Dino Campana · mente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, ... E la sacerdotessa...

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Dino Campana ______ Canti Orfici 1913 - 1914 ____ Varie e frammenti __ Epistolario con Sibilla Aleramo

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Dino Campana

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Canti Orfici1913 - 1914

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Varie e frammenti__

Epistolario con Sibilla Aleramo

La notte1. Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura

sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impa-ludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospe-so il corso.

2. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensa-zioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti molle-mente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle accon-ciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io strin-gevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.

3. Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la tor-re barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silen-zio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspi-de rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inari-dita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città.

4. Fu scosso da una porta che si spalancò. Dei vecchi, delle forme oblique ossute e mute, si accalcavano spingendosi coi gomiti perforanti,

terribili nella gran luce. Davanti alla faccia barbuta di un frate che spor-geva dal vano di una porta sostavano in un inchino trepidante servile, strisciavano via mormorando, rialzandosi poco a poco, trascinando uno ad uno le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati, tutti simili ad ombra. Una donna dal passo dondolante e dal riso incosciente si univa e chiudeva il corteo.

5. Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati: egli seguiva, autòma. Diresse alla donna una parola che cadde nel silenzio del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno sguardo assurdo lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso molle nell’ari-dità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica.

6. Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia om-bra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade male odoran-ti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna una porta incisa di colpi, guardatada una giovine femmina in veste rosa, pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e opulenta matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che ri-nascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose insie-me ad un

grazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancella che dormiva colla bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedetti piano.

7. La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona ai miei orecchi. Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sul tavolo untuoso. L’agile forma di donna dalla pelle ambrata stesa sul letto ascoltava curiosamente, pog-giata sui gomiti come una Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra i muri ros-seggianti: noi soli tre vivi nel silenzio meridiano.

8. Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suo oro il luogo

commosso dai ricordi e pareva consacrarlo. La voce della Ruffiana si era fatta man mano più dolce, e la sua testa di sacerdotessa orientale compiaceva a pose languenti. La magia della sera, languida amica del criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembra-vano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri ste-rili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendeva messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.

9. Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Men-tre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo ave-va ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo ste-rile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.

10. Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le anti-che immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiu-se aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito, appa-rendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul pa-norama scheletrico del mondo.

11. Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimi clangori, vedevo le antichissime fanciulle della prima illusione profilarsi a mezzo i ponti

gettati da la città al sobborgo ne le sere dell’estate torrida: volte di tre quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua annunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete a trivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche: ora addolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleg-gerite di un velo: così come Santa Marta, spezzati a terra gli strumenti, cessato già sui sempre verdi paesaggi il canto che il cuore di Santa Ce-cilia accorda col cielo latino, dolce e rosata presso il crepuscolo antico ne la linea eroica de la grande figura femminile romana sosta. Ricordi di zingare, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze d’amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altra culla avventurosa di incertezza e di rimpianto: così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama scheletrico del mondo.

12. Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria, e il camminare accanto ci aveva illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inesper-ta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei pa-norami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i pas-si e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. “È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden.” Noi guardavamo intorno: doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’ama-

rezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo.

13. Ero sotto l’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce san-guigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una porta si era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava nello sfarzo di un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reg-gendo la testa una matrona, gli occhi bruni vivaci, le mammelle enormi: accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata e fine, i capelli recisi sulla fronte, con grazia giovanile, le gambe lisce e ignude dalla vestaglia sma-gliante: e sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle immagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei pensierosa negli occhi giovani. Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena. Già era tardi, fummo soli e tra noi nacque una intimità libera e la matrona dagli occhi giovani pog-giata per sfondo la mobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo peccato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per lei di curiosità irraggiungibili. “La femmina lo picchiettava tanto di baci da destra: da destra perché? Poi il piccione maschio restava sopra, immobile?, dieci minuti, perché?” Le domande restavano ancora senza risposta, allora lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato. Fin che la conversazione si era illanguidita, la voce era taciuta intorno, il mistero della voluttà aveva rivestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime agli occhi io in faccia alla tenda bianca di trina seguivo seguivo ancora delle fantasie bianche. La voce era taciuta intorno. La ruffiana era spari-ta. La voce era taciuta. Certo l’avevo sentita passare con uno sfioramen-to silenzioso struggente.

Avanti alla tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle gi-nocchia ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo.

14. Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi

somigliavano allora a medaglie siracusane e il taglio dei loro occhi era tanto perfetto che amavano sembrare immobili a contrastare armonio-samente coi lunghi riccioli bruni. Era facile incontrarle la sera per le vie cupe (la luna illuminava allora le strade) e Faust alzava gli occhi ai comi-gnoli delle case che nella luce della luna sembravano punti interrogativi e restava pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano. Dalla vecchia taverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva udire tra i calmi conversari dell’inver- no bolognese, frigido e nebuloso come il suo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della fiamma sull’ocra delle volte i passi frettolosi sotto gli archi prossimi. Amava allora raccogliersi in un canto mentre la giovine ostessa, rosso il guarnello e le belle gote sotto la pettinatura fumosa passava e ripassava davanti a lui. Faust era giovane e bello. In un giorno come quello, dalla saletta tappezzata, tra i ritornelli degli organi automatici e una decorazione floreale, dalla sa-letta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno. Oh! ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sarti-ne levigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso”. Ero bello di tormento, inquieto pallido asse-tato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infi-nito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchiettìi le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi, per sentieri di chiarìe salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero. Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi. Il torrente mi raccontava oscuramente la storia. Io fisso tra le lance im-mobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste forse fissavo le nubi che sembravano attardarsi curiose un istante su quel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le lance immobili degli abeti. E povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di

riflettere un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d’amore.

15. Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lun-ghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio. Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chioma profusa, un corpo ranto-lante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda.

16. E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orge si crearono avanti al mio spirito. Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte. Credetti di udire fremere le chi-tarre là nella capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi della citta, men-tre una candela schiariva il terreno nudo. In faccia a me una matrona selvaggia mi fissava senza batter ciglio. La luce era scarsa sul terreno nudo nel fremere delle chitarre. A lato sul tesoro fiorente di una fanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata come un ragno mentre pareva. sussurrare all’orecchio parole che non udivo, dolci come il vento senza parole della Pampa che sommerge. La matrona selvaggia mi aveva pre-so: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce era più scarsa sul terreno nudo nell’alito metallizzato delle chitarre. A un tratto la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma

augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invi-tando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge nell’ombra.II

- Il viaggio e il ritorno

1. Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitària troneggia- va ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevo- li luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.

2. Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velarii della luce

io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolo la mia pristina lampada instella il mio cuor vago di ricordi ancora. Volti, volti cui risero gli occhi a fior del sogno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno che inghirlandai di fervore: o fragili rime, o ghirlande d’amori notturni... Dal giardino una canzone si rompe in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo.

3. O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mam-melle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, ali-tarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole! Aprimmo la finestra al cielo nottur-no. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorge-va nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.

III - Fine1. Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affon-

da uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le ru-ghe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito. Governa una donna matura addolcita da una vita d’amore con un sorriso con un vago bagliore che è negli occhi il ricordo delle lacrime della voluttà. Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie mul-ticolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi. La portiera guarda la porta d’argento. Fuori è la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti.

La chimera

Non so se tra rocce il tuo pallidoViso m’apparve, o sorrisoDi lontananze ignoteFosti, la china eburneaFronte fulgente o giovineSuora de la Gioconda:O delle primavereSpente, per i tuoi mitici palloriO Regina o Regina adolescente:Ma per il tuo ignoto poemaDi voluttà e di doloreMusica fanciulla esangue,Segnato di linea di sangueNel cerchio delle labbra sinuose,Regina de la melodia:Ma per il vergine capoReclino, io poeta notturnoVegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,Io per il tuo dolce misteroIo per il tuo divenir taciturno.Non so se la fiamma pallidaFu dei capelli il viventeSegno del suo pallore,Non so se fu un dolce vapore,Dolce sul mio dolore,Sorriso di un volto notturno:Guardo le bianche rocce le mute fonti dei ventiE l’immobilità dei firmamentiE i gonfii rivi che vanno piangenti

E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algentiE ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correntiE ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Giardino autunnale (Firenze)

Al giardino spettrale al lauro mutoDe le verdi ghirlandeA la terra autunnaleUn ultimo saluto!A l’aride pendiciAspre arrossate nell’estremo soleConfusa di rumoriRauchi grida la lontana vita:Grida al morente soleChe insanguina le aiole.S’intende una fanfaraChe straziante sale: il fiume spareNe le arene dorate: nel silenzioStanno le bianche statue a capo i pontiVolte: e le cose già non sono più.E dal fondo silenzio come un coroTenero e grandiosoSorge ed anela in alto al mio balcone:E in aroma d’alloro,In aroma d’alloro acre languente,Tra le statue immortali nel tramontoElla m’appar, presente.

La speranza (sul torrente notturno)

Per l’amor dei poetiPrincipessa dei sogni segretiNell’ali dei vivi pensieri ripeti ripetiPrincipessa i tuoi canti:O tu chiomata di muti cantiPallido amor degli errantiSoffoca gli inestinti piantiDa’ tregua agli amori segreti:Chi le taciturne porteGuarda che la NotteHa aperte sull’infinito?Chinan l’ore: col sogno vanitoChina la pallida Sorte . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Per l’amor dei poeti, porteAperte de la morteSu l’infinito!Per l’amor dei poetiPrincipessa il mio sogno vanitoNei gorghi de la Sorte!

L’invetriata

La sera fumosa d’estateDall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombraE mi lascia nel cuore un suggello ardente.Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi haA la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso lalampada? - c’èNella stanza un odor di putredine: c’èNella stanza una piaga rossa languente.Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’èNel cuore della sera c’è,Sempre una piaga rossa languente.

Il canto della tenebra

La luce del crepuscolo si attenua:Inquieti spiriti sia dolce la tenebraAl cuore che non ama più!Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,Sorgenti, sorgenti che sannoSorgenti che sanno che spiriti stannoChe spiriti stanno a ascoltare...Ascolta: la luce del crepuscolo attenuaEd agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:Ascolta: ti ha vinto la Sorte:Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la MortePiù Più PiùIntendi chi ancora ti culla:Intendi la dolce fanciullaChe dice all’orecchio: Più PiùEd ecco si leva e scompareIl vento: ecco torna dal mareEd ecco sentiamo ansimareIl cuore che ci amò di più!Guardiamo: di già il paesaggioDegli alberi e l’acque è notturnoIl fiume va via taciturno...Pùm! mamma quell’omo lassù!

La sera di fieraIl cuore stasera mi disse: non sai?La rosabruna incantevoleDorata da una chioma bionda:E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperialeIncantava la roseaFreschezza dei mattini:E tu seguivi nell’ariaLa fresca incarnazione di un mattutino sogno:E soleva vagare quando il sognoE il profumo velavano le stelle(Che tu amavi guardar dietro i cancelliLe stelle le pallide notturne):Che soleva passare silenziosaE bianca come un volo di colombeCerto è morta: non sai?Era la notteDi fiera della perfida BabeleSalente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiammaIn lubrici fischi grotteschiE tintinnare d’angeliche campanelleE gridi e voci di prostituteE pantomime d’OfeliaStillate dall’umile pianto delle lampade elettriche

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Una canzonetta volgaruccia era mortaE mi aveva lasciato il cuore nel doloreE me ne andavo errando senz’amoreLasciando il cuore mio di porta in porta:Con Lei che non è nata eppure è mortaE mi ha lasciato il cuore senz’amore:Eppure il cuore porta nel dolore:Lasciando il cuore mio di porta in porta.

La petite promenade du poète

Me ne vado per le stradeStrette oscure e misteriose:Vedo dietro le vetrateAffacciarsi Gemme e Rose.Dalle scale misterioseC’è chi scende brancolando:Dietro i vetri rilucentiStan le ciane commentando.

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La stradina è solitaria:Non c’è un cane qualche stellaNella notte sopra i tetti:E la notte mi par bella.E cammino poverettoNella notte fantasiosa,Pur mi sento nella boccaLa saliva disgustosa. Via dal tanfoVia dal tanfo e per le stradeE cammina e via cammina,Già le case son più rade.Trovo l’erba, mi ci stendoA conciarmi come un cane:Da lontano un ubriacoCanta amore alle persiane.

I - La Verna (Diario)15 Settembre (per la strada di Campigno)

Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I com-plimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume. . . . . . . . . .

Castagno, 17 Settembre

La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde al-terne del sole non riescono a diradare. La pioggia à reso cupo il grigio delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamber-ghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piace-voli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il pae-saggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un can-to, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute. Il canto fu breve: una pausa, un commento improvvi-

so e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo.

Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalin-go di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e au-stero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano le erbe del camposanto.

Sulla Falterona (Giogo)

La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Faltero-na che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia die-tro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) Campigna, foresta della Falterona (Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli abeti.) Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il mistero assopito della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza stupore come se le profondità selvagge dello sprone l’attendessero le-

varsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana fac-cia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospiro della vita notturna delle selve.

Stia, 20 Settembre

Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lon-tani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua:

Comme deux ennemis rompusQue leur haine ne soutient plusEt qui laissent tomber leurs armes!

21 Settembre (presso la Verna)

Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco

grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa. Incante-volmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offer-sero acqua. “In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole.” Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ra-gazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.

Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri natu-rali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui. Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.

22 Settembre (La Verna)

“Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatri-ce. 20 Agosto 189...” Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lonta-no da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato!

Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofon-da in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo: . . . . . . . . .

stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla na-tura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italia-no. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dal-l’invetriata prossima nella penembra della cappella. Acquistano allora quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il so-gno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le ve-dette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno:

come in un sogno cavalleresco!

Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, fa-celle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode né il frusciare della massa oscura né il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chie-setta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore.

II - Ritorno

SALGO (nello spazio, fuori del tempo)L’acqua il ventoLa sanità delle prime cose Il lavoro umano sull’elementoLiquido - la natura che conduceStrati di rocce su strati - il ventoChe scherza nella valle - ed ombra del ventoLa nuvola - il lontano ammonimentoDel fiume nella valle E la rovina del contrafforte - la franaLa vittoria dell’elemento - il ventoChe scherza nella valle.Su la lunghissima valle che sale in scaleLa casetta di sasso sul faticoso verde:La bianca immagine dell’elemento.La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche.

L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l’avan-guardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su se stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco. Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco

profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.

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Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica, della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pianto: come è dolce quando tu assistevi alla scena di dolore della madre, della madre che aveva morto l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginoc-chiata cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia: e già dimentica dell’amor del poeta.

Monte Filetto, 25 Settembre

Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guar-dare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua

cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi.

Presso Campigno (26 Settembre)

Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuo-le l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui vera-mente la regina del paesaggio.

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Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi e colline.

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Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che con-solano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggiti-vo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude rocce, fresca ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore del-l’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro crepuscolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra è il canto dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’elemento nello splendore nero degli occhi delle vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna... Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua

faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sile-no? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra...

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Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro.

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Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, don-na adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bi-zantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dora-ta, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di nobiltà umana antica Romagna.

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L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora.

Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba.

Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è tra-scorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la pri-ma volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è

scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’ombra...

Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.

Marradi (Antica volta. Specchio velato)

Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un trian-golo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’az-zurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi!

Presso Marradi (ottobre)

Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia stanza che affronta i venti: e la... e il figlio, povero uccellino dai tratti dolci e dall’ani-ma indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta, e il vento che batte alla finestra dall’orizzonte annuvolato, i monti lontani ed alti, il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve... La padrona zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale. Fine del pellegrinaggio.

Immagini del viaggio e della montagna... poi che nella sorda lotta notturnaLa più potente anima seconda ebbe frante le nostre cateneNoi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:Come ombre d’eroi veleggiavano:De l’alba non ombre nei puri silenziiDe l’albaNei puri pensieriNon ombreDe l’alba non ombre:Piangendo: giurando noi fede all’azzurro

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Pare la donna che siede pallida giovine ancoraSopra dell’erta ultima presso la casa antica:Avanti a lei incerte si snodano le valliVerso le solitudini alte de gli orizzonti:La gentile canuta il cuculo sente a cantare.E il semplice cuore provato negli anniA le melodie della terraAscolta quieto: le noteGiungon, continue ambigue come in un velo di seta.Da selve oscure il torrenteSorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocceLambe ed involge aereo cilestrino...E il cuculo cola più lento due note velateNel silenzio azzurrino

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L’aria ride: la tromba a valle i montiSquilla: la massa degli scorridori

Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuoriBalzano: e grida ed oltrevarca i ponti.E dalle altezze agli infiniti alboriVigili, calan trepidi pei monti,Tremuli e vaghi nelle vive fonti,Gli echi dei nostri due sommessi cuori...Hanno varcato in lunga teoria:Nell’aria non so qual bacchico canto.Salgono: e dietro a loro il monte introna:. . . . . .E si distingue il loro verde canto.

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Andar, de l’acque ai gorghi, per la chinaValle, nel sordo mormorar sfiorato:Seguire un’ala stanca per la chinaValle che batte e volge: desolatoAndar per valli, in fin che in azzurrinaSerenità, dall’aspre rocce datoUn Borgo in grigio e vario torreggiareAll’alterno pensier pare e dispare,Sovra l’arido sogno, serenato!O se come il torrente che rovinaE si riposa nell’azzurro eguale,Se tale a le tue mura la proclinaAnima al nulla nel suo andar fatale,Se alle tue mura in pace cristallinaTender potessi, in una pace uguale,E il ricordo specchiar di una divinaSerenità perduta o tu immortaleAnima! o Tu!

Viaggio a MontevideoIo vidi dal ponte della naveI colli di SpagnaSvanire, nel verdeDentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celandoCome una melodia:D’ignota scena fanciulla solaCome una melodiaBlu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...Illanguidiva la sera celeste sul mare:Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’aleVarcaron lentamente in un azzurreggiare:...Lontani tinti dei varii coloriDai più lontani silenzi!Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la naveGià cieca varcando battendo la tenebraCoi nostri naufraghi cuoriBattendo la tenebra l’ale celeste sul mare.Ma un giornoSalirono sopra la nave le gravi matrone di SpagnaDa gli occhi torbidi e angeliciDai seni gravidi di vertigine. QuandoIn una baia profonda di un’isola equatorialeIn una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturnoNoi vedemmo sorgere nella luce incantataUna bianca città addormentataAi piedi dei picchi altissimi dei vulcani spentiNel soffio torbido dell’equatore: finchéDopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervoreNoi lasciammo la città equatoriale

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La messe, intesa al misterioso coroDel vento, in vie di lunghe onde tranquilleMuta e gloriosa per le mie pupilleDiscioglie il grembo delle luci d’oro.O Speranza! O Speranza! a mille a milleSplendono nell’estate i frutti! un coroCh’è incantato, è al suo murmure, canoroChe vive per miriadi di faville!...Ecco la notte: ed ecco vigilarmiE luci e luci: ed io lontano e solo:Quieta è la messe, verso l’infinito(Quieto è lo spirto) vanno muti carmiA la notte: a la notte: intendo: SoloOmbra che torna, ch’era dipartito...

Verso l’inquieto mare notturno.Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le naviGravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzinaUna fanciulla della razza nuova,Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di[un giorno che apparveLa riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:E vidi come cavalleVertiginose che si scioglievano le duneVerso la prateria senza fineDeserta senza le case umaneE noi volgemmo fuggendo le dune che apparveSu un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,Del continente nuovo la capitale marina.Limpido fresco ed elettrico era il lumeDella sera e là le alte case parevan deserteLaggiù sul mar del pirataDe la città abbandonataTra il mare giallo e le dune

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Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici

Faccia, zig zag anatomico che oscuraLa passione torva di una vecchia lunaChe guarda sospesa al soffittoIn una taverna café chantantD’America: la rossa velocitàDi luci funambola che tangaSpagnola cinerinaIsterica in tango di luci si disfà:Che guarda nel café chantantD’America:Sul piano martellato treFiammelle rosse si sono accese da sé.

Firenze (Uffizii)

Entro dei ponti tuoi multicoloriL’Arno presago quietamente arenaE in riflessi tranquilli frange appenaArchi severi tra sfiorir di fiori.

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Azzurro l’arco dell’intercolonnoTrema rigato tra i palazzi eccelsi:Candide righe nell’azzurro: persiVoli: su bianca gioventù in colonne.

Ne la naveChe si scuote,Con le navi che percuoteDi un’auroraSulla proraSplende un occhioIncandescente:(Il mio passoSolitarioBeve l’ombraPer il Quai)Ne la luceUniformeDa le naviA la cittàSolo il passoChe a la notteSolitarioSi percuotePer la notteDalle naviSolitarioRipercuote:Così vastaCosì ambiguaPer la notteCosì pura!L’acqua (il mareChe n’esala?)

A le rotteNe la notteBatte: ciecoPer le rotteDentro l’occhioDisumanoDe la notteDi un destinoNe la nottePiù lontanoPer le rotteDe la notteIl mio passoBatte botte.

Batte botte

FirenzeFiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le mattine di primavera

sull’Arno. La grazia degli adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua grazia d’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I pollini del desiderio gravi da tutte le forme scultoree della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dalle bianche forme della bellezza: mentre pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche!

