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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO- FILOSOFICI E GIURIDICI Relazione per il Corso di Laurea magistrale in “Giurisprudenza” Università degli studi della Tuscia IL NESSO DI CAUSALITA ALL’INDOMANI DELLA SENTENZA FRANZESE Cattedra Diritto penale progredito STUDENTI Francesca Menghini e Rosa Riggi PROF. Carlo Sotis 1

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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI

Relazione per il Corso di Laurea magistrale in

“Giurisprudenza”

Università degli studi della Tuscia

IL NESSO DI CAUSALITA ALL’INDOMANI DELLA SENTENZA FRANZESE

Cattedra

Diritto penale progredito

STUDENTI Francesca Menghini e Rosa Riggi

PROF. Carlo Sotis

Viterbo, 30 marzo 2016

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INDICE

1. Introduzione: le problematiche in esame pag. 2

2. Il panorama giurisprudenziale pag. 3

3. La sentenza Franzese pag. 4

4. Il nesso causale all’indomani della sentenza Franzese pag.5

5. La responsabilità del datore di lavoro per esposizione

dei lavoratori ad amianto pag.7

6. La responsabilità omissiva del sanitario pag.13

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1. Introduzione: le problematiche in esame

Il tema che nel presente lavoro ci accingiamo ad affrontare, ha ad oggetto una delle problematiche

più controverse nello scenario del diritto penale attuale: il nesso di causalità tra condotta penalmente

rilevante ed evento lesivo.

Considerato l’attuale grado di complessità del dibattito sull’argomento, una ricognizione storica

dell’istituto del rapporto di causalità nel diritto penale, seppur circoscritta agli scopi del presente

testo, è doverosa e può farsi cominciare dalla fondamentale monografia di Federico Stella Leggi

scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, pubblicata nel 1975. E’ forse però più

opportuno iniziare dalla radice stessa della problematica, una definizione del nesso di causalità:

«Quando tra gli estremi del fatto compare l’evento, l’evento rileva se e in quanto sia stato causato

dall’azione: tra azione ed evento deve sussistere un rapporto di causalità”.1

In altri termini, l’azione del singolo è penalmente rilevante solo se sussiste un nesso che la lega

all’evento. Tale necessario elemento non solo è espressamente previsto dal legislatore codicistico

all’art 402, ma può essere ricondotto allo stesso dettato costituzionale, che all’art 27, co.1° 3prevede

il carattere personale della responsabilità penale. La disposizione da ultima richiamata, seppur nella

forma generica tipica delle norme costituzionali, esclude che si possa essere chiamati a rispondere

del reato altrui e quindi, secondo giurisprudenza e dottrina, anche nella specifica ipotesi di reato non

scaturito da propria condotta, cioè in quei casi in cui la condotta non sia, al di là di ogni ragionevole

dubbio, causalmente riconducibile all’evento.

Il problema essenziale è quello di comprendere a quali condizioni la condotta possa dirsi causa

dell’evento. Relativamente a tale problematica sono state date varie risposte, sulla base delle diverse

teorie ipotizzate (c.d. teorie della causalità); la più accreditata è la c.d. teoria condizionalistica o

della conditio sine qua non, la quale ha subito nel corso del tempo diversi correttivi, fino a potersi

ad oggi così riassumere: «causa dell’evento è ogni azione che- tenendo conto di tutte le circostanze

che si sono verificate- non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche, senza

che l’evento concreto venga meno»4. Tale lineare definizione è frutto di un percorso assai

complesso, che si tenterà di sintetizzare.

1G.MARINUCCI – E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, Milano, 2012, p.189.2Art 40 c.p. «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».3 Art 27 Cost co.1 «la responsabilità penale è personale».4G.MARINUCCI – E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p.192.

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2. Panorama giurisprudenziale ed evoluzione storica

Fino agli anni ’70 dello scorso secolo prevaleva una concezione di tipo intuizionistico5, inteso nel

senso che il giudice basava il proprio convincimento su di un giudizio controfattuale molto

discrezionale6. Tale impostazione generava una serie di problematiche che non verranno però in

questa sede trattate.

Approda in Italia intorno al 1975 il modello generalizzante delle sussunzioni sotto leggi

scientifiche, prevalentemente grazie al celebre contributo monografico di Federico Stella7, la cui

tesi, in sintesi, postula che il nesso causale trovi dimostrazione solo laddove vi sia una legge

scientifica di copertura idonea a spiegare il rapporto tra condotta ed evento lesivo.8

Sarà solo nel 1992, però, che con la sentenza sul disastro di Stava9, la Corte di Cassazione utilizzerà

tale modello.

Nell’arco del decennio che seguiva, la giurisprudenza aveva fornito però risposte molto diverse su

quale fosse il grado di certezza che la legge scientifica dovesse garantire per esser idonea a

giustificare una declaratoria di responsabilità penale. L’orientamento prevalente fino al 2000, era di

considerare idonee a provare il nesso, in modo autonomo, sia le c.d. leggi scientifiche universali10,

che assicurassero dunque un grado di certezza quasi totale, sia quelle statistiche11, in grado di

garantire livelli di probabilità molto variabili, anche pari od inferiori al 50%12. È dal 2000 in poi che

qualcosa inizia a cambiare. Sarà infatti la Quarta Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza

5 F. STELLA , Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 23, affermerà che seguendo questo meccanismo sarà «l’intuizione, il fiuto, l’immaginazione di quest’ultimo [il giudice] non la meditazione sul perché (oggettivo) dell’evento lesivo la via per scoprire il nesso causale».6 Significativa, in tal senso, appare la vicenda del Vajont che si riassume brevemente sul fatto: la notte del 9 ottobre 1963, una frana provocava la rottura di una diga, causando l’inondazione e la distruzione degli abitati circostanti al neo bacino idroelettrico artificiale del Vajont. Viene aperto un processo per presunti errori umani commessi, che, celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968, al 25 marzo 1971, si concluse con una sentenza di condanna; in quanto venne riconosciuta la responsabilità penale di alcuni degli imputati, alla luce della prevedibilità tanto dell’inondazione quanto della frana.7F. STELLA , Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale. Il nesso di condizionamento fra azione ed evento, Milano, 1975.8 Così A.VALLINI, Cause da sole sufficienti e nessi tra condotte, in Penale Contemporaneo, 2012.9 Cassazione 22 giugno 1992.10Intendendosi per leggi universali «enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di eventi», G.MARINUCCI – E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p. 192.11 Intendendosi per leggi statistiche «leggi che enunciano regolarità statistiche emerse dall’osservazione della realtà empirica e che affermano che, in un gran numero di casi, ( non però in tutti i casi) all’accadimento A segue l’accadimento B» così G.MARINUCCI – E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p. 192.12 In specifiche materie, prima tra tutte quella della responsabilità medica, si faceva inoltre strada la c.d. teoria dell’aumento di rischio, per la quale il nesso era provato, laddove la condotta fosse idonea anche solo ad aumentare il rischio del verificarsi dell’evento. Ciò partendo dall’assunto che, in tali casi, data l’importanza dei beni giuridici tutelati, anche laddove la condotta avesse poche possibilità di evitare l’evento, questa fosse in ogni caso doverosa.

