Democratica n. 226 del 12 luglio 2018 - Malafede · (e bavaresi in autunno). Tante parole, pochi...

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WWW.DEMOCRATICA.COM n. 226 giovedì 12 luglio 2018 “La poesia è un atto di pace. La pace costituisce il poeta come la farina il pane” (Pablo Neruda, nato il 12 luglio 1904) D a Luigi Di Maio oggi di fronte alle Commissioni Lavoro, Attività produttive e Affari sociali della Camera ci aspettavamo davvero qualcosa di più che non le elencazioni e brevi sottotitoli alle linee guida dell’attività del suo superMinistero, Lavoro e Sviluppo economico. PAGINA 2 Malafede Caos Tribunale Bari Il primo atto del governo è un clamoroso autogol. E il ministro non toglie alcuna ombra L’inconcludente lista della spesa di Di Maio L’EDITORIALE /1 Chiara Gribaudo PAGINA 3 Il finto accordo di Innsbruck, una parte dello show di Salvini IMMIGRAZIONE SEGUE A PAGINA 2 Il ministro dell’Interno incontra gli omologhi Seehofer (Germania) e Kickl (Austria): l’intesa è solo elettorale, niente di concreto per l’Italia. E il capo leghista torna ad attaccare i migranti CECCANTI PAGINA 5 Il crollo e i pilastri su cui ricostruire LIBERTÀ EGUALE A quando un vero e proprio esercito europeo, come strumento di pace e garanzia della difesa e della sicurezza di mezzo miliardo di cittadini europei? È la domanda che ci poniamo dopo il vertice Nato di ieri e di oggi, passato sui media soprattutto per l’ennesimo Trump Show. Un esercito europeo, l’ambizione necessaria L’EDITORIALE /2 Lia Quartapelle SEGUE A PAGINA 4 L otta agli sprechi e contrasto alle inefficienze della burocrazia. È attorno a questa coppia di intenti che ogni populismo, anche quello all’italiana, costruisce il suo immaginario favorevole, mentre la politica e le istituzioni pubbliche perdono quota e credibilità. La risposta al populismo nella finanza impact L’EDITORIALE /3 Giovanna Melandri SEGUE A PAGINA 6

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n. 226giovedì

12 luglio2018

“La poesia è un atto di pace. La pace costituisce il poeta come la farina il pane” (Pablo Neruda, nato il 12 luglio 1904)

Da Luigi Di Maio oggi di fronte alle Commissioni Lavoro, Attività produttive e Affari sociali della

Camera ci aspettavamo davvero qualcosa di più che non le elencazioni e brevi sottotitoli alle linee guida dell’attività del suo superMinistero, Lavoro e Sviluppo economico.

PAGINA 2

MalafedeCaos Tribunale Bari Il primo atto del

governo è un clamoroso autogol. E il ministro non toglie alcuna ombra

“L’inconcludente lista della spesa di Di Maio

L’EDITORIALE /1

Chiara Gribaudo

PAGINA 3

Il finto accordo di Innsbruck, una parte dello show di Salvini

IMMIGRAZIONE

SEGUE A PAGINA 2

Il ministro dell’Interno incontra gli omologhi Seehofer (Germania) e Kickl (Austria): l’intesa è solo elettorale, niente di concreto per l’Italia. E il capo leghista torna ad attaccare i migranti

CECCANTI PAGINA 5

Il crollo e i pilastri su cui ricostruire

LIBERTÀ EGUALE

A quando un vero e proprio esercito europeo, come strumento di pace e garanzia della difesa e della

sicurezza di mezzo miliardo di cittadini europei? È la domanda che ci poniamo dopo il vertice Nato di ieri e di oggi, passato sui media soprattutto per l’ennesimo Trump Show.

“Un esercito europeo, l’ambizione necessaria

L’EDITORIALE /2

Lia Quartapelle

SEGUE A PAGINA 4

Lotta agli sprechi e contrasto alle inefficienze della burocrazia. È attorno a questa coppia di intenti che

ogni populismo, anche quello all’italiana, costruisce il suo immaginario favorevole, mentre la politica e le istituzioni pubbliche perdono quota e credibilità.

