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Genesi di Antonella Tarpino È possibile che da due classici del catalogo Einaudi come Il mondo dei vinti e L’anello forte di Nuto Revelli si generi (pur con il concorso di numerosi testi mai pubblicati) un vo- lume a sé stante? Non una raccolta antologica, insomma, né un testo di sintesi, ma un’opera che suona, alla fine di un complesso rimontaggio, come un «inedito»? Forse. Se sí, è certamente perché quelle storie vere e in- sieme piú fantastiche di un romanzo (per rubare le parole a Mario Rigoni Stern) riescono a prendere le distanze anche da se stesse, e dalle rispettive biografie, per confluire grazie alla loro forza – antropologica e letteraria insieme – in un co- ro potente che testimonia di un’imminente tragica fine. Fine del mondo, quello della montagna povera e della campagna cuneese negli anni del boom, ma che è anche di tanto Vene- to, Lombardia, Abruzzo… Non mi nascondo però quanto i testi di Nuto Revelli, ri- montati, come si è scelto, per temi (il lavoro, l’alimentazione, la guerra, la magia…), pur senza aggiungere una sola parola ex novo siano risultati, a lavoro ultimato, sovvertiti nell’impianto. Certo la dimensione biografica delle testimonianze che presiede l’intero ciclo della Spoon River contadina di Nuto Revelli, come l’ha definita Corrado Stajano, qui è stata vo- lutamente revocata. Cosí come la stessa griglia spaziale in cui trovavano ordine i racconti (Montagna, Collina, Pianura) è stata azzerata. Ciò che è balzato invece in primo piano, a uno sguardo ancor piú distante su quel mondo (forte e insieme vinto), è la sintassi profonda, l’insieme di codici e convenzioni capaci di orientare una cultura arcaica e tenace insieme: maestra di sopravvivenza nelle condizioni estreme della vita. «Cultu-

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Genesidi Antonella Tarpino

È possibile che da due classici del catalogo Einaudi come Il mondo dei vinti e L’anello forte di Nuto Revelli si generi (pur con il concorso di numerosi testi mai pubblicati) un vo-lume a sé stante? Non una raccolta antologica, insomma, né un testo di sintesi, ma un’opera che suona, alla fine di un complesso rimontaggio, come un «inedito»?

Forse. Se sí, è certamente perché quelle storie vere e in-sieme piú fantastiche di un romanzo (per rubare le parole a Mario Rigoni Stern) riescono a prendere le distanze anche da se stesse, e dalle rispettive biografie, per confluire grazie alla loro forza – antropologica e letteraria insieme – in un co-ro potente che testimonia di un’imminente tragica fine. Fine del mondo, quello della montagna povera e della campagna cuneese negli anni del boom, ma che è anche di tanto Vene-to, Lombardia, Abruzzo…

Non mi nascondo però quanto i testi di Nuto Revelli, ri-montati, come si è scelto, per temi (il lavoro, l’alimentazione, la guerra, la magia…), pur senza aggiungere una sola parola ex novo siano risultati, a lavoro ultimato, sovvertiti nell’impianto.

Certo la dimensione biografica delle testimonianze che presiede l’intero ciclo della Spoon River contadina di Nuto Revelli, come l’ha definita Corrado Stajano, qui è stata vo-lutamente revocata. Cosí come la stessa griglia spaziale in cui trovavano ordine i racconti (Montagna, Collina, Pianura) è stata azzerata.

Ciò che è balzato invece in primo piano, a uno sguardo ancor piú distante su quel mondo (forte e insieme vinto), è la sintassi profonda, l’insieme di codici e convenzioni capaci di orientare una cultura arcaica e tenace insieme: maestra di sopravvivenza nelle condizioni estreme della vita. «Cultu-

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ra», Revelli insiste su quella parola in un’intervista a Lorenzo Mondo, «voleva dire far camminare con quaranta gradi sotto zero un mulo che trascinava una slitta», quella dei suoi sol-dati montanari sul Don, «e il mulo sembrava di gesso tanto era bianco e incrostato di ghiaccio». «Cultura voleva dire, – continua, – buttar via le scarpe di cartone che stringevano i piedi come morse e portavano al congelamento» fasciandoli «con delle strisce di coperte, con la paglia strappata ai tetti delle isbe».