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28.9.2000, c.d. Sentenza Baltrocchi, a pronunciarsi per la prima volta13 in modo totalmente difforme

dall’orientamento prevalente, affermando che, per potersi considerare sussistente il nesso di

causalità, erano necessarie leggi scientifiche universali o quasi universali14, che garantissero quindi

una certezza uguale o prossima al 100%.

3. La sentenza Franzese

Le due tesi esistenti si attestavano dunque su due diverse argomentazioni: da una parte si riteneva

che l’aumento del rischio di verificazione dell’evento, basato su leggi statistiche con percentuali

medio basse, fosse sufficiente ad accertare la presenza del nesso; dall’altra, si considerava invece

necessaria la sussistenza di una legge universale, o che comunque garantisse una probabilità

prossima alla certezza.

Il suddetto conflitto di orientamenti viene finalmente posto all’attenzione delle Sezioni Unite

nell’Aprile 200215.

Il quid iuris della IV Sezione Penale era il seguente: «in tema di reato colposo omissivo improprio,

la sussistenza del nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento, debba essere ricondotta

all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con

elevato grado di probabilità “vicino alla certezza”, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto

“seri ed apprezzabili probabilità di successo” della condotta che avrebbe potuto impedire

l’evento»16.

La Cassazione, preso atto che all’interno della stessa Quarta Sezione si delineavano due

orientamenti, si troverà davanti alla difficoltosa ricerca di un metodo scientifico adeguato da un lato

13 Tale orientamento darà poi seguito a diverse altre sentenze di legittimità, ex plurimis Sez. IV, 25.9.2001, Covili, Sez. IV, 28.11.2000, Di Cintio.14 Cass. Pen., sez. IV, 28.9.2000, n.1688, Baltrocchi "I giudizi di mera ‘possibilità’ sono, infatti, del tutto incompatibili con l'idea stessa di spiegazione dell'evento, ché un accadimento storico può ritenersi spiegato, può essere reso intelligibile attraverso una risposta alla domanda ‘perché?’, solo se si ha a disposizione una legge scientifica di forma universale o una legge statistica che enunci una regolarità nella successione di eventi in un'alta percentuale di casi, in una percentuale, cioè, vicina a cento, perché solo così si può pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sulla esistenza del nesso di condizionamento: dire che è possibile che senza l'omissione l'evento non si sarebbe verificato si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l'evento si è verificato". 15 La vicenda di fatto riguardava un caso di responsabilità medica: il Dottor Franzese, responsabile della divisione di chirurgia dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, veniva accusato del reato di omicidio colposo per aver omesso di effettuare una corretta diagnosi e cure appropriate nei confronti del signor C., che era successivamente deceduto. La vicenda processuale vedeva una condanna in primo grado, confermata dalla Corte di Appello di Napoli; i difensori dell’imputato proponevano quindi ricorso per Cassazione lamentando, tra le altre doglianze, la manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità, poiché non era stata dimostrata l’effettiva causalità delle addebitate omissioni rispetto alla morte del paziente. 16 Ordinanza del 7.2.-16.4.2002.

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alle esigenze di giustizia, dall’altro a quelle di scientificità, che dia conto delle insopprimibili

istanze di razionalità e credibilità e, al contempo, che si dimostri rispettoso del sistema di principi

costituzionali in cui si trova a operare la funzione penale.

La soluzione sarà quella di non abbracciare né l’uno né l’altro orientamento. Tracciando una linea

mediana, la Suprema Corte affermerà in primis la legittimità dell’utilizzo, nel giudizio di

responsabilità penale, sia delle leggi universali, intendendosi per tali quelle leggi scientifiche che

asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia delle

leggi statistiche, che affermano che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un

altro evento in una certa percentuale di casi.

Nel procedimento logico argomentativo della Corte veniva ammessa la rarità delle prime. Questo

rese necessario prevedere un meccanismo per cui, laddove vi siano a disposizione solo leggi

probabilistiche, è necessario, al fine del raggiungimento di quella certezza processuale «al di là di

ogni ragionevole dubbio» richiesta dalla declaratoria di responsabilità penale, procedere ad un

ulteriore passaggio logico, cioè l’esclusione delle possibili cause alternative potenzialmente in

grado (nel caso concreto) di causare quell’evento.17

In altri termini, il giudice del fatto è tenuto a svolgere una duplice indagine.

In una prima fase dovrà accertare l’esistenza di una legge scientifica di copertura (c.d. causalità

generale) ed in seguito, sia che tale legge scientifica sia probabilistica, ma anche laddove sia

universale18, dovrà procedere all’esclusione logica di tutte le possibili cause che, alla luce del caso

concreto, sarebbero egualmente idonee a causare il dato evento (c.d. causalità individuale).