VARIE E FRAMMENTI

BARCHE AMORRATE

. . . . . . . . . . . . . .Le vele le vele le veleChe schioccano e frustano al ventoChe gonfia di vane sequeleLe vele le vele le vele! 5Che tesson e tesson: lamentoVolubil che l’onda che ammorzaNe l’onda volubile smorza...Ne l’ultimo schianto crudele...Le vele le vele le vele 10

FRAMMENTO(Firenze). . . . . . . . . . . . . . . .Ed i piedini andavano armoniosiPortando i cappelloni battaglieriChe armavano di un’ala gli occhi fieriDel lor languore solo nel bel giorno: 5. . . . . . . . . . . . . . . .Scampanava la Pasqua per la via...... . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

PAMPA

Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa. – Le tende si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria notturna. – Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con re-frigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del silenzio purissimo e stellato.

Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda.

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi anda-vo abbandonando tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommer-gersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare. Drammi meravigliosi, i più meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano a traverso le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa la fine di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sem-brava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni. . . .

Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano profumato irrag-giando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria. Il teschio che si levava lentamente era l’insegna formidabile di un esercito che lanciava torme di cavalieri colle lancie in resta, acutissime lucenti: gli indiani morti e vivi si lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo. Le erbe piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio. La

commozione del silenzio intenso era prodigiosa.

Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvole e le stelle, fug-givano: mentre che dalla Pampa nera scossa che sfuggiva a ratti nella selvaggia nera corsa del vento ora più forte ora più fievole ora come un lontano fragore ferreo: a tratti alla malinconia più profonda dell’errante un richiamo:... dalle criniere dell’erbe scosse come alla malinconia più profonda dell’eterno errante per la Pampa riscossa come un richiamo che fuggiva lugubre.

Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente irresistibile.

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Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribù indiane? Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nel mentre che il rumore lugu-bre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino. Poi la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di fer-ro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi. La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo. Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti per la prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio.

La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinita-mente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce

calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Ora asso-pito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabil-mente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.

IL RUSSO(Da una poesia dell’epoca)

Tombé dans l’enferGrouillant d’ëtres humainsO Russe tu m’apparusSoudain, céléstialParmi de la clameur 5Du grouillement brutald’une lâche humanitéSe pourrissante d’elle même.Se vis ta barbe blondeFulgurante au coin 10Ton âme je vis aussiPar le gouffre ré jetéeTon âme dans l’étreinteL’étreinte désespéréeDes Chimères fulgurantes 15Dans le miasme humain.Voilà que tu ecc. ecc.

In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri umani ero

rigettato come da onde ostili. Camminavano velocemente come pazzi, ciascuno assorto in ció che formava l’unico senso della sua vita: la sua colpa. Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente.

***

«Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il ter-rore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide.» Parlava: quando, mentre mi fissava cogli occhi spaventati e vuoti, io cercando in fondo degli occhi grigioopachi uno sguardo, uno sguardo mi parve di distin-guere, che li riempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, come di meraviglia.

***

Il Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiuso, affamato, spiato implacabilmente, doveva confessare, aveva confessato. E il sup-plizio del fango! Colla loro placida gioia i frati, col loro ghigno muto i delinquenti gli avevano detto quando con una parola, con un gesto, con un pianto irrefrenabile nella notte aveva volta a volta scoperto un po’ del suo segreto! Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di torrente sassoso del continuo strisciare dei passi.

***

Erano i primi giorni che la primavera si svegliava in Fiandra. Dalla ca-merata a volte (la camerata dei veri pazzi dove ora mi avevano messo), oltre i vetri spessi, oltre le sbarre di ferro, io guardavo il cornicione pro-filarsi al tramonto. Un pulviscolo d’oro riempiva il prato, e poi lontana la linea muta della città rotta di torri gotiche. E così ogni sera coricandomi nella mia prigionia salutavo la primavera. E una di quelle sere seppi: il

Russo era stato ucciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città par-ve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto. Chiusi le pal-pebre, restai lungamente senza pensiero: quella sera non chiesi altro. Vidi che intorno si era fatto scuro. Nella camerata non c’era che il tanfo e il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere. Col capo affondato sul guanciale seguivo in aria delle farfalline che scherzavano attorno alla lampada elettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza acuta, una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi. Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La penna scorreva strideva spasmodica. Perché era uscito per salvare altri uo-mini? Un suo ritratto di delinquente, un insensato, severo nei suoi abiti eleganti, la testa portata alta con dignità animale: un altro, un sorriso, l’immagine di un sorriso ritratta a memoria, la testa della fanciulla d’Este. Poi teste di contadini russi teste barbute tutte, teste, teste, ancora teste. . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .La penna scorreva strideva spasmodica: perchè era uscito per salvare

altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo scrive-va, scriveva scriveva. . . . . . .

***

Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i delinquenti politici avevano compito l’ufficio i Frati della Carità Cristiana.

PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA E RITORNO

Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enor-mi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo

alla piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.

Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero portato lontano nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come in una nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. La lanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il bat-tito forte nei fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e ne svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un bub-bone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi pareva musi-cale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal ter-remoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia bef-farda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarra che la scuotono!

C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo della leg-gera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a BuenosAires: questo dava allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornio-ne! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso mi dava..., basta: i giorni passavano. Tra i sacchi di patate avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tra-monto che illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno. Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando l’acqua saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiato in co-perta restavo a guardare gli alberi dondolare nella notte tiepida in mezzo al rumore dell’acqua.......... Riodo il preludio scordato delle rozze corde

sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente file umane, formiche dell’enorme ossario. Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividisce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti fugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.

L’INCONTRO DI REGOLO

Ci incontrammo nella circonvallazione a mare. La strada era deser-ta nel calore pomeridiano. Guardava con occhio abbarbagliato il mare. Quella faccia, l’occhiostrabico! Si volse: ci riconoscemmo immediata-mente. Ci abbracciammo. Come va? Come va? A braccetto lui voleva condurmi in campagna: poi io lo decisi invece a calare sulla riva del mare. Stesi sui ciottoli della spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornato d’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e il primo, per la strada di Pavia, lui scalcagnato, col collettone alle orecchie! Ancora il diavolo ci aveva riuniti: per quale perchè? Cuori leggeri noi non pensammo a chie-dercelo. Parlammo, parlammo, finchè sentimmo chiaramente il rumore delle onde che si frangevano sui ciottoli della spiaggia. Alzammo la fac-cia alla luce cruda del sole. La superficie del mare era tutta abbagliante. Bisognava mangiare. Andiamo!

***

Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esi-tazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragio-ne. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti tra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo!

***

Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore, scialacquatore, con in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso sul fenomeno, toccando con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire.

***

Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva ancora la faccia a destra atona e contratta e sulla guancia destra il solco di una lacrima ma di una lagrima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso: voleva partire.

***

Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rive-devo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sè sereno.

***

Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa as-surda ragione e ci lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo, senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’ir-reparabile.

SCIROCCO(Bologna)

Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi

la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano nella chiarità argentea dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato. Tutto attorno la città mo-strava le sue travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida ancora della pioggia recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine di un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai dopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco sembravano ancora giungere in soffi caldi e lontani di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva dell’orizzonte. Si sentiva l’attesa. In un brusìo di voci tranquille le voci argentine dei fanciulli dominavano liberamente nell’aria. La città riposava del suo fa-ticoso fervore. Era una vigilia di festa: la Vigilia di Natale. Sentivo che tutto posava: ricordi speranze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo laggiù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello Scirocco mi beavo dei suoi soffii tenui. Vedevo la nebulosità invernale che fuggiva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano laggiù sul lastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiarità perlacea dei visi fem-minili trionfanti negli occhi dolci e cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo me-lodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale: poi guardavo le torri rosse dalle travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte sull’infinito.

Era la Vigilia di Natale.

Ero uscito: Un grande portico rosso dalle lucerne moresche: dei libri che avevo letti nella mia adolescenza erano esposti a una vetrina tra le stampe. In fondo la luminosità marmorea di un grande palazzo moder-no, i fusti d’acciaio curvi di globi bianchi ai quattro lati. La piazzetta di S. Giovanni era deserta: la porta della prigione senza le belle fanciulle del popolo che altre volte vi avevo viste.

Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti, nella scia bianca del suo pennacchio una figura giovine, gli occhi grigi, la bocca dalle linee rosee tenui, passò nella vastità luminosa del cielo. Sbiancava nel cielo

fumoso la melodia dei suoi passi. Qualche cosa di nuovo, di infantile, di profondo era nell’aria commossa. Il mattone rosso ringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi, condensati in ombre di dolore virgineo, che passavano nel suo torbido sogno: (contigui uguali gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline fuori della porta): poi una grande linea che apparve passò: una grandiosa, virginea testa reclina d’ancella mossa di un passo giovine non domo alla cadenza, offrendo il contorno della mascella rosea e forte e a tratti la luce obliqua dell’occhio nero al disopra dell’omero servile, del braccio, onusti di giovinezza: muta.

***

(Le serve ingenue affaccendate colle sporte colme di vettovaglie va-gavano pettinate artifiziosamente la loro fresca grazia fuori della porta. Tutta verde la campagna intorno. Le grandi masse luminose degli alberi gravavano sui piccoli colli, la loro linea nel cielo aggiungeva un carattere di fantasia: la luce, un organetto che tentava la La stampa del testo ori-ginale, a questo punto, è mal riuscita creando una lacuna che Campana colma inserendo la nota che è possibile vedere nell’ultima pagina del volume. Il testo qui avrebbe dovuto riportare: «una grandiosa, virginea testa reclina d’ancella mossa».• modesta poesia del popolo sotto una ciminiera altissima sui terreni vaghi, tra le donne variopinte sulle porte: le contrade cupe della città tutte vive di tentacoli rossi: verande di torri dalle travature enormi sotto il cielo curvo: gli ultimi soffii di riflessi caldi e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno: solo coi passeri intorno che si commossero in breve volteggio attorno al lago Leonardesco.)

CREPUSCOLO MEDITERRANEO

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esalta-no, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che

non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi pò dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si cova? Mentre dalle volte un altro mito si cova che illumina solitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoli verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ecco che sul tuo porto fumoso di molli cordami dorati, per le tue vie mi appaiono in grave incesso giovani forme, di già presaghe al cuore di una bellezza immor-tale appaiono rilevando al passo un lato della persona gloriosa, del puro viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre all’incesso della dea. Profumi varii gravavano l’aria, l’accordo delle chi-tarre si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via che ripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe prometteva-no vini d’oriente dal profondo splendore opalino mentre a me trepidante la vita passava avanti nelle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto, balbettìo del mare subito spento all’angolo di una via: spento, apparso e subito spento! Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite sui muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a un più antico ricordo di gloria e di gioia. Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all’angolo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica no-biltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di marmo si attorcono in se stessi con bizzarria. La grande finestra verde chiude nel segreto delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la via barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa convenziona-le mentre che sulla via le perfide fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e di luce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali teatrali e pare fuggano cacciate verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia barocca: mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute degli angioli che riempie la via.

PIAZZA SARZANO

A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate. Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle risa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera che cela una campa-na: mentre, accanto, una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua ed acqua senza fretta, nella vetta con il busto di un savio imperatore: acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un savio imperatore romano. Un vertice colorito dall’altra parte della piazza mette quadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata mette quadretta svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiare, sopra dei vicoli il velo rosso del roso mattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio. L’oblio così caro alla statua del pagano imperatore sopra la cupoletta dove l’acqua zampilla senza fretta sotto lo sguardo cieco del savio im-peratore romano.

***

Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di un’immobilità di gioia inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra: in mezzo alla piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. E’ la notte mediterranea.

***

Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza accesa sul corroso mattone sù a capo dei vicoli gonfi cupi tortuosi palpitanti di fiam-me. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentre nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede

imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza. La via si torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleggiano anco-ra tra lo svariare del verde e si scorge in fondo il trofeo della V. M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria.

GENOVA

Poi che la nube si fermò nei cieliLontano sulla tacita infinitaMarina chiusa nei lontani veli,E ritornava l’anima partitaChe tutto a lei d’intorno era già arcanamenteillustrato del giardino il verdeSogno nell’apparenza sovrumanaDe le corrusche sue statue superbe:E udìi canto udìi voce di poetiNe le fonti e le sfingi sui frontoniBenigne un primo oblìo parvero ai proniUmani ancor largire: dai segretiDedali uscìi: sorgeva un torreggiareBianco nell’aria: innumeri dal mareParvero i bianchi sogni dei mattiniLontano dileguando incatenareCome un ignoto turbine di suono.Tra le vele di spuma udivo il suono.Pieno era il sole di Maggio.

***

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea Dila-ga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare: Genova canta il tuo canto!

***

Entro una grotta di porcellanaSorbendo caffèGuardavo dall’invetriata la folla salire veloceTra le venditrici uguali a statue, porgentiFrutti di mare con rauche grida cadentiSu la bilancia immota:Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperialeSu per l’erta tumultuanteVerso la porta disserrataContro l’azzurro serale,Fantastica di trofeiMitici tra torri nude al sereno,A te aggrappata d’intornoLa febbre de la vitaPristina: e per i vichi lubrici di fanali il cantoInstornellato de le prostituteE dal fondo il vento del mar senza posa.

***

Per i vichi marini nell’ambiguaSera cacciava il vento tra i fanaliPreludii dal groviglio delle navi:I palazzi marini avevan bianchiArabeschi nell’ombra illanguiditaEd andavamo io e la sera ambigua:Ed io gli occhi alzavo su ai milleE mille e mille occhi benevoliDelle Chimere nei cieli:. . . . . .Quando,MelodiosamenteD’alto sale, il vento come bianca finse una visione diGrazia

Come dalla vicenda infaticabileDe le nuvole e de le stelle dentro del cielo seraleDentro il vico marino in alto sale,. . . . . .Dentro il vico chè rosse in alto saleMarino l’ali rosse dei fanaliRabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .Che nel vico marino, in alto saleChe bianca e lieve e querula salì!«Come nell’ali rosse dei fanaliBianca e rossa nell’ombra del fanaleChe bianca e lieve e tremula salì: .....»Ora di già nel rosso del fanaleEra già l’ombra faticosamenteBianca. . . . . . . .Bianca quando nel rosso del fanaleBianca lontana faticosamenteL’eco attonita rise un irrealeRiso: e che l’eco faticosamenteE bianca e lieve e attonita salì. . . . .Di già tutto d’intornoLucea la sera ambigua:Battevano i fanaliIl palpito nell’ombra.Rumori lontano franavanoDentro silenzii solenniChiedendo: se dal mareIl riso non saliva. . .Chiedendo se l’udivaInfaticabilmenteLa sera: a la vicendaDi nuvole là in altoDentro del cielo stellare.

***

Al porto il battello si posa

Nel crepuscolo che brillaNegli alberi quieti di frutti di luce,Nel paesaggio miticoDi navi nel seno dell’infinitoNe la seraCalida di felicità, lucenteIn un grande in un grande velarioDi diamanti disteso sul crepuscolo,In mille e mille diamanti in un grande velario viventeIl battello si scaricaIninterrottamente cigolante,Instancabilmente intronaE la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul moloCorrono i fanciulli e gridanoCon gridi di felicità.Già a frotte s’avventuranoI viaggiatori alla città tonanteChe stende le sue piazze e le sue vie:La grande luce mediterraneaS’è fusa in pietra di cenere:Pei vichi antichi e profondiFragore di vita, gioia intensa e fugace:Velario d’oro di felicitàÈ il cielo ove il sole ricchissimoLasciò le sue spoglie prezioseE la Città comprendeE s’accendeE la fiamma titilla ed assorbeI resti magnificenti del sole,E intesse un sudario d’oblioDivino per gli uomini stanchi.Perdute nel crepuscolo tonanteOmbre di viaggiatoriVanno per la SuperbaTerribili e grotteschi come i ciechi.

***

Vasto, dentro un odor tenue vanitoDi catrame, vegliato da le luneElettriche, sul mare appena vivoIl vasto porto si addorme.S’alza la nube delle ciminiereMentre il porto in un dolce scricchiolìoDei cordami s’addorme: e che la forzaDorme, dorme che culla la tristezzaInconscia de le cose che sarannoE il vasto porto oscilla dentro un ritmoAffaticato e si senteLa nube che si forma dal vomito silente.

***

O Siciliana proterva opulente matronaA le finestre ventose del vico marinaroNel seno della città percossa di suoni di navi e di carriClassica mediterranea femina dei porti:Pei grigi rosei della città di ardesiaSonavano i clamori vespertiniE poi più quieti i rumori dentro la notte serena:Vedevo alle finestre lucenti come le stellePassare le ombre de le famiglie marine: e cantiUdivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:Ch’era la notte fonda.Mentre tu siciliana, dai caviVetri in un torto giuocoL’ombra cava e la luce vacillanteO siciliana, ai capezzoliL’ombra rinchiusa tu eriLa Piovra de le notti mediterranee.Cigolava cigolava cigolava di cateneLa grù sul porto nel cavo de la notte serena:

E dentro il cavo de la notte serenaE nelle braccia di ferroIl debole cuore batteva un più alto palpito: tuLa finestra avevi spenta:Nuda mistica in alto cavaInfinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.

They were all tornand cover’d withthe boy’sblood

Ringrazio i signori sottoscrittori, gli amici che mi hanno incoraggiato ed anche, last not least, il coscienzioso coraggioso e paziente stampatore sig. Bruno Ravagli

Dino Campana

Note biografiche

Dino Campana era figlio di Giovanni, insegnante di scuola elementare, uomo per bene ma di carattere debole e nevrotico, e di Fanny Luti, donna compulsiva e severa, affetta da mania deambulatoria, attaccata in modo morboso al figlio Manlio, fratello minore di Dino, natole nel 1887.

Trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno a Marradi ma, a circa quindici anni di età, gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi che non gli impediranno comunque di frequentare i vari cicli di scuola.

Egli compie le elementari a Marradi, la terza, quarta e quinta ginnasio presso il colle-gio dei Salesiani di Faenza, poi gli studi liceali in parte presso il Liceo Torricelli [1] della stessa città, in parte a Carmagnola in Piemonte presso il regio liceo Baldessano, dove consegue il diploma; ma quando rientra a Marradi, le crisi nervose si acutizzano come pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto con la madre) e il paese.

Nel 1904 frequenta la scuola per ufficiali di complemento a Ravenna, poi, non su-perando l’esame per sergente, si iscrive presso l’Università di Bologna, alla Facoltà di chimica pura, per passare - l’anno seguente - alla Facoltà di chimica farmaceutica a Firenze, ma non riesce a portare a termine la sua carriera universitaria e ha difficoltà a trovare un ordine interiore e una sua vera identificazione. Il suo unico punto di riferi-mento è la poesia e alla poesia dedicherà e sacrificherà - tra esaltazione e disperata follia - i suoi giorni.

La “fuga”Egli espresse la sua “diversità” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi

ad una vita errabonda. La prima reazione della famiglia e del paese, e poi dell’autorità pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della sua pazzia. Ad ogni sua “fuga”, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri dove face-va i mestieri più disparati per sostenersi, seguiva, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi e per le incertezze dei familiari), il ricovero in manicomio.

Tra il maggio e il luglio del 1906, Campana compie una prima fuga in Svizzera e in Francia che si conclude con l’arresto a Bardonecchia e il ricovero ad Imola.

Dino durante i periodi di soggiorno a Marradi, specie nella stagione invernale, per

ovviare alla monotonia delle serate marradesi era solito recarsi a “Gerbarola”, una località poco distante da Marradi, dove con gli abitanti del luogo passava qualche ora mangiando le caldarroste, localmente appellate con il nome di “bruciati” (le castagne sono infatti il frutto tipico di Marradi). Questo tipo di svago sembrava avere effetti posi-tivi riguardo i suoi disturbi psichici.

Nel 1907, i genitori di Campana non sanno più che fare di fronte alla follia del figlio e lo mandano in America Latina presso una famiglia di compaesani emigrati (forse dei parenti). Non si tratta di una “fuga” del poeta, che non avrebbe potuto ottenere da solo un passaporto per il Nuovo Mondo in quanto era già ritenuto ufficialmente “pazzo”. È la sua famiglia a procurargli il passaporto e ad organizzargli il viaggio, e Dino parte per la paura di dover tornare in manicomio. I coniugi Campana sostengono di averlo manda-to in America con la speranza che questo viaggio lo potesse guarire, ma sembra che il passaporto fosse valido solo per l’andata, per cui si trattò probabilmente (anche) di un tentativo di sbarazzarsi di lui, poiché la convivenza con Campana era ormai divenuta insopportabile per tutti.

Il viaggio in America rappresenta un punto particolarmente oscuro della biografia di Campana: se alcuni arrivano a chiamarlo “il poeta dei due mondi”, c’è anche chi, invece, come per esempio Ungaretti, sostiene che in America, Campana non ci andò neppure. Numerose sono anche le opinioni sulla datazione del viaggio e sulle modalità ed il tragitto del ritorno.

