SUI VANTAGGI DELL ISTRUZIONE TECINI PENSIERO E … · da don Francesco Tecini: fra limiti e...

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE STORICHE TESI DI LAUREA SUI VANTAGGI DELLISTRUZIONE. DON FRANCESCO TECINI: PENSIERO E OPERE DI UN PRETE FILOBAVARESE (1763-1853) RELATORE LAUREANDA PROF. MARCO BELLABARBA MARIANGELA LENZI CORRELATRICE DOTT.SSA SERENA LUZZI ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE STORICHE

TESI DI LAUREA

SUI VANTAGGI DELL’ISTRUZIONE. DON FRANCESCO TECINI: PENSIERO E OPERE DI UN PRETE

FILOBAVARESE (1763-1853)

RELATORE LAUREANDA PROF. MARCO BELLABARBA MARIANGELA LENZI CORRELATRICE DOTT.SSA SERENA LUZZI

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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3

RINGRAZIAMENTI

Desidero innanzitutto ringraziare la mia stupenda famiglia che in questi anni di studio

ha condiviso soddisfazioni e fatiche del mio percorso universitario. Ringrazio mamma

Flora, papà Claudio e le mie due sorelle maggiori Erica e Francesca perché in loro ho

sempre trovato sostegno, incoraggiamento, pazienza, comprensione e tanta

gratificazione. Alla mia famiglia, dunque, dedico questo lavoro.

Ringrazio con stima il prof. Marco Bellabarba, docente di Storia Moderna presso la

Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento, per aver seguito con

professionalità, disponibilità e cortesia le varie fasi di questo lavoro.

Un sincero ringraziamento va anche alla dott.ssa Serena Luzzi, docente di Storia

Moderna presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Trento, per i

preziosi consigli e la notevole disponibilità.

Desidero porgere i miei più sinceri ringraziamenti anche a tutte le persone che con

competenza e pazienza hanno permesso la stesura di questa ricerca: innanzitutto

ringrazio di cuore, con affetto e simpatia, Giuliana Campestrin, archivista dell’Archivio

storico comunale di Pergine Valsugana, che ha seguito dall’inizio l’evoluzione del

lavoro, aiutandomi con la massima disponibilità e competenza in ogni momento.

Ringrazio anche Ambra Fatturini, segretaria dell’Accademia Roveretana degli Agiati,

Eleonora Bressa, bibliotecaria della Biblioteca Rosminiana di Rovereto, il personale

della Biblioteca Civica di Rovereto, in particolare gli archivisti Fabio Bertolissi e

Cristina Sega, il responsabile della catalogazione Walter Manica, nonché la bibliotecaria

Giorgia Ferraris. Un grazie va anche al personale della Biblioteca Comunale di Trento,

in particolare a Milena Bassoli, e a quello dell’Archivio diocesano di Trento, al direttore

don Livio Sparapani, alla vicedirettrice Katia Pizzini e all’archivista Claudio Andreolli.

Ringrazio anche don Vanzetta, responsabile dell’Archivio parrocchiale di Pergine

Valsugana.

Non posso dimenticare tutti i miei amici che in vario modo, sono stati con me in questi

anni: un grazie speciale a Giulia, compagna di studio e amica di una vita, che ha

condiviso gioie e dolori della mia crescita. Un grazie carico di affetto e di sincera

amicizia a Valentina, della quale ammiro la bontà, la simpatia e la disponibilità.

Ringrazio Claudia, Alessandra e Lina, Cristian e Davide; i compagni di corso, in

particolare Paolo, Alessandro e Mattia. Un grazie speciale, con affetto e nostalgia, a

Davide.

4

Voglio ricordare i miei fantastici cani, Byron e Briski perché i momenti trascorsi con

loro sono stati per me fonte d’ispirazione per questo lavoro.

5

INDICE

INTRODUZIONE

1. Alcune considerazioni generali sulla fortuna storiografica di don

Francesco Tecini 11

2. Le fonti

15

PARTE PRIMA

DAL TRENTINO A SALISBURGO ATTRAVERSO LA

TOSCANA: LE REALTÀ PIÙ FERVIDE

DELL’AUFKLÄRUNG CATTOLICA NELLA SECONDA

METÀ DEL SETTECENTO

1. Le premesse seicentesche al riformismo del XVIII secolo 17

2. Il riformismo teresiano e giuseppino: presupposti e risultati 18

2.1 Fra giusnaturalismo e cameralismo: le premesse al riformismo

teresiano e giuseppino 19

2.2 La componente religiosa del riformismo asburgico: pensiero

muratoriano e giansenismo 20

2.3 Le condizioni della Chiesa cattolica in Austria a metà Settecento 21

2.4 Il riformismo teresiano e giuseppino 22

3. La cultura riformatrice nel contesto del Tirolo meridionale 26

3.1 Le riforme nel Principato Vescovile di Trento 26

3.1.1 Il riformismo trentino nella seconda metà del Settecento: da 28

6

Firmian a Pietro Vigilio Thun

3.2 Rovereto e gli Agiati 33

4. Le suggestioni culturali nel Granducato di Toscana 36

4.1 Pietro Leopoldo e Scipione de’ Ricci: un’azione congiunta per la

riforma della Chiesa toscana 36

4.2 All’indomani del fallimento del Sinodo di Pistoia: il tramonto del

giansenismo italiano 41

5. Il principato arcivescovile di Salisburgo dalla seconda metà del Settecento

agli anni Novanta. 43

5.1 Salisburgo e il Trentino 43

5.2 Salisburgo: da centro del riformismo muratoriano a simbolo

dell’illuminismo cattolico. L’opera del Principe Vescovo

Hieronymus Colloredo

44

PARTE SECONDA

BIOGRAFIA DI DON FRANCESCO TECINI (1763-1853)

1. La data di nascita: una questione controversa 49

2. La famiglia e gli anni della formazione giovanile 54

3. Il periodo trentino (1786-1791) 61

4. Il periodo fiorentino (agosto 1791 – giugno 1792) 63

5. Il periodo salisburghese (luglio 1791 – gennaio 1797) 68

6. Il periodo perginese (settembre 1797 – dicembre 1853) 74

6.1. Don Tecini e il primo governo austriaco (1797-1806) 74

7

6.2. Don Tecini: un sacerdote filo bavarese (1806-1809) 79

6.3. Don Tecini e il Regno Italico (1810-1813) 83

6.4. Il ritorno all’Austria e l’attività pastorale fino agli ultimi anni

(1815-1853)

89

PARTE TERZA

LE OPERE DEL PERIODO BAVARESE (1806-1809)

1. La rivalutazione del ruolo del parroco nella società moderna: un percorso

secolare 97

1.1 Dalla regolata devozione muratoriana alla pietà illuminata: l’utilità

sociale e civilizzatrice della religione. Il parroco nel Settecento 97

1.1.1 Il “buon parroco” nel pensiero muratoriano 98

1.1.2 Il disciplinamento del clero a metà secolo: un problema

comune 99

1.1.3 Verso la formazione del parroco illuminato 103

1.1.4 L’ideale del buon curato a fine secolo 104

1.2 Il prete nel primo Ottocento. 108

2. Don Francesco Tecini e l’attività pastorale-letteraria negli anni bavaresi 110

2.1 Dalla fine del Principato alla dominazione bavarese nel Trentino 111

2.2 Il sostegno ai provvedimenti bavaresi attraverso le sue opere 114

2.2.1 “Pel solenne possesso preso da Sua Maestà Massimiliano

Giuseppe re di Baviera del S. R. I arci-conte palatino,

arcidapifero, ed elettore ec. ec. del Tirolo, e principato di

Trento” 115

8

2.2.2 “Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla

vaccinazione” 119

2.2.3 “Elementi del buon suddito cristiano. Appendice alla

spiegazione catechetica del quarto precetto del decalogo” 124

3. “Sui vantaggi e sulle necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei

fanciulli, e fanciulle” 128

3.1 Tra analfabetismo e scolarizzazione: alcune considerazioni generali

sull’istruzione popolare trentina in età moderna 128

3.2 La svolta dell’istituzione scolastica in Trentino: le scuole normali

teresiane 131

3.2.1 Meriti e limiti della scuola popolare teresiana 132

3.2.2 La scuola normale a Rovereto 134

3.2.3 La tarda applicazione del Regolamento a Trento 135

3.3 La situazione scolastica a Pergine Valsugana: da Pietro Vigilio

Thun a Francesco II 137

3.4 L’istruzione elementare popolare a Pergine Valsugana alla vigilia

della legislazione scolastica bavarese. Il desolante quadro tracciato

da don Francesco Tecini: fra limiti e pregiudizi 140

3.5 Necessità e vantaggi dell’introduzione delle scuole elementari

bavaresi nel perginese: contenuti dell’omelia di don Tecini 142

3.6 Diffusione dell’opera

149

CONCLUSIONI

Per una rilettura della figura e delle opere di don Francesco Tecini, prete

filobavarese

157

9

APPENDICE

163

FONTI E BIBLIOGRAFIA

209

10

11

INTRODUZIONE

1. Alcune considerazioni generali sulla fortuna storiografica di don Francesco Tecini

È giunto il momento di gettare una luce sulla figura di don Francesco Tecini,

strappandola dall’oblio nel quale è caduta. Arciprete e decano foraneo di Pergine, Tecini

resse tale parrocchia per ben cinquantasei anni consecutivi, dal 1797 al 1853. La sua

vicenda biografica è rimasta fino ad ora quasi sconosciuta: tale incapacità di

sopravvivere alla sua morte nell’interesse di contemporanei e posteri non può essere

certo interpretata come conseguenza logica di una personalità scontrosa e chiusa che

non ha saputo conquistare la simpatia dei suoi contemporanei, né tanto meno di un

uomo disinteressato al benessere spirituale e materiale dei suoi fedeli che poco si è

prodigato per loro. Il risultato della sua attività pastorale nonché culturale non fu affatto

questo: don Francesco Tecini, infatti, fu insegnante di logica e retorica presso il

Ginnasio di Trento, segretario e cappellano di corte a Salisburgo nonché consigliere

ecclesiastico del Vescovo di quel principato, parroco e decano di Pergine, esaminatore

pro sinodale, provicario generale, ispettore scolastico, candidato a consigliere

dell’imperatore Massimiliano I di Baviera (nomina che peraltro rifiutò), delegato

ministeriale per il culto nei cantoni di Pergine, Levico e Borgo, canonico onorario della

Cattedrale di Trento e socio di varie accademie, italiane e straniere. Le cariche, i titoli e

gli onori di cui fu insignito testimoniano lo zelo e l’instancabile impegno profusi negli

ambiti in cui egli operò in prima persona. Eppure pochi studiosi si sono cimentati nel

tentativo di mantenere vivo il ricordo di questo uomo di Chiesa e al contempo amante

della cultura e chi l’ha fatto ha potuto contare su una scarsità di informazioni che ha

necessariamente ridotto a poca cosa qualsiasi scritto su di lui1.

1 Notizie frammentarie, o sparse qua e là senza collegamento, si ritrovano nelle seguenti opere a stampa:

1. Festeggiandosi il cinquantesimo anno del solenne ingresso nella Parrocchia di Pergine dell’Illustrissimo e reverendissimo don Francesco Tecini, Canonico onorario, Esaminatore pro sinodale ed Ispettore scolastico, Socio dell’accademia di Firenze, di Rovereto e del Ferdinandeo, decorato della gran medaglia d’oro con catena del merito civile austriaco, di quella di Baviera ecc. ecc., Trento, 1847.

2. P. ALESSANDRINI, Memorie di Pergine e del Perginese, anni 590-1800, Borgo Valsugana, Marchetto, 1890, p. 193.

3. F. AMBROSI, Scrittori ed artisti trentini, Trento, Zippel, 1894, p. 173. 4. G. TOVAZZI, Parochiale Tridentinum, a cura di Remo Stenico, Trento, Biblioteca PP.

Francescani, 1970, p. 601.

12

Il primo scritto edito che presenta in maniera più compiuta il profilo biografico di don

Francesco Tecini è la voce a lui dedicata da S. Battelli nelle Memorie dell’Accademia

degli Agiati2. Negli anni Trenta del XX sec. si è occupato di Tecini A. Zieger3

contribuendo anch’egli a organizzare in modo ragionato le informazioni sparse e

frammentarie citate in nota. In tempi più recenti, invece, Tecini è stato oggetto di studio

del padre francescano S. Piatti4.

Sulla base della documentazione venuta alla luce dopo quasi più di un secolo e

mezzo di permanenza in archivio, le notizie a disposizione sono decisamente più

abbondanti. Questo studio, tuttavia, non ha la pretesa di essere esaustivo ma si presenta

quale tappa iniziale per ulteriori approfondimenti su Francesco Tecini. Ora, infatti, è

possibile dare un’identità più chiara e maggiormente documentata al parroco, dipanando

l’aura di vaghezza che la circondava, fugando innanzitutto il dubbio circa la sua data di

nascita.

Nato a Sarnonico il 19 dicembre 1763, don Francesco Tecini visse la complessità

di un periodo di transizione, fatto di riforme, rivoluzione, ritorno all’ordine in un

contesto in cui il cammino verso la formazione di una nuova società era ormai

inarrestabile.

Trento, Rovereto, Firenze e Salisburgo furono le città, appartenenti all’area

culturale italiana e tedesca del Sacro Romano Impero, che scandirono il percorso

biografico e formativo del prete, il quale approdò poi a Pergine Valsugana, dove poté

concretare il suo spirito moderno e cattolico in un’opera pastorale a beneficio dei suoi

fedeli.

Passando per queste città, Tecini assorbì le suggestioni del rinnovamento culturale

che, negli ultimi decenni del Settecento, assunse connotazioni precise, preparando il

terreno all’evoluzione in senso moderno della società medievale. Trento, Firenze,

Rovereto e Salisburgo furono i centri culturali su cui, per motivi diversi, soffiava con

forza il vento della trasformazione: Trento, per il suo essere capoluogo di un Principato

Vescovile, di antica e nobile origine, appartenente al Sacro Romano Impero, era il

5. G. TOVAZZI, Variae Inscriptiones Tridentinae, a cura di Remo Stenico, Trento, Biblioteca PP. Francescani, 1994, p. 652.

2 Memorie dell’ I. R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto pubblicate per commemorare il suo centocinquantesimo anno di vita, Rovereto, Grigoletti, 1901, pp. 629-630. 3 A. ZIEGER, Cenni biografici su: don Francesco Tecini parroco-decano di Pergine, in Ricordi perginesi. Occasione 50° fondazione “Oratorio Parrochiale” 1882-1932, Pergine, Torgler, 1932, pp. 46-52. 4 S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, Pergine Valsugana, Biblioteca Comunale, 1998, pp. 630-635.

13

centro amministrativo e culturale di una realtà istituzionale che appariva ormai obsoleta

e inadeguata ai cambiamenti in atto, che avvenivano in nome di una politica

giurisdizionalista sempre più matura e consapevole e non rispondeva a un mero

desiderio di controllo statale, ma era legittimata ideologicamente dai principi del

movimento dei lumi austriaco, di matrice cattolica, che si inseriva nella tradizione di

un’Aufklärung centro-europea. La stessa posizione geografica, che un tempo giustificò

la costituzione del principato, faceva di Trento un crocevia fra tradizioni culturali e

sociali di varia origine: da nord penetrava l’illuminismo asburgico, da sud la cultura

italiana e si innestavano su un patrimonio locale ancora fortemente tradizionale. Per il

suo conservatorismo, infatti, il principato si aprì con ritardo alle novità del pensiero

moderno europeo. Dalla città di Trento degli anni Settanta-Ottanta, nella quale Tecini si

trovava come studente e poi insegnante, lo sguardo si apre a orizzonti più ampi:

Salisburgo è la meta di arrivo di un percorso formativo che si alimentò delle esperienze

roveretane e fiorentine. La città della quercia, per la propria posizione istituzionale

all’interno della compagine austriaca, si caratterizzò per un dinamismo culturale

precoce, rispetto a Trento, favorito dallo straordinario sviluppo economico di inizio

Settecento. Rovereto, inoltre, interessata anch’essa dalla Staatswerdung austriaca,

divenne il centro culturale italiano dei domini ereditari di casa d’Austria,

simbolicamente rappresentato nell’Accademia roveretana degli Agiati: un circolo di

intellettuali, legato inizialmente al mondo tedesco, ma aperto sull’Italia, come

testimoniano i contatti, ad esempio, con Firenze. Il capoluogo granducale, poi, era una

realtà nella quale le tensioni politiche e culturali della seconda metà del Settecento

conversero in un originale tentativo di riforma, che, tuttavia, fu destinato a fallire a

causa di una nuova atmosfera culturale, segno incontrovertibile della transitorietà dei

tempi, in un momento di trasformazione storica. A Salisburgo, infine, Tecini affinò la

sua formazione, a contatto con tendenze gianseniste ed episcopaliste-febroniane; presso

la corte del principe vescovo Colloredo, come vedremo, Tecini trascorse sei lunghi anni,

durante i quali visse il trauma rivoluzionario e le occupazioni napoleoniche della sua

terra d’origine, avvenimenti che lo convinsero ad abbandonare la corte salisburghese e i

suoi incarichi, per avvicinarsi alla famiglia e concretizzare l’ideale di parroco a lui caro.

La figura e l’azione di Tecini, nel periodo considerato, ovvero quello bavarese, assume

dunque importanza e coerenza se rapportato al background culturale degli ultimi

decenni del secolo XVIII in cui avvenne la sua formazione: si trattava di un contesto

quanto mai diversificato da zona a zona, tuttavia legato da una comune esperienza

14

riformatrice, condannata a fallire all’indomani della morte di Giuseppe II: l’esito delle

riforme francesi, identificate per lo più nella violenza rivoluzionaria, e private del loro

reale potenziale di miglioramento e progresso, determinò un’inversione di marcia nella

direzione di un rinnovato conservatorismo, tanto da parte dei poteri secolari quanto

della Curia romana. Fu all’indomani del fallimento del giuseppinismo e del riformismo

leopoldino e ricciano, che si dispiegò nella sua originalità l’azione pastorale e

intellettuale di Francesco Tecini, in un contesto in cui giurisdizionalismo, giansenismo,

episcopalismo, parrochismo, per quanto ormai appartenenti ad un’epoca passata,

lasciarono tracce tangibili e durature, riscontrabili appunto nella sua attività la quale si

sostanziò, nel corso degli anni, delle suggestioni culturali che rispecchiavano l’evolvere

della storia. La rivoluzione francese, infatti, estese la sua eco in tutta Europa, la

parentesi napoleonica, nelle sue varie fasi, fu più dirompente della rivoluzione stessa

portando a compimento il processo di modernizzazione che non nacque dal nulla, ma fu

il frutto di un lungo e sfaccettato movimento che affondava le radici addirittura nel

Seicento. Nel primo Ottocento, quasi all’ombra dell’imperatore francese ma suo alleato,

si distinse la figura del monarca bavarese Massimiliano Giuseppe, il cui governo si

caratterizzò per un’opera di riforma che interessò direttamente il secolarizzato

Principato Vescovile di Trento, sotto la sua dominazione dal 1806 al 1809: fu durante

questi anni che l’attività pastorale di Tecini si distinse per il suo sostegno ai programmi

di riforma bavarese, avviandosi sulla via opposta rispetto alla tendenza generale del

clero trentino. La resistenza del parroco all’insurrezione hoferiana lo marchiò come

prete filobavarese, condannandolo all’oblio della storia, contrariamente al successo di

cui Hofer e i suoi seguaci godettero e continuano a godere.

L’obiettivo di questa ricerca è quello di dimostrare come, invece, la posizione filo

bavarese di don Tecini rientri in una logica lineare, coerentemente con il percorso

formativo compiuto e il cambiamento in atto. La sua adesione ai programmi di riforma

bavaresi, analizzata attraverso le sue opere, maturò in chiave morale prima che politica.

La scelta di concentrare l’attenzione soprattutto sull’omelia recitata in occasione

dell’introduzione delle scuole elementari è motivata dall’interesse che don Tecini nutrì

sempre verso l’istruzione, prima come alunno, poi come insegnante, parroco e Ispettore

scolastico. Deriva, inoltre, dall’importanza che il problema dell’acculturazione delle

masse rivestì nel corso del Settecento tanto da diventare prioritario in ogni progetto di

riforma politica.

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2. Le fonti

Nell’intento di ricostruire il profilo biografico di don Tecini mi sono avvalsa di

una discreta quantità di fonti inedite, frutto di un lungo e attento lavoro di ricerca

archivistica.

La documentazione che, dopo lunghi anni di anonimato, ora assume una propria

importanza contribuendo a dare maggiore attendibilità a questo lavoro e scansando

equivoci finora persistenti, appartiene ad alcuni importanti archivi della nostra

Provincia: innanzitutto, ho avuto accesso al fondo archivistico della famiglia Montel,

acquistato da poco dall’Archivio storico comunale di Pergine Valsugana, nel quale ho

trovato un documento inedito5 da cui è scaturita la mia curiosità e la volontà di

approfondire la ricerca, non limitandomi alle fonti a stampa disponibili. Nell’Archivio

parrocchiale di Sarnonico ho controllato il Registro dei nati e battezzati del 1763,

sciogliendo il dubbio sulla data di nascita del parroco. Ho proseguito, poi, visionando la

documentazione di mio interesse presente nell’Archivio dell’Accademia roveretana

degli Agiati, in cui ho rinvenuto un’altra biografia del parroco, letta da Luigi Benvenuti

in occasione della tornata accademica del 10 maggio 1855, alcune lettere inviate da

Tecini all’Accademia e da essa ricevute. Dai magazzini storici della Biblioteca civica di

Rovereto ho portato alla luce l’esiguo carteggio intercorso fra don Francesco e

Clementino Vannetti, dal novembre 1791, quando Tecini giunse a Firenze, al 25 aprile

1794, quando il parroco si trovava a Salisburgo. Nella Biblioteca comunale di Trento è

presente un’importante lettera scritta da Tecini indirizzata ad Antonio Mazzetti.

Dall’Archivio diocesano di Trento e dall’archivio parrocchiale di Pergine Valsugana ho

desunto informazioni importanti circa l’attività pubblica e pastorale di don Tecini,

necessaria per contestualizzare il suo operato all’interno di un quadro quanto mai

controverso come quello della prima metà dell’Ottocento.

5 Si tratta dell’autobiografia di don Francesco Tecini, scritta però da una persona non identificata. Per questo aspetto rimando alla parte seconda, nella quale illustro il percorso compiuto nel tentativo di attribuire un senso logico alla creazione di certa documentazione e di dare una successione cronologica alla stessa.

16

17

PARTE PRIMA

DAL TRENTINO A SALISBURGO ATTRAVERSO LA TOSCANA: LE

REALTÀ PIÙ FERVIDE DELL’AUFKLÄRUNG CATTOLICA NELLA

SECONDA METÀ DEL SETTECENTO.

1. Le premesse seicentesche al riformismo del XVIII secolo

Sono numerosi gli studiosi che si sono cimentati nel tentativo di ricostruire,

analizzando ora l’uno, ora l’altro aspetto, la complicata situazione sociale, economica,

politica, culturale del XVIII secolo: per la portata dei progetti di riforma, che seppero

dare una risposta concreta alle necessità di cambiamento allora avvertite, il Settecento

fu il secolo durante il quale si assistette al passaggio da una società d’ancién regime,

ancora fortemente ancorata alle tradizionali “categorie” concettuali medievali, a una

società moderna, più dinamica, razionale e teoricamente libera, che assunse una

configurazione definitiva solamente nel secolo successivo.

La cultura riformatrice settecentesca si incuneava nell’alveo dell’ Illuminismo

che, ereditando le sollecitazioni del pensiero secentesco di matrice protestante, quali il

giusnaturalismo razionalistico6 e il deismo7 (i due filoni che di fatto anticiparono la

stagione illuministica8), sferrava una forte critica contro gli schemi dottrinali e

strutturali ereditati dal Medioevo. Non fu un movimento uniforme, ma caratterizzato,

come vedremo, da una molteplicità di interpretazioni da parte dei vari studiosi.

Nel corso del XVII secolo, a coronamento di un percorso intrapreso nel Tre-

Quattrocento con l’Umanesimo, l’intellettuale giunse a completa maturazione della

consapevolezza delle proprie facoltà razionali, facendo della ragione il paradigma

concettuale alla luce del quale ripensare tematiche importanti quali la legittimità del

potere sovrano, il senso della religione, il ruolo dell’individuo all’interno della società,

il rapporto fede-ragione e quello fra Stato e Chiesa. Approcciarsi a tali questioni

razionalmente significava, innanzitutto, mettere in discussione l’autorità della Chiesa e

6 N. BOBBIO, Il giusnaturalismo, in L. FIRPO (a cura di), Storia delle idee politiche, economiche, sociali. L’età moderna, Torino, Utet, 1980, vol. IV, pp. 491-558. 7 F. CIOFFI, G. LUPPI, S. O’BRIEN et al., Diálogos. La filosofia moderna. Autori e testi, Torino, Mondadori, 2000, vol. 2, p. 137. 8 F. BENIGNO, L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, Bari, Laterza, 2007, pp. 279-280.

18

l’interpretazione che essa ne faceva, con conseguenze, allora inimmaginabili, che

ebbero un’eco duratura nei secoli successivi.

Da fine secolo, nel periodo di “crisi della coscienza europea”, il rapporto fra

religione e potere, fra Chiesa e Stato, divenne l’oggetto principale di riflessione degli

uomini colti, laici ed ecclesiastici. che cercarono di orientarsi in modo da superare

definitivamente le lotte combattute, nel Cinque-Seicento, per motivi religiosi,

attribuendo progressivamente maggiore importanza alla vita civile e a una maniera più

razionale e meno teologica di concepire la realtà e l’uomo. In quest’opera di ri-

orientamento del pensiero colto verso orizzonti più razionali e di critica dell’assetto

vigente, esercitò un influsso preponderante la diffusione, appunto, del giusnaturalismo

moderno che si scagliò soprattutto contro la Chiesa. Ma essa, fu percorsa al suo interno

da correnti ideologiche che miravano a rinnovarla: il libertinismo colto9, il quietismo10,

il giansenismo. In effetti, la corrente religiosa, interna al cristianesimo, che più

compiutamente si presentò come alternativa alla tradizione controriformista fu il

giansenismo che, sviluppandosi in Francia conobbe una grande fortuna anche nei

domini asburgici di fede cattolica fra i membri dell’aristocrazia e del ceto dirigente.

Sono proprio questi i territori di nostro interesse, le cui vicende sociali, religiose

e politiche verranno presentate di seguito al fine di comprendere il contesto storico entro

il quale si sviluppò l’itinerario formativo di Tecini, nell’ultimo quarto del Settecento.

2. Il riformismo teresiano e giuseppino: presupposti e risultati

La formazione culturale di Tecini affondava le radici nei domini asburgici degli

ultimi decenni del XVIII sec. Dopo la morte di Maria Teresa, gli anni Ottanta

registrarono, per quanto riguarda i territori sopraccitati, una decisiva accelerazione sulla

via delle riforme perché Giuseppe II si fece promotore di una politica riformatrice più

autoritaria e decisa di quella della madre.

Il riformismo asburgico teresiano e giuseppino, accogliendo la tesi di Capra, può

essere inserito in una tradizione di Aufklärung centro europea, in cui convergevano il

filone del giusnaturalismo di Pufendorf e Wolff, il cameralismo austro-tedesco

9 A. DEL COL, L’inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006, pp. 553-557. 10 Ivi, pp. 666-680.

19

culminante nelle opere di Justi e Sonnenfels e il riformismo cattolico di stampo

muratoriano11.

2.1 Fra giusnaturalismo e cameralismo: le premesse al riformismo teresiano e

giuseppino

Il riformismo asburgico nacque più in risposta alla necessità di rafforzamento

dell’apparato statale della monarchia12, all’indomani della conclusione delle guerre di

successione, che da un’autentica adesione culturale alle istanze del pensiero moderno,

che, per la sua matrice protestante, faticò ad attecchire in quelle realtà cattoliche e

controriformiste, quali la monarchia asburgica e il Principato Vescovile di Trento,

impermeabili a qualsiasi innovazione proveniente dagli ambienti non cattolici.

I primi provvedimenti di riforma in seno ad una centralizzazione del potere,

tuttavia, si inserivano in un processo più ampio, di territorializzazione del potere regio

che dalla fine della guerra dei Trent’anni aveva preso piede a fronte dell’irreversibile

indebolimento della sovranità imperiale. La corsa verso l’assolutismo monarchico pose

le premesse per la nascita della scienza cameralista, che di fatto si sviluppò in Prussia;

una realtà che, per motivi confessionali, assorbì precocemente, rispetto ai Paesi cattolici,

le istanze del giusnaturalismo razionalistico di origine inglese e olandese.

La debolezza della politica austriaca affondava le radici nel dualismo principe-

ceti, che colpiva soprattutto la sfera economica, estrinsecandosi nei difetti dell’armata

imperiale13. Si manifestò la necessità di promuovere una riforma dell’ambito finanziario

alla luce delle teorie del cameralismo che penetrarono nei domini asburgici

controriformisti, grazie alla sintesi che gli intellettuali austriaci riuscirono a compiere

fra pensiero moderno e tradizione cattolica.

Il Cameralismo fu un fenomeno tipicamente germanico, strettamente collegato

alle specificità storiche che il problema del potere assunse nell'esperienza politica

moderna tedesca e austriaca14.

Nato come l’insieme di tutte quelle discipline miranti al benessere del suddito e

dello stato quali l’amministrazione, la scienza militare, la scienza economica e camerale

11 C. CAPRA, Immagine e realtà nel “grande progetto” di Giuseppe II, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XIX, 1985, pp. 419-426. 12 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 57-81. 13 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., pp. 58-66. 14 P. SCHIERA, Cameralismo, www.treccani.it

20

in senso stretto (dedicata ai problemi fiscali e finanziari), nel Settecento divenne un vero

e proprio sistema di dottrine inerenti sia ai fini che ai mezzi indispensabili a uno Stato

moderno. In tale intreccio il rapporto principe-sudditi occupava il posto preminente.

Immediato divenne il collegamento fra cameralismo e diritto natural-razionale e fra le

teorie giusnatuiraliste e l’evoluzione politica e istituzionale del tempo, dal sistema

feudale a quello assoluto: a partire dalla convinzione dell’esistenza di diritti naturali

dell’uomo, i giusnaturalisti riconoscevano in un potere statale forte l’unico garante della

salvaguardia di tali diritti, la cui legittimazione si basava però su un atto razionale,

ovvero sulla volontà contrattualistica degli uomini15. Anche gli studiosi mercantilisti

che gettarono le basi della cameralistica austriaca si richiamarono alle teorie

giusnaturaliste16, che fecero il loro ingresso anche in Austria grazie all’opera di chi,

come Paul Joseph Rigger e Carlo Antonio de Martini, riuscirono a ricondurle nell’alveo

della fede cattolica: essi, infatti, riconoscevano l’origine divina del diritto naturale17.

2.2 La componente religiosa del riformismo asburgico: pensiero muratoriano e

giansenismo

La terza anima dell’ Aufklärung centro-europea, nella quale maturò il riformismo

asburgico, era quella religiosa, strettamente connessa ai filoni di cui sopra.

La vicina Prussia diventava, a partire dall’inizio del Settecento, un nemico sempre

più temibile per la sovranità imperiale: la conquista della Slesia, introdusse un nuovo

binomio “cattolicesimo-arretratezza” “protestantesimo-progresso” alla luce del quale

giustificare la debolezza dell’Austria18: in questa prospettiva la componente

confessionale giocava un ruolo di primo piano.

L’Illuminismo, di origine protestante, in Austria conobbe una diffusione

moderata, filtrata dalla mediazione dei pensatori che riuscirono a conciliare il pensiero

moderno con le specificità storiche, culturali e confessionali della monarchia, primo fra

15 M. R. Di SIMONE, Aspetti della cultura giuridica austriaca nel Settecento, Roma, Bulzoni, 1984, p. 39. 16 M. R. Di SIMONE, Aspetti della cultura giuridica austriaca nel Settecento, cit., pp. 37- 41. 17 Ivi, pp. 47-97. 18 G. KLINGENSTEIN, Radici del riformismo asburgico, in F. CITTERIO, L. VACCARO (a cura di), Storia religiosa dell’Austria, Gazzada (VA), Fondazione Ambrosiana Pio VI, 1997, pp. 143-168.

21

tutti Ludovico Antonio Muratori19. Il rinnovamento da lui auspicato interessò prima la

penisola italiana, in modo particolare il Collegio romano germanico20, e poi l’Austria,

dove molte sue opere vennero pubblicate e tradotte. Ma qui, egli si trovò ad operare in

ambienti che già negli anni Venti e Trenta si contraddistinsero per la loro apertura

culturale e ideologica21, che si concretizzò nella ricezione della lezione giansenista da

parte del clero austriaco, dei personaggi eminenti della famiglia reale22 e dei più vicini

collaboratori dei sovrani23. Muratori, storico ed erudito, fu autore di una serie di trattati

in materia religiosa e di politica ecclesiastica, che furono poi alla base del movimento

riformista cattolico in Italia e in Austria. L’ideale di un cristianesimo ragionevole e

moderato trovò la sua più compiuta elaborazione nell’opera intitolata Della pubblica

felicità, oggetto de’ buoni principi, del 1749, nel quale era concentrata la politica

ecclesiastica del dispotismo illuminato di Maria Teresa e dei suoi figli: la lotta contro la

superstizione, ovvero contro le devozioni esagerate nate in età barocca e contro la

religiosità popolare, il richiamo alla semplicità della Chiesa delle origini, il ritorno a un

cristianesimo più puro, l’avversione contro lo sfarzo nel culto, contro il culto eccessivo

delle reliquie e delle immagini, dei Santi e della Madonna. Pur potendo essere

considerato il Muratori “einen der wichtigsten geistigen Begründer der Josefinismus”24,

egli, però, non ne fu certamente il padre, soprattutto perché nel corso del tempo il

giansenismo prese il predominio sullo spirito muratoriano e “la moderazione del

Muratori cedeva a opinioni più estreme riguardo alla riforma della chiesa”25.

2.3 Le condizioni della Chiesa cattolica in Austria a metà Settecento

Ancora nella prima metà del Settecento, l’Austria era considerata il bastione della

cattolicità: in una società fortemente feudale potere spirituale e temporale erano

inscindibilmente connessi. Il sistema ecclesiastico, fortemente disomogeneo, 19 Sull’attività di Ludovico Antonio Muratori si veda, P. PETRUZZI, La “regolata religione”. Studi su Ludovico Antonio Muratori e il Settecento religioso italiano, Assisi, Cittadella, 2010. 20 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., pp.105-107. 21 E. G. CORNIDES, In margine alla relazione “L. A. Muratori e l’Austria”, in Atti del convegno internazionale di studi muratoriani. Modena, 1972, Firenze, Olschki, 1975, vol. III, pp. 247-257. 22 P. HERSCHE, Il Muratori e il giansenismo austriaco, in Atti del convegno internazionale di studi muratoriani. Modena, 1972, cit., pp. 265-269. 23 A. WANDRUSZKA, Il riformismo cattolico settecentesco in Italia ed in Austria, in Storia e politica, Milano, Giuffrè, 1965, anno IV, fasc. III, pp. 385- 398. 24 E. ZLABINGER, L. A. Muratori und Österreich, in Atti del convegno internazionale di studi muratoriani. Modena, 1972, cit., p. 109. 25 P. HERSCHE, Il Muratori e il giansenismo austriaco, cit., p. 266.

22

ingarbugliato, per motivi geografici e giurisdizionali, costituiva di fatto la prima fonte di

dispersione del potere regio e, in quanto tale, era un grande ostacolo ai programmi

centralizzatori dei sovrani asburgici26. La Chiesa cattolica, dunque, assurgeva a simbolo

di conservatorismo e arretratezza tanto da un punto di vista culturale quanto e

soprattutto da un punto di vista politico-istituzionale. Non si devono dimenticare

nemmeno gli effetti economici del sistema ecclesiastico sulla società, strettamente legati

all’istituto del beneficio e alle rendite ad esso connesse, alle varie declinazioni in cui si

esprimeva la religiosità popolare (fra feste e pellegrinaggi si registrava un’astensione

dal lavoro per circa 120 giorni all’anno) e alla spese necessarie per viverla (la religiosità

barocca era economicamente dispendiosa)27. Si trattava di una religiosità inutile alla

società, ancora molto superstiziosa e irrazionale, che contribuiva a mantenere il popolo

arretrato sia economicamente che culturalmente. Tale situazione socio-religiosa viene

riassunta efficacemente da Grete Klingestein: la Chiesa cattolica austriaca era

caratterizzata dalla fragilità dei patronati, dal sovraccaricamento delle strutture

parrocchiali tradizionali, dall’impossibilità di unire in un’azione comune autorità

secolari e regolari (indipendenti dalla giurisdizione delle prime), dall’impossibilità di

attingere alla palese ricchezza dei monasteri e ai beni in eccesso delle grandi parrocchie

per destinarli alle realtà religiose più bisognose, soprattutto dal non funzionamento dei

metodi pastorali tradizionali e dalla carente formazione del clero, dalla mancanza di

scuola per i bambini e dalla trascuratezza nella catechesi degli adulti28. Alla luce di

queste riflessioni assume il giusto significato il binomio cattolicesimo-arretratezza di

cui sopra.

2.4 Il riformismo teresiano e giuseppino

Erano questi i bersagli contro cui si indirizzavano i programmi di riforma dei

sovrani asburgici a partire dalla metà del Settecento, perché la Chiesa rappresentava il

primo ostacolo sulla strada della costituzione di un governo assolutistico e illuminato.

Il riformismo asburgico, che si nutriva dei tre filoni di cui sopra, si inseriva in un

generale contesto di trasformazione dei rapporti fra Chiesa e Stato, caratterizzato dalla

diffusione di una nuova concezione di bene pubblico, che “nella prima metà del secolo

26 G. KLINGENSTEIN, Radici del riformismo asburgico, cit., pp. 152-159. 27 P. HERSCHE, Religiosità popolare e riforme giuseppine, in F. CITTERIO, L. VACCARO (a cura di), Storia religiosa dell’Austria, cit., pp. 199-219. 28 G. KLINGENSTEIN, Radici del riformismo asburgico, cit., p. 164.

23

XVIII, si caricava di una valenza diversa, per così dire ottimistica, che trasformava

l’idea di bene in quello più promettente di felicità: a differenza del bene comune, infatti,

ideato dalla teologia morale della seconda scolastica in funzione di una società

corporativa e gerarchizzata, la pubblica felicità della nazione faceva riferimento ad un

nuovo ordine sociale, contrario ad ogni mediazione cetuale e corporativa, e in cui lo

Stato era l’unico garante e promotore dell’utilità pubblica e del bene della Chiesa e dei

suoi fedeli”29. Il sovrano, in quanto advocatus ecclesiae, per diritto divino, attribuiva al

suo potere una prevalenza assoluta (imperium) sul potere spirituale, qualora fosse in

gioco il bene pubblico: così, gli interventi degli Stati riformatori, che per secoli si erano

mantenuti entro la sfera dell’economia e dell’ordine pubblico, nella fase di

giurisdizionalismo intransigente, travalicarono i limiti abitudinari dando inizio ad una

prassi politica di marcata ingerenza nelle questioni religiose.

Alla luce di queste considerazioni conquistano il giusto significato i programmi di

una riforma della Chiesa attuati da Maria Teresa ma soprattutto da Giuseppe II:

l’indebolimento del dualismo politico a favore di una conduzione assolutista del potere

da parte del monarca doveva passare anche attraverso una razionalizzazione del sistema

ecclesiastico. Maria Teresa capì la necessità di mettere mano ad una riforma del sistema

socio-politico a partire da una riforma istituzionale, che permise una razionalizzazione

anche del sistema ecclesiastico e un maggior controllo sulla Chiesa da parte del potere

regio.

Ma fu Giuseppe II a concepire l’idea di una riforma totale del sistema separando

nettamente la sfera religiosa da quella politica e sociale. La stagione riformista vide

coinvolti in un comune disegno di rinnovamento religioso autorità ecclesiastiche e

politiche: in questa collaborazione stava l’essenza stessa del giuseppinismo. Giocarono

un ruolo importante i “vescovi riformatori”, alimentati delle dottrine di Muratori, di

giansenismo, di illuminismo cattolico. Notevole, però, fu anche il ricorso, sotto certi

aspetti, al Concilio di Trento, caduto quasi in oblio nei tempi barocchi30. Lo Stato si

rivolse contro la cultura barocca per motivi in parte diversi rispetto a quelli che

muovevano i prelati riformatori: il fattore economico, lo sperpero di tempo e denaro che

potevano essere investiti in modo più utile per pareggiare l’arretratezza dell’Austria

rispetto alla Francia, i Paesi Bassi, la Prussia, l’Inghilterra, mossero i sovrani asburgici

verso una riforma ecclesiastica.

29 I. PEDERZANI, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 41. 30 P. HERSCHE, Religiosità popolare e riforme giuseppine, cit., pp. 214-215.

24

Dal canto loro le frange riformiste cattoliche miravano ad una riforma della

Chiesa, nella direzione di una razionalizzazione delle strutture per motivazioni religiose,

proprie del giansenismo: la Chiesa originariamente poggiava solamente sui vescovi e

sui parroci. La successiva organizzazione gerarchica della Chiesa cattolica e le

numerose manifestazioni di religiosità quali conventi, confraternite, monasteri venivano

considerati frutto dell’invenzione degli uomini e conseguenza dell’abuso dei vantaggi

derivanti dal sistema beneficiale31. Ne derivava il rafforzamento dell’anticurialismo

asburgico che aveva fatto il suo ingresso a inizio Settecento per ragioni storico-

politiche.

Così, il movimento dei lumi di matrice asburgica, che occupò un periodo

relativamente breve nell’area danubiana (1770-1790)32, si tradusse in una riforma

cattolica, inizialmente di impronta giansenista, accompagnata da un rafforzamento dello

Stato e dell’autorità del monarca33, presentando aspetti di originalità rispetto all’Europa

occidentale, che si trasformava invece alla luce dei principi dell’illuminismo anglo-

francese34. Infatti, i filoni da cui prese le mosse l’Aufklärung centro-europea, pur

distinti fra loro, avevano in comune “l’esaltazione dello stato, e del monarca che ne è

l’incarnazione, come supremo tutore e garante della pubblica felicità, responsabile della

salute materiale e morale dei sudditi”35. Si trattava di un assolutismo illuminato che si

rifaceva all’ideale paternalistico e eudemonistico, in cui la religione, sulla scorta del

pensiero muratoriano, era il fondamento dell’ordine sociale. Lo Stato proclamava la

difesa della religione cattolica: la Chiesa divenne uno strumento nelle mani

dell’imperatore, il quale diventando il suo protettore supremo ne pretese una completa

sottomissione.

Influenzato dalle tendenze conciliariste di Febronio, Giuseppe II esaltò

l’importanza dei vescovi sferrando un duro attacco all’autorità del papa. L’imperatore

avocava a sé il diritto di intervenire in questioni ecclesiastiche come dimostrarono

l’ondata di soppressione di molti conventi, le cui proprietà confiscate furono affidate ad

un organismo statale, il Religionsfond (fondo di religione), responsabile della gestione

del denaro da esse ricavato, destinato a sovvenzionare altre spese della Chiesa; furono

create nuove diocesi (i cui vescovi divennero funzionari al servizio del governo che li

31A. WANDRUSZKA, Il riformismo cattolico settecentesco in Italia ed in Austria, cit., pp. 385-398. 32 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., p. 101. 33 Ivi, p. 119. 34 C. CAPRA, Immagine e realtà nel “grande progetto” di Giuseppe II, cit., p. 420. 35 Ibid.

25

pagava) e nuove parrocchie per permettere allo Stato un controllo capillare sulla

condotta del clero, della cui formazione, teologica e morale, l’imperatore fu

particolarmente sensibile: di qui, la soppressione dei seminari diocesani e dei collegi

convenutali e la creazione di “seminari generali”, sottratti al controllo dei vescovi e

affidati a un corpo insegnanti che condivideva le nuove idee36. La ridefinizione dei

confini ecclesiastici, che dovevano coincidere con quelli politici, voluta da Giuseppe II

nel 1785 rappresentava il passaggio definitivo nel tentativo di esercitare un pieno

controllo sovrano sulla vita pubblica e privata dei sudditi e sulla Chiesa locale,

svincolata da ogni ingerenza esterna. Poco o nulla importava se la politica giuseppina

fosse autoritaria: il fine, la felicità pubblica dei suoi sudditi, giustificava i mezzi. Pur

accogliendo alcuni stimoli del movimento giansenista e dell’episcopalismo tedesco,

accomunati da una deciso rifiuto dell’autoritarismo romano, la completa subordinazione

di vescovi e parroci allo Stato pretesa da Giuseppe II finì per rompere la collaborazione

fra autorità ecclesiastiche e politiche, che come abbiamo visto, fu l’essenza stessa del

giuseppinismo37. Giuseppe II avrebbe voluto, all’interno di ogni diocesi dei suoi

domini, un vescovo ispirato da orientamenti giurisdizionalisti ed episcopalisti,

febroniani ma alieno da simpatie dottrinali gianseniste: la figura del parroco, per

l’imperatore doveva essere valorizzata per il ruolo di intermediario fra Stato e fedeli che

egli esercitava, rifiutando, invece, l’ecclesiologia parrochista giansenista38.

Per quanto impattanti fossero stati i provvedimenti imperiali in materia religiosa,

l’eversione dell’istituto del patronato e l’eliminazione del beneficio ecclesiastico furono

obiettivi che il riformismo asburgico non ebbe l’ardire di perseguire appieno39.

Solamente la legislazione napoleonica promosse, nel secolo successivo, un

cambiamento eversivo dell’antico sistema ecclesiastico: il giuseppinismo però costituì

un’importante anticipazione, anche per quanto riguarda la pratica spirituale, nei suoi

aspetti esteriori40.

L’accordo tra riformatori ecclesiastici e politici ebbe per conseguenza la quasi

totale abolizione delle tradizioni religiose in Austria. Ciononostante, la religiosità

popolare poté sopravvivere, grazie alla forte resistenza opposta dalla popolazione rurale.

36 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., pp. 154-156. 37 Ivi, p. 109. 38 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia, Marsilio, 1999, p. 215 39 I. PEDERZANI, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, cit., p. 17. 40 P. HERSCHE, Religiosità popolare e riforme giuseppine, cit., pp. 199-222.

26

Dopo la morte di Giuseppe II, il fratello Leopoldo, anch’egli artefice di un grande

riformismo politico-ecclesiastico in Toscana, preferì ripiegare su posizioni più

conservatrici, abrogando i decreti più riprovati. All’epoca della restaurazione le

tradizioni religiose popolari poterono rinascere: nel corso dell’Ottocento, infatti, si creò

quella che Hersche definisce un’era neo-barocca41.

3. La cultura riformatrice nel contesto del Tirolo meridionale

3.1 Le riforme nel Principato Vescovile di Trento

Nel principato vescovile di Trento la seconda metà del Settecento rappresentò il

momento di svolta per una società ostile a cambiamenti di sistema dove l’immobilismo

e la salvaguardia dell’assetto vigente erano considerate le garanzie di un vivere

tranquillo. Il conservatorismo del Principato si radicava nel ricordo di Trento quale sede

conciliare; una città, che proprio per questo motivo, aveva assunto l’immagine di

bastione della cattolicità controriformista. Ma anche l’ organizzazione istituzionale del

Principato, per tutto il Settecento fortemente ancorata a schemi di tipo medievale,

contrastava con qualsiasi tentativo di ammodernamento42: il suo duplice legame, da una

parte con la santa Sede e dall’altra con il Sacro Romano Impero, dava vita ad un

rapporto particolare con gli Asburgo (ai quali era più direttamente dipendente dal 1665)

che non si poteva tradurre, per l’autonomia di cui sempre godette, in un atteggiamento

di subordinazione ai programmi di accentramento austriaco. Così, la difesa

dell’autonomia trentina nei confronti delle pretese asburgiche fu indissolubilmente

collegata al mantenimento del sistema vigente. Dopo timidi approcci, per altro falliti, al

pensiero moderno43, la ventata di modernizzazione riuscì a investire il Principato prima

41 Ivi, pp. 218-219. 42 M. R. DI SIMONE, Diritto e riforme nel Settecento trentino, in M. BELLABARBA, G. OLMI (a cura di), Storia del Trentino. L’età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, vol. IV, pp. 209-229. 43 Nel 1629 a Trento fu fondata l’Accademia degli Accesi, la cui attività, discontinua e all’insegna della superficialità e del formalismo, testimoniava come la vita intellettuale trentina non fosse orientata verso una rottura con il passato. L’Accademia venne chiusa nel 1737 e solamente agli anni Cinquanta si può datare un’evoluzione in senso moderno del Principato, attraverso la creazione della cattedra di Giurisprudenza a Trento. (M. R. DI SIMONE, La cultura giuridica nel Trentino tra Settecento e Ottocento: Francesco Virgilio Barbacovi, in Atti del Convegno Sigismondo Moll e il Tirolo nella fase di superamento dell’antico regime. Rovereto 25-26-27 ottobre 1990, Rovereto, 1993, p. 33).

27

attraverso l’opera muratoriana44, e poi compiutamente quando esso si trovò coinvolto

nella politica riformatrice teresiana degli anni Cinquanta45.

Il rinnovamento investì inizialmente il settore della scienza giuridica e si legò

principalmente all’opera di Pilati46 e Barbacovi47, i quali pur accomunati da uno stesso

desiderio di riforma dell’assetto istituzionale vigente, a partire da una sistemazione su

basi razionali delle fonti normative, approdarono a soluzioni pratiche differenti48. In

realtà il dinamismo culturale che iniziò ad interessare anche la società trentina rifletteva

una ripresa delle controversie politiche fra i vari centri di potere del Principato alla luce

delle riforme dell’assolutismo asburgico49.

Dopo la lunga parentesi dell’esperienza dei Madruzzo, attenti al ruolo

internazionale del Principato, e in seguito a isolati tentativi di attrarre la Chiesa di

Trento e il suo territorio nell’orbita della politica austriaca, con l’elezione sulla cattedra

di Vigilio Thun si aprì una fase di gestione “localistica” del potere nel principato: da

Sigismondo Alfonso Thun (1668-1677) a Emanuele Maria Thun (1800-1818) tutti i

vescovi di Trento furono trentini. La presenza ormai stabile del Principe Vescovo in

città permetteva una maggiore governabilità da parte di quest’ultimo sia in ambito

politico che ecclesiastico. Per il Principato di Trento, la concentrazione del potere

44 Ivi, p. 32. 45 In relazione al progressivo svecchiamento della mentalità medievale trentina M. Farina individua tre fasi: i decenni della “Chiesa guidata dall’alto” (1668-1740) si caratterizzarono per un deciso tentativo, da parte dell’autorità vescovile, di promuovere la diffusione della dottrina del concilio di Trento in nome della difesa della religiosità controriformista e barocca. Essa venne gradualmente rinnovata alla luce del riformismo muratoriano, in ordine ad una regolata devozione, durante il periodo della “Chiesa sollecitata dal basso” (1740-1760) per subire le note trasformazioni determinate dal giuseppinismo negli anni della “Chiesa condizionata dall’esterno” (1760-1803). (M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, in M. BELLABARBA, G. OLMI (a cura di), Storia del Trentino. L’età moderna. cit., pp. 505-551). Questa periodizzazione, seppur schematica, rende chiaramente l’idea di come il processo di modernizzazione del principato rispecchi le vicende storiche della monarchia austriaca, in un momento in cui era ormai ineludibile il tramonto di un’istituzione obsoleta per sopravvivere alle trasformazioni del tempo. 46 S. B. GALLI, Carlo Antonio Pilati: l’illuminista “empio” e “sovversivo”, in M. NEQUIRITO (a cura di), Trentini nell’Europa dei lumi: Firmian, Martini, Pilati, Barbacovi. Quadri e riquadri, Trento, 2002, quaderno n°2, pp. 45-63. 47 M. R. DI SIMONE, La cultura giuridica nel Trentino tra Settecento e Ottocento: Francesco Virgilio Barbacovi, cit., pp. 31-45. 48 S. LUZZI, Una triade di giuristi e l’arte di riformare: Carlo Antonio Martini, Francesco Vigilio Barbacovi, Carlo Antonio Pilati, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile: mostra storico-documentaria organizzata in occasione del bicentenario della fine del Principato Vescovile di Trento, Trento, 2003, pp. 133-145. 49 M. MERIGGI, Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il Principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione, in M. BELLABARBA, G. OLMI (a cura di), Storia del Trentino. L’età moderna, cit., pp. 127-156.

28

assunse una connotazione chiara con il governo di Pietro Vigilio Thun50, che

preoccupato, da una parte, di smorzare l’audacia del riformismo asburgico ma

incuriosito, dall’altra, dalle idee del pensiero moderno51, di cui coglieva le potenzialità

di rinnovamento, fu attento a mantenersi in equilibrio fra gli Asburgo e la Santa Sede.

Contemporaneamente, tuttavia, doveva fare i conti con una rinnovata resistenza al suo

potere da parte delle forze centrifughe, in particolare il magistrato consolare e il

Capitolo della cattedrale, che miravano ad indebolire l’autorità centrale, in favore del

rafforzamento dell’autonomia locale52. Quando Tecini, come vedremo, giunse a Trento

per intraprendere gli studi presso il Seminario diocesano, nel 1777, la città iniziava a

portare i segni profondi delle prime trasformazioni che, di là a qualche decennio

portarono alla secolarizzazione del Principato. Tuttavia, un discorso sul contesto

trentino degli anni Settanta e Ottanta in cui avvenne la prima formazione di Tecini non

può prescindere da un’osservazione preliminare che parte dagli anni di governo del

Firmian.

3.1.1. Il riformismo trentino nella seconda metà del Settecento: da Firmian a Pietro

Vigilio Thun

Nel lungo governo dei Thun, solamente Leopoldo Ernesto Firmian si

contraddistinse, rispetto ai predecessori, per una politica filo austriaca, maturata in seno

al percorso formativo e alla carriera ecclesiastica intrapresa, a cui non furono estranei

motivi di appartenenza a una delle famiglie più vicine a Maria Teresa53. L’opera

riformatrice di Firmian, divenuto coadiutore vescovile plenipotenziario nel 1748,

interessò l’ambito politico-amministrativo54, ma soprattutto quello ecclesiastico. Infatti,

sulla scorta di Farina, si può parlare di una “Chiesa sollecitata dal basso”, ovvero una

Chiesa che si lasciava rinnovare dal basso, cogliendo i contributi di laici e clero (alto e

50 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., pp. 505-551. 51 S. BENVENUTI, La massoneria nel Trentino tra Sette e Ottocento, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., p. 146. 52 M. MERIGGI, Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il Principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione, cit., pp. 127-156. 53 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., p. 529. 54 C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1975, pp. 69-79.

29

basso), aperti alle nuove istanze del pensiero muratoriano, penetrate in terra trentina

soprattutto grazie alla mediazione di Gianbenedetto Gentilotti55.

Ma non fu solamente Muratori a influenzare la politica religiosa firmiana. Essa si

sostanziava di importanti sollecitazioni che rispecchiavano il background culturale in

cui il vescovo si formò: Salisburgo, meta di molti nobili e patrizi trentini che nella città

affinarono la propria preparazione, era in quegli anni centro di fervido riformismo

religioso, in cui convergevano lo spirito di rinnovamento muratoriano, i primi

movimenti conciliaristi, il giansenismo francese. Ritorneremo in seguito

sull’importanza di Salisburgo come “il centro principale dell’Aufklärung cattolica nel

senso muratoriano”56; qui basti ricordare come i maggiori fautori del rinnovamento

culturale trentino, pur nella varietà di proposte avanzate, compirono o completarono la

loro formazione proprio in questa città57: Pilati, Barbacovi, Martini, i vari Cristani, che,

ironia della sorte, erano anauni come lo era Tecini.

Fra i primi provvedimenti della politica religiosa del principe vescovo, il drastico

ridimensionamento del numero delle ordinazioni sacre, proporzionato all’effettivo

bisogno di cura d’anime58, ebbe importanti conseguenze sul piano economico59 e

spirituale: questo provvedimento mirava anche a promuovere la formazione di un clero

istruito e moralmente retto in grado di educare il popolo ai principi della religione

cattolica, non solamente attraverso un mero indottrinamento ma anche con il proprio

esempio. La creazione di un concistoro e l’importanza attribuita alla visita pastorale,

divennero strumenti di grande efficacia per promuovere il rinnovamento religioso di

tipo muratoriano: già il Firmian presentava i tratti di un vescovo illuminato60.

Gli anni Quaranta-Sessanta, corrispondenti alla “Chiesa sollecitata dal basso”

rappresentarono un momento fondamentale per la diocesi di Trento in relazione al

dibattito più strettamente teologico: il disciplinamento del clero doveva passare

55 C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), cit., pp. 30-31. 56 Ivi, p. 35. 57 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., pp. 524-525. 58 Un principio cardine in Muratori fatto proprio da Kaunitz, che legittimava l’intervento dello Stato anche sulle strutture ecclesiastiche per realizzare l’utilità sociale. (I. PEDERZANI, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, cit., n. 39, p. 41.) 59 La sovrappopolazione clericale trentina era legata ai vantaggi economici del sistema beneficiale e agli stratagemmi escogitati per raggirare la legge canonica (C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), cit., p. 16.). Sul sistema beneficiale si veda G. GRECO, Fra disciplina e sacerdozio: il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento al Settecento, in M. ROSA (a cura di), Clero e società nell’Italia moderna, Roma–Bari, Laterza, 1995, pp. 45-58. 60 C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), cit., pp. 82-86.

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attraverso una riforma dell’insegnamento della morale, fino ad allora di monopolio dei

gesuiti. Costoro, già nel corso dei decenni precedenti, divennero il principale bersaglio

polemico della Chiesa di Roma e dei più influenti esponenti della politica austriaca, che

sulla scia del giansenismo e del pensiero muratoriano, estromisero i Gesuiti dai gangli

della vita intellettuale61: accusandoli di lassismo auspicavano una morale più

disciplinata e rigorosa, propria del giansenismo.

Anche nei progetti del Firmian, il popolo doveva essere istruito “da predicatori

formati a una sana morale e a una genuina, purificata teologia, che superasse il

formalismo della tradizione gesuitica, largamente dominante anche in diocesi”62. La

casistica gesuitica entrò in crisi a causa della diffusione della morale giansenista, con

tutte le sue declinazioni (rigorismo, probabilismo, tutiorismo), finché fu sostituita dal

probabiliorismo sostenuto dal Vescovo e dai Francescani che subentrarono ai gesuiti63.

Nel anni Settanta poi, la soppressione della Compagnia di Gesù, segnò il suo declino.

L’opera di riforma firmiana conobbe una battuta d’arresto quando, negli anni

Cinquanta, il vescovo si trovò coinvolto in controversie con Vienna e Innsbruck, ma

anche con il capitolo, il magistrato consolare e addirittura con alcuni membri del

consiglio aulico, in relazione a questioni monetarie, daziarie e di definizione dei confini

austro-veneti. Fu così che rinunciò alla coadiutoria nel 1755.

Con Francesco Alberti d’Enno, il suo successore, si aprì una fase di restaurazione

delle antiche tradizioni della città, permettendo al vescovo di riconquistare l’appoggio

delle élite cittadine. Una maggiore difesa dell’autonomia trentina durante gli anni

dell’episcopato dell’Alberti fu resa possibile dall’allentamento dei programmi di

riforma di Maria Teresa per il coinvolgimento dell’Austria nella guerra dei sette anni;

ma dopo la pace di Parigi, la cooptazione al trono di Giuseppe II rappresentò il

momento iniziale di una politica assolutistica illuminata anche in terra trentina.

61 In modo particolare la riforma della censura voluta da Maria Teresa su consiglio di Gerhard van Swieten, suo medico e consigliere, aveva colpito i gesuiti in una delle attività cruciali per il controllo della vita culturale austriaca: la Commissione libraria istituita ancora nel 1620 affidava ai gesuiti la censura per l’ordinario. (J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., pp. 106-108). Sul tema della censura al tempo di Maria Teresa si veda, S. LUZZI, Il processo a Carlo Antonio Pilati (1768-1769) ovvero della censura di stato nell’Austria di Maria Teresa, in “Rivista storica italiana”, anno CXVII, fasc. III, 2005, pp. 687-740; G. KLINGENSTEIN, Staatswerdung und kirchliche Autorität im 18. Jahrundert. Das problem der Zensur in der theresianichen Reform, Wien, 1970. 62 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit. p. 529. 63 Ivi, p. 526.

