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1 DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO- FILOSOFICI E GIURIDICI Relazione per il Corso di Diritto Penale progredito nel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01 A.A. 2016/2017 3 Maggio 2017 Gli incerti confini del delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza (art. 513-bis c.p.) A cura di: Antonio Oriente Nicolò Gavioli Tommaso Baschini Relatrice: Dott.ssa Martina Galli

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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI

Relazione per il Corso di Diritto Penale progredito nel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01

A.A. 2016/2017 3 Maggio 2017

Gli incerti confini del delitto di illecita concorrenza con minaccia o violenza (art. 513-bis c.p.)

A cura di:

Antonio Oriente

Nicolò Gavioli

Tommaso Baschini

Relatrice: Dott.ssa Martina Galli

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INDICE

1. Introduzione………………………………………………………………………………..pag. 3

2. Evoluzione  storica  dell’art.  513  bis  c.p…………………………………………………...pag.  4

2.1. I  precedenti  normativi:  l’art.  165  del  codice  Zanardelli  e  l’art.  513  

del codice Rocco……………………………………………………………………......pag. 4

2.2. Legge 13 settembre 1982 n.646 (Rognoni-La Torre)………………………………......pag. 5

2.3. L’espansione  progressiva  della  fattispecie:  da  legge  antimafia

a legge generale...............................................................................................................pag. 6

3. Art. 513 bis c.p.: profili di tutela e ambito soggettivo…………………………………..pag.  8

3.1. Il  bene  giuridico………………………………………………………………………..pag. 8

3.2. Reato comune o reato proprio?.......................................................................................pag. 9

4. I  confini  “interni”  del  reato  di  illecita  concorrenza  con  violenza  e  minaccia…………pag.  10

4.1. Violenza e minaccia come requisiti della condotta…………………………………....pag. 10

4.2. La  nozione  di  “atti  di  concorrenza”……………………………………………………pag. 12

4.2.1. Interpretazione restrittiva………………………………………………………...pag. 13

4.2.2. Interpretazione estensiva………………………………………………………...pag. 16

4.2.3. Gli atti di concorrenza alla luce delle fonti di matrice

comunitaria……………………………………………………………………….pag. 19

5. I confini “esterni” del delitto di illecita concorrenza

5.1 Il  concorso  tra  l’art.  513-bis c.p.  e  l’art.  629  c.p.…………………………………….…pag. 20

5.2 Il  concorso  tra  l’art.  513-bis c.p.  e  l’art.  416-bis c.p.….………………………………...pag. 22

6. Considerazioni  conclusive……………………………………………………………........pag. 22

Bibliografia………………………………………………………………………………........pag. 24

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1. Introduzione

Questa trattazione vuole prendere ad esame il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia

previsto all’art.513  bis, Capo II, Titolo VIII, Libro II del codice penale.

Il disposto di tale norma recita come segue: «Chiunque  nell’esercizio  di  un’attività  commerciale,  industriale,  o  comunque  

produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è

aumentata  se  gli  atti  di  concorrenza  riguardano  un’attività  finanziata  in  tutto  o  in  parte ed in qualsiasi modo dallo stato o

da altri enti pubblici».

Benché, come vedremo meglio nel paragrafo successivo, il legislatore avesse ben chiaro lo scopo da

raggiungere con tale norma (rinforzare il nascente sistema repressivo della criminalità mafiosa), il

disposto della stessa ha dato adito negli anni a numerosi problemi interpretativi, da cui sono derivate

notevoli incertezze in sede applicativa. Essa non solo appare priva dei connotati tipici che

caratterizzano la criminalità mafiosa, sia sul piano delle qualifiche soggettive che sul piano delle

modalità operative, ma il testo normativo, come già si può evincere ad una prima lettura, appare di

difficile interpretazione.

In primo luogo non si capisce quale sia il significato   da   attribuire   all’espressione «atti di

concorrenza»1, come anche ai termini violenza e minaccia2. In secondo luogo le espressioni appena

citate,   accostate   dal   legislatore   all’interno   del   testo   normativo,   appaiono   tra   loro   difficilmente  

conciliabili: la presenza di una situazione di concorrenza sembrerebbe automaticamente escludere

l’utilizzo  di  mezzi  riconducibili  a  violenza o minaccia, non è quindi agile comprendere quando degli

atti di concorrenza possono essere configurati come violenti o minacciosi. Al fine di meglio afferrare

i problemi legati al reato di illecita concorrenza e ai suoi confini è bene ricostruire dapprima il

percorso che ha portato alla nascita e allo sviluppo della norma,  dopodiché  si  passerà  all’analisi della

strutturale della fattispecie e, infine,   all’esame dei rapporti che quest’ultima   intrattiene con altre

fattispecie di  “confine”.

2. Evoluzione  storica  dell’art. 513-bis c.p.

2.1. I  precedenti  normativi:  l’art.  165  del  codice  Zanardelli  e  l’art. 513 del codice Rocco

1 Sul punto si veda B.ROSSI, Osservazioni a Cass. Pen., 10 dicembre 2015, sez. III, n. 3868, in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119. 2 Sul punto si analizzi G. DE SIMONE, Violenza, in Enc. Dir., XLVI, 1993, pag. 5 ss.

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Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia non era originariamente previsto dal codice

Rocco del 1930. Infatti quest’ultimo tutelava soltanto, all’art. 513, la turbativa della libertà

dell’industria e del commercio, commessa con violenza sulle cose o mediante atti fraudolenti.

Quest’ultima fattispecie, a tutt’oggi vigente, punisce con la reclusione fino a due anni e con la multa da centotre euro a

milletrentadue euro (a querela della persona offesa e purché il fatto non costituisca più grave reato) «chiunque adopera

violenza sulle cose ovvero mezzi fraudolenti per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o di un commercio».

Tipico esempio dell’uso della violenza nella fattispecie del 513 c.p. è quello in cui il reo ostacola materialmente l’altrui

attività produttiva, intralciando il normale funzionamento dei prodotti o la loro circolazione. Utilizzo di mezzi fraudolenti

si avrà, invece, quando si ricorra al meccanismo dell’inganno, che potrà essere esercitato verso lo stesso esercente o

comunque su un individuo che ha rapporti con l’attività (si può ad esempio pensare all’inganno del fornitore che ostacoli

l’approvvigionamento di materie prime o all’inganno della clientela che pregiudichi lo smercio della produzione). In

dottrina3 si tende invece ad escludere che nel concetto di “mezzi fraudolenti” possa essere ricompresa anche la

clandestinità propria di ogni condotta atta non già a provocare un errore, ma a mantenere l’interessato in una condizione

di ignoranza; questa interpretazione porterebbe infatti a ritenere rilevante qualunque illegalità, purché passi inosservata,

stemperando eccessivamente la nozione di fraudolenza.

Si deve però segnalare come sia la previsione del dolo specifico, sia la presenza di una formula vaga come “mezzi

fraudolenti”, sia, infine, un quadro normativo nel quale altre fattispecie si sovrappongono alla condotta descritta dall’art.

513 c.p. (ad es. boicottaggio, danneggiamento, truffa), hanno finito per condannare tale fattispecie alla pressoché totale

disapplicazione4.

Il precedente immediato dell’art. 513 c.p. veniva comunemente indicato nell’art. 165 del codice

Zanardelli.

L’art. 165 del codice Zanardelli, ivi collocato entro la cornice «dei delitti contro la libertà», e più

specificatamente sotto la rubrica «dei delitti contro la libertà del lavoro»5 recitava precisamente:

«Chiunque, con violenza o minaccia, restringe o impedisce in qualsiasi modo la libertà dell’industria

o del commercio è punito con la detenzione sino a venti mesi e con la multa da lire cento a tremila».

A ben vedere tuttavia con quest’ultima norma l’art. 513 c.p. ha ben pochi punti di contatto. Infatti,

come ha evidenziato l’illustre Maestro Pedrazzi6, la vocazione primaria dell’art. 513 c.p., nel quadro

della disciplina penale della vita economica, è da individuarsi nella criminalizzazione della

concorrenza sleale (attuata con mezzi fraudolenti o con violenza sulle cose). La libertà viene così

tutelata sotto il profilo del concreto esercizio dell’iniziativa economica: come normalità di

condizioni di esercizio e assenza di indebiti condizionamenti estrinseci. Rimane invece estranea una

3 Sul punto si veda C. PEDRAZZI, voce Turbativa  della  libertà  dell’industria  o  del  commercio, in Enc. Dir., XLV, 1992, pag. 4. 4 D. PULITANÒ, Diritto penale: Parte speciale, vol. II, Tutela penale del patrimonio, Torino, 2013, pag. 258. 5 Cfr. C. PEDRAZZI, op. cit., pag. 1. 6 Ibidem.

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tutela penale della libertà di iniziativa economica intesa come autodeterminazione, nella sottospecie

della libertà morale7.

Al contrario la norma del 1889, nel punire qualsiasi atto violento o minaccioso diretto a restringere

la libera dell’industria o del commercio, presentava sì una marcata vocazione commerciale e

industriale, ma quest’ultima doveva essere intesa come tutela penale della libertà di iniziativa

economica, a sua volta concepita come autodeterminazione della stessa libertà personale, nella

sottospecie della libertà morale8. Ebbene questo orizzonte di tutela, totalmente estraneo alla logica

ispiratrice  dell’art.  513  c.p.,   sembra  essere   recuperato dal legislatore, pur in un mutato quadro di

contorno,  proprio  con  l’art.  513-bis c.p.9

Infatti, con l’affermarsi della criminalità organizzata, il legislatore è stato indotto a prevedere la

violenza e la minaccia verso le persone come mezzi per turbare la concorrenza.