L’ipotesi più accreditata è che sia partito nell’autunno 1907 da Genova ed abbia va-gabondato per l’Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricompare a Marradi, dove viene arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di Firenze, parte per un viaggio in Belgio, ma viene di nuovo arrestato a Bruxelles e viene poi internato nella “maison de santé” di Tournai all’inizio del 1910. Chiede aiuto alla sua famiglia e viene rimandato a Marradi.

Canti OrficiTra il 1912 e il 1913 Campana compone i versi che diventeranno poi (dopo alterne

vicende e diverse riscritture) la sua opera più significativa: i “Canti Orfici”, una raccolta che contiene un poema in due parti (La notte), sette poesie intitolate I notturni, una prosa diaristica su di un viaggio alla Verna e altre dieci fra poesie e prose liriche. Segue una sezione di Varie che comprendono due frammenti, sette prose liriche e (in sette parti) il poemetto Genova. (In quest’ulltima sezione fu inserita dopo la morte di Campa-na una lirica di Luisa Giaconi, poetessa che l’aveva molto colpito. Questo fu dovuto ad un errore di attribuzione dell’editore, cui Campana l’aveva entusiasticamente inviata, senza menzionare con chiarezza il nome dell’autrice. Dopo alcuni anni, la poesia è stata correttamente attribuita e tolta dai Canti orfici)

Nel 1913 si reca a Firenze presentandosi nella redazione della rivista “Lacerba” a

Giovanni Papini e ad Ardengo Soffici,suo lontano parente, cui consegna il suo mano-scritto dal titolo “Il più lungo giorno”. Non viene preso in considerazione e il manoscritto va perduto (sarà ritrovato solamente, dopo sessant’anni, nel 1971, dopo la morte di Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto in cui era stato abbandonato e dimenticato). Dopo qualche mese di attesa Campana scende da Marradi a Firenze per riprendersi il suo manoscritto. Papini non lo possiede più e lo manda da Soffici che nega di aver mai avuto il libretto. Il giovane, la cui mente è già labile, si arrabbia e si dispera, vuole indietro il suo manoscritto , scrive, implora insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l’indifferenza di tutto l’ambiente culturale che gravita intorno alle Giubbe Rosse, minaccia di venire con il coltello per farsi giustizia dell’ “infame” Soffici e i suoi soci che definisce “sciacalli”. Nell’inverno del 1914, convinto di non poter più recuperare il manoscritto, Campana decide di riscrivere tutto affidandosi alla memoria, e in pochi giorni, lavorando anche di notte e a costo di un enorme sforzo riesce a riscrivere i suoi testi, sia pure con con modifiche e aggiunte. Nella primavera del 1914, Campana riesce finalmente a pubblicare a proprie spese, la raccolta, con il titolo, appunto, di “Canti Orfici”. Il 1915 lo trascorre viaggiando senza una meta fissa: Torino, Domodossola, ancora Firenze.

Nel 1916 ricerca inutilmente un impiego. Scrive a Emilio Cecchi (che sarà, insieme a Giovanni Boine[- che comprese subito l’importanza di Campana recensendo i Canti Orfici nel 1914 su “Plalusi e Botte” - e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi esti-matori) ed inizia con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontra con il giornalista Athos Gastone Banti, che scrive su di lui un articolo denigratorio sul giornale “Il Telegrafo”: si arriva quasi al duello. Nello stesso anno conosce Sibilla Aleramo, l’au-trice del romanzo Una donna ed inizia con lei una intensa e tumultuosa relazione, che si interromperà all’inizio del 1917 dopo un breve incontro nel Natale 1916 a Marradi.

Abbiamo testimonianza della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla, da un tragico carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore - Lettere 1916-1918.

Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo datata 10 giugno 1916, nel quale l’autrice esprime la sua ammirazione per i “Canti Orfici”, dichiarando di esserne stata incantata e abbagliata insieme. Sibilla era allora in vacanza nella Villa La Topaia a Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro del corpo.

Nel 1918 viene internato presso l’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Scan-dicci (Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo va a trovare per intervistarlo. Nel 1938 la casa editrice Vallecchi pubblicherà “Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore”. Dino Campana muore, sembra per una forma di set-ticemia dovuta ad una malattia mai ben chiarita, il primo marzo del 1932, la salma è

sepolta nel cimitero di San Colombano nel territorio di Scandicci.

Il 3 marzo 1942, su interessamento di Piero Bargellini la salma è tumulata nella cappella sottostante il campanile della chiesa di Badia a Settimo. Durante la seconda guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica esplosiva il campanile distruggendo nel contempo anche la cappella.

Solo nel 1946 le ossa del poeta raggiungono la loro ultima dimora, all’interno della Chiesa di Badia a Settimo.

Nel 1916 conobbe Dino Campana cui fu legata da una passione vorti-cosa, testimoniata dalle Lettere pubblicate la prima volta nel 1958. La sua seconda opera è del 1919 e si titola “Il passaggio” è una prosa liri-ca incandescente, percorsa da una tensione verbale estrema e da una sensualità accesa. Più temperate sono le pagine di “Andando stando” del 1920, di “Gioie d’occasione” e di “Orsa minore” del 1938. La temati-ca femminista è ripresa nei romanzi “Amo, dunque sono” del 1927 e “// frustino” del 1932.

Quando nel 1949 aderì al partito comunista nacquero le liriche de “Il mondo è adolescenti”; ma la poesia vera toccante e d’alto lirismo imma-ginifico culmina nella raccolta “Selva d’amore” del 1947, anche se spes-so si riduce, a testimonianza di vita. Più interessanti sono i diari “Diario di una donna” che va dal 1945 al 1960, pubblicato postumo nel 1978, e “Un amore insolito” seguito un anno più tardi, documentano i rapporti della scrittrice con i protagonisti della vita culturale del tempo: Giovanni Papini. V. Cardarelli. U. Boccioni, F. Matacotta, S. Quasimodo ecc...

Dino Campana era nato a Marradi, Firenze nel 1885 - e morto a Castel Pulci, Firenze nel 1932. Dino CampanaFin dall’adolescenza era segnato dai sintomi di una nevrosi che l’avrebbe condotto alla pazzia. Nel 1903 si iscrisse alla facoltà di chimica pura all’università di Bologna e, dopo un primo internamento nel manicomio di Imola, si recò a Parigi, dove entrò in contatto con le avanguardie artistico-letterarie. Spinto da un irrequieto nomadismo e da una concezione anarchica e avventurosa dell’esisten-za nel 1908 si reca nell’America del Sud in cerca di lavoro per vivere, dove intraprende i mestieri più strani e, intanto, percorre a piedi le città sudamericane che trasfigurerà poi nella luce della memoria e attraverso le poesie. Tornato in Italia nel 1909, dopo un nuovo ricovero nel manico-mio di Firenze, riprende gli studi di chimica, dedicandosi nel frattempo alla lettura dei poeti crepuscolari e futuristi e inoltre di E. A. Poe e di F. Nietzsche.

Nel 1913 conosce Giovanni Papini e Ardengo Soffici, cui dà in lettura il manoscritto delle sue poesie; l’amico però lo smarrisce e per tale motivo è pubblicato postumo con il titolo II più lungo giorno, nel 1973 e Campa-

Lettere di Sibilla Aleramo con Dino Campana

Sibilla Aleramo il cui vero nome è Rina Faccio, era nata ad Alessandria nel 1876 e morta a Roma nel 1960.

Una scrittrice che si formò nel clima dell’ibsenismo e del dannunziane-simo, esordì nel 1906 con il romanzo “Una donna”, una sofferta testi-monianza della donna nel suo ruolo di subalterna nella famiglia e nella società, ma vibrante di un chiaro appello femminista contro la prevari-cazione maschile. Si dedicò, insieme al poeta Giovanni Cena, ad una generosa opera d’apostolato sociale nell’agro romano.

na riscrive a memoria le sue liriche e le pubblica a proprie spese con il titolo di Canti orfici nel 1914.

Del 1916 è la sua tempestosa relazione amorosa con Sibilla Aleramo, per la quale nel 1918 è internato definitivamente nell’ospedale psichiatri-co di Castel Pulci, dove trascorre gli ultimi anni tra brevi momenti di luci-dità e vani progetti di lavoro, fino alla morte avvenuta per setticemia.

Molti suoi scritti sono stati pubblicati postumi: Inediti, nel 1942; taccuino, nel 1949; Canti orfici e altri scritti, nel 1952; Lettere, nel 1958; Taccuinet-to faentino, nel 1960; Opere e contributi, nel 1974; Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, nel 1978.

L’itinerario poetico di Dino Campana, parte da un fondo ottocentesco e raggiunge due esiti diversi: quello simbolistico-decadente, di tono visio-nario, e quello “visivo”, portato a una sontuosa decorazione e alle fram-mentarie impressioni immaginifiche del suo stato.

Il termine di “orfici”, dato da Campana ai suoi “Canti”, allude a una con-cezione simbolistica della poesia, assimilata alla voce degli antichi poeti-profeti, depositari dei segreti del mondo.

Sono canti che illuminano e illustrano sfondi di città trasognanti, che ri-chiamano velatamente affinità con la pittura di Giorgio De Chirico.

La cornice della lirica di Campana, la cui musica sconvolta procede tra frasi monche e riprese di motivi in iterazioni ossessive, al limite dell’inef-fabile. Ma all’interno dei “Canti orfici”, e soprattutto al di fuori di essi, negli scritti postumi, c’è un filone violentemente espressionistico, caratterizza-to dalla figura del poeta e da una carica di aggressività che raggiunge le sue punte estreme nell’intreccio di sensualità e di sadismo.

Da alcuni critici è considerato il caposcuola della poesia moderna, qua-si un “visionario” alla Rimbaud, e da altri un poeta melodico e visivo, musicale e cromatico. Campana sfugge a definizioni troppo rigide e na-sconde, dietro la maschera cinica e grottesca di “poeta maledetto”, una

tenera e indifesa adesione alla quotidianità, di eccezionale bontà e gen-tilezza.____________________

I Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

Questa lettera di Campana è per risposta alla prima, che Sibilla aveva scritto a Campana, dopo aver letto “Canti orfici”, che è andata perduta. La raccolta di liriche le aveva consigliate a Sibilla, Emilio Cecchi, invian-dole anche la recensione che aveva fatto su La Tribuna del 21 maggio 1916.Cecchi per questo fu coinvolto da vicino nelle vicende Aleramo-Campa-na. Per quanto riguarda l’opera di Campana Cecchi si battè con forze e determinazione perché questa si affermasse, pubblicando su vari gior-nali e riviste specializzate recensioni e commenti.

[Barco] Rifredo di Mugello [22 luglio 1916]

Egregia Sibilla

Vorrei scrivervi ma non posso. Sono orribilmente annoiato. Conoscete Walt Whitman? Non capisco come facciate a vivere a Firenze e a cono-scere certa gente. Non parlo di Cecchi che stimo e di Baldini. (Uno dei pochi amici di Dino sul quale mai si riversarono le sue ire) (n.d.r.).Studierò un tipo di voi. Bisognerebbe che avessi il vostro ritratto.

Guardatevi da S. Francesco. Una pecorella e voi? Vi preferisco cosi. Mi avete riconosciuto per italiano: credo, egregia Sibilla, che non avrò eredi. Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non esisterò più ammesso che esista ancora. Vi prego, se potete di trovarmi qualche acquirente per il mio libro. Lo invierò immediatamente. Vi bacio la mano

Dino Campana

II Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

La Topaia Borgo San Lorenzo lunedì [24 luglio 1916]

Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso sia-mo più vicini, forse. Non so dove si trovi Rifredo, non ho domandato, e tutto il Mugello m’è nuovo. Qui sono in una casa di campagna, grande, deserta. Gli ospiti me l’han lasciata durante questa loro assenza, per due settimane.

Caro Campana, sono vicina a S. Francesco perché, nata signora, mi son spogliata via via di molte cose, “felice d’esser povera ignuda” - vi parafraso. Ma non temete per il mio spirito. E ho amato Walt Whitman, come pochi altri. È già tanto tempo.

Vi mando qualche mio vecchio articolo: giornalismo, non altro. Ma in uno parlo appunto, come potevo farlo allora, con ingenua gravita, di Walt. E in un altro, più recente, di Assisi. E in un altro ancora, della Provenza e di Parigi. Poi un brano d’autobiografìa, ricordi d’infanzia Metto anche una pagina ch’è un poco più che giornalismo, e che sarei contenta se voi leggeste con adesione: è di questo inverno. Volevate il mio ritratto, e invece vi mando delle parole, stampate! Mah. Le fotografìe non mi somigliano. Ci vedremo, una volta. Dite che vorreste studiarmi come tipo. Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato qualche mio piccolo accento - e tutto il resto vi confonderà. Però siete annoiato, dubitate quasi d’esistere, mi mettete nella tremenda alterna-tiva di veder finire Campana con la guerra o di dover desiderare che la guerra si perpetui... Non vi diverto? Sono un po’ assonnata.

Ho scritto a varie persone che mandino a chiedervi il vostro libro, spero che qualcuna almeno m’ascolti. Mandatene due copie a me, ne regalerò una (con l’altra che già possiedo) e una la terrò, se ci mettete il vostro nome e il mio. Ho dato a tutti l’indirizzo di Rifredo - avvenite alla posta,

se partite. Addio. Vorrei in questi quindici giorni mandar innanzi un libro, incominciato da tanto tempo e a cui lavoro soltanto “di dentro”...

A Firenze traduco dal francese articoli di politica! Vedete che questa mia lettera non somiglia alla prima. Cosi i ritratti non mi somigliano mai. Scrivetemi.

Sibilla Aleramo

Rimandatemi poi gli articoli, vi prego, perché non ne ho altre copie.

III Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

Chiudo il tuo libro,snodo le mie treccie,o cuor selvaggio,musico cuore...

con la tua vita interasei nei tuoi canticome un addio a me.Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,liberi singhiozzando, senza mai vederci,ne mai saperci, con notturni occhi.

Or nei tuoi cantila tua vita interaè come un addio a me.

Cuor selvaggio,musico cuore,chiudo il tuo libro,le mie treccie snodo...

Sibilla AleramoMugello, 25-7-1916’.

V Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

Topaia, 28 luglio [1916] Borgo San Lorenzo

La solitudine ed io siamo buone compagne, perfino quando, come oggi, c’è un cielo pesante, e nella fattoria accanto bufonchia la “macchina”.

Ho sentito molto il vostro spirito qui attorno, in questi giorni.

Ho guardato sulla vecchia carta dov’è Firenzuola. Più su di Marradi.

Vivere un poco sotto la tenda - perché no? Sebbene sarebbe rischio-so. Devo guardarmi dal freddo e dall’umidità, dopo un attacco d’artrite che m’ha colta a tradi- mento, due o tre anni fa. Non sono più giovane, lo sapevate? Però ancora buona camminatrice - cotesta occhiata agli Apennini la darei volentieri, con voi. Quando vi dico che mi riguardo, non intendo mica conservarmi per la vecchiaia... Ma la malattia mi fa orrore, la mia santità non arriva fino ad accettar l’infermità...

Insomma, se venissi a trovarvi costassù come mi dovrei equipaggiare?

Vogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? Se non v’annoia trop-po, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o giovedì, col primo treno (8.55), e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo che ci si riconoscerebbe facilmente.

Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli che bisogna ignorare. Uomo diffidente! Se fossi una predicatrice, vi direi di imitarmi, che non ho mai fatto a nessuno, ne in terra ne in cielo, l’ono-re di chiamarlo mio “nemico”.

Ed è per diffidenza postale che m’avete scritto in francese? Non vi ven-ga in mente qualche altro giorno di farlo in inglese o tedesco, che non capisco, né in spagnolo.

Quella vostra Pampa, che cielo alto! Se ci si incontra a Marradi, mi dare-te il vostro libro e i miei articoli. Sono contenta che vi sian piaciute quelle righe di ricordo sulla mia infanzia. Vogliatemi bene.

Sibilla Aleramo

VII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 31 luglio - 1 ° agosto 1916]

Mio caro Cloche,incomincio a farmi un’idea della topografìa dei nostri rispettivi eremi. Dal canto vostro avete da sapere che io mi trovo più vicino a Panicaglia che a Borgo. Alla stazione di Panicaglia si va in 15 minuti attraverso i cam-pi, mentre a quella di Borgo ci vuole un’ora buona. Vi direi di venire voi senz’altro, ma vedo che preferite che venga io costà, e va bene, poiché sperate che il posto m’invogli a tornare. Prenderò dunque l’automobile a S. Piero giovedì mattina alle sette e scenderò a Rifredo, a meno che il conduttore non mi dica che Barco vien prima, nel qual caso voi m’aspet-terete a Barco, sta bene? Non occorre rispondiate, se va bene. E io spe-ro che nulla m’impedisca di venire ‘. Forse resterò anche la sera - sia-mo poeti notturni, le stelle ci propizieranno l’avvenire -. Se foste venuto qui, la prima impressione che v’avrei fatta sarebbe stata forse migliore, senza cappello e tutti gli altri imbarazzi del viaggio... Ridete? Ma voi mi prospettate la vostra testa rossa e la vostra aria da gentil garzoni...

Mio caro Campana. Ho un tono scherzoso, ma voi sentite quanto in realtà sia profonda la mia tenerezza. Vi ringrazio d’avermi scritto quelle parole sul dolore patito a Marradi. Vi saprò dir poco, a voce, sono una

silenziosa, ma vedrete che il travagliato nodo della mia anima lascia tuttavia al mio volto e al mio silenzio un poco di chiarità.

Vostra Sibilla

Ormai sono legati indissolubilmente, la passione li spinge l’uno verso l’altra senza pensare: l’innamoramento non ha più freni e, infatti, invece del 6 agosto si incontreranno il 3, quando, finalmente appagano il desi-derio che li strugge. (N.d.R.)

VIII Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

II Barco 5 agosto 1916

Con cuore fraterno a Sibilla Aleramo. Dino Campana

IX Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] domenica-lunedi [6-7 agosto 1916]

Perché non ho baciato le tue ginocchia?

Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca.

Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quel-la che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio dispe-rato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querele, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro.

E non ho baciato le tue ginocchia.

I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il ciclo.

Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata cosi lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me!

È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere in-sieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore! Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è cosi forte. Non posso scriverti. Verrò il 19. dovunque. Il 14 resterò qui; a Firenze andrò poi per un giorno. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi.

X Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Casetta di Tiara, Firenzuola 7 agosto 1916]

Leggo il Rubayat di Ornar Kaimar. Questo libro è eccellente e ben tra-dotto. Benché vi abbia appena stretto la mano bella dubitosa vi vedo qua in fondo ai pensieri e in fondo al paesaggio. Pura bellezza oro dell’oc-caso qualche cosa che conta nella solitudine dice Ornar Kaimar e dice bene, nella febbre del crepuscolo tra i grandi boschi.

XI Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] lunedì sera [7 agosto 1916]

Tremo aspettando che tu mi scriva. M’hai amato, quei giorni. T’ho avuto tutto nel primo sguardo, cosi interamente. Perché tremo? E l’ultima sera m’hai detto: “Tanto dubitavi di te?...”.

Oh, ma è la verità. Dino. Io, che non vorrei, che mai avrei voluto cam-biarmi con un’altra creatura, io che so il mio valore, so anche tutta la mia miseria, so che se tu domani mi scrivessi che è stato un sogno, che ti sei svegliato, che non mi ami, troverei nel mio orrore da chinare il capo... Perché amarmi, tu? Anche oggi, che povere frasi sciocche devo averti scritto. Come quando t’ero accanto, che non sapevo che piangere o baciarti. E ho fatto piangere tanti dacché vivo. Che importa se per ogni lagrima che ho fatto scendere ne ho versate io stessa cento. C’è tanta ombra intorno a me. Puoi averlo sentito, puoi, dopo che son partita, averlo sentito, tu che sei fatto per il sole... Dino, Dino!

M’hai detto: “tu non dici: sempre, mai, come le altre”. Ma stasera mi sembra che mai io mi sia sentita davanti all’amore una cosi piccola cosa oscura. Dopo tutto quanto ho vissuto e voluto, dopo aver benedetto ogni sforzo e ogni martirio credendo ogni volta di crescere e d’adunar luce in me, come mi trovo davanti a te! E se tu sapessi il disprezzo che ho per queste stesse parole con le quali cerco come d’inginocchiarmi. Ta-cere, non dovrei che tacere, aspettando. Bisogno di distruzione, dicevi... Come m’hai parlato del “nostro” lavoro, quell’ultimo mattino! Della cosa bella creata sotto il cielo dal fatto solo del nostro amore. - Senti i miei silenzi? - T’ho veduto staccato da tutti, libero come nessuno, e più uma-no ancora di me, oh Dino, ch’ero cosi sola a portar tutta la mia umanità. Ma più forte di me, anche. Più alto. So quel che dico. Che ti potrò dare? T’adoro. E sento tutta la mia impotenza. Baciarti.i.

XII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 7-8 agosto 1916]

Notte - Possa tu riposare, mentre io ardo cosi nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice. M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda. Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, ripo-sa. Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcez-za anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora cosi forte, per questo scambio del nostro sangue.

XIII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[La Topaia, Borgo S, Lorenzo] mattino, martedì [8 agosto 1916]

Baciarti... Aspettando la posta, ecco cosa t’ho fatto...:

Fauno1Lontane dal mondo,querce,rade nel sole d’agosto,acque fra sassi,lontane dal tempo,e tudorato ridi,tu alla bianca mia spallatu alla verginea sua musicagioia dagli occhi ridi.