Si pensi ad una situazione in cui Tizio, consapevolmente sieropositivo, abbia un rapporto sessuale

non protetto con Caia, successivamente ai quali Caia risulti infetta da Hiv. Si pone il problema se la

l’evento malattia in capo a Caia sia causalmente riconducibile alla condotta di Tizio. La migliore

scienza medica afferma che la probabilità statistica che dopo un solo rapporto possa trasmettersi il

17 Tra gli altri S.ZIRULIA , Nota a Cass. Pen., sez. IV, 17.09.2010, n. 43786, presidente Marzano, relatore Baiotta, imp. Cozzini e altri, in Penale Contemporaneo, 2011.18 Illuminante, a tal proposito F. VIGANÒ , Il rapporto di causalità nella Giurisprudenza Penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Penale Contemporaneo, 2013, in cui questi riporta un esemplifica in modo chiaro affermando: «Pensiamo a una ipotetica legge scientifica che asserisca che il morso del serpente mocassino è sempre letale per la vittima, la quale invariabilmente decede qualche ora dopo il morso, senza alcuna possibilità di essere salvata mediante la somministrazione di un siero o di altro presidio terapeutico. A leggere quanto si afferma comunemente nei manuali di diritto penale italiano, in questo caso non dovrebbero esservi dubbi sul nesso causale, stante la natura universale della legge di copertura. Eppure, se – prima che il veleno del serpente, introdotto furtivamente da A nel letto di B, abbia sortito il proprio effetto letale – B viene attinto da un colpo di pistola sparatogli da C, è evidente che la morte di B dovrà essere attribuita, in base a una considerazione ex post, a un decorso causale diverso rispetto al morso del serpente (e dunque alla condotta di A), malgrado la natura universale della legge scientifica che assicura, in una prospettiva generalizzante ed ex ante, che tutti coloro che vengono morsi dal serpente sono destinati a sicura morte.».

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virus Hiv è molto bassa, pari allo 0,002%. Ma anche in casi come questo, dove la probabilità

statistica è molto bassa, potrebbe sussistere un elevato grado di probabilità logica se è possibile

l’esclusione delle altre cause alternative idonee a spiegare l’evento come ad es. altri rapporti non

protetti, ricoveri ospedalieri, trasfusioni di sangue, scambio di siringhe con tossicodipendenti, etc.19

Solo una volta eseguito questo duplice passaggio, il giudicante potrà giungere ad un livello di

certezza processuale tale da poter affermare la sussistenza del nesso di causalità tra condotta ed

evento. Tale livello, come espressamente affermato dalla Suprema Corte20, in nessun caso, anche

dinanzi ad evidenti difficoltà di prova, potrà mai legittimare un’attenuazione del rigore

nell’accertamento nel nesso, in particolar modo in ambito penalistico.

4. Il nesso causale all’indomani della sentenza Franzese

Nonostante alla celebre pronuncia della Suprema Corte si debba indubbiamente riconoscere, tra gli

altri, il merito di aver placato, secondo criteri logici prima ancora che giuridici, una grottesca

“guerra di percentuali”, essa stessa, come tutte le sentenze divenute poi storiche, apre la strada a

nuove problematiche.

Si rammenta che la pronuncia in esame trae le sue origini da un caso di reato omissivo improprio.

Ciò posto, appare dunque a dir poco emblematico come il modello prospettato dalle Sezioni Unite,

che sembra essere risolutivo nei casi di reato commissivo, si mostri inefficace proprio su quella

tipologia di reato che lo generava. Su queste categorie rimane tutt’oggi un’incertezza che, ben lungi

dal rispettare i canoni di legalità e personalità del diritto penale, lascia giudici e studiosi nella

confusione.

Si tenterà, nell’economia di questo lavoro, di approfondire la questione in due campi nevralgici: la

responsabilità del datore di lavoro per esposizione dei lavoratori ad amianto, e la responsabilità

omissiva del sanitario.

5. Responsabilità del datore di lavoro per esposizione dei lavoratori ad amianto

19 Esempio ripreso da G.MARINUCCI – E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit..20 Cassazione Penale, SS.UU, Sent. 11.09.2002, n.30328 .

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Il problema dell’individuazione del nesso, si ripresenta in maniera insistente nell’accertamento della

responsabilità penale del datore di lavoro, nei casi di utilizzo di sostanze tossiche (nello specifico

l’amianto), all’interno di processi produttivi. Tale settore, fortemente discusso sotto il profilo

scientifico, posto che si tratta di una questione ancora incerta, ha generato fratture conseguenziali

nel contesto giurisprudenziale. Le principali problematiche che saranno di seguito affrontate,

partono dai dubbi giurisprudenziali circa la qualifica della condotta del datore di lavoro (se omissiva

o commissiva), per passare poi a definire il tipo di patologia generata dall’esposizione all’amianto

( multifattoriale, ovvero riconducibile a più fattori scatenati o monofattoriale), fino ad approdare

alle incertezze circa la questione della dose-dipendente o indipendente (è sufficiente una singola

esposizione all’amianto per generare il processo cancerogeno, o l’esposizione prolungata comporta

un’accelerazione dell’evento lesivo?)

Uno dei punti nevralgici della questione, fondamentale per verificare se è possibile o meno

applicare il modello Franzese, riguarda la qualificazione della condotta addebitabile al responsabile

dell’azienda: è commissiva o omissiva? Dalla giurisprudenza certamente non arriva una risposta

chiara ed univoca; se il filone tradizionale parla di condotta omissiva, essendo il datore di lavoro

responsabile per aver omesso di adottare le precauzioni dovute, potenzialmente in grado di evitare o

attenuare l’evento dannoso, le pronunce più recenti sono di parere totalmente opposto. Esse

qualificano la condotta del datore di lavoro come commissiva; infatti, sebbene «quello

dell’esposizione a sostanze patogene è un campo incerto, tuttavia occorre ritenere che si sia in

presenza di causalità commissiva, alimentata dalle perduranti scelte aziendali che determinano uno

stato delle lavorazioni che espone a livelli dannosi delle sostanze trattate: si tratta, come è stato

osservato in dottrina, di situazioni riconducibili all’archetipo dell’avvelenamento somministrato

con dosi quotidiane»21. Il datore di lavoro ha quindi, con la sua condotta, esposto coscientemente i

suoi dipendenti ad una sostanza tossica, avviando in questo modo quel decorso causale che ha

condotto all’evento lesivo, che altrimenti non si sarebbe verificato.22 Prendendo quest’ultima teoria

come punto di partenza, non si pongono più quelle problematiche relative al modello controfattuale,

spesso inapplicabile alle condotte omissive improprie23. Qualificando la condotta come commissiva,

si potrà infatti utilizzare senza problemi il modello della Franzese. Compito del giudice sarà allora

21 Cass., sez. IV pen. 17 settembre 2010, n.43786, Pres.Marzano, Est. Blaiotta, imp. Cozzini e altri.22 Dello stesso parere anche F. VIGANÒ in il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Penale Contemporaneo, 2012; S.ZIRULIA in nota a Cass. Pen., sez. IV, 17.09.2010, n. 43786, presidente Marzano, relatore Baiotta, imp. Cozzini e altri, 12 Gennaio 2011, in Penale Contemporaneo, 2011.23 I problemi nel qualificare la condotta come omissiva riguardavano l’individuazione del nesso di causalità: come si è esposto nella prima parte del presente lavoro, il giudizio controfattuale elaborato dalla Franzese, non riesce del tutto ad operare in tali fattispecie, posto che rende difficile raggiungere una prova del nesso tale da avere “ alto grado di credibilità razionale”.