2.2. La legge 13 settembre 1982 n. 646 (Rognoni-La Torre)

Il delitto di Illecita concorrenza con violenza e minaccia (art.513-bis c.p.) è stato previsto dall’art. 8

della legge 13 settembre 1982, n.646 (c.d. Legge Rognoni- La torre)10, legge concepita in un periodo

difficile per la giustizia italiana, stretta nella morsa dell’associazionismo criminale di stampo

mafioso.

In effetti, la legge 646 del 1982 fu emanata subito dopo il triste e ben noto omicidio del Generale dei Carabinieri Carlo

Alberto Dalla Chiesa eseguito da “Cosa Nostra” il 3 settembre del 1982 a Palermo, città dove lo stesso Dalla Chiesa era

stato nominato Prefetto proprio al fine di combattere le varie associazioni mafiose che attanagliavano la Sicilia e

indirettamente il resto dell’Italia.11

Nella legge 646 del 1982 rientrano infatti, oltre alla disposizione del 513-bis c.p., tutto un insieme

di disposizioni in tema di lotta alla criminalità organizzata, prima fra tutte la figura dell’associazione

di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.).

Le ragioni di politica criminale che hanno ispirato il legislatore nell’introduzione del reato di illecita

concorrenza si evincono chiaramente dai lavori preparatori della stessa legge12, dove esplicitamente

7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ibidem 10 Si veda E.   D’IPPOLITO, L’illecita   concorrenza   con   violenza   o   minaccia:   tra   metodo   mafioso   e   direzione  dell’intimidazione,  il  problema  resta  l’equivoco  sugli  atti  di  concorrenza,  in Cass. Pen, fasc.11, 2011, pag. 3820 (nota a Cass. pen, sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462). 11 Ivi, pag. 3824. 12 «La  mafia,  peraltro  ,opera  ormai  anche  nel  campo  delle  attività  lecite  e  si  consolida  l’impresa  mafiosa  che  interviene  nelle   attività   produttive,   forte   dell’autofinanziamento   illecito(sequestro   di   persona,   contrabbando,   etc.)   e   mira  

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si afferma la volontà di far fronte ad un comportamento tipico della criminalità mafiosa quale è

quello di scoraggiare la concorrenza tramite l’esplosione di ordigni, i danneggiamenti o l’esercizio

di violenza nei confronti delle persone13.

2.3 L’espansione  progressiva  della  fattispecie:  da  legge  antimafia  a  legge  generale

Quando venne emanata la Legge Rognoni-La Torre la volontà parlamentare  era  senz’altro  quella  di  

ostacolare le attività imprenditoriali coordinate, in maniera diretta o indiretta, da associazioni di

stampo mafioso, o comunque da quest’ultime   sostenute  mediante condotte intimidatorie poste in

essere a danno di imprese operanti nello   stesso   settore,   con   l’obiettivo   di   garantirsi   posizioni   di  

preminenza nel mercato14. Tale necessità si faceva sempre più pressante dal momento che proprio

negli anni in cui si stava progettando la legge, il rapporto tra le associazioni criminali ed il mondo

dell’imprenditoria si intensificava notevolmente15.

Lo strumento di tutela ideato  con  l’art.  513-bis c.p. voleva fronteggiare  l’evoluzione conosciuta dalla mafia negli  anni  ’70  

del secolo scorso, quando da un modello statico di mafia (che non prevedeva attività imprenditoriale) si è passati ad uno

di tipo dinamico, dove  l’esercizio  dell’attività  d’impresa  rappresenta  lo sbocco naturale e il centro di interessi del sodalizio

criminale16. L’imprenditoria mafiosa, ricorrendo a metodi violenti intimidatori, finisce con lo scoraggiare o eliminare del

tutto   l’altrui   lecita   concorrenza:   la   mafia   sfrutta   così   il   proprio “vantaggio competitivo”   per attuare un disegno

monopolistico (per settori o aree geografiche di appartenenza) che mette a repentaglio la libera dinamica economica17.

L’art.  513-bis c.p., nella visione di una certa dottrina18, sarebbe così andato a colmare un vuoto di

tutela che né il delitto di estorsione (629 c.p.) né la fattispecie di turbativa dell’industria   e   del  

commercio (art. 513 del c.p.)19 riuscivano a riempire. Da un lato si evidenziava come il reato di

estorsione, oltre ad avere una vocazione esclusivamente patrimonialistica (tutelando cioè il

patrimonio del singolo), risultava di difficile dimostrazione in giudizio, dovendo essere provati sia

l’elemento   dell’ingiusto profitto con altrui danno sia la presenza di una costrizione a «fare o ad

all’accaparramento   dell’intervento   pubblico,   scoraggiando   la   concorrenza….Con   la   previsione   del   reato   di   illecita  concorrenza con minaccia o violenza, si punisce un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza». Così la Relazione alla proposta di legge n.1581 presentata alla camera dei deputati il 31 marzo 1980 in atti parlamentari, VIII legislatura. http://legislature.camera.it, (31 marzo 1980). 13 Si veda E.   D’IPPOLITO, L’illecita   concorrenza   con   violenza   o   minaccia:   tra   metodo   mafioso   e   direzione  dell’intimidazione,  il  problema  resta  l’equivoco  sugli  atti  di  concorrenza,  in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820 e Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462. 14 Sul punto, si analizzi A. MARCHINI, Osservazioni a Cass. Pen., 27 maggio 2014, sez. II, n. 29009, in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 637 15 Ibidem. 16 Sul punto si veda A. ALESSANDRI Concorrenza illecita con violenza o minaccia, in Digesto delle Discipline penalistiche, vol. II, 1988, pag. 411. 17 Ibidem. 18 A. MARCHINI, op. cit., pag. 637. 19 Ibidem.

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omettere qualche cosa». Neppure il  reato  previsto  all’art.  513 c.p. appariva del resto in grado di colpire

fenomeni come quelli sopra descritti (esercizio di metodi intimidatori per scoraggiare la libera

concorrenza): la norma incrimina infatti pacificamente il compimento di atti di violenza che siano

rivolti esclusivamente verso le cose20.  L’inserimento  della   fattispecie  dell’art.  513-bis c.p. avrebbe

così coperto un vuoto esistente tra i due articoli sopra citati.

Ciò detto,  l’intenzione  del  legislatore  di  osteggiare  i  tipici  comportamenti  della  “mafia  imprenditrice”

non ha tuttavia trovato una piena trasposizione nel  dettato  dell’art.  513-bis c.p., il quale nei fatti non

sembra risentire del contesto legislativo di provenienza.

A ben vedere, benché si specifichi che gli atti di concorrenza debbano essere effettuati con violenza

o minaccia, ossia attraverso le modalità proprie del c.d. metodo mafioso21, non vi è alcun espresso

riferimento alla criminalità mafiosa né sotto il profilo oggettivo della condotta, né sotto il profilo

soggettivo22.

Inoltre il legislatore ha improvvidamente   inserito   elementi   selettivi   (l’atto   e   il   rapporto   di  

concorrenza) che non appaiono congrui rispetto al fine repressivo dichiarato23: infatti gli atti di

concorrenza, che specificano la norma in termini modali, rinviano piuttosto, come elemento

normativo, alla competizione imprenditoriale svolta in via pacifica.

Infine la  collocazione  della   norma  all’interno  del  Capo   II,   relativo  ai  delitti   contro   l’industria  e   il  

commercio,  Titolo  VIII,  Libro  II  del  codice  penale,  allontana  di   fatto   l’istituto  da  quell’insieme  di  

norme costituenti il nocciolo duro della disciplina antimafia.

Possiamo allora dire che, a discapito della rilevanza sociologica esatta (vale   a   dire   l’operare   sul  

mercato di imprese mafiose che paralizzano il libero gioco della concorrenza) da cui il nuovo reato

aveva preso le mosse, vari  fattori  sembrerebbero  perciò  imporre  di  attribuire  all’art.  513-bis c.p. una

portata generale.

Così, in giurisprudenza si è ritenuto che «l’ambito di applicazione della norma non è limitato al solo settore della

criminalità organizzata, ma si estende a tutte quelle situazioni nelle quali la condotta dell’agente si concretizza in atti di

intimidazione nei confronti del soggetto   passivo   [...]»,   sicché   l’eventuale «riferimento alle condotte tipiche della

criminalità organizzata non intende affatto dimensionare l’ambito di applicabilità della norma [...] ma solo caratterizzare

i comportamenti punibili con il ricorso a un significativo parallelismo»24.

20 Ivi, pag. 638 21 Il  metodo  mafioso  è  enunciato  dall’art.  416-bis c.p.  in  cui  si  espone  come  un’associazione  a  delinquere  è  di  tipo  mafioso  se vi è la presenza di tre elementi: la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento esistente e lo stato di omertà che da esso deriva. Tutti e tre gli elementi sopra menzionati sono necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di associazione mafiosa. Sul punto, si veda https://www.filodiritto.com (05 febbraio 2011). 22 Ivi, pag. 639. 23 A. ALESSANDRI, op. cit., pag. 415. 24 Cfr. Cass. pen., Sez. II, 5 febbraio 2008, n. 7923, in Giur. It., 2008, 10 ss.