(Questa poesia era stata scritta in ricordo del loro primo incontro, quello del 3 agosto 1916, fu inserita nella raccolta del 1920, Momenti, col tito-lo Fauno, appare ora a pagina 22 nel libro Sibilla Aleramo a cura di B. Conti e introduzione di C.Rendine, nella edizione curata per la Newton

Compton Editori, Roma 1980)

(l’ultimo verso era venuto prima dei due penultimi: forse era meglio? Ma non ha importanza. È per noi). E non m’hai scritto...

Ho il terrore che tu non ti senta bene... Quei giorni son stati troppo belli. Ti supplico, Dino, tranquillizzami, mi basta una parola, te l’ho detto. E ora devo aspettare fino a domattina, la posta non viene che una volta...

Sono ancora sola, credo che gli ospiti torneranno domani. Stanotte ho riposato un poco, alzandomi avevo il viso roseo, ma ora son di nuovo inquieta. Vuoi ch’io ritorni subito?... Se vuoi, vengo, Dino. Ma tu m’avevi promesso di star bene, di aspettarmi con i tuoi occhi chiari, di riposarti pensando alla tua piccola. Mi ami sempre? Dolcezza, passione, smarri-mento, sentimi. Tua

Ho fede, sai, tanta. Staremo insieme tanto - Guardiamo lontano. Amore. Baciami.

Preoccupazioni della Petite bourgeoise. Hai scritto a Vicchio? E al tuo paese per i vestiti e per il libri? Sei andato a veder di nuovo alla Casetta? E la russa, ti lascia in pace? Ho chiesto a Torino Una donna!. Spero tu lo possa avere per il 14.

Scrivimi subito, ti prego, poi per il 14 mi scriverai ancora, vero? qui.

Certi Gonzales da Milano non ti han chiesto i Canti? Non impensierirti, ti darò tregua con le mie epistole... Ma ora dimmi che stai bene e che mi vuoi bene. Soffro, ho bisogno di ritrovarti.

XIV Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 8 agosto 1916] pomeriggio

M’han portato in ritardo la tua cartolina, Omar Kaimar. Prendo tutte le cose troppo sul serio? Ti mando lo stesso tutto quel che t’avevo scritto, ti divertirà un momento Insieme alla tua, poche parole da Firenze, lagrime ma degne. Ne ho fatto un uomo.

Perché “dubitosa”? Di me, no. Di quel che sentivo, no. E neanche di quel che dovevo fare, vedi, ch’è già fatto, limpidamente. Ma d’esser per te una cosa di vita, una cosa di bellezza...

Ripensavo a un punto del tuo libro, a una frase che mi ti aveva avvi-cinata forse più d’ogni altra la prima volta che ti lessi: e ho cercato nel volume, è proprio dove tu mettesti per me la foglia d’edera: “.. .Dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo... cosi conosco una musica dolce nel mio ricordo... so che si chiama la partenza o il ritorno...”.

Andando e stando.

XV Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916]

Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò... Sei tu che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio pro-fondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri, non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che rantoli anche tu cosi...

Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero? Saremo soli sulla terra. Bruceremo.

Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tiem-mi, io non ti lascio, bruceremo.

Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi...

XVI

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916]

Domani sera, giovedì, vado a Firenze, m’han scritto i Luchaire che sa-ran qui soltanto domenica, e Fr.[anchi] mi supplica d’andar un giorno a vederlo. Tornerò qui domenica mattina con i Luch. portando tutto quello di cui mi devo provvedere a Firenze per la montagna. Cosi dopo tre o quattro giorni con gli ospiti qui, ti raggiungerò direttamente, ed è molto meglio. Mi scriverai dove. Ti manderò un orario ferroviario per il caso si vada a Vicchio. Ma se ti pare che alla Casetta sia possibile, vengo. Poi c’è sempre tempo di cambiare. Ma ritrovarci.

A Firenze soffrirò, patirò tutta la passione di quel figliolo. Ha sentito tutto, non spera più. Ma avrà forza, mi appartiene, vivrà. Tu non stare in pena, sarebbe un’offesa, a questo tormento divino che provo, il dirti altro, vero Dino? Son tua, non posso che esser tua, lo sai. Pensami. Non m’hai scritto ancora, non so nulla, son tutta soltanto col ricordo, e brucio.

Forse domani avrò una tua lettera... Ti riscriverò da Firenze. Per il 14 mattina, una tua parola qui alla villa, Dino; e nel pomeriggio ti sentirò come se mi baciassi tutta. Tra i grandi boschi... mi aspetti? Ti farò grida-re di gioia quando ci riprenderemo. Poi piangeremo di felicità, tanto... Mi ami? Lo sapevi che t’avrei amato?

Se vuoi, puoi scrivermi a Firenze - se ti occorre qualcosa di là.

XVII

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] mercoledì sera [9 agosto 1916]

Riapro la lettera - perché non l’ho spedita non lo so; perché t’avevo pro-messo un po’ di requie, perché m’hai detto che non ami l’epistolografìa... Ma lasciami cosi, ancora un poco. Stasera e l’ultima di questa solitudi-ne alla Topaia. (Quei benedetti Luchaire, avessi saputo che tardavano tanto a tornare! Sarei forse ancora al Barco... Ma non bisogna voler loro male: senza questa villeggiatura in casa loro, chissà quando ci saremmo trovati, io e te). Non sei venuto qui, ma come ci hai vissuto! Dalla prima sera del mio arrivo, avevo avuto a Firenze poche ore prima la tua prima risposta, e avevo sentito che c’era qualcosa di mutato sotto il cielo. Da quella notte, che non potei prender sonno, pensandoti. Oh, Dino, tut-to questo che ti racconto, tutto questo che m’accade, sarebbe troppo sciocco, se non fosse grande. Vedi, la calligrafìa di stasera è diversa da quella d’oggi. C’è un lume a petrolio che mi par d’esser diventata miope. I miei occhi. Ti son piaciuti. Tutta ti son piaciuta? Tremavi. M’hai detto cose tanto care. E ora perché non mi scrivi, Dino? Oh, non è un lamento. .. È questo terrore assurdo... L’avevo anche prima di vederti, quando ti scrissi la seconda e terza lettera, e pensavo ch’eran brutte, che potevan aver offuscata un’immagine di me già creata nella tua mente... Sei mai stato amato, Dino? Nulla, non so nulla di te, se non che hai sofferto e che sei rimasto il più forte. Oggi ti ho gridata la mia febbre, stasera vorrei darti invece soltanto dolcezza, averne tanta da te. Puoi, lo so. Che siam tanto stanchi tuttedue, talvolta. Fraternità, anche m’hai offerta. L’inquie-tudine che si placa, la febbre che cede, oasi, oasi serene, mie, tue. Mi aspetti? hai fede? Tanti han avuto quella vile e stolida paura di soffrire e di farmi soffrire... Perciò ho voluto che tu sapessi tante cose amare, invece di portarti soltanto gioia e luce. Dopo, se ora mi aspetti, non ne parleremo mai più. Dino. Ti chiamerò tanto col tuo nome, ti chiamerò tanto, amore. C’è qualche tempo dinanzi, strade e cose da fare. Questo

tuo silenzio! Mi vuoi provare tu, ora? Resisto, vedi. Domani a Firenze quel fanciullo piangerà tanto, piange già tanto dacché ha saputo - gli ho scritto soltanto che avevo avuto una visione di forza e di grandezza, fuori del tempo, e che ti avevo promesso di tornare - e gli ho chiesto d’esser forte. Piangerò con lui. Non accadrà altro, non ti dirò nulla, come m’hai chiesto. Pensami con la tua bontà più profonda, Dino, e sentimi col tuo amore, senti che continua quel miracolo di quell’ora nel sole lontano, ritroveremo le polle d’acqua...

Oggi ho avuto la tentazione di telegrafarti che venivo al Barco... Ma poi, se tu non ci fossi? E devo anche rifornirmi di danaro, a Firenze. Cosi, mi son forzata al lavoro di traduzione, non so quant’ore, bougianen... (mi hai parlato in piemontese, mentre salivo su l’automobile, chissà perché, io non capivo più nulla...) - Come sono sfinita. Perdonami. Amami, sai? Cuore.

XVIII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] giovedì mattina [10 agosto 1916]

Non importa che tu legga tutto questo, gridi, sospiri, per non sentire il peso al cuore e al cervello. Leggi soltanto, Dino, che vengo, vengo a te con tutta me.

Scrivimi, ti supplico, una parola a Firenze, con espresso ch’io l’abbia di certo sabato: dimmi se domenica e lunedì sarai al Barco, perché nel caso (improbabile) che i Luchaire proroghino ancora, verrei a farti una visitina. Ti scriverò da Firenze.

ore 10 - Niente posta neanche stamane, devo partire senza saper più nulla di tè... Come starai? Ti supplico, mandami una parola per espresso a Firenze. Ma ti sento, so che m’aspetti, vengo.

XIX Lettera

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Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Rifredo 11 agosto 16 ore 10,50]

Ti aspetto - Dino“I due si erano visti il 13 di agosto, infatti, Dino aveva scritto: …le mie ti hanno inseguito: chissà se ti raggiungeranno. Una cartolina a Firenzuo-la, una lettera a Rifredo. Ieri ti pensavo nella pace del Mugello, sospesa e combattuta ma sola, nella luce del tuo giorno. Invece m’è giunta la nuova tua di ieri da Faenza. Forse i due passarono un paio di giorni insieme…”

XX Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Firenzuola, 17 agosto 1916]

Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Come amo la po-vertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza!

XXI Lettera

Dino Campana e Sibilla Aleramo a E. Cecchi

[Casetta di Tiara (Toscana) Firenzuola [22 agosto 1916]

Egregio Signor Cecchispero avrà ricevuto la mia cartolina in risposta per affari editoriali. Grazie del suo saluto da Poggibonsi. È qui Sibilla che saluta Lei e la Signna. Devmo

Tra i falchi, Sibilla Dino Campana

XXII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Casetta di Tiara, agosto 1916?]

Tiemmi con te

Rina

“Per la prima volta Sibilla firma la cartolina illustrata col suo vero nome di battesimo: Rina, (ndr)”

XXIII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Firenze, 15-17 settembre 1916]

Dino, Dino, DinoCome fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola che brilli e t’accarezzi più delle stelle? Le stelle intorno alla Casetta. Il sole della Bastia che m’ha fatto brune le mani.Dino, Dino.Ricordati, quando chiederai a tua Madre quel tuo ritratto che mi piacerà, di dirle ch’è per una donna felice.Tengo in petto, tutta per noi soltanto, la nostra gioia, la nostra malinco-nia, la nostra forza. La vita è per noi, Dino, lo sento senza un attimo mai di sosta o di dubbio.Che senso di discesa l’altra sera tornando in città! Ma ripartirò fra poco, sai! E mi porterai sul mare. (Avevano già progettato una vacanza a Ma-rina di Pisa)

Con tanta fede, se vedessi come tremo, qui, piccola cosa silenziosa, tua...Dimmi che nel letto grande dormi un sonno buono. (Per giovedì ti man-derò notizie e quel che ancor non m’è giunto ma non può tardare. Delle traduzioni che ti lasciai, io ho dovuto fare, con altre, quella doganale: la napoleonica è per l’altro numero. Chissà oggi come ti sarai seccato, mi perdoni?).Amato. Vedimi. Son la creatura più ricca, più forte, più bella se ti guardo e se mi baci con amore.

XXIV Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Casetta di Tiara. Firenzuola] 19 settembre 1916

Come sapete ho la testa vuota. Piena del vento iemale che empie que-sta valle d’inferno. L’inverno mi diverte. Sento che qualcosa resta dopo tutto, come quel laghetto laggiù nella sua trasparenza che nulla riesce ad offuscare. Mi diverto a vederlo rabbrividire. Mi contento di poco come vedete. La felicità è fatta delle cose più leggere: quando, s’intende, la felicità è in noi: in me? e in voi? - Spedito con espresso articolo a voi, ricevuto lettera ringrazio. Trovato coltellino.Speditemi lavoro..

XXV Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[settembre 1916?]

Mandatemi delle traduzioni

XXVI Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Firenze] mercoledì [20 settembre 1916]

Dino, ho baciato tanto quelle bozze e quella traduzione, con la tua epi-grafe e il tuo poscritto, ieri. Piangevo e ridevo insieme. Ti amo. Questa lontananza è assurda. Telegrafami. Quando parti dalla Casetta; e poi da Marradi l’ora dell’arrivo qui, che sarò alla stazione. Domenica, lunedì? Ti aspetto, sono tutta tua, sola con te in tutto il mondo e nello spazio. Ti amo, Dino, mio Dino, nome d’argento, ti aspetto, sentimi.

Rina

Se non parti ancora sabato, scrivimi. Piove anche costi? Resisti? - An-dremo a Motrone. Per l’indirizzo, alla posta e a casa, di che lo manderai subito. Vieni... Ho scritto in Sicilia...Avrò venerdì mattina una tua? L’erica e la stella sono qui davanti. Ti bacio tanto.

XXVII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Firenze, 22 settembre 1916] venerdì sera

Quel laghetto tranquillo, che ti diverti a veder rabbrividire; quel “voi” e quel “mandatemi lavoro” della cartolina che ho avuto ieri vorrebbero quasi farmi intendere che hai intenzione di restare alla Casetta ancora... Ma dall’altra parte della cartolina c’erano “nos étoiles”, benedette. Che cosa avrai deciso dopo la mia raccomandata? Se queste righe che ora ti scrivo nell’incertezza fossero superflue! O tu le ricevessi partendo da Firenzuola! Quando saprò? Mio Dino. Mi ami? Merito la felicità di cui mi parli? Non so altro se non che t’aspetto, che lontano staremo tanto al sole, che riposeremo, vicini, zitti... Non lavorerò neppur io, devo prima rinascere, l’ho sentito tanto in questi giorni. Ne avrò la forza, se tu mi ami, Dino, amore. Vieni, è vero che vieni? Vieni con gioia, contento, non ti tolgo a te? Amato, non so come faccio a vivere in quest’attesa... Non

vedo nessuno, ti dirò. Telegrafami. Se arrivi di mattina, ripartiremo in giornata. In tutti i modi sarò alla stazione. Dino, mi senti?

XXVIII

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Palazzuolo dt Romagna, 22 settembre 1916]

Carissima Sibilla,Sabato, domani, all’ultimo treno che arriva a Firenze alle 8 3/4 o le nove, io verrò mia cara. Non posso dirti nulla. Son qua a Palazzolo, (ne vedesti la direzione dalla Bastia). Mi sono messo in viaggio questa mattina con un tempo magnifico e per tutta la mattina ho pensato a te come per rac-coglierti intorno gli ultimi splendori della bella stagione nei prati umidi, un verde intenso di velluto. Non ti dirò le sciocchezze che servivano di pre-testo al mio amore, sono di quelle che non mi vuoi perdonare. Cantavo. Figurati che avevo per ritornello io ti scopersi e ti chiamai Sibilla. Volevo anzi telegrafartelo senz’altro questo ritornello come una protesta brutale della sanità vitale del nostro amore, unica ambigua e chiara risposta alle tue possibili ansie. Mi accorgo di sragionare. Mi avvicino al mio fatale paese. Addio amore ritroverò forza tra le braccio della mia Sibilla..

XXIX

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Palazzuolo dt Romagna, 23 settembre 1916]

Tuo.

XXX Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Pisa, 3 ottobre 1916]

Vi prego di accettare i miei saluti. Pisa è bella, a quanto mi sembra. Ma l’ombra angusta mi stringe di questi portici.Vi sono molte donne ne belle ne brutte. Aimè, io non so più guardarle. Possibile?

ClocheCaffè, ora eterna - Pisa.

XXXI Lettera

Sibilla Aleramo a E. Cecchi

Villa Alba, Marina di Pisa (tram: fermata ai fortino) 3 ott. [1916]

Caro Cecchi,riceverete una cartolina di D.[ino] C.[ampana], o mia a nome suo. Fate tutto il possibile per venire a trovarci, fra breve. C. è malato profonda-mente, neurastenia con mania continua di fuga, di annientamento. È atroce quel che la vita può su un uomo...Chiedete, vi prego, a vostro cognato costi o a quello di Arezzo, che cosa si potrebbe fargli prendere, calmante sopra tutto per la notte, ma che non nuoccia al cuore. (Me lo direte a voce). L’organismo è sempre robu-stissimo. I primi giorni qui, per lo sbalzo dalla montagna, sono stati terri-bili. Ora ritorna un po’ di calma e un po’ di speranza: Bisogna che senta altri cuori oltre al mio, che lo voglion vivo. So che avete per lui, oltre all’ammirazione, una vera simpatia. Aiutiamoci, Cecchi. Venite, intanto, e poi si vedrà. Sarà contento di vedervi, di discorrere qualche ora con voi. Con altri no, Non dite nulla a nessuno, vi prego, né a Cardarel.[li] né altri, vero?(Sul rapporto d’amore fra la Aleramo e Cardarelli vi consiglio di leggere “Lettere d’amore a Sibilla Aleramo di Vincenzo Cardarelli” a cura di G. A. Cibotto e B. Blasi, Roma edizione Newton Compton 1974)

Non rispondete a questa lettera, come se non l’avessi scritta. Arriveder-ci, ci conto. Dite il mio affetto ad Amalia e Leonetta. Vostra amica

S. Al..

XXXII Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Marina di Pisa, 11 ottobre 1916 ore 16,15]

Urgente tua presenza vieni Campana.

XXXIII Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Marina di Pisa, 12 ottobre 1916 ore 17]

Coraggio sempre tuo Campana.

XXXIV Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Marina di Pisa, 13 ottobre 1916 ore 10,50]

Padrona sequestra biancheria aspettarti o sloggiare decidi.

tuo CampanaXXXV Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Firenze, 13 ottobre 1916 ore 13,40]

Ancora spossata spero alzarmi domattina pomeriggio esser da te.Aleramo

XXXVI Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

[Firenze, 13 ottobre 1916 ore 15,20]

Ricevo tuo placa la Britanna ripeto arriverò domani pomeriggio tuaAleramo

XXXVII Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[Marina di Pisa, 13 ottobre 1916]

Egregia Sibilla,Siete ammalata: me ne dispiace! quanto a me ho perso l’abitudine di lamentarmi. La padrona voleva che vi scrivessi non so che cosa. Ho ri-fiutato. Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora? So che vorreste avere la forza di seguire (?) il vostro destino e di... papini (tanto mi odiate?)Fabbricare, fabbricare, fabbricarePreferisco il rumore del mareChe dice fabbricare fare e disfarefare e disfare è tutto un lavorareEcco quello che so fare. Scrivete. Addio.

XXXVIII Lettera

Sibilla Aleramo a Dino Campana

Stazione di Pisa, 14 ott., sabato [1916]

Se Dino fosse venuto ad incontrarmi? Ed ora girasse per la città infero-cito di non avermi veduta uscire?Gli scrivo. Per domattina, o per stasera, nella casa nostra. Gli piace rice-

ver lettere. Che cosa gli porto?Le mie mani nude, i miei occhi. Gli ho detto: mi troverai sempre...

Sibilla

XXXIX Lettera

Dino Campana a Sibilla Aleramo

[prima meta di ottobre 1916]

Rina adorata,perdonami, perdonami o abbandonami così è troppo cara cara, non so ti scrivo ti aspetto e so che non verrai, questa sera parto anderò a Firenze perché hai voluto staccarmi da te dimmelo, sarò felice ugualmente, mi aiuterai a staccarmi da tutto, a liberarmi, sei buona ti ho amato ti adoro non puoi abbandonarmi cosi - Ecco dunque. Rina Rina Sibilla Aleramo Rina che amo Sibilla mia sì ridi cara, ridi cosi io sarò felice e potrò mo-rire. Rina quanto sei cara. Forse verrai e vorrai ancora vedermi ecco quanto ti posso dire ancora. Se questa sera non sei venuta adorata sola gioia mia quanto ti amo non so più ho bisogno di te, verrò a Pontedera e tu mi dirai poi mia cara.

Rinetta rinetta aspetta il tuo amore che soffre addio.

No non vengo devi guarire ed esser bella. Vado a Firenze e tu mi scrive-rai fermo posta. Addio dunque.

XL LetteraDinoCampanaaSibillaAleramo

[Casciana,25ottobre1916]

Sibillafatevicoraggio.Hounaparolad’onoreeveladoperdirvichevistimoepenseròbenedivoi.