“La risposta al populismo nella finanza impact

L’EDITORIALE /3

Giovanna Melandri

SEGUE A PAGINA 6

2 giovedì 12 Luglio 2018

Palagiustizia di Bari, da Bonafede solo fuffa

Un nuovo problema per il go-verno gialloverde. L’unico provvedimento dell’esecutivo Conte - quello dello sposta-mento del Palazzo di giusti-zia di Bari - è finito subito nel

caos. Il perché lo ha spiegato bene un arti-colo di Repubblica secondo il quale quell’e-dificio scelto dal governo (e che il ministero dovrebbe pagare oltre un milione di euro l’anno) appartiene a un imprenditore che avrebbe prestato soldi a un esponente del clan mafioso Parisi. A Montecitorio però è in discussione, nello stesso giorno dello scoop, il decreto per abbandonare la tendopoli che attualmente ospita il tribunale permettendo così il trasferimento nella nuova sede.

Ma, fa notare l’opposizione, non è possi-bile discutere e votare un provvedimento simile senza che il ministro della Giustizia non abbia prima verificato e chiarito la vi-cenda. Ma Bonafede arriverà solo nel po-meriggio e in mattinata si limita a scrivere un commento su Facebook spiegando che il governo sta facendo approfondimenti sulla vicenda. È presente invece il sottosegretario Vittorio Ferraresi che però fa, dopo quello del guardasigilli, il secondo passo falso: ac-cusa l’aula di aver fatto dichiarazioni ine-satte, “ inesattezze - ha detto Ferraresi - che hanno rilievo penale”. L’atteggiamento del governo manda su tutte le furie l’opposizio-ne che accusa il sottosegretario di non cono-

scere l’articolo 68 della Costituzione secon-do il quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’eserci-zio delle loro funzioni” come ha ricordato il dem Stefano Ceccanti. “Non è qui a fare il pm - ha detto Fiano rivolto a Ferraresi - e non ha il diritto di minacciare”. E la situazione è di-ventata sempre più incandescente con una rissa sfiorata tra esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia. E il Pd chiede ripetutamente che sia il ministro Bonafede a riferire sulla vicenda in aula e non sui social, cosa che, ha commentato Graziano Delrio, rappresenta “un’umiliazione del Parlamento”.

Arrivato in aula nel pomeriggio, però, Bonafede non chiarisce nulla della vicenda raccontata da Repubblica e torna a spiega-re quanto detto sui social: “Dalla documen-tazione presa in visione per l’assegnazione della gara per il nuovo immobile non veniva rilevato nessun motivo ostativo”. “Il decreto legge – ha aggiunto - sospende solo i tempi processuali per permettere così di togliere le tende, ha detto Bonafede secondo il quale “non esiste - ha aggiunto - che in uno stato di diritto vengano fatte udienze nelle tende”. A rispondere al guardasigilli il deputato pd David Ermini: “La sua arroganza dovreb-be avere un limite. In uno stato di diritto si guarda anche a chi si danno in affitto gli im-mobili dello Stato e quando i soldi li tirano fuori i cittadini lei non ha il compito di con-trollare dopo, lei ha l’obbligo di controllare prima a chi dà i soldi dei cittadini, non glielo deve dire il giornalista di Repubblica”.

Governo

Silvia Gernini CONDIVIDI SU

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Il Pd: “Perché non ha verificato prima a chi dava i soldi dei cittadini?”

L’inconcludente lista della spesa di Di Maio

A un mese dal suo giuramento, è venuto di nuovo a prendere in giro il Parlamento con belle intenzioni e parole vuote. Pen-

sioni d’oro, opportunità della rete da cogliere, Made in Italy da tutelare (men-tre strizza l’occhio ai pericolosi dazi di Trump), senza dimenticare il reddito di cittadinanza del quale continua a man-care tragicamente la sostanza.

Tutti gli impegni più importanti che attendono il governo stanno in un’in-concludente lista della spesa: Ilva, Ali-talia, equo compenso, rappresentanza sindacale, taglio del costo del lavoro. Nel calderone gialloverde si mescola tutto senza che venga delineato un percorso, un metodo di lavoro per i prossimi mesi (anni?).

L’impressione è che faranno la fine del decreto dignità, ancora negli uffici in cerca di coperture per una decina di articoli raffazzonati. Attenzione però: quella di questo governo non è solo in-competenza e inesperienza. Per ogni grande annuncio miracoloso e impossi-bile da realizzare ci sono sempre poche micidiali modifiche che rivelano una vi-sione precisa di Paese.

Dalla legge sul caporalato da ammor-bidire per favorire il bracciantato in agricoltura, all’autorità anticorruzio-ne da indebolire per tornare ad appal-ti pubblici poco trasparenti e a rischio tangenti, questo governo gialloverde so-miglia tremendamente al centrodestra che ha governato più volte questo Paese dal 94 al 2011.