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Constatato lo scollamento tra la norma e la realtà che   nell’intenzione   del   legislatore   questa   si  

prefiggeva di tutelare, vi è chi25 si  è  chiesto  se  l’art.  513-bis c.p. comunque apporti un contributo al

complessivo assetto penale della concorrenza. La norma in questione, infatti, sembrerebbe

rappresentare un presidio per la «libera concorrenza» in senso civilistico, da intendersi come regime

contrapposto a quelli di monopolio ed oligopolio, ed andrebbe a punire i c.d. atti di concorrenza sleale

ex art. 2598 c.c., già colpiti dalle  sanzioni  civili  di  cui  all’ art. 2599 c.c. Tuttavia, il contraddittorio

accostamento tra gli «atti di concorrenza» e la «violenza o minaccia» rappresenta un non-sense che

fa seriamente   dubitare   della   idoneità   dell’art. 513-bis c.p. a soddisfare le moderne esigenze di

criminalizzazione della concorrenza illecita. La risposta a questo interrogativo è comunque rinviata

al termine della trattazione.

3. Art. 513-bis c.p.: profili di tutela e ambito soggettivo

3.1. Il bene giuridico

Volendo  inoltrarci  nell’analisi  dell’art.  513-bis c.p., appare opportuno da subito individuare il bene

giuridico che la norma si prefigge di tutelare. Anzitutto la sua collocazione sistematica porta tale

disposizione ad essere ricompresa tra i reati  contro  l’ordine  economico.  Essa  va  dunque  ad  affiancare  

numerose altre disposizioni che prendono in considerazione condotte poste in essere da soggetti che

operano   nell’ambito   di   imprese ontologicamente lecite, le quali, pur avvalendosi di un modus

operandi illecito26, sono nate per il perseguimento di un oggetto sociale perfettamente legale. La

dottrina prevalente27 ritiene quindi che   l’orizzonte   di   tutela   in   cui   si   proietta   la   norma   sia   quello  

dell’ordine economico, concepito come il naturale funzionamento del sistema economico. D’altra  

parte è evidente come il bene del corretto andamento del sistema economico (e della concorrenza che

è alla base del suo funzionamento) sia tutelato dalla norma solo in via mediata e indiretta: le modalità

della condotta (violenza e minaccia) consentono infatti di ritenere che la tutela dell’ordine  economico  

in   generale   è   perseguito   attraverso   la   tutela   dell’autodeterminazione   nell’esercizio   di   attività  

economiche del singolo individuo. Per questa ragione vi è chi28 ritiene che il reato in esame debba

essere classificato come reato pluri-offensivo, ovvero un reato che lede contemporaneamente una

pluralità di beni giuridici. Infatti, si è in presenza di un bene tutelato di natura strumentale,

25 Ivi, 412. 26 In  effetti,  le  società  o  comunque  gli  imprenditori  che  rientrano  nell’applicazione  di  questa  fattispecie  di  reato  potrebbero  essere (e quasi sempre lo sono) delle società civilmente lecite e riconosciute. Sul punto si vedano E.  D’IPPOLITO, op. cit,. pag. 3820 ss. 27 Ibidem. 28 Ibidem.

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l’autodeterminazione  del  singolo  nelle  attività  economiche,  e  di  un  bene tutelato di natura finale che,

come  già  specificato,  è  l’ordine  economico  generale.

3.2 Reato comune o reato proprio?

Un diverso interrogativo può sorgere in merito alla cerchia di possibili soggetti  attivi  dell’art.  513-bis

c.p.. Ad una prima visione,   il   termine  “chiunque” con  cui  esordisce   l’art.513-bis c.p. potrebbe far

trasparire che ci   troviamo  davanti  ad  un   reato  comune:   l’utilizzo  di  questo  pronome   sembrerebbe  

infatti indicare che la soggettività di chi compie il reato non è rilevante ai fini del verificarsi

dell’evento tipizzato dalla norma. Analizzando la norma con maggiore attenzione, scopriamo invece

che l’art.   513-bis del codice penale debba essere qualificato come un reato proprio29. In effetti è

pacifico  che  solo  chi  esercita  un’attività  produttiva,  o  industriale o commerciale possa realizzare il

reato descritto dalla norma.

È tuttavia evidente che la fattispecie in questione si distingue dagli altri reati propri da noi meglio conosciuti. Mettendo

a confronto il delitto di illecita concorrenza ad esempio con il delitto di peculato  di  cui  all’art.  314 del c.p.30, ci troviamo

di fronte ad una importante differenza. Mentre la norma sul peculato presuppone a priori che chi compie il delitto debba

essere un pubblico ufficiale, senza così lasciare spazio  ad  alcuna  interpretazione  circa  la  soggettività  del  reo,  nell’art  513-

bis del c.p. non vi è una descrizione diretta e precisa: qui ritroviamo anzi una commistione di termini, alcuni dei quali

sembrerebbero delineare un reato comune, mentre altri farebbero propendere per un reato proprio.

In ogni caso, benché la soggettività del reato non risulti in via immediata dal dato letterale, la

dottrina31 non ha dubbi sul fatto che ci si trovi di fronte ad un reato proprio, richiedendo che la

dimensione soggettiva del reato sia di volta in volta indagata in riferimento alla situazione sostanziale

del reo, verificando dunque caso per caso l’espletamento   di   un’attività commerciale industriale o

comunque produttiva.

Interessante è peraltro notare come il legislatore non si fermi alle sole ipotesi di attività commerciale

o  industriale,  ma  inserisce  le  parole  “o  comunque  produttiva”, così estendendo la delimitazione dei

soggetti attivi anche oltre i requisiti di professionalità e di organizzazione, tipici della nozione

civilistica di imprenditore. Dottrina e giurisprudenza sono perciò concordi nel ritenere che nella

29 Possiamo qui ricordare come sia proprio quel reato che può essere commesso soltanto da colui che rivesta una determinata qualifica, posizione o da chi possiede determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone, così E. DOLCINI-G. MARINUCCI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2012, pag. 201. 30 Ecco il testo dell’art.  314  del  c.p.:  «Il  pubblico  ufficiale  o  l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui , se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita». 31 Si veda E. D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3822 (in particolare par.3).

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cerchia dei soggetti attivi rientri chiunque semplicemente esplichi in concreto un’attività  

economica.32

La giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che «quanto alla configurazione del delitto di illecita concorrenza

con minaccia o violenza (art. 513 bis c.p.), esso ha bensì la struttura del reato proprio, in quanto si richiede che il soggetto

attivo svolga un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva. Ma tale qualificazione non deve essere intesa

in senso meramente formale, essendo sufficiente che si tratti di un operatore economico, anche svolgente la sua attività

in via di fatto, il quale si adoperi per eliminare la concorrenza da parte di altri operatori economici».33 Quindi per rivestire

la qualifica di soggetto attivo non è comunque necessario che il soggetto sia imprenditore ai sensi del codice civile,

essendo  la  formula  idonea  a  ricomprendere  chiunque  svolga  attività  “produttive”,  purché  tale  attività  non  sia  stata  posta  

in essere una tantum.34

4. I  confini  “interni”  del  reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia

4.1. Violenza e minaccia come requisiti della condotta

Passando ad esaminare le modalità della condotta,  occorre  concentrare  l’attenzione  sui  requisiti della

violenza e della minaccia.

Come è noto il delineamento dei contorni reciproci tra i requisiti della violenza e della minaccia è argomento ampiamente

dibattuto in dottrina e in giurisprudenza. In passato si era affermata una teoria che tendeva a contrapporre la violenza alla

minaccia  denominando  l’una  come  vis phisica o vis absoluta e  l’altra  come  vis moralis o relativa35. La differenza tra le

due era che mentre la prima eliminava completamente la volontà del soggetto che la subiva, costringendolo ad agire

esclusivamente in un certo modo, la seconda lasciava una possibilità, seppur vincolata, di scelta, incidendo soltanto sulla

sua libertà di decisione36. Ad oggi questa teoria è tuttavia da considerarsi superata. La contrapposizione su cui si fonda

tale teoria appare infatti priva di fondamento. Se consideriamo che da un lato la violenza può, in taluni casi, essere

utilizzata in chiave motivante, quindi non eliminando totalmente la possibilità di scelta del soggetto passivo (es. la

violenza  fisica  utilizzata  per  estorcere  una  confessione),  dall’altro  la  minaccia,  a  seconda  del  contesto  e  del  modo  in  cui  

viene fatta, può risultare così stringente da precludere qualsiasi possibilità scelta (es. il malvivente che nel corso di una

rapina   minaccia   l’aggredito   con   una   pistola   affermando   “o   la   borsa   o   la   vita”).37 Oggi quindi non si tende più a

contrapporre la violenza alla minaccia, ma si applicano criteri di distinzione più appropriati, come ad esempio quello

32 Il punto è analizzato in maniera approfondita da E.  D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3820. 33 Cass. Pen., Sez. II del 3 luglio 2001, n. 26918, in https://www.iusexplorer.it. 34 Sul punto si veda A. MARCHINI, op. cit.. pp. 637 ss. 35 Per maggiore approfondimenti sulla teoria della coazione relativa e assoluta vedere G. DE SIMONE, Violenza, in Enc. Dir., XLVI, 1993, passim. 36 Prima   della   prospettazione   di   tale   teoria   l’illustre   giurista  Karl   Binding   aveva   sostenuto   la   tesi   che   la   violenza   è  concepibile solo nella forma della vis absoluta. L’insigne  autore  per  violenza  intendeva  infatti  «qualunque  azione  che  priva  l’aggredito  della capacità di formazione o di attuazione del volere». 37 Cfr. G.DE SIMONE, op. cit., pag. 34.