DinoCampana

XLI Lettera

SibillaAleramoaE.Cecchi

[BagnidiCasciana,Pisa25ottobre1916]

Nonsocosaviscrissil’altrogiornoinqualcheminutocheavevolibero.Sta-serahodavantiameiltempo.C.[ampana]èpartito.Volevopartirio,dopounaseriedigiornienottiincuihoascoltatolecosepiùatroci,subìtolecosepiùatroci.Allorahaavutocomeunrisveglio,es’èdeterminatodicolpoatornarlassùinMugello,“lontanodalmondo,ch’èbruttotroppo,fuoridellavita,dinuovo”.M’hapromessocheciritroveremo,piùtardi...Cecchi,vihoscrittochem’ama?Voiavretesorriso.Eppure,eamore,èdolore,unacosaorridaemeravi-gliosa.Vederenelsuocuore,homeritatoquestodonospaventoso.Cheaccadràora?Nonpossiamorinunciare,vedete.Glihodettoiersera,unmomentocheilparossismodellesueingiuriemiv’haindotto,glihodettochev’avevoveduto,aFirenze,elevostreesortazioni.Èrimastocolpito.Forseancheperquestoèpartito.Poterguarirlo!Voiditecheconquestodesideriolodiminuisco.Masesapesteilgradodellasuasofferenza!Lamia[s]’erafattainsostenibile:lasualoèsemprestata.PrimadipartirehascrittounacartolinaaBoine:glieneavevamandataunal’altroieridovemidavadellatroia...Oggihascritto:“perdonate,erafalsa,eralamiasolitudinechehavolutoriprendermi,parto,forsequalcheparolapotròancoradirvidiquellecheamate:leavròpagatemoltocare”.TornasuallaCasetta(Firenzuola):unatanada lupi, inquestimesi... Iononsochefarò.Staserasonoalettoconfebbre.Vuolecheterminiquiibagni,epoivengaaFirenze,dove,hadetto,verràatrovarmi...Perdonatecheviscrivocomesepiangessi.Voinonavetenulladarispondermi,loso,daaggiungereaquantomidiceste,odamutare.Maamateci,Cecchi,dalpuntoincuinonpotetepiùparla-re.Forsevinceremo.Addio.Viriscriverò.SeLeonettaèarrivata,abbracciatelaperme.

Sibilla

Giovedì—Misonolevata.Forselavorerò.Voletefarmiundono,mandargli

lassù,masubitoperchélapostaarrivasoloillunedì,unEschilo,selotrovatenell’edizionediOxford(nonpuòsopportareletraduzioni[fr]ancesi).Èilsololibrochedesideraavere.

Sonoripresadall’affanno,chegliaccadrà?!

XLII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Casciana.26ott.[1916],giovedì,5disera.]

Eroabituataalsilenzio:maquestoches’èfattodacchéseipartitoecosigran-de!Stamane,(dopododicioredisonnoalveronal)tihotelegrafatosperandonellarisposta—chenonèancorvenuta.M’handettocheieridovestiprenderunacarrozzaecheforseperdestiiltrenodellequattro.Doveecomeavraidor-mito?E tutte le immaginazioniper seguirti oggi son statevane.Firenzuola?AllaCasetta,orachestapertramontarequestosolepallido?Avràtiratounventofuriosoanchesulatuastrada?Iomisonlevataalleundici,ealletresonandataalbagno,poitornatasubitoqui.M’hanfattasloggiaredallasalettadapranzo,m’han messo un tavolino qui tra la finestra e il tuo letto. Cosi c’è un mutamento ancheperme,elamiastanzasomigliadipiùallatua...Dino,Dino!Dovesei?Voglio esser forte comemihai chiesto,nonvogliopiangere,maho il cuorecosi gonfio! Quell’ultima ora, ieri, hai sentito come eravamo consacrati. Dino, vinceremo.Amormio.Coraggio.Nonsodireneanchepermealtreparoleoggi.Son ancora cosi stanca, attonita. E tu, e tu? Quando saprò? Ho tanta paura che tustiamale.LaCasettaoradev’essereunatana.Dimmi,tisupplico.Dino,mahotantafede,com’èchehotantafede,comeilprimogiorno?Checosavuoledanoiilnostroamore?M’haidettochemitieni,vero?Felicità.Tibacio.Scrivimi.Selavorerò,telodirò.Èarrivatoilmeta,lospediròdomaniconlabiancheria.Fattidaredelleuova,quattroalgiorno,emandaaprenderlamedicinaaFiren-zuola.Èverochevuoicheciritroviamobelli?

tuaRinetta(è la prima volta che mi firmo cosi)

XLIII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[27ottobre1916;venerdì,mezzogiorno]

Nonhoricevutonulla,esoffro,Dino.Perdonami,sonofortemasoffro.Hotelegrafatoalpostinodicostà,perdonami1.Eanchestanottedovròrestarnel-l’angosciaperchélarispostanonverràcertoprimadidomani.Dino.

Tiamo,soffro,sentimi.Sesapròcheseicosti,forte,saròbravaanch’io,telogiurosulnostroamore,Dino,sapròaspettare,hotantafede,tuttoèbello,si,tuttoèstatonecessario,lavitasaràpernoi,amormio,mach’iosappiadoveseiechenonstaimale,Dino,Dino...Baciami,rienmi.

tuaSibilla

Nontiscriverò,tilasceròtranquillo,proveròalavorare,maliberamidaque-st’angoscia...Tiadoro.

Latuaamica,latuabambina,iltuoamore.

XLIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

UNSALUTODAMarradi(Firenze)[27ottobre1916]

DinoCampana

Aspettoletraduzioni,resteròinquestipaesi.Sperochestaraitranquilla.

XLV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi,27-30ottobre1916?]

Miacaraamica

sonotroppostancoetroppoammalatopercercardicomprendere.Prendoilpartitodeipiùdeboli,ilmiosolitopartito:parto.

Regaloachinehabisognoquelpocodipoesiachepuòesseresortaintedalnostroamore.Nonpossodirtialtrodopoquesto.Miacarasonorealmenteam-malatononhopotutosopportarel’attesaeletuelettereRicevoorailtelegram-maPartodomattinaperlaCasetta.Làc’èilsilenzio.

Iotiamotantoerimpiangolapoesiasoloperchéessasaprebbebaciareiltuocorpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa.

Perdonamisenonvoglioesserepiùpoetaneppureperte.Saicheneppureleacque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla — e senti la mia infinita deso-lazione.Tiportocomeilmioricordodigloriaedigioia.

Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per se solo il tuocolore.L’ultimobaciodaltuoDinochetiadora.

XLVI Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marrani.29ottobre1916,ore10]

PartoSignaalbergodanesimalato.

XLVII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[BagnidiCasciana]domenica,ore3,[29ottobre1916]

Dino,bisognaesserforti,stringersi,nonlasciarsi.Iostomale,iolatuaamica.Etu,amoremio,anchetusoffri,losento.Ciamiamo,perchénonvogliamovi-vere?Dino.Leultimenottisentivoquandom’abbracciavi,emidicevi,chec’èancoratantovigoreinme.Eintec’ètantosole.Stretti,siamounacosamiraco-losa.Dobbiamovincere.Unmalediquindicianni,tuhaidetto...Si,eancheperme. Sono quindici anni che son partita da mio figlio. (Quando Sibilla, nel 1902, avevalasciatoilmarito,UldericoPierangeli,questinonlepermisediottenerel’affidamento del figlio Walter, nato nel 1895 e morto nel 1973, che la madre rividesolonel1933)Iosonlatuaamica.Lavorerò.Rientriamoinsiemenellavita.Checivedano,belli,nonsoltantonellanostrapoesia,checiaminoperlanostragioia,perlanostravittoria.Inquestigiorni(epurstotantomale,sai,hotantofreddo,ticercoticerco)hoscrittoavariagente:verràqualcheaiuto,nontemo più, potremo aspettar, senza affanno, la fine della guerra, e poi andremo in Francia.Manonstiamostaccati,ora.Dino,amoresanto.Nonpossovivertilon-tana.Et’hocarezzatocosipoco.Stavitantomale,avevipaurachenont’amassi,chenonsentissichecos’eriperme,cheticredessiirreale,anchetu...Amormiosolo.Nonavremopiùpaura,ora.Abbiamopagato.Stringiamoci.Dino,abbia-modegliannipienidinanzi.Finchésaròbellaeforte.Poisparirò.Chetuabbiaavutotuttaun’animadaadorare,dafarfeliceinsuamorte.Èlanostrasorte.Haidettochemitieni,sevoglio...Dovesei?Losentichenonsipuòpiùlasciarci?.

XLVIII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

Bagni,ore12l/2.[30ottobre1916])

Dino,amoremio,partofradueore,avevogiàdecisoprimadiriceverlatua,cheagoniaquestigiorni,comesisoffre,amore!ArriveròaFirenzeallesei,madove trovarti?Equesta l’avrai soltantodomattina, se l’avrai, se sarai ancoracosti...Hopaura,tiadoro,troppoanch’io,Dino...Nonsodoveandrò.Alle91/2 domattina passerò davanti alla Posta e agli Uffizi poi andrò alla latteria di S. Maria Novella, starò fino alle 10, poi tornerò ad aspettarti dalla Castiglioni, Lung.Acciajoli2A,ultimopiano.Vabene?Edecideremo.Amore,tistringonelmiocuore,resta...

tuaRinetta

Percasoquestafacesseatempostasera,passadallaCastiglioniadomandaredovedormirò.Dino,amore.Oallapens.[Ìone]Cianferoni.

XLIX lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[31ottobre1916]

Firenze.IlmioindirizzoèviaPietroCarnesecchi12.(pressoDanti).

Hosoffertomoltopiùdiora:setupuoitipregodirestaremandandomigior-nalmenteunacartolina.Pensaafarecompletamentelacura.

TuoCampana.

L lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,1°novembre1916,ore7,05]

SupplicovenirestaseraCampanaCarnesecchi,12,Firenze.

Dopoessersiritrovati,SibillaeCampanasistabilironoaVillaLindaaSetti-gnano,neipressidiFirenze,pressoAstridAhnfelt.Il2novembre,dopoviolentilitigi,CampanaripareràaCasettadiTiara,dopoaverrottoconSibilla.

(Lo vedremo con certezza leggendo la laconica lettera n° 58)

LI Lettera

DinoCampanaaAhnfelt

(Astrin Ahnfelt, scrittrice svedese, aveva conosciuto l’Aleramo quandoconvivevaconGiovanniCena.Diquest’ultimotradusseilromanzo“Gliam-monitori”,apparsonel1907.Moltesonole letterenell’archivioAleramochetestimoniano l’amicizia fra le suedonne.Giornalista e traduttrice, entusiastaconoscitricedell’Italia,siadoperòperladiffusionedellaculturaitaliananelsuopaese,organizzandoancheconferenzeeletturesuCarducci,Leopardi,PascolieFogazzaro.InteressataalteatroparlòdiPirandellonel1933suDagensNyheter,alqualecollaborava.Altempodellarelazionefral’AleramoeCampana,sierastabilita definitivamente a Settignano) (Note a cura di Bruna Conti)

[CasettadiTiara,Firenzuola23novembre1916]

Genti,maSignorinaAstrid

LasperanzacheLeimihadata,quelladiliberarmidaquestacatenadidoloriedimiserie,didarmiilmododiandarmenelontano,mifavivereora.Voglioguarire,credereancora,perchéLeihacredutochemeritassiunpo’divitaedilibertà.Nonhocosinulladadirledime,senonchepensoaLeiconvivarico-noscenza.Seamaidettaglilediròchequanonsihannoaltrenotiziechequelleche porta il vento che soffia notte e giorno. Si ha la grande consolazione poi di sentire che la natura nelle sue bufere è infinitamente più dolce della vita, ed è questoforsecheciaiutaacredereche,comedicevaVerlaine,“quelquechosedepurdemeuresurlamontagne,quelquechoseducoeurenfantinetsubtile.Car,qu’escequevraimentnousaccompagno,etquandlamortviendraquereste-t-il?”Insommaperorafauntempoinfernale.

Venendoadaltro.Laprego,gentil.masignorina,avolermirespingerelamiacorrispondenzaaCasettadiTiara(Firenzuolatoscana).

Nonsopoisepotreiincaricarladidireaquelladonna(ovviamentesiriferisceaSibilla)cheiosareidispostoafarlebuonepartedellesuetraduzionidietrounmodestocompenso.Incasocheaccettasse,lapreghereisignorinaavolermispedirequelletraduzioni.

Veramente ho l’idea di approfittare troppo della sua bontà, e nello stesso tem-pononvorreirecarlealcundisturbo,dopoquellichelehorecatiedicuiLeiha

volutoscusarmi.

Pensocheiononpotròesserleutileinnessunmodo,echeLeineppuresaquantovolentierivorreirenderlequalchepiccoloservizio.Miparlavadeisuoilavorichemisontantopiaciuti,pertradurliosimile;dispongodimecomecre-de.SonocontuttalamiadevozioneelamiariconoscenzadiLeidev.mo

DinoCampana

P.S.Lapregodirimandarel’asciugamanoallecavediMaiano.

P.S.Pensooracheperchémivengarilasciatoilpassaportosarannonecessa-riodelleformalità.Vorrebbeinformarsidichesidebbafareperaverequestopassaporto?Perdoni.Nonhonessunoacuiricorrere.

LescrissiunacartolinachiedendolelescarpeeunpacchettodiHornighamtè.Sperol’avràricevuta.

ChecosafaSilvano?SperiamochediventiunbuonsvedesecomeLarsonnedireiStrindbergsenonfossestatotantoinfelice.Lavorasignorina?Leibeatapercuilavitanoneunacontraddizioneorribile.Dev.mo

Dino.

LII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenzuola,26novembre1916,ore10,15]

Partooggi..

LIII Lettera

SibillaAleramoaL.CecchiPieraccini

[Settignano,Firenze]Notte2-5dicembre[1916]

Perchénonhaiavutofede,Leonetta?Eriunadelletreoquattropersonealmondo di cui non dubitavo. Quando Campana m’ha detto che cosa tu gli avevi scrittomentr’eralassù,hoprovatoundolorechetunonpuoicapire,Leonetta.Dunquenonmihaimaiveduta.

Aver fede, era difficile, ma io ero cosi sicura che tu lo potessi! Non ti ho quasi maiparlato;credevononfossenecessario.El’occasioneeravenutaperted’unattofervido—setuavessivedutoneimieiocchichecos’erailmioamoreperCampana.Nonhaiveduto.Aqueirinfelic[e]unavoltadipiùèstatodettocheil suo atroce delirio di negazione è giustificato: è stato detto questa volta da te, colpendolacosapurae terribilech’era ilmioamoreper lui.Perché,perché,Leonetta?Manontichiedorisposta.Parto.Misentosolacomemai.Nonsochecosaaccadrà,masochenonimportaanessuno—senonforseaMichelech’èanch’eglisolo—Addio.Nontiserborancore,hotantopatitoinunasolanotteallo svaniredella certezza che avevodella tua amorosa intelligenza, cheoraan[che]questasofferenzaèassolta.Ecisonoaltrecosepercuipossosemprevolertibene,sevivo.TuttoquestochescrivoatevaleforseunpocoancheperEmilio.Maconluiilrapportoèdiverso.Nonbadate,sepotete,alleparole.Stomoltomale.SerivedreteCampana,sepotreteinparteriparare,saràperlui;nonpermechenonsperopiùechenoncredoditornare.

LIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Settignano,4-5dicembre1916]1

CaraAmica, tiscrivopiangendotisupplicoper l’amorechehaipermeditornaredaC.[ena].Daiquestosensoaltuopensieroinquestomomentoesaraipura. Io non esisto mio amore. Questa primavera anderò in guerra. Ti ho incon-tratoechelamiavitasiabastataperunpo’dilucepertemiaRina.Inutililemieparolecomelamiavita,loso.Nonvogliochetumiricordi.

Nonmiscrivere.Tiamo.Prendiiltuoritrattodabambinaemandalalà.La-voraesiifelice.Lasciamiiltuodolore.Addio

Faròtuttoiltuolavoro.Perorapossovivere.Nellaboccettanonc’èpiùpro-fumoaddio.

LV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Settignano,7dicembre1916]

HaipreparatoiltuoviaggiosenzaneppuredirmichevoleviandareaSorren-to.Mihaiperòdettochesonolibero.LarussaeaFirenzemihascrittoeiosonoandatodalei.Addiomiacara.

LVI Lettera

SibillaAleramo

[Sorrento] 8 dicembre 1916]

Rosecalpestavanelsuodelirioeilcorpobiancocheamava.Adognilividurapiùmiprostravo,ohsinghiozzo,invano,ohcreatura!

Rosecalpestava,s’abbattevailpugno,efollelosputosulafrontecheadorava.Feroceilsuomalepiùdituttoilmiomartirio.Ma,orchesonfuggita,ch’iomuoiadelsuomale!

(Mario Luzi, quando scrisse kla prefazione all’edizione del 1958 del carteg-gio, Aleramo Campana, che definì “… una di quelle fiammate dove scorie e sostanze preziose si confondono in un’unica incandescenza…” indicò questa poesiadiSibillacomelapiùveraevivachelascrittriceavessemaiscritto).

LVII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Settignano, 9 dicembre 1916, ore 18]

Notiziafalsatornasubito.AhnfeitCampanal

LVIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze],12dicembre1916]

SignoraAleramo,

Leihatropparagionenellasualettera.Iononmeritodiessereamatodalei.Cisepariamo.

Dino.

LIX Lettera

SibillaAleramoaL.CecchiPieraccini

[Sorrento]17dicembre[1916]

Leonetta, soffro tanto.E sepensoall’accanimento, allo schernoconcui ildestinohavolutocheanchetucontribuissiaquestamiadisfatta,tuchepurmivuoibene,loso...Bisognavavincere.Erailmiracolo,elomeritavamo,ioelui.Abbiamo perduto, è finita. Vivere, lavorare per il nostro io superiore, egoistico —tudici!Evvia!Losappiamocos’è.Sifanancheicapolavori,si!Ma,Leonet-ta,donneeuominisinasceperaltro,nonlosai?...

L’avetepiùveduto?M’aspettaancora?M’hascrittobiglietticinici.Misonoaggrappataallaprovadirestarlontana,nonsonmaistatacosimale,oranonnepossopiù,torno,machecosatroverò?

Tisupplico,selovedi,sesaidov’è,diglicheloamo,nient’altro,nient’altro,digli che è finita per me se lo perdo, e anche per lui...

LX Lettera

SibillaAleramoaL.CecchiPieraccini

[VillaLinda[Settignano,21dicembre1916]

Leonetta,nonsoseoggivedraiCampana.Dopoaverloritrovato,econluiqualcunadellenostreorepiùbelle,stanottes’èdinuovoabbandonatoalsuode-liriod’odioequestavoltacredononciritroveremopiù...C’eravamoperdonati,luilamia“fuga”,iounasuaimmediataavventuraditristeripicco.Tuttovano.

Sonoaletto,mainquestacasanonpossopiùrestare.Selorivedrai,cerca(perchélasuaanima,seèpossibile,ungiornosiamenotorbidaricordandomi),di dirgli che finalmente avevi compreso un poco più la natura del mio amore per lui.Nonavevomaiimpegnatacositotalmentelamiaesistenza:eraadorazione,sommissione,negazionemiatotale...Oranonsapròmaipiùamare.

Sibilla

Diglichesono[amica][sua]...quandovorràmitroverà.

LX Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[24dicembre1916?]

Unlettoprofondo,lanottediNatale,neltuopaesedovenonsonomaista-

ta—dovesoltantodabimbohairisodigioia.Stanotte.T’aspettoperpartire—sonsolanelmondo,ohlettoprofondoanchequesto,setunonvenissi.Tuchetantagioiadeviavere—eamiilmiodolore,dolored’avergiàtantoguardatol’acqua fluire. Ma il tuo fiume, lo vedrò? Questo strazio, d’amarti, di volerti fe-lice,edinonpotertramutarmiinunacosadifreschezza,rosaperlatuafronte,amore,amore.Nonpotercheconsumarmi,semprepiù.Nonhopiùvoceperparlarti.Soltantolemanisonoancoradolci.Stanotte,tidarannoilsonno?Neltuopaese.Epoiaddormentarmi—esvegliarmiilmattinodiNatale,bimba.C’èunbimbo,unfratellinovicinoaRina—ohDino,Dino,checosasiscioglienelcuorediRina?Silenzio,tienmilemani.Nessunom’hadettomai,dabimba,unafavolabella.Guardavolestelle,comete.Stanottenoncisaranno.Cisaremonoi, favole, stelle,cose lontane, irraggiungibili.Nessunomaipiùcicoglierà,anchesecrederàvederci,sentirci.Stelle.Tienmilemani,prendinetuttaladol-cezza,toglimitutto,sonotantofelicedimorire,matumatu...Tremo,miguardointorno, non vieni ancora, l’acqua scorreva…

Dalla prossima settimana siamo già al 1917. Sono passati non ancora seimesi e già il fuoco che li aveva alimentati va spegnendosi. Sono stati mesid’amorefuriosoalternatoalitigatefuribondesiaperlagelosiadiDino,siaperla stanchezza fisica di Sibilla. Sembra che Dino fosse insaziabile e Sibilla senti-va ormai, passato l’attacco furibondo dell’innamoramento, la stanchezza fisica piùchequelladelsentimento:amavaancoraperdutamenteDino,maavrebbevolutochenonfossesempreturbolentoesolosesso.Sentivaardentementeildesideriodi“coccole”,maperl’uomovenivaprimailsessoperchéperluique-sto era l’amore. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che in ospedale si masturbasse unaquindicinadivoltealgiorno,poveraSibillaquantaforzahadovutoavereperresistereagliassaltisemprepiùintensieirresistibilidelPoeta.