Le stesse pulsioni anti-controlli ma-scherate da lotta alla burocrazia, la stes-sa complicità con evasione ed elusione fiscale mascherata da semplificazione. Per questo la nostra opposizione non può essere solo denuncia della loro in-capacità, ma soprattutto proposta di ra-dicalmente altro. Reddito di inclusione, assegno universale per le famiglie, sala-rio minimo, e abbiamo appena iniziato. Continuiamo così e battiamoli con la po-litica.

Chiara GribaudoSegue dalla prima

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3 giovedì 12 Luglio 2018

Il finto accordo dell’asse dei populisti

Lo show di Salvini non ammet-te pause. È uno spettacolo sen-za intervalli, una messa in sce-na propagandistica studiata nei minimi particolari e recitata con cinismo e astuzia. Oggi, ne ab-

biamo avuto la riprova. Prima con il finto accordo del cosiddetto “asse dei volente-rosi” (il nome fa già rabbrividire), poi con la presa di posizione nei confronti dei migran-ti (tra cui molti bambini) costretti a stare a bordo della nave Diciotti della Guardia Co-stiera, perché, in piena sindrome da Chuck Norris, li vuole vedere scendere solo in ma-nette. Debole con i forti, forte con i deboli, con gli ultimi, con i bambini.

La giornata del titolare del Viminale co-mincia di buon’ora, in quel di Innsbruck, dove si svolge il vertice tra ministri dell’In-terno dell’Unione. Alle 7,15, per anticipare i colleghi, Salvini incontra l’omologo austria-co, Herbert Kickl, e quello tedesco, Horst Seehofer. Sorrisi, strette di mano e un fantomatico accordo, celebrato dall’ormai

omologata stampa nazionale, come un’in-tesa vera. Ma l’unico accordo raggiunto è quello politico, anzi partitico, volto a ri-badire un asse (questo sì, reale) in vista delle elezioni europee del prossimo anno (e bavaresi in autunno). Tante parole, pochi fatti, a cominciare dall’idea di costruire hot-spot per l’identificazione e il riconoscimento dello status di profughi nei Paesi d’origine. Un’idea di cui i tre parlano come se fosse sta-ta assunta dal consiglio Ue di fine giugno e che invece, proprio durante quel vertice, è stata scartata. Di ricollocazione dei migran-ti neanche l’ombra, di cose concrete ancora meno.

Poi arriva il momento della conferenza stampa, l’atto principale della commedia salviniana. Mentre i suoi colleghi dell’as-se parlano ai giornalisti insieme al com-missario europeo Avramopoulos, il capo leghista si presenta in solitaria. E lo spet-tacolo è assicurato. I suoi ormai celebri rife-rimenti al fatto di essere padre (come se la cosa lo assolvesse dalle bestialità che dice) si sprecano. “Alla gentile richiesta del collega tedesco Seehofer che mi ha chiesto di ripren-dere gli immigrati arrivati in Germania, ho opposto un altrettanto gentile ‘no grazie’”.

Chissà cosa dirà “il collega tedesco” quando parlerà con la stampa tedesca? Ognuno, si sa, a casa sua recita la propria parte. D’al-tronde per Salvini l’obiettivo è primeggiare nei sondaggi, per Seehofer la partita sono le elezioni in Baviera, che per la prima vol-ta potrebbero regalare un risultato diverso dalla maggioranza assoluta della Csu.

Molto meglio, per il “leone italico”, torna-re a bastonare i migranti. E allora si va sul sicuro, parti ormai imparate a memoria e ri-petute allo sfinimento. Dalle ong che non at-traccheranno più nei porti italiani alla luna di miele con Cinque Stelle, “con cui non sono mai andato così d’accordo”. Poi, il lato più inquietante, da dare in pasto agli altri leoni (quelli da tastiera) che si nutrono delle spa-rate dell’ex ‘felpato’. “Voglio vedere scendere i migranti in manette dalla nave”, dice rife-rendosi ai migranti che la Guardia Costiera vorrebbe far sbarcare a Trapani. Parole che fanno orrore, se pronunciate in uno Stato di diritto.

Ma tant’è, a Salvini dello Stato di diritto non importa nulla. Molto meglio puntare dritto al premio Oscar che non hanno anco-ra inventato, quello dell’ipocrisia.