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Sizzo64 tentò di opporsi al gioseffinismo che già negli anni Sessanta assumeva i

tratti caratteristici della politica religiosa di Giuseppe II del 1780-90 con la richiesta di

una riduzione del numero delle feste e di una semplificazione delle pratiche liturgiche,

di una più accurata formazione del clero, sottolineando l’importanza della figura del

parroco a fronte dei luoghi di pietà privati o periferici che impedivano un controllo

dottrinale oltre che disciplinare. In particolare il vescovo Sizzo, contrario

all’insediamento dei Seminari generali voluti da Giuseppe II, provvide a gestire

autonomamente il Seminario di Trento, sottraendone la direzione ai Somaschi nel 1771.

Di lì a qualche anno, la soppressione della Compagnia di Gesù portò ad un vero

rinnovamento degli studi teologici: con l’incameramento dei beni dell’ordine (la casa ad

uso collegio e l’annessa chiesa di San Francesco) fu fondato un seminario in cui la

formazione del clero veniva direttamente controllata dall’ordinario diocesano65.

Il tormentato governo dell’ultimo Principe Vescovo di Trento, Pietro Vigilio Thun

si aprì con le compattate del 1777, che davano inizio ad un nuovo capitolo nella storia

delle relazioni fra Principato e Land tirolese66, segnando “il punto di arrivo di tutte le

trattative precedenti, cominciate ancora al tempo del Firmian e inutilmente ridiscusse

dal Sizzo”67. Così, la politica del Thun fu la prosecuzione di quella dei suoi

predecessori, che a partire dal Firmian, cercarono di conciliare le varie esigenze di

accentramento, autonomia e ammodernamento nella speranza di soddisfarle tutte. Il

governo Thun rappresentò il momento di rottura a causa dell’incalzare degli

avvenimenti e dell’acuirsi dei problemi fra il Principe Vescovo, gli Asburgo e i corpi

intermedi locali. L’arrivo delle truppe napoleoniche segnò poi il momento di non

ritorno.

64 Sulla politica di Cristoforo Sizzo si veda C. DONATI, Ai confini d’Italia. Saggi di storia trentina in età moderna, cit., pp. 175-185. 65 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., pp. 539-540. 66 Poiché i titoli di conte del Tirolo e di sovrano d’Austria, dal 1665, erano avocate alla stessa persona, Maria Teresa, quando mosse i primi passi verso la creazione della Grossmacht austriaca, ambiva ad estendere il suo raggio d’azione anche sul Principato. In questo contesto le compattate del 1777 erano il primo serio tentativo di uniformazione territoriale e amministrativa nel Principato poiché disciplinavano su basi nuove i rapporti fra le due entità, a partire dall’ambito fiscale (C. DONATI, Ai confini d’Italia. Saggi di storia trentina in età moderna, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 43-66; M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, Trento, Società di studi trentini di scienze storiche, 1996, pp. 54 ss.). 67 Ivi, p. 541.

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Gli anni del Thun coincisero con l’ascesa al trono d’Austria di Giuseppe II, i cui

effetti interessarono anche il Principato68. Contrariamente all’interpretazione di storici

locali otto-novecenteschi, che considerarono il Thun IL responsabile della

secolarizzazione del principato, la storiografia più recente, svincolata da sentimenti

autonomistici trentini, ha riconosciuto al vescovo la capacità, seppur fra tante insidie, di

perseguire una politica autonoma, mirante al rafforzamento dell’autorità vescovile69: ne

era espressione, innanzitutto, la sottoscrizione delle compattate del 177770. Infatti, il

provvedimento, che come sopra accennato, mirava a uniformare il Principato, in materia

daziaria, fiscale etc, alla provincia del Tirolo, prevedeva l’avocazione alla burocrazia

principesca di tutte quelle attività preliminari alla riscossione delle tasse che fino ad

allora erano di competenza dei corpi territoriali. Di qui, dunque, una più feroce ripresa

delle ostilità fra quello che Meriggi definisce il polo monocratico, fautore di una politica

di livellamento, e il polo partecipativo, arroccato in difesa dell’assetto istituzionale

vigente71. La contrapposizione assunse il volto del canonico Gian Benedetto Gentilotti,

prima, e Carlo Antonio Pilati poi, che si levarono in difesa del potere consolare e

capitolare, e di Francesco Vigilio Barbacovi, in difesa dell’autorità vescovile72.

All’instabilità socio-politica degli anni Settanta faceva riscontro un clima culturale in

fermento, in cui le istanze del pensiero moderno venivano percepite dalle varie parti in

causa, per legittimare ora una ora l’altra posizione. Nella controversia politico-

ideologica, le ragioni del Principe vescovo erano difese da Francesco Vigilio

Barbacovi73, che si rifaceva alla lezione di Joseph von Sonnenfels, uno dei più dotati

allievi di Carlo Antonio Martini74 e teorizzatore dell’Illuminismo asburgico. La difesa

delle prerogative dei corpi locali fu, invece, impugnata da Carlo Antonio Pilati la cui

riflessione prendeva spunto dalla teoria della sovranità popolare di Jean-Jacques

Rousseau, esposta nel Contrat social (1762) e dalla dottrina della separazione dei poteri 68 M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 50-51. 69 Ivi, p. 56. 70 Altri provvedimenti palesarono l’autonomia del Principe Vescovo dal Magistrato e dal Capitolo, per i quali rimando a M. MERIGGI, Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il Principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione , cit., pp. 134-135. 71 M. MERIGGI, Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il Principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione , cit., pp. 127-156. 72 M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 60 e ss. 73 M. R. DI SIMONE, La cultura giuridica nel Trentino tra Settecento e Ottocento: Francesco Vigilio Barbacovi, cit., pp. 31-45. 74 S. LUZZI, “L’assedio di Troia” di un giurista illuminato: Carlo Antonio Martini (1726-1800), in M. NEQUIRITO (a cura di), Trentini nell’Europa dei lumi: Firmian, Martini, Pilati, Barbacovi. Quadri e riquadri, cit., pp. 27-43.

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di Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, illustrata nel De l’esprit des lois

(1748)75.

Francesco Tecini, dunque, ricevette la sua formazione all’interno di una società in

fermento dal punto di vista sociale, politico, culturale, tesa, da una parte, verso la

modernità ma, dall’altra, ancora invischiata nella tradizione. Al di là delle vicende

politiche-istituzionali, gli anni Ottanta interessano per la portata delle riforme di

Giuseppe II, soprattutto in ambito ecclesiastico, che, come anticipato condizionarono la

politica vescovile trentina e di conseguenza la formazione di don Francesco Tecini,

quando nel 1777 giunse a Trento come studente presso il Seminario.

3.2. Rovereto e gli Agiati

Se il riformismo asburgico penetrò nel Principato attraverso la mediazione del

Principe vescovo e del suo entourage e la resistenza ad esso opposta dal magistrato

consolare, capitolo della cattedrale, comunità locali e nobili infeudati, diversa fu

l’attuazione che ebbe nel Circolo ai confini dell’Italia e, in particolare, a Rovereto. La

città, infatti, per la posizione istituzionale all’interno della compagine asburgica ebbe

un’evoluzione interna profondamente diversa dalla storia di Trento: giurisdizione

tirolese dall’inizio del XVI secolo, essa si legò indissolubilmente alla politica imperiale

da quando nel 1665, con l’estinzione della dinastia dei conti tirolesi, l’imperatore avocò

a sé il titolo di conte del Tirolo. In virtù della sua diretta dipendenza dagli Asburgo,

Rovereto si aprì precocemente, rispetto a Trento, alle suggestioni del pensiero moderno:

a inizio Settecento la città viveva un’intensa stagione culturale, grazie anche ad una

favorevole congiuntura economica, che ruotò attorno allo sviluppo della seteria. I

promotori della crescita culturale della città furono, prima, Girolamo e Jacopo

Tartarotti76 e poi alcuni intellettuali che diedero vita dell’Accademia Roveretana degli

Agiati77, di cui lo stesso Tecini divenne socio corrispondente nel 1845.

75 S. B. GALLI, Carlo Antonio Pilati: l’illuminista “empio” e “sovversivo”, cit., pp. 45-63. 76 I fratelli Tartarotti fondarono l’Accademia dei Dodonei. Sebbene non avesse avuto un futuro brillante, essa rappresentò il primo tentativo di creare una Società letteraria svincolata dal monopolio religioso, che ancora a inizio Settecento era radicato ovunque. (S. FERRARI, Un ceto intellettuale ai Confini d’Italia. L’Accademia Roveretana degli Agiati dal 1750 al 1795, cit., p. 653). 77 L’Accademia Roveretana degli Agiati fu fondata il 27 dicembre 1750 da Giuseppe Valeriano Vannetti, Gottardo Antonio Festi, Bianca Laura Saibante, Francesco Saibante e Giuseppe Felice Giovanni, alcuni dei quali ex-dodonei. Con diploma imperiale datato 23 dicembre 1753, l’Accademia ottenne il riconoscimento e la protezione sovrana, ma fu anche soggetta a un più rigido controllo della sua attività culturale. (Ivi, pp. 655-661).

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La vivacità culturale roveretana era ben impersonata dalla fervida attività della

neonata società letteraria e dalla levatura di alcuni personaggi, fra cui Giuseppe

Valeriano Vannetti, Gottardo Antonio Festi, Bianca Laura Saibante, Francesco

Saibante, Giuseppe Felice Givanni, che costituirono il nucleo originario dell’Accademia

stessa. Da consesso privato, l’istituzione roveretana si trasformò in Accademia pubblica

con il riconoscimento e il sostegno del governo austriaco: ciò determinò non solamente

un aumento di prestigio, ma anche un costante controllo della loro attività culturale da

parte della sovrana. L’enciclopedismo e gli stretti contatti con il mondo tedesco, da cui

mutuarono il concetto di “pubblica felicità” e l’idea di una conoscenza utile, finalizzata

al miglioramento delle condizioni di vita78, caratterizzarono la prima fase della sua

storia, che si interruppe con la morte di Giuseppe Valeriano Vannetti.

Fondamentale fu anche l’influsso di Tartarotti, pur non avendo costui mai fatto

parte dell’Accademia, dal quale mutuarono il metodo erudito maurino-muratoriano79 per

intraprendere la loro battaglia contro la superstizione e l’ignoranza.

Dopo questa prima fase, la successiva si caratterizzò per l’egemonia nella società

di Clementino Vannetti, un personaggio proiettato verso la penisola, non molto legato

agli ambienti asburgici, come testimoniano i suoi contatti. La vicenda biografica di

Clementino si inserì in una fase importante per la storia roveretana, che dal novembre

del 175480 si trovò più direttamente dipendente all’Austria. Al di là delle conseguenze

sul piano amministrativo, l’introduzione del Capitanato di Circolo, significò per la città

della Quercia assurgere a centro culturale del Tirolo austriaco di lingua italiana.

Il rafforzamento dell’autorità austriaca con Maria Teresa prima e Giuseppe II poi,

portò ad un cambiamento nei rapporti fra questi e l’Accademia81, perché la sua attività

fu maggiormente controllata dall’alto.

Negli anni Settanta, dopo un decennio di relativa autonomia, l’intero Tirolo, e così

Rovereto, furono completamente equiparati sul piano amministrativo alle altre province

della monarchia. La politica asburgica trovò l’opposizione dei personaggi roveretani di

78Ne derivò l’interesse per l’agricoltura e il commercio, temi particolarmente cari ai cameralisti, presenti anche fra i soci, in un periodo in cui l’Europa fu flagellata dalla crisi del 1763-1767. 79 D. QUAGLIONI, L’eredità del pensiero tartarottiano, in M. ALLEGRI (a cura di), Rovereto, il Tirolo, l’Italia: dall’invasione napoleonica alla Belle Èpoque, cit., pp. 9-19. 80 C. DONATI, Rovereto, il Trentino e la monarchia austriaca all’epoca di Clementino Vannetti, in Convengo Clementino Vannetti (1754-1795). La cultura roveretana verso le “patrie lettere”. Rovereto, 23-24-25 ottobre 1996, Rovereto, Accademia roveretana degli Agiati, 1998, pp. 1-38. 81 S. FERRARI, Un ceto intellettuale ai Confini d’Italia. L’Accademia Roveretana degli Agiati dal 1750 al 1795, cit., p. 666.

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primo piano, quali il barone Todeschi82 e lo stesso Clementino Vannetti; in modo

particolare quest’ultimo si scagliò contro la politica linguistica giuseppina, in difesa

dell’italianità di Rovereto.

Gli anni Settanta, se da una parte coincisero con un cambiamento di rapporto fra

l’Accademia e l’Austria, dall’altra diedero inizio ad una nuova storia interna

all’Accademia stessa, in virtù della nomina a segretario perpetuo di Clementino

Vannetti. Il ventennio che andava dal 1776 al 1795, anno della sua morte, fu

contrassegnato da un’intensa stagione culturale ma pure da un deciso isolamento

istituzionale e da un netto ridimensionamento dell’impegno enciclopedico83. Pur nel

tentativo di mantenere i contatti con il mondo intellettuale tedesco, l’Accademia si

allontanò da esso per legarsi più solidamente alle esperienze culturali italiane: questo

nuovo orientamento fu determinato, da una parte, dall’affermazione del ruolo

egemonico del segretario che con la sua forte personalità monopolizzò l’attività

culturale accademica relegando in secondo piano gli altri soci, dall’altra dall’aperta

ostilità del Vannetti nei confronti della politica austriaca, soprattutto in campo

linguistico84. Ciò nonostante gli anni Settanta e Ottanta si caratterizzarono per un

dinamismo culturale che si rifletteva anche nell’attività intellettuale dei massoni che,

attraverso le logge, promuovevano clandestinamente la diffusione delle idee

illuministiche provenenti dalla Francia, che allo scoppio della rivoluzione francese

assunsero una connotazione squisitamente giacobina, oggetto di animoso dibattito fra

Clementino, difensore del “connubio tra buona filosofia e religione cristiana” e il suo

maestro Clemente Baroni Cavalcabò, convinto assertore una netta separazione fra

filosofia e religione: all’aumento delle arti e delle scienze corrispose, secondo lui, un

rafforzamento dell’irreligione e la diffusione di comportamenti poco consoni all’etica

cristiana85.

Nella Rovereto degli anni Ottanta, a conferma dell’attivismo artistico degli

esponenti delle famiglie più in vista si registrò anche un’intensa attività di

urbanizzazione che si concretizzò nella creazione di alcune opere architettoniche quali,

ad esempio, il teatro, palazzo Alberti entrambi commissionati da Francesco Alberti 82 C. ZENDRI, Un giurista e il tramonto dell’antico regime: Giovanni Battista Todeschi (1730-1799), in M. BONAZZA (a cura di), I “buoni ingegni della patria”. L’Accademia, la cultura e la città nelle biografie di alcuni Agiati tra Settecento e Novecento, Rovereto, 2002, pp. 86-109. 83 S. FERRARI, Un ceto intellettuale ai Confini d’Italia. L’Accademia Roveretana degli Agiati dal 1750 al 1795, cit., p. 675. 84 Ivi, p. 677. 85 C. DONATI, Rovereto, il Trentino e la monarchia austriaca all’epoca di Clementino Vannetti, cit., p. 30.

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Poja, quello che Tecini stesso definisce il suo mecenate86. Quest’ultimo, il conte Carlo

Martini di Calliano e Clementino Vannetti, personaggi di spicco nella Rovereto del

tardo Settecento, come vedremo, determinarono il suo percorso formativo, favorendone

il soggiorno a Salisburgo e a Firenze.

4. Le suggestioni culturali nel Granducato di Toscana

Come già accennato, il percorso biografico e formativo di Tecini passò anche

per la Toscana dei Lorena, che, dopo una fervida stagione giurisdizionalista,

episcopalista-febroniana e giansenista, viveva negli anni Novanta, un momento di

ritorno su posizioni conservatrici: nel Granducato toscano, così come nelle altre realtà

europee, asburgiche e non, lo scoppio della Rivoluzione francese, determinò una netta

battuta d’arresto dei tentativi di modernizzazione e di disciplinamento su nuove basi del

rapporto fra Stato e Chiesa, che negli anni Sessanta-Ottanta del Settecento si identificò,

per quanto riguarda i domini asburgici, nel giuseppinismo e nel leopoldismo: in

Toscana, la politica giurisdizionalista promossa da Leopoldo I, in sintonia con quella

del fratello Giuseppe II, trovò il sostegno dei programmi giansenisti del vescovo di

Prato e Pistoia, Scipione de Ricci, dando vita ad un’originale sintesi fra tendenze

giurisdizionaliste e gallicane, in uno sfondo comune permeato di giansenismo, nella sua

formulazione più tarda87.

4.1. Pietro Leopoldo e Scipione de’ Ricci: un’azione congiunta per la riforma della

Chiesa toscana

Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana dal 1765 al 1790, si

fece promotore di un’importante opera di riforme politico-ecclesiastiche. Dopo una fase

86 F. BORTOLOTTI, “La pace ha voltate le spale…” Il tramonto di un’epoca attraverso le lettere di Gaspare Crivelli, (Dott. G. Chironi), Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2007-2008, p. 100. 87 Accogliendo la proposta di alcuni storici (Jemolo, Préclin e Fantappié), si deve considerare il giansenismo nella sua evoluzione, avvenuta nel corso del secolo, da movimento teologico in lotta idelogico-sociale. (A. CONT, Riforme politico ecclesiastiche nella Toscana di Pietro Leopoldo. Cinquant’anni di dibattito storiografico, (prof. G. CIAPPELLI), Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2003-2004, p. 51). Il giansenismo italiano, infatti, aveva una sua particolare coloritura. A differenza di quello francese, impegnato soprattutto sui problemi teologici della Grazia e della predestinazione, esso perseguiva interessi più pratici: la riforma del costume e della disciplina ecclesiastica e una lotta a oltranza contro l'assolutismo e il centralismo di Roma.

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moderata88, a partire dagli anni Settanta intraprese una strategia più corrosiva nei

confronti della Chiesa locale, nel tentativo di troncare i legami con la Santa Sede, nella

direzione di un rafforzamento dell’episcopato toscano. Le sollecitazioni culturali che

influenzarono la formazione del granduca, afferivano alla tradizione di Aufklärung

centro-europea, nella quale esercitarono un ruolo importante le suggestioni gianseniste:

non a caso il complesso prodotto della pedagogia giansenista, l’Institution d’un prince

del Duguet89 fu il livre de chevet di Pietro Leopoldo. Ma anche altri testi giansenisti

erano di casa negli ambienti di vertice degli Asburgo, quali ad esempio il catechismo di

Montpellier, gli scritti di Nicole (De l’education d’un Prince, 1670) e di Le Tourneux90.

Il modello di sovrano tracciato dalla penna del Duguet rispecchiava un principe

sensibile alle esigenze della collettività, tutto dedito al servizio dello Stato, capo di un

governo austero in cui le spese superflue dovevano essere bandite. Grande importanza

veniva riconosciuta alla sua formazione religiosa: in polemica con le tendenze libertine

di fine Seicento - inizio Settecento, il principe doveva essere cristiano, dotato di una

fede ragionevole, in grado di dare credibilità razionale alla religione, ma al contempo

profondamente convertito ad essa. Alla figura ideale del principe, Duguet, affiancava

quella del vescovo, nell’elaborazione di una proposta di riforma della Chiesa che si

inseriva nell’alveo dell’episcopalismo giansenista francese. Egli ambiva ad una Chiesa

semplice e povera, sostenuta dalle offerte dei fedeli, secondo il modello della Chiesa

primitiva. Negando l’autorità della Curia Romana, attribuiva al principe la facoltà della

nomina dei vescovi, dotati di grande responsabilità in quanto amministratori e

dispensatori dei beni della Chiesa.

88 La stessa Maria Teresa, in occasione della partenza del figlio Pietro Leopoldo per la Toscana raccomandava: “Dimostrati figlio buono, sottomesso al Santo Padre in tutte le materie di religione e di dogma; ma sii sovrano [soyez soverain] e non soffrire che la Corte di Roma si ingerisca minimamente negli affari di governo”. (E. GARM-CORNIDES, Roma e Vienna nell’età delle riforme, in F. CITTERIO, L. VACCARO (a cura di), Storia religiosa dell’Austria, cit., p. 325). 89 Il giansenismo fu molto importante perché elaborò una nuova idea di potere politico, a metà strada fra giusnaturalismo e cattolicesimo: a partire da una concezione negativa della natura umana, da cui derivava l’iniziale pessimismo e rigorismo giansenista, il movimento riconosceva la necessità di un potere politico centrale, di carattere sacrale, in grado di garantire una pacifica convivenza civile, altrimenti resa impossibile dalle ambizioni dell’individuo. L’obiettivo che doveva perseguire era la costituzione di un ordine civile fondato sull’amore, a cui tutti i sudditi dovevano collaborare: ciò legittimava i suoi interventi legislativi nell’ordinamento dello Stato. Il monarca doveva però agire nel rispetto di valori oggetti, come la giustizia, ovvero delle leggi fondamentali dell’uomo e nella garanzia della tutela delle prerogative e dei privilegi delle singole province. In caso contrario la resistenza al potere monarchico era lecita. Questo fu il motivo della repressione che Luigi XIV scatenò contro i giansenisti, molti dei quali emigrarono in Toscana, e in Austria. 90 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 75-76.

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Pietro Leopoldo, facendo propri gli insegnamenti del “suo ideale direttore

spirituale giansenista”, impersonò, con i dovuti adattamenti in ossequio al cambiamento

dei tempi, il modello di sovrano auspicato dal Duguet: dal sovrano “éclairé”, rischiarato

dalla fede e illuminato dalla parola di Dio, esemplato in Salomone, si passò con Pietro

Leopoldo ad un’altra immagine di sovrano “éclairé”, conoscitore di situazioni concrete

e di uomini, interprete del benessere collettivo e della tutela dei diritti soggettivi. Pietro

Leopoldo ricevette, infatti, una formazione illuminista, in virtù della quale “fece della

Toscana un paese modello, vero laboratorio della filosofia dei lumi”91; In quanto

sovrano illuminato si sarebbe fatto promotore anche di una futura, ma non lontana

riforma della Chiesa. Infatti, in riferimento all’azione di riforma leopoldina si è parlato

di “un passaggio da un’impostazione che potremmo assai facilmente definire

giurisdizionalista, per molti versi tradizionale e comune a molti altri stati europei del

Settecento, ad una volontà di riforma della disciplina ecclesiastica”92, al fine di fare

della Chiesa un’organizzazione utile allo Stato. “Ne conseguì una riconsiderazione

dell’opera di ridimensionamento quantitativo e di promozione qualitativa del clero che

gli ordinari avevano promosso, ancora entro i confini delle antiche strutture, dagli anni

centrali del secolo”93.

Nei suoi progetti di riforma della Chiesa il granduca trovò l’appoggio

dell’ordinario di Pistoia e Prato, Scipione de Ricci94. Costui era espressione di una delle

correnti tardosettecentesche che miravano al disciplinamento del clero, a partire dalla

figura del vescovo95. Scipione de’ Ricci era il primo portavoce della “pietà illuminata”:

a suo giudizio, essa si concretizzava in una nuova azione pastorale incentrata

sull’istruzione illuminata dei fedeli che non si doveva tradurre nel controllo delle

91 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., p. 170. 92 M. VERGA, Per “uno stato terzo delle dame”. Alcune considerazioni sul dibattito politico e culturale e le riforme ecclesiastiche nella Toscana del Settecento, in F. CITTERIO, L. VACCARO (a cura di), Storia religiosa dell’Austria, cit., p. 255. 93 A. CONT, Riforme politico ecclesiastiche nella Toscana di Pietro Leopoldo. Cinquant’anni di dibattito storiografico, cit., p. 7. 94 Scipione de Ricci, formatosi a Roma, presso il Collegio dei gesuiti, dove già negli anni giovanili venne a contatto con le idee gianseniste, fu, fino alla fine degli anni Settanta un collaboratore discreto a fianco dell’arcivescovo di Firenze Incontri e il referente ufficiale dell’amministrazione diocesana fiorentina presso il governo granducale, animato da sentimenti anticurialisti. A Firenze instaurò un contatto epistolare con l’abate Dupac de Bellegarde, della chiesa giansenista olandese di Utrecht. La sua nomina a vescovo delle diocesi di Prato e Pistoia rientrava nel progetto granducale di assicurare il coinvolgimento dell’episcopato nel piano di riforma della Chiesa toscana. (P. STELLA, Il giansenismo in Italia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006, vol. II, p. 325). 95 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 212.

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coscienze da parte dei predicatori e degli uomini di Chiesa in generale, ma si affinava

con i metodi della persuasione e dell’oratoria. Il riformismo ricciano, infatti si

alimentava dell’insegnamento muratoriano, delle sollecitazioni gianseniste e

illuministiche. La riforma della spiritualità doveva passare attraverso l’eliminazione di

ogni orpello della pietas barocca, in nome di una religiosità utile, ragionevole, semplice

ma al contempo più consapevole: concretamente significava la sostituzione del volgare

al latino nella liturgia, l’eliminazione di immagini e ornamenti che potessero distrarre il

fedele, la preoccupazione di un’adeguata preparazione del clero, all’altezza del suo

ruolo di pastore d’anime da cui derivava la decisiva valorizzazione della figura del

parroco. Il riformismo ricciano si caratterizzò, infatti, per una maggiore adesione al

parrochismo giansenista che all’episcopalismo96 e a partire dal 1781 si concretizzò nella

diocesi di Pistoia e Prato attraverso alcuni provvedimenti, quali la pastorale contro la

Devozione al Sacro Cuore di Gesù, la riforma nel modo di studiare la religione, nella

devozione alla Via Crucis, l’istituzione del Patrimonio ecclesiastico, la lettera pastorale

Sui doveri dei sudditi verso il sovrano, le riforme degli Officia propria della diocesi, del

breviario, la stampa e la diffusione dei nuovi catechismi per adulti e ragazzi,

l’introduzione del volgare nella liturgia97. L’importanza attribuita al parroco si

manifestò in occasione del sinodo di Pistoia, che fra le altre cose, puntava l’attenzione

sui doveri del sacerdote e sulla sua funzione omiletica, sottolineando lo zelo pastorale

che ne doveva contraddistinguere l’azione. La Bibbia e i testi dei Padri della Chiesa,

vennero letti alla luce del metodo razionale - erudito, permettendo la diffusione di un

pietà liturgica intelligibile a livello popolare. La valorizzazione della funzione sociale e

religiosa del parroco avvenne contestualmente all’aspra critica mossa contro l’attività

missionaria gesuitica, considerata la responsabile della diffusione, soprattutto a livello

popolare, del “farisaismo”, ovvero di una “fede scandalosa e convenzionale nella scarsa

o nulla intelligenza dei misteri cristiani e nella superficiale pratica religiosa”98. Ne

derivò la concezione dell’ “oscuramento” delle verità cristiane: la pietà illuminata

divenne lo strumento principale per dissipare la caligine che ricopriva tale verità.

In questo stesso torno di tempo, Scipione de Ricci era rafforzato nella sua

attività pastorale dall’esempio di Hieronymus Colloredo, al quale ispirò alcune riforme,

96 Ivi, p. 174. 97 C. FANTAPPIÈ, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 165-260. 98 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., p. 255.

40

dietro suggerimento dello stesso granduca99. L’arcivescovo salisburghese però partiva

più da visioni ottimistiche e pratiche ascrivibili all’Aufklärung cattolica e al riformismo

asburgico che al giansenismo, sostenendo che la vera devozione era il fondamento del

miglior vivere sociale100.

La riforma del vescovo pistoiese coinvolgeva anche l’istituzione Chiesa nel suo

sistema gerarchico e beneficiale: infatti il programma ricciano si rifaceva ai principi del

giansenismo italiano, che assunse una connotazione precisa a fine secolo: esso infatti

mirava sempre di più a trasformarsi in una “teologia politica, legata ai presupposti

dell’agostinismo politico e direttamente impegnata nella riforma della Chiesa”101: in

questa prospettiva il giansenismo ricciano trovava un alleato straordinario nel granduca

Leopoldo il quale, a differenza del fratello, agì in maniera più moderata nei confronti

delle tendenze gianseniste, coinvolgendo lo stesso Scipione de Ricci nei programmi di

riforma. In Toscana, dunque, riforma dello Stato e riforma della Chiesa conversero, tra

il 1784 e il 1786, “nel grande progetto richerista” di convocazione di sinodi diocesani,

culminante nel Sinodo di Pistoia, che ispirandosi al modello utrechtino, puntava ad

un’organizzazione orizzontale della Chiesa, in aperto conflitto con la struttura

verticistica dominante e con la Santa Sede. Leopoldo e Scipione de’ Ricci erano

accomunati dal desiderio di riformare il clero, per dotarlo di maggiore cultura,

preparazione e rigore morale e per renderlo utile allo Stato, libero dall’influenza della

Santa Sede.

Nel riformismo ecclesiastico leopoldino non erano assenti istanze religiose: lo

stesso granduca era convinto che gli effetti delle sue riforme non si dispiegassero solo in

ambito politico ma promuovessero anche una “religiosità più pura, più rispondente alla

sensibilità acquisita con il progresso dei lumi, meno appesantita e meno sbilanciata da

comportamenti, abitudini e credenze non rispondenti né alla ragione umana né allo

spirito originario del Cristianesimo”102. Nonostante la collaborazione fra il vescovo e il

granduca, le rispettive posizioni divergevano in relazione alla natura stessa del potere

statale, di derivazione divina per il giansenisti, volontaristica-contrattualistica per il

granduca. Inoltre, il suo senso pratico contrastava con la visione utopistica e spesso

radicale del vescovo103.

99 Ivi, p. 229. 100 Ivi, p. 256. 101 Ivi, p. 176. 102 P. STELLA, Il giansenismo in Italia, cit., p. 340. 103 Ivi, p. 350.

41

Leopoldo sviluppava una concezione sempre più laica dello Stato, mosso in

questo dal forte interesse per i progressi delle scienze che, negli anni del suo governo

fecero grandi passi in avanti. Basti qui ricordare, ai fini del mio lavoro, la volontà

granducale di dotare la Toscana di un Museo di Fisica e Storia naturale, alla cui

fondazione collaborò Felice Fontana, già fisico di corte dal 1766. Attorno allo sviluppo

culturale della Toscana della seconda metà del XVIII sec. ruotarono alcune importanti

personalità, quali Felice Fontana, Giovanni Fabbroni, Marco Lastri, che, come vedremo,

vennero a diretto contatto con Francesco Tecini, conquistandolo ad una visione moderna

e progressista del sapere.

Queste grandi personalità dello sviluppo culturale della Toscana tardo

settecentesca intrattenevano contatti epistolari e personali, con i letterati e scienziati

della penisola: Clementino Vannetti era uno di questi. Quando Tecini giunse a Firenze

entrò nel vivo di questa atmosfera di rinnovamento culturale in cui fioriva soprattutto

l’interesse per le scienze naturali. Il giansenismo, invece, stava andando incontro alla

sua condanna, lasciando tuttavia un’eredità significativa, soprattutto in relazione alla

questione del disciplinamento del clero, che doveva essere formato alla luce di una pietà

illuminata.

4.2. All’indomani del fallimento del Sinodo di Pistoia: il tramonto del giansenismo

italiano

Il tramonto del giansenismo italiano fu determinato dall’incompatibilità che

emerse fra il Ricci e il granduca, dalle resistenze opposte al riformismo leopoldino da

alcuni vescovi e arcivescovi toscani, dal conservatorismo di Roma e

dall’allontanamento di Pietro Leopoldo dalla Toscana, che significò privare il

movimento della protezione politica. Lo stesso Scipione de Ricci fu allontanato e

costretto a vivere da privato cittadino.

Inoltre, le rivolte in Brabante e lo scoppio della rivoluzione francese nella

delicata fase di passaggio dei poteri da Pietro Leopoldo a Ferdinando III persuasero la

nuova classe dirigente toscana a tornare su posizioni più conservatrici. “Liquidare

quanto aveva il marchio ricciano significava per loro togliere esca tempestivamente a

eventuali fiammate di rivolta popolari”104. Dal canto suo anche Leopoldo II in Austria

abrogò i decreti giuseppini che, in materia di religiosità popolare, più avevano scatenato

104 Ivi, p. 374.

42

il malcontento delle masse: tuttavia, almeno, inizialmente la rivoluzione francese a

Vienna non ebbe una cattiva accoglienza soprattutto da parte dello stesso Leopoldo che

vedeva nella Francia un modello a cui tutti i sovrani avrebbero guardato per una

rigenerazione dei propri paesi105.

In Francia, la costituzione civile del clero, la scissione dello stesso fra preti

refrattari e costituzionali, la divisione, all’interno del movimento giansenista francese,

fra i sostenitori della costituzione civile del clero e i detrattori, furono le cause del

declino del giansenismo francese106. In Italia il termine giansenista fu adoperato, per

ragioni strumentali, non più per indicare i sostenitori dell’agostinismo teologico e i

critici dell’ultramontanismo ecclesiologico, ma per designare e denunziare i teologi

agostiniani filopistoiesi e filopavesi che si dichiaravano favorevoli alla rivoluzione in

corso nella Francia”107. Lo stesso Ricci era favorevole alla nazionalizzazione dei beni

ecclesiastici e alla soppressione degli ordini religiosi, perché auspicati dal riformismo

leopoldino che ormai in Toscana era votato al fallimento108.

Lo scoppio della rivoluzione palesò anche la distanza fra il giansenismo

francese, filorepubblicano e italiano, filoassolutista, contribuendo al declino definitivo.

I sostenitori del movimento, tanto in Italia quanto in Francia, vennero poi

assimilati ai philosophes deisti e materialisti, ai massoni e ai giacobini e accusati di

essere i responsabili degli avvenimenti cotanto fatali alla religione in Francia109. Lo

stesso Ricci fu dipinto dalla propaganda a lui avversa come un personaggio subdolo e

ambiguo, giacobino e amico dei francesi, ostile a collaborare con la Curia romana

durante la disamina del sinodo: infatti la Santa Sede, consapevole delle simpatie in

Toscana per la Francia e turbata dallo spettro di rivolte preferì adottare una linea

morbida per sconfiggere il giansenismo, promuovendo un’intensa campagna di

ritrattazione degli errori, da ottenere dal Ricci e dai suoi sostenitori più in vista. Così a

Roma fu nominata la Congregazione per la disamina degli Atti e decreti pistoiesi.

Pressato da tentativi di patteggiamenti e di ritrattazioni sui temi del sinodo, Ricci preferì

chiudersi nel silenzio anziché reagire pubblicamente. Nel 1794 arrivò il decreto

condannatorio noto con il nome di bolla Auctorem fidei110.

105 J. BÉRENGER, Storia dell’Impero asburgico. 1700-1918, cit., p. 191. 106 D. MENOZZI, Cristianesimo e rivoluzione francese, Brescia, Queriniana, 1977, pp. 10-22. 107 P. STELLA, Il giansenismo in Italia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2006, vol. III, p. 2. 108 Ivi, pp.2-3. 109 Ivi, p. 17. 110 Ivi, pp. 83-105.

43

Tecini, arrivò a Firenze nell’agosto del 1791 quando già i contatti fra Scipione

de Ricci e Hieronimus Colloredo divenivano sempre meno frequenti. Ciò nonostante la

scelta del vescovo salisburghese di inviare il giovane sacerdote in Toscana era motivata,

con ogni probabilità, dalla consapevolezza che Firenze era, in quel periodo il centro

culturale più all’avanguardia dove Francesco avrebbe potuto assorbire, da una parte, gli

stimoli derivanti dall’illuminismo che puntavano sulla funzione pratica delle scienze in

nome di un miglioramento delle condizioni di vita della società, dall’altra l’ideale di

parroco così ben elaborato dal giansenismo ricciano e condiviso dai suoi sostenitori: un

parroco illuminato, dotato di cultura enciclopedica, intenditore di medicina, agricoltura,

fisica, giurisprudenza, ma al contempo vera guida spirituale del suo gregge, attento al

benessere materiale e spirituale dei suoi fedeli.

5. Il principato arcivescovile di Salisburgo dalla seconda metà del Settecento agli

anni Novanta

Dopo aver toccato i centri culturali più dinamici della penisola appartenenti all’area

italiana dei domini asburgici, Tecini trascorse quasi sei anni al servizio del Principe

Vescovo di Salisburgo Hieronymus Colloredo (1772-1803). Il ruolo di guida svolto dal

prelato nei confronti delle chiese della parte meridionale dell’Impero, nella lotta contro

il papato, è ormai noto: tuttavia sarà necessario ritornarci per comprendere quali furono

le suggestioni della cultura del tempo e in che modo esse influenzarono il Tecini. Prima

di affrontare questo argomento, però, è necessario far luce sui rapporti esistenti fra il

principato di Salisburgo e quello di Trento, nel tentativo di comprendere per quali

motivi Tecini fu proposto proprio a Colloredo.

5.1. Salisburgo e il Trentino

I legami esistenti fra queste due realtà erano antichi e affondavano le radici

soprattutto nell’attività di Paride Lodron, arcivescovo di Salisburgo nella prima metà

del XVII sec. (1619-1653). In realtà, i contatti culturali fra Salisburgo e l’ Italia si

datarono ancora precedentemente, per la presenza a Salisburgo, come principi

arcivescovi, di Wolf Dietrich von Raitenau (1587-1612) e di Marco Sittico d’Altemps

(1612-1619). L’opera iniziata da questi due prelati, fu completata poi da Paride Lodron,

con il quale lo sviluppo della cultura italiana non solo raggiunse il suo apice, ma strinse

44

anche uno stretto legame con il Welschtirol, ovvero il Trentino111. A Paride Lodron

andò il merito di aver fondati tre delle più famose istituzioni pedagogiche di Salisburgo,

l’Università, il Collegio Mariano, e il Collegio Rupertino, facendo della città un

importante centro di studi, anche per i trentini112. La presenza abbastanza continuativa a

Salisburgo di prelati trentini rafforzò inevitabilmente i rapporti fra le due città,

soprattutto grazie ad un’accorta politica di cooptazione di parenti e compatrioti negli

organi di governo, temporale e spirituale adottata dai vescovi.

Se nel corso del Seicento i contatti fra Salisburgo e il Trentino furono sporadici,

durante il secolo successivo, grazie alla levatura di alcuni personaggi, che agirono in

ambito giurisdizionale113, i legami si rafforzarono sempre di più sviluppandosi in

ambito culturale114. La tradizione di mandare i giovani trentini, per lo più appartenenti a

famiglie nobili o comunque benestanti, a studiare a Salisburgo era ormai radicata e

volutamente mantenuta nella consapevolezza che una formazione ricevuta in una delle

città culturalmente più attive e fiorenti dell’Impero era una nota degna di merito per un

ragazzo. In questa usanza, come vedremo, rientravano a pieno titolo Francesco degli

Alberti Poja e Carlo Martini di Calliano, coloro i quali proposero a Colloredo don

Tecini come cappellano di corte e segretario per la corrispondenza italiana e latina. Pur

non essendo stato mandato a Salisburgo per studiare, anche il caso di Tecini manifesta

come i trentini costituissero una percentuale importante di presenze a Salisburgo,

contribuendo a mantenere vivi i contatti fra le due città che conobbero un allentamento

solamente con le campagne napoleoniche.

5.2. Salisburgo: da centro del riformismo muratoriano a simbolo dell’illuminismo

cattolico. L’opera del principe Vescovo Hieronymus Colloredo

A partire dal Settecento i legami fra Trento e Salisburgo furono per lo più di

natura culturale e ruotarono attorno alla figura e all’opera di Ludovico Antonio

Muratori. Il suo influsso nel salisburghese si dispiegò attraverso la figura di Gaspari, il

quale esercitò il ruolo di “Vermittler zwischen italienischer und österreichischer

111 G. STADLER, Salisburgo e il Trentino, Trento, 1994, pp. 39-45. 112 Ivi, p. 53. 113 Si fa riferimento alla controversia riguardante la dipendenza del Principato di Trento da Salisburgo auspicata dal vescovo salisburghese ma avversata dal capitolo e dal magistrato di Trento. A tal proposito si veda, G. STADLER, Salisburgo e il Trentino, cit., pp. 36-38; M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., p. 508 114 G. STADLER, Salisburgo e il Trentino, cit., pp. 92-127.

45

Aufklärung”115, mettendosi alla guida della neonata Societas Eruditorum. La fondazione

dell’accademia salisburghese risentì molto del modello, seppur ancora embrionale, di

società letteraria che si stava formando a Rovereto. Il circolo muratoriano di Salisburgo

riuscì poi a espandere il metodo critico anche ad Innsbruck, sede dell’Accademia

Taxiana, gettando le premesse ad un continuo infittirsi di scambi culturali fra

Salisburgo, Innsbruck e Rovereto116.

L’affermazione del pensiero muratoriano permise di superare il forte

conservatorismo117 che a inizio secolo caratterizzava la città, facendone poi il centro

principale dell’Aufklärung cattolica nel senso muratoriano: la vicenda del

Sycophantensreit, scoppiata nel 1740 e conclusasi l’anno successivo, testimoniò come

la riforma degli studi di stampo muratoriano, basata sul metodo critico, introdotta a

Salisburgo avesse determinasse l’inizio di un processo di rinnovamento dei programmi

d’istruzione destinato a coinvolgere gli altri settori della società118.

I membri più significativi dell’accademia salisburghese erano proprio uomini di

cultura, laici ed ecclesiastici, di origine trentina, a cui si affiancarono anche tedeschi:

costoro svolsero, chi in un senso chi nell’altro, una funzione di rilievo nella politica

riformatrice dei decenni seguenti. “Giuseppe Thun e Leopoldo Ernesto Firmian possono

essere considerati i prototipi del vescovo giuseppinista, soprattutto per l’opera svolta

come vescovi di Passavia”119. In modo particolare il Firmian si distinse per aver favorito

la pubblicazione dell’opera di Johannes Opstraet, del 1689, intitolata Pastor bonus: si

trattò di uno scritto molto importante perché fu alla base dell’ideale di buon parroco

elaborata da Giuseppe II e fatta propria anche da Leopoldo di Toscana. A questi si

affiancarono molti altri prelati propriamente riformatori nel terzo quarto del Settecento

come Trauston e Migazzi a Vienna, Giuseppe Filippo von Spaur a Bressanone,

Herberstein a Lubiana e Colloredo a Salisburgo. Essi si caratterizzarono per una

formazione teologica più approfondita in cui grande importanza ebbe l’influsso dei

riformatori ecclesiastici italiani120.

115 C. DONATI, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), cit., p. 34. 116 A. SPADA, Scambi culturali tra Italia e Austria a metà del ‘700. Le Accademie di Salisburgo, Innsbruck e Rovereto, in A. DESTRO, P. M. FILIPPI (a cura di), La cultura tedesca in Italia 1750-1850, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 191-216. 117 Si fa riferimento all’emanazione del Emigrationspatent del 1731 e al processo con condanna a morte per stregoneria della sedicenne Maria Pauerin (Ibid.). 118 Ibid. 119 Ivi, p. 42. 120 P. HERSCHE, Religiosità popolare e riforme giuseppine, cit., p. 213.

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Rispetto ai prelati che operarono verso la metà del XVIII sec., quelli più

prossimi all’Ottocento si caratterizzarono per un’adesione più matura ai principi

innovatori, attraverso la promozione di una serie di provvedimenti atti a garantire il

rinnovamento culturale, religioso, spirituale, sociale, economico e anche politico dei

propri domini: questi, infatti, erano gli obiettivi perseguiti dal principe vescovo

Colloredo in qualità di guida spirituale e temporale della sua diocesi. La riforma

dell’assetto vigente da lui auspicata si ispirava ai principi dell’assolutismo illuminato

che aveva fatto il suo ingresso a Salisburgo con l’arcivescovo Leopold Anton Firmian

(1727-1744). Dopo alcuni brevi vescovati che si susseguirono dal 1744 al 1772, “con

Colloredo l’età dell’assolutismo illuminato nel principato vescovile di Salisburgo

raggiunse il culmine e la fine”121. Le sollecitazione culturali e le esperienze politiche

che influenzarono Colloredo furono da una parte l’episcopalismo gallicano, il

febronianismo, il tardo giansenismo e il riformismo cattolico italiano di Muratori,

dall’altra l’affermazione del territorialismo bavarese e austriaco, da cui mutuò l’idea di

uno Stato centralizzato in cui il principe vescovo, posto all’apice della piramide, fosse il

primo servitore dello Stato.

Pur condividendo con i programmi giuseppini l’idea di un rafforzamento dello

Stato, il modello di governante che Colloredo voleva incarnare contrastava con i

progetti dell’imperatore; dal canto suo l’arcivescovo voleva trasporre nei propri domini

una politica assolutistica, di tipo illuminato, adattandola alle strutture tradizionali di un

principato ecclesiastico come lo era Salisburgo.

In area tedesca, i progetti del vescovo salisburghese non erano contrastati

solamente dagli Asburgo: il territorialismo bavarese di Carlo Teodoro (elettore dal 1777

al 1788), intrapreso dalla metà del Settecento, rappresentò un ostacolo altrettanto

ingombrante sulla strada delle riforme per Colloredo.

I progetti di Carlo Teodoro, che in accordo con Roma, mirava alla creazione di

una Chiesa di Stato, non si realizzarono ma negli anni Ottanta fu creata la nunziatura

apostolica a Monaco che scatenò immediatamente la reazione negativa di Salisburgo, in

quanto metropolita di alcuni vescovati che erano stati direttamente lesi dall’istituzione

della nunziatura. Nel conflitto per la nunziatura, il cosiddetto Nuntiaturstreit, Colloredo

coinvolgendo anche gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, senza ottenere però

l’appoggio di Roma, organizzò nel 1786 il Congresso di Ems, con chiaro programma

121 M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento. Vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 23-24.

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episcopalista e riformista, contro il centralismo di Roma, il territorialismo austriaco e

bavarese. Anche il vescovo di Trento, Pietro Vigilio Thun fu convocato al Congresso

ma, come abbiamo visto, pur avendo inclinazioni per le tesi febroniane, fu ben attento a

non assumere una posizione netta a favore dei vescovi tedeschi, evitando così di

compromettere i suoi rapporti con Roma e Vienna122. Sebbene il congresso di Ems fosse

stato convocato dopo quello di Pistoia, non esistevano rapporti diretti fra i due123:

ciononostante il principe vescovo Colloredo fu un importante corrispondente di Ricci,

per il quale, come abbiamo visto, fu un autorevole modello da seguire sulla via delle

riforme124. Ancora una volta lo scoppio della Rivoluzione determinò un allentamento

del riformismo in ambito politico. Ciò che maggiormente incise nella formazione e nella

pratica pastorale di don Tecini, giunto in città nel 1791, fu, infatti, il programma di

riforma spirituale perseguito da Colloredo.

122 Ivi, p. 74. 123 P. HERSCHE, L’eco del sinodo di Pistoia nel mondo germanico, in C. LAMIONI (a cura di), Il sinodo di Pistoia del 1786. Atti del convegno internazionale per il secondo centenario. Pistoia-Prato, 25-27 settembre 1986, Roma, Herder, 1992, pp. 393-396. 124 P. HERSCHE, Erzbischof Hieronymus Colloredo und der Jansenismus in Salzburg, in Mitteilungen der Gesellschaft für Salzburger Landeskunde, Salzburg, 1977, pp. 231-268.

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PARTE SECONDA

BIOGRAFIA DI DON FRANCESCO TECINI (1763-1853)

1. La data di nascita: una questione controversa

Sarnonico 19 dicembre 1763 - Pergine 11 dicembre 1853: sono questi gli estremi

cronologici e i limiti spaziali, passando anche per molte altre città dell’impero,

appartenenti all’area culturale italiana e tedesca, entro i quali si sviluppa la vicenda

biografica di don Francesco Tecini. Gli studi finora condotti concordano sull’anno di

nascita e di morte, attestati anzitutto nell’epigrafe scolpita sulla lapide eretta in suo

onore dagli abitanti di Pergine Valsugana all’interno della Chiesa parrocchiale di Santa

Maria. C’è convergenza di informazioni anche sul giorno e il mese della morte: è

indubbio che Francesco Tecini fosse deceduto il giorno 11 dicembre, alla veneranda età

di novant’anni. Più complesso e articolato è il ragionamento circa la data esatta della

sua nascita. Se c’è certezza sull’anno, altrettanto non si può dire sul giorno e sul mese.

La datazione prevalsa negli studi più recenti riporta il giorno 12 del mese di

dicembre125. Proseguendo a ritroso ci si trova davanti ad un ventaglio di informazioni

diverse che non possono che sconcertare lo studioso: 3 dicembre126, 19 febbraio127, 9

dicembre128. Don Francesco Tecini nacque, in realtà, il 19 dicembre, come annotato nel

registro dei nati e battezzati nell’anno 1763 dell’Archivio della Parrocchia di

Sarnonico129. A corroborare l’esattezza della data di nascita di Tecini soccorrono le

informazioni contenute nel Catalogus cleri saecularis et regularis diocesis

Tridentinae130, il lavoro di Remo Stenico131 e una biografia di Francesco Tecini,

conservata nel fondo archivistico appartenente alla famiglia Montel, da poco acquistato

dall’Archivio storico comunale di Pergine. La presenza di tale manoscritto nel fondo ha

un suo senso in ragione dei legami parentali esistenti fra la famiglia Montel e il

125 http://www.esterbib.it/autori 126 A. ZIEGER, Cenni biografici su: don Francesco Tecini parroco-decano di Pergine, cit., pp. 46-52. 127 Memorie dell’I. R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto pubblicate per commemorare il suo centocinquantesimo anno di vita, cit., pp. 629-630. 128 F. AMBROSI, Scrittori ed artisti trentini, cit., p. 173; P. ALESSANDRINI, Memorie di Pergine e del Perginese, anni 590-1800, cit., p. 193. 129 APS, Registro dei nati e dei battezzati, vol. VI, p. 310. 130 Catalogus cleri saecularis et regularis diocesis Tridentinae, 1803, p. 6. 131 R. STENICO, Sacerdoti della diocesi di Trento dalla sua esistenza fino all’anno 2000 indice onomastico, Trento, Provincia Autonoma di Trento, 2000, dattiloscritto, p. 392.

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sacerdote132. Il tentativo di inquadrare entro limiti cronologici precisi la vita di Tecini

non rientra nell’ottica di un esercizio di mera erudizione come potrebbe apparire in

prima battuta. Esso nasce, al contrario, dalla volontà di dare una successione

cronologica alle fonti inedite a mia disposizione133 e fonti purtroppo non rinvenute ma

citate134, per comprendere poi l’eventuale rapporto di dipendenza.

Dalla documentazione a stampa relativa alla figura di don Tecini si può

constatare che le informazioni sono poche, ripetitive ma alcune, come accennato sopra,

anche discordanti. Esiste, però, una forte somiglianza fra la biografia di Tecini

conservata nelle Memorie dell’Accademia degli Agiati e quella ritrovata nel fondo

archivistico della famiglia Montel di Pergine. L’autore di questo manoscritto non è stato

identificato. È appurato che non si tratta di don Francesco Tecini, né di un membro della

famiglia Montel.

Le marcate analogie strutturali, linguistiche e contenutistiche fanno

immediatamente supporre un rapporto di dipendenza fra le due fonti. L’autore della

voce “Francesco Tecini” delle Memorie però fa esplicitamente riferimento ad una

biografia di Tecini scritta da Monsignor Andrea Strosio135 e conservata presso

132 Giovanni Giulio Tecini (Sarnonico, 13 marzo 1784 – Cles, 6 gennaio 1861), il dodicesimo fratello di don Francesco Tecini, sposò il 23 febbraio 1808 a Sanzeno Maria Teresa Barbara Concini (Sanzeno 1 febbraio 1784 – Sarnonico 2 aprile 1854). Dalla loro unione nacque Caterina Maria Anna Claudia Francesca Tecini (Sarnonico 8 marzo 1810 – Pergine, 17 novembre 1877), nipote dunque di don Francesco, la quale andò in sposa, in seconde nozze, a Fortunato Montel. (ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440). 133 Si tratta di due biografie di Tecini: ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506. La segnatura riprende il numero provvisorio in quanto il fondo è in corso di ordinamento e inventariazione. Il manoscritto consta di 13 pagine vergate su carta azzurrognola; AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. Il manoscritto è intitolato Biografia di Monsignore Francesco Tecini. Parroco e decano di Pergine. Canonico onorario della Cattedrale di Trento. Esaminatore pro sinodale, decorato della medaglia del Merito con catena d’Austria e Baviera e socio di varie Accademie. Il manoscritto, letto da Luigi Benvenuti in occasione della tornata accademica del 10 maggio 1855, è vergato su carta bianca le cui pagine non sono numerate. 134 Si tratta della biografia di Tecini scritta da monsignor Andrea Strosio. 135 Monsignor Andrea Strosio nacque a Torcegno, in Valsugana il 3 aprile 1812. Entrato nel Seminario di Trento fu ordinato sacerdote il 17 luglio 1836. Lavorò inizialmente come cooperatore presso la parrocchia di Strigno per quattro anni. Divenuto parroco di Torcegno, vi rimase per dodici anni fino a quando, il 28 settembre del 1850, prese possesso del decanato di Malé. Qui però non vi rimase nemmeno un anno perché si trovò destinato alla parrocchia di S. Marco di Rovereto, ove fece il suo ingresso solenne il 10 agosto 1851. Ricevette il titolo di protonotario apostolico e di domestico di Sua Santità. Fu membro dell’Accademia roveretana degli Agiati dal 1855 e ne divenne presidente per tre anni dal 1859 al 1861. Ricoprì, a più riprese, anche l’incarico di deputato alla Dieta di Innsbruck e al Parlamento di Vienna, in qualità di rappresentante della curia prelatizia. Da un punto di vista culturale si caratterizzò per essere

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l’Archivio dell’Accademia Roveretana degli Agiati. Questo stesso riferimento

bibliografico viene citato anche da Antonio Zieger136, ma come mancante. Rifacendosi

anch’egli alla biografia scritta da Battelli nelle Memorie, nomina il manoscritto di

Strosio sottolineando però come esso non sia più presente nell’Archivio Accademico a

causa dello scoppio della prima guerra mondiale che determinò la perdita di molta altra

documentazione ivi conservata. È però presente un’altra fonte interessante: si tratta della

prima parte di una biografia di Tecini letta da Luigi Benvenuti137 in occasione della

tornata accademica del 10 maggio 1855, a due anni di distanza dalla morte del parroco.

La prima carta del manoscritto, oltre a citare il titolo, riporta un’annotazione scritta a

matita che allude a monsignor Andrea Strosio138: questa indicazione ci permette di

intuire che la biografia recitata da Luigi Benvenuti nel maggio del 1855 fosse posteriore

a quella di Andrea Strosio. Riguardo ai rapporti fra le due biografie c’è tuttora un po’ di

confusione perché anche nell’indice dell’inventario dell’Accademia roveretana degli

Agiati, sia la voce di Luigi Benvenuti sia quella di Andrea Strosio riportano alla stessa

opera. Da qui l’incertezza sull’effettivo autore del manoscritto139. È indubbio, tuttavia,

che la versione rinvenuta nella biblioteca accademica faccia riferimento a quella che

Benvenuti aveva presente nel momento in cui si apprestava a ricordare la prima parte

della vita del parroco140, proprio perché si interrompe nel 1797, anno in cui Tecini prese

strenuo difensore di Antonio Rosmini. Morì a Milano il 24 settembre 1882. (M. DOSSI, Andrea Strosio (1812-1882): l’Accademia degli Agiati e la questione rosminiana, in M. BONAZZA (a cura di), I “buoni ingegni della patria, cit., pp. 227-254). 136 A. ZIEGER, Cenni biografici su: don Francesco Tecini parroco-decano di Pergine, cit., pp. 46. 137 Luigi Benvenuti nacque a Trento il 19 novembre 1819. Studiò all’università di Padova dove ottenne la licenza di maestro privato di grammatica e umanità. Iniziò la sua carriera a Pergine dove vi rimase dal 1842 al 1850. In questo lungo periodo conobbe don Francesco Tecini. Ottenuta la laurea in Lettere presso l’università di Innsbruck, divenne professore e fu destinato dapprima al Liceo di Rovereto nel 1850 e poi nel 1859 a quello di Trento, dove vi rimase fino al 1886, anno in cui ottenne la sua pensione con relativo emolumento. Nel 1850 divenne socio dell’Accademia roveretana degli Agiati. Fu anche uno dei primi segretari del museo civico di Rovereto. Morì il 3 luglio 1893. (Memorie dell’I. R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto pubblicate per commemorare il suo centocinquantesimo anno di vita, cit., pp. 649-650). 138 Sotto al titolo infatti si legge “di mons. Strosio”. 139 È verosimile che Luigi Benvenuti avesse scritto una biografia di Tecini avendo sotto mano quella stesa da Strosio. Oppure si può supporre che Strosio stesso fosse stato l’autore della biografia letta da Benvenuti (anche se la calligrafia dell’autore del manoscritto non corrisponde a quella di Strosio). In tal caso non si spiega come mai Zieger avesse citato la biografia di Strosio come mancante nell’archivio accademico, senza citare anche quella che c’è. 140 Che si tratti solamente di una prima parte della vita di Tecini lo sottolinea lo stesso Benvenuti, ma esiste un’attestazione scritta coeva che lo conferma: si tratta de “Il Messaggere Tirolese di Rovereto”, anno 1855, n° 58-61, dove in appendice viene riportata in breve l’attività dell’accademia della tornata accademica del 10 maggio 1855. Si legge: “Il professore L.

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possesso del decanato di Pergine. Più oltre lo stesso Benvenuti afferma di proseguire

con la narrazione in un secondo momento, per non annoiare gli astanti. Tuttavia, la

seconda parte non è mai stata eseguita, perché nei verbali delle tornate accademiche

successive non si trova traccia di ciò.

Luigi Benvenuti motiva la sua decisione di presentare ai soci dell’Accademia

questo personaggio con la volontà di “versare sulla tomba di lui una lacrima di

tenerezza e gratitudine, e spargervi un fiore che ognora la memoria ne tenga viva nel

vostro e nel mio cuore”141. Le parole di stima con cui Benvenuti lo dipinge sono dettate

dalla gioia per l’amicizia con Tecini da cui Luigi trasse tanto beneficio. Nella biografia

scritta da Benvenuti la data di nascita è ancora diversa: 19 febbraio 1763.

È indubbio che il manoscritto rinvenuto nel fondo Montel preceda quello del

Benvenuti considerato il fatto che non riporta la data della morte del parente. Di primo

acchito si potrebbe pensare ad un rapporto di dipendenza fra le due fonti, in base al

quale la seconda (la biografia di Benvenuti) è posteriore alla prima a cui Benvenuti si

sarebbe rifatto direttamente arricchendola però di tutti quei particolari sulla personalità

di Tecini di cui lui era a conoscenza in virtù del loro rapporto di amicizia. Non si hanno

molte notizie a riguardo: nella documentazione finora ritrovata non ci sono scambi

epistolari che la possano attestare. Solamente Benvenuti ne parla, in una sua opera a

stampa142 e nella biografia relativa a Tecini. In essa è contenuta un’informazione molto

importante che smentisce l’ipotesi di dipendenza fra le due fonti sopra formulata,

alludendo infatti alla presenza di “quell’autobiografia che egli dettava in vita”143.