Infatti abbiamo lettopiùavanti chemischiavanobacie terra (cioè sabbia)perchéamavanofarel’amoredovesitrovavanoespessolofacevanosullasab-biaoincabinainrivaalmare,chéd’autunnosonosemprevuote.

Dalla prossima settimana, cominceremo a scivolare verso la fine di un grande amoreelovedremoammalarsiemorirelentamente,senzapoterfarenienteperalimentarlo.SibillasaràirremovibileeDino,ormaisemprepiùsolosiavvia,anzidecidedifarsiricoverareinmanicomio;qualcunohadettopersfuggirealle

insidiefasciste,qualchealtroperpotercontinuareascrivereconlacertezzadinonchiederel’elemosina,cioèaveredicertoilpranzogiornaliero.

Alla fine della loro corrispondenza, (che, poi, è la storia della loro vita) vorrei leggereinsiemeavoiunadecinadipoesiadiDino,ritenutodaipiùeccelsicri-ticidellaletteraturaitalianailrinnovatoredellapoesiamoderna.

Neldarvil’arrivederciallaprossimasettimana,viabbracciocontuttol’amorecheposso.

LXII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Livorno,3gennaio1917]

Tuo

LXIII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze?]4del1917

Dicevich’erituchemiamavi,Dino?Sonoio,sonoiocheamote.Chedi-pendodallatuavita.Nonchiedoaltro.Tiadoro.Vivoperchém’haidettocheilmioamore,dicuinonhaibisogno,tièperòcaro.Adorato.Haipromessodiscrivermicomestai,aspetto,aspetto,guardoversoilmaredallamiatorre.

LXIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Livorno,4gennaio1917.]

Rinamia

come descriverti lo sguardo idiota di questa gente dopo esser stati baciatidaltuo!Rinaiopotreirinunciareate,mapersempre.Cosibellacomeunrévepotreidimenticartisoloperandaremoltolontanoenontornarepiù.Davantiallecosetroppograndisentol’inutilitàdellavita.Ilmareierieradiscretamentebel-lo.Sonoandatodinottealmare.AvevovistoimontipisanivelatidacuisorgelalunadiD’annunziosenzafocodicuileggemmoedueaeroplanichevolavanosultreno.Miavergineperchéleggemmod’Annunzioprimadipartire?Nessunocomeluisainvecchiareunadonnaounpaesaggio.Mioamorecomevuoichetiami?Pallida,conunavitasenzafoco3comecolsuodirittoilmacchinistastingeilpaesaggioeviolailciclochenonconquista?Sciocchezze?Masaiquantonehosofferto!

Eccoquellochecidivide.Nonhovistoenonvedrònessuno.Nontroppecosedimmi.Pensacheperviverel’assurditàdelnostroamorehaibisognodituttalatua grazia. Quando sempre mai forse parole giravano nel soffitto del mio cervel-lo.Lacittàèunaseriedicassonibalordi.Appiccicatoallaspallinadelpasseggioguardoilmaresenzaparolecomeiosonosenzapensiero.

MioamoremioamoreLaGorgonaèundossolontanosulmareabbandonatalaggiùneitramonti.Tuoramiconosciepotremmoabitarelontanisenonmiabbandonicolpensiero.UnavoltainSardegnaentraiinunacasaconfuoriunavecchialanternadiferrocheilluminavalaparetedigranito.Fuorilaviamette-va sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare. Questo ricordo che nonricordanullaècosiforteinme!Lacostabiancadimacigniavevabevutoiltramontocupoerossochechiudeval’isolaeoracollalanternarugginosasololestellesull’altipianobrillavanoameaGarcla.Iobaciai laparetedigranitosenzapensareenonsoancoraperché.Ricordocheinquellacasastavalasardamogliedell’alcoolizzatoamicodell’amicodelnostroamico.Bevemmoilmo-scatobiancosalmastrodiSardegnaedèidiotacomemiricordodituttoquesto.Lamiapadronaedell’IsoladelGigliodoveiofareicertamentebeneadandareadabitareperunannoalmeno.Tunonnevedilapossibilità?

DovremmoancoravedereleAlpi.Nietschescendevadilàalmarecollasuasfida. Aimè Rina perché non mi lasci morire? La Fedelweis non è d’Annunzia-noelaDorascendeintumultoeilpiùleggerodeibacicreaancoraforsecomequandodicevo

Comedelletorrid’acciaioNelcuorebrunodellaseraIImiospiritoricreaPerunbaciotaciturno4

Ahmiseriadiquestiritorni.Puoiamarmi?ancora?ancora?ancora?Nontiscriverò.Lemieletteresonofatteperesserebruciate.

LXV Lettera

F.CampanaaSibillaAleramo

[LastraaSigna,4/1/1917]

Genti.maSignora,

Lasualetteraaffettuosa, lesuepremureperDinomispingonoascriverle.Nonsoconsigliarlaasuoriguardo.Noianullasiamoriesciti,solovediamochehabisognodimettereadeffettoquandodicedipartire;cisiamoindottiapas-sarlequantolenostremisereforzelopermettanoperevitareinluieanoicosespiacevoli;abbia,buonaSignora,pazienzaetornerà.Nonlenascondocheiohosperatoinlei,nelsuoaffettochemisembrasincero,mapurtroppovedocheancoranullaabbiamoottenuto,voglioperòsperarechecoltempoepazienzariusciremoaqualcosa.Eglimidissecheleieramoltobuona,macheilcaratteresuoviolentononpotevafrenarlo,quandodicepartiresisenteagitatotantochemeglioèperluiepernoilasciarlofare.Sealasciatolarobarottaesporcaman-doioaprenderlacosti.

ConsigliDinoatornarsenedaLivorno,nonèariaperluisottoogniaspetto.Nell’Estatescorsoeglivipassòtroppenoie,cheDiononvogliasiripetine,tantochefuobbligatoalasciareLivorno.Credevamochenonglifossetornatovogliadiritornarci;cerchidiconsigliarloastarcipoco,ancheperisuoinerviglifamegliol’ariadimontagnachequelladimare.Faràmoltopiacereadirlequestoancheanomedelbabbosuo,noinongliscriviamoperchénoncidaascolto.

FidentenellasuaascendenzasuDinoLefoossequieaugura

Dev.maFannyCampana.

LXVI Lettera

SibillaAleramoaG.Sforni

[Firenze,20-22gennaio1917]

Signore,

Ella avrà ricevuto l’altro giorno Canti orfici di D[ino] C[ampana] assieme alritagliod’unartic.[olo]diE.[milio]C.[cechi]2.Forseconoscevagiàillibroeilnomedelpoeta.ForsequalchevoltaancheinteseilnomedichiLescrive.D[ino]C[ampana]volevapresentarlesidipersona,poinonhaosato.Mifacciodunqueanimoio,chel’amo,echesoffrodell’impotenzadelmioamoreagio-vargli.Eglièmalatodamoltotempo,dineurasteniaacuta.Dapiùd’unannononlavora.Dovrebbefarunlungosoggiornoinunacasadisalute*-gliel’haprescrittoancorieriilprof.Tanzi4.Maèdeltuttoprivodimezzi.Hasemprevissuto, prima d’incontrarmi qualche mese fa, vagabondo, staccato da tutto.Signore, Le parlo con abbandono e con fiducia, perché so la gentilezza del Suo spirito.AncheEmilioCecchim’ha incoraggiataaquestopasso.Soch’Ellaègratoallasorteogniqualvoltapuò,consemplicità,aiutarequalcheuomodivalore.

D[ino]C[ampana]abitainquestomomentoalleCavediMuoiano,maèquasisemprequiincittà,doveabitoio,L[ungarno]Acciaioli]24pr[rosso]Fr[arini].IoLaringraziodiquelch’Ellafarà,enonlodimenticheròmai.Leaugurotantobene.

S.A..

*VedinotaletteraLXXXI

LXVII Lettera

G.SforniaSibillaAleramo

[Firenze,24gennaio1917]mercoledì

Genti.maSignora,

Horicevutoilvolumedicuimiparlamanonsapevodachimifossestatoportato.SeilSignorCampanavuoiveniredameloconosceròmoltovolentieri:iosarei incasaDomenicaversole61/2.Seinquelmomentoeglinonfosselibero,lopreghereiditelefonarmiperdarmiunaltroappuntamento.MicredaconossequiSuodev.mo

GustavoSforni

LXVIII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze 28 febbraio]

Dino,

Dicesti: “Sibilla resisterà una settimana, poi mi soffocherà di lettere, diespressi...”.

Èunmesecheseipartito,etiscrivo-perun’unicavolta.Nonhomaipiùsaputonulladitè,senonchetisentivi“beneequasifelice”.NeancheCesarinom’hapiùscritto.Nonaspettopiùnulla.

Matiscrivoperchéc’èunaveritàchetivoglioaverdetto,cheforsetientreràinpettoorachetèladicodilontanoesenzapiùsperanzadirivederti.

Dino,ioetècisiamoamaticomenonerapossibileamarsidipiù,comenes-sunopotràmaiamaredipiù.

Dino,eildolorenonimporta,enonimportalamorte.

Iosongiàfuoridellavita,anchesepiangoancora.

Dino,fadisalvarenellatuaanimailricordodelnostroamore,poichenonhaisaputovolersalvarel’amorenellavita,fadiportarlonell’eternitàcom’ioloporterò!

Dino,cheDÌOtiguardi.

Sibilla

LXIX Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze[17febbraio1917]

C’è un ramo in fiore - che profuma di miele - e ci son luci rosse e nere - di legnachearde.-Ricordiinattesi-dipaesi-felici,-gemitiimprovvisi-pervisi-cheatrocementerisero-es’allontanarono.- Intensafragranza-eguizzi instanza-asera-pacedelfuoco-ecodiluce-lapignainbrace-tutteleforestelungi.-Desdemona-eilsalcedov’è?

Tèlavolevomandareunmesefa!Vedicomeèbrutta,strappala!

LXX Lettera

F.CampanaaSibillaAleramo

[LastraSigna,5-5-1917])

EgregiaSignora,

LasualetteramihasorpresocredendolaleipureaTorino.NonlenascondocheerailpensierochemitenevatranquillariguardoaDino.TantoiochesuoPadrefummomeravigliatiricevereunacartolinaÌ14febbraiodaDinedalPie-monte.Solochiedevailsuomensilechecerafreddoelaspesadellalegnainpiù.Apostacorrenteilbabboglimandòle30lirequindicinali,enellacartolina

iopureunipocherighe,chiedendolelacagionedellasuasilenziosapartenzaeseleierainsuacompagnia.

Abbiamoattesoinvanolarisposta.Circail20ebbelealtre30lire,eilprimodimarzoaltre30lire,conpreghieradidirciperchéeracostà,cosafacevacomestava.Siamoal^enullascrive.Ilbabbodicechesenonglichiedenongliman-da più denaro. SÌ sacrifica per lui giovane e robusto.

È un benedetto figliolo che bene non può stare, hai nostri occhi, fa il possibile perstarmaleefarestarmaleisuoi.

Nonsocarasignorachecosaaggiungere.L’infanziael’adolescenzadiquelfigliolo e stata meravigliosa. Pacifico bello grasso ricciuto, intelligente di due annidiceval’Aveinfrancese,erodatuttiinvidiata.DÌunubbidienzaebontàeccezionale,isuoiprofessoridiginnasioeliceolodicevanodiuningegnononcomune,anoigenitoridicevano,saràlaloroconsolazione.-Orasonostataco-strettadirle:percompatirtigrande,bisognamirichiamiallamenteituoiprimianni,enonbasta.Locredechesperoinunaltratrasformazione.

Venne il20gennaio,epiùnon l’abbiamovisto, si cambiòprese le scarpeaccomodatele30lirequindicinali,noisiamoinregola.Anzilopregaiadirlecheilgiornostessoavevopensatorispondereallasualettera,lefacesselemiescuse,aspettavoilcalzolaioperunirealpaccolescarpegrosseaccomodate,etuttoinviarlecomemidiceva.

Perdoni se troppo e a lungo mi sono trattenuta, e uno sfogo materno checompatirà.

Sesapròqualcosaglielocomunicherò.Lasalutodistintamente.

Dev.maFannyCampana

Dinoaportatoviatuttoanchelarobarotta?doveamessotutto?ainpiùunasua fotografia Dino?

LXXI Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[marzo1917?]

Miocaro,losaichemistannouccidendo?Oh,nontiallarmare.Pianopianoe nessuno se ne accorge. Minuto per minuto, in questo assurdo silenzio gonfio d’indicibile, aumenta la prostrazione, la fissità vana dello sguardo, e il sapore di terrainbocca.Inquestiultimigiorni,pergiunta,holavorato.Nientedimoltobello,matuttoserve.Nonerituchedicevi“Comecostacarofarpoesia!”?EpoiilmottoAufmors,Bah,perchétiscrivoquestestorie?Pensarechel’altramattina mi son svegliata col pungolo di mandarti questa straordinaria frase:“Canearrabbiatochem’haimorso,muoio,ma ti taglieranno la testa”.Forsel’avevosognata.Ancoradessolacontemploconreverentestupore,lostessochem’incutevacertevolteiltuopiùatrocefurore.Poverinoi.DinoeSibilla,anzi,DinuccioeRinetta,chenonpotrannoamaremaipiù.Almenoionehopiùperpoco.Matu?Ingrassi?Ofaiversi?Addio,miocaro,nonaspettomicarisposta.Haivistochenont’ho“soffocato”conlemielettere?Addio,Dino,cheDiotiguardi.

LXXII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Marzo1]

Dino,

hounagrandemalinconia,ungrandeamore,unaparola,non soquale,dadire.

Nonsoquelchelavitavuoledame.Sedebboresistereinquestasolitudine,inquestapreghierad’ogniistante:rinunciarearivederti,restarepersempreconquestosaporediterrainbocca;salvarticonlamiarinuncia,colfarmiamaredalontano.Aspettarelamorte,quant’anni,Diomio?

Ovenire,contuttal’umiltàdelmiocuorechevuoipiangereechevuoicanta-re.Chenonsanulla,dilàdallagioiadiritrovarti.Cheturinnegherai,calpesteraiancora,econtinueràadamarti,cosi...

Dino.Esentirmichiamarepernome.Ohnonèmiseria.Tiamo.RingrazioDÌO.L’adorazionesilenziosaperl’universo,siscioglieinquestelagrimesetivedoosetipenso.EquandotumichiamiRina,èDÌOintèchemivuoibene,chemisorride.Vicinoolontano?.

LXXIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Rubiana, 8 marzo 1917]

EgregiaSibilla,

II mio silenzio deve avervi significato che nulla e più possibile tra noi. Voi avretedunquerinunciatoalprogettodelvostroviaggioquassù.Giàvidissichepreferivo uccidermi piuttosto che vivere con voi. Questa mia decisione si è con-solidata.Lasciatemidunqueperdere.Sentochenonpotròmaipiùperdonarvi.Addio dunque. Tutto è finito per sempre.

Campana.

LXXIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Rubiana,9marzo1917,ore11,20]

Perdonavienisubito.

Campana.

LXXV Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze]9marzo,sera[1917]

Perdonarmi? D’esserti venuta incontro, d’averti creduto un uomo libero egrande,d’avertiparlatocomeparlosoltantoall’animamia-perdonarmid’averti“presosulserio”,veroCampana?D’averduratoilmartiriopiùinfame,peramo-re,persperanzainvincibiledimiracolo,ebaciatoletueginocchia.Eora,d’averaspettato,pregando,pregandoDÌOChetisalvasse,cheilsilenzioelamontagnatifacesserosentirechecosasiamostatiechecosapotremmoessere-aspettatoetaciuto,inunaconsunzioned’ogniminuto,quantotempo?Edèsemprelanotteche sci partito, tè l’ho scritto finalmente nella cartolina che s’è incrociata con questatualettera2...Dino,povero,povero,povero!

LXXVI Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[VillaIrma,Rubiana(Torino)[11marzo1917]

CaraRinaNonhoricevutolatuacartolina.Nontidicoquellochehosoffertoinquesto

tempo.Nonhovissuto(?)cheperte.Vedicheappenatiseimossa,haiscrittoquellacartolinachenonhoricevuta-iotihoscritto.Volevodirtiinquellalette-rachetuvenissiperchévolevomorire,equestotuttiigiornichec’eraunpo’disolequavolevoscrivertelo.Invecetihoscrittoilcontrario,matusaileggere.

CaraRina,nonvoglioattaccarmia teconquelladisperazioneche tanto tioffendeva,micontentodidirtichetiamopiùdellamiavita,etipregoanonchiedermipiùdiquellochepossodarti.Tuseilibera,ionontidomanderòmaipiùnulla.

Hailavoratounpo’?Vuoiveniretuochevengaio?Vuoicheviviamoinsie-me o lontani? Sai i miei gusti. Come stai? Che vita hai fatto? Qua non manca

ancoranulla.MandamiunquartochilodiThèHornimansunicagioia.

La casa è ospitale qua. Posso disporne liberamente, benché sia innocente(scusa la parola). Ti bacio infinitamente gli occhi le labbra i capelli. Per sempre tuo

Dino

Lapostavieneunavoltaalgiorno.Inutilemandareespressi.

LXXVII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze]12marzo[1917]

Nonvengo,miopoveroamore.Perchénonpossoeperchénonvoglio.Manonpossoneppurescriverti.Soffro.Sentochenullaèmutato.Nullaintes’ècreato in tuttoquesto tempod’orribileoscurità.Forse, anzi certo, perché seipartitoaquelmodo.Comedunquecedereallatuachiamata?Dino.Iohorinun-ciatoatutto,songiàquasifuoridellavita.Enonvogliorientrarcivanamente,comprendi?Perlapuragioiadivedertied’abbracciarti,tantoforteetantopurach’èugualealsogno,nonvogliosiripetatantomale.Megliosoltantoricordare,sentendolamortevenire.Iosoricordarelaluce.Socomecisiamoamati-comenonèpossibileamaredipiùinterra,loete.Mailmalenonlovogliopiù.Do-vevipartireperguarire,Dino.Chevolevadirerinascere.Ritrovarevolontàefede.Pensarmi,volermibene.Lafede,orabisognerebbechelarisuscitassituinme,ch’eratanta,losai!Èmaipossibile?Comesetufossigiuntoiericostì,em’avessichiestoperdonoappenatoccatalaneve.Èmaipossibilechetusappiarimanerfermooraadamarmieadaspettarmi?Peruntempocheassolvatuttoilresto?Chetuvogliaveramentevivere,pertèeperme?Dino,nonpossopiùsperare,esoffro,soffro,chedirtialtro?Masonoanchefelice-dipatirecosi,morirecosid’amore.

Sibilla.

LXXVIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Rubiana]21marzo[1917]

Caroamore,

Miaccettionocometuomodestocompagnopersempre?Inognicasoperdo-natesoro.Vogliorivederti.Ebastacollainutilesofferenzaoraepoi.

Senonvieniverròtradueotregiorni.Ricevooggilatualetteradeldodici.IndirizzaVillaIrmaRubiana(Torino).Nonriceveilacartolina.Sonostancodiquassùedituttoquellochenonète.Iononvoglioviveresenonperte.Seaccet-tibene.Senocivedremounavoltaepoiaddio.Faiituoicalcolitenendocontoanche del tuo cuore. Qua fa caldo. Dovresti venire quassù. Si sta tranquilli. Non c’ènessuno.Dovrestichiedereunpermessodiquattroocinquemesiall’istitutoper[“]ragionidisalute”eprocurartiqualchetraduzioneperme.

Di tènon ricordoche l’immensoamoreche tihovolutoe che tivoglioechemihaivolutoetichiedosinceramenteperdonodituttoquellochepermiamiseriaoperdestinoèsuccessotranoi.Nonsuccederàpiùnulla.Amoremiorispondianzivieni.Sevuoivedereituoiamicitiaccompagno.Ormaitiamointeramentecollatuavita.Persempre

tuoDino!

LXXIX Lettera

F.CampanaaSibillaAleramo

[LastraaSigna]22marzo1917]

EgregiaSignora,

FinalmentestamaniearrivataunacartolinadiDino,ilbabbogliamandatoL.

25,alprimodelmeseriscuote,elemanderàL.35,chesono60.

Se lavora camperà, altrimenti… è cosi cara la vita… Speriamo bene...

IoSignoranonsodargliconsigliosuldafarsi,altrochelegalizzarel’unione.Unchemidicecheleisevuolepuòsalvarlo.Lecosebenfatteportanoingene-ralebuoniresultati,sevuolbeneaDinofacciadelsuomeglio,ediol’appoggeròdoveposso.

Sentochenonèindifferenteall’animomio,forse,anzicertoperl’interesseche si prende di mio figlio. Se viene qui alla Lastra sarà accetta. A Dino non abbiamochedasalutarloefargliauguri,pregarloaconservarequelpuòdiroba,camiciolaspecialmenteeabitichenonpotremol’annoventurorifargli.

FaròinseguitounascappataaMarradi,eleporteròunabitodamezzastagio-ne;ilcappottocamiciolaeabitidainvernovorreiaverliaMarradiperconser-varglieli. L’altro mio figlio che abita a Siena ci prega a passare da lui le vacanze efestePasquali,insistetanto:vedremocontentarlo.