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fondato   sull’attualità del male. In breve, secondo la teoria basata su tale criterio la minaccia consiste nella mera

prospettazione di un male, mentre la violenza è un male già posto in atto.38

Violenza e minaccia si possono distinguere in personali o reali a seconda che siano rivolte verso le

persone o le cose39. Nell’art. 513-bis c.p. la violenza e la minaccia sono rivolte alle persone; questo è

uno  dei  tratti  che  distingue  tale  disposizione  dall’omonimo art. 513 c.p. dove invece la violenza, ai

fini della consumazione del reato, è esercitata sulle cose40.

Se guardiamo alle figure delittuose previste dal nostro codice penale, ci accorgiamo che la minaccia

e la violenza talvolta figurano come elementi costitutivi della condotta, talaltra come circostanze

aggravanti41. Nel delitto di illecita concorrenza tanto la violenza quanto la minaccia sono elementi

costitutivi della condotta; di conseguenza la loro mancanza preclude la possibilità del verificarsi

dell’illecito.

Deve peraltro evidenziarsi come di recente, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 6462 del 2010

ha affermato che «ai fini della consumazione del reato  previsto  dall’art. 513-bis è sufficiente il ricorso

a quelle forme intimidatorie tipiche della criminalità organizzata   descritte   dall’art.   416-bis c.p.,

poiché  è  certo  che  “l’intimidazione  mafiosa  è  espressione  di  una  violenza  gravissima”,  certamente  

idonea e forse ancor più efficace di una semplice minaccia nello scoraggiare o impedire la lecita

concorrenza»42. Con questa affermazione la Cassazione, lungi dallo sminuire   l’importanza   della  

violenza o della minaccia ai fini della consumazione del reato, ha voluto affermare a chiare lettere

che   le   tipiche   modalità   intimidatorie   della   criminalità   organizzata,   previste   dall’art. 416-bis c.p.,

integrino perfettamente i requisiti della minaccia e della violenza (in particolare esse possono recare

nel soggetto che le subisce un terrore tale da limitare fortemente la possibilità di scelta e da poter

essere considerate come una vera e propria violenza ai  sensi  dell’articolo in questione)43. Ancora nella

sentenza 6462 del 201044 la Corte di Cassazione ha ritenuto che il reato si configuri anche quando la

violenza e la minaccia siano protratte verso soggetti terzi, purché questi siano legati da rapporti

economici  o  professionali  con  l’imprenditore  concorrente. Di conseguenza, ferma la necessità che la

violenza risulti idonea a impedire o scoraggiare la concorrenza, possiamo ritenere irrilevante il

soggetto verso cui questa venga indirizzata.

38 Non   appare   invece   condivisibile   l’asserzione   che,   mentre   la   minaccia   opererebbe   attraverso   la   via   mediata  dell’intelletto,  la  violenza  opererebbe  invece  senza tale mediazione.V. G. DE SIMONE, op. cit., pag. 35. 39 Ivi, pp. 16. 40 Ibidem. 41 Ad  esempio  la  violenza  agisce  come  circostanza  aggravante  nell’oltraggio  a  pubblico  ufficiale. (art. 341 ult. Comma) 42 Così E.  D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3820. 43 In ambito economico la violenza o la minaccia esercitate dal sodalizio mafioso sono caratterizzate  dall’intimidazione.  Con  forza  d’intimidazione  si  intende  la  possibilità  di  sfruttare  quel  “prestigio  criminale”  che  si  riferisce  all’associazione nel suo complesso e non alla condotta del singolo individuo. 44 Così Cass. Pen., sez. II, 16 Dicembre 2010, n.6462, in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820.

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Se ad esempio un imprenditore minaccia di morte il fornitore di una impresa concorrente intimando ad esso di non

rifornire più la stessa, si potrà dire integrato il reato di illecita concorrenza anche se la minaccia viene effettuata non già

direttamente  verso  l’imprenditore  concorrente,  bensì  verso  un  terzo  legato  professionalmente  a  quest’ultimo  in  quanto  lo  

scopo è evidentemente quello di falsare la concorrenza.

4.2. La  nozione  di  “atti  di  concorrenza”  

A partire dalla sua predisposizione tramite la già richiamata legge Rognoni- La Torre del 1982,

benché quasi sempre considerato di minoritaria importanza rispetto ad articoli che oseremmo definire

più “popolari”,   l’articolo   in   esame è stato oggetto di un acceso dibattito in giurisprudenza e in

dottrina45. Nella giurisprudenza degli ultimi anni possono essere individuati due filoni

giurisprudenziali tra loro contrastanti che si alternano nell’interpretazione  della  norma.  

Secondo un primo filone, che potremmo indicare come restrittivo,  l’articolo  513-bis c.p., punirebbe

solo quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali descritte all’articolo  2598  c.c. (in particolare,

quelle  condotte  che  la  giurisprudenza  tende  a  ricondurre  entro  il  comma  3  dell’art.  2598  c.c.,  v.  infra),

attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale.

Il  testo  integrale  dell’art.  2598  c.c.: «Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di

brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o

imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i

prodotti  e  con  l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti  sui  prodotti  e  sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si

appropria  di  pregi  dei  prodotti  o  dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e

idoneo a danneggiare l’altrui azienda».

Il secondo filone, facendo perno sulla ragione che ha indotto il legislatore alla creazione della norma,

e cioè la repressione delle dinamiche mafiose, il cui modus operandi per eccellenza consiste nella

creazione di un clima di paura e di intimidazione, anche attraverso modalità tacite46, fornisce invece

un’interpretazione   che   potremmo   definire   estensiva   della   norma,   ritenendo   che   ai   fini  

dell’integrazione  del   reato,  non  è  necessario che siano posti in essere dei veri atti di concorrenza,

come  tipizzati  all’articolo  2598  c.c..  In  questa  visione,  il  concetto  di  atti  di  concorrenza  viene esteso

fino a ricomprendere gli atti intimidatori e impeditivi della libera e lecita concorrenza.

45 Non vi sono dubbi infatti che nella legge Rognoni-La Torre del 1982 la norma in primo piano fosse il 416-bis c.p.: la previsione  di  un  reato  nominato  “Associazioni  di  tipo  mafiose  anche  straniere”  attirò  su  di  sé  tutta  l’attenzione  sia  dei  media  e  della  dottrina,  lasciando  ad  un  ruolo  di  secondo  piano  previsione  normative  come  l’articolo  in  esame. 46 Cfr. R. M. SPARAGNA, Metodo mafioso e cd. Mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in www.penalecontemporaneo.it, 10 novembre 2015, pp. 1-2.

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Il problema su cui si confrontano i due orientamenti è dunque quello già in parte evidenziato:

richiedere la violenza o la minaccia per eseguire un atto di concorrenza potrebbe risultare (e risulta)

una contraddizione di termini, dal momento che se la concorrenza è un attività fondamentalmente

lecita e tutelata come diretta emanazione   dell’articolo   41   della   Costituzione, essa appare

incompatibile con atti violenti o minacciosi47. In chiave interpretativa, quindi, si gioca una partita

fondamentale sul concetto  di  “atto  di  concorrenza”  in  relazione  all’esercizio  di  violenza  o  minaccia.

4.2.1 Interpretazione restrittiva

Una  certa  parte  della  dottrina  crede  che  l’errore  del  legislatore  risieda  nel  considerare  la  violenza  o  la  

minaccia uno strumento per conquistare parti del mercato; infatti, mentre potrebbe ancora rientrare

nel  concetto  di  concorrenza  sleale  l’uso  di  un  mezzo  fraudolento, la  previsione  dell’uso  di  violenza  o  

minaccia come strumento di conquista del mercato si spingerebbe oltre il limite estremo segnato dal

concetto di concorrenza, collocandosi ben al di là anche delle più scorrette forme di attività

concorrenziale48. Il limite del concetto di concorrenza dovrebbe infatti essere segnato da quei

comportamenti che «anziché migliorare la posizione di un soggetto rispetto ad un altro, eliminano le

stesse condizioni di svolgimento del rapporto tra imprenditori»49.

Condividendo questa impostazione di fondo, la Sezione II della Corte di Cassazione nella sentenza

numero n.7923 del 200850 non ha mancato di evidenziare il problema della coabitazione tra la ratio

legis che ha ispirato la norma e la sua poco felice trasposizione letterale.

Nella sentenza presa in esame la Corte di Cassazione si era trovata a giudicare sulla legittimità della sentenza con cui il

Tribunale di Agrigento aveva condannato il sig. G.R. per i reati di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) e di

estorsione aggravata (art. 629 c.p.), avendo questi costretto il sig. S.S.G., vittima del reato, ad interrompere  l’attività di

trasporto di materiale inerte dalla sua cava al cantiere dei lavori di ristrutturazione di un campo sportivo, avviata in base

a contratto di appalto stipulato con la ditta Caramazza Pali s.r.l.. Nella  fattispecie,  l’intercettazione  di  una  telefonata tra

l’imputato  e   la  parte  offesa,   seppur   fatta  con  modi  gentili  ed  apparentemente  cortesi,  era  stata  giudicata  dal   tribunale  

territoriale  come  una  sorta  d’intimidazione  e  di  minaccia  che  ha  posto  la  parte  offesa  in  un  clima  di  paura. L’imputato  

G.R. aveva presentato quindi ricorso avverso tale sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione, tra gli altri motivi lamentando

l’erronea  qualificazione  del  fatto:  dovendo  essere  individuato  il fine della condotta nell’ottenimento  di una commessa di

fornitura di materiali a scapito della persona offesa, il tribunale avrebbe dovuto ritenere di conseguenza la sussistenza del

reato  di  cui  all’art.  513-bis c.p.,  in  luogo  dell’art.  629  c.p.