Le storie raccolte da Nuto Revelli nei lunghi anni della ricerca danno forma a un unico grande racconto, ancor piú evidente forse nei frammenti spezzati de Il popolo che manca. Invisibili ma cruciali nel mettere in comunicazione i mondi non contigui di chi osserva e di chi è osservato (quasi una fa-vola antropologica) sono le figure dei mediatori: coloro che fanno da tramite fra Revelli e la rete via via piú estesa dei testimoni. I piú autentici testimoni, confessa l’autore, li in-contra proprio nell’ambiente in cui sono sempre vissuti, nelle case antiche o nelle baite di montagna, dove i mobili sono un tavolo rugoso, le quattro sedie impagliate, le stufe di ghisa; e dove l’oggetto piú elegante è in genere la fotografia di un congiunto «disperso» in Russia. È importante anche, come avverte Laurana Lajolo, arrivare al momento giusto: spesso in inverno, quando il tempo trascorre lento nelle stalle e nel-le cucine mal riscaldate, assecondando il ritmo delle veglie; aspettando che la memoria dei testimoni (per lo piú già an-ziani) si riorganizzi, aprendosi con fatica agli altri. Cosí da raccogliere le ultime tracce di una cultura, quella contadina, dotata di una sua koinè fatta di parole (e immagini) a noi ormai solo superficialmente consuete ma che hanno un significato radicalmente altro se le si considera nella loro connessione.

In Nascere, il primo capitolo del libro, sono raggruppate le testimonianze (per meglio dire i «tasselli», i segmenti di testimonianze) sul parto e lo svezzamento, segnato da ritua-li a noi sconosciuti: il «secondo parto», l’uso di seppellire la placenta, o la pratica di ricorrere a persone affette da defor-mazioni per liberare (pupar) la nutrice dal latte troppo abbon-dante... Poi c’è l’infinito mestiere di vivere in cui si appren-de, fin da piccoli, con la durezza di una scuola, un’alimenta-

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zione stentata anche se densa di saperi (dove lo stesso gusto è una colpa perché non ci si può abituare), tecniche mediche approssimative (come la ragnatela sulle ferite o il petrolio), forti socialità e non meno intensi conflitti.

Sono Corpi quelli dei vinti sovente «spossessati»: è il caso dei tanti ragazzini e delle ragazzine che si affittano periodica-mente come manovali o raccoglitrici di viole, spesso nella vi-cina Francia. Lavoro e migrazioni stanno insieme nel capitolo successivo perché sono interdipendenti, molto piú di quanto non si pensi.

È un mondo quello dei vinti spesso «alla rovescia», mo-bile, con le montagne battute dai cacciatori di capelli (cavié ) o da inattesi acciugai pronti allo scambio del loro carico ap-provvigionato sulle coste. Spossessati al piú sono anche gli sposi, Uomini e donne (il terzo capitolo della serie), uniti dal-le scelte delle famiglie piú che loro, con il concorso, specie nel caso delle calabrotte, importate dal Sud, di un interme-diario (bacialé ).

Eppure è un mondo denso di metafisica, spiritualmente potente, sempre in bilico tra fede e magia (il titolo del capi-tolo che segue): dove oltre ai fedeli e alle puerpere anche i bachi da seta sono benedetti dai parroci e la tempesta che distrugge i raccolti può essere scacciata con il calcio di un vecchio prete che agita il suo scarpone. Preti, fidi guardiani delle misere comunità o schiamazzatori cronici che affolla-no le osterie dei paesi, si confondono con le tante «creature notturne dello spavento», le masche. Sono le streghe del Pie-monte contadino che con la magia del narrare ricreano nuovi mondi, conquistando – le Ortensie, le Angioline – il rispet-to professionale di un recensore incantato dai vinti di Nuto Revelli come Italo Calvino.

Anche guerra (o Guerre, il penultimo capitolo), una parola certo inequivocabile, ha un significato a sé per chi nelle tan-te guerre d’Italia si trovò, spesso piú di una volta nella vita, a combattere: occasioni crudeli (come già le emigrazioni) di incontri con altri (spesso deformati come le fumnase nere del-la guerra di Libia). L’esperienza bellica è un nastro continuo, che attraversa i fronti e le generazioni.