GrazieperlapremurachesiprendediDino.Auguriperleprossimefeste.Sivalgadimedovecredepossaessereutile.MicredaconossequioSuaDevmaAffma

FannyLutiCampana

LXXX Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Rubiana25aprile1917]

Sibillinaperchéscrivoancora?Nonvicredopiù,losapete.Aspettavoanchequestadisillusionechenonpuòaggiungerenullaalresto.Ciaolostesso.Abbia-mofattoilgirodellago.Lavitaèuncircolovizioso.Mandatetraduzioni?

LXXXI Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Firenze]25apr.1917]

Timandodeiversiqualunque,soltantoperchétuvedacheanch’ioinquestigiornipensavochela“vitaèuncircolovizioso”...Malopensavodiversamentedate,miopoveroDino.Delresto,sehoancoralagraziadisentireinqualcheattimoilritornoeternodellapurezzanelmondo,nonsoffroperòmeno.Dino,tiamoancora.Inquestitremesisonrimastafedeleallamiapassione,inunmodochetunonpuoiforseneppurimmaginare.Ma,mentresonoancoracositua,tidicoamiavoltaaddio.Nonsochecosamiaspetta.Forseleprimavere,setor-nerannoperme,tornerannotuttecomequesta,deserte.SiafattalavolontàdiIddio.Èmortamiamadre,l’hosaputotroppotardiperrivederla.Forsepartiròdomani,nonimportaperdove.Nonhodamandartiletraduzionichemirichie-di,enonvedocomeprocurarteneinquestomomento.Addio,Dino,chetupossaritrovarlapoesianellatuaanima-ericordartiqualchevoltadell’animamia.

Masi,sempresib-Sentochesorrido,intenerita,c’èpudoreec’ègraziapuerileinquestochem’investe,sola,tremoreimprovviso,ohlucetraleramegemmate,seracheavvicinilaprimavera,sentochesorrido,intenerita,cositersacosilieveepresentelavita,conunsuosensoanch’essadicastobene,ridente,diun’orachetorna,torna,masi,sempre

diun’orasospesa,ohnuova!

SibillaAleramo

Firenze,aprile1917

(Questi tre mesi di castità - ai quali ne seguirono altri, stando alle informazio-nididocumentid’archivio-sonostatiperl’Aleramopiùpesantidamortacheda viva. C’è chi li imputa al necessario isolamento per aver contratto la sifilide, durantelarelazioneconDinoCampana:perunarisposta-basatasulladocu-mentazione-aquestaillazione(sileggalaletteran°66,dovelaAleramoparladicasadisalute,nelleletterascrittaaGustavoSfornielaspiegazionevennefat-tadopolavisitamedicaesmentirebberolerecentiipotesicheladiagnosifattadal Dottor Tanzi fosse quella di sifilide, così come il suo tono farebbe escludere l’abbandonodiCampanadapartedell’Aleramo).InuninteressantesaggiodaltitoloSulcarteggiofraSibillaAleramoeDinoCampana,BeatriceStasi,invece,nemetteindubbiolaveridicità,attribuendoall’Aleramounanuovarelazionenel1917.Sicogliel’occasioneperprecisarecheGiovanniMerloebbeconSi-billa una storia d’amore che durò due anni, ma che ebbe inizio a marzo 1918.

Lapoesia-inedita-èprobabilmentequellaacuisiaccennanellaletteraevennespeditainqueigiorniancheaCecchi).

LXXXII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze fine aprile - primi di maggio 1917]

SibillaMihaiscrittochemilasciaviesonovenutopervedertiperchénonpossola-

sciartisenzapiùsentirelatuavoce,unavoltasola.Miaadorata,sevuoitigiurochesarailiberaperdona

tuoDino

LXXXIII Lettera

ViadellaFornace9(pressoPiatti)Firenze.

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,1°5maggio1917?]

Cattivamifeceroilgiocodellecarteecomevero.Nonvoglioscriverecapi-sci,nientevaleiltuosorriso,ladolcezzadite,nonvogliodirtialtrochesonopassato e passo a guardare la tua finestra chiusa e a baciare il vetro della cassetta delleletterecheunavoltalasciavavedereSibillaAleramo.Nonmisentoaffattoferoce,perfettamentetranquillo.TiAMO.Gioiamia,piùcaradellavitamillevoltemiaperilmioricordodisperato.Tesoro,vuoichetiracconti?Einutile.Cosapuoitufaredellemiestorie.Sibillamia.Sibillapiangoesorridotiadoro.Oggiglicineperlaceeeranonelsoleeunatestad’uomo?Nonsonopiùiltuobambino?Parloditecomediunasantachesicercainginocchio.Misentoforteperchétuseistataqui,haiguardatol’Arnoehaivistoleglicine.SonostatopurealLyceumelàhovistoleglicinevivesuimuridelcortilearsinelsoleamoreamore.Cuoredelmiocuorec’èunaltroancorachevorraicantare?Latuasan-ctasolitudocoigrappolidiglicinealsolebasta.GioiaNonsoperchétiscrivolettere assurde ti so lontana e che non vorrai più amarmi, capisco tutto sai.Mandamiunagocciadeltuosanguepossoguarire.Ilventobattevasuiboschimalatuavoceerapiùforte.AddioSibillanonresistopiù.Unalungaagoniaeralassùlontanodatè.Avevotrovatounapupattolaecirecitavolacommediadell’amoredisperato.Setuavessiassistitoallapantomina(comepresenteeriperme!),sarestistatatantocontenta,pantominachespezzavoilcuoredilegnoameeall’altra.Gioiatienisultuopettolaletteraprimadiscriverlaalungo.Unbaciofattodimilleemillebaci.

TuoDino.

Scriviraccomandato,

DinoViadellaFornace9Firenze.

LXXXIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,30maggio1917,ore13,30]

Fornitodanarodesideroardentementevederti.Campana

LXXXV Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Milano]30maggio[1917]

Tihosognato-miericoricatoaccanto-misonsvegliatachedicevi:“perdo-nami”.Eritu,Dino-tihopropriorivisto,sentito.

Allora vuoi dire che lo sai finalmente che t’ho amato? Lo sai che cosa orribile è stata la tua cecità? Quei tuoi occhi che chiudevi, ed eran fatti per il sole. Per meeperte.

OhDino,Dino,eoraètroppotardi.Nonpossopiù.IosonpersemprequelladellanotteincuipartistidaFirenze,piangocomequellanotte,daquellanotteecomeseavessiquattroanni,lagrimesenzarispostainmezzoallaviad’unabambinabattutaesperduta.Enessunopiùm’hatoccata.

Eropura,Dino-perchéhaivolutonegarlo,esapevidimentire?Sonopura-emisentomorire-edormaiètroppotardi,amore,poveromio,

mio,ch’iosolahoamato.Tiperdono.Ricordati.Avevofedenell’animatua.Sal-vala-comesedovessimoritrovarci.Insognolosaprò,forse.Mio!Tiperdono.Vivi.

Sibilla

LXXXVI Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[CadiJanzo,Novara]seradel20giugno[1917]

Questa stanza d’albergo di cittadina di montagna m’ha ricordato, appena vi sonoentrata,quelladelNataleaMarradi.Forseperchéc’èunlettogrande,edaquellavoltanonnehomaipiùveduti.Grande,tuttoperme.Homangiatodeifunghi,comeallaCasetta,ebevutodelvino.Domaniproseguoperl’altavalle.CisontantevallinelleAlpi.Tunonpuoiindovinareinqualemitrovo.Ilpropo-sitosarebbedirestarcialmenotremesi,cheunitiaglialtricinquegiàtrascorsiinstatodisantitàfarebberounrecord-ohnonperoffrireate!

EtuseidinuovoaRubiana,vero?L’hosaputoottoodiecigiornifa,tornan-do a Milano. Mah! E sei contento? Domani vedrò le cime di ghiaccio. Quando pensochenonsapraimaicomet’hoamato,Dino!Addio,stanottedormo.

LXXXVII Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[CadiJanzo,Novara20giugno1917]

LeginestreaMarradi,leginestreaMaiani,inqualegiugnolevedremoin-sieme?

Sequest’annosaraisulleAlpi,coglieremolegenziane.Fammicredere!Neltempo,mio,nostro.Nelritornodell’estate,l’annocheverràepoiancora,an-cora.Viverenonavendopiùfìssadinanzilamorte,vivereguardandolavita.Dino!

LXXXVIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Ruotano,30luglio1917]

Signora,

VÌdomandodirivederviperparlarviepersaperequalchecosadelmiodesti-no.Intantovidomandoperdonoesonoumilmentevostro

Dino

LXXXIX Lettera

SibillaAleramoaDinoCampana

[Ca di janzo, Valsesia] fine luglio 1917]

Mèredes souvenirs,maitressedesmaìtresses... -Unannoche scrissi “an-dandoestando”Unannodifedeltàmia,perilricordodiqueimattinialBarcoch’eravamoduecosed’oro.Addio,Addio...

XC Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi 8 agosto 1917]

CaraRina

Mi trovo finalmente a Marradi fra le vergini foreste paese che tu pure hai veduto.Compiangoiltempochehotrascorsoinforestemenovergini.Ma,vivadio,misentosoltantoadessodiessereancoragiovaneedicombatterenuovebattagliesianelcampovastissimodell’intellettononchéinquellodinuoviamo-ri.Auguroatepuredonnaintellettualeecoltadipoterfareperquantotisaràpossibilelastessavia.

Secredimisarannograteletuenotizieeassicuratichediteconservoilpiùdolcericordo.

DallerupidiCampigno,nellecuirupipietroseabitapermanenteilfalcoiospero di superarle e volare sopra di esse con tutta la fierezza e la forza dell’aqui-la.Fratuttigliareoplanimoderniancheilmioseguiràilsuodestino.Olamorteolagloria!tuoaffezionatissimo

DinoCampana

cosidettopoetadelpresenteedell’avvenire

Marradi(Firenze)scrittadaCampigno.

XCI Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi,13agosto1917]

Yourforever

Dino

XCII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi,1°agosto1917]

Yourforever

Dinuccio

XCIII Lettera

DinoCampanaaM.Luchaire

[Marradi,13agosto1917]

Sibilla?

XCIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi,14agosto1917]

Perchénonmiperdonate?Vicostacosipoco.Sietepermel’unicadivinitàsullaterraviamocomeunidolosenz’occhi.Èverononpossonullapervoi.Hoesauritotuttoilmioottimismo,maveniteabereilsanguedeimieiginocchi,venitedivinasolatratutteledonne.Sonovostroschiavo.Vicustodiròcome,PerdonoperdonoveniteDinopersemprevostro.

XCV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi,27agosto1917]

Caraamica,perdonateseviscrivocosi,permesietel’unicachepensocomeamicainpossibilità.

Dunquevoleteancorafarequalcosadime?Troveròunimpiegoeviameròpertuttoilrestodellamiavitacheormaiaugurobreve.

Voinonmifareteforsepiùsoffrire,nonmiromanzo[re]tepiù,saretemegliodiunaromanzieraèvero?Holasciatotuttietutte.VorreivenireinPiemonteeviverepressodivoi.PeròmiprometteretedinonconoscerelaGuglielminettiedidisprezzarla.Vitadilavoroerinunzia!ComemegliolapotetefarechecomevidicoCiaobiondinaadorata.Scrivisubitotiprego..

XCVI Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,6settembre1917]

SibillaAleramo

Addio. Nous ne nous reverrons plus sur terre.Addio. Mandate ancora unsalutoalvostro

DinoLungarnoAcciaioli24(pressoFratini).

XCVII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,6settembre1917]

CaraSibilla

oggifacciofrasi:ossia:ilmondoundesertosenzadite,oppurechecosadevofaredellamiaverginità,oppuremicontentereidivedertidiabitarenellostessopaeseperchéilmondoèecc.Sibillatisupplico,tihoamatolosai,tiassicurotigiurochenonpossoviverecosi,tunonpuoiprivarmidellatuapresenza,nonpossoviveresenzavederti,senzasaperti.Tigiurochenondomandoneppureiltuosaluto,saròlatuaombranellavitasevuoi,ilricordodiunamorechetiseguirà,felicecosi.Néperviverenépermorirepossoesseresenzadite.Tihoadoratotantoquestimesiinmezzoalmiotormentomentrecredevodimorire.Malassùc’erailghiaccioeilsilenzio,tumiavrestidoporitrovatopurodopointuttoilsilenziodituttelecose.Sibillaperdono,pertesolahofattotutto.Nonmioffendere,saròiltuoamicosilenzioso,nondomandolagioia,vogliosolovederti.Faròtuttoquellochemicomandi.Sibillaperchévuoichemuoiacosilontanodate?

XCVIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze,6settembre1917]

CaraSignora

sononellatuastanza.Dimmisedevoviverciomorirci.Nontiimportuno,èvero.Tesorosanto.

TuoDinoLungarnoAcciaioli24(pressoFratini).

XCIX Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Novara,11settembre1917,ore9,30]

MalatoritornoMilanodomandorivedertitelegrafaManinPerdono.

TuoCampana.

C Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Novara,11settembre1917,ore12]

ArrestatoaNovaravieniavedermiCampana.

(Dinoerastatoarrestatocomeabbiamogiàsaputodallanotaaggiuntaallalet-teraXIII,maricordiamolo:Sibillasirecòdall’Avvocatomilaneseantifascista,coluichedenunciòilParlamentoindelittoMatteotti,chel’aiutòafarscarcerareCampana)

CI Lettera

SibillaAleramoaE.Cecchi

[StazioneNovara13seti.17sera[1917]

CaroCecchi,

voglioscriverviunalettera“storica”...Nonhannoforsegliuominiinventatola storia per giustificare la vita? Vero è che aspetto un treno che mi riporti a Milano,didovesonpartitaoggi.dopoesserviarrivataierseradaquestastessalinea...Caroamico,sonovenutaquipervedereCamp[ana]ch’èinprigione.Ar-restatotregiornifaperilsuosolitomotivo(somiglianzaconuntedesco).L’horivedutocosì,doponovemesi,attraversounadoppiagrataamaglia.Noneromaientratainunaprigione.Estatouncolloquiodimezz’ora,icarcerieriavevanquasil’ariadipatiresentendoluisinghiozzareevedendomeirrigidita.

Quando sono uscita, c’era tanto vento, pareva il giorno che arrivai ad Ales-sandria, ricordate? e in fondo si vedevano le montagne bianche. Ebbene, lalibertàm’èparsalacosapiùtremendadellaterra.Hoinvidiato-forse,forsesi-luich’erarimastodentroconqualcunoalmenocheloascoltavapiangere...Oiosonostanatadall’umanità,olamiaumanitànonsiesprimepiù...Maorapar-lo,ecco.Perdonate.Vogliatemibene.ScriveteaC.aMarradi,doveildelegatom’hapromessodimandarlodomaniconfogliodivia.Diteglichelavori,cheabbiafede...Nonhopotutoprometterglinulla-epureerosua,sonrimastasua,losapete.Forsetuttoèveramentebene.Chisa.Coraggio.

Sib

P.S.ScrivetemialManin,nonsodoveandròmamiraggiungeranno..

CII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Marradi27settembre[1917]]

CaraSibibilla

milasciquanellemanideicanisenzaunaparolaesaiquantotisareigrato.

Altreparolenontrovo.Nonhopiùlagrime.Perchétogliermianchel’illusio-necheunavoltatumiabbiaamatoel’ultimomalechemipuoifare

Mapuresperoancorainunatuabuonaparola,diquellechesiscrivonoadunamico inutile e lontano, un tuo sorriso di riflesso e tante tue notizie sulle righe. Cara,chitifucaro,fu

Dinuccioèvero?

1918ANTIEPILOGO

CIII Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Firenze, 4 gennaio 1918, ore 18]

Tuttocancellatodomandorivederti.Campana.

CIV Lettera

DinoCampanaaSibillaAleramo

[Manicomio di S. Salvi, Firenze 17 gennaio 1918]

CaraSecredicheabbiasoffertoabbastanza,sonoprontoadartiquellochemiresta

dellamiavita.Vieniavedermi,tipregotuo

Dino.

EPILOGOeL’ETERNITA’ NELLA POESIA

GiuliettaeRomeodrammain14quadriesettescene.dove si vedono mostruosi fatti e scene di terrore e orrore e infine della lotta

della passione il trionfo dell’innocenza. Scena finale.MiacaraRina,SonocinqueminuticheaspettandoRinaFacciomiaamicaamanteeamabilissimaRinaossiaunadonnasulbaratro(SibillaAleramo)

***

Viamainellacittàdovepersole

ViamainellacittàdovepersoleStradesiposailpassoillanguiditoDoveunapacetenerachepioveAserailcuornonsazioenonpentitoVolgeaun’ambiguaprimaverainvioleLontanesoprailcicloimpallidito

*********************************

Sulpiùillustrepaesaggio

SulpiùillustrepaesaggioHapasseggiatoilricordoColvostropassodipanteraSulpiùillustrepaesaggio

IIvostropassodivellutoEilvostrosguardodivergineviolataIIvostropassosilenziosocomeilricordoAffacciataalparapettoSull’acquacorrenteIvostriocchifortidiluce

*********************************

Inunmomento

InunmomentoSono sfiorite le roseIpetalicadutiPerchéiononpotevodimenticareleroseLecercavamoinsiemeAbbiamotrovatodelleroseEranolesueroseeranolemieroseQuesto viaggio chiamavamo amoreColnostrosangueecollenostrelagrimefacevamoleroseChebrillavanounmomentoalsoledelmattinoLe abbiamo sfiorite sotto il sole tra i roviLerosechenoneranolenostreroseLemieroselesueroseP.S.Ecosidimenticammolerose

*********************************I piloni fanno il fiume più bello

I piloni fanno il fiume più belloEgliarchifannoilciclopiùbelloNegli archi la tua figura.Piùpuranell’azzurroèlaluced’argentoPiù bella la tua figura.Piùbellalaluced’argentonell’ombradegliarchiPiù bella della bionda Cerere la tua figura.

Sibilla Aleramo e Dino Campana Passione sfrenata con botte da orbi

È tornato recentemente in libreria, con un titolo fantasioso e l’ aggiunta di una dozzina di nuove lettere, il carteggio Campana-Aleramo, pub-blicato nel 1958 da Vallecchi e curato da Nicolò Gallo, che in realtà si limitò a sistemare e ad annotare le lettere che gli aveva dato la Aleramo. Personalmente, penso che sarebbe stato meglio ristampare il testo ori-ginale, senza nulla cambiare e nulla aggiungere. Quel carteggio, infatti, non è un vero carteggio, ma è il romanzo d’ amore che Sibilla, ottanten-ne, compose mettendo insieme una parte delle sue lettere a Campana e quasi tutte le lettere di Campana a lei.