47 Sul punto si veda B. ROSSI, op. cit., pag. 4119. 48 Così G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale, Parte speciale, Bologna, 2007, IV ed., I, pag. 649; in tema cfr. anche Anon.., Nota in tema di concorrenza con violenza o minaccia, in Giur. It, 2008, pag. 10. 49 Ibidem (dove  si  richiama  l’opera  di  T.  VITARELLI, voce Illecita concorrenza con minaccia o violenza, in Dizionario dei reati  contro  l’economia,  a cura di MARINI-PATERNITI, Milano, 2000, 355 ss). 50 Si veda Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, , in Giur. It, 2008, 10 ss.

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Ebbene la Corte di Cassazione, pur chiarendo che la ratio originaria della norma era di sanzionare

quelle tipiche forme di intimidazione che, nello specifico ambiente della criminalità organizzata di

stampo mafioso, tendono a controllare le attività commerciali, industriali o produttive, seguendo un

filone giurisprudenziale affermatosi nei primi anni novanta, ha poi concluso che di fatto «il testo

legislativo restringe  l’ambito di applicabilità dell'art. 513-bis c.p., alle condotte concorrenziali attuate

con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale; pertanto, vi rientrano i

tipici comportamenti competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi vessatori

(boicottaggio, storno di dipendenti rifiuto di contrattare etc..)»51.

In particolare, nella giurisprudenza civile52 si è ritenuto di definire come atto di concorrenza sleale rilevante ai sensi

dell’art.  2598 c.c. il boicottaggio secondario, ovvero quel boicottaggio in cui il preteso boicottante esercita pressione su

soggetti terzi affinché non intrattengano rapporti commerciali con il boicottato.

Un’altra  fattispecie  di  sleale concorrenza è lo sviamento (o storno) di clientela che si verifica allorquando un ex dipendente

di un determinato imprenditore sottragga  dei  clienti  all’azienda  dove  lavorava  precedentemente,  sfruttando know how e

competenze (esempio listino prezzi, condizioni commerciali, caratteristiche tecniche dei prodotti, ecc.) acquisite

lavorando  presso  l’ex  datore  di  lavoro,  arrecandogli  quindi  un  danno.

Un’ulteriore ipotesi di anti-concorrenzialità è data poi dal rifiuto a contrarre, ossia dalla situazione in cui un imprenditore

si rifiuta di stipulare un contratto con un determinato cliente abituale: questa pratica, usata maggiormente negli ultimi

anni, conduce ad una limitazione degli sbocchi economici del concorrente, così producendo produce effetti di concorrenza

sleale.

Per contro la norma non comprenderebbe, e quindi non reprimerebbe, la condotta di chi, in relazione

all’esercizio di una attività imprenditoriale o commerciale, compie atti intimidatori “puri”  al fine di

contrastare  o  scoraggiare   l’altrui libera concorrenza; questi comportamenti, pur avendo come mira

teleologica la concorrenza (o, meglio, la violazione della libera concorrenza), esulano infatti dal

nucleo  fondamentale  dell’elemento oggettivo del reato in questione, costituito dalla realizzazione di

un tipico atto di concorrenza sleale civilisticamente rilevante; tali condotte rimarrebbero comunque

riconducibili ad altre fattispecie di reati preesistenti (nel caso affrontato dalla Corte, il reato di

estorsione).

Poiché   nel   caso   di   specie   l’imputato   non   aveva   «condizionato la libertà di intervento e di iniziativa sul mercato del

soggetto passivo facendo ricorso ad atti concorrenziali non consentiti perché vessatori», avendolo semplicemente costretto

sospendere il contratto suddetto attraverso atti di minaccia (pur volti teleologicamente a rimuovere un ostacolo alla propria

attività economica), la Corte ha  escluso  la  sussistenza  dell’art. 513-bis c.p.

51 Si veda Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, , in Giur. It, 2008, 10 ss. 52 Cass. Civ. Sez. Un. 15 marzo 1985, n. 2018, in CED Cass. pen., rv 439926 e Cass. Civ., Sez. I, 13 marzo1989, n. 1263, in CED Cass. pen. rv 462133.

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Riconosciamo dunque in questa giurisprudenza una tendenza ad interpretare restrittivamente il

concetto di “atti di concorrenza”, escludendo dal fuoco applicativo della norma tutte quelle condotte

che non possono essere qualificate come atti tipicamente concorrenziali, ancorché posti in essere

attraverso forme   di   coartazione   (ossia   con   l’uso   di   violenza   o   minaccia).   Alla   luce   di   questa  

interpretazione   non   soddisferebbero   perciò   il   dettato   dell’art.   513-bis c.p. condotte di tipo

intimidatorio poste in essere da un sodalizio mafioso che, pur essendo in grado di destabilizzare la

normale  dinamica  imprenditoriale,  non  rientrino  nel  modello  tipico  di  “atti  di  concorrenza”.

Di conseguenza, non integrano ad esempio il reato le condotte di chi costringe la persona offesa, mediante formulazione

di minacce, a risolvere un contratto a   prestazione   d’opera,   ovvero,   nel   caso   pratico,   il   commerciante   che  minacci   e  

percuota materialmente altro commerciante al fine di scoraggiarne la concorrenza.

La Corte di Cassazione è tornata a ribadire questa impostazione nella sentenza n. 29009 del 201453,

dove si afferma che «l’art. 513-bis c.p. punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente

concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate,

però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando,

invece, nella fattispecie astratta, gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare

l’altrui libera concorrenza».

Un’altra   affermazione   di questo filone giurisprudenziale che tende a restringere il campo di

applicazione della norma in esame può essere rintracciata nell’ambito  degli  arresti  della  Suprema

Corte in tema di interposizione fittizia e parassitaria di una società.

La definizione di una società interposta e parassitaria ci è data da una circolare dell’Agenzia delle entrate che definisce

tale società come «una società localizzata in un Paese avente fiscalità privilegiata, non soggetta ad alcun obbligo di tenuta

delle scritture contabili, in relazione alla quale lo schermo societario appare meramente formale e ben si può sostenere

che la titolarità dei beni intestati alla società spetti in realtà al socio che effettua il rimpatrio»54. Si ha interposizione fittizia,

quindi, quando un soggetto, solitamente una persona o nei nostri casi una società, si pone come contraente in un rapporto

contrattuale bilaterale, anche se gli effetti del negozio stipulato dalle parti non si produrranno su di esso ma su di un terzo.

Tale tipo di istituto si dice parassitario quando è voluto dallo stesso contraente fittizio al fine di trarne un vantaggio

economico.

Nelle sentenze n. 33791 del 201155 e n. 10395 del 201256 i giudici di legittimità hanno infatti tentato

di  demarcare  i  confini  di  tipicità  oggettiva  descritti  dall’art.  513-bis c.p., affermando espressamente

che la semplice interposizione commerciale, riferibile al civilistico contratto di mediazione, è esclusa

53 Cass. Pen., sez. II, 27 maggio 2014, n.29009, in in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 637. 54 Sul punto si veda Agenzia delle Entrate Circolare 4 dicembre 2001, n.99/E., http://www.ilsole24ore.com (21 settembre 2001). 55 Cass. pen., 6 luglio 2011, n. 33791, in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2011, 324 ss., 56 Cass. pen., 2 febbraio 2012, n. 10395, in , in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2012, 246 ss

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dalla tipizzazione delittuosa; a maggior ragione la condotta di interposizione fittizia non rientrerà

nell’art.  513-bis c.p. se posta in essere in assenza di qualsiasi minaccia o violenza. In particolare si è

affermato   che   l’interposizione   fittizia   «non appare idonea ad integrare, sol perché qualificata

parassitaria, condotta riconducibile al reato in esame, sia perché oggettivamente esclusa dalla

tipizzazione delittuosa, sia perché nello specifico consumata senza che il tribunale ne chiarisse i

profili violenti ovvero minacciosi»57.

4.2.2. Interpretazione estensiva

Una diversa interpretazione della norma in esame ci è data dalla sentenza n. 6462 del 2010 della

Seconda Sezione della Corte di Cassazione58.

La  pronuncia  della  Suprema  Corte  originava  dal  ricorso  avverso  un’ordinanza  di  custodia  cautelare  in  carcere  emessa  in  

relazione  al  delitto  di  cui  all’art.  513-bis c.p. dal Gip del Tribunale di Napoli nei confronti di due individui appartenenti

al clan dei Casalesi; clan che, oltre a soggiogare militarmente la provincia di Caserta, esercitava un controllo si direbbe

monopolistico su diverse attività economiche del territorio.