Ancora oltre, Benvenuti scrive: “crederei di mancare al dovere di amico se io qui non

riportassi a parole ciò che egli lasciò scritto nell’autobiografia intorno al soggiorno in

questa città, così ei dice:…”144. Tecini, dunque, avrebbe scritto un’autobiografia. Questa

informazione è, a sua volta, confermata da una lettera, conservata presso l’Archivio

dell’Accademia degli Agiati e a questa inviata da don Francesco Tecini in data Pergine

Benvenuti legge la prima parte della vita del defunto nostro socio mons. Tecini, l’autore delle serate d’Uberto, lavorata in gran parte sull’autobiografia, che si rinvenne dopo la morte di lui tra altre opere manoscritte e ancora inedite”. Questa affermazione conferma l’esistenza di un’autobiografia inviata all’Accademia ma non dà informazioni specifiche sull’autore del manoscritto rinvenuto. 141 AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. 142 L. BENVENUTI, La Cronaca di Folgaria e le Memorie di Pergine e del perginese del sig. Decano don Tommaso Vig. Bottea con riguardo specialmente all’origine dei Mocheni, considerazioni dilucidazioni ed appunti di Luigi Benvenuti, Trento, Seiser, 1881, pp. 4-5. 143 AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. 144 Ibid.

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24 marzo 1845145. Tecini vi esprime la propria “dolcissima sorpresa” per la nomina a

socio corrispondente dell’Accademia scientifica di Rovereto con relativo diploma; egli

prosegue esprimendo riconoscenza e “i più ossequiosi ringraziamenti al Nobilissimo

Signor Presidente, ed ai suoi dottissimi S. Ospitanti”. Più oltre afferma di “eseguire

quanto prima ciò che impone ai Soci il S. 20. degli Statuti”. Questo dovere di cui la

lettera non ci da ulteriori specificazioni viene ripreso nella lettera datata Pergine 17

luglio 1847146 che Tecini invia all’Accademia, nella quale il monsignore fa esplicito

riferimento ad un obbligo che lo lega alla società. La lettera, infatti, cita: “Memore

dell’obbligo, che ho, di presentare le mie memorie della lunga vita, che Dio mi

concesse, benché di poco rilievo, non dimenticherò di farle avere fra poco al S.

Epistolografo della I. R. Accademia”. Queste due lettere confermano l’esistenza di

quell’autobiografia di Tecini a cui l’autore del manoscritto si rifà direttamente.

Purtroppo però non sono state ancora trovate. L’ipotesi più credibile è la seguente:

vincolato dagli obblighi dell’Accademia degli Agiati, Tecini avrebbe dettato un’

autobiografia mentre si trovava a Pergine nel periodo compreso fra il 1847 e il 1853,

anno della sua morte, diretta all’Accademia. Un suo parente, membro della famiglia

Montel, sarebbe stato coinvolto nella stesura della stessa, ma, come già anticipato,

l’autore della copia rinvenuta nel fondo non è identificabile. I passaggi di mano di cui

sopra si possono desumere dalla diversa calligrafia che distingue il manoscritto da

quella delle note autografe dello stesso parroco scritte a margine. Esse si riferiscono a

una “carta volante”, allegata, contenente aggiunte e modifiche di mano di Fortunato

Montel. Con ogni probabilità il manoscritto ritrovato nel fondo archivistico della

famiglia Montel è una brutta copia della versione finale di quell’autobiografia che

Tecini inviò all’Accademia. Così assume senso anche l’affermazione di Benvenuti

quando dice che si rifà a quell’autobiografia che egli dettava in vita.

In Accademia, Luigi Benvenuti, in occasione della tornata del 10 maggio 1855,

avrebbe elaborato uno scritto per onorare il suo amico, sulla base dell’autobiografia

inviata dallo stesso Tecini, ma ampliandola. Solo in questo modo si giustificano le

fortissime e palesi somiglianze fra le due biografie. Con ogni probabilità, però,

Benvenuti ha commesso un errore di trascrizione considerato che la data di nascita

riportata è il 19 febbraio anziché il 19 dicembre. In tutto questo ragionamento la

posizione di mons. Andrea Strosio non è ben chiara: a parer mio la confusione generata

145 AARA, fascicolo 322.2. 146 Ibid.

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dal ritrovamento della biografia recitata da Benvenuti e dall’accenno ad una biografia

del parroco scritta da Strosio ha portato a pensare all’esistenza di due biografie distinte.

In realtà la biografia a cui si rifà il profilo biografico di Tecini scritto da Battelli ad

inizio Novecento e conservato nelle Memorie dell’Accademia è quella rinvenuta, che

l’autore sia Strosio o Benvenuti. Lo conferma il fatto che Battelli interrompe la

narrazione della vita di Tecini al 1797, lo stesso anno a cui si ferma la biografia che

Benvenuti recitò nel 1855. L’errata data di nascita (19 febbraio 1763), che si è imposta

negli scritti più autorevoli come appunto le Memorie, deriva, dunque, da uno sbaglio di

Luigi Benvenuti o Andrea Strosio che, in fase di trascrizione, (perché oltre che in una

rielaborazione personale dell’autobiografia di Tecini, anche in questo consistette il suo

lavoro considerate le citazioni che riporta), scrisse 19 febbraio anziché 19 dicembre. Da

qui Battelli, persevera inconsapevolmente in questo errore.

2. La famiglia e gli anni della formazione giovanile

Figlio di Francesco Tecini, dottore in medicina, e Caterina Stefenelli da Fondo,

Francesco apparteneva ad una famiglia economicamente agiata e di elevato status

sociale: essa, infatti, fu decorata con decreto di Nobiltà del Principato di Trento datato

24 novembre 1698147.

Francesco nacque a Sarnonico, nella valle di Non, ma la sua famiglia non era di

origini anauniensi. La questione sulle origini della famiglia Tecini è sollevata dallo

stesso Francesco in una lettera datata Pergine 1 febbraio 1832148 e indirizzata

all’avvocato Antonio Mazzetti149.

147 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 1. 148 BCT, Ms. 1-1368, p. 215. 149 Antonio Mazzetti: figlio di Bartolomeo, di modesta estrazione sociale, originario di Ala e di Anna Phanzelter, vedova Berti, nacque a Trento il 5 marzo 1784. Dopo una prima formazione religiosa presso il Seminario di Trento, dove ricevette la tonsura il 26 marzo 1799, si trasferì a Vienna dove a partire dal 1802 si dedicò agli studi giuridici. Si addottorò all’Università di Innsbruck il 4 giugno 1806. Rientrato a Trento, dopo un breve apprendistato, intraprese con grande successo la carriera di avvocato, favorita anche dalle turbolenti vicende storiche di quegli anni. Sempre fedele a casa d’Austria, nel 1813, con il ritorno definitivo del Tirolo all’impero asburgico, fu nominato procuratore generale presso la corte di giustizia di Trento e l’anno successivo procuratore generale presso il tribunale d’appello della stessa città. Fino al 1815 si occupò della riorganizzazione del settore giudiziario a Trento e ad Innsbruck. Dal maggio 1816 al 1824 rivestì la carica di consigliere aulico presso il Senato lombardo-veneto del Supremo tribunale di Giustizia con sede a Verona. Nel 1824 fu nominato Presidente del tribunale civile di prima istanza a Milano, dove vi rimase, ricoprendo altri importanti incarichi, fino alla morte. Nonostante la lontananza dalla Patria, il Mazzetti nutrì un profondo e continuativo interesse soprattutto per la storia della sua regione, in riferimento alla quale scrisse

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I Tecini, detti Thesin, erano originari del Tesino e furono presenti a Trento già

prima del 1528, e anche a Rovereto dove un Paolo fu podestà della città nel 1560150.

Nella seconda metà del Cinquecento, a causa dello scoppio di un’epidemia di peste a

Trento, un tale “Antonio detto il Tecino, consigliere del Concilio di Trento” si sarebbe

rifugiato insieme al principe vescovo Madruzzo in Sarnonico, nella valle di Non. Qui la

famiglia ottenne la nobiltà episcopale tridentina nel 1698 nella persona di Giovanni

Antonio151 bisnonno di Pietro Giorgio Francesco Tecini152, padre, quest’ultimo, di

Francesco, sacerdote. In quanto nobile, al ramo anaune della famiglia fu riconosciuto lo

stemma: lo scudo era troncato, dove nel primo riquadro a sfondo dorato era

rappresentata un’aquila nera, con la lingua rossa; il secondo, su sfondo argenteo,

riportava sei mezzi rombi di colore rosso153. Un ramo sarebbe tornato a stabilirsi a

Trento nel Seicento154, dando inizio alla famiglia Dorigati155.

Dal matrimonio di Pietro Giorgio Francesco Tecini con Maria Teresa Caterina

Stefenelli, celebrato a Sarnonico in data 9 febbraio 1763, nacquero ben quindici figli156:

Francesco, era il primo. Ebbe fratelli e sorelle157, dei quali però la storia non ci ha

lasciato molte notizie. Di alcuni anzi, nessuna, perché probabilmente morti in età

numerose opere. Fu, inoltre, socio di varie Accademie italiane (degli Agiati di Rovereto dal 1825, Padova, Rovigo, Bergamo, Venezia, Roma) e straniere (fu socio del Ferdinandeum di Innsbruck e della bavarese Reale Accademia delle scienze). (Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2009, vol. 72, pp. 563-565). 150 G.M. RAUZI, Araldica Tridentina, Trento, Artigianelli, 1987, p. 335. 151 Ibid. 152 ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440. 153 TABARELLI DE FATIS G., BORRELLI L., Stemmi e notizie di famiglie trentine, in “Studi trentini di scienze storiche”, sezione prima, LXXXIII 4 2004 – LXXXIV 1 2005, p. 277. 154 Ibid. 155 G.M. RAUZI, Araldica Tridentina, cit., p. 335. 156 ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440. 157 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 7.

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giovane o giovanissima. Tuttavia sono noti i nomi di quattro di loro: Nicola158, Pietro159,

Salvatore160 e Giovanni Giulio161.

Fin da bambino Francesco manifestò la propria predisposizione per lo studio

corrispondendo positivamente agli insegnamenti dei suoi genitori: furono loro, infatti, i

primi ad educarlo, insieme ai suoi fratelli a “quei principi santissimi di soda virtù, che

formano poi il vero cristiano, il cittadino utile, il suddito fedele e che radicati nel cuore e

succhiati col latte non abbandonano che colla vita”162. Orgogliosi delle doti intellettuali

del figlio e consapevoli dell’importanza della conoscenza della lingua tedesca in una

regione di confine con l’Impero, e che dello stesso impero faceva parte, pensarono per

lui ad un soggiorno all’estero per apprendere il tedesco, non solo per capirlo, ma anche

per saperlo parlare con il giusto accento163: all’età di dieci anni, fu mandato per un anno

a San Michele di Appiano, nell’attuale Alto Adige, dove alloggiò in casa di un

conoscente, il negoziante Koll164. A conclusione della permanenza a San Michele di

Appiano, ritornò a Sarnonico dove frequentò la scuola di grammatica165, seguendo le

lezioni di don Pietro de Ghezzi, curato di Cavareno, piccolo borgo della Val di Non

situato poco più a sud di Sarnonico, in linea con la consuetudine del tempo di affidare

l’insegnamento ai fanciulli dei primi rudimenti di scuola, dietro pagamento di una

piccola quota, ad un religioso: in modo particolare, il Concilio di Trento, nel tentativo

158 Nicola Tecini: nacque a Sarnonico il 29 novembre 1770 e morì il 13 dicembre 1835. (R. STENICO, Sacerdoti della diocesi di Trento dalla sua esistenza fino all’anno 2000 indice onomastico, cit., p. 392; F. BORTOLOTTI, “La pace ha voltate le spale…”. Il tramonto di un’epoca attraverso le lettere di Gaspare Crivelli, cit., p. 159 Pietro Tecini nacque a Sarnonico nel 1774 e morì il 28 marzo 1820 a soli 46 anni. Ottenne la tonsura il 1 giugno 1788 e fu ordinato sacerdote il 24 marzo 1798. La sua breve carriera ecclesiastica ebbe inizio quando nel 1803 fu cooperatore a Pergine. Pietro fu poi parroco di Mezzocorona, fino alla morte. (G. TAPPARELLI, Trascrizione del Liber Clericorum Ordinatorum, vol. II – ff 109v-153r. In appendice: indice alfabetico dei presbiteri diocesani ordinati nel decennio 1791-1800, Trento, 2008; www.esterbib.it) 160 Sono poche le informazioni inerenti la figura di Salvatore Tecini. È noto che studiò Logica a Vienna e che ricoprì poi la carica di Commissario Superiore di Polizia a Cremona. (BCT, Ms. 1-1368; ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 1). 161 Giovanni Giulio Tecini fu il dodicesimo figlio di Francesco Tecini e Caterina Stefenelli. Nacque a Sarnonico il 13 marzo 1784 e morì il 6 gennaio 1861. Lavorò come medico condotto. Il giorno 23 febbraio 1808 sposò a Sanzeno Maria Teresa Barbara di Concini dal cui matrimonio nacque Caterina Maria Anna Claudia Francesca de Tecini. (ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440). 162 AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. 163 Ibid. 164 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 1. 165 Per “ grammatica” si intende l’insegnamento iniziale del latino. (L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, in M. BELLABARBA, G. OLMI (a cura di), Storia del Trentino. L’età moderna, cit. p. 626).

57

generale di promuovere la riforma dei costumi dei cattolici in risposta agli attacchi

provenienti dal mondo protestante, aveva riconosciuto l’importanza dell’istruzione e la

conseguente necessità di promuoverla, seppure in maniera controllata, al fine di educare

i laici ai principi dell’ortodossia. I soggetti maggiormente interessati da questo

provvedimento fu la popolazione giovanile, particolarmente sensibile, in quanto fatta di

tenere menti, a recepire gli insegnamenti della dottrina cattolica. Fu così che, soprattutto

nelle giurisdizioni immediate del Principato ecclesiastico di Trento, dove si

concretarono senza particolari opposizioni i provvedimenti sinodali diocesani e i decreti

visitali, si mossero i primi passi verso il processo di graduale abbattimento

dell’analfabetismo166, ovviando “all’assoluta mancanza di scuola primaria che non

troverà avvio istituzionale pubblico prima dell’anno 1774”167.

All’età di 14 anni, nel 1777, fu iscritto al Seminario di Trento, “poiché in quel

tempo si ricevevano anche giovanetti che frequentavano il ginnasio”168, e fu ammesso

alla quarta grammaticale. Gli anni del collegio furono coronati di successo:

confermando ancora una volta la sua passione per lo studio, compì la carriera scolastica

primeggiando in tutti i corsi. Per condotta e merito, Francesco conquistò la stima dei

suoi superiori, i quali lo scelsero nel 1782, insieme a Giuseppe de Carrera, a difendere la

tesi di filosofia sostenuta dal professore Francesco Saverio Battisti di Fondo169, secondo

la moda dei tentamina170. La discussione ebbe luogo nel teatro del Liceo, com’era allora

consuetudine, al cospetto di una schiera nutrita di professori. Continuò poi lo studio 166 Ivi, pp. 619-651. 167 Ivi, p. 622. 168 Ibid. Questa specificazione non è superficiale ma allude ad una particolare vicenda del Seminario di Trento. Istituito nel 1593, in piena atmosfera controriformistica, con il cardinale Ludovico Madruzzo, ebbe inizialmente sede in via s. Croce, nell’ex Convento dei Crociferi, sotto la direzione dei Somaschi. Fu trasferito nel 1599 in via s. Maria Maddalena. Nel 1618, per iniziativa del card. Carlo Gaudenzio Madruzzo, fu istituito il “Ginnasio tridentino” in via Roma, affidato inizialmente ai Somaschi e poi nel 1625 ai Gesuiti. Nel 1771 il vescovo Cristoforo Sizzo de Noris affidò la direzione del Seminario al clero diocesano e nel 1774, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, lo fece trasferire in via Roma, presso la sede del Ginnasio tridentino. (A. COSTA, I vescovi di Trento. Notizie – profili, Trento, Edizioni diocesane, 1977, pp. 328-329). Per un’analisi approfondita della storia del Seminario vescovile di Trento si veda G. FLABBI, Il seminario Pr. Vescovile di Trento, Trento, Artigianelli, 1907. 169 F. S. BATTISTI, Positiones ex universa philosophia, quas sub auspiciis celsissimi, & reverendissimi domini domini Petri Vigilii episcopi, et S.R.I. principis Tridenti, marchionis Castellarii &c. &c. ex comitibus de Thunn, et Hochenstein &c. &c. praeside p. Francisco Xaverio a Fundo ord. Min. Refor. pub. philosoph. prof. propugnandas suscepit venerabilis, & admodum eruditus clericus Franciscus de Tecinis Annaniensis sem. episc. alum. in episcopali Tridentino lyceo die I. julii MDCCLXXXII. horis ante, & post meridiem consuetis data cuilibet post quartum arguendi facultate, Trento, Monauni, 1782. 170 Tentamina: dispute filosofiche o scientifiche, introdotte dai Gesuiti, che gli studenti dovevano dibattere in pubblico. Nel caso della città di Trento, la discussione avveniva nel teatro del Liceo (o Ginnasio). (L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, cit., p. 641).

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della teologia, difendendo in pubblico, nel 1785, la tesi in teologia morale171 alla

presenza del vescovo Pietro Vigilio Thun172.

L’universo culturale a cui afferì la prima formazione di Tecini fu quello della città

di Trento della seconda metà del XVIII sec: un periodo, come già anticipato, durante il

quale anche il Principato di Trento, seppure con ritardo rispetto ai tempi con cui il

processo investì il resto dell’Europa, si aprì, soprattutto con Pietro Vigilio Thun, alle

suggestioni dell’Illuminismo, maturando quell’esigenza di rinnovamento che ispirò la

sua azione di governo, spirituale e temporale. Gli anni Settanta e Ottanta del Settecento

si caratterizzarono per un intenso processo di ammodernamento esteso a tutti i settori

della vita collettiva che di fatto svincolarono la società trentina dai presupposti

medievali con cui aveva fatto il suo ingresso nel XVIII sec. e ai quali era fortemente

ancorata, per credo religioso e per la particolare posizione istituzionale del Principato173.

Alla temperie culturale di quegli anni fece riscontro una ripresa della conflittualità

sociale fra i vari centri di potere. Francesco Tecini, dunque, ricevette la sua formazione

all’interno di una società in fermento dal punto di vista sociale, politico, culturale, tesa,

da una parte, verso la modernità ma, dall’altra, ancora invischiata nella tradizione.

Anche Pietro Vigilio Thun, con la sua formazione e il suo operato, contribuì alla

diffusione nel Principato delle nuove concezioni circa il rapporto fra Stato e Chiesa che

presero piede, in quegli anni, nell’impero174.

171 F. TECINI, Josepho Urbano de Buffa S.R.I. lib. bar. dynastae Mont. Lil. Castri Alti et. Haiden Ecclesiae Tridentinae canonico viro egregiis animi dotibus claritate generis comitate suavitate morum ecclesiasticarum disciplinarum cognitione cultuque spectatissimo patrono d.s.o.m. has ex morum theologia theses publice ad defendendum propositas Franciscus de Tecini et Nicolaus Monauni Annanienses perpetuum obsequii monumentum dd. cc. q.l.m., Trento, Monauni, 1785. 172 Pietro Vigilio Thun, figlio di Agostino conte di Thun e di Antonia contessa Spaur, nacque a Trento il 13 dicembre 1724. Studente di retorica a Trento, iniziò la sua carriera ecclesiastica già nel 1739, a soli 15 anni, quando ottenne dal capitolo della Cattedrale il canonicato reso vacante dalla morte di Giangiuseppe Gentilotti. Nel 1749 subentrò quale arcidiacono al suffraganeo Giovanni Venceslao Spaur. Completò gli studi all’accademia ecclesiastica di Roma e poi a Salisburgo dove ottenne un canonicato e divenne decano nel 1775. Il 29 maggio 1776, il Capitolo della Cattedrale lo elesse all’unanimità quale successore di Cristoforo Sizzo de Noris. Presagendo l’invasione napoleonica di Trento, abbandonò la città il 20 maggio 1796 rifugiandosi in Passavia, presso il fratello Tommaso. Non fece più ritorno a Trento; infatti morì il 17 gennaio del 1800 nella suo castello a Vigo di Ton. (A. COSTA, I vescovi di Trento. Notizie – profili, cit., pp. 202-210). 173 M. R. DI SIMONE, Diritto e riforme nel Settecento trentino, cit., pp. 209-229. 174 Per le cariche ricoperte a Salisburgo, seppur per breve periodo, Pietro Vigilio Thun fu influenzato dalla nuova condotta politica e spirituale assunta dal vescovo di quella diocesi, Colloredo, in relazione al rapporto fra Stato e Chiesa: segnato in ambito culturale dall’influenza dell’episcopalismo, del febronianismo, del tardo giansenismo e del riformismo cattolico di Muratori, e in ambito politico dal territorialismo bavarese e austriaco, Colloredo mirava alla costituzione a Salisburgo di uno stato ecclesiastico, quale modello dell’illuminismo cattolico all’interno dell’impero. Pietro Vigilio Thun, dal canto suo, cercò di perseguire un obiettivo

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Francesco fu molto sensibile alle suggestioni del suo tempo; in particolare, già nel

corso della permanenza a Trento, egli percepì, seppure in maniera poco incisiva, le

istanze gianseniste che avevano fatto il loro ingresso nel Principato con l’affermazione

del “giuseppinismo”175. L’epoca del Thun, infatti, “coincise con la massima

manifestazione del giuseppinismo, che coinvolse non solo i territori asburgici ma anche

i principati ad essi vicini e collegati, tra cui Bressanone e Trento”176. L’imperatore, per

il convergere nella sua formazione di sollecitazioni culturali diversificate (illuminismo,

giansenismo, giurisdizionalismo, episcopalismo), elaborò compiutamente la teoria della

sovranità dello Stato sulla Chiesa, riconoscendo a quest’ultima funzioni meramente

spirituali e il compito di assicurare la formazioni di sudditi fedeli allo Stato.

Simili provvedimenti interessarono anche il principato tridentino, tuttavia il Thun,

pur condividendo alcune scelte177, fu fautore di una politica ecclesiastica che non si

tradusse in una mera trasposizione in terra tridentina del giuseppinismo: pur di fronte

all’invadenza imperiale, egli riuscì a mantenere una relativa autonomia di manovra,

come testimoniarono il rifiuto di pubblicare l’editto di tolleranza nel 1781 e quello di

chiudere il seminario diocesano nel 1783. Anche il codice giudiziario commissionato a

Barbacovi e promulgato nel 1788 non si risolse nella versione tridentina del codice

giuseppino ma fu un testo molto originale in cui convergeva, oltre alle istanze del

giusnaturalismo e del cameralismo austro-tedesco, anche la tradizione statutaria,

confermando l’indipendenza dell’autore dai modelli asburgici178. Anche il rifiuto da

parte del Principe Vescovo di riconoscere Gorizia e poi Graz quale Chiesa

metropolitana era espressione della volontà di Thun di perseguire un progetto proprio.

L’adesione, benché parziale, del vescovo alla politica religiosa dell’imperatore tradiva

la sua simpatia nei confronti del conciliarismo anche se al congresso di Ems del 1786-

87 mantenne “un silenzio carico di ambiguità”179, attento com’era a vagliare con grande

oggettività la questione dottrinale. I detrattori del governo Thun, conservatori, fecero

analogo nel principato tridentino. (M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento: vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 24 e 49). 175 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., pp. 540-551. 176 M. MERIGGI, Assolutismo asburgico e resistenze locali. Il Principato vescovile di Trento dal 1776 alla secolarizzazione, cit., p. 543. 177 Anche nel principato si registrò una grande ondata di soppressione dei conventi di vita maschili e femminili, considerati da Thun incapaci, ora, di rispondere alle mutate esigenze di una religiosità illuminata. Il vescovo, inoltre, assecondò la ridefinizione dei confini della diocesi che andarono a coincidere con quelli del principato per evitare intromissioni straniere. 178 M. R. DI SIMONE, La cultura giuridica nel Trentino tra Settecento e Ottocento: Francesco Vigilio Barbacovi, cit., p. 43. 179 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., p. 544.

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leva soprattutto sulle posizioni filo-episcopaliste del vescovo, non considerando la

portata della sua politica ecclesiastica che non era nulla di anomalo rispetto

all’evoluzione dei tempi: Thun, sensibile alle istanze di Aufklärung cattolica penetrate

anche nelle sue terre, si prodigò per la crescita culturale e religiosa del popolo trentino

promuovendo la diffusione delle scuole nelle varie comunità, coerentemente con il

progetto teresiano di alfabetizzazione delle masse popolari e dotando ogni parrocchia di

maestri di catechismo preparati. A questi si affiancarono molti altri provvedimenti che

testimoniavano la priorità, attribuita dal prelato, alla formazione culturale e morale del

clero: l’attenzione per le nomine dei parroci, la preoccupazione di impartire

un’istruzione adeguata per i candidati al presbiterato, l’insistenza sulla dottrina cristiana,

la difesa della retta dottrina, la disponibilità a inviare giovani a studiare a Roma, a

Pavia, a Innsbruck. Da Vienna portò a Trento un catechismo, su cui si doveva basare

l’educazione religiosa dei trentini180. Come vedremo le preoccupazioni di garantire una

funzione sociale e civilizzatrice alla religione, di derivazione muratoriana, giansenista

ma anche illuminista, nelle sue forme più moderate, la necessità di estirpare

l’analfabetismo, una delle piaghe più gravi per l’arretratezza di una realtà sociale, quindi

di garantire un livello di istruzione almeno elementare ai fanciulli, indipendentemente

dal sesso, la volontà di svecchiare una mentalità, popolare e non, liberandola

dall’ignoranza e dalla superstizione in nome di una consapevolezza più razionale della

propria esistenza ma al contempo la difesa della religione cattolica dagli attacchi che la

consideravano un fenomeno ormai superato, furono le preoccupazione che, affermatesi

a chiare lettere nel contesto e negli anni del governo Thun, coincidenti con quelli della

formazione del prete, furono fatte proprie dallo stesso Tecini, caratterizzandone la sua

azione pastorale. Importanti stimoli gli vennero, inoltre, da Rovereto, Firenze e

Salisburgo: l’adesione al giansenismo maturerà, infatti, successivamente, durante

l’esperienza fiorentina e salisburghese, conservandosi inalterata nel corso della sua

lunga attività pastorale.

La conclusione del percorso di studi e l’ordinazione sacerdotale significarono

per don Francesco l’inizio di una lunga fase della sua vita che lo vide impegnato in

molte attività allontanandolo anche dalla patria per poi farvi stabilmente ritorno. Alla

luce dei soggiorni nelle città che determinarono la formazione, in Italia e all’estero, si

180 M. FARINA, La Chiesa tridentina alla prova del cambiamento, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., pp. 112-113.

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possono individuare alcuni periodi della sua vita, coincidenti con la durata della sua

permanenza nelle stesse: si può parlare, infatti, di un periodo trentino, della durata di 5

anni, dal 1786 al 1791, cui segue il periodo a Firenze durato poco meno di un anno. Dal

1791 al 1797 si datarono gli anni del periodo salisburghese. Nel 1797 il ritorno in patria

e la presa di possesso del decanato di Pergine Valsugana coincisero con l’inizio del

periodo perginese che si protrasse fino all’anno della morte del parroco, nel 1853.

3. Il periodo trentino (1786-1791)

Nel 1786 Francesco fu ordinato sacerdote. Celebrò la sua prima messa il 24

settembre dello stesso anno181. In virtù della stima conquistata dal Principe Vescovo in

occasione della difesa della tesi di teologia morale, Francesco ottenne da Pietro Vigilio

Thun la nomina a pubblico ripetitore di logica e metafisica presso il Liceo di Trento,

cattedra che occupò per cinque anni, dal 1786 al 1791. Questa scelta rientrava nei

programmi della politica ecclesiastica promossa dal Vescovo: preoccupato della crescita

culturale e religiosa del clero e del popolo trentino, adottò una serie di provvedimenti

che dovevano garantire le condizioni migliori per impartire ai giovani la giusta

istruzione. Francesco rispecchiava il prototipo ideale di aspirante al sacerdozio. Il

Vescovo pretendeva “una solida pietà, una docile obbedienza, un’assidua applicazione

allo studio, tanto che Pietro Vigilio Thun volle scegliere i migliori sacerdoti della

diocesi per guidare il seminario, in modo che gli alunni fossero stimolati anche

dall’esempio dei superiori”182. Francesco era uno di questi.

A questo periodo risale la progettazione di due sue opere di filosofia183, di cui

solo la prima conobbe una compiuta elaborazione negli anni successivi.

Nonostante le molteplici attività, Francesco ebbe sempre un occhio di riguardo

per la propria famiglia, per la quale si preoccupava anche del benessere economico. Nel

luglio del 1788 si recò per un mese a Vienna per garantire a suo fratello Salvatore,

181 APP, XII. A. 15. 182 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit. p. 546. 183 Sullo sviluppo dell’Ingegno umano, completata a Firenze nel 1792 (vedi oltre); De sobria philosophandi ratione, nata come “dissertazione per la difesa ” della tesi di un suo fratello, come afferma nella lettera del 25 aprile 1794 inviata a Vannetti. Riportando una citazione (“fenum habet in cornu”) delle Satire di Orazio, poeta molto studiato da Vannetti, Tecini giustifica la sua decisione di abbandonare l’impresa con la difficoltà dell’argomento, che tanto dispiacere gli potrebbe causare (BCR, Ms. 7.15).

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studente di Logica, di beneficiare dell’annuo stipendio che il cardinale Ferdinand Julius

di Troyer, lontano parente dei fratelli Tecini per via paterna184, aveva lasciato.

L’ambiente scolastico a cui era legato in qualità di insegnante e la sua missione

pastorale rappresentarono i presupposti per entrare in contatto anche con i membri delle

più influenti famiglie cittadine e non. Lungi da comportamenti arrivisti e dall’intenzione

di piegare tali conoscenze a scopi personali (riconoscimento di titoli, avanzamento di

carriera…), don Francesco si rese ben presto conto di quanto vantaggiose gli

risultassero le relazioni che nel corso dei cinque anni di permanenza a Trento coltivò

con le famiglie importanti: furono, infatti, due suoi conoscenti, il conte Carlo de Martini

di Calliano185 e il conte Francesco degli Alberti Poja186, per altro primi cugini187, a

conoscenza della rettitudine morale e della sua ricca e solida formazione culturale, a

proporlo nel luglio del 1791 all’arcivescovo di Salisburgo Girolamo Colloredo come

cappellano di corte e segretario per la corrispondenza italiana e latina. Come già detto,

in virtù dei legami secolari esistenti fra Trento e Salisburgo erano numerosi gli studenti

trentini a Salisburgo; dunque, la decisione di inviare un compatriota a Salisburgo non

era estranea alla logica dei tempi. Gli stessi Francesco degli Alberti Poja e Carlo

Martini, studiarono a Salisburgo, così come i loro avi. A ciò si aggiunga che un tale

184 La bisnonna dei fratelli Tecini, Joseffa Maria Mayrhoffer, era una discendente per via materna della famiglia de Troyer, che annoverava fra i suoi membri anche il cardinale Ferdinand Julius. (ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440). 185 Martini Carlo, figlio di Leopoldo e Antonietta Alberti Poja, nacque a Calliano nell’agosto del 1747, morì a Mezzolombardo il 28 giugno 1829. Particolarmente interessato alle lettere e alla filosofia, nel 1763 si trasferì a Verona dove studiò presso l’Accademia dei Nobili. Si dedicò alla poesia, alla pittura e, una volta rimpatriato nel 1768, anche all’apicoltura. Scrisse una dotta dissertazione che gli valse il titolo di socio dell’”Accademia agricoltura ed arti” dell’Austria. Compì numerosi viaggi in Italia: a Bologna si laureò in giurisprudenza, a Roma coltivò la passione per l’archeologia e la numismatica. Soggiornò per qualche tempo anche a Napoli. Rimpatriato nel 1774 si dedicò al riordinamento dell’Archivio Vescovile e di quello Capitolare. Quando gli echi della rivoluzione francese cominciarono a giungere anche nel Principato, abbandonò Trento e si trasferì a Calliano. Sposò la baronessa Amalia Buffa di Telve. I suoi numerosi scritti sono stati raccolti da Tommaso Gar nel volume intitolato Scritti di storia e archeologia del Co. Carlo Martini, Trento, 1855. (BCR, Ms. 20. 2-20). 186 Francesco Alberti Poja era figlio del patrizio trentino Antonio Clemente. In seguito al matrimonio con la baronessa Eleonora Piamarta si stabilì a Rovereto, affinché la moglie potesse entrare in possesso dell’eredità lasciata dal fratello Gaetano. Francesco fu il committente della costruzione di Palazzo Alberti, attualmente sede del Museo Civico. 187 La parentela fra Carlo Martini e Francesco Alberti Poja è desunta da una mia ricostruzione genealogica consultando il sito www.esterbib.it: Carlo Martini era figlio di Leopoldo Martini e Rosa Antonia Alberti Poja, la quale era sorella di Antonio Clemente, padre di Francesco degli Alberti Poja. Francesco e Carlo erano, dunque, cugini di primo grado. Il nonno, Giovanni Battista Antonio Alberti Poja, studiò a Salisburgo e infatti rientra nell’elenco degli studenti trentini nel Collegium Marianum, nell’anno 1702. (G. STADLER, Salisburgo e il Trentino, cit., p. 100).

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“Nob. Carol Ioan. Jenetti”, originario della Val di Non188 e molto verosimilmente

parente stretto di Tecini, risultava iscritto al Collegium Marianum nel periodo compreso

fra il 1729 e il 1737. Ciò significa che la stessa famiglia di Francesco, per via paterna,

rientrava in questa tradizione. Quasi negli stessi anni (dal 1728 al 1734), comunque

durante il periodo del Firmian, fu ammesso al Collegium Marianum un altro membro

della famiglia Alberti Poja. Dato che gli studenti ammessi negli anni del Firmian furono

trenta189, un numero non eccessivo, con ogni probabilità il giovane Genetti e Alberti in

quel lasso di tempo si conobbero. Non si può escludere che tale conoscenza, mantenuta

anche al rientro a Trento, avesse facilitato la scelta su Tecini, nel momento in cui si

dovette scegliere il giovane adatto a svolgere le mansioni richieste da Colloredo.

Francesco, infatti, non fu mandato a Salisburgo per studiare in uno degli istituti più

prestigiosi della città fondati da un trentino, ma in qualità di cappellano di corte e

segretario per la corrispondenza italiana e latina: l’arcivescovo Colloredo, dunque,

necessitava di un presbitero, e la levatura culturale di Tecini, riconosciuta, come

anticipato, dallo stesso Pietro Vigilio Thun, fu determinante nel far cadere su di lui la

scelta. Molto verosimilmente contribuirono anche le conoscenze, più o meno datate,

della famiglia Tecini con gli Alberti Poja e la notorietà che lo stesso Tecini conquistò

nel corso della sua permanenza a Trento in qualità di insegnante. Non è questa la sede

per indagare nello specifico le motivazioni per cui fu proprio Tecini ad essere stato

mandato a Salisburgo: non furono sicuramente estranee conoscenze, meriti,

probabilmente anche legami parentali.

Il Principe Vescovo di Salisburgo accettò di buon grado la proposta avanzatagli

ma, prima di accogliere presso la sua corte Tecini, pensò per lui ad un periodo di

soggiorno a Firenze, capitale culturale dell’area italiana dell’impero, al fine di

incrementare e rafforzare la sua formazione190.

4. Il periodo fiorentino (agosto 1791 – giugno 1792)

Francesco partì con entusiasmo alla volta di Firenze, animato innanzitutto,

amante dello studio qual’era, dalla possibilità di imparare proprio nella città che del

188 Ivi, p. 102. 189 Ivi, p. 110. 190 Il manoscritto conservato nel fondo Montel e quello letto da Benvenuti nel 1855, nonché la biografia delle Memorie degli Agiati così riportano: “…procurargli quell’aumento di coltura, che promette quella città ristoratrice delle scienze, del buon gusto, e della lingua nazionale…”

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sapere era la culla; lo stimolava poi “il decoroso collocamento”191 che lo aspettava alla

corte di Salisburgo e la condizione di potervi stare senza preoccuparsi dello sforzo

economico necessario, dato che le spese erano state accollate dallo stesso principe

vescovo. Partito da Trento nell’agosto del 1791, prima di arrivare a Firenze, si trattenne

qualche giorno presso il suo mecenate, il conte Alberti, il quale lo munì di alcune lettere

di raccomandazione scritte dal cavaliere Clementino Vannetti192 e di alcune scritte dallo

stesso principe vescovo; esse gli si rivelarono subito preziosissimi strumenti per essere

accolto favorevolmente a Firenze.

Giunto in città a fine agosto, in virtù delle commendatizie di cui era in possesso,

si presentò immediatamente all’abate Marco Lastri193 e al signor Giovanni Fabbroni194.

Poté conoscere il signor Abate Perrini solamente a novembre195. In quest’occasione

191AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. 192 Clementino Vannetti, figlio di Giuseppe Valeriano Vannetti e di Bianca Laura Saibante, nacque a Rovereto il 14 novembre 1754. Dotato di grandi doti intellettuali, dopo una prima formazione ricevuta dal roveretano abate Festi, proseguì nello studio dei grandi personaggi della letteratura classica, soprattutto Cicerone e Orazio. Da Clemente Baroni Cavalcabò apprese la filosofia e le matematiche. Fu anche membro di molte altre Accademie, di Roma, Bologna, Firenze, Verona, Ferrara, Mantova, Vicenza. Fu segretario perpetuo dell’Accademia Roveretana degli Agiati dal 1776 fino alla morte (Memorie dell’I. R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto pubblicate per commemorare il suo centocinquantesimo anno di vita, cit., pp. 293-294). 193 Marco Lastri (Firenze, 6 marzo 1731 – Settimo, 24 dicembre 1811), figlio di genitori di umili condizioni, fu avviato sin da giovanissimo alla carriera ecclesiastica. Terminò gli studi nel collegio teologico dello Studio fiorentino nel 1756 quando si laureò. Dotato di spiccato acume intellettuale, fu socio di numerose Accademie: in ordine cronologico, fu membro dell’Accademia dei Georgofili, della Crusca, dell’Accademia di agricoltura di Padova, di quella Etrusca di Cortona e nel 1806 dell’Accademia La Colombaria di Firenze. In sintonia con gli intellettuali toscani del suo tempo fu aperto alle istanze dell’Illuminismo e accolse l’idea di una religione non superstiziosa difesa dal Muratori. Negli anni del riformismo toscano filo giansenista e liberista egli fu strenuo difensore della legge sull’abolizione della pena di morte emanata da Pietro Leopoldo nel 1787. Nel 1803 gli fu proposto di ricoprire a Forlì una cattedra di storia naturale e di agricoltura, ma rifiutò per vivere ritirato da “filosofo campagnardo”. (Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. 63, pp. 810-813). 194 Giovanni Fabbroni nacque il 13 febbraio 1752 a Firenze e ivi morì il 17 dicembre 1822. In età giovanile maturò una notevole esperienza musicale, che derivava dal mondo teatrale a cui la famiglia era legata. La sua vera vocazione era, però, per le scienze naturali. Non frequentò l’Università di Pisa, per le ristrettezze economiche della famiglia; tuttavia, per gli studi compiuti a Firenze nell’Accademia del disegno e nell’ arcispedale di S. Maria Nuova, poté venire a contatto con i naturalisti fiorentini, fra cui Felice Fontana, a fianco del quale collaborò all’organizzazione del Museo di Fisica e di storia naturale di Firenze fino a succedergli nella direzione dello stesso dal 1805 al 1807. Dal 1783 era socio dell’Accademia dei Georgofili, assumendo per tre anni la segreteria per le corrispondenze. Fabbroni compì numerosi viaggi nella penisola e all’estero. Giunto a Rovereto conobbe Clementino Vannetti e venne ascritto all’Accademia degli Agiati. Uomo di vasta cultura, si occupò di scienze naturali, economia politica, chimica e agronomia. Ricoprì importanti incarichi al servizio dei governi che si avvicendarono in Toscana a inizio Ottocento. (Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 43, pp. 676-685). 195 BCR, Ms. 7.34.

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Tecini si rese conto della fama di Vannetti, anche fuori Rovereto, capendo quanto fosse

fortunato, pur non conoscendosi, ad essere favorito proprio da costui196. A partire da

novembre, con lettera datata 20 novembre 1791, iniziò uno scambio epistolare fra

Tecini e Vannetti, il quale, in questo modo, veniva aggiornato delle novità letterarie

fiorentine197. A Firenze, Francesco fu particolarmente avvantaggiato anche dal legame

di parentela con Felice Fontana198, primo cugino di suo padre. Su suo invito, Tecini

frequentava il Museo di Fisica e Storia naturale e partecipava alle conversazioni

organizzate da alcune delle famiglie più illustri, conoscendo i maggiori scienziati di

Firenze e non. Maturò così in lui il desiderio di comporre un’opera, Sullo sviluppo

dell’ingegno umano, progettata quando ancora insegnava a Trento, che gli valse il titolo

di socio della Reale Accademia fiorentina con diploma ottenuto in data 10 maggio

1792199. Durante il soggiorno fiorentino compose anche Sulla incertezza del preciso

confine tra il Regno animale e vegetabile200, rivista e completata a Salisburgo201. A

Firenze don Francesco entrò in contatto diretto con alcune delle personalità più illustri

attorno cui ruotava il rinnovamento culturale del granducato: Felice Fontana, suo

parente per via paterna, uno dei più illustri cultori di scienze naturali a livello italiano,

Giovanni Fabbroni, uno degli intellettuali più cosmopolitici del tardo Settecento

toscano202, Marco Lastri, ecclesiastico, vicino alla proposta di una regolata devozione

muratoriana ma anche uomo di lettere interessato alla vita culturale fiorentina, come

testimoniavano la sua appartenenza a numerose accademie e gli interessi poliedrici che

coltivò: lo stesso clero, per il Lastri, doveva rendersi utile alla società anche nelle arti e

196 Ibid. 197 BCR, Ms. 7.9. 198 Felice Fontana, fratello di Giuseppe e Gregorio, nacque il 15 aprile 1729, a Pomarolo da Pietro Fontana ed Elena Catterina Genetti di Dambel, sorella di Maria Francesca Genetti (madre di Pietro Giorgio Francesco Tecini, padre del sacerdote). Da qui deriva che Felice Fontana e Pietro Giorgio Francesco Tecini erano primi cugini. Felice studiò all'Università di Padova. Nel 1765 gli venne assegnata all'Università di Pisa la cattedra di Logica, per passare, nel 1766, a quella di Fisica. Nel 1765 fu chiamato a Firenze dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo (1747-1792) che lo nominò Fisico di Corte e Direttore del Gabinetto di fisica di Palazzo Pitti, affidandogli il compito di organizzare le collezioni di scienze naturali e di strumenti scientifici del Museo di Fisica e Storia Naturale. Tra il 1775 e il 1776 effettuò, con Giovanni Fabbroni (1752-1822), un viaggio in Francia e in Inghilterra che gli consentì di acquisire documenti e libri per il Museo e di realizzare ricerche nel campo della chimica pneumatica e mineralogica. Il Museo, del quale Fontana assunse la direzione, divenne in pochi anni un'importante istituzione scientifica. Studiò a fondo e con risultati spesso originali i problemi legati alla biologia, alla fisiologia animale e alla chimica. (P. K. KNOEFFEL, Felice Fontana, vita e opere, Rovereto, Longo, 1988). 199 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 13 200 Ibid. 201 BCR, Ms. 7.15. 202 Dizionario biografico degli Italiani, cit., vol. 43, pp. 676-685

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nelle scienze203. In quanto sacerdote per vocazione204, Tecini fu sempre molto attento a

cogliere con la giusta considerazione i contributi delle scienze che approfondì durante il

soggiorno fiorentino, mosso sempre dalla necessità di compiere un’adeguata sintesi fra

cultura e fede.

Il soggiorno a Firenze fu importante per Tecini anche per la formazione del suo

indirizzo politico riguardo ai rapporti fra stato e chiesa: qui, infatti, assorbì le istanze del

giansenismo. Tuttavia, quando nel 1791 Tecini giunse a Firenze, la situazione era molto

cambiata: venuto meno l’appoggio di Leopoldo, dopo il suo allontanamento dal

Granducato nel 1790 per succedere al fratello Giuseppe II nel titolo imperiale, e per le

tendenze marcatamente anticuriali e antiromane che il movimento in Toscana assunse, il

partito giansenista fu progressivamente emarginato. I 57 punti di riforma approvati a

Pistoia vennero condannati nel sinodo di Firenze del 1787 e il vescovo de’ Ricci

costretto a ritirarsi a Firenze come privato cittadino205. Nel 1794 con la bolla Auctorem

fidei Pio VI condannava ufficialmente il giansenismo toscano.

L’arrivo di Francesco Tecini fu inizialmente mal interpretato da quanti videro in

lui un’occasione per ripristinare i rapporti con Colloredo. Avuta notizia dell’arrivo di un

prete mandato dall’arcivescovo di Salisburgo, il monsignore de Ricci pensò che questo

ragazzo fosse “un genio tutelare mandato alla riscossa”206, non sapendo in realtà che era

“un giovane prete trentino venuto unicamente per coltivarvi, per nulla diretto dal

Principe alla loro società, della quale non gli aveva fatto neppure menzione, e d’altronde

per propria indole alieno da ogni spirito di partito”207. Rimase ben presto deluso quando

s’avvide che il ragazzo non cercava la sua conoscenza né aveva fatto richiesta di lui.

Monsignor de’ Ricci decise allora di avvicinarsi a lui personalmente aspettandolo nella

sala della biblioteca magliabecchiana, dove Francesco era solito trascorrere qualche ora

dedicandosi allo studio. Quando Tecini, rispondendo alle domande rivoltegli dal

vescovo di Pistoia, si scusò della vaghezza delle informazioni a sua disposizione perché

ancora non aveva conosciuto l’arcivescovo di Salisburgo, de’ Ricci, amareggiato,

abbandonò qualsiasi tentativo di impugnare la sua causa.

203 Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. 63, pp. 810-813. 204 Francesco Tecini era il primo di una lunga serie di fratelli: la carriera ecclesiastica era solitamente riservata, nel caso di famiglie nobili come quella a cui apparteneva il Tecini, ai figli cadetti, per garantire loro il godimento di rendite derivanti dal patrimonio famigliare che, trasformato in dotazione ecclesiastica, sfuggiva al peso fiscale godendo dell’istituto della manomorta. 205 AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. 206 Ibid. 207 Ibid.

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Durante i dieci mesi di permanenza a Firenze, Francesco visitò nel marzo 1792

Pisa, Livorno, Lucca, Pescia, Pistoia, Prato e Fiesole, conoscendo gli intellettuali più

noti di quelle città. All’avvicinarsi del termine del soggiorno fiorentino, il 3 aprile

scriveva una lettera al Vannetti confidandogli le proprie riserve sulla vita e

sull’ambiente che lo avrebbe atteso alla corte di Salisburgo. Per fortuna, scrive, veniva

confortato da chi gli assicurava che in quella città “vi sono alcune persone assai culte:

che non tutti si occupano di birra e di tarocchi, e che vi si vede anche qualche libro”208.

Ricevuta una lettera da parte dell’arcivescovo Colloredo, in cui lo invitava a

tornare in patria, Francesco, nel mese di giugno lasciò Firenze209.

Prima di recarsi alla corte salisburghese, il giovane sacerdote si trattenne per due

settimane presso il suo mecenate, il signore conte Alberti, il quale era stato anticipato

dell’arrivo e della permanenza del ragazzo con una lettera del principe vescovo. Costui

voleva che Francesco si fermasse per qualche tempo a Rovereto e seguisse le lezioni

dell’abate Paris210 per perfezionare la sua calligrafia. In questa città Francesco poté

finalmente conoscere di persona Clementino Vannetti, ma anche molte altre personalità

illustri della città: Carlo Rosmini211, il barone Giovanni Battista Todeschi212, la signora

208 BCR, Ms. 7.9. 209 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 3. 210Abate Pietro Paris, cultore della poesia, fu tra i primi ad affrontare la questione relativa al ruolo della poesia nei tempi cristiani e negli argomenti gravi. La controversia si sarebbe posta all’attenzione degli intellettuali ad inizio del XIX sec. diventando l’argomento di dibattito fra la scuola classica con Vincenzo Monti, e quella romantica con Alessandro Manzoni. L’abate Paris elaborò una originale concezione della poesia, secondo la quale essa non è solo fonte del meraviglioso ma ha anche un fondo di vero. (S. G. SIGHELE, Sulla scelta di poesie edite ed inedite di varj autori tirolesi. Discorso. Rovereto, Marchesani, 1835, pp. 42-43). 211 Carlo Rosmini, cugino di Antonio, il filosofo, nacque a Rovereto il 28 ottobre 1758. Dopo una prima istruzione ricevuta in casa, proseguì gli studi nel Collegio dei Nobili di Innsbruck. I suoi interessi erano per la letteratura, in particolare per la poesia, grazie all’amicizia con Clementino Vannetti. Fu grande amico anche di Clemente Baroni Cavalcabò e di Giovanni Battista Todeschi. Nel 1782, fu nominato socio dell’Accademia roveretana degli Agiati. Soggiornò per tre anni, dal 1786 a Ferrara. Ritornato a Rovereto, la lasciò nel 1803 per trasferirsi a Milano, dove coltivò i suoi interessi per la storia. Morì a Milano il 9 giugno 1827. (S. BENVENUTI, Notizie sulla vita dello storico Carlo Rosmini con un saggio di lettere inedite, in “Studi trentini di scienze storiche”, anno XLVIII, fasc. IV, 1969, pp. 264-288). 212 Giovanni Battista Todeschi, figlio di Ignazio Todeschi, rabbino degli ebrei di Strigno convertito al cattolicesimo, nacque a Rovereto il 15 settembre 1730. Nel 1750 fu lettore di diritto canonico a Bologna, due anni dopo socio, con il nome di “Tindanio” dell’Accademia degli Agiati, all’interno della quale esordì con alcuni componimenti poetici. Nel 1753 si spostò a Praga, dove rimase fino al 1756, fungendo da tramite fra l’Accademia e gli intellettuali tedeschi, dai quali maturò l’interesse per la musica e il teatro. Rimpatriato, partì alla volta di Innsbruck e poi dei più importanti centri culturali della penisola. Durante gli anni del riformismo teresiano e giuseppino, il barone Todeschi assunse una posizione di netta ostilità nei confronti dei sovrani perché i provvedimenti introdotti danneggiavano considerevolmente i suoi

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Telani; di Sacco conobbe Giuseppe Maria Fedrigotti213, Clemente214 e Felice Baroni

Cavalcabò215. Francesco amava Rovereto perché più che a Trento si respirava la cultura

italiana. Come anticipato, infatti, la città, per la sua posizione istituzionale all’interno

del Sacro Romano Impero ebbe un’evoluzione interna profondamente diversa dalla

storia di Trento.

5. Il periodo salisburghese (luglio 1791 – gennaio 1797)

Dopo una breve visita alla sua famiglia a Sarnonico, a metà luglio 1792

Francesco giunse a Salisburgo, dopo otto giorni di viaggio, durante i quali fu tormentato

dalle preoccupazioni di una nuova vita e dalla paura che quello stesso viaggio fra le

pianure e i monti gli suscitava216. Giunto a destinazione, fu favorevolmente accolto a

corte e subito conobbe l’arcivescovo Colloredo: il suo temperamento e il suo amore per

interessi economici. Convinto difensore dell’ordinamento cetuale (aveva ottenuto il diploma di nobiltà dal Maria Teresa nel 1751), si opponeva alla politica verticistica e assolutistica degli Asburgo. Più che compositore, il Todeschi era uno storico, autore delle Memorie patrie, e un giurista: le sue idee politiche e giuridiche furono messe per iscritto nella dissertazione Della forma dell’Impero Romano Germanico, nella quale riconosceva i limiti di questo sistema istituzionale, ma lo difendeva perché garante del particolarismo medievale. (C. ZENDRI, Un giurista e il tramonto dell’antico regime: Giovanni Battista Todeschi (1730-1799), cit., pp. 86-109). 213 Fedrigotti Giuseppe Maria Bossi, figlio di Pietro Modesto, nacque a Sacco di Rovereto nel 1728. A lui si dovette la costruzione, a sue spese, di un grande ponte sull’Adige, di un solo arco, lungo 150 piedi e alto 37. In fase di ultimazione, però, il ponte fu travolto da una piena del fiume. Il Fedrigotti si dedicò anche alla bonifica di un zona ghiaiosa di Sacco che la trasformò in un grande prato. Fu cultore di musica, appassionato di legge e ben preparato in molte altre discipline. Dal comune di Sacco acquistò la Chiesetta della Trinità che divenne poi la tomba di famiglia. Nel 1790 fu creato conte del Sacro Romano Impero. Morì nel 1817. (BCR, Ms. 20. 2-20). 214 Clemente Baroni Cavalcabò nacque a Sacco di Rovereto il 23 novembre 1726. Durante gli anni giovanili si dedicò allo studio di latino, logica, fisica, matematica. In età adulta si occupò anche di matematica applicata, idraulica, scienze naturali e meteorologia. Ebbe grande inclinazione anche per la composizione poetica. Fu membro dell’Accademia roveretana degli Agiati dal 1750. Morì il 22 dicembre 1796. (Memorie dell’I. R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto pubblicate per commemorare il suo centocinquantesimo anno di vita, cit., pp. 293-294). 215 Felice Baroni Cavalcabò: nacque a Sacco di Rovereto. La sua formazione avvenne ad Innsbruck dove, nel 1781, entrò con vari conterranei in una “Loggia di Franchi Muratori”. Ritornato a Rovereto, conobbe e strinse amicizia con Giuseppe Balsamo, più comunemente noto con il nome di Alessandro conte di Cagliostro. Con lui, Felice Baroni fondò una “Loggia Egiziana” che rappresentò il primo nucleo della massoneria egiziana del Trentino. Come molti suoi contemporanei e conterranei, fu cultore della poesia. (BCR, Ms. 20. 2-20). 216 BCR, Ms. 7.10.

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la cultura sollevarono Tecini, il quale si considerava molto fortunato a trovare “in un

paese sì rozzo un Principe di tanto ingegno, sì affabile e clemente”217.

Hyeronimus Colloredo, come già anticipato, fu il maggior sostenitore del

rinnovamento religioso dei territori meridionali dell’impero. La sua posizione di

preminenza rispetto alle chiese cattoliche tedesche, legate da un comune desiderio di

indipendenza da Roma, e i suoi frequenti contatti con la Toscana fecero di Salisburgo il

centro più fervido della riforma religiosa dell’area cattolica imperiale nel tardo

Settecento.

Le motivazioni che determinarono la volontà di rinnovamento della Chiesa

cattolica a Salisburgo non erano solo di natura religiosa ma anche economica.

Giocarono un ruolo fondamentale pure le suggestioni pedagogiche dell’illuminismo

tedesco. Diventa così difficile, se non impossibile, riuscire a quantificare con precisione

il peso del giansenismo sul riformismo di Colloredo. Ciononostante, in pratica esso si

concretizzò attraverso una serie di provvedimenti che miravano a svuotare l’anima

barocca al cattolicesimo corrente: la regolamentazione e la limitazioni delle tipiche

manifestazioni di teatralità della religiosità popolare, la sostituzione di una maggiore

semplicità negli arredi delle chiese allo sfarzo e alla ricchezza fino ad allora imperanti,

la promozione di una più solida formazione del clero, rivalutato soprattutto nella figura

del parroco, attraverso l’erezioni di seminari ad hoc, l’impulso ad una liturgia più

comprensibile ai fedeli con l’introduzione dell’uso della lingua popolare nelle funzioni,

la valorizzazione del carattere sacrificale della messa, la regolamentazione delle canzoni

e della musica sacra erano tutti provvedimenti che rientravano nei progetti di riforma

dall’alto della religiosità cattolica, in nome di suggestioni gianseniste, muratoriane e

illuministe. Colloredo da Salisburgo era in contatto con gli ambienti più vivaci del

giansenismo europeo, come testimoniano, ad esempio, gli scambi epistolari con

Scipione de Ricci218. Tuttavia, dopo l’allontanamento del vescovo di Pistoia e Prato

dalla sua diocesi, l’avvicendamento al trono di Leopoldo I, i fatti francesi, il

giansenismo italiano si arrestò e i contatti con Colloredo furono interrotti. L’ultima

lettera scritta da Scipione e diretta al vescovo di Salisburgo è datata 4 giugno 1792:

Tecini lasciò Firenze proprio nello stesso mese. Ciò significa che quando l’abate

trentino giunse a Salisburgo, il fervore del riformismo giansenista stava iniziando ormai

a entrare in una fase di crisi che lo portò al tramonto definitivo di là a pochi anni.

217 Ibid. 218 P. HERSCHE, Erzbischof Hieronymus Colloredo und der Jansenismus in Salzburg, cit., pp. 231-268.

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Tuttavia l’eco dell’esigenza di rendere più autentica la religione cristiana, restituendole

la sua credibilità e rivalutandola nella sua funzione di elemento di coesione sociale

perdurò a lungo e Tecini la fece propria. I suoi scritti, come vedremo, lo testimoniano.

A Salisburgo il giovane prete fu incaricato del riordinamento dell’Archivio

segreto della corte italiano e latino, un lavoro che lo impegnò per molto tempo dato che

nessuno prima di lui se ne era occupato. In breve, conquistò la stima e la fiducia del

Principe Vescovo Colloredo, il quale gli affidò nel 1794 il compito di trattare i propri

affari in Baviera. Il successo di questa legazione valse a Tecini, il 10 novembre dello

stesso anno, la nomina a consigliere ecclesiastico219; un titolo sine vitulo220 come egli

stesso afferma in una lettera inviata da Salisburgo il 28 dicembre 1794221 all’amico

Gaspare Crivelli222. Durante la permanenza presso la corte del Principe Vescovo

Colloredo, Tecini mantenne costanti contatti epistolari con Vannetti, fra il novembre

1792 e l’aprile 1794223, e i suoi amici in patria, come testimoniano le numerose lettere

inviate da Francesco a Gaspare in un periodo compreso fra il 1 settembre 1794 e il 14

gennaio 1797 presenti nel fondo “Famiglia conti Crivelli”224. Dalle lettere emerge come

Tecini, volendo giustificare a quest’ultimo il motivo di sì frequenti scritti, fosse mosso

dal desiderio di avere notizia di amici e famigliari rimasti in patria, ma anche dalla

necessità di avere informazioni sul variare della situazione politico-militare225: forte,

219 APP, XII. A. 15. 220 Sine vitulo: lett. “senza attestazione scritta”. 221 F. BORTOLOTTI, “La pace ha voltate le spale…”. Il tramonto di un’epoca attraverso le lettere di Gaspare Crivelli, cit., p. 153. 222 Gaspare Crivelli (1774-1856), figlio primogenito del conte Antonio Crivelli, capo console nell’amministrazione cittadina nel 1790, era l’erede di una delle più importanti famiglie cittadine. Ad una prima fase di studi e desiderio di istruirsi anche presso università prestigiose, come quella di Salisburgo, fece seguito un periodo di formazione e poi di attività stabile alle dipendenze della comunità di Trento in qualità di console nel 1803. Le numerose cariche che ricoprì negli anni successivi indicano l’intensa operosità svolta dal conte Crivelli con una notevole esperienza e competenza tecnica. (Ivi, p. 4). 223 BCR, Ms. 7.10; Ms. 7.11; Ms. 7.15. 224 F. BORTOLOTTI, “La pace ha voltate le spale…”. Il tramonto di un’epoca attraverso le lettere di Gaspare Crivelli, cit., pp. 150-173. Nel fondo della famiglia Crivelli sono presenti anche lettere inviate da Francesco a Gaspare da Sarnonico e da Pergine, fino al gennaio 1798, per un numero complessivo di trentatre lettere. 225 La rivoluzione francese nel 1792 oltrepassò i confini “nazionali” coinvolgendo numerosi Stati europei. Il 20 aprile, infatti, l’Assemblea legislativa dichiarò guerra al re di Boemia e Ungheria e nel giro di dieci mesi si trovò al centro di un conflitto europeo contro Prussia, Sardegna, Inghilterra, Paesi Bassi e Spagna, riunite nella I coalizione. Incoraggiata dai primi successi militari (vittoria a Walmy il 20 settembre, a Jemappes il 6 novembre), la Convenzione procedette a concretizzare, non senza contraddizioni, gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza esaltati dai rivoluzionari attraverso annessioni, occupazioni e ristrutturazione come stati satelliti per legare a sé in vario modo i popoli “liberati”. Tale sorte toccò alla Savoia (27

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infatti, era la preoccupazione di Francesco per la sorte che sarebbe potuta toccare ai suoi

cari rimasti in patria.