Immigrazione

Stefano Cagelli

L’incontro tra Salvini, Seehofer e Kickl è una messa in scena. E il leghista si sfoga sui migranti

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Bufera sul ministro tedesco per la morte del ragazzo espulsoBufera sul ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer, che negli ultimi mesi ha trovato sicuramente il modo di far parlare di sé, anche al di fuori dei confini nazionali. Questa volta è finito al centro del ciclone per il suicidio di un ragazzo afgano di 23 anni (in Germania dall’età di 15 anni, che si è tolto la vita dopo essere stato espulso e rimpatriato a Kabul. Il provvedimento di espulsione era stato accolto con entusiasmo dal ministro: “Tra tutte le cose, nel giorno del mio 69esimo compleanno, e non l’ho ordinato io, 69 persone sono state rimandate indietro in Afghanistan. Frase che gli aveva attirato critiche trasversali e che gli è tornata indietro come un boomerang, tanto che alcuni parlamentari ne hanno immediatamente chiesto le dimissioni. Richiesta respinta al mittente da Seehofer, che, pur dicendosi dispiaciuto per l’accaduto, non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro.

E intanto la May chiude le porte del Regno Unito“Non sarà più permesso alle persone di arrivare dall’Europa nella remota possibilità che possano trovare un lavoro”. Lo scrive la premier britannica Theresa May. “Accoglieremo sempre i professionisti qualificati che aiutano la nostra economia a prosperare, dai dottori alle infermiere, agli ingegneri e agli imprenditori ma, per la prima volta da decenni, avremo il pieno controllo dei nostri confini”. Intanto il nuovo ministro per la Brexit, Dominic Raab, sintetizza il contenuto dell’odierno Libro Bianco (White Paper) sui dettagli della nuova piattaforma negoziale più soft con l’Ue. “Una proposta credibile, audace, ambiziosa, ma anche pragmatica”. L’obiettivo è “una relazione su misura” con Bruxelles, ribadendo in particolare la prospettiva di un’area di libero scambio per i prodotti industriali e agricoli. Theresa May ripete ancora una volta che la sua linea offre comunque “il miglior risultato” possibile.

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4 giovedì 12 Luglio 2018

Cosa è vero e cosa non lo è? Con il presidente degli Stati Uniti niente è certo e ogni dichiarazione solenne potrebbe essere smentita un attimo

dopo da un tweet o da un’altra dichiarazio-ne altrettanto solenne. Questo è il timore le-gittimo che ha colto anche la giornalista che stamattina, durante una conferenza stampa convocata a sorpresa, ha chiesto a Trump se, una volta salito sull’Air Force One, avrebbe cambiato idea su quanto appena affermato. Ovvero che non avrebbe ritirato gli Usa dalla Nato. “Potrei farlo ma probabilmente non è più necessario”, aveva affermato poco prima l’inquilino della Casa Bianca, “perché dagli alleati sono arrivati 33 miliardi in più, un au-mento degli impegni di spesa come mai pri-ma”.

Un impegno che però è stato al centro di un piccolo giallo. Dopo la dichiarazione di Trump, Associated Press aveva scritto che se-condo l’Eliseo non c’era stato alcun accordo da parte degli alleati per l’aumento della spe-sa militare. Ma più tardi sembra invece aver trovato conferma nelle parole di segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. “Ci sono state discussioni franche - ha spiegato - ma tutti e 29 gli alleati hanno ascoltato il messag-gio di Trump in modo forte e chiaro, e hanno deciso di aumentare le spese della difesa”.

La verità è nel mezzo. Trump ieri era ar-rivato al summit chiedendo un aumento del 4% del Pil per le spese militari. Ma oggi se ne va ottenendo semplicemente la conferma degli impegni già presi da parte degli allea-ti. Lo ha chiarito anche il presidente france-

se Emmanuel Macron nel suo incontro con la stampa. “Il comunicato (della Nato, ndr.) è chiaro: riafferma l’impegno del 2% (di spesa per la difesa del Pil) entro il 2024”. La quo-ta europea del budget Nato “aumenta dal 2014-2015 e la quota americana diminuisce, coerentemente all’idea di una migliore con-divisione”, ha aggiunto Macron, precisando che “la Francia sta rispettando la traiettoria annunciata, con l’1,81% per l’anno in corso e aumenti ogni anno”.

La conferma, infine, arriva dallo stesso Stoltenberg, costretto al termine del summit a chiarire le affermazioni dell’inquilino della Casa Bianca. “Le cifre che ha menzionato il presidente Trump sono i soldi già preventi-vati” per spese per la difesa effettuate dagli alleati Nato “da quanto Trump è presidente” a oggi, in base alla strategia decisa nel 2014

per raggiungere l’obiettivo del 2%. Si tratta di “41 miliardi di dollari extra in prezzi costan-ti”.