In   particolare   i   due   indagati   operavano   all’interno   della   suddetta   struttura   economico-criminale per conseguire e

mantenere, attraverso due società gestite direttamente dal sodalizio criminale, la gestione monopolistica e il controllo del

trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli di varie importanti città del sud Italia e della Sicilia. Per di più, in

concorso  con  i  due  indagati  del  giudizio,  altre  due  persone,  referenti  del  sodalizio  criminale  denominato  “Cosa  Nostra”,  

avrebbero imposto, ai commercianti operanti nei mercati della Sicilia occidentale, la ditta gestita dai due indagati per

effettuare il trasporto su gomma dei prodotti verso la Campania, il Lazio e altre zone del territorio nazionale.59 Il Tribunale

del Riesame di Napoli aveva accolto il ricorso proposto dagli indagati, ritenendo che, pur essendosi svolti i fatti in un

ambiente   in  “odore  di  camorra”  e   in  un  clima  dichiaratamente   intimidatorio, non fossero stati posti in essere effettivi

episodi di minaccia o violenza da parte dei due individui facenti parte del sodalizio camorristico.

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul proposto dalla Procura di Napoli, è intervenuta

con una pronuncia che,  recuperando  l’iniziale  scopo  del   legislatore  di  reprimere  e  di  combattere  le  

dinamiche imprenditoriali mafiose, per buona parte stravolge il filone giurisprudenziale restrittivo a

tutt’oggi   preponderante.   Affermava infatti che il Tribunale del Riesame, nel pervenire alle

conclusioni sopra delineate, avesse «ignorato che la norma in esame è stata introdotta dalla L. n. 646

del 1982, art. 8 (Legge antimafia Rognoni - La Torre) proprio con la finalità, peraltro non risultante

dal testo normativo, di reprimere l’illecita concorrenza attuata con metodi mafiosi che impedisce il

libero gioco del mercato». Secondo la Corte, infatti, «il legislatore nella lotta contro la mafia ha (…)

57 V. Cass. pen., 6 luglio 2011, n. 33791, in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2011, pag.324 ss. 58 V. Cass. pen., sez. II, 16 dicembre 2010, n. 6462, in Cass. Pen., fasc.11, 2011, pag. 3820. 59 Ibidem.

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cercato di adeguare gli strumenti normativi ai differenti modelli operativi delle associazioni criminali

che sono capaci di penetrare nelle attività economiche e produttive attraverso forme di intimidazione

al fine di ottenerne il controllo e comunque di condizionarne la gestione60»; di conseguenza «il testo

dell’art.  513  bis  c.p.  (che  fa  esclusivo  riferimento  ad  “atti di concorrenza con violenza o minaccia”)

e la ratio della norma (assicurare che «la concorrenza sia non solo libera ma anche liberamente

attuata»: Cass., sez. 6, 9 gennaio - 6 marzo 1989, Spano, riv. n. 180706) non lasciano dubbi sul fatto

che (…)  ai fini del reato si richiede esclusivamente l’esistenza di comportamenti caratterizzati da

minaccia o violenza (indipendentemente dalla direzione della stessa) idonei a realizzare una

concorrenza illecita, cioè a controllare o condizionare le attività commerciali, industriali o produttive

di terzi con forme di intimidazione tipiche della criminalità organizzata». La stessa sentenza specifica

inoltre anche quale valore dare alla direzione che assumono la violenza e la minaccia61, ritenendo che

queste ultime, purché idonee a ledere la concorrenza, non debbano essere esplicite e aperte nei

confronti dell’attività  concorrente.

In senso conforme si era già pronunciata anche Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 199862, dove i giudici avevano affermato

che: «La fraudolenta aggiudicazione di una  gara  d’appalto  a  favore  di  un’impresa  contigua  ad  un’associazione criminosa,

resa possibile in virtù del clima di intimidazione creato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso, integra il reato

previsto  dall’art. 513 bis c.p. [...] il quale mira a reprimere con la sanzione penale tutti quei comportamenti che, attraverso

l’uso strumentale della violenza o della minaccia, incidano su quella fondamentale legge di mercato che vuole la

concorrenza non solo libera ma anche lecitamente attuata».

Secondo questa visione63, palesemente tendente ad autonomizzare la nozione penalistica di atti di

concorrenti dal sostrato della disciplina civilistica, il nucleo essenziale del reato andrebbe dunque

individuato negli atti violenti o minacciosi che, semplicemente in virtù di tali caratteristiche,

dovrebbero qualificarsi come “di  concorrenza  illecita” (anche a prescindere dalla loro riconducibilità

alle previsioni dell’art. 2598 c.c.). Il momento oggettivo del fatto si esaurirebbe così nella

realizzazione di comportamenti, caratterizzati dalla minaccia o di violenza, idonei, solo in funzione

di queste specifiche modalità, a presentarsi come  concorrenziali  rispetto  all’attività economica degli

altri consociati operanti nel settore.

Nell’ambito di tale corrente interpretativa vi è poi chi, per restituire valore al riferimento normativo

agli  “atti  di  concorrenza”, li fa assurgere ad oggetto di un supposto dolo specifico dell’agente64. Ossia,

60 Ibidem. 61 Sul punto si veda E. D’IPPOLITO, op. cit., pp. 3820 ss. 62 Cass. pen., Sez. II, 9 febbraio 1998, in C.E.D. Cass., 209924. 63 Sul punto si veda, oltre alle sentenze già richiamate, anche le seguenti sentenze: Cass. pen., sez. III, 24 marzo 1995, in C.E.D. Cass., 201578 e Cass. pen., Sez. II, 13 aprile 2005, in Riv. Pen., 2006, pag. 353 ss.. 64 V. D. PULITANÒ, op. cit., 259.

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la formula «chiunque [...] compie atti di concorrenza» andrebbe letta come «chiunque compie atti

diretti a scoraggiare la concorrenza» ed il reato rientrerebbe tra quelli a consumazione anticipata, non

essendo necessario, per la sua integrazione, che la limitazione della concorrenza si verifichi

effettivamente come risultato del comportamento violento o minaccioso. È chiaro che la proposta di

rileggere in questi termini la fattispecie consentirebbe di risolvere la principale contraddizione tra

lettera  della  norma  e  motivazione  di  politica  criminale  che  l’ha  prodotta.  Sopra  si  è   infatti  detto  di  

come la fattispecie  avrebbe   inteso  colpire,  ad  esempio,   l’esplosione  di  ordigni  collocati  nell’altrui  

azienda   per   dissuadere   l’imprenditore   dall’affacciarsi   sul   mercato   (per   es.   presentarsi   a   gare  

d’appalto).  Questo  esempio   finisce  però  per  non  rientrare  nel  modello tipico, per la ragione che il

comportamento se è certo violento non è anche un «atto di concorrenza».

Possiamo dunque notare come l’interpretazione   c.d. estensiva faccia perno sulla ragione che ha

indotto il legislatore alla creazione della norma, e cioè la repressione delle dinamiche mafiose il cui

modus operandi per eccellenza consiste nella creazione di un clima di paura e di intimidazione,

seppure tacita.

D’altra  parte  questo tipo di interpretazione, che trasforma un requisito che attiene alla tipologia degli

atti in un fine (ossia la neutralizzazione della concorrenza), comporta una vera e propria

manipolazione del dato normativo che conduce ad una grave violazione dei principi di legalità e

tassatività65.

In particolare, piegare la norma nella sua applicazione ad uno scopo in totale spregio dei limiti interni

di tipicità conduce a presupporre l’esistenza  di   fini  o   scopi   superiori rispetto alle stesse istanze di

libertà e alle certezze garantite dal principio di legalità. Ma ciò, come ha fatto notare un

commentatore, «comporta un allontanamento da quel diritto penale moderno, che è diritto penale

della libertà, e quindi diritto penale del fatto, dove per fatto s’intende il fatto tipico, il Tatbestand-

pendant del principio di frammentarietà -, così importante non solo perché cardine della legalità

formale, ma anche, in quanto, presupposto necessario della colpevolezza personale e della teoria dello

scopo della pena»66.

4.2.3. Gli atti di concorrenza alla luce delle fonti di matrice comunitaria

Una lettura in qualche misura estensiva dei requisiti della fattispecie  di  cui  all’art.  513-bis c.p ci è

data dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 3868 del 201567. Questo arresto

della Suprema Corte, offrendo una diffusa argomentazione anche alla luce del quadro normativo, in

65 Ivi, pag. 637. 66 D’IPPOLITO, op. cit., 1325. 67 V. Cass. Pen., sez. III, 10 dicembre 2015, n. 3868 in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119.

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tema  di  concorrenza,  risultante  anche  dalle   fonti  di  matrice  comunitaria,  riflette  un’interpretazione  

estensiva  dell’art.  513-bis c.p. concepita in modo diverso dalle sentenze appena sopra esaminate.

Il ricorrente, socio di una società attiva nel campo dei gas tecnici industriali, la Sicilcryo srl, era  stato  condannato  all’esito  

dei due gradi di giudizio, perché attraverso minacce (l’imputato   aveva   incontrato   la   persona   offesa   presso   un’area  di  

servizio, proferendo minacce gravi del tipo «stai scherzando con il fuoco») aveva imposto alla vittima (che in precedenza

era stata dipendente della Sicilcryo srl  e  che  all’epoca  dei  fatti  invece era addetta alle vendite di una diversa società, la

Eurocryo srl), di non avere contatti con i propri clienti,   così   scoraggiando   l’attività   di   concorrenza   ed   il   normale  

svolgimento delle specifiche attività produttive nel campo dei gas tecnici industriali.

