un impulso significativo anche grazie al Fondo Europeo per l’Integrazione dei cittadini di Paesi Terzi (FEI) del Ministero dell’Interno nell’ambito della Programmazione 2007-2013 che, attraverso le programmazioni annuali, ha consentito l’ampliamento della distribuzione territoriale e il rafforzamento dell’azione dei Centri esistenti e più in generale della Rete.

Il ciclo della Programmazione dei Fondi Strutturali 2007-2013 ha contribuito, infine, a sviluppare ulteriormente il progetto, inserendo nel Programma Operativo “Governance e azioni di sistema” FSE 2007-2013 specifici interventi a supporto della qualificazione delle strutture e degli operatori.Ad oggi la Rete è organizzata su base regionale attraverso i Centri Regionali Antidiscriminazioni, strutture costituite e gestite dalle Regioni, con un ruolo di coordinamento rispetto ai nodi provinciali o locali eventualmente presenti.

È un progetto ancora in fase di sviluppo che vede numerose regioni italiane partecipare a differenti stadi e livelli di attivazione delle reti regionali. Nella sezione dedicata ai Centri Antidiscriminazioni è disponibile la rappresentazione di questo sistema.

Alla Rete fanno riferimento inoltre numerose istituzioni regionali, provinciali o comunali che sono attive nella prevenzione e nel contrasto delle discriminazioni, così come nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e che, negli anni, hanno sperimentato importanti interventi di sostegno alle vittime o di monitoraggio del fenomeno discriminatorio in collaborazione con l’Unar. Tali soggetti, pur non essendo formalmente parte della Rete Nazionale, costituiscono un grande patrimonio di sinergie per lo sviluppo della cultura e dall’azione antidiscriminatoria, nonché il potenziale di crescita per la Rete stessa.

(dal sito Unar)

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