Non ci sono spese aggiuntive nemmeno per l’Italia, ha poi confermato il premier Con-te. “L’Italia - ha detto in conferenza stampa al termine del vertice Nato a Bruxelles - ha ereditato degli impegni di spesa per quanto riguarda il contributo alla Nato che noi non abbiamo alterato. Quindi non c’è nessuna spesa aggiuntiva”.

Dunque che è successo? Niente, almeno ri-spetto alle pretese avanzate dalla Casa Bian-ca. Trump è arrivato al vertice minacciando fuochi e fiamme e se ne è andato con nel sac-co niente di più di quanto aveva all’arrivo. Almeno fino a quando il prossimo tweet cer-cherà di raccontare un’altra verità.

Trump che ha fatto la voce gros-sa contro gli Stati europei per le spese insufficienti che secondo lui investono nell’Alleanza at-lantica che è chiamata a difen-derli.

A dire il vero, l’idea di un esercito europeo non nasce oggi, e non nasce certo in rispo-sta al broncio di Donald Trump. Era il 1991 quando con il Trattato di Maastricht furono gettate le basi di una politica estera e di sicu-rezza comune. Poi nel 2002 furono firmati gli accordi “Berlin Plus”, che segnarono un’indis-solubile legame tra la difesa comune europea e l’Alleanza atlantica, consentendo di utilizza-re le strutture, i meccanismi e i mezzi della NATO per effettuare le azioni prioritarie per l’UE. Nel 2017, finalmente una cooperazione strutturata permanente (PESCO) con un elen-co iniziale di 17 progetti da avviare in settori

quali la formazione, lo sviluppo di capacità, la prontezza operativa in materia di difesa e uno stanziamento da 500 milioni di euro per sviluppare il settore industriale di difesa. Pas-si avanti importanti, che oltre a rafforzare la difesa del vecchio continente hanno il vantag-gio concreto di ottimizzare gli investimenti e la spesa che pesa sui bilanci dei singoli Stati, ma che continuano a produrre risultati ina-deguati agli occhi degli alleati americani.

Ecco che dopo il summit NATO di ieri è dav-vero tempo di mettere in campo nuovi obietti-vi ambiziosi e di mettere in agenda un percor-so che ci conduca effettivamente alla nascita dell’esercito europeo. Non si tratta di pren-dere le distanze dall’Alleanza atlantica, che dal rafforzamento della difesa europea non ne uscirebbe che rafforzata. Si tratta semmai di rispondere concretamente alle minacce di Donald Trump di un disimpegno americano e di sviluppare orgogliosamente una capacità e un’autonomia strategica europea, utile per non doversi più inquietare di fronte alle vec-chie e alle nuove potenze militari nel mondo.

Negli ultimi anni, anche grazie al lavoro dell’Alto Rappresentante Federica Mogheri-ni, l’Unione e la Nato hanno saputo presi-diare con equilibrio i confini europei. Pro-gressi sono stati fatti per presidiare il fronte orientale, storicamente il più fragile, resosi incandescente con la crisi di Crimea, ma an-che il fronte meridionale, infiammatosi per le conseguenze delle Primavere arabe e con l’acuirsi del traffico di esseri umani dal con-tinente africano. Con buona pace dei tweet di Donald Trump, la dichiarazione congiun-ta UE-NATO firmata oggi a Bruxelles, questi progressi li mette in luce e li valorizza, invi-tando l’UE e i suoi Stati membri a compiere nuovi passi per consolidare e rafforzare i risultati fin qui ottenuti.

Resta molto lavoro da fare. Anche al ver-tice NATO, il premier Giuseppe Conte ha tentato in qualche modo di ammorbidire i tratti cattivi e violenti con cui il suo mini-stro (o il suo capo?) Matteo Salvini vuole di-segnare la faccia dell’Italia, ma non è stato certamente capace di rappresentare il no-stro interesse nazionale. Senza nuove am-bizioni per la difesa europea, l’Italia rischia di trovarsi esposta da sola sul Mediterra-neo, nell’inedita e scomoda posizione di pe-riferia geopolitica. Il PD dovrà lavorare nei prossimi mesi per scongiurare questo sce-nario. Insieme alle forze progressiste euro-pee, l’esercito comune europeo è un obietti-vo prioritario da presentare per le elezioni europee del 2019.