Nell’aprile del 1795 fece ritorno per un breve periodo in Sarnonico dove visitò la

famiglia. Passò poi a Trento rimanendovi per nove giorni, durante i quali fu onorato per

ben cinque volte dell’invito a pranzo da parte dello stesso Principe Vescovo Pietro

Vigilio Thun, il quale, così, dava dimostrazione della stima che nutriva nei suoi

confronti.

Le campagne napoleoniche continuavano con successo, seminando, nei territori

occupati, il terrore della violenza rivoluzionaria226.

Ritornato a Salisburgo, la situazione militare e politica europea degenerava

rapidamente. A causa della minaccia di un’invasione delle truppe francesi di

novembre 1792), a Nizza (31 gennaio 1793), al Principato di Monaco (15 febbraio), al Belgio di lingua francese e fiamminga e ai territori alla sinistra del Reno (1 marzo). Dopo l’occupazione francese di Bruxelles (8 luglio 1794), Nimega (8 novembre) e Amsterdam (20 gennaio 1795), l’Olanda fu trasformata, nel maggio del 1795, nella Repubblica batava. Nello stesso anno tutto il Belgio fu annesso alla Francia. A determinare gli esiti della politica estera francese, furono gli sviluppi di quella interna: dopo l’esperienza dell’Assemblea nazionale costituente (luglio 1789-settembre 1791), dell’Assemblea legislativa costituente (settembre 1792), del Comitato esecutivo provvisorio e della Convenzione (settembre 1792-giugno 1793), del Comitato di salute pubblica (aprile 1793-agosto 1795), il potere esecutivo venne saldamente affidato a un Direttorio, formato da 5 membri, fra cui Napoleone Bonaparte. L’incapacità di quest’organo di controllare i suoi generali diede vita a molteplici iniziative indipendenti che di fatto fecero sfuggire al Direttorio il controllo della situazione e fecero di una pace totale un miraggio lontano. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, Milano, Laterza, 2008, pp. 395-397; F. BENIGNO, L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, cit., pp. 313-326). 226 Nominato generale capo delle forze armate interne nel dicembre 1795 e dell’esercito d’Italia nel marzo dell’anno successivo, Napoleone, approfittando della debolezza del Direttorio, minacciato da un duplice nemico, interno ed esterno, e della sua posizione all’interno dello stesso organo, escogitò una possibile soluzione all’emergenza bellica: per estromettere l’Austria e il Regno di Sardegna, uniche potenze rimaste in guerra insieme all’Inghilterra, dopo i trattati di pace di febbraio-luglio 1795, fu sferrato un duplice attacco, uno in Italia, l’altro in territorio imperiale. Alla guida dell’esercito francese che nel marzo 1796 invase il Piemonte, dando inizio alle campagne d’Italia, Napoleone Bonaparte riuscì a riscuotere rapidi e importanti successi militari tanto che nel giro di poche settimane legò alla Francia, attraverso la creazione delle cosiddette “repubbliche sorelle”, gran parte dei territori centro-settentrionali. Dopo l’assedio di Mantova, Napoleone si apprestò ad invadere il Trentino da sud: il 4 settembre fu occupata Rovereto, il 5 Trento. Già a fine maggio, Pietro Vigilio Thun riparò in Passavia. Con il passare degli anni, l’iniziale favore con cui i patrioti dei Paesi occupati avevano salutato i rivoluzionari perché visti come liberatori e portatori di progresso e civiltà, lasciò il posto al timore e a un atteggiamento di netta ostilità e resistenza per le violenze di cui gli stessi francesi si erano fatti promotori: essi, infatti, si caratterizzarono per una condotta militare, fatta di saccheggi, requisizioni, obbligo di alloggiare i soldati e di pagare contributi di guerra, tanto indisciplinata da alienarsi le simpatie di tutti. Soprattutto dopo la vittoria di Fleurus (26 giugno 1794), la direttiva generale era quella di considerare tutti i paesi occupati come territorio nemico il cui suolo doveva fornire il mantenimento dell’esercito. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 26 e 395-397).

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Salisburgo, che alla guida del generale Jourdan avevano già occupato la Baviera227,

l’Arcivescovo Colloredo decise di mettere in salvo gli archivi e le cose preziose

trasferendo tutta la corte nella fortezza di Radstadt, piccola città salisburghese ai confini

con la Stiria. La corte lasciò la capitale “l’ultimo d’ Agosto”228 1796; al suo seguito

c’era anche don Francesco Tecini, presente per assecondare il desiderio del suo

“padrone”229. Nell’eventualità gli emigrati si sarebbero portati fino a Graz, ma le

circostanze permisero loro di fermarsi a Radstadt. Il principe vescovo, invece, si

trattenne a Salisburgo, sempre pronto però a scappare in caso di necessità230.

Dopo il ritiro delle truppe francesi dalla Baviera, a fine settembre la corte poté

finalmente rientrare nella Capitale231.

Nelle due settimane successive, don Tecini fu impegnato in un’intensa attività di

scrittura: in occasione della morte del Principe Vescovo di Passavia, avvenuta il 7

ottobre 1796, fu incaricato della stesura di un’orazione funebre in latino232, in suo

onore.

Pur non sopportando la rigidezza del clima in Germania233, Francesco si trovava

bene alla corte salisburghese. Nonostante essa non potesse competere, in ambito

culturale, con Firenze e Rovereto, diede dimostrazione di quanto la poesia italiana,

ritenuta allora la più adatta ad essere messa in musica, fosse, anche lì, tenuta in

considerazione. In occasione della nascita del figlio primogenito del Conte Francesco di

Lodron, maresciallo di corte, Tecini, fu incaricato di scrivere una cantata, sulle orme di

quella di Metastasio, intitolata Il sagrifizio di amore234, musicata poi dal maestro Gabbi.

227 L’attacco militare contro l’Impero attraverso il superamento del Reno rientrava nella strategia del Direttorio di colpire Francesco II nei suoi territori in Germania e in Italia per indebolirlo a tal punto da indurlo ad una pace a esclusivo vantaggio della Francia. Il 24 giugno le truppe francesi al comando del generale Moreau oltrepassarono il Reno mentre già a maggio Napoleone aveva occupato tutta l’Italia settentrionale. (M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento: vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 33). 228 F. BORTOLOTTI, “La pace ha voltate le spale…”. Il tramonto di un’epoca attraverso le lettere di Gaspare Crivelli, cit., p. 168. 229 Ibid. 230 Ivi, p. 169. 231 Ivi, p. 168. 232 F. TECINI, Monumentum parentale Thomae Joannis Episcopi, et S.R.I. Principis pataviensis ex comitibus de Thun, et Hochenstein Viri incomparabilis sempiterna memoria sacrum, Salisburgo, 1796. 233 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 4. 234 AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965.

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Il rapido degenerare della situazione europea e le minacce di secolarizzazione235

dei Principati Vescovili fecero maturare in lui la volontà di lasciare Salisburgo: chiese e

ottenne, non senza resistenza dal parte del Principe Vescovo236, le proprie dimissioni, a

patto di procurargli un uomo capace di sostituirlo dignitosamente. Don Tecini presentò

il nome del roveretano abate Tacchi, che era stato al servizio del Principe Vescovo di

Lichtenstein.

Adempito il suo ultimo incarico presso la corte salisburghese, poté lasciare la

città, per assumere la guida spirituale della parrocchia affidatagli dal Principe Vescovo

di Trento, al quale aveva fatto richiesta di un collocamento in cura d’anime. Pietro

Vigilio Thun lo nominò Arciprete e decano di Pergine, probabilmente anche come

segno di riconoscenza nei confronti dell’autore dell’orazione funebre del proprio

fratello237.

Tecini pensò di partire alla volta della patria già a inizio gennaio, ma avuta notizia di

una seconda invasione francese di Trento238, si trattenne a Salisburgo fino a quando fu

informato della liberazione della città per conto dell’armata austriaca guidata dal conte

Neiberg. Tecini si mise in viaggio insieme a suo fratello Nicola, il giorno 18 aprile239.

Il viaggio si svolse serenamente fino ad Innsbruck, dove i fratelli Tecini

incontrarono un tale Girolla, roveretano con il quale proseguirono verso la patria.

Superata Innsbruck, i tre viaggiatori si trovarono di fronte ad uno spettacolo di morte e

di devastazione che era solo il primo risultato dei combattimenti di cui quei posti furono

teatro: immagini che li accompagnarono fino a Bolzano, passando per Sterzing,

Bressanone, Colman. Da Bolzano si diressero a san Paolo d’Appiano e da qui a

235 Quando l’Impero, dopo un periodo iniziale di neutralità, su pressione di Francesco II dichiarò guerra alla Francia (22 marzo 1793), già allora era emersa la necessità di far fronte alle spese di guerra e di indennizzare i principi tedeschi (soprattutto la Prussia) dei territori loro sottratti dall’espansionismo francese attraverso la secolarizzazione dei principati vescovili. (M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento: vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 33). 236 Girolamo Colloredo, nel tentativo di persuadere don Tecini dalla decisione di lasciare Salisburgo, gli offrì un notevole aumento di paga e un migliore appartamento. (ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 4). 237 A. ZIEGER, Cenni biografici su: don Francesco Tecini parroco-decano di Pergine, cit., p. 47. 238 La seconda occupazione francese di Trento avvenne il 29 gennaio 1797. Tale governo provvisorio si protrasse fino al 10 aprile quando tornarono gli austriaci. (A. CASETTI, Guida storico-archivistica del Trentino, cit., p. 828). 239 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 5. Don Tecini lasciò Sailsburgo proprio il giorno dell’inizio dei preliminari di pace di Leoben che portarono alla firma del trattato di Campoformio nell’ottobre dello stesso anno.

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Sarnonico, dove i fratelli Tecini si ricongiunsero con la famiglia e poterono finalmente

riposare240.

Recatosi poi a Trento, domenica 2 luglio 1797, Francesco ottenne il possesso

dell’Arcipretura e Decanato di Pergine dal Canonico e Vicario generale Simone Albano

Zambaiti241.

6. Il periodo perginese (settembre 1797 – dicembre 1853)

Il periodo biografico più interessante di Tecini è quello degli anni perginesi,

perché si colloca all’interno di un contesto storico caratterizzato da forti cambiamenti

politici a livello europeo che ebbero un’eco tangibile anche in ambito locale. Le vicende

politiche di fine Settecento e della prima metà dell’Ottocento furono il risultato di un

lungo processo di trasformazione che affondava le radici nel vasto e variegato universo

culturale di matrice illuminista di metà Settecento. Fu un periodo controverso per la

complessità dei presupposti da cui partirono i programmi di riforma che

caratterizzarono la seconda metà del XVIII sec. e per gli esiti a cui si giunse negli anni

successivi. La vicenda biografica di Tecini, del periodo perginese, testimonia la

singolarità della temperie culturale e politica di primo Ottocento.

6.1. Don Tecini e il primo governo austriaco (1797-1806)242

Giunto a Pergine, il nuovo parroco fu accolto dalla comunità con grande giubilo.

Insediatosi ai primi di settembre si trovò subito coinvolto in una difficile questione,

lasciata in eredità da don Giovanni Battista Mersi243, che riguardava il parroco, da una

parte, le Regole244 e le Gastaldie245, dall’altra, a proposito di alcuni problemi pastorali

240 Ivi, pp. 5-7. 241 G. TOVAZZI, Parochiale Tridentinum, cit., p. 601. 242 Dal 10 aprile 1797 il Trentino era passato agli Austriaci. 243 Giovanni Battista Mersi da Trento (1734-1797). Figlio del nobile Andrea Mersi, nel 1780 ottenne la parrocchia di Pergine da don Francesco Santoni Arciprete della collegiata di Arco, ma in un primo momento vi rinunciò. Ne prese possesso solo quando anche il candidato che lo doveva sostituire, don Angelo Pellizzari, arciprete di Condino, rinunciò perché trattenuto dai suoi parrocchiani. Don Battista Mersi fu insediato nella parrocchia dal Canonico Trentino Giuseppe Urbano barone Buffa da Scurelle, a nome del vescovo di Feltre, il 5 novembre 1780. Fu pure Vicario Foraneo. Nel 1797 rinunciò alla parrocchia in favore di don Tecini e ritornò a Trento, dove morì lo stesso anno, il giorno sabato 9 settembre. (S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., pp. 630). 244 Regola: piccola comunità dotata di grande autonomia amministrativa retta da un Regolano, eletto dai capifamiglia della comunità e confermato poi dal signore feudale della giurisdizione

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ma soprattutto in relazione al pagamento delle primizie, ovvero la tassa parrocchiale.

Tecini si prodigò per la risoluzione del problema in modo tale che la controversia

potesse considerarsi definitivamente conclusa: consapevole che le rivendicazioni

avanzate dalle Gastaldie e dalle Regole della Giurisdizione di Pergine erano in parte

legittime246, riuscì ad escogitare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti. La

convenzione, di cui egli fu l’autore, fu accettata dalle parti in causa il 14 dicembre 1797

e firmata dalla Curia vescovile di Trento il 24 gennaio 1798247. La convenzione era

maturata anche nella volontà di garantire agli abitanti dell’intero decanato la possibilità

di vivere la fede religiosa in tutte le sue forme: se prima del 1797 i curati avevano

limitate funzioni, ora, in virtù della convenzione, essi ottennero “tutte quelle funzioni

edificanti e utili al popolo”, come ad esempio il diritto di battistero. Il diritto di

sepoltura fu, invece, riconosciuto solo ai curati delle Chiese più distanti da Pergine248.

Si trattò di una sorta di decentramento e delega di competenze in funzione di una

diffusione più capillare della devozione religiosa. Allo stesso principio si rifece,

nell’ottobre 1798, il permesso accordato al Direttore delle Scuole Normali di Pergine di

far celebrare la messa nei giorni feriali in un’aula dell’edificio. In questo modo si

avrebbe permesso la partecipazione alla messa, nei mesi invernali249, dei 120 giovani

che frequentavano la scuola.

del Castello di Pergine. La Giurisdizione del Castello di Pergine, formata a partire dal Cinquecento da circa una ventina di regole, era l’organo intermedio fra il Principato Vescovile e le numerose comunità perginesi. Esse si organizzarono, nel corso del tempo, in organismi istituzionali rappresentativi delle loro rivendicazioni che facilitarono i rapporti con il governo centrale: la Grande Comunità perginese prima (formata da dodici uomini rappresentativi di tutte le regole) e le sette galstaldie poi. (Ivi, pp. 331 e 346-352). 245 Gastaldia: da gastaldo, di derivazione longobarda (“gastaldan”) per alcuni, o tedesca (da “Haushaldus”) per altri, significa amministratore. I gastaldi svolgevano primariamente funzioni amministrative e raramente giudiziarie. Originariamente, in epoca longobarda, esisteva una grande Gastaldia, la cui amministrazione era demandata ad un unico gastaldo che esercitava le sue funzioni su un territorio ampio, estendendosi probabilmente in Valsugana fino a Cismon. Nel Trecento la grande Gastaldia di Pergine si ridusse, fino ad essere poi sostituita dalla Giurisdizione del Castello di Pergine. Al gastaldo subentrò il capitano del castello. A partire dalla seconda metà del Quattrocento le numerose regole della Giurisdizione del Castello di Pergine si organizzano in circoscrizioni territoriali più ampie: le gastaldie, per un totale di sette. La nascita delle sette gastaldie probabilmente coincide con la dissoluzione della Grande gastaldia e la formazione della Giurisdizione del Castello di Pergine. (Ibid.). 246 ADT, Libro B (97), 1798, n. 289 ½. 247 Ibid. Il padre francescano Salvatore Piatti ne fa una buona analisi in S. PIATTI, Pergine. Vita e cammino di una comunità cristiana, Pergine Valsugana, Biblioteca comunale, 2006, pp. 25-27. 248 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 411. 249 Don Tecini accordò il permesso al Direttore a patto che questa concessione si limitasse ai mesi invernali, durante i quali i giovani, a causa del freddo e dello stato precario delle strade, non avrebbero partecipato alla messa. In cambio il sacerdote richiese il pagamento della tassa

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Questi provvedimenti gli valsero subito la stima dei suoi parrocchiani, ai quali

diede, fin dalle prime battute, dimostrazione delle capacità diplomatiche e dell’innata

filantropia, a cui ispirava la sua azione pastorale.

Con lettera episcopale datata 22 febbraio 1798 il Principe Vescovo Pietro Vigilio

Thun nominò don Tecini esaminatore pro sinodale, in virtù della sua competenza e delle

sue doti250.

Durante i primi anni di attività pastorale, il parroco si trovò a fare i conti con una

situazione socio-politica, molto delicata: dopo la prima occupazione francese di Trento

e il successivo frenetico avvicendarsi di governi provvisori251, iniziò a serpeggiare fra i

perginesi una forte sensazione di instabilità e precarietà. La situazione era inoltre

aggravata dalla presenza degli acquartieramenti militari che rendeva difficile la

convivenza e dalle novità che aggiornavano gli abitanti riguardo agli sviluppi della

situazione politico-miltare europea252 . In questa circostanza l’ottima conoscenza del

parrocchiale, come stipulato nella convenzione, ma essendo le scuole gratuite, per incentivare la frequentazione da parte dei ragazzi, quindi prive di fondo, il direttore non poteva permettersi tale spesa. Si appellò dunque all’Ordinariato affinché intercedesse perché la tassa fosse ridotta, come avvenne. (ADT, Libro B (97), 1798, n. 333). 250 ADT, Libro B (95), 1798, n. 52. 251 L’occupazione napoleonica di Trento avvenne il 5 settembre 1796. Preso possesso della città, Napoleone disconobbe la Reggenza Capitolare, dando vita alla prima breve esperienza governativa francese, con l’istituzione di un governo provvisorio, detto Consiglio di Trento. Due mesi dopo (5 novembre), gli austriaci liberarono Trento dall’occupazione francese e il 7 novembre affidarono la città a Sigismondo von Moll e il 16 dello stesso mese fu istituito un imperial regio Consiglio Amministrativo. il 29 gennaio, però, tornarono i francesi i quali introdussero un Consiglio centrale di Trento, attivo fino 10 aprile 1797. A quella data i francesi furono sostituiti dagli austriaci che ripristinarono il Consiglio amministrativo. Quest’esperienza si protrasse per qualche anno fino al 7 gennaio 1801, quando tornarono nuovamente i francesi, occupando anche Bolzano, e insediarono, seppur per breve tempo, un Consiglio Superiore del Governo del Trentino e del Tirolo meridionale con presidente Carlo Antonio Pilati e segretario Giandomenico Romagnosi. Anche quest’esperienza si esaurì nel giro di poche settimane perché dopo la firma della pace di Luneville (9 febbraio 1801), il 30 marzo i francesi vennero cacciati da Trento dove fu istituito un nuovo governo, il Consiglio Aulico Capitolare, formato dal Decano, l’Arcidecano e da un Canonico. (A. CASETTI, Guida storico-archivistica del Trentino, cit., pp. 827-828; U. CORSINI, Ceti nobiliari e alta burocrazia nella crisi fra Sette e Ottocento: la figura di Sigismondo Moll, in Atti del convegno Sigismondo Moll e il Tirolo nella fase di superamento dell’antico regime, cit., pp. 154-146). 252 L’anno 1797 decretò il successo delle campagne napoleoniche in Italia, con la firma del trattato di Campoformio (17 ottobre), preceduto dai preliminari di pace di Leoben nell’aprile. L’anno successivo, invece, vide Bonaparte impegnato nel tentativo di mettere fuori gioco l’Inghilterra, colpendola nei suoi interessi economici: l’obiettivo era la conquista dell’Egitto, naufragato con la distruzione della flotta francese nella battaglia del Nilo (2 agosto 1798), per opera del generale inglese Nelson. Approfittando dell’importante successo militare, le forze europee si riunirono nella seconda coalizione, cui si aggiunsero anche l’impero russo e quello ottomano. Gli effetti della ripresa bellica si videro soprattutto in Italia dove nel 1798-99 vennero abbattute le repubbliche costituitesi negli anni delle campagne napoleoniche. L’incompatibilità delle mire imperialistiche francesi col raggiungimento della pace era una contraddizione di fondo che dopo il colpo di Stato militare del 18 brumaio 1799, con cui il Direttorio venne

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tedesco e del francese permisero a don Tecini di farsi mediatore fra i soldati e i civili253,

agendo ancora una volta nell’interesse dei parrocchiani, senza però assumere posizioni

politiche e atteggiamenti di ostilità nei confronti dei vari governi. In occasione di una

contesa scoppiata il 13 ottobre 1802 fra il sindaco della comunità di Pergine, il dott.

Giovanni Grillo, e il capitano Burke del reggimento Neugebauer, don Tecini con il suo

intervento tempestivo riuscì a calmare gli animi e a risolvere senza disagi una rissa che,

altrimenti, rischiava di sfociare in un vero e proprio conflitto armato fra popolo e

soldati. Tale successo gli valse la concessione di un decreto di lode, datato 18 ottobre

1802254, da parte della Reggenza di Trento255.

L’anno successivo segnò l’inizio di una nuova fase della storia trentina e, nella

fattispecie di quella perginese: la pace di Parigi del 26 dicembre 1802 ratificava la

secolarizzazione del Principato di Trento e Bressanone attribuiti a Francesco II per

risarcirlo dei territori (il bailato di Ortenau e la Bresgovia) ceduti al duca di Modena.

Con patente del 4 febbraio 1803, l’imperatore dichiarava i due principati annessi

all’Austria e uniti alla provincia del Tirolo. L’atto formale che rese esecutiva la

secolarizzazione fu il Recessus Imperii deciso dalla Dieta di Ratisbona il 25 marzo 1803

e ratificato da Francesco II il 27 aprile. Tuttavia, il conte Ferdinand von Bissingen,

sciolto e si autoproclamarono consoli della repubblica Sieyès, Bonaparte (primo console) e Roger Ducos, si era aggravata. Napoleone, pur avendo perso il controllo sull’Italia, non si rassegnò e, approfittando della sconfitta della Russia a Zurigo (25-27 settembre 1799), in seguito alla quale lo zar ritirò il suo appoggio alla seconda coalizione, varcò nuovamente le Alpi infliggendo una dura sconfitta alle forze sarde e imperiali a Marengo. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 36 e 398; F. BENIGNO, L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, cit., pp. 331-332). 253 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 8. 254 APP, XII. A. 15. 255 Dopo la vittoria delle truppe francesi sull’Austria prima a Marengo (14 giugno 1800) e poi a Hohenlinden (3 dicembre), Napoleone impose al nemico il trattato di pace di Lunéville, firmato il 9 febbraio 1801. Esso prevedeva la secolarizzazione dei principati ecclesiastici da assegnare ai principi tedeschi spodestati dalla Francia. Questo provvedimento sarebbe stato poi ratificato dalla Dieta di Ratisbona del 25 febbraio 1803. Nel frattempo le truppe francesi, che avevano occupato per la terza volta Trento, abbandonarono la città perché le città interessate al cambio di sovranità dovevano rimanere libere sia dall’occupazione militare francese che austriaca. Il generale Mac Donald reintegrava nelle sue funzioni di guida spirituale e temporale il Consiglio di Reggenza istituito dal Principe Vescovo Pietro Vigilio Thun al momento della fuga da Trento nel maggio 1796. (M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, in M. GARBARI, A. LEONARDI (a cura di), Storia del Trentino. L’età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, vol. V, p. 13-16; A. CASETTI, Guida storico-archivistica del Trentino, cit., pp. 827-828; U. CORSINI, Ceti nobiliari e alta burocrazia nella crisi fra Sette e Ottocento: la figura di Sigismondo Moll, cit., pp. 154-156). Nel 1802 (25 marzo) la pace di Amiens portò a una sospensione della conflittualità anche con la Gran Bretagna. Sul piano interno i rapporti fra la Francia di Napoleone e la Santa Sede vennero disciplinati sulla base del concordato firmato nel luglio 1801. Il 2 agosto 1802, Bonaparte si fece proclamare console a vita. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 36-37).

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governatore del Tirolo, prendeva possesso del principato a nome dell’imperatore già il 7

novembre 1802256. La secolarizzazione del 1803, nelle cronache della stampa periodica

coeva, fu salutata con grande entusiasmo dalla popolazione e vissuta come “l’epoca

fortunatissima”257. Così a Trento, Revò, Malè e anche a Pergine: giurisdizione tirolese

dal 1531, la secolarizzazione significò il ritorno del borgo sotto il Governo dell’Augusta

Casa d’Austria, festeggiato “colla più solenne pompa, e giubilo universale”258. La

celebrazione iniziò con il corteo di tutte le autorità costituite, i pubblici amministratori e

rappresentanti, il ceto dei notai e degli avvocati preceduti dalla banda locale e da due

Compagnie di Bersaglieri che scortavano lo Stendardo Imperiale. Il corteoe dalla casa

del Consiglio comunale si recò al luogo appositamente allestito per la lettura del

proclama. Nonostante le condizioni meteorologiche avverse, ci fu una grande

partecipazione popolare. Alla lettura del proclama seguì la celebrazione di una Messa

solenne nella Chiesa parrocchiale dove don Tecini non dimenticava di sottolineare “la

fedeltà del popolo Perginese dimostrata in ogni tempo”259. A rendere ancora più solenne

la Sacra Funzione concorrevano la musica, “i mortari del Castello, la gran copia dei

lumi e torcie accese”260. Fu comunque l’inizio di un periodo travagliato.

La difficile congiuntura economica di quegli anni era causa di frequenti

manifestazioni di scontento da parte del popolo: nel novembre del 1805, alcuni

perginesi tentarono di saccheggiare un magazzino militare di grano, conservato nella

Chiesa di S. Carlo. Anche in questa circostanza l’intervento impavido del parroco, che

con carisma riuscì a far desistere dalle loro intenzioni i rapinatori, e quanti ad essi si

erano affiancati, permise il ripristino della quiete pubblica. Don Tecini, infatti, dopo

aver illustrato ai suoi parrocchiani gli esiti negativi di tanta violenza, promise loro che la

sera stessa si sarebbe recato dal giudice per ottenere il permesso per distribuire

equamente la farina. All’indomani, dopo una messa solenne, il parroco mantenne fede

alla parola data, accontentando i suoi fedeli261.

256 M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., pp. 13-16; A. CASETTI, Guida storico-archivistica del Trentino, cit., pp. 827-828. 257 R. PANCHERI, “É giunta finalmente l’epoca fortunatissima”. La secolarizzazione del 1803 nelle cronache della stampa periodica coeva, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., pp. 265-267. 258 Ivi, p. 266. 259 Ibid. 260 Ibid. 261 APP, XII. A. 15.

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6.2. Don Tecini: un sacerdote filo bavarese (1806-1809)262

Il successo di questa azione, pur avvenuta durante il governo austriaco, fu tale

che don Tecini, con decreto del 1 maggio 1807, fu decorato con la medaglia d’oro del

merito civile da “S. M. il Re Massimiliano Giuseppe”263. Già l’anno prima, l’azione

pastorale di don Tecini fu premiata con un attestazione di lode sottoscritta dal Regio

Bavaro Ufficio Commissariale di Pergine, datata 23 giugno 1806264. Tuttavia quello di

novembre del 1805 non fu l’unico caso di agitazione notturna: se ne verificò uno anche

la notte precedente. E dovevano essere numerosi se il parroco, l’anno successivo,

richiese all’Ordinariato il permesso di annullare le funzioni notturne, anticipandole a

prima che imbrunisse, perché ritenute potenziali occasioni di disordine. Inoltre,

desiderava che anche le campane non suonassero “prima dell’ora solita della prima

messa”265. In occasione della visita pastorale nel decanato del settembre 1828, Tecini

informava l’Ordinariato di come anche le “bettole oltre modo moltiplicate a Pergine e

introdotte anche nei villaggi prima privi” fossero causa di risse, furti, bestemmie,

“propagazione delle massime irreligiose: mali visibilmente crescenti a proporzione che

crebbe il numero delle bettole”, arrecando grave danno ai costumi del clero e alla

morale dei giovani. Dal canto suo il Vescovo sollecitava il parroco ad esortare tutti i

sacerdoti del decanato a dare per primi il buon esempio, conducendo, in quanto uomini

di Dio, una vita nell’integrità morale, temperanza, carità, castità. Seguiva poi l’invito di

262 Alcuni provvedimenti adottati da Napoleone, segni inconfutabili di un imperialismo in espansione, incrinarono l’equilibrio sancito dalle paci di Lunèville e Amiens e determinarono la ripresa della conflittualità: nel maggio 1803 rientrò in guerra con l’Inghilterra. Nel frattempo, la costituzione dell’anno XII, approvata il 18 maggio 1804, trasformava la carica di primo console a vita in imperatore dei francesi. Di fronte a questa provocazione Francesco II assume il titolo di imperatore d’Austria (11 agosto) e nel giro di un anno (agosto 1805) lo spinse alla guerra soprattutto l’assunzione da parte di Napoleone del titolo di Re d’Italia (19 marzo 1805). Anche la Russia e la Prussia furono nuovamente coinvolte nel conflitto. Contro la formazione della terza e poi della quarta coalizione Napoleone si alleò con Wurttemberg e Baviera. I successi militari contro le forze austro-russe (a Ulm, 15 ottobre 1805 e a Austerliz, 2 dicembre 1805), prussiane (a Jena e Auerstadt, 14 ottobre 1806) e russe (a Friedland, 14 giugno 1807) aprirono nuove trattative di pace: ciò che in questa sede interessa è il trattato di Presburgo del 26 dicembre 1805, con il quale l’Austria venne cacciata dall’Italia. Il Veneto fu annesso al Regno d’Italia mentre Tirolo e Trentino furono ceduti alla Baviera. L’anno successivo i territori tedeschi furono riorganizzati nella Confederazione del Reno (12 luglio 1806), formata da sedici principi, in sostituzione del Sacro Romano Impero che dichiarò estinto il 1 agosto dello stesso anno. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 37-44). 263 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 10. 264 APP, XII. A. 15. 265 ADT, Libro B (120), 1806, n. 65.

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fare delle omelie pubbliche e private lo strumento privilegiato per l’educazione dei

laici266.

Il parroco, pienamente conquistato ad una concezione illuminata e progressista

della vita, rivestì un importante ruolo di mediazione fra occupati e occupanti anche da

un punto di vista ideologico. Il popolo, tradizionalmente conservatore e portato a vedere

nell’immobilismo politico e sociale le garanzie di una vita pacifica e ordinata, avversava

qualsiasi novità. I governi che si avvicendavano al potere, invece, pur nella diversità dei

principi che li legittimavano, erano accomunati da un una forte tensione verso la

modernità che prendeva forma in un modello di stato accentrato e forte. Frazionismo e

tradizione da una parte, accentramento e progresso dall’altra. Consapevole del

potenziale di rinnovamento a vantaggio del popolo insito in uno stato verticistico e

illuminato, quali erano l’Austria, la Baviera e poi la Francia, ma contemporaneamente

sensibile alle esigenze dei parrocchiani, don Tecini si prodigò affinché le novità

introdotte non fossero percepite come calate dall’alto, come d’altro canto avveniva. Si

preoccupò di acclimatare il suo popolo ai cambiamenti attraverso un’intensa e continua

azione educativa e pastorale: solo in questo modo esso poté accettare consapevolmente

e beneficiare dell’ammodernamento in atto. Don Francesco era un intellettuale

illuminato, amava la cultura e non aveva mai smesso di dedicarsi allo studio nonostante

i numerosi impegni connessi al suo ruolo di decano e parroco. Ma prima di tutto era un

uomo di Dio: era un sacerdote che, affinata la sua formazione a contatto con gli

ambienti riformisti tardo settecenteschi, promuoveva una religiosità più semplice nelle

forme e più consapevole e matura nei contenuti a partire dall’esaltazione del precetto

dell’amore. Era, innanzitutto, dal pulpito che educava il suo popolo, come avvenne

quando, all’indomani dell’insediamento del governo bavaro, pronunciò un’omelia,

subito data alle stampe267, in difesa della legge per combattere il vaiolo. Importante fu la

sua risoluta presa di posizione a favore dell’introduzione delle scuole elementari

spiegando in un’omelia, anch’essa pubblicata268, i vantaggi e la necessità delle nuove

scuole bavaresi: l’istruzione doveva essere estesa a tutti perché avrebbe favorito

l’incivilimento e il progresso della società. Particolarmente sentito era in lui il problema

dell’istruzione, di cui si occupava direttamente in qualità di Ispettore scolastico.

266 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 411. 267 F. TECINI, Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione. Omelia recitata al suo popolo il 4 gennaio 1807, Trento, Monauni, 1807. 268 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove re. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle. Omelia recitata al suo popolo di Pergine li 15 gennaio 1809, Trento, Monauni, 1809.

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La recita dell’omelia avveniva a poco tempo prima che Andreas Hofer

infiammasse la rivolta antibavarese, in difesa della piccola patria269.

La posizione filo-bavarese del parroco di Pergine, apertamente manifestata già

nel 1806 al momento del passaggio del Trentino al governo di Massimiliano I270, fu

interpretata dai rivoltosi come un atto di servilismo opportunistico nei confronti

dell’Imperatore. L’insurrezione antibavarese nel perginese e, nel Trentino in generale, si

caratterizzò, però, per una minore partecipazione popolare e partì da un disagio meno

acuto rispetto alla parte tedesca del Tirolo271; tuttavia don Francesco, inviso agli insorti,

si vide costretto ad abbandonare il borgo e a riparare sulle montagne vicine, presso

alcuni amici272. I Gastaldi, compreso quello di Pergine, fecero pressioni presso il

governo austriaco affinché sottraesse la parrocchia a don Tecini e la affidasse, almeno

temporaneamente, a don Mariotti, in attesa di una sistemazione futura, da cui, a loro

avviso, il prete filo-bavarese doveva rimanere fuori. Nonostante la loro aperta ostilità

nei suoi confronti, don Tecini, dopo la conclusione della rivolta hoferiana, si adoperò

per la liberazione di tre gastaldi273, i quali, al ritorno delle truppe francesi, erano stati

imprigionati.

Il merito di Tecini aumentava agli occhi del re Massimiliano: infatti, nel maggio

1809 giunse al parroco, tramite il commissario Welsperg una lettera scritta per ordine

del primo ministro Montgelas, nella quale a nome di S. M. il Re veniva invitato ad

accettare l’impiego di regio bavaro consigliere aulico ecclesiastico con salario annuo di

seicento fiorini imperiali, oltre a un quartiere, lumi, legna e servitore pagato. In caso

d’accettazione Tecini doveva portarsi immediatamente a Monaco, proposta che rifiutò

con un “ossequioso ringraziamento”274.

Il triennio di dominazione bavarese coincise con un momento molto delicato

della storia della diocesi trentina, all’indomani della secolarizzazione275. Ancora una

269M. NEQUIRITO, I trentini e la sollevazione tirolese del 1809: dalle svalutazioni dell’età dei sentimenti nazionali alle odierne riconsiderazioni in chiave autonomista, in “Geschichte und Region. Storia e regione”, 16 (2007), vol. 2, pp. 90-117. 270 F. TECINI, Pel solenne possesso preso a sua maestà Massimiliano Giuseppe re di Baviera del S.R.I arci-conte Palatino, arcidapifero, ed elettore ec. ec. del Tirolo, e Principato di Trento, 1806. 271 M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., p. 19. 272 S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., p. 632-633. 273 I gastaldi imprigionati furono quello di Pergine, Susà e Viarago. Riuscì ad ottenere la liberazione del primo nel giro di poco tempo. Gli altri due però furono ugualmente deportati a Mantova. (ACP,fascicolo 164; Ibid.). 274 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 10. 275 Alla morte di Pietro Vigilio Thun, il Capitolo elesse il 2 aprile vescovo di Trento Emanuele Maria Thun, cugino e già vescovo suffraganeo di Pietro Vigilio. L’elezione fu confermata dal

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volta entrava in gioco don Tecini, il quale, durante il periodo di vacanza della cattedra

vescovile, il 1 marzo 1808 fu nominato dal Capitolo Provicario generale276, affiancando

il Vicario Spaur, inviso, quest’ultimo, al nunzio apostolico a Vienna Antonio Severoli, a

tutta la gerarchia pontificia, nonché a qualche membro del clero trentino277. In

quell’anno si diffuse a Trento una severa invettiva anonima anche contro don Tecini, sul

modello di quella pronunciata contro lo Spaur278. L’incarico di provicario generale lo

costrinse ad allontanarsi da Pergine: per ovviare alla sua assenza si premurò di collocare

alla guida del decanato due ottimi cooperatori ai quali fu affiancato un terzo, che Tecini

pagò di tasca propria. Tuttavia per la relativa distanza del borgo dalla città, egli faceva

frequenti scorse a Pergine, riuscendo a occuparsi personalmente almeno delle questioni

più importanti. Il suo zelo e la corretta condotta morale, di cui in ogni circostanza diede

dimostrazione, gli valsero la concessione, da parte dell’Ordinariato, di un’attestazione di

stima con patente di lode datata 7 maggio 1809279. Nell’agosto dello stesso anno, nuove

insurrezioni popolari nella città di Trento contro le autorità bavaresi, costrinsero il

parroco a interrompere una vacanza in Sarnonico, intrapresa per una cura,e a tornare il

città.

Quelli della dominazione bavarese furono anni di intensa attività pastorale e

letteraria: oltre alle già citate omelie pubblicate, don Tecini, all’indomani

dell’insurrezione hoferiana, scrisse un opuscolo, pubblicato nel 1810, con cui invitava i

sudditi all’obbedienza all’autorità costituita280. L’incarico di provicario generale lo

impegnò particolarmente soprattutto da quando la diocesi di Trento fu ingrandita con

l’aggiunta di una parte di quella di Coira. Inoltre, a causa dell’età avanzata di Spaur,

nuovo pontefice Pio VII (1800-1823) il 24 aprile 1800, ma Emanuele Vigilio Thun non ottenne l’investitura temporale dall’Imperatore Francesco, il quale mirava segretamente ad annetterlo ai domini diretti di casa d’Austria. Sia negli anni austriaci sia in quelli bavaresi, egli si scontrò fortemente con le autorità politiche condannando la loro intransigenza in materia ecclesiastica. Il 5 gennaio 1801, all’avvicinarsi delle truppe francesi di Mac Donald, il vescovo fuggì a Vienna, da cui fece ritorno il 6 aprile 1806: tuttavia, a causa dei continui contrasti con il potere bavarese, Emanuele Vigilio fu dichiarato decaduto e confinato a Salisburgo. Considerata la sede vescovile vacante, il capitolo elesse come vicario Giovanni Francesco Spaur e come provicario generale don Francesco Tecini, entrambi filo-bavaresi. (M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., p. 19; S. BENVENUTI, Le istituzioni ecclesiastiche, in M. GARBARI, A. LEONARDI (a cura di), Storia del Trentino. L’età contemporanea, cit., pp. 275-279; S. BENVENUTI, La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), in “Archivio trentino di storia contemporanea” n.s., 39, (1990), n. 3, pp. 19-35). 276ADT, Libro B (130), 1808, n. 930. 277 S. BENVENUTI, La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), cit., pp. 19-35. 278 Ivi, pp. 34-35. 279 ADT, Libro B (135), 1809, n. 464. 280 F. TECINI, Elementi del buon suddito cristiano. Appendice alla spiegazione catechetica del quarto comandamento, Trento, Monauni, 1810.

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della sua inesperienza nella cura d’anime e del suo disinteresse, toccò a Francesco

Tecini risolvere concretamente i problemi: il vicario, infatti, “si limitava a leggere i

dispacci de’ Superiori ed a complimentare Chi veniva da Lui per affari, onde poi subito

mandarli al Provicario, ed aspettarne il risultato per firmare”281.

6.3. Don Tecini e il Regno Italico (1810-1813)282

Lo scoppio della rivolta hoferiana significò l’inizio di un momento di forte

instabilità politica per l’intero Trentino: le truppe austriache e gli insorti, i quali si

definivano difensori della patria, entrarono in Trento e cacciarono i bavaresi. Le truppe

francesi e quelle del regno italico successivamente riuscirono a sconfiggere i nemici.

Dopo la pace di Schönbrunn del 14 ottobre 1809 il Trentino ebbe un governo di

transizione che amministrava la regione formalmente a nome della Baviera, ma in realtà

era un governo d’occupazione franco-italiano.

Rientrato il Vescovo Emanuele Maria Thun dal confino salisburghese nel 1810,

don Tecini fu privato del ruolo di Provicario generale: nell’ottobre dello stesso anno

poté tornare a Pergine.

In forza del trattato di Parigi del 28 febbraio 1810, il Trentino passava dal

governo bavarese al Regno d’Italia283. Il primo cambiamento che toccò la regione

281 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 10. 282 All’indomani della sconfitta russa a Friedland, da cui era scaturito un accordo con Napoleone (trattato di Tilsit, 7 luglio 1807), l’imperatore francese, nel perseguimento di una vittoria totale, estese il “blocco continentale” contro la Gran Bretagna, dichiarato l’anno precedente, a Russia, Svezia, Spagna, Prussia. Il miraggio di un regno universale come quello di Carlo V e i relativi movimenti militari finalizzati al raggiungimento di questo scopo, causarono un nuovo degenerare della situazione e la nascita nel 1809 di una quinta coalizione antifrancese. Questa fase della guerra (durante la quale l’esercito austriaco invase la Baviera, il Tirolo e la Sassonia) si concluse con la disfatta dell’esercito austriaco nella battaglia di Wagram (agosto-settembre 1809) e l’occupazione francese di Vienna. Il nuovo stato di cose fu sancito dalle dure condizioni di pace imposte all’Austria (trattato di Schönbrunn, 14 ottobre 1809), la quale fu costretta a cedere dei territori alla Baviera, Varsavia e alla Russia. Perse, inoltre, lo sbocco al mare con l’annessione alla Francia di Trieste, Croazia, Carinzia, Istria e Dalmazia, territori che furono riorganizzati nelle Province Illiriche. Dal canto suo la Baviera, che con il trattato ottenne nuovamente il Tirolo, dopo la parentesi hoferiana, sperava di mantenere la sovranità sul territorio; tuttavia, già a partire dall’8 dicembre le autorità militari francesi si sostituivano a quelle bavaresi e creavano una provvisoria Commissione amministrativa del circolo dell’Adige sotto la presidenza del barone Sigismondo de Moll. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 46-50; M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., p. 20-21). 283 Il trattato di Parigi del 28 febbraio 1810 fra Napoleone e la Baviera, sanciva il distacco del territorio trentino dal Tirolo e la sua aggregazione al Regno Italico. Di fatto i francesi si sostituirono ai bavaresi già nel dicembre del 1809. Il 16 luglio, il vescovo Emanuele Maria Thun rientrò a Trento dal confino di Salisburgo. (M. GARBARI, Potere politico e Chiesa nel

84

consistette nella riorganizzazione del territorio nel Dipartimento dell’Alto Adige, diviso

al suo interno in cinque distretti o vice prefetture con sede a Trento, Rovereto, Riva,

Cles e Bolzano. Il distretto di Trento fu, a sua volta, diviso in cinque cantoni, cioè

Trento, Lavis, Pergine, Levico e Borgo. Sulla base di questo nuovo ordinamento,

Napoleone diede il via a quello processo di creazione di uno stato burocratico e

accentrato che caratterizzò il suo governo. Di portata straordinaria fu la nuova

organizzazione giudiziaria, entrata in vigore con il 1 ottobre 1810: essa prevedeva

l’istituzione di una corte di Giustizia civile e criminale, competente per tutto il

Dipartimento, con sede a Trento. Nel capoluogo di ogni cantone fu istituita una

“Giudicatura di pace”; così anche Pergine fu direttamente interessata da questo

provvedimento. Intanto, già a partire dal 1 luglio dello stesso anno, entrò in vigore il

Codice napoleonico, nato dalla Rivoluzione francese. La codificazione francese e

soprattutto il Code Nepoléon ebbero successivamente un’importanza capitale

diventando il modello per la codificazione di molti paesi europei, fra i quali l’Italia. Il

Codice civile italiano del 1865 si ispirava direttamente a quello francese.

La storiografia, anche quella più recente, riconosce limiti e meriti

dell’esperienza napoleonica in Italia: Michael Broers sostiene che “the French

occupation of Italy had two faces”. Si chiede infatti “What drew the French? Was it the

torch of civilization and revolutionary fraternity, or the spoils of war? Did they wish to

help or exploit those they came to rule south of the Alps?”. Prosegue sostenendo che

“exploitation and political betrayal were the most of obvious negative aspects of

Napoleonic rule in Italy, although it has been argued often and at length that they

contained within the germs of modernity” 284.

Fra i numerosi provvedimenti napoleonici, con i quali si abbattevano le ultime

incrostazioni feudali e si completava il processo di secolarizzazione delle strutture e

laicizzazione della cultura, quello che interessò direttamente don Tecini riguardava

l’istituzione del Ministero per il culto: esso fu retto dall’abate Giovanni Bovara285,

professore di diritto canonico e collaboratore in Lombardia alle riforme ai tempi di

Giuseppe II, considerato dal vicepresidente della repubblica Francesco Melzi d’Eril

come “la persona più capace in grado di attuare quel “ritorno all’antico metodo” – il

vescovado di Trento nell’epoca napoleonica (1810-1813), in “Studi trentini di scienze storiche”, anno LXVIII, sezione I-II, 1989, pp. 156-183). 284 M. BROERS, The Politics of Religion in Napoleonic Italy. The war against God, 1801-1814, London, Routledge, 2002, pp. 2-3. 285 Per Giovanni Bovara si veda I. PEDERZANI, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, cit.

85

metodo giuseppino – che egli considerava indispensabile al riordinamento degli affari

ecclesiastici”286. Il Ministero per il culto della Repubblica italiana, istituito a Milano nel

1802, si rifaceva, infatti, alla Giunta Economale di asburgica memoria, dimostrando la

continuità con quest’istituzione ma contemporaneamente distinguendosi da essa per

l’arditezza dei programmi di riforma ecclesiastica che la caratterizzavano. Come

abbiamo visto, l’idea di creare uno stato accentrato e burocratico, non fu propria solo di

Napoleone, ma segnò la politica asburgica settecentesca: tale obiettivo fu perseguito in

maniera sistematica dall’imperatore Giuseppe II e dal granduca di Toscana Leopoldo i

quali si fecero promotori di un’imponente riforma dell’antico ordinamento medievale

che, a sua volta, non poteva essere disgiunta da una parallela riforma ecclesiastica,

considerata la valenza economica e patrimoniale del beneficio, elemento cardine attorno

a cui ruotava, da sempre, l’istituzione ecclesiastica. Proprio per questo motivo tale

organizzazione presentava forti intrecci con la realtà sociale e politica del tempo. A

simili ragioni economiche e sociali si affiancava una nuova concezione del rapporto fra

Stato e Chiesa, in base al quale il potere costituito assumeva una posizione di superiorità

rispetto a quello religioso nel momento in cui la posta in gioco era la pubblica felicità

dei sudditi.

Il riformismo asburgico, che come abbiamo visto coinvolse tanto l’ambito

politico quanto quello ecclesiastico, diede un impulso importante alla creazione di una

società moderna; ma esso si concretizzò in un periodo in cui erano ancora fortemente

radicate strutture e mentalità dell’“antico sistema”. Solamente lo scoppio della

Rivoluzione francese determinò il passaggio radicale dall’antico al nuovo ordine

sociale, almeno sulla carta. Ad una società ordinata, razionale, controllata dal potere

centrale ma ancora corporativa e cetuale, come era quella del tardo Settecento

interessata dal riformismo asburgico, se ne sostituiva una maggiormente paritaria,

meritocratica, burocratica e fedele allo Stato. In essa persistevano comunque ancora

forti reminiscenze del passato: prime fra tutte l’istituto del patronato e del beneficio,

ostacoli insormontabili alla creazione di una società come quella vagheggiata da

Napoleone in cui la religione, considerata instrumentum regni e garanzia per l’ordine

pubblico, doveva essere completamente in mano a chi governava. In Francia, le 77 leggi

organiche elaborate in applicazione del concordato francese del 1801 attestavano il

pieno intervento dello Stato in ogni settore della vita religiosa: così esso diventava

286 Ivi, p. 13.

86

tutore della Chiesa e suo braccio secolare287. L’organo che, nella Repubblica italiana,

dopo i comizi di Lione, ne doveva garantire il controllo fu proprio il Ministero per il

culto, esemplato sulla francese direzione dei culti. Si trattava di un organismo direttivo

centrale ben radicato anche sul territorio attraverso i “delegati del ministero, istituiti con

decreto 23 settembre 1802 per operare alle dipendenze dei prefetti nei vari dipartimenti:

considerati di “grande attaccamento al governo” […] essi agevolavano, infatti, in ogni

modo le operazioni per l’esercizio della azione tutoria sulla Chiesa”288.

Dopo la frattura rivoluzionaria il Bovara, condividendo le proposte di

Napoleone, portò a compimento il processo di riforma ecclesiastica, spingendosi anche

in quei settori che i programmi di riforma precedenti non ebbero l’ardire di perseguire

appieno: solamente in età napoleonica si assistette all’eversione dell’istituto del

patronato, all’eliminazione del beneficio ecclesiastico, alla riforma parrocchiale.

Eliminati i molteplici poli devozionali, la nuova parrocchia mononucleare doveva

ispirarsi ai criteri di secolarizzazione e di purificazione illuministica del culto, fatti

propri già dai riformatori settecenteschi, diventando organo di controllo sulla vita

religiosa dei fedeli e supporto dell’amministrazione civile in ambito comunitario. “Vi

sottostava una concezione di parroco di influsso muratoriano e richerista che, passata in

buona parte indenne attraverso l’esperienza giuseppina, era indubbiamente potenziata

anche dalla nuova legislazione napoleonica. Questa gli addossava importanti compiti in

campo civile affinché, nell’interesse dello Stato e della collettività egli diffondesse nel

popolo “buoni principi”e “utili lumi”, come li aveva chiamati a suo tempo il Kaunitz:

compito del parroco era anzitutto quello di “educare i popoli nell’amore della religione

e della Repubblica che li protegge” […]. Ma le sue incombenze erano ancora più

articolate e complesse e andavano dall’anagrafe alla vigilanza sulle leggi di finanza, il

controllo e la prevenzione delle malattie infettive, la coscrizione, le vaccinazioni e

infine la conservazione dei registri delle ipoteche e dei registri di stato civile, ambito

rilevante soprattutto ai fini degli effetti civili del contratto matrimoniale. Vi sottostava

pure la concezione di parroco, quale impiegato del culto e funzionario civile, pastore

d’anime e “strumento ponderoso e sicuro della prosperità comune”[…] condizione

essenziale per una nuova attiva presenza della Chiesa in campo sociale. E vi sottostava

indubbiamente anche la coscienza dell’importanza del ministero sacerdotale e di quella

professionalizzazione del clero in cura d’anime che […] fin dall’età tridentina aveva

287 Ivi, pp. 41-49. 288 Ivi, p. 59.

87

rappresentato, sul versante delle istituzioni ecclesiastiche, l’equivalente della

costituzione di un corpo di officiali sempre più coesi e motivati da parte dei singoli

Stati”289.

Quale figura meglio di Tecini impersonava le caratteristiche del nuovo parroco

“napoleonico”, che, nei progetti del Bovara, doveva rappresentare il canale di

trasmissione dei nuovi principi di ordinamento della società dal governo centrale alla

popolazione? Don Francesco già in età bavarese aveva dato sfoggio alla sua solida

formazione illuministica invitando il suo gregge ad accogliere benevolmente il nuovo

monarca e a rispettare il potere costituito, a considerare la religione quale elemento di

coesione sociale e di progresso civile, battendosi in favore dell’introduzione della

vaccinazione antivaiolosa, dei provvedimenti per promuovere l’istruzione elementare di

bambini e bambine svolgendo la duplice funzione di pastore d’anime e di “strumento

ponderoso e sicuro della prosperità comune”290. Anche l’importante ruolo di mediatore

fra civili e militari svolto durante le fasi più critiche del passaggio da un governo

all’altro testimoniava come il parroco si sentisse in dovere di intervenire anche con i

fatti nella vita quotidiana del suo gregge nel tentativo di assicurargli una pacifica

convivenza. Per questi motivi, con lui, la Chiesa a Pergine Valsugana assunse un’attiva

presenza in ambito sociale.

Si ricordi, inoltre, che nello stesso 1810 don Tecini fu coinvolto in un’indagine

politica sul clero in cura d’anime291, prima di allora mai condotta in territorio diocesano,

promossa dal nuovo governo francese: Napoleone, infatti, a conoscenza del

coinvolgimento del clero locale nella sollevazione antibavarese dell’anno precedente,

necessitava di informazioni precise sulle singole posizioni ideologiche del clero in cura

d’anime. Così il generale D’Anthourard da Parigi commissionava a Sigismondo

Moll292, l’incarico di svolgere quest’indagine. Costui, non conoscendo molti preti, e

avendo raccolto buone opinioni su Tecini da quei pochi a sua conoscenza, decise di

servirsi proprio del decano e parroco di Pergine che ancora nel giugno del 1810

ricopriva l’incarico di provicario generale. L’indagine consisteva nel delineare la

289 Ivi, pp. 17-19. 290 Ivi, p. 18. 291 F. GHETTA, Catalogo del clero della diocesi di Trento compilato nel giugno 1810 da don Francesco Tecini parroco di Pergine e provicario generale, in GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., pp. 121-127. 292 Sulla figura di Sigismondo Moll si veda P. GALEA, Sigismondo Moll, grande burocrate tra fine Settecento e Ottocento. Note biografiche, in Atti del convegno. Sigismondo Moll e il Tirolo nella fase di superamento dell’antico regime, cit., pp. 157-196.

88

posizione buona o cattiva, dal punto di vista politico, dell’Ordinariato vescovile, di

canonici del Capitolo della Cattedrale, professori del Liceo, decani, parroci, curati e

preti semplici. Vennero omessi tutti quei cooperatori di parroci, curati e preti semplici

che erano ritenuti meno significanti, sempre dal punto di vista politico. Anche da questa

analisi si desume l’originalità e la modernità di Tecini, frutto di un percorso formativo

avvenuto nei centri più fervidi dell’Aufklärung cattolica. Tecini, infatti, attribuiva

l’opposizione ai provvedimenti bavaresi alla scarsa cultura del clero trentino. Essa

derivava innanzitutto da studi approssimativi, penalizzati a Trento dalla mancanza di

una “Cattedra di storia ecclesiastica”. Il giudizio di sacerdoti buoni o cattivi dipendeva

dalla loro formazione: buoni erano coloro che studiarono ad Innsbruck o a Salisburgo,

cattivi quelli usciti dal Collegio germanico di Roma. Coerentemente con la sua

convinzione di fare della religione uno strumento di utilità sociale, Tecini sottolineava

l’importanza della predicazione e la lacuna nell’insegnamento al clero di quest’arte e

manifestava apertamente la sua presa di posizione contro i Regolari. Era favorevole alla

soppressione degli ordini regolari, come già in età bavarese, e all’impiego dei loro

adepti in attività di poca influenza. Dal catalogo del clero compilato dal parroco, fra le

varie osservazioni sul clero secolare, si desumono anche importanti informazioni sulla

condizione economica dei curati nelle zone rurali: molti di loro erano mal pagati, a

volte, addirittura costretti a questuare per le case e per le campagne. È verosimile che

quest’indagine, rientrasse in quella gamma di strumenti con cui il nuovo governo si

proponeva di penetrare nella realtà dei territori di recente annessione che, riorganizzati

in Dipartimenti, entravano a far parte della Repubblica italiana o del Regno d’Italia. Già

in età cisalpina furono promosse nel territorio della repubblica delle inchieste per

introdurre le riforma auspicate alla luce di dati concreti, almeno in linea teorica. Per

quanto riguarda la riforma ecclesiastica fu poi il Bovara che fece frequente ricorso a

indagini sul territorio delegando tale compito ai delegati ministeriali per il culto. Nel

tentativo di rinnovare la parrocchia, fulcro dei suoi programmi riformisti, egli

intervenne anche nel complicato e delicato settore delle provviste beneficiali. La riforma

della chiesa curata consisteva, infatti, anche nel risolvere il problema dei parroci poveri,

garantendo a tutti i curati un cespite di entrata sufficiente a mantenersi e a svolgere in

modo decoroso i nuovi compiti loro affidati nella società civile ed ecclesiastica. Per

questo indisse numerose indagini il cui scopo era quello di rilevare le condizioni

economiche delle varie parrocchie al fine di promuovere un’equa distribuzione delle

risorse finanziarie destinate a garantire un livellamento delle rendite delle varie

89

parrocchie e delle capacità di mantenimento dei singoli curati. Anche in questo elenco

sono presenti informazioni che possono illuminare sulle condizioni economiche del

clero secolare nelle campagne.

Alla luce delle motivazioni di cui sopra è, dunque, comprensibile il motivo per

cui quando Bovara dovette nominare i delegati ministeriali per il culto, per quanto

riguarda l’attuale zona della Valsugana nell’allora Dipartimento dell’Alto Adige, la

scelta fosse caduta proprio su don Tecini.

Il parroco si portò a Milano dove si trattenne per qualche giorno, dal 16

settembre al 2 ottobre 1810. Con decreto ministeriale del regio Governo di Milano del

11 marzo 1811, gli fu conferita la carica di regio Delegato ministeriale per il culto nei

tre Cantoni di Pergine, Levico e Borgo293, diventando un funzionario alle dipendenze di

uno stato moderno come lo era quello napoleonico. Conservò questo incarico anche

sotto il successivo governo austriaco.

Nei tre anni di dominazione italica, anche su Pergine soffiò il vento della

secolarizzazione: ne fece fede la soppressione del convento dei frati francescani, sancita

con decreto datato 25 aprile 1810. Nonostante la contrarietà di Tecini ai regolari, ad

eccezione dei mendicanti (francescani e cappuccini) e un caso di frizione con i frati

riformati nel 1806, peraltro facilmente superato, il parroco ebbe buoni rapporti con i

Religiosi del borgo, spesso coinvolti nella cura d’anime dell’estesa parrocchia e, come

vedremo, nell’insegnamento elementare. Anche l’istituzione della fabbriceria rientrava

in un vasto programma di riforma ecclesiastica che mirava a fare della Chiesa e delle

attività ad essa connesse, uno strumento nelle mani dello Stato.

6.4. Il ritorno all’Austria e l’attività pastorale fino agli ultimi anni (1815-1853)294

293 ACP, fascicolo 262. 294 Il 31 dicembre 1810 lo zar Alessandro denunciava l’alleanza con Napoleone stipulata tre anni prima a Tilsit: rompendo il blocco continentale, la Russia riprese i commerci con la Gran Bretagna. Le risposta immediata di Bonaparte fu l’invasione francese della Russia (maggio 1812-marzo 1813). Nonostante la vittoria di Borodino (7 settembre 1812), Napoleone non riuscì a sconfiggere il nemico e ordinò la ritirata delle truppe nel corso dell’inverno. L’anno successivo, a fronte della disastrosa ritirata francese, le potenze europee animarono una sesta coalizione e, forte di questo appoggio, la Russia dello zar Alessandro invase la Germania. La disfatta di Lipsia (16-19 ottobre 1813) determinò il crollo dell’Impero e l’abdicazione di Napoleone. Proclamata la restaurazione della monarchia dei Borbone, il trattato di Parigi del maggio 1814 dichiarò il ritorno della Francia ai confini del 1792. Nei territori prima occupati dalle truppe francesi, Iniziò un processo di restaurazione delle vecchie dinastie. Napoleone venne esiliato all’isola d’Elba ma, nel febbraio del 1815 fuggì e sbarcò in Francia, costringendo alla fuga il re Luigi XVIII e dando inizio all’esperienza dei “cento giorni”. Si formò la settima e ultima coalizione antifrancese: le forze britanniche, coadiuvate da quelle prussiane, riuscirono a sconfiggere definitivamente Napoleone nella battaglia di Waterloo, in Belgio (18 giugno 1815).