Constatata la presenza di una condotta minacciosa, la Corte di Cassazione era in particolare chiamata a decidere se il

comportamento  dell’imputato rientrasse nei confini del 513-bis c.p.. La difesa poneva la questione della configurabilità

degli atti di concorrenza integranti la condotta materiale del reato, adducendo che il delitto in questione punisce soltanto

le condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti, il rifiuto di contrattare)

realizzate con violenza o minaccia, ma non le condotte intimidatorie finalizzate  ad  ostacolare  o  coartare  l’altrui  libera  

concorrenza (ferma restando la riconducibilità di tale condotte ad altre fattispecie di reato).

Qui il ragionamento seguito dai giudici muove  dalla  constatazione  dell’assenza  di  una  definizione  

penalistica   di   “atti   di   concorrenza”, definizione che, sottolineano i giudici, è però comunque

ricavabile dai  testi  normativi,  e  nel  caso  specifico  dall’articolo  2598 c.c.

Tale articolo, mentre ai primi due commi prevede e tipizza casi di concorrenza sleale, al terzo comma

presenta una disposizione di chiusura affermando che è esercitata concorrenza sleale ogni qualvolta

un individuo «si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della

correttezza  professionale  e  idoneo  a  danneggiare  l’altrui  azienda»68.

La stessa Corte spiega come tale articolo vada inteso ai sensi della normativa europea in materia di

mercato e concorrenza69,   rintracciabile   sia   all’art.   16   della  Carta EDU70 sia agli artt. 101 ss. del

T.F.U.E   (in  particolar  modo  all’art.  12071). Nella normativa europea la tendenza sarebbe infatti di

ricomprendere nel concetto di atto contrario alla concorrenza qualsiasi comportamento o turbativa

che possa ledere il normale svolgimento  dell’attività  d’impresa.  La  Corte allora dichiara di volersi

allineare a questa visione, sottolineando che la nozione civilistica di atto di concorrenza ai fini

dell’integrazione della condotta materiale del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia di

68 V. testo art. 2598 c.c. 69 Sul punto si veda B. ROSSI, Osservazioni a Cass. Pen., 10 dicembre 2015, sez. III, n. 3868, in Cass. Pen., fasc.11, 2016, pag. 4119. 70 Art.  16  della  Carta  EDU:  «  è    riconosciuta  la  libertà  d’impresa,  conformemente  al  diritto  comunitario  e  alle  legislazioni  e prassi nazionali. » 71 L’art.   120  TFUE  recita   infatti: «Gli Stati membri attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell'Unione definiti all'articolo 3 del trattato sull'Unione europea e nel contesto degli indirizzi di massima di cui all'articolo 121, paragrafo 2. Gli Stati membri e l'Unione agiscono nel rispetto dei principi di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un'efficace allocazione delle risorse, conformemente ai principi di cui all'articolo 119».

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cui  all’art.  513-bis c.p. deve necessariamente ricomprendere tutte le ipotesi ivi previste, dunque sia le

condotte tipicizzate nei numeri 1) e 2), sia quella di chiusura  dell’art. 2598 cod. civ., n. 3).

In definitiva la Corte arriva ad affermare il principio secondo cui «nella nozione di atti contrari alla

correttezza professionale ai  sensi  dell’art. 2598 c.c., n. 3 devono farsi rientrare non solo quegli atti

che direttamente  sono  tesi  a  distruggere  l’attività del concorrente, ma anche quegli atti che sono diretti

ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita, come quello della ricerca di

acquisizione di nuove fette di mercato. Dunque devono ritenersi ricompresi nella condotta materiale

del   reato   di   cui   all’art.   513-bis c.p. anche gli atti impeditivi   dello   svolgimento   dell’altrui libera

concorrenza».

Conclusivamente, secondo questo orientamento72, con la norma in esame non si è voluto reprimere

forme di concorrenza sleale già previste come illecite dal codice civile e in quella sede tutelate, ma

tutte le forme di concorrenza tese ad impedire che tramite comportamenti violenti o intimidatori siano

eliminati gli stessi presupposti della concorrenza al fine di acquisire illegittimamente posizioni di

preminenza o di dominio in un settore economico.

5.  I  confini  “esterni”  del  delitto  di  illecita  concorrenza

Appurato  che,  in  una  lettura  rispettosa  dei  principi  di   legalità  e  di  tassatività,   il  reato  di  cui  all’art.  

513-bis c.p. debba essere inteso in senso restrittivo, può essere interessante vedere quali siano i

rapporti di questa norma con fattispecie limitrofe per valutare, allo stesso tempo, quali norme si

applicano nel caso in gli atti di concorrenza vengano a mancare o siano soltanto il fine della condotta

violenta o minacciosa.

In particolare si considerino le percosse (art. 581 c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia

(art. 612 c.p.), il danneggiamento (art. 635 c.p.), l’incendio (art. 423 c.p.), il danneggiamento seguito

da incendio (art. 424 c.p.), tutte ipotesi attraverso le quali gli atti di concorrenza possono assumere

carattere violento o minaccioso e quindi integrare anche il reato d’illecita concorrenza. È chiaro che

rispetto a questi reati, il delitto d’illecita concorrenza per essere integrato ha bisogno di un quid pluris,

ossia l’atto di concorrenza: in questi casi, per il principio di specialità (art. 15 c.p.), la norma generale

(ad  esempio  l’incendio)  dovrebbe  considerarsi  assorbita dalla norma speciale73.

In ogni caso, qualora questo quid pluris venisse a mancare, il fatto resterebbe penalmente rilevante ai

sensi della norma generale.

72 Così anche Cass. pen., Dez. II, 26 marzo 2015, n. 15781, in CED Cass. pen., Rv 263529. 73 In proposito si deve però segnalare che la giurisprudenza, riconoscendo la natura di reato complesso del 513-bis, in passato ha ritenuto che sussistesse il concorso  formale  eterogeneo  tra  l’illecita  concorrenza  con  violenza  o  minaccia  e  il  danneggiamento seguito da incendio. Cfr. Cass. pen., sez. VI, 9 novembre 1989, in Cass. pen., 1990, p. 609.

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Qualcuno74, seguendo questo ragionamento, ha peraltro fatto notare che, essendo gli atti violenti posti in essere per

scoraggiare la concorrenza ad ogni modo punibili, anche la necessità pratica di ricorrere ad interpretazioni estensive,

gravemente  lesive  dei  principi  fondamentali  dell’ordinamento,  appare  ridimensionata.

La questione appare invece più complessa quando il reato in esame si trova in rapporto di specialità

bilaterale o reciproca con  altri  reati,  come  accade  ad  esempio  nel  caso  dell’estorsione  (art.  629  c.p.)  

e  dell’associazione  per  delinquere  di  stampo  mafioso  (art.  416-bis c.p.).

5.1.  Il  concorso  tra  l’art.  513  bis  c.p.  e  l’art.  629  c.p.

Ad una prima lettura le fattispecie di concorrenza con violenza e minaccia e di estorsione potrebbero

sembrare simili, in quanto le modalità realizzative sono pressoché le medesime: in entrambe le

fattispecie la condotta deve infatti essere violenta o minacciosa. Ciononostante i due reati presentano

degli elementi che tendono a differenziarli.

La prima differenziazione, che può dirsi sostanziale, consiste nel bene giuridico tutelato, poiché, come

suggerisce  anche  la  loro  ubicazione  nel  codice,  l’art.  513-bis ha  come  obiettivo  la  tutela  dell’ordine  

economico generale75, e quindi del normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti,

mentre il reato di estorsione tende a salvaguardare il patrimonio dei singoli76.

Le due norme presentano poi elementi specializzanti che conducono ad individuare un rapporto di

specialità   bilaterale   o   reciproca:  mentre   l’art.   513-bis c.p.   presenta   infatti   l’elemento degli atti di

concorrenza,   l’art. 629 c.p. richiede la presenza di un ingiusto profitto con altrui danno, oltre

all’elemento  dell’effettivo  costringimento  di  taluno  a  fare  od  omettere  qualcosa.

I reati di cui agli artt. 513-bis e 629 c.p. appaiono perciò caratterizzati da diverse oggettività giuridiche

e da diversi caratteri funzionali. Di conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ammette

pacificamente il concorso tra le due fattispecie. Quindi, nel caso in cui siano realizzati gli elementi

costitutivi di ambedue le norme, si dovrà configurare il concorso formale tra i due delitti, non

ricorrendo  l’ipotesi del concorso apparente di norme. In ogni caso, quando è esclusa la configurabilità

dell’art.  513-bis c.p., si ravviserà il delitto di estorsione nelle sue due possibili forme, consumata o

tentata77.

Il  reato  di  cui  all’art.  513-bis c.p. potrà dirsi integrato solamente se  l’azione  violenta  si  sostanzia  in  atti  di  concorrenza,  

cioè in azioni che tendono a sovvertire il normale svolgimento delle attività imprenditoriali attraverso comportamenti

violenti   che   colpiscono   direttamente   il   funzionamento   dell’impresa; quando   l’azione   violenta   si   sostanzia   in   una  

74 Così  D’IPPOLITO, op. cit., 3826. 75 B. ROSSI, op. cit., pag. 4119. 76 Sul punto si veda A. MARCHINI, op. cit., pag. 638. 77 Si veda Cass.Pen., sez. II, 27 maggio 2014, n. 29009, in Cass. Pen., fasc. 2, 2015, pag. 642.