Mondo

Giacomo Rossi

Lia QuartapelleSegue dalla prima

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Le fake news di Donald Trump sulla Nato

Un esercito europeo, l’ambizione necessaria.Nell’interesse comune

5 giovedì 12 Luglio 2018

Csm color giallo-Davigo. Resistere, resistere, resistere

Secondo noi il titolo del pezzo di Antonella Mascali sul Fatto è sbagliato: “Davigo è il più votato ma crescono i conser-vatori”. Diremmo infatti che “Davigo è il più votato, infatti crescono i conservatori”. Già, anche il Csm, dopo il Par-

lamento, cade nelle mani della destra. L’onda lunga del 4 marzo non pare conoscere risacche ma avanza con i suoi flutti su tutte le istituzioni democratiche. Non vi è dunque nessuna contraddi-zione fra il successo di uno dei più intelligenti reazionari italiani – reazionario nel senso tecnico e culturale, cioè impasto di populi-smo, giustizialismo, corporativismo, superbia “morale”, istintivo anti-parlamentarismo – e il consenso alle correnti di destra della magistratura italiana: Piercamillo Davigo infatti è l’Autorità po-litico-culturale-mediatica della destra togata, di quella nuova de-stra “gialla” e antipolitica che sta egemonizzando l’aria del tempo.E c’è ovviamente un continuum fra l’orientamento destrorso della nuova magistratura e quello più generale dell’elettorato italiano. Anzi, diremmo che il voto per il Csm “risponde” a quello del 4 marzo, intriso di domande “d’ordine” semplificate e irrazionali. Davigo in questo quadro dunque è una perfetta sintesi di grillismo-travaglismo e salvinismo della paura, un sapiente cultore di manette e giustizia fai-da-te, un mistico animatore di fantasmi paurosi e incorruttibile cavaliere bianco senza macchia e senza paura, ma che più che l’epica del Bene contro il Male declina una storiella di guardie e ladri.

Non è possibile stabilire la parte che hanno avuto i Floris e i Travaglio – solerte prefatore di svariate opere del Nostro – nella grande affermazione di Davigo: sospettiamo, tanta. E che persino una categoria così colta come la magistratura si mostri tanto permeabile ai talk show dà certo da pensare. E non sapremo mai se è il sentore profondo dell’opinione pubblica a gonfiare certa informazione o se è quest’ultima a “dopare” grandi masse: verosimilmente, si è creato un circolo vizioso che la sinistra dovrebbe essere capace di mettere a fuoco per spezzarlo.È probabile che un Csm amico del governo, in particolare del ministro della Giustizia che a noi profani sembra molto ma molto al di sotto di un Davigo, tanto che non si va lontani ipotizzando il rischio di un “ministro ombra”, spiani la strada dai residui di una cultura garantista e attenta ai diritti dei cittadini che ha avuto tante difficoltà – e certo non solo a causa dei conservatori.È dunque possibile che la giurisprudenza farà dei passi indietro fino al ritorno ad una pratica spettacolar-manettara col megafono del l’organo delle Procure diretto da Travaglio e al trionfo della cultura del sospetto come anticamera della verità: dove c’è fumo c’è fuoco, dicevano i nostri antenati con logica aberrante. Ecco, ogni giorno la qualità della nostra democrazia rischia di affievolirsi: inutile strapparsi le vesti. Ma come diceva il maestro di Davigo, bisogna resistere, resistere, resistere.

M. L.

A differenza di molte altre realtà che hanno precorso e accompagnato la nascita del Pd e le evoluzioni del centrosinistra dall’Ulivo in poi, l’associazione Liber-

tà Eguale continua da 19 anni a vivere e a proporre, tra gli altri, soprattutto un ap-puntamento annuo ad Orvieto. Due le ca-ratteristiche permanenti, una in negativo e una in positivo.

La prima è di non fondarsi su richia-mi identitari collettivi rispetto al primo sistema dei partiti, a quella che comune-mente è definita come Prima Repubblica: è evidente che le culture politiche non si improvvisano, ma una cosa è pensare di costruire proposte su basi solide e non im-provvisate e un’altra è pensare le culture politiche dentro gabbie del passato. Trat-to comune delle persone che hanno dato vita a questa esperienza e che vi si sono riconosciuti è quella di ritenere che l’Ulivo prima e il Pd poi hanno creato un percorso positivo per reinvestire positivamente le eredità tradizionali in un nuovo impegno comune, oltre recinti che erano stati vissu-ti come sempre più anacronistici. Le diffe-renze politiche reali coincidevano sempre meno con quelle provenienze.