90

A motivo delle campagne napoleoniche di questo giro di anni, per il Trentino

transitarono migliaia di soldati impegnati nella guerra franco-prussiana; nel 1813 anche

l’Austria entrò in guerra contro la Francia, mentre Napoleone tentava di ricostituire

l’esercito dopo la disastrosa campagna di Russia. Nell’ottobre del 1813 le truppe franco-

italiane abbandonarono Trento, affidando la tutela dell’ordine pubblico alla guardia

nazionale. Il 15 ottobre gli austriaci presero possesso militare della città istituendo

un’amministrazione provvisoria. La sistemazione definitiva del Trentino avvenne il 7

aprile 1815, durante i lavori del Congresso di Vienna, simbolo della Restaurazione da

allora in atto, e la firma dell’atto finale del Congresso (9 giugno 1815) sanciva

definitivamente il rientro nella compagine asburgica del Tirolo e degli ex principati di

Trento e Bressanone, riuniti in un’unica provincia: la “contea principesca del Tirolo”.

Essa, nell’aprile del 1818 entrò a far parte della Confederazione germanica295.

Negli anni di governo austriaco, don Tecini concentrò la usa attenzione sull’attività

pastorale e pedagogico-letteraria.

Come afferma la documentazione relativa alla visita pastorale del 1828, don Tecini fu

molto attento, oltre alle problematiche connesse alla scuola, all’educazione dei giovani,

alla salute pubblica, di cui sopra, anche alla condotta morale dei sacerdoti con e senza

cura d’anima del decanato. Ai primi rimproverava di aver trasformato l’elemosina delle

sante messe in oggetto di commercio: molti parroci infatti stipulavano una specie di

contratto con il committente sulla somma da versare al momento dell’offertorio. Don

Tecini proponeva di “fissare la quota dell’elemosina, oltre la quale può andare la

liberalità del donante ma non la pretesa del sacerdote”296.

Ai secondi rimproverava lo scarso coinvolgimento nella vita religiosa, da essi

giustificato con la mancanza di un emolumento loro riconosciuto. Il parroco li

sollecitava ad essere utili in ciò potevano, come la frequenza al coro, l’assistenza alle

funzioni, l’istruzione catechetica dei fanciulli. A queste attività partecipavano, invece, i

laici in qualità di cantori, catechisti e il parroco non mancava di riconoscere e lodare il

loro impegno, incitandoli a perseverare297. Gli ordini generali contenuti nei decreti

visitali del 18 novembre 1828298, prontamente applicati dal parroco299, accoglievano le

Esiliato a Sant’Elena, Bonaparte vi morì il 5 maggio 1821. (S. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, cit., pp. 401-403). 295 M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., p. 26-29. 296 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 411. 297 Ibid. 298 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 469.

91

proposte di disciplinamento da lui avanzate e permisero un miglioramento degli aspetti

negativi individuati e presentati nella relazione preparata per l’Ordinariato, prima

dell’inizio della visita300. Nel complesso la valutazione della situazione perginese da

parte del Vescovo301 fu molto positiva: a differenza delle altre chiese filiali curate, si

riconosceva il buono stato della Chiesa parrocchiale di Pergine, di cui i Superiori

apprezzavano soprattutto la cura e l’ordine con cui gli oggetti in essa presenti erano

conservati302. Ottimo era lo stato nel 1840, anche grazie alla solidarietà dei parrocchiani

che, con volontarie offerte, concorrevano ad abbellirla303. Don Tecini, infatti, si fece

promotore di numerosi interventi di sistemazione della chiesa e degli edifici ad essa

connessi: già nel 1807 presentò al Regio Governo Bavaro del Tirolo la richiesta per

ottenere l’autorizzazione a vendere la cappella di San Cristoforo, in suo possesso in

quanto parroco di Pergine, e utilizzare il ricavato per la ristrutturazione della canonica,

lasciata dal Mersi in pessime condizioni304. Fino a quel momento il parroco aveva

provveduto al mantenimento a sue spese; il difetto maggiore, però, era rappresentato dal

tetto, la cui messa in sicurezza costituiva una spesa che lui solo non poteva sostenere305.

Nel 1820 chiese all’Ordinariato l’autorizzazione per collocare nella chiesa parrocchiale

una decina di banchi, laddove mancavano e il permesso di dotarla di altre due campane,

dato che ne aveva solo tre, necessarie per distinguere i diversi avvisi che con esse si

299 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 401. 300 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 411. 301 Nel 1828 il vescovo Francesco Saverio Luschin fu a Pergine per la visita pastorale. (S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., p. 585). 302 ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 469. 303 ADT, Atti visitali, 1840, 89, n. 262. 304 La cappella in oggetto veniva considerata inutile perché, per la lontananza da ogni villaggio, era poco frequentata. Il suo mantenimento era troppo oneroso e per lo scarsissimo utilizzo che i fedeli ne facevano sembrava a don Tecini una spesa inutile. Il ricavato della vendita avrebbe permesso la restaurazione della canonica, il cui tetto aveva molti difetti: esso era troppo poco inclinato, quindi non riusciva a reggere il peso dell’acqua e si marciva facilmente. Inoltre marciva anche una parte della casa del sagrestano perché contigua al tetto della canonica. (APP, V. i. 1). 305 APP, V. i. 1. Dopo aver inoltrato la richiesta al Governo Bavaro e successivamente alla perizia dell’Ingegnere Ducati, la quale aveva rilevato le effettive condizioni in cui versava il tetto e la necessità di sistemarlo, don Tecini presentò la stessa richiesta all’ordinariato. Ottenuta l’approvazione del vicario Francesco Spaur in data 21 ottobre 1808, il 19 novembre dello stesso anno presentò alla Regia bavara direzione delle finanze nel Circolo dell’Adige la supplica per convertire il ricavato della vendita in denaro per la riparazione. Il 20 gennaio 1809 fu steso il contratto di compravendita fra don Tecini e Giacomo Corradi che venne sottoscritto da entrambe le parti il 23 nel palazzo vescovile. La compravendita fu approvata poi dall’Ordinariato il 7 maggio 1809. Ancora nel 1810, però, i lavori non erano iniziati: il 4 febbraio il parroco supplicava la Commissione amministrativa nel circolo all’Adige di rilasciare l’ordine per l’ispezione e la successiva autorizzazione ad iniziare i lavori. Si tratta di un esempio significativo di burocratizzazione contestuale alla formazione di uno stato accentrato e moderno.

92

davano alla popolazione306. Negli anni Trenta, si attivò per altri lavori di ristrutturazione

della Canonica e per la messa in sicurezza del muro che cingeva il “broilo”

parrocchiale307. Negli anni Quaranta si occupò anche del cimitero308, la cui necessità di

un ampliamento era emersa negli anni precedenti e confermata dalle autorità vescovili

in occasione della visita pastorale del 1840309.

Fu intensa anche la sua attività di studioso e di scrittore: fu autore di numerose opere

che andavano ad affiancarsi a quelle scritte negli anni precedenti. Nel 1817 scrisse

Uberto, ossia le serate d’inverno pei buoni contadini, un’opera stampata a Trento ma

destinata a una più ampia diffusione: essa fu adottata come testo di lettura per le scuole

popolari del Granducato di Toscana. Nel 1821 scrisse un’opera sulle popolazioni

tedesche nel Tirolo meridionale310, data alle stampe postuma, nel 1860. Ancora nel 1823

scriveva Egidio, o sia la vera e falsa educazione311. La sua attività pastorale e

intellettuale continuava ad essere riconosciuta: con diploma del 23 giugno 1825 fu

aggregato quale socio al Museo Ferdinandeo di Innsbruck312. Dall’Imperatore

Francesco, con decreto del 24 aprile 1827 fu nominato Canonico onorario della

Cattedrale di Trento313. L’imperatore Ferdinando, invece, il 16 agosto 1838 gli conferì

la medaglia del merito civile con catena d’oro314. Negli anni successivi, con diploma del

20 luglio 1840, fu onorato della nomina a membro della Società agraria tirolese e nel

1845, con diploma del 4 marzo315, divenne socio corrispondente dell’Accademia

roveretana degli Agiati316.

In ossequio alle norme statutarie, la nomina a socio doveva essere proposta al consiglio

accademico da un membro, il quale presentava all’agiatissimo un’opera dell’aspirante

306 ADT, Libro B (212), 1820, n. 613. 307 APP, V. i. 2. 308 Il cimitero fu ricostruito nel 1797 al di fuori del territorio parrocchiale, in applicazione delle norme austriache che riguardavano anche l’ambito dell’igiene: per garantire un’aria più salubre, fu vietata la costruzione di sepolcri all’interno della parrocchia e il cimitero, costruito fuori, doveva anche essere cinto da mura. Individuata un’area adatta allo scopo, il Regio Consiglio Amministrativo di Trento, presieduto da F. Baroni Cavalcabò, concedeva il 2 giugno 1799, all’Ufficio Commissariale di Pergine l’autorizzazione a procedere ai lavori. (ADT, Libro B (98), 1797, n. 64). 309 ADT, Atti visitali, 1840, 89, n. 262. 310 F. TECINI, Sulle popolazioni tedesche del Tirolo italiano, e dei limitrofi Stati veneti, Trento, 1860. 311 F. TECINI, Egidio, o sia la vera e falsa educazione, Milano, Sonzogno, 1823. 312 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 12. 313 Ibid. 314 Ibid. 315 Ibid. 316 AARA, fascicolo 663, Registro dei soci. Registro delle aggregazioni, 1752-1914, p. 142; ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 12.

93

socio. L’agiatissimo, coadiuvato dai revisori, era tenuto a esaminare il saggio presentato

per poi esprimere una valutazione sui nominativi proposti per l’aggregazione317. In linea

teorica, la “raccomandazione” a socio da parte di un amico accademico doveva

rimanere sconosciuta all’aspirante socio. Così fu, almeno sulla carta, per don Tecini

quando, ricevuta la nomina a socio corrispondente, rispondeva all’Accademia

manifestando la propria “dolcissima sorpresa [per] la nomina e la relativa Patente, con

cui codesta celeberrima I. R. Accademia si degnò di graziarmi asservendomi all’onore

di Suo Socio corrispondente”318. Nel suo caso, il Catalogo dei Soci accademici rivela

che don Tecini fu proposto da Francesco Antonio Marsilli. Il saggio sottoposto a esame

fu il “suo Uberto, stampato e ristampato”319.

Di lì a due anni il parroco festeggiava i cinquant’anni di cura d’anime a Pergine. Nella

seduta comunale del 14 maggio 1847 il capocomune Francesco Giongo esordì

ricordando che nel luglio il parroco avrebbe festeggiato il cinquantesimo anno del suo

possesso del decanato. Data la solennità della circostanza, invitava il Consiglio a

prendere le misure necessarie per festeggiare l’avvenimento nel modo di cui era degno.

La ricorrenza fu festeggiata il 4 luglio, con la celebrazione di una Messa solenne, di un

Vespro, coinvolgendo anche la banda locale per dare maggiore solennità alla giornata.

Furono organizzati fuochi d’artificio, fu incrementata l’illuminazione; anche gli spari

dei mortai contribuivano a rendere ancora più importante quest’anniversario. Il

coinvolgimento delle forze dell’ordine garantiva la pubblica sicurezza. Per questo e per

tutte le risorse impiegate il comune spese 1214 fiorini e 18 carantani320.

In occasione del cinquantesimo anno di permanenza di Tecini nel decanato, giunse al

parroco una lettera di riconoscenza e di congratulazioni per il suo operato da parte

dell’Accademia degli Agiati, il cui presidente esprimeva il proprio orgoglio e onore per

il fatto di annoverare fra i soci onorari un personaggio di sì alta stima321. Quello stesso

giorno giunsero a Tecini lettere di felicitazioni anche da parte dell’allora Vescovo di

317 M. BONAZZA, L’Accademia roveretana degli Agiati, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 1998, p. 12. 318 AARA, fascicolo 322.2. 319 AARA, fascicolo 663, Registro dei soci. Registro delle aggregazioni, 1752-1914. Alla pagina 142 del Catalogo dei Soci accademici si legge: “837° socio dell’Accademia. M.re Francesco Tecini canonico onorario della Cattedrale di Trento e Decano di Pergine fu proposto da Marsilli. Saggio=la sua molta fama letteraria meritata specialmente dal suo Uberto, stampato e ristampato”. 320 S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., p. 634. 321 AARA, fascicolo 322.2.

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Trento, Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, e

dall’Imperial Regia Società agraria tirolese italiana322.

La partecipazione alla festa della popolazione locale fu

davvero imponente: ma anche “Signori e Signore,

Cavalieri e Dame di Trento erano qui in tanto numero,

che in quella sera si trattò d’omettere l’opera teatrale

benché annunziata prevedendo la mancanza di concorso:

e fu bensì eseguita, ma col teatro quasi vuoto”323.

Dunque, la comunità di Pergine, in occasione del

cinquantesimo anno di permanenza di Tecini nel

decanato, organizzò una grande festa, perché

quell’evento meritava di essere celebrato con tutti gli

onori: fu la dimostrazione della grande stima e della

riconoscenza che i perginesi nutrivano nei confronti del

loro prete illuminato, confermate poi, alla sua morte,

dall’erezione, all’interno della chiesa parrocchiale di una

lapide, in cui si elogiava il suo operato. Essa fu costruita

nel 1860 e finanziata dal Comune di Pergine.

Così cita l’epigrafe: “ALLA MEMORIA DEL NOBILE/ FRANCESCO TECINI/ PER

ANNI CINQUANTA SEI/ PARROCO E DECANO DEL PERGINESE/ CANONICO DI

TRENTO/ UOMO EVANGELICO/ PROMOTORE DEL GIUSTO/ PROPUGNATORE DEL

VERO/ AMICO DEL CONTADINO/ CUI TENTÒ SOLLEVARE/ A DIGNITÀ CRISTIANA

E CIVILE/ COLL’OPERA E COGLI SCRITTI/ IN TEMPI DIFFICILI/ FEDELE ALLA SUA

MISSIONE/ SPECCHIO D’OGNI VIRTÙ DESIDERATISSIMO./ IL COMUNE DI

PERGINE/ RICONOSCENTE/ NACQUE L’ANNO MDCCLXIII/ MORÌ L’ANNO

MDCCCLIII”.

Si spense novantenne l’11 dicembre 1853, alle nove del mattino324.

322 ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506, p. 13. 323 Ivi, p. 13. 324 APP, Registro dei morti e sepolti. 1853-1896, Tomo X, p. 13.

Figura 1 Lapide funeraria di don Francesco Tecini nella Chiesa parrocchiale di Pergine Valsugana

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Figura 2 Ioseph Weger, Ritratto di don Francesco Tecini, 1831, tempera e matita, su carta, cm 26x36. Opera in comodato al Comune di Pergine Valsugana.

Sul retro del dipinto si legge:

copia

Francesco Tecini Arciprete Decano

di Pergine Canonico Onorario della Cattedrale di Trento

è morto li 11 dicembre 1853 ore una ant(emeridian)e

in età di anni novanta

dipinto l’anno 1831

dal S(ignor) Gius(epp)e Weger di

Bolzano per ordine della I(nclita) I(mperial) di-

rezione del Museo d’Innsbruck

dove ne portò un esemplare a matita. Quest’è memoria scritta

di tutto pungo del defunto Tecini.

l’iscrizione originale si trova

nell’interno del quadro!

Enrico Montel 10/02/1922

96

97

PARTE TERZA

LE OPERE DEL PERIODO BAVARESE (1806-1809)

1. La rivalutazione del ruolo del parroco nella società moderna: un percorso secolare

Comprendere il significato e l’ originalità delle opere di Tecini significa

innanzitutto conoscere i presupposti ideologici da cui esse scaturirono, il contesto

storico in cui si inserirono e gli obiettivi che si prefissarono. L’analisi delle stesse deve

partire dunque da alcune considerazioni preliminari sul ruolo del parroco del primo

Ottocento, che si rinnovò alla luce delle suggestioni che percorsero tutto il Settecento:

dal pensiero muratoriano alla pietà illuminata di fine secolo, le gerarchie cattoliche, più

aperte al pensiero moderno e disposte ad un dialogo con esso, maturarono una rinnovata

sensibilità verso la formazione del clero secolare, in particolare di quello in cura

d’anime. Nel tentativo di promuovere una riforma politica della società che, come

abbiamo visto, doveva per forza coinvolgere anche la sfera ecclesiastica, anche lo Stato

riservò particolare attenzione verso questa figura, consapevole dell’importanza del ruolo

del prete nella società. Ma nonostante il fallimento delle riforme tardo settecentesche, le

sollecitazioni gianseniste e illuministe lasciarono un segno duraturo nella formazione

del clero e nel ruolo che esso assunse nella società. Lo stesso Wandruszka sostiene che

“è proprio qui, nell’educazione di un nuovo tipo di parroco, che il movimento riformista

ha forse acquistato il suo maggior merito storico”325.

1.1 Dalla regolata devozione muratoriana alla pietà illuminata: l’utilità sociale e

civilizzatrice della religione. Il parroco nel Settecento

Il XVIII sec. fu caratterizzato da una marcata esigenza di rinnovamento

spirituale. Tuttavia, gli sforzi di riforma sia da parte del potere politico che della Chiesa

si scontravano con situazioni di fatto difficilmente modificabili sul breve periodo: il

disciplinamento del clero, uno dei settori interessati da questa nuova sensibilità

religiosa, doveva passare per una riforma delle strutture ecclesiastiche che si concretò

solamente nella seconda metà del secolo. Ma già a cavallo fra Seicento e Settecento,

rifiorì l’interesse per la funzione e il ruolo nella società del clero secolare, a partire dalla

325 A. WANDRUSZKA, Il riformismo cattolico settecentesco in Italia ed in Austria, cit., p. 397.

98

figura del vescovo326: se la Controriforma aveva portato alla nascita di un prelato

“funzionariale”, almeno nella realtà italiana, particolarmente attento al rispetto della

tradizione giuridico-canonistica, a inizio Settecento la ripresa della tradizione tridentina

“accentuò quella divaricazione tra l’antica e mai spenta concezione della personale

responsabilità pastorale del vescovo nella propria diocesi e le tendenze legalistiche e

normative, generalizzanti e uniformanti, post-tridentine, su cui la Controriforma aveva

particolarmente insistito nella sua opera di trasformazione “funzionariale” della figura

del vescovo”327. Se da una parte, la ripresa del modello di vescovo tridentino,

presupponeva l’osservanza, da parte del prelato, di specifici obblighi, spesso ancora

disattesi, dall’altra essa si arricchiva di nuove proposte, in risposta alle esigenze, allora

maturate, di un clero preparato, dotato di una cultura “moderna” e zelo pastorale328.

Questa nuova sensibilità, da cui prese le mosse la nascita di quel processo che portò alla

formazione di un clero illuminato, si espresse innanzitutto nel nuovo rapporto che tese

ad instaurarsi tra vescovi e parroci nel contesto diocesano: ne facevano fede le

numerose lettere pastorali indirizzate dal vescovo ai parroci della diocesi, contenenti le

“istruzioni” che i destinatari dovevano seguire nell’espletamento delle proprie funzioni,

nel tentativo di raggiungere una certa uniformizzazione. Anche il parroco, così,

assumeva un nuovo rilievo: nella prima metà del Settecento in Italia fu, ancora una

volta, la riflessione muratoriana a stimolare l’interesse verso questa figura.

1.1.1 Il “buon parroco” nel pensiero muratoriano

L’erudito, rivitalizzando la tradizione conciliare tridentina329, valorizzava soprattutto la

figura del parroco, il quale, per gli uffici connessi al suo stato, rivestiva un ruolo

decisivo nel conferire alla religione la pubblica utilità330: in termini economici, poiché

egli godeva della prebenda ecclesiastica in virtù dell’assolvimento della cura d’anima

(in questo modo non gravava sulle finanze ecclesiastiche, come invece quanti erano

titolari di un beneficio sine cura); in termini educativi, dato che, in virtù del suo ruolo,

era responsabile dell’educazione del popolo ai principi della religione cattolica 326 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., p. 185-223. 327 Ivi, p. 187. 328 Ivi, p. 197. 329 G. G. MEERSSEMAN, Il tipo ideale di parroco secondo la riforma tridentina nelle sue fonti letterarie, in Il Concilio di Trento e la riforma tridentina. Atti del convegno storico internazionale. Trento 2-6 settembre 1963, Roma, Herder, 1965, vol. I, pp. 27-44. 330 P. PETRUZZI, La “regolata religione”. Studi su Ludovico Antonio Muratori e il Settecento religioso italiano, cit., pp. 105-141.

99

attraverso la predicazione e la catechesi. Nel generale progetto di riforma della

spiritualità religiosa, in ordine ad una devozione regolata, anche la predicazione,

affinché potesse risultare utile e toccare il cuore e la mente dei fedeli, doveva essere

chiara e comprensibile all’intelligenza, regolata e depurata degli eccessi di teatralità

nelle forme esteriori e di ampollosità nel linguaggio, di difficile comprensione per il

fedele incolto tanto per i termini utilizzati, quanto perché troppo metaforico, figurativo,

allusivo. Dal pulpito le predicazioni dei sacerdoti colpivano gli astanti per l’effetto

scenico che producevano, ma non raggiungevano il fedele che, stordito da un

accostamento incomprensibile di immagini e parole, non riusciva a penetrare il senso

del proprio essere e agire cristiano331. Confermando l’importanza della comunicazione e

riconoscendo la funzione pubblica del predicatore, Muratori considerava necessario una

riforma della predicazione, al fine di piegare quest’ultima all’ “utilità spirituale del

popolo”332.

Confermando l’inscindibilità del suo ruolo spirituale, concretato nella cura

animarum, e di quello civile, in quanto controllore della pubblica moralità e della vita

sociale dei fedeli, Muratori progettava una riforma del clero diocesano appellandosi al

modello borromaico.

La riflessione di Muratori sul parroco si affiancava ad altre simili che confluirono nella

letteratura sul “buon prete” che, fin dal primo Settecento mirava a rafforzare il clero

secolare venendo incontro non solo a quegli ideali di esemplarità morale propri del

clima post-tridentino quanto a preoccupazioni più generalizzate di cura d’anime e di

cultura333. Un ruolo importante ebbero gli scritti di giansenisti francesi, Arnauld e

Nicole, di cui lo stesso Muratori si nutrì ma anche il Concilio Romano del 1725 aveva

ribadito l’importanza della predicazione di vescovi e parroci334.

1.1.2 Il disciplinamento del clero a metà secolo: un problema comune

L’attenzione alla preparazione del clero, a partire dal vescovo, si accentuava nel corso

degli anni del pontificato lambertiano in un clima di apertura nei confronti del pensiero

331 Ivi, pp. 83-104. 332 Ivi, p. 89. 333 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit. p. 140. 334 P. PETRUZZI, La “regolata religione”. Studi su Ludovico Antonio Muratori e il Settecento religioso italiano, cit., pp. 88 e 94.

100

moderno335. Anche lo stesso papa Benedetto XIV si impegnò in un notevole sforzo di

riqualificazione dell’immagine del vescovo, che, attraverso i modelli tridentini, del

Borromeo e di san Francesco di Sales, attraverso San Paolo e la Patristica, si rivestiva

sempre più di preoccupazioni pastorali, e non solo burocratiche e giuridiche: la bolla Ad

universae Christianae reipublicae statum del 1746, ribadendo con determinazione il

principio della residenza di vescovi e parroci, e l’insistenza sull’attività omiletica, si

inserivano in questo progetto di disciplinamento del clero. Così, dall’immagine del

vescovo della Riforma cattolica e della Controriforma, buon amministratore delle

rendite episcopali per il sollievo dei poveri e figura dallo spiccato ascetismo individuale,

l’accento sempre più andava spostandosi sull’effettivo rapporto del vescovo con il clero

e i fedeli della sua diocesi: di qui la tendenza a sviluppare, nell’ambito dell’attività

pastorale, una politica sinodale e ad attribuire un ruolo più attivo al clero parrocchiale,

dal quale non erano del tutto assenti echi di simpatie parrochiste di derivazione

gallicano-giansenista. Benedetto XIV, pur accogliendo il riformismo del pensiero

muratoriano, prendeva però le distanze tanto dall’eccessivo riformismo giansenista

francese sul piano liturgico, come dimostra la vicenda del culto al sacro Cuore di

Gesù336, quanto dal rigorismo etico del Concina.

335 Il modello di vescovo a cui ispirarsi era rappresentato dallo stesso Lambertini, che prima di salire al soglio pontificio era stato vescovo di Bologna, contraddistinguendosi per un’attività pastorale equilibrata e illuminata. Nel 1742, nella Raccolta di alcune notificazioni, editti ed istruzioni, delineava una nuova immagine di vescovo maturata alla luce delle trasformazioni culturali degli anni precedenti e i richiami al Borromeo, al Paleotti, al Concilio di Trento e alla personale esperienza come segretario della Congregazione del Concilio “assumono il carattere di una efficace mediazione religioso-culturale”, una sintesi fra tradizione cattolica post-tridentina, controriformista e le sollecitazioni della cultura moderna, rappresentate dal Muratori, che sottolineava la validità del metodo storico-erudito in funzione apologetica e proponeva una religione regolata funzionale alla pubblica felicità: in questo clima di generale rinnovamento culturale in cui anche il metodo razionale trovava un proprio posto all’interno di una cultura ancora profondamente cristiana, le istituzioni ecclesiastiche, soprattutto la parrocchia, iniziavano ad assumere una diversa connotazione, il disciplinamento del clero divenne questione prioritaria così come l’educazione dei fedeli attraverso l’insegnamento catechetico. Attraverso le proposte lambertiane, tra erudizione, storia, pietà religiosa e preoccupazioni pastorali si realizzarono i contenuti della regolata devozione muratoriana e le premesse di quello che sarà di lì a qualche decennio un culto illuminato ragionevole. (M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 190-191). 336 La devozione al Sacro Cuore di Gesù conobbe una straordinaria diffusione nella Francia della seconda metà del XVII sec. dopo l’esperienza mistica di Margherita Maria di Alacoque nel monastero della Visitaione di Paryl-le-Monial. Tale devozione “riprendeva una tradizione che aveva già collegato, a partire dal Cinquecento e dopo la Riforma, la più antica meditazione della Passione di Cristo alla rafforzata devozione cattolica post-tridentina dell’Eucarestia” e alla necessità della “riparazione ” quale compenso degli oltraggi commessi dagli uomini nei confronti dell’amore di Gesù nel Sacramento dell’altare. Fu soprattutto l’opera dei gesuiti a incentivare la diffusione del culto, accompagnata da un importante sviluppo della liturgia e iconografia che testimoniavano il “gusto” religioso del tempo: esso si contraddistingueva per

101

Anche nei domini ereditari di casa d’Austria, a partire dagli anni Cinquanta del

secolo, Maria Teresa maturò la consapevolezza di una generale risistemazione del

sistema parrocchiale, con particolare attenzione alla formazione del clero, alla luce dei

limiti che una scarsa preparazione dei parroci comportava nella realizzazione del suo

programma di riforma: condizione preliminare per il conseguimento dello scopo dei

suoi interventi, la pubblica felicità dei sudditi, era una maggiore acculturazione delle

masse. L’istruzione era ancora affidata, oltre al clero regolare, anche a quello secolare,

in particolare ai parroci, i quali troppo spesso ancora disattendevano ai propri doveri,

perché disinteressati, irresponsabili, privi di una solida formazione. A questi si

aggiungevano altri motivi, di natura economica, giurisdizionale, sociale per i quali

rimando al saggio di Grete Klingenstein337. Se i provvedimenti tridentini (si fa

riferimento in particolare alla fondazione della Compagnia di Gesù, adibita anche per la

formazione degli aspiranti sacerdoti) erano riusciti ad innalzare il livello d’istruzione del

clero e a migliorarne in maniera considerevole la disciplina, essi a partire dal Settecento

non erano più in grado di dare risposte adeguate ai cambiamenti della società: la

diffusione dell’Illuminismo cattolico, soprattutto a Vienna e Salisburgo, maturò nelle

autorità ecclesiastiche e politiche la necessità di modernizzare la formazione del clero

promuovendo anche una pastorale più incisiva. L’ideale di sacerdote era determinato

soprattutto dall’opera di Jan Opstraet, autore nel 1698 dello scritto intitolato Pastor

bonus: in esso veniva delineato un parroco esemplato sulla vita di Gesù, buon pastore e

zelante nella cura delle anime. Questo libro conobbe una grande fortuna: ebbe una serie

una marcata componente barocca ma al contempo gettava le basi per una “religione del cuore”, tenera, dolce, familiare, sensibile, apprezzata e fatta propria dai tentativi cattolici di riforma della spiritualità settecentesca. All’idea di una religione intimistica e volontaristica (il cuore era inteso come sede dell’amore e della volontà) si sviluppò anche quella della regalità di Cristo (nacque la figura del Cristo re) che favorì un sostegno decisivo al culto da parte del potere politico: furono soprattutto i sovrani settecenteschi delle potenze di second’ordine nello scacchiere europeo ad accogliere la devozione al Sacro Cuore perché in essa trovava un canale di legittimazione ideale alla loro sovranità, a volte solo simbolica se non addirittura incerta o inesistente. Nel primo settecento il culto non era appannaggio o prerogativa esclusiva di ordini o congregazioni religiose: esso si diffuse anche nelle confraternite, molte delle quali nate proprio per promuovere la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Con la ricezione, anche negli ambienti cattolici, della lezione cartesiana e lockiana, il culto non conquistò il favore dei vertici della Curia romana per l’orientamento filosofico moderno di papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini, vescovo di Roma dal 1740 al 1758). La contrarietà al riconoscimento ufficiale del culto da parte della Santa Sede, era sintomatico dell’avvenuta distinzione, sul piano intellettuale, fra la sfera affettiva e quella intellettiva dell’uomo, condivisa dallo stesso Muratori, all’interno di un contesto generale di cambiamento di clima e di sensibilità. A metà Settecento, quando il culto attecchì anche fra le masse popolari, si rafforzò la critica rigorista e giansenista contro le devozioni e la pratica sacramentale gesuitica, considerata eccessivamente scenica e teatrale. (Ivi, pp. 17-46). 337 G. KLINGENSTEIN, Radici del riformismo asburgico, cit., pp. 143-168.

102

impressionante di ristampe e ai tempi di Maria Teresa fu adottato come manuale

ufficiale della pastorale. Con la nuova concezione di Stato e la relativa definizione del

rapporto Stato-Chiesa, le autorità civili adottarono delle misure per il miglioramento

della formazione dei sacerdoti, facendo propria una delle priorità della Chiesa338. “Così

verso il 1750 furono messi per la prima volta in discussione l’intera struttura

parrocchiale, compresa la formazione dei parroci, le forme e i contenuti della pastorale e

dell’opera educativa”339. La costituzione di nuovi seminari, che interessò i domini sotto

il diretto controllo degli Asburgo, come alcuni principati vescovili limitrofi, mirava a

sanare questa lacuna.

Nello stesso torno di tempo anche i prelati della diocesi tridentina furono mossi

da preoccupazioni analoghe: infatti, nonostante già dalla fine del Seicento i vescovi

avessero avuto a cuore la formazione del clero, e di conseguenza anche quella dei fedeli,

ancora a metà secolo non esisteva un itinerario di formazione ecclesiastica omogeneo:

c’era chi (pochi, per il numero limitato di posti) frequentava il Seminario, retto dai

Somaschi, i più invece studiavano presso il Collegio dei Gesuiti oppure si preparavano

al sacerdozio secondo un curriculum del tutto personale. In modo particolare, Domenico

Antonio Thun dedicò attenzione e vigilanza alla vita del clero, ma dopo il 1740 il suo

stesso comportamento mutò radicalmente sconfessando i provvedimenti

precedentemente adottati per regolamentare la condotta del clero: ne derivò un

accrescimento enorme dei preti, accettati senza alcun controllo sulla loro preparazione.

L’anarchia della vita ecclesiastica e civile, che seguì alla mancanza di un controllo

dall’alto da parte del Principe Vescovo, permise però la diffusione nel principato delle

nuove istanze culturali che auspicavano un profondo rinnovamento. In modo particolare

fu Pantaleone Borzi a desiderare di fare di Trento un centro di studi di storia

ecclesiastica, legato a un nuovo grande seminario. Anche il principe vescovo Leopoldo

Ernesto Firmian ebbe a cuore, all’interno di un generale progetto di rinnovamento della

spiritualità della diocesi, la preparazione e la condotta del clero, ma solamente a fine

Settecento inizio Ottocento, il percorso formativo di un aspirante sacerdote fu

codificato340.

338 E. GATZ, Sullo sviluppo del clero diocesano cattolico nell’Europa centrale di lingua tedesca dal XVI secolo alla secolarizzazione (1803), in M. SANGALLI (a cura di), Pastori pope preti rabbini. La formazione del ministro di culto in Europa (secoli XVI-XIX), Roma. Carocci, 2005, pp. 125-133, in part. pp. 128-129. 339G. KLINGENSTEIN, Radici del riformismo asburgico, cit., p. 161. 340 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., p. 505-551.

103

1.1.3 Verso la formazione del “parroco illuminato”

La nascita della figura del “parroco illuminato” rifletteva, come all’inizio del

Settecento, l’evoluzione dell’immagine del vescovo. Per quanto riguarda la realtà della

penisola italiana, ad impersonare un modello di vescovo di transizione, che si proiettava

dall’età di Benedetto XIV al riformismo religioso ed ecclesiastico giansenista ed

episcopalista dello scorcio del secolo fu il vescovo di Mondovì, Michele Casati (1754-

1782)341: la sua vicenda ci permette di seguire l’evoluzione dell’immagine del vescovo

dagli anni cinquanta all’ultimo quarto di secolo. Mosso, nei primi anni della sua attività,

da preoccupazioni proprie del modello lambertiano (quali la formazione del clero,

dotato di cultura moderna ma anche zelo pastorale, la centralità attribuita alla parrocchia

e alla visita pastorale, una moderazione fra rigorismo e probabilismo) a partire dagli

anni Sessanta si fece carico di rispondere a nuove esigenze: prima fra tutte la necessità

di un’istruzione del popolo cristiano sin dall’infanzia. Dato che i parroci, responsabili

della cura d’anima, venivano ora maggiormente coinvolti nelle attività pastorali della

diocesi ne scaturiva una più attenta riflessione sulla loro formazione. L’importanza dei

curatori d’anime derivava, infatti, dalla funzione culturale che erano chiamati a

svolgere: in ogni borgo, in ogni villaggio, essi costituivano il nucleo di intellettuali più

importante, soprattutto per i loro quotidiani contatti, non limitati alla sfera strettamente

religioso-cultuale, con la popolazione. Il parroco era il punto di riferimento soprattutto

nelle realtà rurali, a maggioranza contadina, era il responsabile dell’istruzione dei

fanciulli, ai quali insegnava a leggere e a scrivere.

Alla luce delle nuove responsabilità di cui si rivestivano, secondo il Casati non

appariva più adeguata una formazione basata sugli schemi preordinati della teologia

morale e della prassi pastorale nella cura d’anime. Era necessario una preparazione

rafforzata dalla lettura della Scrittura, sostenuta dallo studio del Nuovo Testamento,

soprattutto di San Paolo, attraverso gli interpreti giansenisti e ortodossi più accreditati, a

sottolineare esigenze pastorali e non storico-erudite e storico-esegetiche.

In questi anni, con lui, iniziava a serpeggiare il tema della “pietà illuminata”, che

si definì nel corso del decennio successivo a partire soprattutto dall’attività pastorale di

Giuseppe Ippoliti342, vescovo di Cortona. Rispetto al Casati, meno sensibile alla

necessità di intervenire nella società civile tentando di risolvere i problemi che essa

341 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 198-201. 342 Ivi, pp. 204-208.

104

affrontava, (primo fra tutti la carestia del 1764-66), l’Ippoliti tentò di applicare il

concetto di pietà illuminata alla realtà per concretizzare l’ideale di un’utilità sociale

della religione, a cui il concetto stesso si ispirava. Lo dimostrarono i suoi tentativi di

superare i problemi economico-sociali causati dalla carestia degli anni Sessanta e poi da

una nuova difficile congiuntura dei primi anni Settanta. Le sue preoccupazioni

andavano oltre, rispetto a quelle della generazione dei prelati a lui precedente: alla

necessità di una nuova formazione del clero per renderlo più responsabile, zelante e

acculturato, si affiancava la volontà di coinvolgere i parroci, anche nelle questioni più

pratiche della vita degli uomini. Così il parroco dava attuazione concreta alla nuova

sensibilità verso un impegno illuminato in ambito sociale, propria dell’Aufklärung

cattolica: l’utilizzo del termine stesso Aufklärung, più moderato di quello di

Illuminismo, allude ad un movimento interno alla cristianità e, nel caso specifico, alla

cattolicità, che si sviluppa a contatto con le nuove istanze illuministiche ma si alimenta

di importanti precedenti stimoli di rinnovamento, propri della storia del cattolicesimo

settecentesco, quali, soprattutto, il pensiero muratoriano, il giansenismo di derivazione

francese, il riformismo cattolico romano degli anni Venti del Settecento, che a loro volta

erano frutto di un primo approccio della Chiesa cattolica al pensiero moderno. Questo

per dire come la risposta della Chiesa all’Illuminismo della seconda metà del secolo non

fu solo chiusura oltranzista; anzi, si crearono le condizioni di un incontro (e non solo

scontro) fra tradizione e modernità di cui l’Aufklärung cattolica fu un esempio: l’idea di

una religiosità utile e civilizzatrice, condivisa tanto dai poteri secolari quanto dalle

frange più moderne degli ambienti cattolici, in ambito ecclesiastico fece maturare,

appunto, la necessità di un disciplinamento del clero, in cui al parroco era destinata una

rinnovata attenzione.

1.1.4 L’ideale del buon curato a fine secolo

In Toscana, il granduca Leopoldo aveva in mente l’ideale di “buon curato” che doveva

scaturire dalle riforme in atto. Il parroco doveva essere dotato di una cultura

enciclopedica, fatta di teologia, ma anche di medicina, agricoltura, giurisprudenza,

fisica, apicoltura; una cultura in virtù della quale poter insegnare ai fedeli la corretta

pratica della religione, i doveri più comuni ed essenziali di un suddito, i metodi per

coltivare i terreni e per guarire le malattie della campagna e degli uomini, il tutto per

105

contribuire al bene dei suoi fedeli343. Dal canto suo Scipione de Ricci fu il più convinto

interprete della pietà illuminata, che era innanzitutto istruzione. Essa era di competenza

del parroco, la cui immagine si contraddistingueva, nell’interpretazione ricciana, per lo

zelo con cui illuminava il popolo sulla vera religione, distogliendolo dalle devozioni

inutili e superstiziose. Il riformismo ecclesiastico leopoldino trovava l’appoggio di

quello ricciano, che traeva spunto dal parrochismo giansenista: non a caso, nei

Cinquantasette punti stesi in occasione del Sinodo di Pistoia, largo spazio veniva

dedicato alla figura del parroco. Così la sua immagine si modellava su un nuovo ideale

che faceva del curato un uomo di orazione e vigile custode del gregge affidatogli, il

primo intermediario fra il vescovo e i fedeli, una guida spirituale ma anche sensibile ai

bisogni materiali dei propri sottoposti, sempre mosso dalla preoccupazione di garantire

loro le condizioni ideali per una vita felice e degna di essere vissuta. Il Sinodo di Pistoia

rappresentava il culmine del riformismo ecclesiastico toscano che ruotava intorno alla

necessità di liberare la religione dagli abusi, di istruire il popolo nei doveri della

religione, di garantire una condotta esemplare e una formazione del clero a vantaggio

dell’intera società344. Tuttavia, l’immagine del vescovo, da cui traeva spunto quella del

parroco, non si rinnovò alla luce di un unico modello: il fallimento del Sinodo di Pistoia

fu emblematico della formazione di un fronte antiricciano, i cui vescovi si schierarono

dalla parte di Roma.

Proprio per la sua funzione pubblica, il parroco divenne l’oggetto di maggior

interesse del giuseppinismo, nella misura in cui esso mirava ad un controllo capillare e

accentrato della vita sociale e religiosa dei sudditi dell’impero. Anche qui, come già

accennato, il giansenismo rappresentò uno stimolo importante al riformismo giuseppino,

ma l’eccessivo controllo esercitato dallo stato sulla religione, che nel caso specifico,

voleva trasformare il parroco in un “funzionario” del governo, rappresentò il motivo

della rottura dei rapporti fra l’imperatore e i giansenisti345, i quali auspicavano una

maggiore libertà. Per portare un esempio, la creazione di nuove diocesi e parrocchie in

Bassa Austria, Moravia e Ungheria era uno dei provvedimenti con cui l’imperatore

manifestò concretamente l’interferenza dello Stato nella vita parrocchiale: d’altra parte

“la Chiesa doveva essere uno strumento del potere dello Stato, ossia il miglior

strumento al servizio dell’istruzione civica. Lo Stato non aveva bisogno di “preti santi”,

ma di ecclesiastici illuminati, capaci di dispensare una morale che facesse appello alla

343 A. WANDRUSZKA, Il riformismo cattolico settecentesco in Italia ed in Austria, cit., p. 397. 344 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 231-233. 345 Dal 1784, Giuseppe II non ebbe più direttori spirituali giansenisti.

106

ragione e non al cuore dei fedeli”346, da cui derivò una burocratizzazione della pastorale.

Il clero riformato doveva essere utilizzato a fini statali. Il “parroco giuseppino” doveva

prendersi cura della propria comunità e allo stesso tempo svolgere funzioni

amministrative pubbliche, tra cui l’assistenza ai bisognosi. “Poiché accanto a

un’animazione pastorale efficace doveva farsi carico anche dell’ammodernamento dello

stato e della società, aveva bisogno di una formazione idonea. Per questa ragione lo

stato austriaco impose una progressiva modifica nell’educazione dei sacerdoti, con

l’introduzione, tra l’altro, delle discipline chiamate “storia della chiesa e” e “teologia

pastorale”. La formazione scientifica era controllata dallo Stato, mentre

l’accompagnamento spirituale rimaneva di competenza dei vescovi”347. Anche la

chiusura dei seminari diocesani e la loro sostituzione con i “seminari generali”,

direttamente alle dipendenze dello Stato, rientrava nella stessa ottica348. Con Giuseppe

II il parroco diventava un vero e proprio dipendente dello stato, da cui riceveva un

salario molto modesto, erogato dai “fondi religiosi”, sotto l’amministrazione statale. Lo

status dei parroci era diventato simile a quello degli impiegati statali. Uno sviluppo

analogo avvenne in quei territori sulla sponda sinistra del Reno che dal 1801 facevano

temporaneamente parte della Francia, per passare poi nel 1815 a Prussia, Assia e

Baviera.

Mentre Giuseppe II tentava di estendere i suoi provvedimenti di politica

ecclesiastica, quali, in particolare, il riordino delle diocesi e delle parrocchie e

l’istituzione dei seminari generali, anche nella diocesi di Trento, il vescovo Sizzo de

Noris, con la complicità del magistrato consolare, sottrasse ai Somaschi il governo del

Seminario e lo gestì in proprio. I Somaschi, inoltre, negli ultimi anni non erano più in

grado di garantire un’ adeguata preparazione del clero, limitandosi all’insegnamento di

grammatica, retorica e canto. Filosofia, diritto, morale, teologia e servizio dei chierici

era di competenza dei Gesuiti. Quando però fu emanata la bolla che sanciva la

soppressione della Compagnia di Gesù, nel 1774, anche il vescovo si adeguò all’ordine

papale: sciolto l’ordine e incamerati i beni, la casa ad uso collegio con l’annessa Chiesa

di S. Francesco Saverio divenne la sede del seminario diocesano, controllata

346 J. BÉRENGER, Storia del’impero asburgico. 1700-1918, cit., p. 155. 347 E. GATZ, Sullo sviluppo del clero diocesano cattolico nell’Europa centrale di lingua tedesca dal XVI secolo alla secolarizzazione (1803), cit., p. 131. Sulla formazione scientifica del clero secolare in Italia, U. BALDINI, Elementi scientifici nella formazione del clero secolare in Italia (secoli XVI-XVIII), in M. SANGALLI (a cura di), Pastori pope preti rabbini. La formazione del ministro di culto in Europa (secoli XVI-XIX), cit., pp. 66-108. 348 J. BÉRENGER, Storia del’impero asburgico. 1700-1918, cit., p. 155.

107

direttamente dall’ordinario, primo responsabile della formazione del clero, che in questo

modo conobbe un deciso miglioramento349. Il percorso di studi fu ulteriormente

perfezionato quando, a fronte del tentativo imperiale di istituire i seminari generali in

sostituzione di quelli diocesani, Pietro Vigilio Thun rafforzò il suo controllo

sull’istituzione introducendovi anche la dogmatica350. L’attenzione per la preparazione

degli ecclesiastici fu in lui forte, ma non si deve dimenticare anche la sua sensibilità per

un’acculturazione del popolo laico351.

La stessa esigenza di pietà illuminata si manifestava nello stesso torno di tempo a

Salisburgo, in Hyeronimus Colloredo, sensibile alle esigenze di una solida formazione

del clero e dei fedeli attraverso una lettura diretta della Bibbia: ne usciva l’immagine di

un parroco quale pastore delle proprie pecore, zelante promotore della pietà illuminata

e attento all’istruzione dei suoi fedeli. I bersagli da colpire erano l’ignoranza, la

corruzione del cuore, l’incredulità e la falsa religione, al centro delle preoccupazioni

dello stesso Ricci. Colloredo riconosceva la funzione fondamentale dei parroci ai quali

spettava il delicato compito di istruire i fedeli nella pratica delle virtù cristiane. Rendere

cosciente il popolo che la vera religione era quella in base alla quale si adorava Iddio

soprattutto dal cuore, con consapevolezza dei contenuti della fede, era la condizione

preliminare per accogliere e abbracciare tutti quei provvedimenti che miravano a

riformare la religiosità popolare alla luce della pietà illuminata. Di indiscussa

importanza era l’azione pastorale dei parroci, che dovevano essere, per Colloredo, un

costante punto di riferimento per i fedeli. Fortemente avverso agli ecclesiastici oziosi,

scandalosi, più attenti al proprio tornaconto, che al proprio ministero, incoraggiava i

parroci ad essere responsabili e zelanti nella propria attività, che si sostanziava anche di

un impegno sociale e non solamente spirituale: la guida della comunità per Colloredo

non poteva limitarsi alla sfera religiosa, ma doveva estendersi anche alle necessità

quotidiane. Per questo mostrò attenzione per la sua formazione, che comprendeva sia

discipline scientifiche che umanistiche. Una solida cultura poteva garantire al parroco la

possibilità di diventare “l’amico, il consigliere, il maestro”, capace di risolvere problemi

di salute e di sbrigare faccende legali o economiche. Alla preparazione del clero doveva

corrispondere l’istruzione dei giovani di ogni strato sociale, di campagna e di città,

349 M. FARINA, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa dal 1650 al 1803, cit., pp. 539-540. 350 Ivi, p. 545. 351 Ivi, p. 546.

108

perché solamente la cultura era lo strumento per sconfiggere la superstizione,

l’immobilismo e la povertà352.

1.2 Il prete nel primo Ottocento

Dai provvedimenti di disciplinamento del clero di cui sopra, ne scaturì

l’immagine di un sacerdote dotato di un’istruzione elevata, accomunato agli altri da un

percorso formativo uniformato. Coerentemente con l’obiettivo di coinvolgere il clero

nella vita sociale, in tutte le sue declinazioni, scomparvero tutti quei chierici che si

accontentavano degli ordini minori per poter godere dei vantaggi derivanti dal loro

status, senza intervenire nell’opera pastorale, educativa o assistenziale. Scomparvero

altresì i clerici vagantes perché tutti gli ecclesiastici vennero ascritti ad una precisa

struttura diocesana. Anche da un punto di vista disciplinare il clero cambiò: ad esempio,

ad inizio Ottocento, era finito il tempo dei concubinati. I parroci, inoltre, vivevano per

lo più nelle zone rurali, sentendosi profondamente legati al mondo agricolo. Questo

nuovo modello di parroco è valido per le aree tedesche cattoliche, maggiormente

interessate dall’Illuminismo cattolico della seconda metà del Settecento. A inizio

Ottocento andò affermandosi un clero secolare che assumeva le caratteristiche degli

impiegati statali: soggetto al vescovo, si configurava come un clero diocesano in cui

l’Ordinariato, a sua volta assoggettato ad un controllo statale completo, doveva

controllarlo capillarmente. Il clero parrocchiale era assimilabile agli impiegati statali,

soprattutto da quando fu incaricato di compiti istituzionali, come ad esempio la

compilazione e il mantenimento dei registri anagrafici. I parroci si legarono allo Stato

da un rapporto di fedeltà che li impegnava ad una condotta adeguata. Creavano così un

nuovo ceto di amministratori riconoscibili dalla divisa da lavoro. Ai vescovi venne

riconosciuto un maggior peso nell’assegnazione delle sedi vacanti ma a causa

dell’istituto del patronato il sistema ecclesiastico rimaneva ancorato alla tradizione

d’ancien règime353. Solamente la legislazione napoleonica riuscì a riformarlo

completamente spingendosi anche in quei settori che il riformismo asburgico non toccò

e per questo fallì. I provvedimenti napoleonici, rispetto alla Costituzione civile del clero

352 G. C. CUSTOZZA, Colloredo. Una famiglia e un castello nella storia europea, Udine, Gaspari, 2003, pp. 245-253. 353 E. GATZ, Sullo sviluppo del clero diocesano cattolico nell’Europa centrale di lingua tedesca dal XVI secolo alla secolarizzazione (1803), cit., pp. 130-133.

109

del 1790354, furono più moderati e prendevano le mosse dal Concordato stipulato fra

Napoleone e Pio VII nel 1801. Solamente così la religione cattolica, divenuta “religione

della maggioranza dei Francesi” e non “dominante” (come avrebbe voluto il papa Pio

VII) fu sottoposta ad un rigido controllo statale. Innanzitutto Napoleone nel tentativo di

creare un nuovo episcopato, fedele allo Stato e che non risentisse delle influenze del

passato, si adoperò affinché i vescovi, tanto quelli costituzionali quanto quelli refrattari,

rassegnassero le dimissioni; introdusse, inoltre, il giuramento di fedeltà al regime da

parte del clero, ridusse il numero dei vescovadi per semplificare la struttura della Chiesa

francese e riuscì ad assicurarsi il diritto delle nomine vescovili. Ai prelati, direttamente

dipendenti da Napoleone, fu riconosciuto il pieno controllo sul clero parrocchiale,

annullando i precedenti diritti di patronato laico, su tutte le chiese e i seminari.

Stipendiato dallo Stato, il clero divenne un organo nelle mani del potere costituito355.

Per quanto il concordato fosse stato poco favorevole a Roma, manifestava la volontà di

conciliazione delle parti in causa: lo stesso Napoleone, infatti, riteneva che “l’alleanza

con la Chiesa [fosse] senz’altro più vantaggiosa per lo Stato rispetto al separatismo della

precedente età rivoluzionaria e ad una lunga tradizione gallicana che si era riproposta in

Francia sotto le mutate vesti della sovranità nazionale”356. Ma gli “Articoli organici”

dell’aprile 1802, promulgati dal solo Napoleone dopo la ratifica del Concordato,

sconfessarono alcune clausole del Concordato stesso dando inizio ad una lunga fase di

conflittualità con la Santa Sede. Essi introdussero, ad esempio, la parificazione di

Cattolicesimo e Protestantesimo, la necessità dell’approvazione governativa (il placet

regio) per la pubblicazione in Francia dei discorsi pontifici, la regolamentazione della

liturgia e l’adozione di un unico catechismo in Francia, la precedenza obbligatoria del

matrimonio civile su quello religioso. Nella Repubblica italiana, invece, i rapporti fra

Stato e Chiesa furono disciplinati dal concordato del settembre 1803, sebbene Francesco

Melzi d’Eril, vicepresidente, fosse stato convinto sostenitore del giurisdizionalismo e

contrario ad ogni concessione concordataria con la Santa Sede. Come abbiamo già visto,

l’organo preposto alla riforma del sistema ecclesiastico, all’interno della quale rivestiva

un ruolo di rilevanza assoluta la parrocchia, fu il Ministero per il culto della Repubblica

italiana, che andava ad affiancare gli altri sorti all’indomani del congresso di Lione357.

354 G. SORANZO, Chiesa e Stato attraverso i secoli, Milano, Vita e Pensiero, 1958, pp. 270-284. 355 Ivi, pp. 284-289. 356 I. PEDERZANI, Un ministero per il culto. Giovanni Bovara e la riforma della Chiesa in età napoleonica, cit., p 36. 357 Riguardo alla riforma della Chiesa in cura d’anime operata dal Bovara, ivi, pp. 62-176.

110

In terra trentina, invece, come vedremo, l’organizzazione ecclesiastica fu riformata dai

provvedimenti bavaresi, volti a fare della Chiesa uno strumento al servizio dello Stato.

2. Don Francesco Tecini e l’attività pastorale-letteraria negli anni della dominazione

bavarese

Rivestitosi di preoccupazioni pastorali, dotato di una solida preparazione

nutritasi anche delle sollecitazioni culturali del pensiero moderno, convinto sostenitore

di un impegno sociale del prete nella propria comunità di fedeli, don Francesco Tecini

impersonava il nuovo ideale di parroco, che andò affermandosi nei territori interessati

dall’Illuminismo cattolico a partire dalla fine del Settecento. Nei primi anni

dell’Ottocento, la situazione stessa, di conflittualità, transizione e precarietà determinata

dall’avvicendarsi frenetico di governi contribuì a fare del parroco il punto di riferimento

della comunità, in un momento di vuoto dell’autorità politica. Per Tecini la centralità

del suo ruolo nella guida della comunità non derivava solo dal convergere di circostanze

politiche, sociali, militari, in una situazione di disordine che elevava il parroco a unico

custode della vita civile e spirituale del proprio gregge, ma era rafforzata dalla totale

adesione ai principi di una religione utile al popolo, di cui il parroco doveva essere il

primo rappresentante.

La sua attività pastorale innovativa e originale rispetto alla chiusura dimostrata

da molti suoi “colleghi” verso i cambiamenti era sicuramente frutto di un percorso

formativo poliedrico, stimolato dalle sollecitazioni settecentesche, ma al contempo si

inseriva in cui contesto storico nuovo, in cui le esigenze di cura d’anima erano diverse,

così come le condizioni sociali e culturali e la stessa “filosofia cristiana”. Don Tecini,

insomma, era un uomo del suo tempo, con l’unica differenza rispetto ai suoi

contemporanei che lui il cambiamento, non l’ha subito, ma l’ha saputo vivere

consapevolmente, apprezzandone i vantaggi e smussando le spigolature. Prima però di

addentrarci nell’analisi delle sue opere, credo sia opportuno ripercorrere, almeno per

sommi capi la storia culturale e istituzionale trentina nel delicato passaggio fra XVIII e

XIX sec, con particolare attenzione al periodo bavarese. Così lo sguardo si limita ora

alla realtà perginese, con i dovuti richiami a quella trentina, in un periodo tanto breve

quanto intenso, come intensa fu l’attività pastorale e letteraria di Tecini in quegli anni.

111

2.1 Dalla fine del Principato alla dominazione bavarese in Trentino

Don Tecini ottenne la nomina a parroco e decano di Pergine nel luglio del 1797,

all’indomani del susseguirsi di governi provvisori. Dall’aprile del 1797 al dicembre del

1805, il Principato di Trento, secolarizzato poi con la convenzione di Ratisbona del

febbraio del 1803, passò sotto la dominazione austriaca, pur senza rimanervi in modo

continuativo. Durante gli anni della concitata dominazione austriaca, Francesco II, pur

smorzando il mordente riformistico giuseppino, si fece promotore di una serie di

provvedimenti di razionalizzazione e accentramento che da decenni ormai

caratterizzavano la politica degli Asburgo. In modo particolare, dopo l’annessione del

secolarizzato Principato di Trento all’Austria, condizione per un diretto controllo del

sovrano su tutto il territorio trentino, fu introdotta una nuova organizzazione politico-

amministrativa, il codice penale austriaco, si procedette all’incameramento dei beni

capitolari, alla regolamentazione del trattamento economico degli ecclesiastici,

all’abolizione delle Regole. Il sovrano, sensibile alla necessità di creare “sudditi fedeli e

soldati pronti a sacrificarsi per la causa degli Asburgo”358, favorì una più capillare

diffusione dell’istruzione elementare anche in territorio vescovile, non interessato

all’introduzione del provvedimento quando fu attuato, in età teresiana, nel circolo ai

Confini d’Italia e nel Tirolo. Ma la brevità del governo austriaco bloccò il compimento

dei progetti di riforma. Tuttavia i provvedimenti di quegli anni rappresentarono

un’importante antecedente, preparando il terreno, alle riforme bavaresi.

Passato alla Baviera, il Trentino fu oggetto di un intenso programma di riforma

politica, amministrativa, sociale ed ecclesiastica che, a sua volta, aveva trasformato

l’elettorato alla luce delle idee illuministiche, già nel corso della seconda metà del

secolo precedente359. L’alleanza con Napoleone, stipulata nel 1805, incentivò il primo

ministro bavarese barone di Montgelas a proseguire sulla strada delle riforme

dell’apparato statale prendendo a modello la Francia napoleonica. L’obiettivo era la

creazione di un’amministrazione improntata a criteri centralistici e la formazione di una

classe di burocrati professionalmente preparati e fedeli allo Stato. Passato alla Baviera

con il trattato di pace di Presburgo (26 dicembre 1805), anche l’intero Tirolo fu

sottoposto all’ondata riformatrice. Preso possesso del territorio trentino, con proclama 358 M. GARBARI, Aspetti politico-istituzionali di una regione di frontiera, cit., p. 17. 359 M. NEQUIRITO, Il tramonto del Principato vescovile di Trento: vicende politiche e conflitti istituzionali, cit., pp. 28-32.

112

del 22 gennaio 1806360, le autorità bavaresi procedettero ad una riorganizzazione

amministrativa del territorio che ruotava attorno agli Uffici circolari, suddivisi a loro

volta in Giudizi distrettuali. La carica di commissario del Tirolo fu attribuita al conte

Carlo d’Arco mentre Giovanni di Welsperg, fu nominato Capitano del circolo di Trento

e delegato del conte d’Arco per il giudizio provinciale della stessa città. Massimiliano

Giuseppe, pur promettendo di mantenere la costituzione del paese, di lì a poco fece

abolire le “Regolanie maggiori e minori”. Furono adottati provvedimenti in ambito

economico con la riforma monetaria che portarono alla miseria numerose famiglie361,

gravate anche dell’onere di mantenere le truppe di occupazione e quelle che

attraversavano il paese; le popolazioni, inoltre, furono costrette a contribuire

economicamente alla realizzazione del programma riformatore bavarese. Importanti

interventi furono promossi anche in ambito sanitario: basti qui ricordare, ai fini di

questo lavoro, la legge che introduceva la vaccinazione antivaiolosa362. Nel 1808, sulla

base della nuova strutturazione dell’intera Baviera363, fu creato il Circolo dell’Adige con

capoluogo Trento, suddiviso in quattordici giudizi distrettuali. Ciò comportò la

separazione amministrativa del Trentino dalla parte tedesca del Tirolo364. Nello stesso

anno entrò in vigore la normativa che regolamentava il settore dell’amministrazione

comunale: ad esempio, i registri di stato civile vennero sottratti ai parroci e affidati ai

consigli comunali. Si trattava di un provvedimento con cui il nuovo governo intendeva

360 A. CASETTI, Guida storico-archivistica de Trentino, cit., pp. 828-830. La presa di possesso civile avvenne invece l’11 febbraio 1806. (M. NEQUIRITO, “L’epoca d’ogni cangiamento”. Storia e documenti trentini del periodo napoleonico, Provincia Autonoma di Trento, Servizio beni librari e archivistici, 2004, p. 116). 361 Fu l’inizio di un generale aumento delle tasse, sul bollo, su vino e distillati, sugli animali da tiro e da macello. Particolarmente avversata fu l’introduzione del testatico, un’imposta personale che colpiva indiscriminatamente tutte le famiglie. Fu applicata per la prima volta in territorio trentino-tirolese, abituato a tutt’altro tipo di sistema fiscale. (M. NEQUIRITO, “L’epoca d’ogni cangiamento”. Storia e documenti trentini del periodo napoleonico, cit., p. 113). 362 Ancora in ambito sanitario vennero emanate normative che obbligavano a tenere pulite e strade e i fossati e a mantenere i luoghi pubblici in buone condizioni igieniche. Dopo l’introduzione della Costituzione, il regolamento sanitario del 1808 dotò distretti giudiziari e città di un medico accertato, pagato dalle comunità. (Ivi, p. 112). 363 D. ALLEGRI, Amministrazione e rivoluzione nel Tirolo meridionale: le riforme bavaresi ed italiche di primo Ottocento, (Prof. M. BELLABARBA), Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2007-2008. 364 Il 1 maggio 1808 fu emanato il nuovo ordinamento per il Regno di Baviera: ciò comportò in Tirolo la soppressione dell’antico ordinamento del Paese e della Dieta. Con la nuova costituzione la Baviera fu suddivisa in 15 circoli, retto ognuno da un Commissariato generale di Circolo. Il Tirolo fu diviso in tre circoli (Inn, Isarco e Adige). Il Circolo all’Adige con capoluogo Trento comprendeva tutti i territori italiani del Tirolo: alla guida del commissariato fu nominato il conte Welsperg. (M. NEQUIRITO, “L’epoca d’ogni cangiamento”. Storia e documenti trentini del periodo napoleonico, cit., pp. 113-114).