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quello di arrivare alla certezza processuale, tramite l’esclusione, nel caso concreto, di tutte le

possibili spiegazioni dell’evento, alternative rispetto a quella prospettata dall’accusa (tutte

comunque ugualmente sorrette da una legge scientifica di copertura).

Anche tale ragionamento tuttavia, non è sicuramente privo di problematiche, che, ancora una volta,

nascono dalla mancanza di una sicurezza in ambito scientifico. Il primo ostacolo che il giudice si

trova dinnanzi, è quello di qualificare il tipo di patologia causata dall’esposizione alla sostanza

tossica; si tratta di una patologia multifattoriale o monofattoriale?

Con patologia multifattoriale si intende una malattia riconducibile a più fattori. Tanto l’asbestosi

quanto il carcinoma annoverano l’esposizione all’amianto come una delle possibili cause che ne

determina l’insorgenza. In tali contesti la scienza è concorde nel definire entrambe come patologie

dose-dipendenti, che quindi si aggravano in seguito ad un’esposizione prolungata alla sostanza

tossica. Il problema giudiziario posto da tali malattie, sarà quindi quello di determinare quale tra le

varie soluzioni ipotizzabili, abbia nel caso concreto scatenato la forma tumorale.

Facciamo un esempio: è scientificamente provato come il fumo, così come l’esposizione

all’amianto, sia una delle possibili cause legate insorgenza del tumore al polmone24. Come fa il

giudice a determinare se in un soggetto fumatore l’insorgenza di un tumore polmonare sia stato

determinato dal fumo (fattore causale estraneo alla condotta dell’imputato) o piuttosto

all’esposizione all’amianto (facendo pertanto diventare la condotta dell’imputato penalmente

rilevante)? 25 La giurisprudenza in tali contesti si affida all’art 41 c.p., facendo ricorso al concetto di

concausa: l’esposizione all’agente tossico ha comunque contribuito all’insorgere della patologia,

accelerando la sua progressione e diminuendo i tempi di latenza. In tale prospettiva non è possibile

eliminare nessuna delle possibili cause dell’evento, così come si è verificato nel caso concreto,

senza che quest’ultimo venga meno.

Non meno problematico è l’accertamento del nesso nel caso di patologie tendenzialmente

monofattoriali26, tra cui il mesotelioma. Di tale patologia si conoscono infatti tutte le possibili cause,

24 «Le fibre di amianto interagiscono in maniera sinergica con altri cancerogeni, in particolare con il fumo di tabacco nel causare il tumore polmonare», Ministero della salute, “PIANO NAZIONALE AMIANTO Linee di intervento per un’azione coordinata delle amministrazioni statali e territoriali” p.425 Significativa in tal senso la sentenza Montefibre, Trib. Verbania, 19/07/2011 (dep.17 ottobre 2011), giudice Fornelli, imp. Bordogna e altri. In quel contesto, gli 11 imputati, che ricoprivano posizioni di vertice della Montefibre spa, venivano assolti limitatamente all’accusa di omicidio colposo, nei confronti delle morti di 8 dipendenti per tumore polmonare. La motivazione data era quella della non sussistenza del fatto. Il tribunale di Verbania affermava che «lo stato attuale delle conoscenze non consente di dirimere in alcun modo, sulla base delle sole rilevazioni scientifiche proposte dai consulenti dell’accusa, il dubbio più ragionevole sulla riconducibilità, sul piano eziologico, delle patologie tumorali in questione, al fattore causale ipotetico alternativo rappresentato dall’abitudine al fumo».26 Con il termine monofattoriale si intendono tutte quelle patologie che la scienza pacificamente ritiene riconducibili ad una causa (nel nostro caso all’esposizione a sostanze tossiche).

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così che è fuori discussione collegare l’insorgenza del tumore all’esposizione ad amianto. Il

problema che si pone è però un altro. In questi casi ci si chiede se è sufficiente un’esposizione

singola (o comunque di breve durata) alla sostanza tossica, con conseguente irrilevanza delle

inalazioni successive27 o se piuttosto un’esposizione costante nel tempo è in grado di aggravare il

processo cancerogeno già in atto (dose-dipendente). L’adesione all’una piuttosto che all’altra tesi fa

la differenza tra una sentenza di assoluzione ed una di condanna. Infatti, qualora si affermi che il

mesotelioma è una patologia dose-indipendente, «non si può stabilire se l’amianto presente

nell’impresa ha cagionato la patologia, perché la vittima potrebbe aver respirato la fibra killer in

qualunque altro luogo, professionale o extraprofessionale»28. In questo caso verosimilmente, il

giudice non potrà condannare l’imputato, dato che il nesso risulta difficilmente provabile.