Nascere: si è avviato il volume con le testimonianze sul

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parto e sui rituali che segnavano il venire al mondo ma già, come ci dicono le testimonianze, in molti paesi, specie in montagna, non si nasceva piú da tempo. Intere comunità si sfrangiavano, spegnendosi giorno dopo giorno, le scuole chiu-devano, la posta non arrivava piú. Tetti sfasciati, muri peri-colanti (come nel capitolo finale Solitudini) sono il paesaggio che il lettore non «vede» perché ogni testo, letterario o no, frantuma e disperde lo spazio (traggo spunto da uno dei piú sensibili studiosi di Nuto Revelli, Gianluca Cinelli), tanto piú nel Popolo che manca (un passo oltre all’abisso del suo essere vinto). La stessa rappresentazione di quel mondo, in conclu-sione, esce cosí fratta e ricomposta: presentando un discorso attraverso un discorso ogni volta un po’ diverso. Forse inse-guendo anche le suggestioni del linguaggio cinematografico nel film di Andrea Fenoglio e Diego Mometti sulle memorie de Il mondo del vinti e de L’anello forte, da cui questo libro trae, fra le altre cose, anche il titolo.

Bibliografia.

In queste poche righe ho fatto riferimento alle letture dell’opera di Nuto Revelli su Il mondo dei vinti e L’anello forte di:

Luigi Baccolo, Nuto Revelli e il mondo dei vinti, Annali della Scuola nor-male superiore di Pisa, serie III, vol. VII.4 (1977).

Italo Calvino, Le ragazze vendevano le trecce, in «Corriere della Sera», 24 settembre 1977.

Gianluca Cinelli, Nuto Revelli, Nino Aragno Editore, Torino 2011.Andrea Fenoglio e Diego Mometti, Il popolo che manca (Torino film fe-

stival 2010, Premio speciale della giuria sezione Italiana. Doc. Trento film festival 2011, Premio Luciano Emmer).

Laurana Lajolo, L’interprete del mondo contadino, in Michele Calandri e Mario Cordero (a cura di), Nuto Revelli. Percorsi di memoria, numero monografico de «Il presente e la storia», 55 (1999).

Lorenzo Mondo, La montagna sprecata, in «La Stampa», 24 marzo 1979.Mario Rigoni Stern, Intervista con i vinti, in «Tuttolibri», 16 luglio 1977.Corrado Stajano, Spoon River contadina, in «Il Messaggero», 4 gennaio 1985.

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Nota alla presente edizione

Il volume riunisce, riordinandoli per temi, brani di testi-monianze tratti da Il mondo dei vinti e dall’Anello forte di Nuto Revelli, a cui si sono aggiunte numerose testimonianze inedite (indicate con l’asterisco) selezionate fra le carte del-la Fondazione Nuto Revelli di Cuneo con Irene Babboni e trattate per l’edizione sotto la sua competente guida. Anche il testo in apertura, dal titolo Nel mondo dei vinti, nasce dal-le introduzioni di Nuto Revelli alle due opere citate, privile-giando la traccia della cultura materiale della civiltà contadi-na e dei suoi sistemi di pensiero. Cosí i cappelli, in corsivo, che accompagnano i capitoli introducendo i distinti temi (cu-rarsi, serventi e servente, i riti matrimoniali…) riproducono esclusivamente le parole di Revelli.

Un grazie particolare va a Paola Agosti per la scelta delle fotografie, Andrea Fenoglio e Diego Mometti, i registi del film Il popolo che manca, Agnese Incisa e Roberto Gilodi (per l’amichevole consulenza), Riccardo Regis per il controllo dei termini in piemontese presenti negli inediti. L’attenta lavora-zione redazionale del volume è frutto del lavoro infaticabile di Veronica Buzzano e la griglia iconografica è stata seguita passo passo da Monica Aldi. Ringrazio la Fondazione Nuto Revelli (e in particolare Marco Revelli) e Alessandra Demi-chelis dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo.

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