113

manifestare la volontà di subordinare la Chiesa al controllo dello Stato, in un generale

processo di secolarizzazione. In politica ecclesiastica, i provvedimenti emanati “furono

improntati da un rigido giuseppinismo ed alcuni anche dallo spirito anticlericale del

primo ministro del re di Baviera, Montgelas”365. Furono disciplinati molti aspetti, anche

marginali, della religiosità popolare per darne un’impronta razionalistica: furono abolite

numerose festività, rosari, vespri, processioni, così come a suo tempo aveva fatto

Giuseppe II. Fu addirittura vietato di suonare le campane contro le avversità

atmosferiche. Questi interventi però si estendevano su tutto il territorio trentino, anche

laddove prima non era giunta la politica imperiale. La politica religiosa bavarese causò

lo scontento di gran parte della popolazione che, spesso incitata dal clero, reagiva alle

pesanti restrizioni366. Anche ai vertici della Chiesa locale si diffuse una forte ostilità nei

confronti del governo bavarese. Lo Stato avocò a sé il compito della formazione del

clero, il diritto di nomina dei parroci e il conferimento delle prebende, con la

soppressione di conventi e l’incameramento dei beni, nel tentativo di trasformare i

sacerdoti in funzionari al servizio dell’amministrazione. Molto pesante fu il regio

decreto che vietava ai vescovi di ordinare sacerdoti che non avessero sostenuto l’esame

di teologia nell’università di Stato367. Al vescovo Emanuele Maria Thun fu concesso il

permesso di tornare in diocesi, ma l’intransigenza della politica ecclesiastica bavarese e

la sua ostinazione a non accettarla lo portò ad un nuovo scontro: nonostante l’appello al

pontefice, ne uscì sconfitto. Il re Massimiliano lo dichiarò decaduto e lo confinò a

Salisburgo368. Considerata sede vacante, sulla cattedra di Vigilio fu nominato vicario

generale il conte Spaur, che andava sostituire Simone Albano Zambaiti, destituito

perché inviso al governo. Così, il nuovo vicario accettò, nel 1808, la nomina a

provicario Francesco Tecini. Il parroco, come già anticipato, era noto al re Massimiliano

per il sostegno accordato nell’attuazione di alcuni provvedimenti della politica bavarese

e per il suo impegno a garantire l’ordine civile nella propria comunità. L’immagine di

Tecini è rappresentativa di una parte, seppur molto ristretta, di intellettuali e clero

trentini che vedeva nel governo bavarese un’occasione importante per rinnovare una

mentalità, soprattutto a livello popolare, ancora offuscata dall’ignoranza e dai pregiudizi

e per questo fonte prima di un’arretratezza delle masse che in una società d’ancién

regime era considerata congenita al loro status. L’attuazione di alcuni provvedimenti 365 S. BENVENUTI, La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), cit., p. 21. 366 M. NEQUIRITO, “L’epoca d’ogni cangiamento”. Storia e documenti trentini del periodo napoleonico, cit., pp. 111-114. 367 S. BENVENUTI, La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), cit., pp. 21-22. 368 Ivi, pp. 21-23.

114

avrebbe garantito un decisivo passo in avanti in questa direzione: le leggi per

l’introduzione della vaccinazione contro il vaiolo e successivamente delle scuole

bavaresi erano sintomatiche della volontà del governo di creare una società paritaria,

liberata da disuguaglianze e privilegi, in cui i sudditi, più autonomi e razionali potessero

esercitare un certo controllo sulla propria vita. Tuttavia non bisogna esagerare la portata

della novità della politica bavarese che, pur auspicando un mutamento nel senso del

progresso e della modernità, mirava a fare dei suoi sottoposti sudditi fedeli. Al di là

delle finalità politiche, a cui Tecini, peraltro, era estraneo, il parroco si prodigava per

favorire l’attuazione della legislazione bavarese non limitandosi a calarla dall’alto ma

instillando nei suoi fedeli un vero convincimento dei vantaggi che da essa potevano

trarre. Tecini, però ammirava il governo bavarese per il suo stato di acculturazione e

civilizzazione ancora prima che esso si facesse promotore di simili provvedimenti anche

in terra trentina. Per questo nel momento in cui Massimiliano Giuseppe prese possesso

del Tirolo, il parroco invitò i perginesi ad accogliere con giubilo la notizia: ma la sua

omelia, recitata dal pulpito della Chiesa di Pergine Valsugana, oltre a ciò, era carica di

idee che riflettevano la formazione illuminata del prete e l’atmosfera culturale di quel

periodo. Così il primo discorso in favore del nuovo governo denota la posizione filo

bavarese del parroco, il quale coerentemente con le sue convinzioni, difese negli anni

successivi l’introduzione della vaccinazione contro il vaiolo e delle scuole elementari.

Anche l’ultima opera pubblicata rientrava in un questo percorso coerente.

2.2 Il sostegno ai provvedimenti bavaresi attraverso le sue opere

Passato alla Baviera, il Tirolo e con esso il borgo di Pergine, fu sottoposto ad

un’intensa opera riformatrice che per essere attuata necessitava anche dell’appoggio

della popolazione: in caso contrario il rischio di rivolte, come poi fu, ne avrebbe

compromesso la concretizzazione.

Prima degli anni bavaresi, importanti riforme furono introdotte dal governo

vescovile e poi da quello austriaco, ma a determinare un’inversione di rotta sulla strada

del rinnovamento e del superamento della società d’ancién regime, fu l’esito a cui il

riformismo in Francia giunse: la rivoluzione. Se la Francia, come abbiamo visto, fu il

centro propulsore del giansenismo e dell’Illuminismo, nelle sue varie sfaccettature, ora

è la stessa Francia a determinare una battuta d’arresto al processo di modernizzazione e

a stimolare un rinnovato conservatorismo, tanto negli ambienti laici quanto in quelli

115

ecclesiastici. Nell’immaginario collettivo le nuove idee di Francia andarono identificate

quasi esclusivamente con la violenza rivoluzionaria, senza cogliere il potenziale di

progresso, civilizzazione, libertà e uguaglianza in esse contenuto. Don Tecini, invece,

per la formazione ricevuta, grazie alla quale maturò in lui un convinto sostegno al

riformismo settecentesco, riuscì a comprendere la bontà e la giustezza di alcuni

provvedimenti francesi, scindendo lo spirito da cui prendevano le mosse e l’obiettivo

ideale a cui auspicavano dalla violenza con cui vennero attuati. Divenuto arciprete e

decano di Pergine, il parroco si prodigò affinché la sua comunità si convertisse agli

ideali di progresso che fecero il loro ingresso trionfante in Trentino e a Pergine

Valsugana con il passaggio dell’ex Principato Vescovile sotto la dominazione bavarese:

così il prete assunse un ruolo rilevante nell’accompagnare la sua comunità verso la

nascita di una nuova società. La sua azione pastorale fu originale, utile per i fedeli, ma

troppo spesso criticata dai contemporanei, perginesi e non: mossi da sentimenti

nazionalistici, dal ricordo dell’autonomia dalle potenze straniere di cui godettero in

quanto sudditi del Principato vescovile di Trento, essi condannarono l’operato di Tecini

alla luce di motivazioni politiche. Videro nei suoi provvedimenti e nelle omelie che mi

accingo a presentare, un atteggiamento di servilismo nei confronti del re Massimiliano

Giuseppe.

La sua posizione filo bavarese fu subito manifestata quando nel 1806,

all’indomani della presa di possesso del Tirolo da parte del re Giuseppe Massimiliano,

don Tecini pronunciava dal pulpito della chiesa parrocchiale di Pergine un’omelia nella

quale comunicava al suo gregge la notizia.

2.2.1 “Pel solenne possesso preso da Sua Maestà Massimiliano Giuseppe re di Baviera

del S. R. I arci-conte palatino, arcidapifero, ed elettore ec. ec. del Tirolo, e principato

di Trento”

Il versetto tratto dal libro di Daniele (Dominus transfert Regna, atque constituit,

Dan. II. 21) con cui si apriva l’omelia, riassumeva il senso della predica di Tecini.

Prima ancora di comunicare ai suoi fedeli l’avvicendamento al trono del re di Baviera, il

parroco introduceva un concetto di grande importanza, attorno al quale ruotava la sua

riflessione, finalizzata a legittimare agli occhi dei perginese il passaggio del Tirolo da

116

Francesco II d’Austria a Massimiliano di Baviera: la distribuzione dei “caduci Troni”369

e il governo dei Popoli dipendeva dalla volontà divina. La contrapposizione fra la

transitorietà dei regni terresti e l’eternità di quello di Dio giustificava la fine dei primi.

Dopo questa premessa don Tecini comunicava al suo gregge il cambio di sovranità,

specificando da subito che Dio li conduceva “a piè d’un novello clementissimo

Sovrano”, “ottimo” e “sapientissimo”370. Il parroco anticipava lo sconcerto e lo

sconforto dei suoi fedeli, giustificando i loro sentimenti con la fedeltà e l’attaccamento

che essi avevano per casa d’Austria e condividendoli, ma solo in parte: Tecini, infatti,

parlava di uno “strano contrasto d’affetti” perché alla tristezza dell’abbandono

dell’Austria si doveva affiancare la gioia di avere come nuovo sovrano un “Principe

umanissimo, rinomato per il Suo generoso buon Cuore”371, artefice di tutto quel

progresso che contraddistingueva la Baviera degli ultimi anni372. Da subito il parroco

esprimeva i concetti propri della “filosofia cristiana” che si andò affermando a partire

dagli ultimi decenni del Settecento quando i rapporti fra Stato-Chiesa si rinnovarono

alla luce delle trasformazioni socio-culturali di quel periodo. L’apologetica degli anni

Settanta-Ottanta si sostanziava dei contributi maturati dall’incontro-scontro fra

cattolicesimo e lumi, quali la missione civilizzatrice della religione e l’“amore sociale”

inculcato dal cristianesimo e fondato in Dio373. Ne derivava l’idea di una “civiltà

cristiana” in cui il cristiano assumeva responsabilità religiosa verso Dio e civile nei

confronti dell’autorità politica e dei suoi simili, diventando un “cristiano cittadino”. Per

questo anche al nuovo sovrano occorreva tributare la stessa “sincera fedeltà”, “perfetta

ubbidienza” e “figliale affetto” riservata fino a quel momento a Francesco II374.

Dopo essersi rivolto al monarca, illustrando l’aspetto positivo di una simile

reazione di tristezza dei perginesi alla notizia375, riprendeva a parlare direttamente agli

369 F. TECINI, Pel solenne possesso preso da Sua Maestà Massimiliano Giuseppe re di Baviera, cit., p. 3. 370 Ibid. 371 Ivi, p. 5. 372 “Quello sotto di cui benigno Scettri tanto fioriscono in Baviera le Scienze, le Arti, il Commercio, l’Agricoltura, e quel che è più la Religione, il buon costume, la pubblica educazione, gli Istituti di carità, e tutto ciò che al pubblico bene conduce”. Ivi, pp. 5-6. 373 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, cit., pp. 209-210. 374 TECINI, Pel solenne possesso preso da Sua Maestà Massimiliano Giuseppe re di Baviera, cit., p. 3. 375 Se ci fosse stata indifferenza da parte dei perginesi, secondo Tecini, sarebbe stato peggio perché dice “questo nostro dolore, o Sire, non esclude e non soffoca i primi germi del più fervido amore per Voi”. La tristezza del suo gregge deriva dalla fedeltà insita nel popolo stesso; infatti i “Tirolesi, sanno ben’eglino perdere senza sospirare la loro vita per il Sovrano; ma non sanno perdere senza lagrime il Sovrano”. Così è stato per Francesco II d’Austria e lo sarà per

117

astanti mostrando loro i “Sacri doveri che verso il nuovo benignissimo nostro Re Iddio,

la Ragione, e lo stesso nostro vantaggio c’impongono”376. In questa frase è condensato

un concetto importante secondo il quale la felicità cristiana andava a coincidere con il

comportamento ragionevole dell’uomo, il quale a sua volta riconosceva nella religione

cattolica, l’elemento fondante della propria esistenza in quanto singolo e in quanto

collettività, legittimando il potere costituito. Esso, infatti, come anticipato, era fondato

dalla volontà divina, e nel caso specifico, il cambio di sovranità non derivava dalla

sorte. Per persuadere i fedeli della giustezza del suo discorso, don Tecini li invitava ad

interpretare ali avvicendamenti politici di quegli anni alla luce di alcuni passi della

Bibbia: ripercorrendo la storia dell’incoronazione a Re di Samuele, tratta dal primo libro

dei Re, il parroco sottolineava come, nonostante all’apparenza l’elezione fosse stata

guidata dalla sorte, attraverso il popolo, in realtà fu Dio a sceglierlo, perché Dio aveva

guidato sia il popolo che la sorte. Altri passi della Bibbia, tratti ora dall’Antico ora dal

Nuovo Testamento confermavano la sua tesi: don Tecini citava il libro dei Proverbi, il

profeta Daniele, S. Paolo per affermare a gran voce che “ogni suddito sarebbe infedele a

Dio medesimo, se infedele fosse al Suo Sovrano”377. Il primo a fornire l’esempio del

giusto comportamento del suddito verso il sovrano fu Gesù stesso con i suoi discepoli: i

veri cristiani erano coloro che “illuminati […] dal Vangelo, dall’esempio di Cristo, e

dalle massime della Chiesa, cheti e rispettosi ubbidivano in tutto dove la legge di Dio il

permetteva al Monarca benché pagano, benché sovente ingiusto e crudele”378, come i

cristiani di Bitinia, durante il governo di Plinio giuniore. Ai fedeli del suo tempo don

Tecini certo non chiedeva simili prove di obbedienza e di fedeltà perché i tempi si erano

ormai evoluti in nome della giustizia e della civilizzazione: in uno stato paternalistico

come quello del tardo Settecentesco e primo Ottocento, in cui i Regni erano famiglie e

il Sovrano il padre, la “Santa Religione”, ovvero il cattolicesimo, era sostenuta e

protetta dallo stesso Stato. Alla luce di una concezione paternalistica del potere anche i

Sovrani avevano degli obblighi nei confronti dei sudditi e della fonte della loro

legittimità, Dio. Le conferme a queste parole vengono ancora dalla Bibbia, in

conformità con la necessità, allora avvertita prima per il clero, poi per i dei fedeli, di

rafforzare la preparazione dei contenuti della fede attraverso la lettura della Scrittura,

Massimiliano di Baviera. (F. TECINI, Pel solenne possesso preso da Sua Maestà Massimiliano Giuseppe re di Baviera, cit., pp. 6-11). 376 Ivi, p. 11. 377 Ivi, p. 15. 378 Ivi, p. 17.

118

del Nuovo Testamento, soprattutto di S. Paolo379, più volte nominato, a sottolineare

esigenze pastorali e non storico-erudite e storico-esegetiche. La semplicità del

linguaggio stesso adottato dal parroco rispondeva alla volontà, tipicamente muratoriana,

di penetrare nelle menti dei fedeli per permettere loro una piena e consapevole

comprensione del messaggio cristiano.

Per rafforzare i suoi fedeli nella convinzione della giustezza e della necessità di

ubbidire al sovrano, il parroco introduceva un concetto tipico del dibattito settecentesco

sulla legittimità del potere costituito che trovò la sua più compiuta elaborazione teorica

nella scuola giusnaturalistica. Al fine di garantire una pacifica convivenza e la felicità

pubblica don Tecini riconosceva la possibilità di un’origine contrattualistica del potere

costituito. L’obbligo alla fedeltà e all’obbedienza al Sovrano non derivava

esclusivamente dall’esistenza di una legge imposta da Dio: gli uomini stessi, con un atto

razionale, dunque volontaristico, sarebbero disposti a privarsi di una parte della propria

libertà per garantire la felicità di tutti. Da ciò ne emergeva che la pubblica felicità,

concetto tipicamente settecentesco, era fortemente dipendente dall’obbedienza a una

legge che per i cristiani era data da Dio attraverso il Sovrano, il quale agiva in difesa

della pubblica felicità dei suoi sudditi e dunque della religione, considerata elemento di

coesione sociale, al fine di garantire loro il benessere spirituale e materiale, con la stessa

premura di un padre per i suoi figli. Veniva riconosciuta la legittimità di una gestione

assolutistica del potere, in cui il Sovrano diventava l’unico garante del buon

funzionamento della società e protettore della fede. In questo sistema la chiesa doveva

farsi strumento di sostegno ai provvedimenti statali. Ben si sa però che, i provvedimenti

bavaresi, mirarono a porre la Chiesa in una posizione di netta subordinazione rispetto al

potere costituito.

Al concetto di pubblica felicità don Tecini collegava quello di patria e i

sentimenti ad esso connessi: gloria e senso di dovere. Ma se questi non erano sufficienti

per impegnare i sudditi in difesa della patria allora il parroco li accompagnava ad un

ragionamento egoistico, “di calcolo interessato”380: senza la fedeltà al sovrano, che

implicava un impegno diretto in difesa del bene comune, la comunità si sarebbe ben

presto trovata in balia dei nemici esterni. Così ciò che di proprio (la vita, la famiglia, la

salute…) si pensava di salvare, si sarebbe perso senza riparo.

379 Ivi, p. 19. 380 Ivi, p. 23.

119

Per convincere i perginese dell’affetto paternalistico che il sovrano aveva già

dimostrato verso i suoi sudditi don Tecini, prima di concludere la sua omelia, passava

ad illustrare i provvedimenti che Massimiliano aveva adottato in Baviera, facendola

assurgere a uno dei paesi più floridi: l’agricoltura, il commercio, l’industria conobbero

un grande balzo in avanti grazie alle riforme introdotte che stimolarono una generale

ripresa economica e un miglioramento delle condizioni di vita dal quale non rimasero

escluse anche le categorie più deboli, quali gli orfani e le vedove. La povertà fu un

problema sociale che, grazie all’introduzione di alcuni provvedimenti pensati dal conte

di Rumford e successivamente delle norme riguardanti la pubblica istruzione, conobbe

un’importante battuta d’arresto381. Anche l’amministrazione della giustizia, la pubblica

sicurezza furono riformate alla luce della volontà di costruire una società accentrata,

gerarchicamente organizzata, burocratica, funzionante in ogni sua parte e capace di

garantire il progresso e la civilizzazione a tutti i sudditi. Sottolineando anche le

dimostrazioni d’amore del Sovrano che promise ai perginesi di mantenere inalterato il

loro ordinamento sociale, privilegi e abitudini, e permise il ritorno del vescovo

dall’esilio, don Tecini esortava i fedeli a gioire per la venuta del nuovo re, da

considerare non tanto come tale, quanto come un padre, e “a festeggiare sì lieta

occasione colle maggiori dimostrazioni d’allegrezza”, senza dimenticarsi dei

“Poverelli” per i quali il parroco invita i fedeli a fare dell’elemosina, cosa accetta a Dio

e al Sovrano. Dal canto suo Tecini volle “solennizzare sì fausto avvenimento” invitando

tutti, ma soprattutto i poveri, a mandare i propri figli presso la sua canonica dal 19 al 25

del corrente mese, dove avrebbe provvisto a farli vaccinare gratuitamente da mano

esperta382. Infatti, nonostante le sue “più fervide istanze fatte in Chiesa ed in privato, la

Vaccinazione del Vajuolo [veniva ancora] nella [sua] Parrocchia […] interamente

negletta”383.

2.2.2 “Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione”

Fra i vari provvedimenti bavaresi riguardanti la sfera sanitaria, introdotti anche

in Tirolo, si ricorda in questa sede la vaccinazione obbligatoria: l’ “innesto del vaccino”,

come veniva chiamato all’epoca, non era certo nuovo, visto che i suoi effetti positivi

nell’immunizzazione dalla terribile malattia del vaiolo erano conosciuti sin dal XVIII

381 Ivi, pp. 28-29. 382 Ivi, p. 34. 383 Ivi, p. 34.

120

secolo, anche in Tirolo. Già l’imperatore Giuseppe II, infatti, provvide ad istituire la

vaccinazione obbligatoria per i fanciulli, dai 4 mesi in su, incontrando però molta

resistenza da parte della popolazione locale. Nel 1806 fu il governo bavaro ad occuparsi

di applicare il provvedimento, riuscendo a compiere un decisivo passo in avanti verso il

debellamento di una malattia che mieteva in Europa ancora molte vittime ogni anno384.

Di fronte a tanta reticenza, anche don Tecini si prodigò affinché i suoi perginesi si

convincessero della bontà e della necessità del nuovo provvedimento: gli strumenti a

sua disposizione erano ovviamente le omelie dal pulpito.

Quest’omelia venne pronunciata il 4 gennaio 1807 in occasione dell’ “Ottava dei

S. Innocenti”, come si legge nel frontespizio385. Il parroco approfittava della narrazione

del vangelo di quel giorno, relativa alla strage degli innocenti ordinata da Erode, per

convincere i genitori a far vaccinare i propri figli. Infatti, Tecini configurava “come una

strage degli innocenti quella operata dal vaiolo, strage della quale i genitori sarebbero

stati corresponsabili rifiutandosi di sottoporre i figli alla vaccinazione”386. I tentativi del

parroco di persuadere i perginesi della necessità di far vaccinare i bambini derivavano

anche dal fatto che, quando dal pulpito della chiesa, era stato pubblicato un ordine sulla

vaccinazione, esso era rimasto del tutto inascoltato da parte dei perginesi. Il suo

contributo nel rendere esecutivi gli ordini sovrani rispondeva, da una parte, alla sincera

convinzione della bontà di alcuni provvedimenti bavaresi, ma dall’altra anche a un

dovere a cui il parroco era vincolato in quanto suddito, soprattutto dopo l’emanazione di

una nota di polizia del 9 settembre 1807, con la quale le autorità bavaresi invitavano

l’Ordinariato a dare disposizioni a tutti i parroci e curatori d’anime per persuadere il

popolo della bontà dei loro provvedimenti387.

Pur consapevole della tragicità del vangelo di quella domenica, Tecini,

rivolgendosi alle madri, esordiva premettendo che doveva affrontare quel triste

argomento per il loro bene e un suo dovere. Da parte loro, anche i fedeli erano tenuti a

eseguire quanto ordinava il sovrano, in qualità di sudditi cristiani, rispettosi dell’autorità

civile e divina, e di genitori, premurosi del bene dei propri figli388.

384 Per una descrizione dettagliata degli aspetti pratici del provvedimento rimando a D. ALLEGRI, Amministrazione e rivoluzione nel Tirolo meridionale: le riforme bavaresi ed italiche di primo Ottocento, cit., pp. 182-195. 385 F. TECINI, Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione, cit., p. n.n. 386 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, in Atti del Convegno. Sigismondo Moll e il Tirolo nella fase di superamento dell’antico regime, cit., p. 242. 387 S. BENVENUTI, La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), cit., p. 21. 388 F. TECINI, Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione, cit., p. 6.

121

Ad inizio Ottocento erano ancora fortemente radicati pregiudizi che impedivano

alla popolazione rurale, molto incolta in ambito sanitario, di comprendere la portata

dell’introduzione della vaccinazione contro il vaiolo. Don Tecini, prima di entrare nel

vivo della sua predica finalizzata a smascherare la falsità e l’assurdità di tali pregiudizi e

a convincere i genitori a far vaccinare i propri figli, si rivolgeva ai “Santi Innocenti,

fortunati Bambini che non parlando, ma morendo confessaste la Fede di Cristo”

affinché, per loro tramite, Dio riuscisse a dare la giusta forza persuasiva alle sue parole.

Non si dilungava sulla definizione di “vaccinazione” perché già in altre occasioni ne

parlò: attribuiva la scoperta al dottor Jenner e descriveva brevemente in che cosa

consistesse tale operazione.

Rivoltosi direttamente alle madri, faceva leva sulla loro pietà per convincerle

che una strage degli innocenti come quella compiuta dal vaiolo, poteva essere evitata se

esse avessero accettato di far vaccinare i bambini. Ma il parroco era consapevole che la

loro riluttanza non era data da una falsa pietà, ma era dovuta ad una naturale diffidenza

verso la novità, alla mancanza di informazione, a una conoscenza incompleta ed errata,

causa di chiacchiere di ignoranti, giudicati illuminati e, a volte, di un “malizioso

interesse altrui”389. Tre elementi, secondo il parroco, dovevano concorrere a convincere

i genitori della bontà e della necessità della vaccinazione contro il vaiolo: innanzitutto la

logicità e razionalità dei discorsi in difesa del provvedimento, poi i risvolti concreti

sulla salute dei bambini vaccinati, che confermava la loro validità, infine la premura dei

sovrani, garanti del benessere materiale dei sudditi, con cui si adoperavano per far

rispettare l’ordine non potevano non persuadere i genitori a far vaccinare i figli. In caso

contrario lo stesso Tecini li avrebbe definiti disumani e crudeli. Contro di loro si

sarebbe scagliato anche S. Paolo quando, rivolgendosi ai Corinzi disse: “Chi non ha

cura de’ suoi, e specialmente dei Domestici, è un Rinnegato, e peggiore d’un

Infedele”390. Come nell’omelia già analizzata, anche in quest’occasione il parroco si

avvaleva delle Sacre Scritture per dare fondatezza al suo ragionamento e dimostrare

come la giustezza delle sue esortazioni trovassero riscontro proprio in alcuni passi della

Bibbia391. Per convincerli, invece, dell’amore filiale con cui il re decretò l’introduzione

della vaccinazione anche nelle terre di recente annessione passava in rassegna altre

misure, già adottate, che lo qualificarono come il più “vigilante ed oculato sulla

389 Ivi, p. 8. 390 Ivi, p. 9. 391 Ivi, p. 11.

122

pubblica e privata salute”392: Tecini si riferiva ai provvedimenti contro il pericolo della

febbre gialla393, all’ordine con il quale il sovrano impartiva al Medico del Circolo di

controllare le spezierie, antesignane delle moderne farmacie, al compito affidato a un

funzionario di rilevare la salubrità delle pubbliche prigioni, all’impegno stesso del re

che personalmente controllava la qualità del cibo per evitare che il popolo fosse

ingannato da chi faceva passare per buoni cibi cattivi o insalubri. Alla luce di queste

prove manifeste di preoccupazione per la salute dei suoi sudditi, invitava i fedeli a

riflettere sull’onestà dei provvedimenti regi. Chiedeva infatti don Tecini: “E’ crederete

che un Monarca sì impegnato per la salute dei Sudditi d’ogni classe voglia ordinare ai

vostri cari Fanciulli una Operazione, se rimanesse un minimo dubbio sul

giovamento?”394. Era paradossale per il parroco la diffidenza dei suoi contemporanei

verso la vaccinazione introdotta dal loro sovrano e l’ubbidienza che mostrarono invece i

sudditi di Erode, allorché quest’ultimo ordinò l’uccisione di tutti i bambini di

Betlemme. Troppa ignoranza adombrava le menti dei suoi fedeli, troppi pregiudizi

impedivano una comprensione razionale dei vantaggi derivanti da un simile

provvedimento: don Tecini li conosceva tutti e ad ognuno opponeva una confutazione

che ne smascherava l’infondatezza. A chi chiedeva prudenza, trattandosi di una cosa

nuova, il parroco rispondeva che prima di permettere una diffusione pubblica della

vaccinazione, medici e studiosi andarono cautissimamente. Anche l’idea stessa che la

vaccinazione fosse una cosa nuova era errata perché era “antichissima in sé, ma

ritrovata da poco”, come l’America. C’era chi temeva gli effetti collaterali sull’uomo,

considerato che “la Vaccina è un male proprio delle bestie; dunque non può che nuocere

all’Uomo”: in effetti il parroco affermava che il fanciullo vaccinato poteva presentare

qualche linea di febbre e una piccola postula, unici e transitori effetti collaterali, del

tutto inconsistenti rispetto ai benefici a lungo termine che la vaccinazione garantiva.

Altri, però, dubitavano che con il tempo non si presentassero altre controindicazioni:

“non si sa” dicevano, “cosa possa col tempo accadere ai bambini vaccinati”395. Il

parroco allora sottolineava che l’unica cosa di cui tutti erano a conoscenza era la gravità

delle conseguenze del vaiolo, per chi riusciva a sopravvivere. Un altro pregiudizio

determinava la diffidenza dei genitori verso la vaccinazione: la convinzione, radicata

nell’immaginario collettivo, che il vaiolo fosse uno sfogo necessario della natura, da 392 Ivi, p. 13. 393 Il parroco specifica che pur non essendo stato introdotto in Tirolo perché non ancora annesso al Regno di Baviera, di questo provvedimento ne giunse notizia anche qui. (Ivi, p. 13). 394 Ivi, p. 14. 395 Ivi, p. 21.

123

non impedire. Don Tecini allora si appellava all’autorità di Richard Mead, medico

britannico che nella prima metà del Settecento contribuì in maniera determinante allo

studio delle malattie contagiose396. Citando una sua opera, De variolis et morbillibus

dissertatio, nella quale Mead sosteneva che la diffusione in Europa di alcune patologie,

prima sconosciute, si datasse all’VIII-IX sec. d. C., al tempo delle invasioni di

popolazioni straniere, il parroco dimostrava come il vaiolo non fosse una malattia

naturale, dunque necessaria. Essa era un male che si contraeva per via aerea o per

contatto; non certo perché lo voleva Dio. “Il vero comando divino, fissato nella natura,

nelle leggi e nel cuore era invece quello di difendere la vita e di prolungarla, fosse solo

per un’ora”397. Convincere i fedeli di questo significava infondere in loro una nuova

idea di Dio: un Dio buono, tenero, da amare e non più da temere, premuroso del

benessere terreno dei suoi fedeli, anche in materia sanitaria. Era infatti, la stessa Divina

Provvidenza, secondo il prete, ad aver permesso la scoperta della vaccinazione per

opera del dott. Jenner398. Per Tecini scienza e fede camminavano insieme per garantire

all’uomo la felicità terrena. Alla luce di queste considerazioni perdeva senso anche la

convinzione che la morte di bambini per vaiolo fosse voluta da Dio. Essa anzi era

espressione di una “barbara illusoria Santità”399, di una religiosità popolare fatta di

superstizione da cui derivavano ragionamenti assurdi e contraddittori.

Don Tecini si prodigò affinché il suo popolo vivesse in maniera consapevole il

grande cambiamento in atto a quei tempi, per convincerlo delle potenzialità positive in

esso presenti. L’introduzione della vaccinazione contro il vaiolo aumentava

incredibilmente le aspettative di vita ma accettare questo provvedimento significava

scardinare un consolidato universo culturale su cui, fino ad allora, si era basata l’intera

società d’ancien régime. Il parroco si sentiva in dovere di palesare i limiti della fede

tradizionale per rinnovarla in nome di una religiosità utile e civilizzatrice. Illuminare le

loro menti con la ragione non significava affatto laicizzarle, ma conquistare i fedeli ad

una concezione progressista della vita in cui la religione cristiana rimaneva comunque il

fondamento della loro esistenza. Accogliere la vaccinazione significava apprezzare un

atto d’amore del Sovrano verso i suoi sudditi che era a sua volta espressione dell’amore

396 A. ZUCKERMAN, Plague and Contagionism in Eighteenth-Century England: The Role of Richard Mead, in “Bullettin of the History of Medicine”, Baltimore, Jhons Hopkins University, 2004, vol. 78, n. 2, pp. 273-308. 397 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 242. 398 F. TECINI, Contro i pregiudizi che ancora s’oppongono alla vaccinazione, cit., p. 18. 399 Ivi, p. 25.

124

di Dio verso i suoi fedeli. Così, anche in questo caso, l’obbedienza al re era

contemporaneamente obbedienza al Padre. Accogliere la vaccinazione significava anche

rendersi responsabili della salute del prossimo, in quanto singolo e collettività, dando

manifestazione concreta del proprio amore cristiano verso i fratelli. Rifiutarla

significava, invece, violare un obbligo di coscienza e un dovere verso Dio. Il tutto

assumeva il giusto significato alla luce della concezione, illustrata ampiamente dal

Tecini nell’omelia del 1806, in base alla quale la comunità era una grande famiglia, il

sovrano un padre amorevole, la religione cristiana l’elemento di coesione e Gesù

l’esempio da seguire.

2.2.3 “Elementi del buon suddito cristiano. Appendice alla spiegazione catechetica del

quarto precetto del decalogo”

Anche con quest’opera don Tecini conquistò l’ammirazione del governo

bavarese; anzi, fu proprio per la stima di cui già godeva da parte di Massimiliano

Giuseppe che gli fu commissionata la stesura di quest’opuscolo, destinato a diventare,

come si evince già dal titolo, l’appendice alla spiegazione del catechismo. Per esigenze

di logicità del discorso anticiperò qui alcuni concetti che saranno approfonditi nel

capitolo successivo: infatti la stesura di quest’opera va contestualizzata all’interno del

grande progetto bavarese di fondare nuove scuole elementari per garantire ai bambini

un’istruzione minima e le nozioni di una corretta condotta morale ed etica, cristiana e

civile. Il primo volume delle Breve Istruzioni ad uso delle scuole elementari curate da

Bacher era dedicato alla morale. Ma se i testi precedenti austriaco-tirolesi usavano il

terrorismo ideologico e la minaccia di punizioni eterne per ottenere cristiani e sudditi

sempre obbedienti al potere400, nel manuale bavarese prevaleva la serenità della fede e il

precetto dell’amore verso tutti: le Brevi Istruzioni, “nello spirito informatore e nel modo

di accostarsi alla mentalità dei giovani, rappresentavano, rispetto ai testi austriaci, un

salto di qualità quasi audace”401. Nelle Istruzioni, la parte dedicata alla morale voleva

imprimere nei giovani il rispetto (e non il timore) verso Dio e le norme di un

comportamento virtuoso perché la virtù era connessa con la felicità ed il benessere

individuale e sociale. Anche la sfera quotidiana veniva disciplinata alla luce di principi 400 M. BASSOLI, I libri di lettura nella scuola elementare trentina dell’Ottocento, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, Comune di Trento, 1998, pp. 162. 401 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 223.

125

di civiltà, regole igieniche, prudenza, ragionevolezza, per scansare l’ignoranza e la

superstizione. Alle parti dedicate alla storia naturale, alla fisica, alla geografia, alla

storia antica, astronomia e cronologia, seguiva una parte contenente Altre utili

cognizioni pei Fanciulli ed una Appendice. Regole della civiltà. Nel 1808, all’indomani

dell’introduzione del catechismo bavarese steso dal benedettino Ägidius Jais, Tecini

venne incaricato di stendere un’appendice rivolta all’insegnamento dell’etichetta,

ovvero del buon costume, visto non tanto come decoro formale ma come dovere di

rispetto verso i propri simili402.

L’obiettivo di quest’opuscolo, breve per sua necessità, in quanto “operetta

elementare”403, veniva specificato dall’autore già nella prefazione: il catechismo, infatti,

veniva considerato l’opera più necessaria per l’educazione della gioventù e del popolo

perché faceva del cristiano un suddito fedele e un utile cittadino404. In questa

affermazione si concentravano due importanti concetti.

In primo luogo, come già anticipato in occasione dell’omelia del 1806, la

concezione di una società politica e civile strutturata gerarchicamente, alla cui sommità

si collocava la fonte del potere, legittimata da un principio divino, mentre alla base ci

dovevano essere sudditi obbligati all’obbedienza e alla fedeltà ad un Sovrano,

considerato come un Padre. L’opuscolo si apriva infatti con una frase di grande effetto,

riassuntiva della concezione paternalistica di un potere che, come per tutto il Settecento,

era ancora concentrato nelle mani di un Sovrano: “il Regno è una Famiglia: il Sovrano

n’è il Padre, i Sudditi ne sono i Figlj”405.

In secondo luogo trovava il giusto posto la convinzione che una corretta

condotta morale, disciplinata dalla giusta conoscenza della religione, andasse a

vantaggio di tutta la società: il singolo non era considerato solamente un suddito, legato

esclusivamente al sovrano, ma era anche cittadino, proiettato dunque all’interno di una

visione più ampia della realtà che si apriva anche ai rapporti con i suoi simili. Per questo

la “doverosa Subordinazione nell’umana Società è il fondamento della pubblica, e

privata felicità”406. L’uomo era, dunque, anche parte di una società, ma prima ancora di

una famiglia, considerata come una società in miniatura, definita non a caso “domestica

Società”.

402 Ivi, pp. 224-225. 403 F. TECINI, Elementi del buon suddito cristiano. Appendice alla spiegazione catechetica del quarto precetto del decalogo, cit., p. 4. 404 Ivi, p. 3. 405 Ibid. 406 Ibid.

126

Il parroco, con quest’operetta, immaginando un dialogo fra il maestro e il

discepolo, portava il fanciullo a riflettere sui legami esistenti fra i vari membri di una

famiglia, per poi cogliere i vincoli che legavano la stessa alla società vera e propria407:

come il ragazzo doveva rimanere subordinato al padre, per un vivere armonico e

pacifico in famiglia408, così lo doveva essere anche nei confronti del Sovrano: obbedire

al re significava innanzitutto obbedire a Dio ma significava anche avere rispetto della

libertà dei propri cittadini, perché il vero interesse di ogni individuo era l’interesse e il

vantaggio comune409. Così l’insieme di più famiglie, intese come società domestiche

formavano la cosiddetta società locale. Essa a sua volta si univa ad altre per andare a

costituire la società generale, perché le singole società locali non potevano sussistere né

essere felici da sole410: dal legame di più società ne derivavano grandi vantaggi, quali

innanzitutto il commercio. Anche qui, alla base, doveva regnare la concordia e, in caso

di società indipendenti incapaci di garantirla, era necessaria la subordinazione a un capo

comune. Ne derivava poi il concetto di patria intesa come una grande famiglia411.

Nell’opuscolo don Tecini dedicava un paragrafo anche ai concetti di libertà e

uguaglianza, riferendosi implicitamente alla rivoluzione francese, idee che inizialmente

riuscirono ad affascinare i popoli e in nome delle quali combatterono, ma che ben presto

si rivelarono “impossibili Chimere”412. Restringendo il discorso dalle nazioni alla

famiglia, il discepolo immaginario rispondendo alle domande del maestro, affermava

che la vera libertà dei figli non consisteva nell’arbitrio, ma nel compiere il bene

rispettando l’autorità del genitore: la libertà di fare tutto ciò che si voleva non sarebbe

stata vantaggiosa, anzi “perniciosissima” perché la totale libertà di uno comprometteva

quella dell’altro. L’uguaglianza, invece, andava intesa come uguale amore del padre

verso tutti, premuroso verso il bisognoso, autoritario verso chi sbagliava. Essa

consisteva anche in una distribuzione diversa degli incarichi in base all’abilità, all’età, al

merito, non per discriminare ma per raggiungere il bene comune. Così doveva essere

407 Ivi, p. 4. 408 Tecini parla a tal proposito di concordia: “Basterebbe egli se in una SOCIETÀ DOMESTICA tutti ubbedissero bensì al Capo, ma non fossero poi tra loro in concordia? Non baste renne; anzi vi regnerebbe sempre infiniti diosrdini, ed inquietezze. Una delle prime cure di Chi comanda debbe essere il mantenere, insieme colla Subordinazione, anche la Concordia fra tutti i membri della domestica Società”. (Ivi, p. 7). 409 Ivi, p. 8. 410 Ivi, p. 14. 411 Ivi, p. 15. 412 “I Popoli conobbero dopo una terribile esperienza, che erano assai più infelici colla Libertà, e coll’Eguaglianza, idee, dalle quali rimasero da prima affascinati, e poi le riconobbero per prova quali impossibili Chimere, e funeste cagioni d’indicibili universali disgrazie”. (Ivi, p. 16).

127

anche nella Monarchia perché una libertà illimitata degenerava in schiavitù e

un’uguaglianza assoluta in disuguaglianza e ingiustizia413. Come al padre, anche al

sovrano il suddito doveva subordinazione che significava amore, obbedienza, fedeltà,

aiuto e difesa. Come nell’omelia del 1806, anche ora l’autore dell’opuscolo affermava

che bisognava amare il Sovrano per dovere, perché lo comandava Dio, e per interesse

perché era il garante del bene pubblico e privato. Inoltre, la ragione stessa portava a

manifestare la propria gratitudine verso un re che amava i suoi sudditi come un padre

amava i figli. Dall’amore derivava l’obbedienza, condizione indispensabile per la

concordia, e la fedeltà, che garantiva la difesa del sovrano e della patria. Disastrose

sarebbero state le conseguenze dell’infedeltà e della disobbedienza perché generavano

ribellione, fonte di gravi danni per la società. In questo caso i doveri di un suddito

(soprattutto del clero, dei genitori e delle “persone prudenti alle quali Iddio diede i lumi,

ed il senno per loro, e per pubblico vantaggio”) erano quelli di un buon figlio di

famiglia verso il padre oltraggiato, di un buon fratello verso i fratelli accecati: con le

parole e con l’esempio doveva tentare di ripristinare la tranquillità, la pace, convincendo

i “Traviati” della gravità dell’insubordinazione verso il padre o il sovrano e imprimendo

in loro il precetto che l’obbedienza era un obbligo di coscienza imposto dalla

religione414. Al sovrano occorreva dare, inoltre, aiuto con i tributi e con la difesa

affinché quello stesso aiuto ritornasse poi a vantaggio di tutti.

A posteriori quest’opera può essere tacciata di conservatorismo perché in essa il

parroco difendeva una concezione assolutistica del potere e un’organizzazione

verticistica della società, in cui non si abbattevano le disuguaglianze fra ceti né le

gerarchie di potere. L’originalità della posizione di Tecini però, come afferma M.

Garbari, era data dal fatto che lui era “un uomo di chiesa che aveva preso in esame i

principi della rivoluzione, senza scagliarsi contro di essi quasi fossero una

manifestazione demoniaca, ma sottoponendoli ad un esame severo, pur con toni

critici”415. L’attualità della sua posizione, in riferimento alle trasformazioni culturali del

tempo, era data anche dalla volontà di infondere una nuova idea di Dio, amorevole e

413 “Ora, per conchiudere, cosa intendete voi per vera Libertà politica, e per vera Eguaglianza in una Monarchia?” Intendo per vera Libertà la protezione del Sovrano, e delle Leggi contro ogni oppressione, e l’arbitrio in tutti di fare il bene con Subordinazione al Sovrano che ne regola il modo, ed impedisce il male e le violenze, e per vera Eguaglianza la Benevolenza, la provvidenza del Sovrano colle dovute proporzioni eguale verso tutti secondo la loro capacità, e merito, e coi necessarj riguardi al pubblico Bene” (Ivi, p. 19). 414 Ivi, pp. 22-23. 415 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 226.

128

attento al bene spirituale e terreno dei suoi fedeli. Di riflesso cambiava anche l’idea del

Sovrano, ora illuminato e riformatore, garante che le iniziative di governo non sarebbero

state a vantaggio solo della monarchia, ma sarebbero rifluite sul popolo assicurando

benessere e felicità416.

3. Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli,

e fanciulle

Dal momento in cui il territorio trentino entrò nell’orbita di dominazione

bavarese, l’ex Principato venne a contatto diretto con le idee francesi quelle stesse idee

che gli abitanti del posto, chi più chi meno, avversavano per la violenza di cui si

facevano portatrici.

È proprio alla luce di questi limiti nella mentalità della popolazione perginese,

che assume senso l’attività omiletica attraverso la quale don Tecini dispiegò le sue

energie nel tentativo di conquistare i fedeli ad una concezione progressista della vita per

permettere loro di apprezzare consapevolmente i benefici derivanti da alcuni

provvedimenti bavaresi, quali ad esempio l’introduzione delle scuole elementari per

bambini e bambine.

3.1 Tra analfabetismo e scolarizzazione: alcune considerazioni generali sull’istruzione

popolare trentina in età moderna.

Fino al termine dell’antico regime, con la secolarizzazione del 1803, nel

territorio del principato alla frammentazione giurisdizionale corrispondeva una forte

eterogeneità del grado di istruzione scolastica, degli strumenti e dei metodi didattici

adottati. Infatti, l’osservanza delle fonti di diritto proprio e l’assenza di un codice

legislativo, che venne introdotto nel principato vescovile solo alla fine del Settecento,

caratterizzò la varietà di scelte e di decisioni in ogni aspetto della vita pubblica, non

escluse le decisioni per il settore dell’istruzione417. Ne derivava un diverso livello di

alfabetizzazione fra le varie zone del principato. Si trattava di una situazione scolastica

che, come scrive Xenio Toscani a proposito della realtà milanese, non è “il risultato di

una politica o di una iniziativa statale, ma di una somma di iniziative di comunità locali,

416 Ivi, p. 225. 417 L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, cit., p. 619.

129

di congregazioni religiose, di parrocchie, di singoli privati […]. È insomma una risposta

dal basso, dalla società, a un bisogno di istruzione diffuso, cui lo Stato non aveva ancora

posto né attenzione né mano: è la scuola prima dello Stato”418. Per quanto riguarda la

realtà trentina, già in epoca rinascimentale esistevano scuole pubbliche comunali a

Trento e a Rovereto, però la grande maggioranza degli studenti imparava privatamente,

in modi anche molto diversi, con un precettore. Nelle vallate, invece, dalla meta del

Cinquecento fino alla fine del Settecento fu, in particolare, il clero a rivestire un ruolo

importante nel promuovere i primi rudimenti di scuola a livello popolare, in modo, però,

occasionale e precario419. Erano le comunità stesse, sensibili al problema scolastico, a

incaricare i curati dell’insegnamento. Esisteva, infatti, uno stretto legame tra scuola,

sacerdote-insegnante e la domanda d’istruzione espressa dalle singole comunità420.

Così, in tutte le vallate trentine, almeno nei borghi più popolosi, le scuole sorgevano

all’ombra delle parrocchie: ne furono un esempio le valli di Cembra e di Fiemme dove,

nel corso di un secolo e mezzo (dal 1615 al 1780 circa) tutti i paesi incaricarono il

sacerdote del luogo i insegnare ai bambini a leggere, a scrivere, a far di conto (definiti

da M. Roggero “i saperi elementari” dell’Antico regime)421, e in alcuni casi anche di

impartire i primi rudimenti della grammatica latina422. Fu soprattutto dopo il Concilio di

Trento che i preti si fecero carico dell’istruzione dei fanciulli. L’esigenza primaria del

coinvolgimento del parroco nell’istruzione anche popolare, deciso in sede conciliare, era

quella di conquistare i ragazzi, fin da giovanissimi, all’ortodossia religiosa, contro il

pericolo di eresie. Per questo a Trento venne istituita la confraternita della Dottrina

cristiana423 con ben 124 parroci che si distribuirono nei vari territori della diocesi.

Anche nella pieve di Pergine fu istituita una Compagnia della Dottrina Cristiana, ma

alla metà del Seicento affrontò un momento di grave crisi che non sfuggì al vescovo di

418 X. TOSCANI, Scuole e alfabetismo nella Stato di Milano da Carlo Borromeo alla Rivoluzione, Brescia, La Scuola, 1993, cit., p. 95. 419 Q. ANTONELLI, La grammatica, l’abaco e la dottrina: l’alfabetizzazione nell’antico regime, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina, cit., pp. 13-16. 420 L. VADAGNINI, Strutture e forme dell’alfabetizzazione nelle valli di Cembra e Fiemme dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Ivi, p. 21. 421 M. ROGGERO, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 19-108. 422 L. VADAGNINI, Strutture e forme dell’alfabetizzazione nelle valli di Cembra e Fiemme dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, p. 22. 423 La nascita delle Scuole della Dottrina Cristiana fu anteriore rispetto al Concilio di Trento: essa di data all’attività di un sacerdote della diocesi di Como, Castellino da Castello che nel 1536 fondò la prima Compagnia della Dottrina Cristiana, diffondendosi poi in tutto il Nord Italia e anche a Roma. (S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., pp. 573).

130

Feltre Bartolomeo Gera, in occasione della visita pastorale del 1665424. Contestualmente

all’educazione nei principi della fede cristiana, in queste scuole, dette anche

Congregazioni o Compagnie, i parroci insegnavano a leggere e a scrivere. Insegnamento

religioso e alfabetizzazione procedevano così insieme. Queste scuole divennero infatti

luoghi di formazione religiosa e centri di alfabetizzazione e la loro efficacia, nello

sconfiggere le eresie e l’ignoranza, era tale che parroci o curati dovevano tenere scuola

nei villaggi, nelle valli e sui monti almeno d’inverno425. L’interruzione estiva

rispondeva alla necessità di attendere ai lavori in campagna e in montagna. Le lezioni di

dottrina cristiana si svolgevano solamente la domenica e in occasione delle feste di

precetto; esse avevano luogo nella chiesa o nei locali della canonica. Tale scuola era

aperta soprattutto ai bambini e alle bambine, diventando per loro una sorta di “zona

protetta” dove, guidati da un maestro che insegnava in base alle loro capacità di

apprendimento, essi imparavano la religione, ma anche a leggere e a scrivere. Il metodo

usato era quello tridentino o “della cattedrale”: esso prevedeva la suddivisione dei

bambini in classi (non troppo numerose), in base all’età e alle capacità e consisteva

nella ripetizione mnemonica da parte degli alunni di ciò che diceva il maestro: costui,

che si serviva di libretti di catechismo stampati secondo le norme del Concilio di

Trento, doveva insegnare loro a pronunciare ad alta voce lettere, sillabe e parole

affinché le nozioni rimanessero meglio impresse426. Un po’ alla volta, l’insegnamento

del catechismo ai fanciulli e ai ragazzi entrò gradualmente nella cultura comune del

popolo cristiano tanto che nei Capitolati del Settecento un punto importante riguardava

proprio l’impegno dell’insegnamento del catechismo427.

Agli ecclesiastici, dunque, in età controriformista, andò il merito di aver

compiuto un passo avanti nell’abbattimento dell’analfabetismo e nell’assoluta mancanza

di scuola popolare primaria che, nei territori trentini appartenenti a casa d’Austria, non

troverà avvio istituzionale pubblico prima dell’anno 1774428.

Lo stadio di alfabetizzazione popolare, ancora nel Settecento, era

“confortevole”, in grado di competere con altre regioni più ricche e culturalmente più

evolute429, nonostante i limiti delle scuole popolari in Trentino, quali ad esempio, la

424 Ivi, pp. 573-574. 425 L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, cit., p. 622. 426 L. VADAGNINI, Strutture e forme dell’alfabetizzazione nelle valli di Cembra e Fiemme dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, cit., pp. 38-44. 427 S. PIATTI, Pergine. Un viaggio nella sua storia, cit., p. 574 428 L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, cit., p. 622. 429 Ivi, p. 631.

131

precaria frequenza degli scolari, perché non obbligatoria, la preparazione e la didattica

dei maestri, la durata della scuola (veniva sospesa durante i periodi di attività agricola

per non togliere braccia ai lavori dei campi), l’assenza di un insegnamento

istituzionalizzato (mancava una precisa valutazione del percorso di studi con

conseguimento di diploma finale)430. Solamente con le ordinanze teresiane, come

vedremo, si assistette al passaggio dell’istruzione dai religiosi allo stato, con l’avvio,

seppur fra tante titubanze, di un processo di scolarizzazione che mirava a garantire

uniformità didattica, contenutistica e culturale fra gli scolari, senza distinzioni fra

maschi e femmine che, fino al 1774 rimase una costante in molte località del

Trentino431.

3.2 La svolta dell’istituzione scolastica in Trentino: le scuole normali teresiane

Prima di addentrarci nell’analisi dell’omelia di Tecini è necessario fare qualche

considerazione preliminare sul contesto relativo al grado di alfabetizzazione e

scolarizzazione del Trentino, a partire dal 1774, anno in cui fu introdotto, seppur con

diversi tempi e differenti modalità, l’Allgemeine Schulordnung. Mi soffermerò in

particolare sulla realtà roveretana e trentina perché lo stesso Tecini, tracciando il quadro

della situazione scolastica nel perginese, introduce come elementi di paragone proprio

queste due città. Infatti, il parroco diede dimostrazione di essere a conoscenza delle

condizioni in cui versavano le scuole popolari a Trento e a Rovereto, palesandone la

diversità nel livello di acculturazione: la città della Quercia era coltissima, a Trento

invece “mancava in questo punto ancora quel di più, che ora si sta introducendo, al

bisogno di sì illustre Popolazione”432. La motivazione sottesa, a cui lo stesso Tecini

alludeva, era la diversa appartenenza politica delle due città. Rovereto, infatti, in virtù

della sua diretta dipendenza dall’Austria dal 1754433 e del suo legame culturale con

430 Ibid. 431 C. NUBOLA, Imparare a Trento: l’istruzione femminile prima della Riforma Teresiana, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina, cit., pp. 69-80. 432 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., p. 11. 433 “… le eccellenti Scuole normali, che già da molti anni per nostra vergogna sono in pieno fiorire nei vicini Paesi già Austriaci, fra’ quali esemplarmente si distingue la coltissima Città di Roveredo”. (Ibid.).

132

l’area italiana, era sede, già dal 6 febbraio 1775, della Cesarea regia scuola normale ai

confini d’Italia434.

3.2.1 Meriti e limiti della scuola popolare teresiana

La sensibilità di Maria Teresa d’Austria mostrata nei confronti del problema

dell’alfabetizzazione delle masse rurali rientrava nel progetto di creazione di uno stato

accentrato, dotato di un apparato burocratico, i cui funzionari fossero istruiti, competenti

e fedeli alla corona. La Riforma doveva infatti produrre un’istruzione “laica”, ma non

per questo irreligiosa, in linea sia con la filosofia utilitaristica che con quella

razionalistica dello Stato, capace di dare ed ottenere una legittimazione sociale del

potere con l’adeguato comportamento dei sudditi435. Così l’istituzione dell’obbligo

scolastico e la conseguente riforma della didattica e delle strutture preposte

all’istruzione popolare diventava fattore irrinunciabile per l’attuazione del vasto

progetto teresiano. Pur non richiamandosi direttamente alle idee dell’Illuminismo, che

la sovrana sospettava di ateismo, Maria Teresa si rifaceva alla pedagogia illuminista,

che mirava a rendere l’uomo autonomo tramite l’istruzione. In questo modo l’individuo,

liberato dall’ignoranza e dalla superstizione ed educato ai valori civili e all’obbedienza

al sovrano, da elemento passivo diventava attivo sostenitore del governo436. Al di là

delle motivazioni politiche437, l’introduzione dell’obbligo scolastico nei territori

ereditari di casa d’Austria rappresentò una svolta nel settore dell’istruzione, con

importanti e vaste conseguenze a livello sociale. Nonostante nel mondo tedesco l’idea di

uno stato depositario del diritto e dovere di istruire il popolo avesse radici remote,

solamente con l’emanazione dell’ Allgemeine Schulordnung – Ordine generale per le

scuole normali, principali e ordinarie del 1774438, Maria Teresa riuscì ad affidare allo

stato il compito dell’istruzione dei sudditi, raccogliendo l’esperienza del multiforme 434 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, in L. BORRELLI, A. CARLINI, G. COLLAUTO et al. (a cura di), Quadri e Riquadri, Trento, 2003, quaderno n°6, p. 22. 435 M. A. SPAGNOLLI, La riforma scolastica del 1774 nel contesto politico, economico e sociale, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, cit., p. 121. 436 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., pp. 9-10. 437 M. A. SPAGNOLLI, La riforma scolastica del 1774 nel contesto politico, economico e sociale, cit., pp. 117-125. 438 Q. ANTONELLI, “Per la vera felicità dei sudditi” scuole in Trentino (1774-1816), in Q. ANTONELLI (a cura di), A scuola! A scuola! Popolazione e istruzione dell’obbligo in una regione dell’area alpina secc. XVIII-XX, Trento, Museo storico in Trento, 2001, pp. 9-22.

133

sistema di alfabetizzazione fino ad allora vigente, dandogli dignità di scuola439.

Quest’affermazione assume il giusto significato alla luce dei provvedimenti adottati,

quale innanzitutto l’introduzione dell’obbligo scolastico per i bambini di ambo i sessi di

età compresa fra i sei e i dodici anni. In questo modo Maria Teresa concentrava le

risorse disponibili sull’infanzia, contraria com’era ad una scuola di alfabetizzazione

aperta a tutte le fasce d’età. Anche una presenza capillarmente diffusa sul territorio

rispondeva all’esigenza di garantire un’istruzione elementare a tutti i fanciulli.

Nonostante ciò, la riforma teresiana non puntò alla parità sociale: infatti, l’istruzione

dell’alunno veniva dosata in base al suo stato sociale, a seconda che egli frequentasse

una scuola di città o di campagna. All’obbligatorietà della frequenza fu aggiunta la

gratuità: le scuole dovevano essere finanziate dalle comunità, condizione che limitava

fortemente l’effettiva attuazione dell’ordinanza teresiana data la povertà di molte di

esse, soprattutto nelle zone rurali. Le scuole elementari si suddividevano in tre

tipologie440, in base alle quali variava la distribuzione delle materie d’insegnamento. La

caratteristica saliente della scuola teresiana si identificava nell’importanza data alla

lingua d’uso (il tedesco)441 e nell’introduzione delle materie scientifiche: ciononostante

essa non aveva un indirizzo “professionale”, ma mirava a impartire le conoscenze

minime utili per raggiungere una certa autonomia442. L’Allgemeine Schulordnung

disciplinava ogni aspetto dell’istruzione, dal metodo d’insegnamento per i maestri443 ai

libri usati nelle scuole444, dagli orari alle questioni burocratiche (furono introdotti esami

pubblici, l’obbligo di compilazione di registri da parte del maestro, provvedimenti

contro i genitori renitenti a mandare i figli a scuola). Il controllo dall’alto era garantito

da un’organizzazione verticistica e burocratica che permetteva una diffusione capillare

dei provvedimenti dal centro alla periferia e di converso una conoscenza sistematica da

parte di Vienna delle condizioni delle singole realtà attraverso la figura dell’ispettore 439 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., p. 18. 440 Esistevano le scuole Normali, da introdursi in ogni provincia austriaca: assurgevano a modello per le scuole del rispettivo territorio e contemporaneamente erano il luogo di formazione per i maestri; Principali, nelle maggiori città e le Triviali o Ordinarie da istituire in tutte le città più piccole, borghi e paesi. (Ivi, p. 15). 441 Fino a quel momento, infatti, le scuole istituzionalmente riconosciute, per chi poteva permettersele, erano ancora esclusivamente in latino. (Ivi, p. 17). 442 M. A. SPAGNOLLI, La riforma scolastica del 1774 nel contesto politico, economico e sociale, cit., p. 121. 443 P. ZUECH, Giovanni Marchetti e il “Compendio del metodo”, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, cit., pp. 151-156. 444 M. BASSOLI, I libri di lettura nella scuola elementare trentina dell’Ottocento, cit., pp. 157-168.

134

minore e maggiore: il primo, nominato dall’amministrazione locale, si faceva carico del

controllo e del buon andamento della scuola affidatagli dall’ispettore maggiore. Costui

era il responsabile di tutte le scuole di un determinato distretto, a sua volta nominato da

una Commissione sopra le scuole, istituita in ogni provincia e composta da alcuni

consiglieri, tutti approvati dal potere centrale445.