Qualora invece si aderisca all’ipotesi che vede il mesotelioma, al pari delle maggior parte delle

forme tumorali, una patologia dose-dipendente, si potrà arrivare ad una sentenza di condanna, posto

che tutti i fattori di esposizione sono stati in grado di aggravare la malattia, diminuendo il suo tempo

di latenza e accelerando l’evento morte.29

In particolare, per quel che riguarda la giurisprudenza di legittimità, fino al 2010, la Suprema Corte

ha in alcune ipotesi appoggiato la tesi della dose-dipendenza, ritenendo corretta quell’impostazione

scientifica secondo la quale le esposizioni successive e prolungate all’amianto erano in grado di

accelerare la cancerogenesi. Dall’altra evitava di prendere posizione, pronunciando sentenze di

27 Si tratta della teoria della c.d trigger dose: «il mesotelioma pleurico si distingue come patologia che fa eccezione, perché, nei soggetti suscettibili esposti ad amianto l’effetto cancerogeno può essere conseguente ad una “dose” estremamente bassa. Per tutti gli altri tumori, al contrario compreso il carcinoma polmonare da amianto, dosi basse non producono effetti epidemiologicamente dimostrabili» G.CHIAPPINO, Mesotalioma: il ruolo delle fibre ultrafini e conseguenti riflessi in campo preventivo e medico legale, in Medicina del lavoro, 2005.28E.BONANNI, Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate, in Diritto del Lavori, Anno V n. 2, luglio 2011, p.15 «Nella dinamica processuale, le difese degli imputati nei procedimenti penali in seguito alla comparsa di mesotelioma tra i lavoratori esposti all’amianto dei diversi siti produttivi, pongono l’accento sulla tesi della trigger dose, che si fonderebbe su tre leggi scientifiche: a) il mesotelioma può essere indotto anche da bassissime dosi di esposizione16, al limite anche da una sola fibra di amianto; b) una volta innescata la patologia, le esposizioni successive sono prive di rilevanza eziologica sul suo sviluppo, e dunque si tratta di patologia dose-indipendente; c) può essere indotto soltanto dall’inalazione di fibre fini o ultrafini. Questo modello impedisce di svolgere entrambi gli accertamenti richiesti dal rapporto di causalità; non si può affermare che la predisposizione delle misure cautelari doverose avrebbe impedito la patologia, perché nessuna attrezzatura avrebbe potuto azzerare la presenza di fibre, né bloccare le fibre fini o ultrafini».29 E.BONANNI, Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate , in Diritto del Lavori, Anno V n. 2, luglio 2011, p.16 «L’adesione al modello multistadio consente di svolgere con esito positivo entrambi gli accertamenti necessari al giudizio di causalità; quanto al primo accertamento, fermo restando che la patologia potrebbe essere insorta presso altre imprese o in contesti extraprofessionali, bisogna sempre ritenere che tutte le esposizioni abbiano giocato un ruolo concausale, quanto meno nell’anticipare la malattia e la morte; quanto al secondo accertamento, fermo restando che non è possibile stabilire se la predisposizione delle cautele doverose avrebbe impedito l’evento, bisogna sempre ritenere che, se l’imputato le avesse adottate, avrebbe ridotto la dose di esposizione, e pertanto avrebbe diminuito il rischio di insorgenza, o posticipato l’insorgenza della malattia e allungato la vita della vittima.».

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cassazione con rinvio per una motivazione insufficiente a sostegno della tesi accettata dal giudice di

grado inferiore30.

Una presa di posizione più rigorosa sul punto da parte della Cassazione, si avrà con la c.d. sentenza

Cozzini31. In tale pronuncia, la Corte non si limitava a cassare la sentenza con rinvio, ma per la

prima volta forniva al giudice di merito i criteri da utilizzare per la scelta della legge scientifica di

copertura in contesti di incertezza. Dice la Suprema Corte: «Per valutare l'attendibilità di una teoria

occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti.

L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla

tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio […], l'attitudine

esplicativa dell'elaborazione teorica.». Ma ciò non è sufficiente: il giudice dovrà valutare anche

«l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le

quali si muove. […] Costoro […] non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro

personale seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a

fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se […] possa pervenirsi

ad una "metateoria" in grado di guidare affidabilmente l'indagine». Oltre ciò, «rileva il grado di

consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica». Per la prima volta quindi, la Cassazione

chiede al giudice del rinvio di valutare sì le opinioni degli esperti, ma anche di ricollocarle

all’interno della comunità scientifica, verificando il grado di attendibilità che quelle tesi rivestono.

In particolare, da quanto emerge dalla sentenza Cozzini, per accertare il nesso di causalità, il giudice

dovrà preliminarmente verificare se l’esposizione alla sostanza tossica abbia cagionato o aggravato

la patologia; per fare ciò, configurando la condotta del garante come commissiva, egli potrà

utilizzare il modello controfattuale, andando a sanare le lacune delle leggi statistiche tramite

l'esclusione dei possibili decorsi causali alternativi. Dovrà poi passare ad analizzare il giudizio

prognostico di evitabilità dell'evento lesivo valutando come la regola cautelare omessa avrebbe

potuto agire nel caso concreto, potendo utilizzare a tal fine anche leggi scientifiche meramente

probabilistiche.

Alla luce di ciò, una domanda sorge spontanea: il giudice deve comportarsi come mero fruitore

delle leggi scientifiche, o piuttosto come valutatore del loro fondamento scientifico? La questione è

ben lontana dall’essere definita in maniera univoca: tanto dalla sentenza Cozzini, quanto, ancora

prima dalla Franzese, si evince che il giudice va considerato come valutatore delle leggi

scientifiche: da ciò ne consegue che la Cassazione di volta in volta si troverà a dover verificare la

30 V. Cass. Pen., sez. IV, 10 giugno 2010-4 novembre 2010, Quaglierini, in Diritto Penale Contemporaneo, 9 novembre 2010.31 Cass., sez. IV Pen. 17 settembre 2010, n.43786, Pres.Marzano, Est. Blaiotta, imp. Cozzini e altri

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correttezza della valutazione compiuta dai giudice di merito da un punto di vista formale, senza

soffermarsi sul fatto che il giudizio finale può essere frutto di tesi scientifiche contrapposte.

Dall’altra parte, se si ritiene che il giudice sia un mero fruitore delle leggi scientifiche, allora

emerge prepotentemente un problema inevitabile: come deve comportarsi il giudice là dove la

scienza non è in grado di fornire la spiegazione unanime di un evento? Il quesito rimane senza

soluzione: ecco perché c’è chi auspica in tal senso un intervento delle Sezioni Unite, volto a chiarire

una volta per tutte il ruolo del giudice. 32

Possibili soluzioni alternative, sono state fornite nel corso del tempo, tanto dalle più recenti

pronunce giurisprudenziali, quanto dalla dottrina.