Sibilla potè creare quel romanzo perché qualcuno (forse la madre bi-gotta di Dino, Fanny) le aveva restituito le lettere d’ allora, dopo che Dino era stato internato in manicomio. Sistemando l’ epistolario con Campa-na, distruggendo alcune lettere, togliendone altre, Sibilla diede anche forma accettabile a una storia che probabilmente le pesava ancora. L’ edizione Vallecchi delle Lettere è un suo romanzo: la sua opera migliore, forse l’ unica che le sopravvivrà (se non verrà troppo rimaneggiata). Dino Campana e Sibilla Aleramo si incontrano per la prima volta giovedì 3 agosto 1916 al Barco sopra Scarperia nelle montagne del Mugello, e per l’ ultima volta giovedì 13 settembre 1917 a Novara. La loro storia d’ amo-re (che però, come si vedrà, non è soltanto una storia d’ amore, e non è del tutto corrispondente al romanzo epistolare di Sibilla) ha bisogno di alcune premesse: sui suoi protagonisti, sulla guerra che le fa da sfondo e poi anche sulla malattia di cui Dino soffre già da parecchi mesi, e che lo porterà alla tomba. Dino e Sibilla sono due personaggi diversi e quasi opposti. Tanto lei è mondana, socievole e «sociale» (ma con intelligen-za, senza le pose da femme fatale alla Amalia Guglielminetti), tanto lui è, per sua stessa ammissione, «orso» e «strambo». Senza la Grande Guerra del 1915-1918, si sarebbero forse incrociati e sfiorati nell’ am-biente letterario fiorentino, e tutto sarebbe finito lì. Il loro incontro è ine-vitabile e «fatale» perché avviene nelle retrovie della guerra; in un’ Italia silenziosa e attonita per le notizie che arrivano dal fronte, che espone quasi su ogni porta il nastro di un «lutto tricolore». In quell’ Italia senza

più giovani e quasi senza uomini, raggelata, dove i muri della città esor-tano a non parlare con gli sconosciuti e a denunciare le persone sospet-te, Sibilla trova un giovane maschio di trent’ anni, con i capelli fulvi e gli occhi chiari, che è anche un grande poeta: e se ne innamora all’ istante. Che altro avrebbe potuto fare? Nel momento in cui si incontrano, Sibilla e Dino hanno una sola cosa in comune: sono, tutt’ è due, affamati d’ amore. Lei, di amori ne ha già avuti tanti, ma nessuno mai l’ ha soddi-sfatta né mai arriverà a soddisfarla pienamente. L’ amore disperato e folle con Dino Campana: i pugni e gli sputi di lui, i graffi e i morsi che lei gli ricambierà saranno tra le cose più autentiche della sua esistenza. Lui, Dino, prima di incontrare Sibilla non ha mai amato nessuna donna. Pos-siamo esserne sicuri, anche senza conoscere tutti i giorni e tutti i minuti della sua vita, perché ci troviamo di fronte al caso, abbastanza raro, di un poeta in cui scrittura e vita coincidono. Nelle poesie e nelle lettere di Dino Campana la scrittura registra, quasi automaticamente, tutti i princi-pali eventi della vita: è ciò che la «scatola nera» è per gli aerei. Se una cosa non c’ è nella scrittura, non c’ è nemmeno nella vita. Prima dell’ incontro con Sibilla, nella vita di Campana ci sono le infatuazioni adole-scenziali per qualche ragazza di Marradi, per qualche compagna di li-ceo; c’ è la creola Manuelita, intravista a Bahia... E poi, ci sono le prosti-tute. C’ è l’ epopea del sesso a pagamento e della prostituzione dell’ epoca, nelle sue forme più arcaiche (v. Il viaggio e il ritorno: «A l’ ombra dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’ odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludi erano taciuti ormai...» ) e volgari (v. Notturno teppista: «Amo le vecchie troie/ Gonfie lievitate di sperma...»). Ci sono un paio di incontri senza impor-tanza: con una «svizzera Segantiniana», con una «russa incredibile ve-nuta dall’ Africa». Non c’ è, assolutamente, nessun amore degno del nome. (E, quando poi ci sarà, lascerà la sua traccia). L’ amore di Sibilla e di Dino è, fino dal giorno del primo incontro, una passionaccia, un amore quasi esclusivamente carnale. (Sibilla: «I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupisco-

no il cielo». Ancora Sibilla: «Ti farò gridare di gioia quando ci riprendere-mo»). I guai nascono quando i due incominciano a conoscersi. Dino ha un bisogno disperato di Sibilla, e però non c’ è quasi niente di lei che possa piacergli davvero: né la scrittura, né le amicizie, né il carattere. In quanto a Sibilla, scoprirà presto che c’ è una ragione, e mica piccola!, per cui lo Stato italiano ha lasciato a lei quel maschio giovane e forte, invece di mandarlo al fronte insieme ai suoi coetanei. Dino Campana è malato. Nell’ autunno del 1915 è stato ricoverato quaranta giorni all’ Ospedale di Marradi, con una diagnosi ufficiale di «nefrite». In realtà, ha avuto e ha una leggera paralisi al lato destro, che gli ha bloccato metà del viso e lo costringe a zoppicare; e soffre di un terribile mal di testa, di cui parla nelle sue lettere a Cecchi e ad altri corrispondenti e che chiama «congestione cerebrale» (meningite?). Questi sintomi non hanno niente a che vedere con la nefrite, e per un uomo di trent’ anni senza malattie cardiache (se ne avesse avute, in quattordici anni di manicomio si sa-rebbero rivelate), robusto come un torello e dedito assiduamente alle puttane, la spiegazione più logica è la sifilide. La sifilide distrugge il siste-ma nervoso, e gli ammalati di sifilide, finché ci sono stati i manicomi, fi-nivano spesso lì. Ma per avere avanzato questa elementarissima ipote-si, perfino ovvia, ho rischiato querele dai discendenti di Campana e ho subito, e subisco tuttora, l’ anatema delle vergini vestali di Sibilla Alera-mo e dei vergini vestali di Dino Campana: in pratica, per dirla con Dino, di tutta la «Letteratura nazionale / Industria del cadavere / Si Salvi Chi Può». Dino e Sibilla si amano follemente e si battono follemente, in vari luoghi, fino al gennaio del 1917. Grande amore, e botte da orbi: che Si-billa riceve (i Cecchi, marito e moglie, la incontrano con un occhio nero, e le consigliano di lasciare Campana), e però anche ricambia con molta determinazione. Anstrid Anhfelt, la giornalista svedese che ospita per qualche giorno i due invasati nella sua villa di Settignano nel dicembre del 1916, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccini un biglietto in cui la prega di fare qualcosa per fare «tornare in sé» Sibilla. A leggere quel biglietto («Tutta la notte si sono battuti e graffiati»: dove è facile immaginare che a battere sarà stato soprattutto Campana, e a graffiare sarà stata soprat-tutto Sibilla; «Si ammazzano senz’altro, se qualcuno non interviene») non sembra che Sibilla sia del tutto soccombente. Se lo fosse stata, la Anhfelt avrebbe scritto: «la ammazza», e non «si ammazzano»... Fu-

ghe, inseguimenti, riconciliazioni, altre botte: finché, il 22 gennaio 1917, per interessamento dell’ Aleramo, Campana viene visitato da un illustre psichiatra, il professor Ernesto Tanzi. Cosa abbia detto Tanzi a Sibilla, non si sa (ma la «paralisi vasomotoria» e le terribili emicranie di Dino erano sintomi inequivocabili, che lui certamente riconobbe). Si sa invece con assoluta certezza, che da quel momento Sibilla e Dino si dividono, e che non si rivedranno più fino al 13 settembre. Lui va in Val di Susa, e non le scrive quasi più. Lei probabilmente deve curarsi con il famoso «preparato 606» (il Salvarsan), e le lettere di questo periodo, seleziona-tissime, registrano però qualche scatto rabbioso («Cane arrabbiato che m’ hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa»), qualche perfidia fem-minile («Ci sono tante valli nelle Alpi. Tu non puoi immaginare in quale mi trovo»), qualche espressione irritata per la «santità» a cui è costretta («Il proposito sarebbe di restarci almeno tre mesi, che uniti agli altri cin-que già trascorsi in stato di santità farebbero un record - oh non per of-frire a te!»). Il rifugio segreto di Sibilla è un villaggio quasi irraggiungibile con i mezzi d’ allora, ai piedi del Monte Rosa. Lì Sibilla smette di scrive-re, probabilmente anche per non far scoprire dove si trova, ed è invece lui che la tempesta di lettere farneticanti e di cartoline, spedite all’ indiriz-zo di Milano. («Hotel Manin, Milano, far proseguire»). Ad agosto, nono-stante le restrizioni della guerra (siamo nel 1917) e nonostante sia privo di documenti per viaggiare, Dino va a Firenze e si insedia in casa di lei, di cui forse ha conservato una chiave («Sono nella tua stanza. Dimmi se devo viverci o morirci». Ed eccoci arrivati a settembre. Sibilla deve ritor-nare a Milano e a Firenze, ma teme di ritrovarsi tra i piedi quello spasi-mante che ormai le è diventato odioso, e decide di fargli uno scherzo. Il giorno 9 settembre, alla vigilia del rientro in città, scrive due lettere. Una a Cecchi, in cui dice: «Ho risposto poche righe a Campana, ancora di distacco e di coraggio. Se vi raccontasse altro, invenzioni»; e un’ altra (che naturalmente è scomparsa) a Campana, con le righe di distacco e... l’ indirizzo dell’ albergo! Il resto è fin troppo noto. Dino riceve le righe di distacco a Marradi il 10 settembre; il giorno dopo è a Novara, dove viene arrestato alla stazione ferroviaria mentre si informa sugli orari del-le corriere per la Valsesia e il Monte Rosa. L’ Aleramo, avvertita con un telegramma, si rende conto di averla fatta un po’ grossa. Mobilita le sue conoscenze milanesi, e poi corre a riconoscere Dino che è in prigione:

non «per il suo solito motivo (somiglianza con un tedesco)», come scri-verà, mentendo, in un’ altra lettera a Cecchi; ma perché, sprovvisto di documenti, non può viaggiare. Il giorno 13 settembre, da Novara, Dino viene rispedito a Marradi con un «foglio di via», che dovrà far timbrare in Comune al momento dell’ arrivo. Da allora non darà più fastidio. Conclu-sione. La grande e tormentata storia d’ amore tra due protagonisti della letteratura italiana del Novecento è, in realtà, una storia di: a) amore; b) botte; c) sifilide; d) carognate; e) melassa postuma della «vulgata» dell’ unica sopravvissuta, cioè dell’ Aleramo; f) libri e ristampe alla melassa. Comunque vadano le cose, gli amori tra scrittori producono libri: ed è questa consapevolezza, forse, ciò che più spaventa Dino nei momenti di lucidità. («Le mie lettere», scrisse all’ Aleramo alla fine del 1916, «sono fatte per essere bruciate»).

I PROTAGONISTI

I destini incrociati di un poeta vagabondo e di una scrittrice monda-na

Dino Campana è nato a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885; ed è morto a Castel Pulci, sempre in provincia di Firenze, nel 1932. Vive una giovinezza travagliata, che lo porta a interrompere gli studi di chi-mica pura all’ Università di Bologna. Dopo un ricovero al manicomio di Imola (1906), inizia una serie di vagabondaggi, in Svizzera e in Francia (1907). Nel 1908 è in Argentina, dove lavora come bracciante; poi va a Odessa, Anversa, Bruxelles, Parigi. Nel 1909 è di nuovo ricoverato, in una clinica di Firenze. Riprende, due anni dopo, senza alcuna fortuna, gli studi universitari. Nell’ autunno 1913 porta a Firenze, per consegnarlo a Soffici e a Papini, il quadernetto dei suoi Canti Orfici; ma, nella pri-mavera successiva, è costretto a riscriverli, perché Soffici ha perduto il manoscritto; e li fa stampare privatamente da un tipografo di Marradi (1914). Segue una nuova fase di viaggi (a Torino e, di qui, a Ginevra), cui si alternano un altro soggiorno in clinica e una tumultuosa relazione con Sibilla Aleramo (1916-17), che precede il ricovero definitivo di Cam-pana nel manicomio di Castel Pulci (1918). Molti suoi scritti usciranno postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960) e Il più lungo giorno (1973).

Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, è nata ad Alessandria nel 1876 ed è morta a Roma nel 1960. Esordisce nel 1906 con un romanzo programmaticamente femminista, Una donna, dove già s’ intrecciano le componenti principali della sua personalità: la forte sensibilità sociale e la prorompente carica autobiografica e individualistica. Da questo con-flitto nasceranno i romanzi successivi come Il passaggio (1919), Amo dunque sono (1927) e Il frustino (1932) e le prose di Gioie d’ occasione (1930), Orsa minore (1938) e Dal mio diario 1940-44 (1945). Da ricor-dare anche le raccolte di versi confluite in Selva d’ amore (1947, che le valse il premio Viareggio) e le altre liriche di Aiutami a dire (1951) e Luci della mia sera (1956). Alla vita di Dino Campana e al suo incontro con Sibilla, Sebastiano Vassalli ha dedicato il romanzo-biografia La notte della cometa, edito da Einaudi.

(Corriere della Sera, Agosto 2000)

Vassalli Sebastiano: Campana, la chimera del poeta ma-ledetto

Dal Corriere della Sera del 26 Novembre 2003

Ripubblicati i «Canti Orfici» del geniale autore segnato dalla pazzia. Ma ancora una volta il suo ritratto umano non è attendibile

Una storia che continua a dare fastidio e resta sepolta sotto un cumulo di leggende

La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei Canti Orfici di Campana nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguar-da la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’ occasione mancata, se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore.

Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai con-cittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sot-to un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perento-rio: Vita non romanzata di Dino Campana scrittore. Carlo Pariani non era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia. Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina; di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bru-xelles, a Basilea, eccetera. Il 1985 avrebbe dovuto essere un anno di svolta per gli studi campaniani. In seguito alla pubblicazione (nel 1984) del mio romanzo-verità La notte della cometa, dal municipio di Marradi incominciarono a venir fuori carte e carte (prima non c’ era nulla) che avrebbero dovuto smentirmi e che invece confermavano quasi tutto del-la mia ricostruzione «romanzata». Campana, ovunque andasse, si la-sciava dietro una scia di fogli di via, verbali di polizia e cose del genere, con date e timbri. Quelle date e quei timbri mandavano definitivamente

all’aria la biografia del Pariani e avrebbero dovuto sgombrare il campo da molte leggende. Invece sono servite a costruire altre leggende, come quella riferita da Martinoni a proposito del servizio militare del poeta: «Dal gennaio ai primi di agosto del 1904, e qui torniamo alle notizie ac-certate, Campana è a Ravenna, dove presta servizio militare in qualità di soldato». Notizie accertate un corno. Io non so su cosa Martinoni basi la sua affermazione, ma so che le cose stanno diversamente e che riguar-dano un periodo importante, di un paio d’ anni, della vita di Campana. Le principali questioni non ancora risolte nella biografia del poeta sono appunto queste.

IL SERVIZIO MILITARE - Il Registro della leva e le altre carte dell’ Esercito, che non si trovano a Marradi ma all’ Archivio di Stato di Fi-renze, a proposito del servizio militare sono chiarissime: Campana è «volontario» ed è «allievo ufficiale». Sembra una sciocchezza, ma le scuole per ufficiali (non «sottoufficiali»: proprio «ufficiali») in Italia e in quell’ epoca erano tre: quella di Cavalleria a Pinerolo, quella di Fanteria a Modena e quella della Marina a Livorno. I corsi di Modena duravano due anni e prevedevano quattro esami: caporale, sergente, sottotenente e tenente. Campana (è scritto nei documenti) passa l’ esame di caporale e non passa quello di sergente. Espulso dall’ Accademia, finisce il perio-do di ferma da qualche altra parte. Dove?

LA SIFILIDE - Questo è il punto che suscita più malumori. Premesso che la prova provata della sifilide di Campana non potrà mai esserci, così come non potrà mai esserci per Nietzsche o per altri personaggi illustri morti di quel male, alcune osservazioni si impongono. La prima è che i comportamenti di Campana erano a rischio. Chi navigava nel mare delle «troie dagli occhi ferrigni» e delle prostitute del porto di Genova, prima o poi pescava quei pesci, cioè quelle malattie. La seconda osservazione è che tutto il decorso della malattia di Campana, dalla paresi facciale del 1915, alla distruzione del sistema nervoso con conseguente follia, alla morte in manicomio nel 1932 è quello, da manuale, di una sifilide nervo-sa: perché ostinarsi a negarlo? Cosa c’ è da difendere: la famiglia? La categoria degli psichiatri? L’ albo professionale dei poeti? Anche il lungo decorso della malattia non costituisce un’ obiezione valida. Campana

era giovane e forte (Soffici ne descrive le «gambe ercoline» e il «viso di salute»); e la sifilide può durare anche venticinque anni.

L’ AMORE PER SIBILLA ALERAMO - Nell’ Italia senza più uomini del-la Prima guerra mondiale, la poetessa Aleramo incontra un maschio gio-vane e forte, e lo fa suo. È l’ estate del 1916. Ma dopo poche settimane di passione sfrenata si scopre che, se quel maschio non è al fronte, c’ è una ragione. Incominciano le scenate e le botte. Nel gennaio 1917, Sibilla accompagna Dino dallo psichiatra Eugenio Tanzi, un luminare per quell’ epoca; e la loro relazione finisce lì. Lei scappa, si nascon-de, trascorre mesi e mesi «in stato di santità» («un record»), gli scrive «cane arrabbiato che mi hai morso...». A quanto pare, deve curarsi. Lui alterna periodi di lucidità ad altri di follia. Un giorno (nel settembre 1917) riceve una lettera su carta intestata di un albergo in Valsesia; parte per raggiungere la sua bella, ma lei non è più lì e lui viene arrestato come disertore...

L’ ELETTRICITÀ - In manicomio, per molti anni, Campana viene frit-to con l’ elettricità. «Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi avessero rotto una vena nel cervello!». L’ uso e l’ abuso dell’ elettricità con i matti è iniziato nella Prima guerra mondiale, in tutta Europa, per te-nere gli uomini nelle trincee e non ha ancora finalità terapeutiche accer-tate. Negli anni Venti è un uso sperimentale e punitivo, che sostituisce catene e botte. Gli apparecchi con cui si danno le scosse sono descritti e riprodotti nella vecchia Enciclopedia Treccani: rocchetti a corrente al-ternata, pennelli faradici e simili. Qualcuno di quegli strumenti è ancora visibile nei musei, là dove si sono volute conservare le attrezzature dei vecchi istituti manicomiali; ma già alla fine degli anni Trenta non veni-vano più usati. Vorrei concludere questo articolo con una considerazio-ne personale. Non credo che scriverò più su Dino Campana. Nel corso degli anni, ho fatto tutto ciò che poteva essere fatto per restituire quell’ uomo alla sua verità. Non ci sono riuscito, e quest’ultima ristampa dei Canti Orfici ne è la prova. Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai «chissà!» e alla strizzatine d’ occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti

che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro. Addio, Dino.

LA VITA Il manicomio e la passione Il poeta Dino Campana (1885-1932) ebbe una vita travagliata, costellata dai ricoveri in manicomio, l’ultimo in quello di Castel Pulci dove morirà (qui gli fu scattata questa foto nel 1928) Molti suoi scritti usciti postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faen-tino (1960) La ristampa di Canti Orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni (pagg. 236, euro 9,50), è stata appena pubblicata nei Tascabili Einaudi.

AnnalisaGimmi:LasciateinpacelafolliadiCampana

daIlGiornale,domenica23ottobre2005

PoveroDinoCampana.Bistrattatoinvita.Eadesso,quandoilpostumoamo-redigenerazionidilettoripotrebberorestituirgliserenità,eccochescrittoriecriticisiattaccanoallesueossaperazzannareilbocconepiùgrosso.L’uscitadellibrocuratodaSebastianoVassalli,Unpo’delmiosangue(Rizzoli,pagg.298, euro 9) ha sollevato consensi e proteste anche pittoreschi. Vassalli, in veste diDepositariodellaVerità,siscagliacontrotutti:daigenitoridelpoeta,«unafamiglia orribile» che lo avrebbe emarginato, considerato pazzo senza alcunrealemotivoeallontanatoperlavergogna;aiconcittadini,fautoridelmitodel«mat Campana»; ai letterati che lo hanno deriso, rifiutato, e anche ai critici che lovogliono«usare»percreareunpersonaggio,seguendononbenchiaridisegnidi mistificazione. Vassalli sostiene a spada tratta che Campana, in realtà, non erapazzo.

Lo è diventato a trent’anni, dopo aver contratto la sifilide. Prima di allora, Dino era una persona - come definirla? - originale, inquieta, disperata. Ma non pazzo.Daquandoinvece(trail1916eil1917)lamalattiacominciaamani-festarsi in modo sempre più conclamato, perde veramente la ragione. E nonscrivepiù.ÈchiaralatesisostenutadaVassalli:Campananonerapazzomen-tre scriveva i Canti orfici. Non è di un pazzo quel libretto che rappresenta una dellemaggiorivettedellapoesiaitaliana.Lamalattia,diorigineassolutamenteorganica,èposterioreecoincideconilsuosilenzio.Certochenonerapazzo,Campana,mentrescriveva.Erasolosestesso.Edèverochequandolafolliasi è completamente impadronita di lui anche la sua arte ha taciuto. Ma nonsipossononegareifatti.Iricoveridurantelagioventù,inumerosiarrestiperrisse,ivagabondaggiinquieti.Èvero,moltopuòessereattribuitoallafantasiadeisuoicompaesani(c’èsempreun«mat»nellepiccolecomunità),macisonoanche le opinioni dei medici. Non sempre concordi. Ma, perVassalli, quellicheglihannodiagnosticatodisturbimentalisonotuttiinmalafede,buonisologli altri. E poi, la sifilide. (Sfortuna rara - sia detto per inciso - per uno creduto pazzo,impazziredavveroacausadiunmaleorganico,chenientehaincomuneconl’inquietopassato.)Nonesistealcundocumentoacomprovarequestapa-tologia,maeffettivamentenientevietadiattribuirlaaCampana:néisintomi,

chesembranorispondereallemanifestazionidiquestomale,nélapossibilitàdiaverlacontrattadurantequegliincontriconprostitutecheDinostessoracconta,sublimandoli,inalcunesplendidepaginedellasuaopera.Inverità,la«follia»di Campana, reale o indotta dall’ambiente, sembra innegabile fin dalla gioven-tù.Fucausadifughe,liti,disordinateedisperateribellioni.Poilasituazioneèprecipitata (forse per la sifilide, ma che importanza ha?) e la sua mente si è otte-nebrata.Oggiognitentativodiricostruireconcertezzalevicendedellostraor-dinariopoetasembraimpuntarsisulitiinfondoaluiestranee.Vassalli(edopodiluiCristinaTagliettisulCorrieredellaSeradel15settembrescorso)attaccachi lohaprecedutonell’impresa, inparticolare lo scrittoreargentinoGabrielCachoMillet,autore-inrealtà-diedizionimoltocuratediineditiesoprattuttodiletteredelpoeta.AquestiattacchiharispostoinmodoscompostoefuribondoPaolo Pianigiani sul sito web Transfinito, il 27 settembre. Quante grida inutili eavvilenti.L’operadiCampanaparladasé.Ègrandepoesia.Nonsembraes-senziale definire se scritta da una mente «sana» (e poi - antica questione - come definire la «sanità»?) o per intervalla insaniae (non sarebbe il primo... ). È lì, da leggereedaamare.Smettiamoditormentarlo.InfondoDinoainostriocchiè(perusareparoledellostessoVassalli)solounpoeta.