Rispetto alla madre, più cauta nei confronti delle teorie illuministe, Giuseppe II

impresse un moto accelerato sulla via delle riforme, anche in ambito scolastico, seguito

poi da una certa involuzione sotto Francesco II: il sokratischer Metode introdotto da

Giuseppe II fu ritirato dal fratello, suo successore, che provvide a modificare le norme

precedenti, riaffidando agli ecclesiastici i compiti di controllo sull’attività scolastica.

Emanò dunque, nel 1804, un nuovo Volkssdchul-plan, ripristinando anche il metodo di

Felbiger446. Nuove iniziative furono successivamente introdotte dalla legislazione

bavarese che disciplinò anche questo settore.

3.2.2 La scuola normale a Rovereto

Anche Rovereto, come anticipato, fu sede di una Scuola normale447. Qui

l’istituzione assunse i caratteri dell’eccezionalità se si pensa che per la provincia del

Tirolo tale scuola era stata aperta ad Innsbruck; ma la sovrana, per via della peculiarità

linguistica della provincia, ritenne opportuno attivare in città una seconda scuola

modello, sotto la direzione del sacerdote Giovanni Marchetti448.

Inizialmente le scuole austriache a Rovereto non furono accolte favorevolmente

dall’amministrazione perché essa veniva gravata dall’onere di finanziarle. Inoltre,

interpretò questo provvedimento come una violazione delle proprie prerogative. Fra i

personaggi roveretani più illustri fu soprattutto Clementino Vannetti ad avversare il

provvedimento austriaco, in base al quale per accedere a una scuola superiore (il

ginnasio o la nuova scuola normale) era resa obbligatoria la conoscenza della lingua

445 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., pp. 20-21. 446 M NEQUIRITO, Problemi istituzionali e riforme scolastiche nel territorio trentino-tirolese alla fine dell’antico regime, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, cit., p. 108. 447 S. HÖLZ, La scuola dell’obbligo nel Circolo “ai confini d’Italia”, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, cit., pp. 137-150. 448 Sul Marchetti, P. ZUECH, Giovanni Marchetti e il “Compendio del metodo”, cit., pp. 151-156.

135

tedesca449. Nel corso degli anni, tuttavia, il Vannetti, pur giudicando negativamente il

metodo scolastico austriaco, riconosceva alle scuole il merito di svolgere “un’utilissima

funzione di controllo e di indottrinamento della gente bassa”450; ma ancora alla fine

degli anni Ottanta, Clementino Vannetti non condivideva affatto la politica scolastica

giuseppina nel campo linguistico, difensore dell’”italianità” di Rovereto com’era451.

Nello stesso torno di tempo, invece, una testimonianza coeva esprimeva come

una scuola di questo tipo avesse incontrato il consenso delle popolazioni, perfino delle

classi rurali. Si trattava della relazione stesa dal padre Francesco Soave452 che, insieme a

Wolfgang Moritz, fu inviato, nel 1786 dall’autorità governativa di Milano nel Circolo ai

confini d’Italia, per informarsi sul funzionamento delle istituzioni scolastiche e sui

metodi d’insegnamento onde preparare un piano d’istruzione elementare per la

Lombardia. Sull’esempio della Scuola Capo-Normale in Rovereto, erano sorte le scuole

principali nei borghi e quelle rurali nei villaggi. Tutte le scuole del Circolo erano

regolate dalle leggi austriache: la chiarezza delle norme di legge si trasformava all’atto

esecutivo in semplicità che non lasciava dubbi o spazi all’improvvisazione né di

burocrati né di maestri453.

Il prestigio della città di Rovereto aumentava ancora se confrontato con la

situazione scolastica del Principato di Trento, “dove era assente un organico intervento

del governo vescovile per la progettazione di iniziative rivolte all’istruzione

elementare”454.

3.2.3 La tarda applicazione del Regolamento a Trento

Nonostante i numerosi inviti di Vienna, indirizzati al Principe Vescovo, di

introdurre il nuovo sistema scolastico nei propri domini455, un’adesione al

449 C. DONATI, Rovereto, Il Trentino e la monarchia austriaca all’epoca di Clementino Vannetti, cit., p. 21. 450 Ivi, p. 23. 451 Ivi, pp. 23-24. 452 Nella relazione stesa dal Soave, nota come Risposta a’ diversi quesiti sulle scuole normali rimessa dal padre Soave (pubblicata in calce al lavoro di B. PERONI, Per la scuola della scuola elementare nel Trentino (notizie e documenti-1786), un “Archivio Trentino”, a- XXII (1907), pp. 29-50) si legge: “di buon animo tutti approfittar vogliono della pubblica istruzione di cui già ne comprendono a quest’ora i vantaggi”. (M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., pp. 198-199.) 453 Ivi, p. 199. 454 Ivi, p. 200. 455 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., p. 25.

136

provvedimento teresiano era ostacolata dal netto rifiuto del Magistrato Consolare e del

Capitolo che nutrivano una forte ostilità nei confronti delle riforme austriache, perché

interpretate come lesive dell’autonomia trentina456. Dal canto suo, invece, Vigilio Thun,

consapevole dei vantaggi di un simile provvedimento, sollecitava parroci e decani a

istituire scuole sul modello austriaco, senza però impegnarsi in una decisa azione di

sostegno diretta dal governo457. Tuttavia, lo sforzo economico che l’attuazione della

riforma scolastica austriaca richiedeva alle comunità portò quest’ultime a prediligere i

metodi tradizionali. Il sistema scolastico vigente a Trento, così come nelle vallate

appartenenti al Principato, tentava di riformarsi alla luce dei provvedimenti teresiani,

trovandosi però in continuo bilico fra tradizione e innovazione458. A Trento esisteva una

scuola “normale” dal 1786459, ma si trovava sotto il controllo del Magistrato Consolare,

le cui ristrettezze economiche spesso ne compromettevano il buon funzionamento460.

L’aggettivo “normale” attribuito a questa scuola indicava l’importazione, almeno

parziale, di quei programmi e quelle regole che disciplinavano il funzionamento delle

nuove scuole austriache. Anche a Trento, dunque, si cercò di introdurre il nuovo metodo

studiato dal Felbiger senza però procedere alla vera e propria riforma contemplata nel

Schulordnung del 1774. Esisteva, infatti, una gran confusione sul termine, ma, almeno

sulla carta significava la scelta della lingua italiana e solo italiana, l’insegnamento

simultaneo per gruppi di livello omogeneo, l’apprendimento congiunto di lettura e

scrittura, l’adozione di tabelle murali riassuntive, a guida del lavoro di allievi e maestri,

e di libri facili e chiari per garantire una uniformità di insegnamento e apprendimento461.

Una scuola popolare secondo il modello austriaco sarebbe nata solamente nel 1795, a

seguito del legato testamentario del preposito Carlo Sebastiano Trapp462. Si trattava di

456 Sulle difficoltà incontrate nel Principato Vescovile ad attuare la riforma scolastica teresiana si veda, M NEQUIRITO, Problemi istituzionali e riforme scolastiche nel territorio trentino-tirolese alla fine dell’antico regime, cit., pp. 109-116. 457 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 200. 458 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., pp. 25-27. 459 Si tratta di una vera e propria scuola popolare, sovvenzionata dal Magistrato e gratuita per i più poveri. L’unico depositario di competenze in ambito scolastico era proprio il Magistrato Consolare il quale aveva dichiarato il divieto di aprire altre scuole concorrenti con quella retta dalla comunità. Tuttavia non sempre questa restrizione fu rispettata. (Ivi, p. 49). 460 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 201. 461 M. ROGGERO, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, cit., pp. 129-130. 462 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., pp. 53-55.

137

una scuola obbligatoria e gratuita, tranne che per i benestanti, organizzata in due classi

aperte solo ai maschi463. Interruppe la propria attività di lì a poco, a causa dell’incalzare

delle truppe napoleoniche, per riprendere solo con il passaggio del secolarizzato

Principato all’Austria di Francesco II. La nascita di questa scuola non deve essere

interpretata come una sostanziale innovazione di fronte alle precedenti consuetudini

cittadine e valligiane di provvedere all’istruzione primaria o superiore: numerosi sono

gli esempi di apertura di scuole subordinata a lasciti di benefattori. La novità consistette

piuttosto nel passaggio del controllo della scuola dalle autorità cittadine al Vescovo464.

3.3 La situazione scolastica a Pergine Valsugana: da Pietro Vigilio Thun a Francesco

II

Per quanto il Regolamento teresiano fosse stato indirizzato a tutti gli stati

dell’Impero, la sua attuazione dipendeva dalla volontà dei singoli principi di pubblicarlo

o meno: così se a Trento il Principe Vescovo ordinò la creazione di scuole sul modello

austriaco nel 1795, a Pergine l’inizio di una scuola popolare si datò al 1788. Essa non

era una vera e propria scuola “normale”, ma tale fu definita in linea con l’abitudine,

allora diffusasi, di denominare così una scuola che cercava di applicare il metodo

austriaco, seppur parzialmente. Lo stesso Tecini, come vedremo, nel 1804 non mancava

di puntualizzare un utilizzo improprio dell’aggettivo. Non è ancora noto chi sia stato

“l’ispiratore” di Thun, che si prese a cuore la scuola popolare di Pergine prima ancora

che quella di Trento465. È noto però che, a conoscenza della lentezza

dell’amministrazione comunale perginese, il Vescovo si avvalse delle lettere pubbliche

per sollecitare un pronto riscontro del destinatario: esse, infatti, richiedevano una

risposta immediata, poi venivamo pubblicate. Ricevuta la lettera dal segretario Manci, il

Sindaco di Pergine Giuseppe Leporini convocò immediatamente il Consiglio comunale

allargato ai capi quartiere che incaricò Gaetano Bartolomei di pensare a un progetto per

dare attuazione all’ordine vescovile. L’istituzione di una scuola popolare, sul modello

austriaco, presupponeva innanzitutto il finanziamento da parte della comunità. Ogni

comune, infatti, doveva impegnarsi a provvedere i locali e le attrezzature necessarie,

463 Ivi, pp. 200-201. 464 L. DE FINIS, La scuola trentina alla fine del Principato, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., pp. 158-163. 465 S. PIATTI, Pergine. Fra storia e cronaca, Pergine Valsugana, Biblioteca Comunale, 2003, p. 693.

138

doveva scegliere i maestri e pagarli con un contratto stipulato volta per volta. Date le

ristrettezze economiche, il Comune decise, peraltro dietro suggerimento

dell’Ordinariato, di sopprimere la cappella di Santa Margherita466 e di utilizzare il

ricavato per sovvenzionare la scuola. A tal fine fu devoluto anche il ricavato dalle

Messe del Beneficio Grotti. Così vennero trovati i locali adibiti poi ad aule, il cui affitto

gravava sul Comune. Anche a Pergine la scuola popolare era aperta ai fanciulli dai sei ai

dodici anni; in realtà essa fu solo per i ragazzi perché l’amministrazione comunale

riteneva impossibile creare scuole anche per le fanciulle, date le scarse risorse a

finanziare già quella per i ragazzi. Nel 1791 ci fu un timido tentativo di introdurre una

scuola per le bambine, che però naufragò.

La scolaresca era composta di quasi 200 ragazzi, i quali non tutti frequentavano

con assiduità: erano presenti soprattutto quando pioveva o nevicava perché non

sapevano cosa fare e dove andare. La scuola non fu accolta con entusiasmo da parte

dell’amministrazione locale per l’impegno economico che richiedeva; ma essendo

regolata da leggi imperiali, le autorità locali non potevano fare altro che portarla avanti

costantemente, risparmiando però il più possibile. Così vennero nominati maestri due

frati del convento presente nel borgo, innanzitutto perché pagati meno rispetto a un

insegnante laico. Inoltre, essi erano dotati di una buona formazione, in virtù della quale

erano giunti all’ordinazione. Erano persone rispettate e ben accette anche dai genitori

già poco favorevoli alla scuola perché bisognosi del lavoro dei figli nei campi467. Dato

l’esorbitante numero di alunni, la mancanza del rispetto dell’obbligatorietà, l’assenza di

una scuola per bambine, le esigue disponibilità in termini di spazi e la carenza di

insegnanti (due maestri per quasi 200 scolari erano davvero pochi), il funzionamento

della scuola nei primi anni non fu eccellente; tuttavia "creò una popolazione dove

l’analfabetismo venne debellato ancora nell’Ottocento”468. Le riforme scolastiche di

quel periodo, infatti, lasciarono in Trentino un segno tangibile negli anni successivi,

tanto che “il Dipartimento dell’Alto Adige fu definito nel 1811 da Scopoli il meglio

466 La chiesetta, una delle più antiche del borgo, presente dal 1247, fu inizialmente affittata e poi venduta: trasformata dapprima in filatoio, divenne successivamente casa privata, poi osteria, infine bar. Si tratta dell’attuale bar Alba. (Ivi, p. 696). 467 Ivi, p. 670. 468 Ivi, p. 696.

139

provvisto di scuole per merito della politica scolastica asburgica, che vi aveva introdotto

e diffuso il metodo normale, e che era stata ripresa dal governo bavarese”469.

Dal 1788 al 1809, a causa dell’avvicendarsi di governi che imponevano con

intransigenza l’attuazione e il rispetto della propria legislazione, “la scuola funzionò a

singhiozzo”470, soprattutto nei periodi di transito delle truppe, ora francesi ora

austriache, che spesso acquartierarono proprio nel paese. Già ho accennato come la

presenza delle armate fosse fonte di instabilità interna. In simili condizioni, il normale

svolgimento delle attività, anche quelle scolastiche, era compromesso.

Dal 1803 al 1805 il Trentino passò direttamente alle autorità austriache che

diedero disposizioni per il funzionamento della scuola, coinvolgendo maggiormente la

Chiesa, nella scelta dei contenuti programmatici, dei maestri e nella sorveglianza. Nel

1804 il nuovo governo si informò, rivolgendosi all’Ordinariato sulla capacità

pedagogica e catechistica dei decani nei vari distretti per affidare loro il controllo sulle

erigende scuole normali. Il Vicario generale Zambaiti si rivolse allora ai decani della

diocesi chiedendo notizie sulle loro capacità pedagogiche e sull’estensione dei vari

decani, per nominare eventualmente vice-decani. Tecini rispose in maniera sollecita e

molto positiva all’appello del vicario: desideroso da sempre di garantire un’istruzione

elementare ai parrocchiani del suo decanato, si dichiarava pronto a impegnarsi per

un’effettiva attuazione del Regolamento teresiano nel perginese. Già precedentemente il

parroco si prodigò affinché il problema dell’istruzione non fosse accantonato del tutto,

anche nei paesi più piccoli, consapevole che in quegli anni difficili erano altre le

preoccupazioni delle autorità civili. Approfittando dei suoi diritti parrocchiali fu sempre

ben attento a inserire, nel contratto stipulato fra il sacerdote in cura d’anime e i

capifamiglia della comunità, anche il dovere per il curatore di tenere la scuola ai

ragazzi471. Così fu per la comunità di Roncogno, Castagné, Costasavina, Frassilongo,

Serso472. Fu dunque naturale che don Tecini nel 1804 rispondesse con entusiasmo

all’appello del Vescovo, auspicando l’istituzione nella sua parrocchia di scuole normali,

che a suo giudizio erano ancora mal composte in Pergine benché portassero il nome di

normali473, e proponendosi anzi di collaborare personalmente: d’altra parte le sue

469 S. POLENGHI, Istruzione elementare e maestri nella Repubblica e nel Regno italico (1802-1814), in E. BRAMBILLA, C. CAPRA, A. SCOTTI (a cura di), Istituzioni e cultura in età napoleonica, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 475-500, in part. p. 486. 470 S. PIATTI, Pergine. Fra storia e cronaca, cit., p. 698. 471 Q. ANTONELLI, “Per la vera felicità dei sudditi” scuole in Trentino (1774-1816), cit., p. 33. 472 S. PIATTI, Pergine. Fra storia e cronaca, cit., p. 698. 473 Q. ANTONELLI, “Per la vera felicità dei sudditi” scuole in Trentino (1774-1816), cit., p. 33.

140

esperienze giovanili facevano di lui un collaboratore eccellente. Lo studio della

metodica e della pedagogia del sistema scolastico teresiano, condotto a Salisburgo per

interesse personale, e ancora prima gli anni di docenza al Ginnasio di Trento, lo

rendevano particolarmente adatto a rivestire incarichi scolastici. Per la catechetica poi

gli giovavano i sette anni di attività pastorale474.

Ma la brevità del governo arrestò ogni provvedimento.

3.4. L’istruzione elementare popolare a Pergine Valsugana alla vigilia della

legislazione scolastica bavarese. Il desolante quadro tracciato da don Francesco

Tecini: fra limiti e pregiudizi

Feudo immediato del Principato Vescovile di Trento fino al 1803, anche la

“Giurisdizione del Castello di Pergine”, come tutti i possedimenti vescovili, rimase

estranea alla diretta ondata riformatrice della politica asburgica tardo-settecentesca. Già

ho accennato all’impulso che la vicina Austria determinò nell’avviare un processo di

svecchiamento anche all’interno del Principato; tuttavia, fino ad inizio Ottocento, e

precisamente fino alla vigilia della dominazione bavarese in Trentino, i tentativi di

modernizzazione furono timidi e compromessi, per le autorità civili ed ecclesiastiche

locali, dal mantenimento di una struttura politica-istituzionale inadeguata al

cambiamento in atto, nonché dall’instabilità della situazione interna ed esterna al

Principato, per le autorità austriache, dalla brevità del loro governo. Così il Trentino,

all’indomani della Dieta di Ratisbona del 1803, appariva ancora arretrato, in particolare

rispetto a Rovereto.

Ne era ben consapevole don Tecini, quando dal pulpito della Chiesa parrocchiale

di S. Maria, convinceva i fedeli dell’ utilità e della necessità475 dell’introduzione delle

scuole bavaresi, in riferimento alle quali, per la comunità di Pergine preferiva parlare

non tanto di “Organizzazione” quanto di “una vera Fondazione”476. Nel perginese,

infatti, le strutture scolastiche, intese nell’accezione moderna del termine, ossia dotate di

una pedagogia e di un programma comune, per garantire una certa uniformità di

istruzione477, erano assenti in certe località e in altre imperfette478. Per i territori

474 M. GARBARI, Una cultura per i sudditi. Scuola e attività intellettuale nell’età di Sigismondo Moll, cit., p. 203. 475 Così nel testo, F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., p. 4. 476 Ibid. 477 L. DE FINIS, Le strutture scolastiche, cit., p. 619.

141

appartenenti all’ex Principato si può parlare di strutture scolastiche solamente a partire

dal 1803, mentre per i domini di casa d’Austria, soprattutto a Rovereto, grandi passi

verso un’istruzione concepita e impartita secondo linee di indirizzo ben precise e di

comune efficienza furono compiuti già dal 1774.

Stando alle parole del parroco, ancora nel 1809, la situazione scolastica era uno

spettacolo deplorabile, poco onorevole per la Patria: “se noi scorriamo i piccoli Paesi di

campagna in questo ex Principato, troviamo non pochi interi Villaggj, dove o niuno, o

pochissimi sanno leggere e scrivere. Molti luoghi incontriamo dove non v’è e non vi fu

mai Scuola di sorta alcuna”479. Il giudizio di Tecini, però, appare troppo negativo se

confrontato con quanto finora illustrato sul grado di alfabetizzazione del borgo. Q.

Antonelli lo definisce impietoso, radicale e senza riserve; da prendere però con un po’

di cautela perché non descrive davvero la situazione qual era. Anzi la squalificazione

dell’esistente costituisce un luogo retorico (una premessa) indispensabile entro il

discorso politico, per poter esaltare i provvedimenti del “felice governo” di

Massimiliano Giuseppe480. È pur vero che l’insegnamento avveniva ancora con i

tradizionali sistemi, presentando limiti evidenti rispetto ai passi avanti compiuti nelle

zone in cui ci fu una puntuale applicazione del regolamento teresiano. Don Tecini

denunciava, infatti, l’impreparazione di maestri, spesso contadini che si improvvisavano

insegnanti, educando senza alcun controllo, la carenza di fondi per finanziare le scuole,

il disinteresse da parte del potere politico, il carattere velleitario della scuola stessa, data

l’assenza di obblighi da parte del maestro e degli alunni ad essa connessi481. Tuttavia,

riconosceva ottime capacità di insegnamento a qualche curato o sacerdote, sottolineando

però la limitatezza dell’istruzione impartita; d’altro canto “il Maestro stesso da fanciullo

non imparò di più”482. Ma più di tutto il parroco minimizzava i precedenti

provvedimenti di riforma scolastica perché solo ora, con le leggi bavaresi, pur

478 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit. p. 4. 479 Ivi, p. 9. 480 Q. ANTONELLI, “Per la felicità dei sudditi” scuole in Trentino (1774-1816), cit., p. 35. 481 “In certi un’ignorante Contadino, che s’è creato Maeβtro da se, insegna senza ispezione d’alcuno a suo modo a leggere male, e scrivere peggio. Di Aritmetica non se ne parla, di Catechismo e d’altri oggetti ancora meno. I Giudici Trentini non avevano alcuna ingerenza sopra le Scuole. I Parrochi, e Curati non si ascoltavano: e non si potevano quasi ascoltare, perché non v’era Fondo. Esse erano appena riguardate come un’oggetto interessante il Governo, ma piuttosto come un’arbitrario privato Esercizio. Il Maestro quando era stanco, o dai Privati mal pagato diceva: io non insegno più: lo Scolaro diceva quando voleva: io non vo più alla Scuola: e tutto era finito”. (F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., pp. 9-10). 482 Ivi, p. 11.

142

rifacendosi a quelle teresiane, venivano introdotte scuole “educative”, dove non si

imparava solo a leggere e a scrivere, ma venivano anche formati abili cittadini e buoni

cristiani483. Sul rapporto fra scuola ed educazione civile ritornerò più avanti.

Ancora il Tecini, denunciava i pregiudizi che impedivano un’accoglienza

favorevole dell’istruzione condannando il paese all’arretratezza culturale, ma soprattutto

all’analfabetismo delle donne: condannava il “ridicolo pretesto” con cui fino a quegli

anni si aveva escluso “per regola” le fanciulle dall’istruzione. Il timore era che esse

potessero giungere, col tempo, a scrivere lettere d’amore: “quasi che fossero sicure dagli

illeciti amori quando non li sanno mettere in carta”484. Anche l’idea che un uomo di

campagna e l’artigiano non dovessero essere letterati era un pregiudizio radicato fra la

popolazione485 che il parroco, in quest’occasione, non mancava di smontare,

dimostrandone, come vedremo, l’insensatezza.

3.5 Necessità e vantaggi dell’introduzione delle scuole elementari bavaresi nel

perginese: contenuti dell’omelia di don Tecini

Fra i numerosi provvedimenti che riguardarono il Trentino, conseguiti alla

ristrutturazione del Regno di Baviera in base alla Costituzione del maggio 1808, di cui

sopra, si ricorda in questa sede l’introduzione delle scuole elementari. Il 15 gennaio

dell’anno successivo il parroco pronunciò un’omelia dal pulpito della Chiesa

parrocchiale di S. Maria con la quale persuadeva i suoi fedeli Sui vantaggi e sulla

necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle.

Ripercorrendo le tappe salienti della storia scolastica perginese a partire dalla

fine del Settecento, ho voluto sottolineare come don Tecini avesse sempre avuto a cuore

il problema dell’istruzione della popolazione giovanile. Tale sensibilità può essere

interpretata oggi, alla luce del percorso formativo che scandì gli anni della sua

giovinezza, come il frutto di una educazione avvenuta a contatto con gli ambienti

riformisti in cui autorità ecclesiastiche e civili mostrarono particolare interesse per la

formazione del clero e dei laici. Già ho accennato ai provvedimenti di Pietro Vigilio

Thun negli anni in cui Tecini studiò a Trento; a Firenze, il giovane parroco maturò

l’idea di cultura come strumento di nobilitazione personale e sociale, intellettuale e

483 Q. ANTONELLI, “Per la felicità dei sudditi” scuole in Trentino (1774-1816), cit., p. 35. 484 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit. p. 10. 485 Ibid.

143

materiale: in modo particolare poté comprendere l’utilità del sapere applicato alla

pratica, anche quotidiana, per un miglioramento delle condizioni di vita del singolo e

della collettività. A Salisburgo, studiò il metodo delle scuole austriache. Furono

esperienze che contribuirono a maturare in lui un forte interesse per la conoscenza e la

preoccupazione di estendere una minima acculturazione anche fra le persone più umili,

fino ad allora rimaste escluse.

Alla luce di queste considerazioni e dell’adesione alla politica scolastica al

tempo di Francesco II, il sostegno per l’introduzione delle scuole bavaresi non assume

sfumature politiche ma rientra in un percorso coerente di apprezzamento per i

provvedimenti più utili per il popolo.

All’apparente semplicità del linguaggio, che permetteva (e permette tuttora)

un’immediata comprensione del significato dell’omelia di Tecini, corrispondeva una

ricchezza di contenuti che tradiva innanzitutto la grande cultura del parroco; il concetto

di pubblica felicità, di chiara derivazione muratoriana, era il tema di fondo di questa

omelia: il linguaggio stesso era espressione di una formazione compiuta alla luce del

riformismo tardo settecentesco. Ricorrono termini quali “pubblica, e privata felicità”486,

“pubblica educazione”, civilizzazione, a cui si ricollegano espressioni tipiche di una

mentalità illuminata quale quella del parroco, che parlava del Catechismo, del vangelo

“ed anche qualche altro adatto buon libro utile per i buoni costumi non meno che per le

arti, o l’agricoltura”487. Più oltre parla dell’istruzione quale strumento per “l’intera

possibile formazione d’abili Cittadini, e di buoni Cristiani”488.

Nella recita del sermone, Tecini esordiva con un encomio della nuova

costituzione del Regno, definita “qual felice Aurora apportatrice di luce, di regolato

moto, e prosperità […] il più bel Dono che possa fare un saggio Monarca a’ diletti suoi

Popoli, il più durevole Monumento di Sua Sapienza, e Grandezza presso la più tarda

Posterità”489. Esaltava il fine della Costituzione, la pubblica e privata felicità,

riconoscendo fra i provvedimenti più vantaggiosi e necessari per l’ex Principato trentino

l’istituzione delle scuole pubbliche, per bambini e bambine. Data l’arretratezza del

sistema scolastico perginese, imperfetto in alcune zone, in altre del tutto assente, come

ho anticipato, il parroco preferiva parlare di “Fondazione” piuttosto che di

organizzazione delle nuove scuole. L’elogio del provvedimento trovava forma già nelle

486 Ivi, pp. 3-4. 487 Ivi, p. 14. 488 Ivi, p. 17. 489 Ivi, p. 3.

144

prime battute del suo discorso dove definiva la scuola il “più indispensabile dei benefici

umani Istituti”490. Tecini si rivolse immediatamente ai genitori, dichiarando il senso

della sua omelia, che era quello di renderli consapevoli della “grandezza del Benefizio”

e riconoscenti nei confronti del sovrano, ma soprattutto dell’obbligo di assecondare la

frequenza scolastica dei propri figli, che erano il “fortunato oggetto” di un simile

provvedimento. Facendo propria la teoria dei climi, che conobbe una notevole rifioritura

nel corso del Settecento491, riconosceva i meriti del clima temperato nel contribuire

“non poco alla formazione d’agili corporature, e di sensi squisiti, pronti strumenti della

naturale perspicacia di mente che distingue i nostri più alpestri Popoli da tanti altri privi

di questi vantaggj”492; ma le naturali disposizioni dovevano essere affinate dall’arte,

frutto dell’istruzione, figlia e maestra della natura493. Per persuadere gli astanti della

giustezza del suo discorso Tecini riportava un esempio di vita quotidiana: invitava i

fedeli a confrontare i frutti di un campo selvaggio, che nascono spontaneamente, con

quelli di un terreno coltivato con diligenza. Da questo paragone l’attenzione si spostava

sulla differenza fra i costumi di un uomo di “negletta educazione” e quelli di un uomo

“che nelle pubbliche ben dirette Scuole fu dirozzato”494.

Ritornando con la mente alle campagne ben coltivate il parroco confessava che

di fronte ad uno spettacolo tanto gradevole agli occhi, si insinuava in lui un triste

pensiero: la natura viene coltivata dall’uomo, che la sa rendere fruttuosa e bella, ma

l’uomo, si domandava, chi lo coltiva? Ecco che allora maturò in lui la necessità di

impartire all’uomo, indistintamente dal ceto sociale di appartenenza, l’istruzione per

nobilitare il suo ingegno, per educare il suo cuore e la sua mente495. Di fronte allo

sbigottimento generale dei fedeli che consideravano, forse, infondate le preoccupazioni

del parroco, Tecini procedeva a presentare loro lo spettacolo deplorabile delle

condizioni in cui versavano le scuole per la pubblica istruzione giovanile in Trentino, di

cui ho già ampiamente parlato, soprattutto se confrontate con la coltissima città di

Rovereto496.

490 Ivi, p. 4. 491 G. L. FINK, La teoria dei climi nel secolo dei lumi, in Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati. Convegno Clementino Vannetti (1754-1795). La cultura roveretana verso le “patrie lettere”, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 1998, pp. 127-150. 492 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., p.5. 493 Ibid. 494 Ivi, p. 6 495 Ivi, pp. 7-8. 496 Ivi, pp. 8-11.

145

Pur consapevole del divario fra queste due realtà, il parroco riconosceva il

merito “all’ultimo defonto Vescovo Principe di Trento Pietro Vigilio”497 di aver

promosso concreti tentativi per sanare le lacune dell’istruzione elementare in alcuni suoi

possedimenti, fra i quali, come abbiamo visto, vi fu proprio Pergine. Ricordava la

prontezza con cui intervenne in questo settore anche il sovrano austriaco ma

riconosceva a Massimiliano Giuseppe di Baviera l’onore di aver proceduto con grande

rapidità, data l’efficienza del sistema amministrativo bavarese, all’effettiva introduzione

delle scuole elementari pubbliche per bambini e bambine, interpretandolo alla luce di un

disegno divino498.

A questo punto della sua omelia don Tecini passava in rassegna tutti i vantaggi

che “ogni ceto di Persone deve con sicurezza promettersi da queste Scuole”499. Si

rivolse innanzitutto agli agricoltori, agli artigiani e agli operai i cui vantaggi sarebbero

consistiti nel saper gestire autonomamente la contabilità, tutte le questioni annesse alla

propria attività (contratti, obblighi, saldi, quietanze), gli affari famigliari senza ricorrere

all’intermediazione di terze persone, evitando così potenziali occasioni di liti. Una

minima alfabetizzazione andava a vantaggio non solo dell’uomo, ma anche della donna.

L’istruzione nobilitava così anche il suo ruolo: se prima essa veniva esclusa

dall’istruzione, in base ad un pregiudizio che si riallacciava al prototipo di donna in

voga allora, quale simbolo della tentazione, ora essa veniva rivalutata nel suo ruolo di

madre di famiglia, in grado di tener conto delle entrate e delle uscite domestiche500. Ci

sono pur sempre certe “donnicciole, che occupano spesso il tempo nei filò de’

Contadini, ed empiono la curiosa Gioventù di pregiudizi d’assurde idee e di vane

paure”501. Per questo il parroco raccomandava ad un saggio padre di famiglia di invitare

i suoi figli a leggere il catechismo, il vangelo o qualche altro buon libro, spiegando loro

497 Ivi, p. 12. 498 “Ma era riservata questa grand’Opera a Massimiliano Giuseppe nostro ottimo Sovrano e Signore, il quale coll’energica speditezza, che caratterizza il suo felice Governo, è già al punto di fare organizzare, e noi diremo fondare, dappertutto le Scuole elementari de’ Fanciulli, come già prima fece con quelle delle sue celebri Università, e Licei, che già pompeggiano mirabilmente”. (Ivi, pp. 12-13). 499 Ivi, p. 13. 500 Il parroco scriveva riguardo all’istruzione delle donne: “Le Scuole per Fanciulle, ora erette, appena esistevano in qualche modo nelle Città. non manca qualche simile Istituto pubblico, dove si aveva sino a questi anni per regola di non insegnare a scrivere alle Fanciulle sul ridicolo pretesto, che non giungano col tempo a scrivere lettere amorose: quasi che fossero sicure dagli illeciti amori quando non li sanno mettere in carta, o non avessero bisogno quelle che un giorno saranno Madri di Famiglia di saper scrivere”. Seguiva dicendo che “Con un biglietto potrete sparmiare de’ viaggi: e non solo l’Uomo, ma anche la Donna di casa, tenendo conto delle entrate ed uscite domestiche, scanserà gran danni e disturbi”. (Ivi, pp. 10 e 14). 501 Ivi, pp. 14-15.

146

poi il significato del messaggio in essi contenuto: dalla lettura di questi testi i fanciulli

potevano trarre insegnamenti pratici, ma anche di morale. Veniva introdotto così il

binomio istruzione-educazione morale, ripreso e ampiamente spiegato successivamente.

L’artigiano poteva dare libero sfogo alla propria fantasia, superando le barriere

che lo costringevano a rimanere legato ad un lavoro di mera copiatura. Resosi

autonomo, la sua mano ammaestrata poteva dare espressione alle sue idee, ai suoi

pensieri facendo del proprio lavoro un momento di creatività e di orgoglio personale.

Ancora una volta don Tecini marcava la connessione fra natura e arte, sottolineando le

immense potenzialità della prima se guardate alla luce delle capacità che la seconda

instilla nell’uomo502.

“Incalcolabili” erano i vantaggi anche per il commerciante e l’uomo nobile, da

sempre desiderosi di acculturarsi non tanto per esigenze pratiche quanto per un bisogno

di superiorità spirituale “che esige il loro stato”. Anche in questa affermazione si legge

come la società d’ancièn regime fosse una società basata sulle disuguaglianze, sul

riconoscimento di una disparità culturale e spirituale fra gli uomini in base al ceto di

appartenenza. Un sistema scolastico comune ed efficiente rappresentava un vantaggio

anche per i rampolli delle nobili famiglie, i quali, avviati ad un percorso di studio spesso

affidato ad un precettore, ben si rendevano conto delle lacune della propria formazione

quando si confrontavano con altri studenti, compatrioti o stranieri, o quando

intraprendevano una carriera lavorativa. Per la mancanza di un’istruzione adeguata, pur

essendo dotati di un grande talento, erano spesso condannati “ad una vita perpetuamente

oziosa, gravosi alla Famiglia, inutili a se stessi ed alla Patria”503. Dopo aver elencato

con esempi concreti, per far breccia nelle menti e nei cuori dei fedeli, i vantaggi per

l’uno e l’altro ceto, il parroco concentrava la sua predica sul rapporto fra istruzione e

religione, sottolineando come il vantaggio maggiore derivante dalle scuole consistesse

proprio nel formare abili cittadini e buoni cristiani. Era a questo punto della riflessione

che veniva introdotto un concetto innovativo e originale per il tempo, ovvero l’idea

dell’istruzione quale strumento di educazione civile e religiosa: don Tecini riconosceva

solamente alla scuola la capacità di imprimere nei fanciulli “le idee di Religione, e di

Morale” perché con la frequenza giornaliera essi non dimenticavano in fretta come,

invece, sarebbe successo se l’insegnamento dei buoni costumi fosse stato affidato

502 “Egli potrà percorrere liberamente e spaziarsi nel vasto campo, che gli apre la Scuola del Disegno, e l’inesausta Natura. Quello che piace al suo occhio, quello che nasce nella sua fantasia, lo eseguirà la mano ammaestrata”. (Ivi, p. 15). 503 Ivi, p. 16.

147

esclusivamente alla predica domenicale del parroco. Oltre ai benefici pratici di cui

sopra, il merito maggiore dell’istruzione consisteva nell’educazione morale dei giovani:

essi venivano educati nel timore di Dio, nella fede, nella corretta religione, da cui

scaturiva l’ordine, la docilità, la sommissione, il rispetto verso i superiori e i genitori,

l’onore504. Il buon cristiano diventava il buon suddito che, in virtù della sua educazione

civile e religiosa comune a tutti perché formati nello stesso modo, viveva in una società

disciplinata, ordinata e tranquilla. Ecco che l’istruzione divenne la condizione

preliminare per la civilizzazione.

Viene approfondito a questo punto, dopo alcune rapide anticipazioni, un altro

concetto importante, tutt’altro che scontato per l’epoca, secondo il quale l’età infantile

doveva essere destinata all’apprendimento di nozioni utili per tutta la vita505, desunto

dall’ Allgemeine Schulordnung teresiano del 1774, che Tecini studiò quando si trovava

a Salisburgo. Per questo sin dall’inizio dell’omelia il parroco invitava caldamente i

genitori ad assecondare la frequenza scolastica dei figli, facendo rientrare questo

impegno fra le responsabilità di un padre e di una madre nell’educazione della prole.

Gli uditori venivano guidati ancora ad una riflessione profonda: l’istruzione era

presentata come strumento di riscatto sociale per tutte quelle persone che per le

condizioni miserrime in cui vivevano erano “quasi per necessità di stato proclive al

male”506. Attraverso un’istruzione elementare esse potevano essere trasformate da

soggetti passivi, gravanti sulla società, in soggetti attivi, portatori di benessere per se

stessi e per la società nel suo complesso, in virtù del loro lavoro e della loro corretta

condotta morale. L’eccessiva povertà, infatti, era spesso la fonte principale di disordine

e di violenza, pubblica e privata. Il sistema giuridico allora vigente presentava, agli

occhi del parroco, alcune lacune: esso comminava delle pene in base al delitto

commesso senza però riuscire a estirpare il movente del delitto stesso. In questo modo

la giustizia “risolveva” solamente un caso specifico: mille altri individui potevano

incorrere in reati più o meno simili per le stesse motivazioni. Il limite della giustizia,

secondo il Tecini, consisteva nell’incapacità di stroncare alla base, cogliendone le

motivazioni più profonde derivanti dallo stesso contesto sociale, potenziali occasioni di

504 Ivi, pp. 17-18. 505 P. GRAIFENBERG, “Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi”. Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, cit., p. 15. 506F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., p. 19.

148

violenza507: questo obiettivo poteva essere raggiunto “col doppio efficace rimedio, che

ci apporta il benefico Sovrano, delle scuole de’ Fanciulli, e dell’Istituto de’ Poveri”508.

Quest’ultimo, in sinergia con la scuola, permetteva di dare alle persone più povere gli

strumenti per raggiungere la felicità, materiale e spirituale. Il male, infatti, non derivava

esclusivamente dalla cattiveria delle persone, ma da un senso di sopravvivenza:

attraverso l’educazione di queste persone “che appena avevano i mezzi per essere

buone”, venivano automaticamente ridimensionate sensibilmente le occasioni di

violenza, senza la pretesa di eliminare il male ma almeno con la condizione che non ci

saranno “più di quelli, che quasi sono in necessità di farlo”509. In questo modo anche la

realtà perginese si poteva omologare ai “Paesi ben disciplinati della Germania [che

simili situazioni] non conoscono punto”510. Con l’introduzione delle scuole e

dell’istituto per i poveri si gettavano le basi per l’avvio di un processo di civilizzazione,

quale frutto di un’educazione civile e religiosa, destinato a coinvolgere tutti,

indistintamente dal ceto di appartenenza, che si orientava verso la costruzione di una

società maggiormente paritaria, ugualitaria, superando antiche e consolidate

disuguaglianze ritenute ormai figlie di un passato in cui regnava l’ignoranza.

Il parroco non mancava di mettere in guardia i genitori dai detrattori dei

provvedimenti sopra presentati: ma tranquillizzava gli uditori motivando l’insensatezza

delle loro critiche, proprie di persone chiuse, bigotte, convinte che qualsiasi novità fosse

da rifuggire, gelose dei meriti altrui, reticenti al confronto, non curanti del bene

pubblico. Simili attacchi non avranno seguito perché, “a dispetto di costoro comincierà,

e proseguirà presso di noi maestosamente il glorioso suo corso l’umana Coltura, come

lo comincia, e lo prosegue a dispetto de’ tenebrosi Gufi il Sole”511. Non era estranea in

Tecini una forte tensione verso il futuro che tradiva la sua fiducia nella cultura moderna.

507 “Poteva bene la Giustizia criminale dare esempi di severità contro i furti, gli spergiuri, gli omicidi, i tradimenti, le aggressioni sulle vie, e nelle case: essa scemeva in parte un male presso di noi sì frequente, ma non era in grado di rimediarci come bramava”. (Ivi, p. 19). 508 Ibid. 509 Ivi, p. 20. 510 Ivi, pp. 18-19. Per quanto Tecini parli dei paesi della Germania come privi di questo problema l’espressione “non conoscono punto” allude al fatto che la piaga della povertà, spesso fonte di instabilità sociale, violenza e disagi era stata comune, nel passato a quegli stessi paesi ora disciplinati. La Baviera stessa ne fu un esempio. Della situazione bavarese, relativa ai problemi derivanti dalla povertà, all’idea dell’istruzione e della realizzazione di istituti destinati esclusivamente ai poveri per riabilitarli nella società, ne parla chiaramente K. A. SCHLEUNES, Schooling and society. The politics of education in Prussia and Bavaria 1750-1900, Oxford, Berg Publishers Limited, 1989, pp. 22-26. 511 F. TECINI, Sui vantaggi e sulla necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli, e fanciulle, cit., p. 22.

149

Ancora una volta il parroco tentava di illuminare con la ragione le menti dei suoi

fedeli, invitandoli ad abbandonare un pregiudizio molto radicato al tempo, ovvero la

convinzione che l’immobilismo fosse la ricetta di un vivere tranquillo e che le novità

fossero, invece, portatrici di disordine.

La figura di Tecini assume in questo frangente tutta la sua specificità: si tratta di

un parroco che, in virtù del suo ruolo, per la formazione ricevuta e per le circostanze

storiche, è il punto di riferimento del suo popolo. Un parroco però colto, illuminato,

pienamente consapevole del travaglio di quei tempi, in cui vecchio e nuovo si

mescolano senza riuscire a delimitarne i confini. La sua attività di pastore e di

intellettuale si inserisce in una società proiettata in avanti, ma ancora invischiata nel

passato. Il merito di Tecini fu proprio quello di accompagnare i suoi fedeli in questa

delicata fase di passaggio, in cui tutto cambiava e nulla era come prima. La sua

mediazione permise ai perginesi di vivere meno tragicamente la fine di un’epoca, come

invece successe in Tirolo: Tecini si apprestava a recitare la sua omelia in difesa delle

scuole bavaresi proprio alla vigilia della sollevazione hoferiana.

3.6 Diffusione dell’opera

Pronunciata il 15 gennaio 1809, l’omelia fu pubblicata da Gianbattista Monauni

poco dopo: tuttavia non ci sono indicazioni precise sulla data di stampa. Il fatto che

l’opera fosse stata stampata da Gianbattista Monauni non è espressione di una scelta del

Tecini o di strategie di concorrenza fra più tipografie, ma riflette la particolarità della

situazione editoriale trentina, caratterizzata dalla presenza di due sole case tipografiche:

la Monauni appunto, con sede a Trento, e la Marchetti a Rovereto. Questo drastico

ridimensionamento dell’esperienza editoriale trentina si datò alla seconda metà del

Settecento: prima erano attivi diversi stampatori, ma in breve il panorama si ridusse a

due sole officine512.

Il fondatore fu Giovanni Battista Monauni (1698-1764) che aprì i battenti della

propria tipografia nel 1724, dando inizio alla più duratura e feconda impresa tipografica

ed editoriale trentina, attiva fino agli anni Ottanta del XX sec. L’anno successivo vide la

luce la prima edizione, sottolineata dalla formulazione di “stamperia nuova”. L’attività

512 S. GROFF, Con licenza de’ superiori. Notizie sulla tipografia trentina alla fine del Settecento, in S. GROFF, R. PANCHERI, R. TAIANI (a cura di), Trento Anno Domini 1803: le invasioni napoleoniche e la caduta del Principato Vescovile, cit., pp. 86.

150

tipografica di questa officina consisteva nella pubblicazione per lo più di operette

religiose e devozionali, ma anche testi scolastici, di studio, libretti di rappresentazioni

teatrali del Collegio dei Gesuiti, componimenti d’occasione, bandi, manifesti per le

autorità e periodici. Nel 1746 la stamperia godette di una situazione di privilegio poiché

Gianbattista ottenne la qualifica di stampatore vescovile, titolo mantenuto dal figlio, suo

omonimo, che subentrò al padre nel 1764 fino alla morte, nel 1801. Il privilegio

consisteva nel diritto esclusivo di stampare e vendere a prezzi stabiliti. Nessun altro, se

non con l’esplicita autorizzazione del privilegiato poteva trattare i materiali indicati. A

titolo di contropartita vigeva l’obbligo di stampare gratuitamente i proclami della

cancelleria513. Giovanni Battista morì nel 1801 dopo aver lasciato la tipografia nelle

mani del figlio Giovanni Battista, il terzo stampatore della famiglia a portare questo

nome514.

Prima di procedere nell’analisi della diffusione dello scritto di don Tecini,

accennerò alle caratteristiche estrinseche che l’omelia assunse quando fu data alle

stampe: essa si presentava sotto forma di un opuscolo, di 12x18 cm, con 24 pagine in

carta numerate dalla 3 alla 23. Le copie che ancora oggi sono autonome presentano una

rilegatura a margine in carta colorata, prodotta in un momento successivo alla

pubblicazione per mano del possessore. L’aggiunta di un’eventuale coperta in carta o in

cartoncino più resistente è frutto di un successivo lavoro di conservazione, eseguito dal

possessore o ancora dopo, dal bibliotecario. Alcuni esemplari, invece, si trovano riuniti

in volumi miscellanei come spiegherò più dettagliatamente in seguito, quando mi

soffermerò sulla descrizione delle singole copie dell’opera, presenti nelle biblioteche

locali.

Per cercare di ripercorrere le tappe della diffusione di quest’opera ho ritenuto

necessario fare un percorso a ritroso partendo da alcune considerazioni sull’attuale

presenza di copie dell’omelia nelle varie biblioteche della provincia. Per quanto

riguarda la città di Rovereto, si ritrovano due copie presso la Biblioteca civica, di cui

una appartenente al fondo Agiati, e una copia è conservata presso la biblioteca

rosminiana. A Trento, invece, sono presenti due copie nella Biblioteca comunale e una

presso la Biblioteca S. Bernardino del Convento dei frati Francescani. Da ciò si desume

che l’opera in oggetto ebbe una diffusione locale. Tuttavia, consultando il Catalogo

SBN, emerge che una copia è presente anche presso la biblioteca statale di Cremona.

513 Ibid. 514 www.esterbib.it/tipografi.php

151

La copia presente negli archivi storici della Biblioteca civica di Rovereto è

autonoma, contenuta in una coperta in carta, non prodotto della stamperia, ma aggiunta

più tardi. Il formato è lo stesso delle altre copie: 12x18 cm. per un totale di 24 pagine in

carta (di cui la prima, la seconda e l’ultima non sono numerate) a cui si aggiunge la

coperta, che non riporta alcuna nota di proprietà: di qui la difficoltà a ricostruire la storia

dell’opera, la provenienza, i passaggi di mano prima che essa giungesse in biblioteca.

Sulla coperta è presente però una segnatura in matita che allude all’attuale sistema di

catalogazione proprio della biblioteca civica di Rovereto, risalente al periodo compreso

fra le due guerre mondiali. Anche sul frontespizio sono presenti due segnature a matita

che però si riferiscono alla catalogazione del periodo ottocentesco. Da ciò si può

desumere che l’opuscolo fosse giunto in biblioteca sicuramente prima della grande

guerra. Sul retro dell’opuscolo c’è una scritta in lapis di colore rosso riportante il nome

della città di “Trento”. Ancora sul frontespizio si nota la presenza del numero 46, scritto

a penna che ci permette di collegare quest’opuscolo a quello intitolato Elementi del

buon suddito cristiano. Appendice alla spiegazione catechetica del quarto precetto del

decalogo, anch’esso appartenente al fondo storico della BCR, che riporta su una pagina

bianca, precedente il frontespizio, il numero 47, scritto con la stessa mano. Tuttavia la

totale assenza di qualsiasi altro elemento non ci permette di ricostruire con rigore

storico la storia dell’opera, in relazione alla sua circolazione.

Per quanto riguarda, invece, l’opera presente nella stessa biblioteca, ma

appartenente al fondo dell’Accademia degli Agiati, è possibile ipotizzare una qualche

storia avvalendoci della documentazione manoscritta conservata tuttora nell’archivio

accademico, di una nota di proprietà presente sulla prima pagina dell’opera e delle

conoscenze relative agli obblighi dei soci nei confronti dell’Accademia: partendo da

quest’ultimo punto è importante ricordare che, una volta divenuti soci dell’accademia,

era possibile, ma non obbligatorio presentare un curriculum della propria vita515. Inoltre,

in base allo Statuto della società, la parte riguardante i “Doveri dei Sozi”, al punto 13

riconosceva che “I Sozi ordinari dovranno donare all’Accademia le opere, che

pubblicassero colle stampe. Gli altri Accademici poi se non manderanno all’Accademia

l’opere loro il che, se faranno le sarà gradissimo, al meno daranno ad Essa notizia di

515 Nella parte dello Statuto accademico relativo ai “Diritti dei Sozj”, al punto 20 si legge: “Qualunque Sozio potrà mandare all’Epistolografo le memorie della sua vita, che si collocheranno a suo luogo negli atti accademici di cui si dirà” (AARA, fascicolo 2. Statuti. Costituzioni 1823).

152

tutto quello, che stampano, acciochè Essa possa, come desiderebbe, provvedersene ”516.

Che Tecini fosse ligio, anche se non in maniera puntuale, ai doveri di socio accademico

lo si deduce dalla già ricordata lettera che, in data 24 marzo 1845, scrive all’Accademia

esprimendo la propria gioia e sorpresa per la nomina, con relativa patente, a socio

corrispondente517. Dopo i ringraziamenti si fa carico di ottemperare ai doveri dei soci518

garantendo che al più presto avrebbe inviato una memoria della sua vita. Ancora nel

1847 però il parroco non faceva pervenire all’epistolografo la documentazione

necessaria519. Ma se la presentazione dell’autobiografia era facoltativa, come si legge

dallo statuto, l’elenco delle opere era obbligatorio: In ottemperanza ai punti 13 e 20

dello statuto, è verosimile che Tecini abbia allegato materialmente insieme alla propria

autobiografia, cinque delle sue opere, ovvero quelle che cita nell’elenco intitolato

“Opuscoli pubblicati colle stampe”, riportato nell’ultima carta del manoscritto di

Montel, se consideriamo come attendibile l’ipotesi che questo è una copia

dell’autobiografia che Tecini fece scrivere per indirizzarla all’Accademia. Le opere

menzionate sono: Monumentum parentale Thomæ Joannis episcopi et S.R.I. principis

Patauiensis ex comitibus de Thunn et Hochenstein &c. &c. viri incomparabilis

sempiternæ memoriæ sacrum, Contro i pregiudizj che ancora s'oppongono alla

vaccinazione : omelia recitata al suo popolo li 4. gennajo 1807, Sui vantaggi e sulla

necessità delle nuove reg. bav. scuole elementari pei fanciulli e fanciulle, Elementi del

buon suddito cristiano : appendice alla spiegazione catechetica del quarto precetto del

decalogo; infine le prime tre edizioni dell’ Uberto, ossia, Le serate d'inverno pei buoni

contadini. Quest’ipotesi è suffragata da un altro elemento: Battelli, l’autore del profilo

biografico di Tecini conservato nelle Memorie del 1901, dopo aver presentato le tappe

salienti della sua vita dice: “Di lui abbiamo” ed elenca le opere di cui sopra, riferendosi

alle opere presenti nella biblioteca dell’Accademia. Il loro arrivo qui è sicuramente

anteriore al XX sec. Battelli, infatti, riporta nelle notazioni bibliografiche il lavoro di F.

516 Ibid. 517 AARA, fascicolo 322.2. 518 Tecini nella lettera scrive “Mi farò in dovere di eseguire quanto prima ciò che impone ai Soci il S. 20 degli Statuti” (ibid.). Tuttavia, come già ho anticipato, la presentazione di un’autobiografia inteso come curriculum vitae rientrava fra i diritti di un socio e non fra i doveri. 519 Con lettera datata 2 luglio 1847 l’Accademia roveretana degli Agiati, esprimeva le proprie felicitazioni per il cinquantesimo anniversario di cura d’anime del socio corrispondente don Tecini nella parrocchia di Pergine. Il 14 luglio c.m. don Tecini rispondeva dichiarandosi lusingato dei “gentilissimi suoi augurii”, ma coglieva anche l’occasione per rassicurare il Presidente che avrebbe fatto pervenire all’epistolografo le sue “memorie della lunga vita”. (AARA, fascicolo 322.2).

153

Ambrosi del 1894, dal quale riprende alla lettera la successione delle opere che sono

presenti in Accademia. A corroborare questa ipotesi soccorre la presenza nel fondo

Agiati della Biblioteca civica di Rovereto di una copia dell’opera Sui vantaggi e sulle

necessità delle reg. bav. scuole elementari pei fanciulli e fanciulle, come attesta la

presenza di un timbro a secco dell’Accademia520 e di una nota scritta a matita sul

frontespizio dell’opuscolo che allude al fatto che si trattava dello scritto di un socio521.

Questi pochi elementi però non ci permettono di fondare e documentare l’ipotesi che

l’opera sia giunta in Accademia per mezzo dello stesso Tecini. Come questa, anche le

altre opere citate nell’autobiografia e poi confermate da Battelli, presenti ora nel fondo

storico della BCR possono essere state inviate originariamente all’Accademia ma sono

solo congetture, data l’assenza su queste stesse opere di elementi che permettano

l’identificazione della loro provenienza. A complicare ulteriormente il quadro subentra

un altro fattore. Dal 1764 si sviluppò il primo nucleo della Biblioteca accademica,

conservato inizialmente presso la casa di Giuseppe Valeriano Vannetti e di Bianca

Laura Saibante e costituitosi dei manoscritti e delle pubblicazioni a stampa che i soci, in

forza delle disposizioni statutarie erano tenuti a versare nelle mani del segretario. Grazie

alla volontà di Vannetti di rendere tale patrimonio disponibile a tutti, nella direzione di

un progresso civile della propria città, nacque nel 1764 il primo nucleo della biblioteca

civica. Alla sua costituzione, resa possibile dall’acquisizione della biblioteca di

Girolamo Tartarotti, concorsero Vannetti e Francesco Saibante. L’anno successivo,

avvenne l’annessione della biblioteca civica con quella degli Agiati. Ebbe così inizio tra

comune ed accademia, comproprietarie della biblioteca cittadina, una lunga fase di

collaborazione, che avrebbe segnato una battuta d’arresto solamente nel 1893. Rimasero

invece sotto l’esclusiva custodia del segretario accademico i manoscritti dei

componimenti e delle relazioni presentati in pubblica lettura522. Fra il 1893 e il 1895

giungeva a parziale e temporanea soluzione, nel segno dell’autonomia accademica, il

problema della comproprietà della biblioteca civica, la quale era appunto costituita fin

dal 1764 dai volumi degli Agiati523. Ma prima di allora, il confine fra patrimonio

librario dell’Accademia e Biblioteca Civica era molto labile, data l’assenza di un

sistema di catalogazione che ne determinasse con precisione l’appartenenza delle opere

520 Il timbro a secco risale ad un’epoca abbastanza recente della storia dell’Accademia: in origine il timbro era in inchiostro e riportava la dicitura 521 Con ogni probabilità anche questa nota è posteriore perché le note coeve venivano scritte a penna. 522 M. BONAZZA, L’Accademia roveretana degli Agiati, cit., pp. 20-21. 523 Ivi, p. 44.

154

a uno o all’altro fondo. Si potrebbe ipotizzare che anche gli scritti editi di Tecini, e

verosimilmente inviati all’Accademia fossero confluiti a far parte del fondo storico della

biblioteca civica, quando forse originariamente appartenevano all’Accademia. Questo

ragionamento poggia sul fatto che nella biblioteca civica sono presenti quelle stesse

opere che Tecini aveva elencato nella sua autobiografia, di cui una copia è quella di

Montel. In questo elenco ometteva l’omelia, seppur stampata, recitata in occasione della

presa di possesso del potere da parte del re bavarese. Questa stessa omelia non è

presente né nel fondo degli Agiati né nel fondo storico della Biblioteca civica. È pur

vero che queste opere attualmente presenti nel fondo storico della Biblioteca civica non

hanno alcun elemento che le possa accomunare all’unica opera che verosimilmente

Tecini inviò all’accademia. Una copia della stessa opera, invece, catalogata come

propria della biblioteca civica porta sul frontespizio il numero 46, scritto a penna con la

stessa calligrafia del numero 47 scritto sulla prima pagina del volume intitolato

Elementi del buon suddito cristiano. Queste due opere, inoltre, sono accomunate dalla

presenza dello stesso timbro (a secco) della biblioteca civica. Tornando all’omelia

recitata in difesa dell’introduzione delle scuole bavaresi, le diverse segnature apposte

testimoniano la storia biblioteconomica ma non quella dello scritto prima del suo arrivo

in biblioteca.

Anche presso la biblioteca di Casa Rosmini, esiste una copia dell’opuscolo in

oggetto, al quale si aggiungono anche le altre tre opere risalenti al periodo bavarese: le

due omelie, una recitata in favore dell’insediamento di Massimiliano Giuseppe e l’altra

a sostegno dell’introduzione della vaccinazione antivaiolosa e Elementi del buon

suddito cristiano. Di queste opere, tre si trovano sciolte, ovvero autonome, mentre una è

contenuta in un volume di miscellanee. Per quanto riguarda la descrizione estrinseca

delle omelie pubblicate si deve partire da un elemento comune: esse sono state stampate

nello stesso formato (12x18) e molto probabilmente anche l’opuscolo sulle scuole

elementari, ora nella raccolta “opuscoli vari”, aveva lo stesso formato, sottoposto poi, a

fine Ottocento, a un’operazione di taglio per adeguare la sua grandezza a quella degli

altri opuscoli contenuti. Se i tagli, per quest’opera, non sono evidenti, per alcune altre

opere contenute sono inequivocabili perché mancano completamente i margini esterni.

L’assemblaggio degli opuscoli in questo volume risale con ogni probabilità a fine

Ottocento ad opera di Francesco Paoli. Lo si desume dalla qualità finale del volume

stesso: la coperta è in cartone rilegato con una legatura in carta, somigliante a finta

pelle. Risalente al periodo è la tecnica di colorare il volume ai lati. Non ci sono note di

155

possesso su nessun’opera però è possibile risalire alle motivazioni per cui l’omelia sui

pregiudizi è giunta in casa Rosmini. Da una minuta di lettera scritta da Pier Modesto

Serbati524, padre di Antonio, si deduce che il signore ricevette da un carissimo amico,

non meglio identificato, una lettera, cui era allegata una copia dell’opera del Tecini,

nella quale veniva richiesto un suo parere circa le argomentazioni addotte dal Tecini per

difendere l’introduzione della vaccinazione antivaiolosa promossa dal governo

bavarese. Nonostante uno spoglio sistematico della corrispondenza di Pier Modesto

Serbati, non è emerso chi sia il mittente della lettera ricevuta dal padre di Antonio.

Per quanto riguarda la Biblioteca S. Bernardino di Trento, qui è conservata una

copia dell’omelia all’interno di una miscellanea intitolata “Cose di didattica” scritto su

un’etichetta attaccata sul dorso del volume. Potrebbe trarre in inganno la presenza del

numero romano “I”, riportato poco sopra il titolo del volume, al quale però non si

riferisce. Infatti la miscellanea è costituita da opuscoli, originariamente autonomi e uniti

in una legatura di recupero della quale si possono scorgere i punti vecchi della cucitura

che teneva insieme il volume originario. La coperta risale molto verosimilmente al

Settecento ed è in pergamena. La pagina iniziale riporta un indice manoscritto di mano

del Morizzo, catalogatore della biblioteca S. Bernardino a fine Ottocento, riportante il

titolo degli opuscoli contenuti. Essi furono stampati in un periodo compreso fra il 1809

(anno di stampa dell’omelia di Tecini; all’interno di questa miscellanea la sua opera è la

più datata) e il 1881. Gli opuscoli sono nove e quello di Tecini si trova all’ottavo posto.