Una prima soluzione è offerta dal Tribunale di Torino33, in quanto per la prima volta la Procura,

decide di contestare ai responsabili di vertici di processi produttivi che utilizzavano anche sostanze

tossiche, non i reati di omicidio colposo o lesioni personali, ma quelli di cui all’art. 43734c.p.

(rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, aggravato se dal fatto deriva

del disastro o dell’infortunio) e 434 c.p. 35(disastro doloso, nella forma del c.d. disastro innominato)

a causa dell’insorgenza di moltissimi casi di mesotelioma nella popolazione di Casale Monferrato,

verosimilmente prodotti dalla espansione dell’amianto anche nel territorio circostante agli impianti

in cui era direttamente utilizzato. Per la prima volta i reati contestati, sono reati di pericolo; questo

consente di aggirare il problema dell’accertamento del nesso causale tra la condotta dei responsabili

dell’azienda e l’insorgere della patologia nei singoli soggetti lesi. Per l’accusa sarebbe infatti

sufficiente dimostrare che quella stessa sostanza, che si era diffusa a causa dell’omessa attuazione

delle misure di sicurezza adottabili dai responsabili, aveva cagionato un pericolo per la salute dei

cittadini.36

Due sono essenzialmente le critiche mosse a tale impostazione, che fa leva sulla indeterminatezza

del concetto di “altro disastro”.

32 Così R.BARTOLI, «la recente evoluzione giurisprudenziale sul nesso causale nelle malattie professionali da amianto», in Diritto Penale Contemporaneo, 2014, p. 407.33 Posto che il procedimento è ancora in corso, si riportano qui le due ordinanze: Trib. Torino, 1.3.2010 (ord.), Pres. Casalbore, Est. Pironti; Trib. 12.4.2010 (ord.), Pres. Casalbore.34 Art 437 c.p. «Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni».35 Art 434 c.p. «Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene.».36 Così L. MASERA, «Danni da amianto e diritto penale» in Diritto Penale Contemporaneo.

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La prima parte dal dato letterale dell’art 434, che punisce chiunque «commette un fatto diretto a

cagionare […] un altro disastro, [...] se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità». Rimane

da chiedersi che cosa si intenda per disastro: la risposta arriva dalla Corte Cost in una famosa

pronuncia del 200837, dove essa definisce il termine disastro come «evento distruttivo di proporzioni

straordinarie […] atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi», nonché a provocare «un

pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone». Ma nel caso di

specie, qual è l’evento distruttivo?

Una dottrina recente ha tentato di ovviare a tale problematica, sostenendo che con il termine

disastro può essere indicato non solo un evento lesivo che si consuma in un breve periodo, ma

anche un evento dannoso frutto di un processo prolungato nel tempo che produca danni alle

persone, creando l’ulteriore pericolo di nuovi e futuri danni alla salute e all’integrità fisica di più

soggetti.38 La tesi sarebbe in questi casi supportata da indagini epidemiologiche, che rilevano in

quanto registrano nella popolazione esposta, un aumento della patologia sproporzionato, che non si

sarebbe verificato in soggetti non esposti. Anche tale impostazione, non è stata tuttavia esente da

critiche39.

Riguardo il 437 c.p., i problemi che si pongono sono relativi al termine “infortunio”: in relazione a

tale concetto, riemergono i problemi relativi all’accertamento del nesso in ogni singolo soggetto

offeso, problemi già analizzati in relazione all’omicidio colposo.

L’altra soluzione prospettata in dottrina, è quella elaborata da Masera, partendo dalle stesse

ordinanze del Tribunale di Torino di cui si è parlato sopra. Dice Masera: «l’impostazione della

Procura è che per contestare non solo gli illeciti di pericolo, ma anche le aggravanti relative alla

verificazione degli eventi “disastro” o “infortunio” non sarebbe necessario accertare i singoli

nessi causali tra l’esposizione, da un lato, e la morte o le lesioni, dall’altro, bastando l’evidenza

epidemiologica che l’esposizione abbia cagionato un danno alla popolazione.» 40 Secondo Masera

quindi, avendo alle spalle indagini epidemiologiche certe che affermino che vi è un eccesso della

stessa patologia nei soggetti esposti alla sostanza tossica, è possibile condannare per omicidio

colposo chi si è reso responsabile della diffusione della sostanza stessa, non rispettando le norme

cautelari dovute, anche senza accertare se ogni singolo caso di insorgenza della patologia sia

riconducibile o meno a quel fattore tossico. L’identificazione delle vittime sarà comunque rilevante

37 Corte Cost, sent. N.327, 2008.38 Così S.ZIRULIA, «Caso Eternit: luci ed ombre nella sentenza di condanna in primo grado», in Rivista italiana di diritto processuale penale, 2013, p.49839 Tra gli altri che F. VIGANÒ, «Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese», in Diritto Penale contemporaneo, 2012, p.2240 L.MASERA, «Danni da amianto e diritto penale» in Diritto Penale Contemporaneo, 2010

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in sede di risarcimento del danno, dove però potrà validamente essere utilizzato lo standard

probatorio “del più probabile che non”.

6. La responsabilità omissiva del sanitario

Come punto di partenza si ritiene opportuno svolgere un breve chiarimento sulla distinzione tra

addebito commissivo ed omissivo, per il quale ci si rifà alla chiarezza di Viganò41:

«l’addebito è commissivo allorché si imputi al soggetto di avere introdotto nella situazione concreta

un fattore di rischio in precedenza assente, poi effettivamente sfociato nella produzione di un evento

lesivo; mentre l’addebito è omissivo allorché ciò che si imputa al soggetto è di non avere

contrastato fattori di rischio già presenti nella situazione concreta, i quali siano effettivamente

sfociati nella produzione dell’evento lesivo.»

La responsabilità medica è ambito in cui la complessità delle attività, spesso non rende agevole la

distinzione tra condotta omissiva e commissiva. Non è infatti quasi mai così prontamente evidente

se, con il proprio comportamento, un sanitario abbia causato un peggioramento della situazione

clinica del paziente (responsabilità commissiva), o se, omettendo di adottare quei presidi terapeutici

che sarebbero stati astrattamente idonei a contrastarne la problematica, non sia stato in grado di

interromperne il naturalistico decorso patologico (responsabilità omissiva). Tutto ciò anche alla luce

della realtà oggettiva, per cui la massima parte dei fatti medici sono un intreccio di episodi colposi

omissivi e commissivi.