La seconda caratteristica è quella di ri-conoscersi in positivo, tra le due anime che caratterizzano tutti i partiti odierni di centrosinistra e trasversali alle provenien-ze passate, quella che ripropone in modo tradizionalistico le ricette dei Trenta Glo-riosi e quelle che cerca di trovare strumen-

ti nuovi, in questo secondo campo. Quello che, a seconda dei percorsi di provenien-za, si può definire in termini politici come Terza Via, socialismo liberale e in termini sociali come interclassismo dinamico o at-tenzione simultanea ai meriti e ai bisogni.

Di fronte però agli sconvolgimenti poli-tici ed elettorali che non riguardano solo l’Italia, ma che si sono riflessi anche in scelte come la Brexit, l’elezione di Trump, la pratica scomparsa di significativi partiti di centrosinistra che fino a pochi anni fa guidavano i propri Paesi, come i socialisti francesi e olandesi, l’edizione di quest’an-no non mira però a ribadire inerzialmente queste due caratteristiche. Non si tratta di un’edizione normale. Non a caso si è scel-to, come ha detto Enrico Morando, “un ti-tolo terrificante”, ovvero “L’edificio rifor-mista. Le ragioni del crollo e i pilastri della ricostruzione”.

La cornice nuova, a partire dalla quale riflettere, la fornirà la relazione di Ales-sandro Maran: quella che ci è richiesta, come si è detto nel seminario preparatorio della Presidenza aperto da Giorgio Tonini e chiuso da Lia Quartapelle, è anzitutto

una riflessione sulla possibilità realistica di una nuova sovranità europea, a parti-re da un vero bilancio dell’Eurozona come avevano affermato Macron e Merkel pri-ma che l’ultimo Consiglio europeo fosse dirottato solo sul tema dell’immigrazione. Pensare che uno sviluppo efficace possa venire solo dal ricorso a misure nazionali di deficit spending, per di più in Paesi ad alto debito, è del tutto irrealistico e passa-tista. Ne deriva anche un obbligo politico, verso le elezioni europee, di creare un’ag-gregazione che comprenda il Pse, ma che vada oltre di esso per contendere esplici-tamente e comprensibilmente per gli elet-tori la maggioranza dell’Europarlamento alle forze nazionaliste.

Da lì potranno essere tratte conseguen-ze più puntuali sulla nuova fase del Pd e del centrosinistra italiano per costruire in modo coerente e aggiornato nei program-mi e nelle leadership una sorta di Quarta via, che riprenda l’ispirazione di sinistra liberale della Terza nelle nuove condizio-ni date. Le sconfitte non devono produr-re un ridimensionamento passivo delle proprie aspettative, un iper realismo per cui occorrerebbe arrendersi solo a logiche politiciste, di possibili alleanze subalterne nelle istituzioni in chiave trasformista o di resa culturale. L’edificio merita di essere ricostruito con aspettative forti, simili a quelle che avevano accompagnato la na-scita del Pd: l’elettorato è mobile come non mai e anche in politica l’offerta può pro-durre la sua propria domanda, come si è ribadito anche nel convegno preparatorio di Libertà Eguale Lombardia in Val Tarta-no, insieme ai circoli Dossetti e all’associa-zione Democratici per Milano.

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Politica

Il crollo dell’edificio riformista e i pilastri su cui ricostruire

6 giovedì 12 Luglio 2018

Se la risposta al populismo arriva dalla finanza impact

Se questo vale per ogni settore, vale due volte quando parliamo di Welfare e politiche sociali. È attorno agli sprechi in sanità che, anche a sinistra, sono talvolta emerse le relazioni pericolose tra

politica e affari, evocative di corruzione e clientele. Dietro al bisogno di casa e alloggi si sono nascoste spesso speculazioni inaccetta-bili. E il tema dell’accoglienza ai migranti, in tempi di crisi, razzismo e xenofobia, è presto virato in un processo scandaloso e genera-lizzato alle ONG del Mediterraneo.

Non possiamo stare fermi davanti a que-sta crisi di fiducia nei confronti del settore pubblico e dello Stato Sociale europeo. E però nemmeno pensare che la strada per recupe-rare credibilità sia quella della chiusura ad ogni genere di cooperazione e collaborazio-ne con quello che pubblico non è. Né quella di restare chiusi nel sistema dello Stato ero-gatore di risorse, sempre più scarse, capace di relazionarsi con il settore privato soltanto per mezzo di appalti, commesse e incarichi.