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coartazione  fisica  e  psichica  dell’imprenditore,  senza  tradursi  però  in  una  manipolazione  violenta  e  diretta  dei  meccanismi  

di  funzionamento  dell’attività  economica  concorrente,  potrà  dirsi  consumato  solo il  reato  di  cui  all’art.  629  c.p.78.

La posizione della giurisprudenza di legittimità in merito ai caratteri differenziali fra il 513-bis c.p. e il 629 c.p. emerge

chiaramente anche nella sentenza già citata della Corte di Cassazione n. 7923 del 200879. Ricordiamo che nel caso di

specie  la  Corte  aveva  ritenuto  che  l’imputato  non  avesse  condizionato  la  libertà  di  intervento  e  di  iniziativa  sul  mercato  

del soggetto passivo facendo ricorso ad atti concorrenziali non consentiti perché vessatori, al contrario avendo costretto

la vittima a sospendere il contratto suddetto attraverso semplici atti di minaccia. La Corte concludeva quindi che «la

condotta in questione, non risolvendosi in atti di concorrenza vessatori, seppur volta teleologicamente a rimuovere un

ostacolo  alla  propria  attività  economica,  non  è  sussumibile  nella  previsione  normativa  di  cui  all’art.  513-bis c.p., e non

rientra  nel  novero  dei  reati  contro  l’ordine  economico,  bensì  in  quello  dei  reati  contro  il  patrimonio  essendo  la  minaccia  

realizzata dall’imputato   finalizzata,   siccome   correttamente   rilevato   dai   giudici   di  merito   di   primo   e   secondo  grado,  a  

costringere il soggetto passivo a risolvere il contratto con la società predetta, e quindi a compiere un determinato atto

pregiudizievole procurando a sé un ingiusto profitto».

5.2.  Il  concorso  tra  l’art.  513-bis c.p.  e  l’art.  416-bis c.p.

Passando  all’analisi  del  rapporto  tra  l’art.  416-bis c.p.  e  l’art.  513-bis c.p. si deve innanzitutto ribadire

che le due fattispecie di reato sono accomunate dalla medesima ratio ispiratrice, essendo entrambe

frutto della legge 13 settembre 1982 n. 64680.

Le due norme condividono in particolare il riferimento ad atti intimidatori (utilizzo di violenza e

minaccia), pur distinguendosi per gli ulteriori elementi costitutivi di entrambe (atti di concorrenza per

il 513-bis c.p., associazione formata da tre o più persone per il 416-bis c.p.).

La dottrina, per capire se vi è possibilità di concorso tra i due reati, propone di partire dai contenuti

della fattispecie associativa81.  Se  quest’ultima  viene  intesa  come  reato  meramente  associativo  (c.d.  

“reato  associativo  puro”),  che si perfeziona sin dal momento della  costituzione  dell’organizzazione  

mafiosa,  anche  se   l’effetto   intimidatorio  non  viene  prodotto, sarà sempre configurato un concorso

materiale tra i due reati.

Se  invece  l’associazione  mafiosa  viene  intesa,  come  è  preferibile,  come  un’associazione  che  delinque

tramite  la  commissione  di  violenza  e  minaccia  (“reato  associativo  a  struttura  mista”),  dove  il  metodo  

intimidatorio deve necessariamente estrinsecarsi, allora potranno aversi casi di interferenza fra i due

articoli, e, quindi, potrà configurarsi un concorso formale tra i reati82.

78 Cass. Pen., sez. II, 8 novembre 2016, n. 53139, in Banca Dati DeJure. 79 Cass. pen. Sez. II, 20 febbraio 2008, n. 7923, in Giur. It, 2008, 10 ss. 80 Si veda E.  D’IPPOLITO, op. cit. pag. 3820 ss. 81 Ibidem. 82 Questo ragionamento è sostenuto da molteplici arresti della Suprema Corte. Si veda ad esempio Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 2014, n. 6055, in https://www.iusexplorer.it., dove la Corte afferma che: «Benchè in ultima analisi il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia miri a reprimere la concorrenza illecita che sì manifesti in forme di

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A  noi  però  sembra  chiaro  che  il  problema  dell’interferenza  tra  416-bis c.p. e 513-bis c.p. dipenda in

larga   parte   dall’interpretazione   del   concetto   di   “atti   di   concorrenza”   in   relazione   ai   requisiti   della  

“violenza  e  della  minaccia”.  Mentre  in  un’ottica  estensiva  dell’art.  513-bis c.p. i due reati tenderanno

a coincidere (cosicché il  reato  di  concorrenza  illecita  resterà  “assorbito”  nel  416-bis c.p.),  in  un’ottica  

restrittiva il reato illecita concorrenza con violenza e minaccia, contemplando un elemento

specializzante ulteriore (l’esercizio  di  atti  di  concorrenza   rilevanti  ai   sensi  dell’art.  2598  c.c.)  non  

potrà che concorrere, qualora siano integrati gli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie, con

quello di associazione per delinquere di stampo mafioso. Arriviamo quindi al risultato neppure tanto

paradossale  che  in  presenza  di  un’associazione  di  stampo  mafioso  l’interpretazione  restrittiva  è  quella  

che finisce per offrire maggiore tutela.

6. Considerazioni conclusive

Nel corso di questa trattazione abbiamo tentato di mettere in luce il contrasto tra intenzione del

legislatore (colpire  l’imprenditoria  mafiosa  o  che  agisce  con  metodo  mafioso), dettato normativo (che

fa  espresso  riferimento  ad  “atti  di  concorrenza”  che  poco  hanno  a  che  vedere  con  il  ricorso  alla  forza  

tipico   dell’intimidazione   mafiosa)   e interpretazione giurisprudenziale, che, spiazzata dalla

contradditorietà del dato normativo e malgrado le sue “buone  intenzioni”,  ha  raggiunto  interpretazioni  

per niente in linea con i principi di legalità, tassatività e divieto di analogia in malam partem.

Ricordiamo infatti che, in assenza di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione, sono fatti

rientrare nel  concetto  di  “atti   concorrenziali”  anche atti non tipicamente concorrenziali (purché la

concorrenza sia il fine perseguito   dall’agente) o   atti   considerati   “concorrenziali”   in   virtù   di  

interpretazioni estensive adottate alla luce della normativa europea.

Il filtro selettivo delle condotte (la presenza di atti di concorrenza) che campeggia al centro del dato

legislativo, e che segna la separatezza tra il volto reale dell’art.   513-bis c.p. e il contesto

fenomenologico cui la norma in origine si rivolgeva, non può essere ignorato. Cosicché, per come è

uscita  dalla  penna  del   legislatore,  la   lettera  dell’art.  513-bis c.p. ci costringe a guardare solo a quei

comportamenti che appartengono alla fenomenologia, normativamente determinata, degli atti tipici

della  concorrenza:  sfuggono  perciò  dall’ambito  applicativo  della  norma  i  casi  di  diretta  aggressione  

ai   beni   dell’imprenditore   concorrente   e,   a   maggior   ragione,   alla   sua   persona,   rientrandovi   solo  

comportamenti tipicamente competitivi che si prestano ad essere realizzati con mezzi violenti

intimidazione tipiche della criminalità organizzata (laddove questa si prefigge il controllo delle attività commerciali e produttive dell'area territoriale di riferimento), le due fattispecie - a prescindere dal carattere episodico della prima e da quello permanente della seconda - non sono legate da specifico rapporto di continenza o di specialità».

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(boicottaggio, storno di dipendenti, rifiuto di contrarre). È tuttavia chiaro che la norma, a causa

dell’infelice   trasposizione   letterale,   lungi   dal   rappresentare   un   presidio   specifico   contro  

l’imprenditorialità  mafiosa  e  violenta, neppure apporta un effettivo contributo al complessivo assetto

della tutela penale della concorrenza83. Come ha fatto notare il Professor Alberto Alessandri, la

disciplina della concorrenza, se vuole essere tale, deve «essere disciplina della disponibilità  e  dell’uso  

dei normali fattori produttivi, non di condotte che disgregano il naturale disgregarsi delle relazioni

interpersonali, ancor prima che concorrenziali»84.

Per questa ragione lo stesso Autore ha sottolineato come un intervento penalistico in materia di

concorrenza necessiterà, per il futuro, un meditato impegno sul terreno civilistico: il legislatore

penale, in specie quando interviene nella materia economica, necessita infatti di un preciso quadro di

riferimento sui cui valori modellare selettivamente la griglia degli sbarramenti penali85.

In  attesa  di  questi  futuri  sviluppi   in  materia  di  concorrenza,  per  ciò  che  concerne  l’art.  513-bis c.p.

non possiamo che auspicare, in una prospettiva de jure condendo, una modifica del delitto in chiave

teleologica (ossia trasformando gli atti di concorrenza da requisito della condotta a mira teleologica

dell’agente):   infatti,   stando   all’attuale tipicità, e dovendo considerare il nucleo di disvalore della

condotta  incentrato  sull’utilizzo  di  metodi violenti o minaccia, questa appare la soluzione più congrua

al fine di riavvicinare il reato alla realtà criminale che in origine si proponeva di punire86.

83 Ibidem. 84 A. ALESSANDRI, op. cit., pag. 412. 85 Ibidem. 86 D’IPPOLITO, op. cit., pag. 3827.

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