La distinzione non è di certo di poco conto se ci si avvede di come, nei casi in cui ad essere

imputata sia una responsabilità per omissione, lo schema prospettato dalle Sezioni Unite non possa

essere adottato42.

Si pensi ad un esempio siffatto:

Poniamo che il Sig. Caio si rechi presso il pronto soccorso di zona lamentando dolori addominali, e

che il Dott. Sempronio, dopo averlo visitato sommariamente, non riscontrando nessuna patologia in

atto lo dimetta; ma, arrivato a casa, Caio muoia per infarto addominale. Nei confronti di Sempronio

41 F.VIGANÒ, Il rapporto di causalità, cit., in cui lo stesso autore rimanda a diverse sentenze di legittimità tra cui: Cass. Pen., Sez. IV, 11 marzo 2010 (dep. 3 maggio 2010), n. 16761, Pres. Mocali, Est. Brusco, imp. Catalano e altri, e 29 aprile 2009 (dep. 22 giugno 2009), n. 26020, imp. Cipiccia e altri, CED 243931. Più di recente: Quarta Sezione dell’1 febbraio 2011 (dep. 11 marzo 2011), n. 9926, Pres. Marzano, Est. Brusco, imp. Rao e altri, e del 16 febbraio 2012 (dep. 8 marzo 2012), n. 17069, Pres. Marzano, Est. Piccialli, imp. Ranasinghe. 42 Come posto in evidenza da vari studiosi tra cui si rimanda a VENEZIANI, Il nesso tra omissione ed evento nel settore medico:struttura sostanziale ed accertamento processuale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, 2006, p 1970 ss.

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viene quindi formulato un addebito per aver colposamente omesso di procedere ad una corretta

diagnosi ed al ricovero di Caio.

Se si tenta, in un caso del genere, di adoperare il c.d. modello Franzese ci si avvede prontamente di

come questo «semplicemente non sia in grado di operare»43.

In ambito medico sarà di certo possibile riscontrare una tesi che vuole che, se individuato e trattato,

un infarto addominale può non esser fatale in x % di casi, e quindi il giudizio di causalità generale è

soddisfatto; ma la legge statistica, come detto, da sola non è sufficiente a dimostrare il nesso, va

quindi effettuato il giudizio di causalità individuale, cioè l’esclusione delle possibili cause

alternative.

In questa ipotesi però, non ha alcun senso ricercare cause alternative, perché già si ha la certezza

(raggiunta con il “metodo Franzese”) che l’evento (morte) sia stato causato dalla patologia (infarto)

e non da una condotta del sanitario. In casi di questo tipo la verifica probatoria decisiva è un'altra, e

cioè il chiedersi ciò che sarebbe accaduto se la condotta doverosa fosse stata posta in essere.

Per rispondere a tale domanda il giudicante avrà a disposizione solo una legge scientifica

probabilistica, in quanto il campo epidemiologico (ma, a ben vedere, anche quello medico in

generale) è un mondo complesso e palesemente probabilistico, che ben si presta ad accogliere una

nozione di causa piuttosto elastica e di certo distante dal concetto di causa «necessaria e sufficiente»

propria del diritto.

Inoltre quella legge di copertura sarà una legge generale, cioè costruita su casi analoghi44, ma di

certo non identici a quello di specie, si mostrerà quindi sostanzialmente impossibile il

raggiungimento di quella certezza «al di là di ogni ragionevole dubbio» posta dalla Suprema Corte

come indefettibile base per una declaratoria di responsabilità penale.

Ciò posto, se per certezza al di là di ogni ragionevole dubbio si vuol intendere una certezza pari o

molto vicina al 100%45 non si potrebbe che giungere alla conclusione che, in tali casi, mai il

sanitario dovrebbe rispondere penalmente46; ma se anche non si accogliesse tale assunto, quale

potrebbe esser un livello di certezza tale da considerarsi sufficiente a giustificare una condanna del

medico per omicidio colposo?

43 F.VIGANÒ, Il rapporto di causalità, cit.44 In quanto frutto, come detto, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, di indagini epidemiologiche, quindi formatesi su coorti di soggetti, di certo non perfettamente identici tra loro.45 Come sembra fare la sopracitata sentenza Franzese.46 Alla luce del principio dell’in dubio pro reo sancito dall’art. 533 comma 1° c.p.p..

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La questione è posta in termini volutamente provocatori. Questi sono casi in cui, spesso, sorge nella

collettività un legittimo «bisogno di pena», anche in relazione alla figura di garanzia del medico47,

che però, il sistema penale vigente, in quanto imperniato sulla figura del delitto colposo di evento

(in particolare l’omicidio) lascia senza tutela, anche quando magari contrassegnate da un disvalore

superiore48.

La giurisprudenza ha finora aggirato questo problema tramite modalità, seppur condivisibili per

intenzione, non certo ossequiose del principio di legalità49.

Laddove il giudice si trovi infatti, convinto della responsabilità dell’imputato, pur alla luce di leggi

di copertura che garantiscano coefficienti di certezza medio-bassi, questi tende, anche per prassi

ormai consolidata, ad aggirare il problema, svuotando di significato la formula dell’«elevato grado

di credibilità razionale» utilizzata dalla Suprema Corte50, intendendolo, non certo alla luce degli

insegnamenti delle Sezioni Unite, come formula idonea a “sostituire”, in motivazione, la

quantificazione del presumibile grado di certezza salvifica che la legge scientifica di copertura

attribuisce alla condotta omessa dal sanitario, sfuggendo così, ad eventuali censure in sede di

legittimità.

Anche se, a ben vedere, è la stessa Corte di Cassazione ad avallare questa abitudine, limitandosi,

nella quasi totalità dei casi, e spesso in modo particolarmente succinto51, a confermare le sentenze

poste alla propria attenzione, affermando che i giudici di merito siano immuni da censure in quanto

abbiano giustamente valutato che la condotta del sanitario avrebbe evitato l’evento con «elevato

grado di credibilità razionale».