Di questo e di altro, in queste ore, abbia-mo parlato con Sir Ronald Cohen, regista del movimento mondiale della finanza ad im-patto, in visita a Roma su invito della San-ta Sede per la Terza Conferenza sull’Impact Investing in Vaticano, organizzata dal car-dinale Peter Turckson. Con la rete di Social Impact Agenda per l’Italia - banche, coope-rative, investitori sociali, enti di valutazione e associazioni legate alla finanza d’impatto - abbiamo coinvolto Cohen in alcuni incontri con i principali player del mondo economico italiano (da Cassa Depositi e Prestiti a realtà bancarie di rilievo come Unicredit, Ubi, BNL, Bpm e Federcasse o attori economici del ca-libro di Enel e Generali), per provare, insie-

me, a ragionare su un punto semplice eppu-re rivoluzionario: come collegare un mondo finanziario disponibile a superare le derive speculative e gli attori pubblici e del Terzo Settore interessati al contrasto alle disegua-glianze e al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Questo collegamento tra Stato, finanza impact ed economia sociale non può essere lasciato al caso, ma deve essere lo schema di lavoro sistematico se vogliamo rilanciare un progetto-Paese che faccia del collegamento tra protezione sociale e innovazione la nuo-va mission di una politica capace di ricon-nettersi ai bisogni diffusi e su scala globale raggiungere i global Development goals.

Il Global Steering Group for Impact In-vestment (presieduto da Cohen e del cui Bo-ard of Trustee mondiale sono onorata di far parte dallo scorso maggio) ha dunque deciso in questo 2018 di tentare una grande accele-rata, che a partire dai buoni risultati ottenuti dai primi 100 social bonds attivati finora in tutto il mondo provi a strutturare una stra-tegia ancora più solida attorno a degli Outco-me Funds tematici, che coinvolgano social investors, Governi e progetti di economia sociale su alcuni obbiettivi precisi. In In-dia, Africa e Medio Oriente stanno partendo Outcome Funds dedicati al contrasto delle povertà educative, della disoccupazione gio-vanile e della dispersione scolastica. Fondi che prevedono la restituzione e l’eventuale remunerazione del capitale solo ad obbietti-vi raggiunti.

In Italia da qualche mese è stato creato il primo Outcome Fund, finanziato nell’ultima manovra di bilancio con 25 milioni di euro per il triennio 2018-2020 e dedicato all’Inno-vazione Sociale. Ho già chiesto al ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bon-giorno, di prendere a cuore questa partita innovativa per un paese che deve sviluppa-re modelli ibridi di partnership pubblico/

privato per il raggiungimento di obiettivi sociali .

Ma al cuore della rivoluzione impact c’è una grande infrastruttura intangibile : la valutazione d’impatto. Anche Cohen lo ha ribadito durante il pranzo di lunedì scorso in Unicredit - davanti a una platea rappre-sentativa del mondo “impact ” italiano riu-nito nell’associazione Social Impact Agenda per L ‘Italia: alla base degli investimenti ad impatto c’è il meccanismo “pay by result”. Il pubblico rimborsa al privato la somma in-vestita solo se i risultati e gli obiettivi d’in-tervento sono raggiunti. Può esserci anche ritorno di investimento quando parliamo di social o green o refugees bond, ma a patto che la politica abbia funzionato e cioè gene-rato l’impatto previsto in termini di cambia-mento, prevenzione, ricadute effettive.

Siamo pronti, in Italia, a cambiare pro-spettiva? Ad attivare sinergie reali tra poli-tica e finanza sociale, dismettendo timori e pregiudizi? E a puntare su quel Terzo Set-tore pronto ad affrancarsi dalle erogazioni pubbliche “old style” in convenzionamento diretto e pronto a raccogliere la sfida della valutazione ? Dobbiamo trovare il corag-gio di insistere. Evitando torsioni liberiste, ma provando a contaminare la struttura del welfare italiano con esperimenti gene-rativi di trasformazione. Per evolvere verso quello che Mariana Mazzuccato ha definito “lo Stato innovatore”: non solo erogatore di servizi o “mediatore di interessi”, ma re-gista di schemi collaborativi tra pubblico e privato. Non per smantellare il Welfare che già esiste, ma per rafforzarlo aggiungendo le risorse che mancano e investendo, anche nel settore pubblico, su una cultura della mi-surazione. Evidence Based policies contro sprechi e populismi; politiche sociali soste-nibili economicamente e basate sui risultati: è questa la strada che dovremmo imboccare molto rapidamente.

Pensieri e parole

Giovanna Melandri Presidente di Social Impact Agenda per l’ItaliaSegue dalla prima

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7 giovedì 12 Luglio 2018

8 giovedì 12 Luglio 2018

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