È evidente come i giudici di legittimità non tocchino però minimamente il problema centrale, cioè il

come si sia arrivati a quell’elevato grado di credibilità; in altre parole su cosa i magistrati fondino il

loro convincimento, non potendo, come detto, né avere leggi universali a disposizione, né,

trattandosi di addebiti omissivi e non commissivi, procedere all’esclusione delle cause alternative.

Si vuol far notare ancora una volta come sia la stessa scienza clinica ad essere, per definizione,

incerta, specie ci si concentra su quella branca relativamente recente52 dell’arte medica che è

47 Sulla quale categoria la dottrina ha prodotto moltissimo, ma, per ciò che attiene ai propri scopi, basti il ricondurre al dettato dell’art. 40 comma 2° c.p. «[…] che si ha l’obbligo giuridico di impedire […] ».48 Anche F. ANGIONI, in Note sull’imputazione dell’evento colposo con particolare riferimento all’attività medica, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., afferma come l’attività medica, a differenza di altri settori in cui accanto alla norma generale si ha un vasto arsenale di norme minori e parapenali, non disponga di questa «rete protettiva».49 Specie di quella sua particolarmente stringente accezione penalistica.50 Franzese §§ 8 e 9.51 Si veda Cass. pen. Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11493.52 L’epidemiologia comincia a formarsi nella sua forma più compiuta verso la seconda metà dell’800.

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l’epidemiologia53, che, procedendo alle proprie indagini su coorti di soggetti, dovrebbe essere

intrinsecamente inidonea, da sola, a fondare qualsivoglia responsabilità penale54.

Gran parte della dottrina sostiene, di conseguenza, che nell’ambito della responsabilità omissiva del

medico, la certezza processuale, intesa entro i confini posti dalla Suprema Corte55 non sia

raggiungibile, proprio per i limiti stessi della scienza medica, che non consentono di formulare

previsioni in termini di certezza sulle reazioni di un determinato soggetto ad una data terapia, fosse

anche una terapia «generalmente» assai efficace56.

La giurisprudenza è quindi stretta, ancora una volta, nella morsa della propria difficoltà genetica:

l’interpretazione della legge alla luce delle esigenze concrete.

Se si ritiene che la colpa medica meriti di rispondere penalmente57, và però, senza dubbio, trovata

una soluzione che permetta alla giurisprudenza di agire in modo trasparente, e non utilizzando

escamotages retorici per aggirare le difficoltà, in quanto ciò non può che considerarsi illegittimo

alla luce dei principi fondamentali, non solo del diritto penale, ma dell’ordinamento nazionale e

comunitario58 nel suo complesso.

Per sciogliere tale nodo, una persuasiva, seppur articolata, proposta59, vuole che la verifica di

quantificazione della portata impeditiva dell’evento non venga effettuata in sede di accertamento

del nesso causale tra condotta ed evento, ma bensì in sede di verifica della sussistenza del secondo

nesso causale presente nei reati colposi, il nesso tra colpa ed evento60.

Una tale prospettazione (di certo incoerente con le affermazioni delle S.U. in Franzese61) non è,

secondo l’autore, contraddittoria nei confronti dell’art. 40 comma 2° c.p. come potrebbe prima face

apparire, in quanto il dettato codicistico non richiede espressamente un nesso causale tra il non

53 Intesa come «Parte dell'igiene che studia la frequenza con cui si manifestano le malattie e le condizioni che favoriscono od ostacolano il loro sviluppo».54 Di responsabilità civile in questa sede non è dato trattare, ma si consenta di accennare alla problematica del sempre

più attuale percorso di autonomia di concetti, e di criteri di imputazione relativi non solo alla causalità, ma anche alla colpa, in ambito civile e penale, per cui valgono criteri molto diversi.55 Nella sent. Franzese, cit..56 Conclude allo stesso modo BLAIOTTA, Causalità giuridica, Giappichelli, 2010, p.308, cit. in F. ANGIONI, in Note sull’imputazione dell’evento colposo con particolare riferimento all’attività medica, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit..57 Se si, ed entro quali limiti, ad avviso della gran parte della dottrina, e, per quanto ciò possa contare, di chi scrive, rimane una questione di principio e di politica criminale.58 Tra i tanti si pensi all’art. 6 della C.E.D.U. ed alle garanzie previste per un «equo processo».59 F.VIGANÒ, Il rapporto di causalità, cit. , ma, con un maggior livello di specificità F.VIGANÒ, Riflessioni sulla c.d. “causalità omissiva” in materia di resposabilità medica, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 2009.60 Giudizio che, come noto, consiste nella verifica di ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse agito in conformità della regola cautelare, con prudenza,diligenza e perizia.61 Che, a parere dell’autore si riferirebbero però (nonostante la questione di fatto sia proprio un omissivo improprio) alle sole ipotesi di reati commissivi.

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facere (la condotta omissiva) e l’evento, ma si limita ad equiparare, sul piano giuridico, la condotta

omissiva e quella commissiva, lasciando uno spazio sufficientemente libero perché sia l’interprete a

riempirlo di significati alla luce delle esigenze concrete62.

Tale tesi, non è certo esente da critiche63, data in primis l’evidente tendenza a proporre un

interpretazione della legge penale non certo letteraria64 in un campo tra l’alto così delicato, ma

rappresenta quantomeno un tentativo di risoluzione di una problematica che non potrà ancora a

lungo esser ignorata.

Nel silenzio del legislatore, diverse sono le soluzioni prospettate dagli studiosi, concordi tutti, però,

sulla necessità impellente di uno specifico riconoscimento della peculiarità della materia da parte

della giurisprudenza, magari tale da poter far luce su quel quid iuris65 che, ancora oggi, a quattordici

anni dall’ordinanza di remissione della Quarta sezione della Corte di Cassazione, non sembra aver

trovato risposta.

62 Sul rapporto tra primo e secondo comma dell’art. 40 la stessa dottrina crea un tale disordine di importazioni e prospettive, che lascia ampio spazio discrezionale nell’interpretazione dello stesso.63 Così DONINI , Imputazione oggettiva dell’evento, in Enc. Dir., Annali, III, Giuffrè, 2010, cit. in F.VIGANÒ, Il rapporto di causalità, cit..64 Quasi banalmente si ricorda come, in campo penale, l’interpretazione sia, almeno formalmente, molto vincolata.65 Ordinanza del 7.2.-16.4.2002, cit. nota 12.

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