Il criterio di successione delle opere non è quindi cronologico. Non è possibile risalire

con precisione alla motivazione reale per cui questi nove opuscoli sono stati aggregati:

si evince che sono accomunati dal fatto di afferire all’ambito scolastico, ma questo

elemento non è sufficiente per comprendere la logica della loro successione nel volume.

È verosimile comunque che la sua origine risalga alla fine dell’Ottocento quando il

Morizzo, per motivi di conservazione decise di unirli in un volume, anteponendovi un

indice. Ciò non ci permette di risalire ai passaggi intermedi che dalla pubblicazione

dell’opuscolo hanno portato al suo arrivo nella biblioteca di S. Bernardino.

Come già anticipato sono presenti due copie dell’omelia anche nella Biblioteca

comunale di Trento: una copia appartiene con certezza alla raccolta di libri a cui

Mazzetti diede vita. Lo si desume dal tipo di segnatura che contraddistingue la sua

biblioteca e dall’inserimento dell’opuscolo in una coperta in cartoncino resistente di

colore chiaro. In origine, infatti, lo scritto si presentava come tutte le altre copie

524 ACRR, IX. 5.1.

156

attualmente presenti in Trentino, ovvero privo di una coperta e assemblato a lato da una

legatura colorata. Le opere raccolte dal Mazzetti furono poi da lui donate alla Biblioteca

comunale di Trento, costituendo il primo nucleo della biblioteca stessa. Nel secondo dei

due volumi contenenti l’elenco dei libri a stampa della collezione di Antonio Mazzetti,

sotto la voce Tecini Francesco si citano i titoli di alcune sue opere possedute

dall’avvocato: si tratta delle due opere scritte in latino e della prima e della seconda

edizione dell’Uberto. L’omelia sulle scuole bavaresi, pur appartenendo in maniera

inequivocabile alla sua biblioteca, non rientra nell’elenco insieme alle altre.

L’altro esemplare, invece, deve aver subito un processo di smembramento:

originariamente parte di un volume miscellaneo, occupava il secondo posto, come

suggerisce il numero scritto a penna sul frontespizio. Sfogliando l’opuscolo il lettore

segnò alcuni passaggi a lui particolarmente interessanti, ma questi segni non sono

sufficienti per risalire alla mano e dunque al possessore.

Alla luce di queste considerazioni, si evince che quest’opera conobbe, una

diffusione abbastanza limitata, così come le altre due omelie stampate da Monauni.

Maggior fortuna ebbe, invece, l’operetta Elementi del buon suddito cristiano,

coerentemente con le finalità per cui era stata commissionata.

157

CONCLUSIONI

Per una rilettura della figura di don Francesco Tecini, prete filobavarese.

Che l’aggettivo “filobavarese” nella storiografia regionale otto-novecentesca, mossa da

sentimenti autonomistici, avesse assunto un significato negativo è noto: questo perché

esso è sempre stato letto in chiave politica.

Per quanto riguarda la figura di don Tecini, definirlo prete ‘filobavarese’ è fuorviante

quando inteso nel senso politico dell’espressione, perché significherebbe svalutare la

sua intensa attività pastorale e letteraria di quegli anni, interpretandola come atto di

‘servilismo’ nei confronti del potere costituito. Una tale considerazione non rende

giustizia alla personalità di Tecini, alla sua formazione, alla particolarità dei tempi: ne

era consapevole l’amico e socio accademico Luigi Benvenuti, il quale nella tornata del

10 maggio 1855, presentando ai soci dell’Accademia roveretana degli Agiati la prima

parte della vita del parroco, voleva far “cangiare d’opinione coloro che non avendolo

conosciuto da più vicino, o approfondite le circostanze de’ tempi, in cui visse, si

lasciarono facilmente prevenire dall’apparenza, o forviare dallo spirito di parte”. Il tono

encomiastico che percorre tutto il discorso se da una parte esplicita chiaramente la stima

che Benvenuti nutriva nei confronti dell’amico, dall’altra dichiara come il discorso

rientrasse nel tentativo di ricordare un socio che, per il suo impegno letterario, era degno

di memoria, almeno fra gli Agiati. Si tratta di un elogio che certo non risponde a criteri

di oggettività storica, da cui è necessario prendere le distanze, ma ciò che di vero c’è

nell’affermazione di Benvenuti è che per capire l’originalità di don Tecini si devono

approfondire le circostanze dei tempi, senza lasciarsi prevenire dall’apparenza e

fuorviare dallo spirito di parte.

Sono tre gli elementi che occorre tenere in considerazione per una valutazione

dell’attività degli anni bavaresi del sacerdote trentino: il periodo storico, la formazione e

lo status sociale. Alla luce di questi, il favore del parroco ai provvedimenti di riforma

bavaresi rientra in un percorso coerente fatto di adesione alla “filosofia” cristiana del

tempo e di sostegno verso tutte quelle misure, a prescindere dai governi che le varavano,

che erano in grado di garantire un effettivo miglioramento dei sudditi.

Il primo Ottocento appartiene ad una fase storica di cruciale importanza nel

lungo processo di superamento e ammodernamento della società trentina d’antico

158

regime: gettati i presupposti nella metà Settecento, la società trentina fece il proprio

ingresso nel XIX secolo con una fisionomia nuova, nella forma, ma per certi versi

ancora abbastanza tradizionale nella sostanza.

Fu soprattutto la dominazione bavarese a determinare nel Tirolo un’accelerazione nel

processo di trasformazione, che interessò la società tanto nei suoi rapporti con il potere

costituito quanto in quelli con le autorità ecclesiastiche. I fattori che già nel secolo

precedente determinarono la ridefinizione delle relazioni fra Stato e Chiesa erano

ascrivibili alla tradizione della Aufklärung centro europea: l’esigenza di una riforma

complessiva della macchina statale, la maturata consapevolezza negli stessi ambienti

cattolici della necessità di un rinnovamento religioso, rappresentata dal pensiero

muratoriano e dal giansenismo, e la diffusione dell’Illuminismo nei suoi aspetti più

moderati. Dall’intreccio di questi elementi nacque uno stato in cui modernità e

tradizione si fondevano: la prima si esplicitava nell’organizzazione verticistica,

razionale e burocratica del sistema, in cui lo Stato divenne l’unico soggetto responsabile

della felicità pubblica dei sudditi.

Definite le “circostanze dei tempi” assume il giusto significato l’attività di don

Tecini: dal 1806 al 1809, il sostegno ai provvedimenti bavaresi rientrava innanzitutto

all’interno della concezione paternalistica del potere da parte dello Stato che vedeva la

Chiesa e, in modo particolare il parroco, coinvolta in forme nuove nel grande progetto

divino e politico di governo della società: per questo, quando nel 1806 il Tirolo passò

alla Baviera, il parroco persuadeva i perginesi ad accogliere il nuovo monarca con

giubilo perché era dato da Dio e nel suo Regno aveva già dimostrato di governare per il

bene dei sudditi. In Tirolo il re Massimiliano Giuseppe introdusse la vaccinazione

antivaiolosa e le scuole elementari: il sostegno che don Tecini accordò a tali

provvedimenti rispecchiava da una parte la “filosofia” cristiana del tempo, dall’altra la

sincera convinzione che essi fossero davvero vantaggiosi per il popolo. Tale presa di

posizione, per essere compresa, deve essere interpretata alla luce del percorso formativo

compiuto.

Partendo dal Trentino dell’ultimo quarto del Settecento per approdare alla corte

salisburghese di Colloredo, attraverso la Toscana dei Lorena-Asburgo e la Rovereto

degli Agiati, il percorso formativo di Tecini si alimentò delle suggestioni culturali che

159

negli ultimi decenni del XVIII sec. rinnovarono la società promuovendo una mentalità

più razionale, moderna e all’avanguardia, pur senza laicizzarla.

Determinante fu l’influsso delle correnti interne al cattolicesimo: giansenismo e

pensiero muratoriano. Con il primo don Tecini ebbe un primo e poco incisivo contatto a

Trento, durante gli anni Settanta-Ottanta del Settecento quando governava Pietro Vigilio

Thun. Fu il soggiorno fiorentino che lo portò ad avvicinarsi in maniera più compiuta al

giansenismo: ma anche in questo caso è bene specificare che don Tecini apprezzò

l’anima spirituale del movimento, quella mirante al rinnovamento religioso del

cattolicesimo, e non quella politica, preponderante nella Toscana degli anni Ottanta del

XVIII sec., che puntava ad un’organizzazione orizzontale della Chiesa, ad una

democrazia ecclesiastica, disconoscendo i legami gerarchici e istituzionali con la Santa

Sede e la sua struttura verticistica. Il soggiorno a Firenze fu fatto di studio, incontri con

i maggiori scienziati e letterati dell’epoca, contatti con l’Agiato roveretano Clementino

Vannetti, occasioni attraverso le quali il parroco poté respirare l’atmosfera illuminista

intrisa di scienza e lettere di quel periodo, rimanendone conquistato dal potenziale di

miglioramento in essa contenuto. Una cultura che poté fare propria, in quanto parroco,

grazie alla conversione all’ideale di pietà illuminata, approfondita poi a Salisburgo,

centro del pensiero muratoriano: essa si traduceva nel tentativo di dare utilità sociale e

civilizzatrice alla religione attraverso la diffusione del binomio fede-sapere.

Negli anni della sua formazione don Tecini assorbì queste sollecitazioni facendone la

base della sua futura azione pastorale.

Consapevole della bontà dei provvedimenti bavaresi di cui sopra, il parroco,

coerentemente con la sua formazione, non poteva che prodigarsi perché anche il suo

gregge potesse godere con convinzione dei cambiamenti in atto. Ma gli atteggiamenti di

resistenza del popolo che ne derivarono erano sintomatici di una mentalità arretrata, che

andava svecchiata, in cui una religiosità superstiziosa e irrazionale plasmava le

coscienze mantenendole nell’ignoranza.

La figura di Tecini assume in questo frangente tutta la sua specificità: si tratta di

un parroco che, in virtù del suo ruolo, per la formazione ricevuta e per le circostanze

storiche, è il punto di riferimento del suo popolo. Un parroco però colto, illuminato,

pienamente consapevole del travaglio di quei tempi, il cui merito fu quello di

acclimatare i suoi fedeli ai cambiamenti in atto, accompagnandoli in questa delicata fase

di passaggio.

160

La sua mediazione permise ai perginesi di vivere meno tragicamente, in età

bavarese, la fine di un’epoca, come invece successe in Tirolo: è difficile non avvicinare

per contrapposizione Hofer, capo dei rivoltosi e Tecini che, nello stesso anno, alla

vigilia dell’insurrezione persuadeva i perginesi, con un omelia data poi alle stampe,

della necessità e dei vantaggi delle scuole elementari bavaresi.

Anche la scelta di concentrare l’attenzione sull’impegno profuso per la

diffusione di un’alfabetizzazione popolare elementare non è casuale: essa è motivata dal

fatto che il parroco già dagli anni giovanili mostrò una particolare sensibilità verso il

problema dell’istruzione maturandola viepiù nel corso degli anni. Lo testimoniarono gli

incarichi che egli rivestì, insegnante prima e ispettore scolastico poi: lo confermava la

riconoscenza verso il governo vescovile dei tentativi promossi in quest’ambito, ma

soprattutto il sostegno concreto ad ogni provvedimento volto ad abbattere

l’analfabetizzazione, indipendentemente dal fatto che fosse promosso dal governo

austriaco o bavarese. Questo per dire come il sostegno ai provvedimenti bavaresi fosse

maturato in chiave morale prima che politica. Non si deve comunque esagerare la loro

portata: l’introduzione delle scuole elementari, infatti, mirava non tanto a creare uomini

pensanti, quanto sudditi fedeli allo stato. Tuttavia va riconosciuta alla legislazione

bavarese il merito di aver contribuito in maniera decisiva all’alfabetizzazione delle

masse e alla loro scolarizzazione, gettando i presupposti per il superamento di una delle

più gravi piaghe sociali.

Che don Tecini non fosse politicamente filobavarese lo conferma in maniera

evidente un altro fatto: allo scoppio della rivolta hoferiana anche’egli fu costretto alla

fuga, minacciato dalla violenza dei cosiddetti difensori della patria del borgo perginese.

I gastaldi di Pergine, Susà e Viarago, i più infervorati, una volta sedata l’insurrezione

dovettero fare i conti con i provvedimenti punitivi adottati dal governo contro gli

insorti; così essi furono imprigionati. Nonostante tutto don Tecini si adoperò per la loro

liberazione, riuscendo a ottenere però solamente quella del gastaldo di Pergine: d’altra

parte don Tecini era un parroco tale per vocazione: essendo il primogenito di una

famiglia nobile, la strada del sacerdozio non fu per lui una scelta condizionata per una

futura sistemazione economica e sociale decorosa. La volontà stessa di lasciare

Salisburgo nel 1797 per dedicarsi alla cura d’anima e il rifiuto di diventare nel 1809

regio consigliere ecclesiastico del re di Baviera per rimanere fra i suoi perginesi

testimoniano come don Tecini vivesse con sincera convinzione e dedizione il proprio

impegno pastorale. Don Tecini dunque era un prete che, pienamente conquistato al

161

precetto dell’amore cristiano, voleva imprimere nei suoi fedeli questo principio, da cui

scaturiva la contrarietà alla violenza e la ricerca della pace e del perdono.

162

163

APPENDICE

In questa sezione sarà presentata la trascrizione di alcuni manoscritti inediti conservati

l’Archivio storico comunale di Pergine, la Biblioteca civica di Rovereto, l’Accademia

roveretana degli Agiati e la Biblioteca comunale di Trento. Si tratta delle due biografie

di Francesco Tecini più volte citate, degli alberi genealogici della famiglia Montel,

limitatamente alla famiglia Tecini, delle lettere che il parroco inviava a Clementino

Vannetti da Firenze e da Salisburgo, della corrispondenza con l’Accademia degli Agiati

e della lettera che Tecini scrisse all’avvocato Antonio Mazzetti nella quale sollevava la

questione sulle origini della propria famiglia.

CRITERI DI EDIZIONE

I criteri adottati per la trascrizione dei documenti hanno cercato di mantenere il testo il

più fedele possibile a quello originario, tenendo conto, allo stesso tempo, delle

particolarità e specificità proprie dei manoscritti oggetto dell’appendice.

Per una più facile lettura e comprensione dei testi, le abbreviazioni sono state sciolte e le

sezioni di testo depennate riportate in nota. In nota vengono anche riportati i termini che

l’autore ha scritto commettendo degli errori grammaticali, ma dallo stesso corretti con

segni sulle lettere da cancellare. Fra parentesi uncinate si trovano integrazioni al testo,

dove incomprensibile, e alla punteggiatura, ove mancante, normalizzando le maiuscole

all’uso moderno (lettere maiuscole a inizio frase, dopo il punto fermo).

164

Doc. n. 1

CENNI BIOGRAFICI DI FRANCESCO TECINI

(Acp, Fondo Famiglia Montel, n. prov. 506)

1. Francesco Tecini Arciprete Decano di Pergine nacque in Sarnonico nella Naunia li

19. D(icem)bre. 1763. da famiglia decorata con decreto di Nobiltà del Principato di

Trento dato li 24. Nove(m)bre1698. Di Lui padre fu Francesco Tecini Dottore di

medicina, madre Catterina de’ Stefenelli di Fondo. Alla scuola infantile avuta in

casa, volendo i genitori aggiungere anche l’inviamento alla lingua tedesca, lo

mandarono per un anno a S(an) Michele di Eppan, dove alloggiò in casa del

negoziante Koll. Richiamato a casa, cominciò sotto D(on) Pietro Ghezzi Curato di

Cavreno lo studio grammaticale, che poi nell’anno 1777. andò a proseguire nel

Seminario di Trento, in cui a quel tempo si ricevevano anche de’ giovinetti

frequentanti quel Ginnasio.

2. Egli compì in Trento, sempre primeggiando fra suoi condiscepoli, tutti i suoi studj.

Al terminare della Fisica fu scelto insieme con Giuseppe de’ Carneri a difendere,

come allora si costumava, nel Teatro del Liceo le tesi d’universa Filosofia. Così tre

anni dopo gli toccò di difendere quelle d’universa Teologia morale.

3. Nell’anno 1786. fu ordinato Sacerdote. In quell’anno medesimo nominato da S(ua)

A(ltezza) R(everendissi)ma il Principe Vescovo all’impiego d’unico pubblico

Ripetitore di Logica, e Metafisica in quel Liceo; occupò per 5. anni quella cattedra,

cui erano obbligati tutti quegli studenti.

Nel mese di Luglio del 1788. fece un viaggio a Vienna, dove dimorò più d’un mese,

e gli riusci di procurare a suo fratello Salvatore studente di Logica il godimento

dell’annuo stipendio lasciato dal fu Cardinale de Troyer di f(iorini) 150. M(oneta)

C(orrente) annui, dovutigli a titolo di parentela procedente dalla sua bisava nata de

Meierhoffer di Bressanone figlia d’una de’ Troyer.

4. In Luglio del 1791. per proposta fatta dal Conte Francesco degli Alberti Poja di

Rovereto, e del Sig(no)r Conte Carlo de’ Martini di Calliano, passò Tecini al

servigio di S(ua) A(ltezza) R(everendissi)ma l’Arcivescovo Principe’ Sovrano di

Salisburgo Colloredo, qual Segretario per la corrispondenza italiana e latina, ed

insieme qual Cappellano aulico.

165

5. Con questo carattere l’Arcivescovo prima di chiamarlo alla Sua Corte lo mandò a

proprie spese a Firenze in Agosto del 1791. onde rimanervi per alcuni mesi, e

procurargli quell’aumento di coltura, che promette quella città ristoratrice delle

scienze, del buon gusto, e della lingua nazionale. Vi si portò Tecini con giubilo,

come è naturale in un uomo giovane animato anche dalla franchigia delle spese, e dal

collocamento che poi alla Corte di Salisburgo lo aspettava. Prima d’avviarsi per la

Toscana si fermò Egli qualche giorno presso del suddetto suo Mecenate Conte

Alberti, il quale lo munì d’alcune preziose commendatizie di quell’immortale

Cavaliere Clementino Vannetti. Con queste lettere, aggiunte ad altre, che gli aveva

mandate da canto suo l’Arcivescovo, giunse Tecini pieno di coraggio a Firenze, dove

il Forestiere favorevolmente conosciuto suole essere ricolmato di gentilezze.

6. La gran rivoluzione francese aveva fatte tacere tutte le minute questioni teologiche;

ed era in quel tempo in un stato di costernazione, e di abbandono il partito de’

Giansenisti, da Leopoldo qual Granduca di Toscana animati e favoriti, e dal

medesimo qual Imperatore abbandonati: il celebre Congresso d’Ems dimenticato: il

Vescovo de’ Ricci di Pistoja fuggito dalla sua Diocesi, ma assai ricco di casa, viveva

quasi solitario in Firenze. Al sentire che era venuto a Firenze un segretario

dell’Arcivescovo Sovrano di Salisburgo, primario autore del Congresso d’Ems,

respirarono que’ Giansenisti supponendolo un loro genio tutelare, e non sapendo, che

Tecini era un giovane Prete trentino venuto unicamente per imparare, non diretto dal

Principe alla loro Società, e d’altronde per propria indole alieno da ogni spirito di

partito. Vedendo Monsignor Ricci, che Tecini non cercava la sua conoscenza, dopo

alcune dimande fattegli fare da qualche Prete sempre riuscite evasivamente,

volendolo pur conoscere, si preparò nella biblioteca magliabecchiana seduto con un

libro in mano vicino al solito scrittojio di Tecini; e qui gli parlò a lungo molto

gentilmente, dicendogli che pensava di portarsi in Germania, ma avrebbe voluto

sapere quale accoglienza potesse aspettarsi. Tecini, che M(onsigno)r Vescovo

supponeva venuto da Salisburgo, non poteva che scusarsi coll’assicurarlo, che non

conosceva ancora il Principe Arcivescovo cui serviva.

7. Più di tutte le raccomandazioni giovò a Tecini la stretta parentela del celeberrimo

Cavaliere Felice Fontana primo cugino del medico Tecini suo padre, essendo state di

due sorelle figlie del Genetti di Dambel l’una madre del Cavalier Fontana, l’altra del

medico Tecini padre dell’Arciprete. Nei dieci mesi di dimora, che fece Tecini in

166

Toscana gli si mostrò il Cavalier Fontana non solo buon parente, ma lo trattò anche

da vero intimo amico accogliendolo sempre cordialmente, ed animandolo a

frequentare nel gran gabinetto fisico di storia naturale da Lui per Sua Altezza

imperiale il Granduca raccolto, e sistemato, di cui non esisteva in Europa, e tanto

meno altrove, l’eguale, ed a cui accorrevano i più celebri letterati d’ogni nazione. Vi

trovava il Tecini divertimento e profitto: e fu colà che gli venne voglia di comporre

l’opuscolo ancora inedito di cuiquisotto si farà menzione al n(ume)ro 2. pag(ina) 12.

8. Fatta conoscenza coi primarj scienziati di Firenze e di Pisa, a da tutti ben accolto,

anzi invitato e presentato alle conversazioni di parecchie distinte famiglie, passò Egli

dieci mesi circa in Toscana, e quasi sempre in Firenze, trattane una scorsa, che fece

in Marzo a Pisa, Livorno, Lucca, Pescia, Pistoja, Prato e Fiesole.

Prima di partire dalla Toscana fu decorato colla patente di socio di quella celebre

reale Accademia scientifica dopo averle presentato il suo opuscolo, di cui qui sotto si

parlerà, letto in alcune Sessioni. Vedasi qui sotto n(ume)ro 1. pag(ina) 12.

9. Ritornato nel mese di Giugno alla patria, per desiderio manifestatogli per lettera da

S(ua) A(ltezza) R(everendissi)ma l’Arcivescovo, si fermò due settimane in Rovereto

presso il sopra’ nominato Sig(no)r Conte Alberti, che l’Arcivescovo aveva prevenuto

con lettera, onde’ riformare la sua scrittura’, nel che (cosa ridicola) dopo che Egli era

già fatto Socio della reale Accademia fiorentina, dovette impegnarsi nell’imparare

l’a, b, c & caligrafico, sotto la direzione del buon Abate Paris. Tecini in breve tempo

aveva fatta una scrittura da scolare: ma giunto poi al suo Posto, subito s’avvezzò

l’Arcivescovo ai di lui bensì leggibili, ma più correnti caratteri, e col tempo anche

alquanto per la fretta strapazzati.

Gli fu gratissima questa fermata in Rovereto: e tanto per la cordialità e gentilezza a

che trovò in casa del Sig(no)r Conte Alberti, come per la coltura, dottrina, e

pulitissime maniere di que’ Signori, primo de’ quali era Vannetti, oltre Carlo de’

Rosmini, Baron Tedeschi, la Sig(nor)a de’ Telani, ed altri, gli pareva ancora di

trovarsi in una contrada di Firenze. Rovereto, compreso allora anche il vicino Sacco,

dove fioriva la ricca casa dell’insigne Sig(no)r Giuseppe Maria de’ Fedrigotti, oltre

al chiarissimo litterato Clemente Baroni, ed il piacevolissimo Felice Baroni,

Rovereto, dico, era ed è ancora la prima città, dove il colto viaggiatore, venendo dal

Settentrione, sente ancora più che in Trento il dolce dell’aura italiana, e della fina,

cordiale sociabilità.

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10. Dopo avere visitata in Sarnonico la sua cara famiglia, e parentela, in Luglio del

1792. passò Tecini a Salisburgo, dove graziosamente accolto, gli fu consegnato

l’archivio segreto di Conte italiano, e latino disordinato, e polveroso pascolo fino

allora delle tignuole, non mai toccato da alcuno, perché in quella Corte, non vi fu mai

un Secretario italiano, ma ricco di preziosi antichi originali documenti525.

11. In Aprile del 1795. venne Tecini a Sarnonico a visitare i Suoi; da là passò a Trento,

dove si fermò nove giorni, cinque dei quali fu onorato da S(ua) A(ltezza)

R(everendissi)ma Vescovo e Principe Pietro Vigilio con inviti a pranzo nel suo

Castello.526

12. Non dispiaceva a Tecini il soggiorno di Salisburgo, benché chi visse in Italia non

debba pretendere la società sul gusto italiano in Germania, dove l’alta Nobiltà

conversa separatamente, e le famiglie civili quanto agli uomini fanno troppo conto

delle locande, alle quali Tecini non potè, e non volle mai avvezzarsi.

525 A margine nota autografa di don Tecini che allude ad una “carta volante”, inserita in allegato al manoscritto. Essa, scritta da Fortunato Montel, riporta delle integrazioni al manoscritto stesso: i rimandi da una parte all’altra sono facilitati da un gioco di simboli, in questo caso un pallino. Sulla carta volante, al pallino segue: “Pag(ina) 4. dopo la parola Documenti Verso la metà d’Agosto 1794 fu spedito Tecini da S(ua) A(ltezza) l’Arcivescovo per suoi affari per Monaco sino ad Augusta con cambiale per quella Dita Obezer, dove ebbe la soddisfazione di vedere le solite grandi Feste annuali della Città d’Augusta per la pace religiosa con bersaglio di balestre in vicinanza alla città con pomposo intervento di quell’allora Sovrano Magistrato in pompa antica con Solenne corteggio”. 526 Segue “Reduce a Salisburgo sul finire d’Agosto fu spedito dall’Arcivescovo per Monaco fino ad Augusta per suoi affari, dove ebbe la soddisfazione di vedere le solite grandi Feste annuali della città d’Augusta per la pace religiosa, con bersaglio si balestre in vicinanza della città con pomposo intervento di quell’allora Sovrano Magistrato in pompa antica con solenne corteggio” depennato. Ad integrazione del testo, su foglio a parte e con nota di richiamo a margine: “Pag(ina) 4. dopo Castello 11. Ritornato Tecini dal suo viaggio di Trento, Salisburgo per lungo tempo non ebbe più quiete, come non la ebbe tutta la Germania, avendo ripigliato il furore della guerra colla Francia, e con tanta rapidità, che l’armata di Jourdan avea già occupata la Baviera, toccava il fiume Enno, e minacciava il territorio Salisburghese. Dovette l’Arcivescovo Sovrano prontamente pensare al salvamento proprio delle casse, delle preziosità, degli archivi, ec. Restò Egli malgrado l’imminente pericolo intrepido nella Sua Corte, ma spedì via per la strada, che porta verso Gratz gran quantità di cassette cariche con ottanta persone deì suoi cortigiani, fra quali era Tecini, oltre la gente di Servigio, cocchieri, e carrettieri coll’ordine a tutti di fermarsi come fecero per più d’un mese nella piccola città di Radstadt. Era tutt’all’ordine per la pronta fuga anche dell’Arcivescovo, ma solo nel caso di vera necessità. Ma in tanto l’armata Francese fu obbligata dall’Arciduca Carlo ad una lunga ritirata: ed il convoglio intero da Radstadt ritornò giulivo alla Corte di Salisburgo”.

168

13. Era splendida la Corte di Salisburgo, e Tecini vi godeva tutti gli agi. L’Arcivescovo

gli voleva bene; anzi nel 1794. lo nominò suo Consigliere ecclesiastico. Ma non gli

era soffribile la rigidezza di quel clima pericoloso nell’Estate per le rapide mutazioni

che nel Verno, benché il freddo vi giunga qualche volta al grado 18. di R(eaumu)r.

D’altronde lo turbavano le voci ben presto poi verificate di secolarizzazione degli

Stati ecclesiastici, motivi che lo mossero sul principio dell’anno 1797. a bramare la

sua dimissione. La chiese; ma l’Arcivescovo gli esibì un notabile aumento di salario,

ed un migliore appartamento se voleva restare. Tecini però, dopo avere anche

superata una gravissima febbre nervosa, fu costante nella sua risoluzione, ed ottenne

la bramata dimissione, ma con patto di procurare Chi lo rimpiazzasse presso il

Eccelsissimo Padrone; e gli procurò il coltissimo Abate Tacchi roveretano, che prima

era stato Ajo del Principe Lichtenstein.

14. Già prima di partire da Salisburgo, che lasciò in Aprile 1797. Tecini era stato

nominato Arciprete e Decano di Pergine da S(ua) A(ltezza) R(everendissi)ma

Monsignor Principe Vescovo di Trento Pietro Vigilio, il quale fuggito dall’invasione

francese, dopo qualche soggiorno fatto a Salisburgo, si trovava allora in Passavia

presso di suo fratello Canonico Conte Filippo.

15. Già in Gennaio credeva Tecini di potersi avviare verso la patria: ma sul più bello di

sue speranze arrivò dal Tirolo l’avviso, che l’armata francese era di nuovo penetrata

fino a Trento, Bolzano, Bressanone, e Sterzing. Gli convenne dunque fermarsi. Una

forte epidemia soleva essere la solita conseguenza delle guerre in que’ tempi, nei

quali la truppa, e gli ospitali militari non si tenevano colla polizia, e colle cautele, che

si usano al presente. Più di tutti erano i Croati quelli, che per la loro poca nettezza

soffrivano e spargevano de’ malanni. Così accadde purtroppo negli anni 1796. e

1797. in Trento, ed in tutto il Tirolo.

16. Ma appena giunta a Salisburgo la nuova, che l’armata francese era partita da

Trento, e vi era entrata nel giorno 10. d’Aprile l’austriaca comandata dal Conte

Neiberg, una giovanile frettolosità mosse Tecini, che aveva seco suo fratello D(on)

Nicola ordinato prete in quel Seminario, a mettersi in viaggio verso la patria già nel

dì 18. Aprile, viaggio mal preparato, e da viaggiatori inesperti, che non sapevano in

quale stato si dovessero trovare tutti i poveri paesi di recente percorsi, ed infestati da

guerreggianti soldatesche.

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17. Riuscì bene il viaggio sino ad Innsbruck; trovò colà l’Oste e vetturale roveretano

Girolla con legno e cavalli, il quale escluso per più di 3. mesi dalla patria per motivo

della viva guerra, si consolò trovando nei due Tecini la prima occasione di vettura

verso la patria. Fu felice la salita del monte sino alla vetta del Prenner; ma era quella

la prima vettura, che dopo le battaglie vi passava. Colà, dove si credeva di pranzare,

si trovò un deserto di case aperte, disabitate e dai padroni stessi già tempo fa

spogliate, per asportare in paese sicuro le robe, le persone, ed il bestiame: la locanda

abbandonata, e qualche casa bruciata, questo era quel Prenner, luogo per altro così

comodo pei viaggiatori stanchi, e bisognosi di ristoro. Si proseguì; ma nello stomaco

di tutti e tre, ciò che prima era appetito divenne fame, ed i poveri cavalli ne

soffrivano ancora di più. Accadde che cominciando la discesa si videro venire alcuni

giovani contadini reduci dalle battaglie, e dall’armata, diretti verso le loro case della

valle dell’Enno, ma rifiniti, male in arnese, senza armi, e di mal umore pei sofferti

strapazzi. Raccontavano miserie, che dicevano doversi incontrare sino a Bolzano. =

Troppo presto, dissero al vetturino, si sono messi in viaggio questi Signori: e dopo i

combattimenti, niun viaggiatore passò ancora di qua, giacché nei primi giorni di

Aprile, erano seguite orrende battaglie, tra l’austriaco Generale Kerpen unito ai

Tirolesi, ed il General francese Ioubert presso Sterzing, fino verso Bressanone,

benché già nel giorno 18. Aprile pel trattato di Leoben avesse dovuto cessare la

guerra.

18. Fra i suddetti contadini, ritornavano dalla guerra ve n’era uno, che portava una gran

pagnotta militare di segala, sola provvisione loro rimasta; e pregato, contro

pagamento, ne staccò a favore dei Tecini e Vetturino la metà: parvero tanti confetti ai

famelici viaggiatori, e fu l’unico boccone, che poterono avere da Innsbruck fino a

Bressanone, giacché a Sterzing, pieno di malati, non si poterono fermare anche per

mancanza di ricovero, non essendo ancora ritornati i Locandieri, e buoni Possidenti

che la guerra, e l’epidemia avevano fugati. Si proseguì dunque senza smontare.

Appena fuori di Sterzing “A momenti, disse il vetturino Girolla tutto consolato,

arriveremo alla locanda d’un mio buon amico, e ci ristoreremo.” Infatti dopo breve

corsa: “Eccolo lì, esclamò il Girolla; e si vedeva a qualche distanza un uomo robusto

di mezza età, che ritto colle braccia incrocicchiate, se ne stava fermo ed immobile

sullo stradone mirando verso una alquanto vicina casa bruciata, e distrutta; era la sua

locanda. All’arrivo del Girolla subito si riconobbero, lagrimando si abbracciarono, ed

“ecco, disse l’Oste, la mia povera casa; io non ho il coraggio di avvicinarmele; vengo

170

in questo momento dai monti della Pusteria dove fuggiasco per la guerra m’era

ritirato co’ miei, che mi seguiranno.” “Ed io, disse il Girolla, con questi Signori, che

conduco, mi lusingava di trovare qui da Voi il primo ricovero, e cibo dopo

Innsbruck: ma Dio ci ajuterà, amico, armiamoci di pazienza” e data una frustata ai

cavalli proseguì.

Si trovò sino a Bressanone in continuo orrore, nella selva presso Mittewald, dove era

seguito un fiero combattimento, e dove i Tecini smontarono per curiosità, si

vedevano molti alberi scavezzi per le palle di cannone: per terra nella Selva alcuni

cavalli morti ancora insepolti: molti cenci di vestiti umani, ed un fetore tale, che

prontamente dovettero correre al calesse e fuggire.

19. In Bressanone, siccome ogni casa, così ogni locanda aveva de’ malati di febbri

nervose. Convenne però fermarsi in una supposta la migliore, in cui però ogni

pavimento di camera era lurido e nauseante, come il militare amico e nemico, sano e

malato l’aveva lasciato. Per forza colà presero i Tecini qualche cibo, e pernottarono.

Continuando poi il viaggio verso Bolzano, videro che niun ponte sull’Eisach era

ancora rimesso, ma tutti bruciati, e numerarono diciotto cavalli morti lungo la strada

ancora insepolti.

20. “A Colman, a Colman, diceva il Girolla, smonteremo e staremo bene; quell’Oste è

mio grande amico” (poveri amici del buon Girolla, erano tutti rovinati!). Ma giunti a

Colman trovarono alla porta della locanda quel Clero, ed il popolo pronto ad

accompagnare alla tomba il povero oste. Dunque avanti!

21. Vicini a Bolzano, prima d’entrare in città, da qualche persona, che pareva degna di

fede, chiesero qual locanda fosse libera dall’Epidemia? “Al griffo, fu loro detto,

possono alloggiare senza timore”. Smontarono dunque al Griffo. Ma una giovane

donzella, che li accolse e consegnò loro una bella camera, era talmente pallida, che si

conosceva convalescente, benché interrogata dicesse, che la locanda da un anno non

avea mai avuto alcun malato. Tecini, osservando un’altra serva attempata, che stava

in altra camera lavorando, la chiamò a sé, e le disse: “Ditemi, buona donna, quanto

tempo è egli, che da questa camera fu portato via quel morto?” Sono tre giorno,

rispose la donna” e Tecini le dette un po’ di mancia. Subito, pagato l’oste, fece Egli

attaccare i cavalli, e si diresse col fratello a S(an) Paolo di Eppan, paese illeso dalle

armate, e dal contagio, dove di buon cuore riposarono, e poi per la via della Mendola,

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arrivarono lieti a Sarnonico, cara patria, fra le braccia dei genitori, fratelli, sorelle, e

parenti, dove godettero il necessario riposo.

22. Portatosi poi Tecini a Trento, nel giorno di Domenica due Luglio 1797. da

Mons(igno)r Vicario Generale Zambaiti, gli fu dato il possesso dell’Arcipretura, e

Decanato di Pergine, possesso, che quel Nobile Comune, le Gastaldie, ed il Clero con

incontro di molti a cavallo, in vettura, e carrozze sino al Ciré, di due compagnie di

Bersaglieri in uniforme con salve oltre due gran file a spalliera avanti la chiesa

parrocchiale di truppa dell’i(mperial) r(egio) Reggimento Ielachich, che in Pergine

stanziava, e gran musica vocale ed in strumentale di Trentini in chiesa, resero molto

solenne. A ciò il nuovo Arciprete corrispose con numeroso invito a pranzo nella sua

canonica.

Or ecco le principali di Lui avventure nel lungo Corso

del suo impiego in Pergine.

Con lieti e felici auspicj cominciò Tecini lo spirituale governo del suo decanato, e

parrocchia composta, oltre a quel Borgo, da ventidue curazie, con più di dodici mila

anime in tutto. Già sui primi tre mesi gli riuscì d’estinguere con regolata convenzione

una focosa lite, mossa un anno prima dalle così dette sette Gastaldie contro

l’antecessore Arciprete de’ Mersi, riportandone fra l’altre cose il vantaggio per sé, e

successori di convertire in un fisso da condursi franco alla canonica il grano delle

primizie, che si soleva rascuotere di casa in casa.

23. Sentiva Egli, come tanti altri Parrochi, il peso degli acquartieramenti militari, che

durarono a lungo: ma gli era di grande sollievo, nella varietà delle invasioni, la sua

franchezza tanto nella lingua tedesca, come nella francese.

24. All’epoca del suddetto possesso si trovava sospeso il Governo principesco de’

Vescovi di Trento; vi successero i ben noti politici cambiamenti, e prese l’assoluto

dominio del Principato di Trento S. Maestà l’Imperatore Francesco col mezzo d’un

così detto Consiglio amministrativo.

25. Ebbe la sorte Tecini nel giorno 13. Ottobre 1802. d’impedire un gran male, che

poteva nascere in Pergine, tanto al militare del Sovrano come a quel popolo; mentre

essendosi accesa una rissa in casa Grillo tra un certo Sig(no)r i(mperial) r(egio)

Capitano Burke di nascita inglese del reggimento Neughebauer, il quale conduceva

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in fretta della truppa, ed il Sindaco della Comunità di Pergine D(otto)r Giovanni

Grillo. In questa rissa, il Capitano irritato da parole offensive, aveva cavata la

sciabola contro il Sindaco, il quale anche ricusava di dargli i necessarj carriaggi.

Gente di casa Grillo gridò dalle finestre, e v’accorse della gente; vi fu chi corse al

campanile per dare campane a martello contro il militare; se ne accorse a tempo

l’Arciprete Tecini, che fermò il commesso; si assicurò delle chiavi del campanile, ed

essendo accorso al luogo della rissa, che era la casa del suddetto Sindaco, trovò gran

popolo nella contrada, nel portico, e sulle scale, e pregando tutti che stessero quieti,

entrò in camera e trovò, che il Capitano s’era ferito da sé colla propria sciabola con

taglio trasversale nel volto per difendersi da chi gli voleva levar di mano la sciabola.

Riuscì al Decano di calmare gli animi, ottenne che si rimettesse nel fodero la

sciabola, restituì la quiete, ed il Capitano dal suo Chirurgo medicato, e dal Comune

servito, partì in pace.

Ebbe il Decano per questo fatto dalla Reggenza di Trento un decreto di lode dato i

diciotto del detto mese, ed anno.

26. Nell’anno 1805. la sera dei 5. Novembre l’Arciprete Tecini ebbe occasione di farsi

un gran merito presso il nuovo i(mperial) r(egio) Governo coll’impedire il già

cominciato saccheggio di un ricco magazzino militare di grani, esistente in questa

Chiesa di S(an) Carlo, donde l’insorta plebe aveva già scacciate le poche guardie

lasciatevi dal battaglione ch’erasi ritirato per l’avvicinamento de’ francesi, e non

riuscendo l’attentata frattura della porta della Chiesa v’avea messo il fuoco. La

gravità del tentato delitto, l’oscurità della notte, la furia del popolo accorso anche dai

villaggi, il pericolo di qualche massacro fra i rapitori gran parte riscaldati dal vino,

mossero l’Arciprete a tentare il difficile rimedio. Lasciati i suoi due Cooperatori alla

custodia della Canonica, Egli solo si spinse fra i sollevati, dapprincipio non ascoltato,

dippoi dai più vicini bene accolto, ma non ubbidito. Dopo lunga pazienza

all’avvicinarsegli sempre maggior numero di persone sobrie e benevole, trovò

maggiore udienza, e poté parlare. Ma il grido generale era “La notte scorsa si sono

serviti de’ Magazzini questi mostri de’ Signori, vogliamo la nostra parte anche noi”.

Si noti, che vista la partenza dell’armata austriaca, i molti viveri qui lasciati dalla

medesima, riso, spelta egiziana in tanti sacchi, e botticelli di farina, furono dai

Sig(nor)i comunisti, ch’erano 16., rincurati, e dalla piazza e portici aperti, trasferiti in

luoghi chiusi, come esiggeva la prudenza, pei pubblici bisogni al vicino caso d’ostile

173

invasione. Ma la plebe riguardò ciò come usurpazione, e vero furto, né si poté

disingannare.

Sapeva il popolo, che nella notte antecedente due Sig(nor)i comunisti avevano fatti

rotolare verso la Canonica molti botticelli (erano diciotto) di farina, ma esso sapeva

ancora, che l’Arciprete udito nel suo cortile il rumore, che lo svegliò, alzatosi, e

vestitosi in fretta era sceso nel cortile, sgridò i due Sig(nor)i comunisti, perché senza

suo permesso avevano aperto il portone, ed ordinò a’ loro uomini, che sul momento

conducessero via i botticelli, come fecero.

Per questo motivo l’Arciprete era l’unico, che con franchezza si poteva presentare al

popolo. Le case de’ Sig(nor)i erano chiuse, niuno di Loro per istrada, niuno alle

finestre: niuno del Giudizio, perché anche alla casa del Sig(no)r Giudice erano anche

stati portati due sacchi di riso.

All’arciprete sulla piazza del Mercatello si faceva intorno sempre più numerosa la

turba, e già pareva meno risoluta, e quando Egli cominciò a ragionare con tutta

brevità sui pessimi effetti, che dovrebbe produrre l’attentata violenza: promise di

portarsi ancora in quella notte dal Sig(no)r Giudice, e di ottenere il consenso per

distribuire nella seguente mattina alla porta maggiore della Chiesa parrocchiale,

premessa una S(ant)a Messa solenne all’altare del S(antis)S(i)mo Crocifisso, ad ogni

uomo uno staio di farina. “Se sentirete, diss’egli, domattina verso le ore otto il suono

di tutte le campane, venite, e sarete contenti: ora andate a dormire.” Una voce forte

però so sentì, che gridò: “No gaven sòn, no” Se non avete sonno, replicò l’Arciprete,

io non vi posso ninare.” A questa risposta si senti dalla stessa voce una forte risata. In

sì brutto frangente una risata sorprese tutti, e ne fu mirabile l’effetto. Si chetò il

rumore, e dall’intorno si sentiva dimandare “cosa è? che fu? perché si ride?” Udito il

perché si diffusero le risate; il popolo si placò, e cominciò a prevalere la voce di chi

gridava, ubbidiamo. “Dimani avremo senza pericolo la farina, andiamo a casa” ed in

pochi minuti la piazza fu sgombra, e tranquilla la notte.

27. Ottenuto ciò l’Arciprete solo, s’avviò verso l’abitazione del Sig(no)r Giudice

(D(otto)r Manfroni) ch’era in casa Facchini, e pei mentovati motivi non si poteva

presentare al popolo.

L’Arciprete cammin facendo verso la piazza di fiera, trovò un crocchio di circa 20.

giovinastri, che ancora minacciavano assai. “Amici, disse l’Arciprete, già sapete

dove io vò; vi confido, che in questa oscurità mi trovo alquanto intimorito. Vorreste

voi farmi il piacere di scortarmi?” Si, gridarono tutti, non tema nulla” e lo

174

accompagnarono nella gita, e nel ritorno. Discorrendo intanto con Loro l’Arciprete

famigliarmente, li persuase, e li placò; consolato d’avere convertiti in guardia gli

ultimi oppositori.

Ottenuto l’assenso giudiziale, fu felicemente eseguita la distribuzione delle farine

dall’Arciprete, il quale cantata la S(ant)a Messa, con breve discorso, coll’ajuto de’

suoi Sig(nor)i Cooperatori, contentò il popolo con diciotto botticelli militari di farina.

Così fu mantenuta tranquilla la gente, e salvato il resto de’ magazzini.

28. Cessò dopo quel tempo l’i(mperial) r(egio) Governo austriaco, e vi successe il regio

bavaro. Non mancò però S(ua) M(aestà) il Re Massimiliano Giuseppe di riconoscere

la benemerita azione dell’Arciprete Tecini, benché seguita sotto altro Governo: e con

suo Decreto del 1.° Maggio 1807. gli assegnò la decorazione della medaglia d’oro

del merito civile, e poi con decreto dei 30. Maggio 1809. lo nominò suo regio

consigliere ecclesiastico attuale (V(edasi) foglio di reggenza 1809. IXXI.)

29. Dall’Ottobre 1807. sino all’Ottobre 1810. chiamato l’Arciprete Tecini dal R(egio)

Bavaro Governo mediante il Conte Welsperg, Commissario generale, e dalla

R(everendissi)ma Curia ecclesiastica di Trento diretta, in assenza per deportazione a

Salisburgo di S(ua) A(ltezza) R(everendissi)ma il Vescovo Emmanuelle, da

M(onsigno)r Canonico Spaur Vicario generale, dovette servire in Trento qual

Provicario generale in tempi i più burrascosi e difficili per successive mutazioni

politiche e militari di Governi, violenze di briganti, assedio di Trento, invasioni, e

bombardamenti.

In Agosto del 1809. Tecini si trovava per breve vacanza prendendo le acidule di

Rabbi in Sarnonico sua patria; ma sentendo, che i Francesi erano rientrati in Trento,

donde s’era ritirato co’ Suoi il Generale austriaco Leinighen, chiamato

premurosamente dal Vicario g(enera)le Spaur, dovette interrompere l’incominciata

cura delle acidule, e correre a Trento.

Vi comandava nel Politico la superiorità bavara, e nel militare il francese Generale

Desmar. Spicciati gli affari più premurosi si portò poi Tecini a Valdagno per

continuare colà la cura colla bibita delle acque di Recoaro. Ma sul quarto giorno

seppe, che s’era rinnovata nel Tirolo l’insurrezione, e che tutte le Superiorità regie

bavare del Tirolo italiano s’erano rifugiate in Verona, colle quali Egli andò

prontamente a riunirsi, sino che dopo un mese circa fu a tutti riaperta la via per il

ritorno a Trento dai francesi Generali Vial, e Peiri.

175

Appena ritornati a Trento, ecco fra pochi giorni una nuova generale insurrezione, e la

città di Trento assediata, e minacciata di saccheggio da molte migliaia di Briganti, e

Tedeschi, ed Italiani. Era di soli 900. soldati italici e francesi sotto i suddetti Generali

la truppa, che formava la guarnigione di Trento. Ma questi, rispinto con derisione un

parlamentario tedesco contadino, ch’era venuto ad intimare la resa al Generale Vial,

usciti di città attaccarono presso il Convento de’ zoccolanti, e poi alle Laste i

Briganti, che avevano anche un cannone, e prima di notte tutti li misero in

precipitosa fuga sino al di là del Lavis lasciando indietro anche il cannone.

30. Dopo questi avvenimenti ripresero il tranquillo loro corso gli affari della Curia

vescovile, ma perché era stata accresciuta la diocesi di Trento colla aggiunta d’una

gran parte di quella di Coira, gl’impegni e le fatiche per Tecini erano enormi,

essendo solo ne portarne il peso, e solo nel soffrire le brigantesche odiosità, giacché

il V(icari)o G(enera)le Conte Spaur per vecchiaja, per comodità, e per totale

inesperienza della cura d’anime si limitava a leggere i dispacci de’ Superiori ed a

complimentare Chi veniva da Lui per affari, onde poi subito mandarli al Provicario,

ed aspettare il risultato per firmare.

31. 527

32. 528

527 Segue “Restituito in Giugno dell’anno 1810. dal Re di Baviera Mons(igno)r Vescovo Emmanuelle, non più principe Sovrano alla sua Diocesi, e licenziato subito M(onsigno)r

Vic(ari)o C(on)te Spaur, solo in Ottobre poté il pro Vicario Tecini ottenere il ritorno al suo decanato di Pergine. Passato il Governo del Tirolo meridionale al regno d’Italia, l’Arciprete Tecini con decreto dei 2. Febbrajo 1811. ebbe dal R(egi)o Governo di Milano la carica di r(egi)o Deleg(at)o ministeriale per il Culto ne’ tre Cantoni di Pergine, Levico, e Borgo, continuato poi anche sino alla organizzazione sotto il successivo Governo i(mperial) r(egio) austriaco” depennato. Ad integrazione del testo, su foglio a parte e con nota di richiamo a margine: “Restituito in Giugno del 1810 dal Re di Baviera Monsignor Vescovo Emanuelle non più Principe Sovrano, alla Diocesi sua, questi licenziò subito Monsignor Vicario Conte Spaur: ma il Provicario Tecini solamente in Ottobre poté ottenere il ritorno al suo Decanato di Pergine. In questo frattempo era giunta a Tecini da Monaco una gentilissima lettera dal Conte Welsperg scritta per ordine di quel primo Ministro Conte Montgelas nella quale a nome di S(ua) M(aestà) il Re veniva invitato ad accettare l’impiego di regio Bavaro Consigliere Aulico Ecclesiastico con salario annuo di f(iorini)1600 d’Impero, oltre quartiere, lumi, legna ed un servitore pagato. In quella lettera s’aggiungeva a nome del primo Ministro, che in caso d’accettazione, Tecini invece di rispondere prenda subito la posta, e si porti a Monaco. Ma Tecini compì quest’onorevole affare con un’ossequioso ringraziamento”. 528 Segue “Con diploma dei 23. Giugno 1825. fu Egli aggregato qual socio al Museo ferdinandeo d’Innsbruck, cui, inteso con quella Superiorità, in eluizione delle annate anche future di f(iorini) 10. di convenzione ciascuna ad dies vita consegnò un insigne basso rilievo

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33. Sua maestà l’Imperatore Francesco con decreto dei 24. Aprile 1827. lo nominò

Canonico onorario della Cattedrale di Trento529.

34. S(ua) M(aestà) il Regnante Imperatore Ferdinandeo gli conferì con clementiss(im)o

suo decreto dei 16. Agosto 1838. la gran Medaglia d’oro del merito civile con catena

d’oro530.

35. Con diploma dei 20. Luglio 1840. fu nominato membro della società agraria

tirolese.

36. Con diploma dei 4. Marzo 1845. fu nominato socio corrispondente dell’Accademia

scientifica di Rovereto531.

originale in pietra silicea di Alberto Dürer detto in italiano Alberto Duro, rappresentate l’Imperatore Carlo V. a cavallo, che visita i contorni d’una fortezza” depennato. Ad integrazione del testo, su foglio a parte e con nota di richiamo a margine: “Passato il Governo del Tirolo Meridionale al dominio del Regno d’Italia, Tecini fece un viaggio verso Milano partendo da Trento nel giorno 16 (Settem)bre 1810. donde fu di ritorno li 2 ottobre. Con Decreto Ministeriale del regio Governo di Milano dei 2 Febbrajo 1811. Gli fu conferita la carica di regio Delegato ministeriale per il Culto nei tre Cantoni di Pergine, Levico, e Borgo, continuato pur anche sino alla formale aggregazione sotto il successivo Governo i(mperial) r(egio) Austriaco”. 529 Ad integrazione del testo, su foglio a parte e con nota di richiamo a margine: Un’altro viaggio fece Tecini in Lombardia gentilmente obbligato dalla Signora Principessa Vidoni di Cremona nata figlia del Principe Kheverhüller, la quale perché amica del di lui fratello i(mperial) r(egio) Consigliere Salvatore Tecini venne a Pergine e fu anche in Sarnonico per vaghezza di vedere il Tirolo: e partendo costrinse l’Arciprete Tecini ad accompagnarla a S(an) Giovanni in Croce magnifica villeggiatura de Vidoni, e di la sino a Cremona, dove soggiornava il suddetto fratello. Questo viaggio ebbe la breve durata dai 7 sette(m)bre 1825 ai 20 detti”. 530 Ad integrazione del testo, su foglio a parte e con nota di richiamo a margine: “Con diploma 23. Giugno 1825. fu Egli aggregato qual Socio al Museo ferdinandeo d’Innsbruck, cui inteso con quella Superiorità, in relazione alle annate anche future di f(iorini) 10 di convenzione ciascuna ad dies vita consegnò un insigne basso rilievo originale in pietra silicea di Alberto Dürer, detto in italiano Alberto Duro rappresentante l’Imperatore Carlo V. a cavallo che visita i contorni d’una fortezza. 35. come il 33. Sua M(aestà) 36. come il 34. S(ua) M(aestà) 37. come il 35. Con Diploma 38. Come il 36. Con Diploma Poi segue [preceduto da un asterisco che rimanda ad un’integrazione scritta nella penultima pagina del manoscritto] Tra questi, finiti, segue opuscoli pubblicati colle stampe

Opere inedite 5. Sul concorso del popolo alle funzioni Parrocchiali. Lettere ai curati.”. 531 Una nota di richiamo, dopo il paragrafo 36, allude ad un’integrazione del testo, che non si trova sulla “carta volante” scritta dal Montel, ma nella penultima pagina del manoscritto: “NB. Ciò che segue appartiene alla pag(ina) 12. immediatamente avanti l’enumerazione degli Opuscoli pubblicati colle stampe. ciòè dopo il § 36.

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[preceduto da un asterisco che rimanda al foglio volante, vedi nota precedente] “Fra questi pubblici e solenni argomenti di consolazione giunse Tecini nel giorno 2. di Luglio 1847. al compimento di cinquant’anni d’impiego parrocchiale e decanale in Pergine conservando ancora per grazia del Signore la sua solita attività e buona salute. Il Pubblico perginese tanto di questo Borgo come delle Curazie per gentilissima cordialità, volle festeggiare quest’epoca nel giorno 4. del suddetto mese, perché era giorno di Domenica, e diede tanta Solennità e pompa a questo suo sfogo di benevolenza che fu Tecini il più dolce premio che in questa vita potesse ottenere o sperare. Ecco in breve le solennità eseguite: a) Già nel giorno 3. il Sig(no)r I(mperial) R(egio) Capitano del Circolo Barone di Eichendorf colla Baronessa sua Sig(nor)a Consorte giunse appositamente alla Canonica di Pergine per congratularsi con Tecini. Nella medesima sera dopo lì imbrunire la Banda musicale di questo Borgo, avvisata che nel solenne giorno comparirebbe di buon’ora, come fece, la Banda civica di Trento, con cui le toccherebbe di unirsi, volle prodursi sola e fece gran musica presso la Canonica, seguita poi nelle camere da tenue rinfresco. Intanto tuonavano da questo castello, da Madrano, e da altri luoghi grandi spari di mortai con campanò alle torri delle Chiese. b) Nella mattina dei 4. al primo albore la replica degli spari mise in moto le popolazioni perginese ed estere: il tempo era bellissimo, Pergine era pieno di gente. c) A ore 8. circa di mattina la banda di Trento, incontrata ed accolta dalla perginese, eseguì alcune strepitose sonate sotto le finestre della Canonica, e così fece verso sera. d) Cantò nella Chiesa parrocchiale la Messa solenne, Monsignor Decano del Duomo di Trento Barone Trentini colla musica vocale ed istrumentale della Cattedrale. Tecini fece dal Pergamo un breve discorso. e) A spese del pubblico nel cortile della Canonica sotto l’ombra d’un gran pergolato fu imbandita una rustica ma pulita mensa per cento poveri di sesso maschile, ben trattati, dei quali il buon contegno, e modesta allegria era tale che inteneriva. f) Dopo i Vespri dove uffiziò nuovamente M(onsigno)r Decano ripigliarono le Bande, la piazza tra la Chiesa, e la Canonica avea un tale bulicame di popolo, che la Canonica pareva inaccessibile. Il Sig(no)r Conte Matteo Thunn con molti Cavalieri, il Sig(no)r Podestà di Trento, due Sig(nor)i” Commissari circolari di Trento alcuni altri Cavalieri, Consiglieri, e Professori pure di Trento bramosi di salitare Tecini dovettero farsi largo, che pel cortile, chi per una scaletta laterale de’ S(ignor)i Cappellani. g) Intanto nella piazza vicino al Convento un’estera compagnia dava il divertimento di sforzi di Cavallerizza. Nella contrada italiana gioco di pallone. h) A ore 7. di sera nella sala delle scuole si godè un’eccellente Accademia musicale coll’intervento d’un gran numero di S(ignor)i e Dame forestieri e perginesi. i) Al ritorno da quest’Accademia si vide illuminata ogni finestra di tutte le case di Pergine; nel che si distinse casa Grandi, la casa comunale, casa Montel, e molte altre. Nella piazza tra la Chiesa e la Canonica fra una gran quantità di palloni trasparenti stavano sopra un gran palco ottanta cantori delle Curazie, cantando un inno appositamente fatto in onore del quinquagenario Pastore. j) Appena finita questa cantata (erano già passate le ore 10.) un gran fracasso di spari annuciò il cominciamento de’ fuochi artificiali alla testa della piazza di Fiera, che da capo a fondo era popolata. La macchina rappresentava in bel tempio, colla base di alcune scalinate. I fuochi a diversi colori riuscirono elegantissimi e durarono fino ad ore 11. e ½ come durò la generale illuminazione del Borgo. l) Verso mezzanotte per ogni direzione, ma principalmente verso Trento, col favore d’un tempo il più placido parevano processioni i ritorni alle rispettive case, carrozze, calessi, e pedoni. m) la cosa più mirabile, per tutti e per Tecini la più consolante in occasione di tanta pienezza di popolo, rimasto unito fino a mezzanotte fu quella, per cui tutti ringraziano Iddio, che in tutta quella giornata, e sera, non accadde il minimo disordine in Pergine; non risse, non furti, non rumori, né villanie, né grida incomposte. Signori e Signore, Cavalieri e Dame di Trento erano qui in tanto numero, che in quella sera si trattò d’omettere l’opera teatrale benché annunziata prevedendo la mancanza di concorso: e fu

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Opuscoli pubblicati colle stampe.

a. Monumentum parentale Thomae Ioannis Episcopi, et S(acri) R(omani) I(mperii)

Principis pataviensis e comitibus de Thun, et Hochenstein Viri incomparabilis

sempiterna memoria sacrum. Salisburgi 1796. Typis Fran(cisci) Xaverii Oberer.

b. Contro i pregiudizi, che ancora si oppongono alla vaccinazione. Trento 1807. Dalla

Stamperia Monauni.

c. Sui vantaggi, e sulla necessità delle Scuole elementari. 1809. Trento idem.

d. Elementi del buon Suddito cristiano. 1810. Trento idem

e. Uberto, ossia le serate d’inverno pei buoni contadini. Tomi due. Edizione 1.a

Edizione 2.a Milano tipografia Sonzogno 1823, a spese di questa.

Edizione 3.a Firenze tipografia Ricordi 1839. a spese della medesima.

Opere inedite.

1. Sullo sviluppo dell’ingegno umano. Presentata nel 1792. alla reale accademia

fiorentina delle scienze, pel diploma di Socio felicemente ottenuto in data dei 10.

Maggio, anno suddetto.

2. Sulla incertezza del preciso confine tra il Regno animale, ed il vegetabile- composta

in Firenze, aumentata, e compita in Salisburgo.

3. De sobria philosophandi ratione532.

4. Sulle popolazioni tedesche del Tirolo italiano, e dei limitrofi Stati veneti – non

pubblicata in lingua italiana, ma tradotta in Innsbruck dal S(igno)r Profess(o)r de’

Mersi, ed inserita nel Tiroler Bothe del 1822. N.34.

generale illuminazione del Borgo533.

bensì eseguita, ma col Teatro quasi vuoto. S’aggiunga che tre lettere gentilissime di congratulazione giunsero in quel giorno a Tecini cioè: 1. di Sua Altezza Reverendiss(im)a Monsignor Vescovo. 2. dell’imp(erial) reg(i)a Accademia degli Agiati di Rovereto. 3. dell’imp(erial) reg(i)a società agraria tirolese italiana”. 532 Segue “non ancor compita”: depennato. 533 La tredicesima pagina del manoscritto, si apre con questa frase, non presentando continuità con la pagina precedente, che si chiude con l’elenco numerato delle opere inedite. C’è successione numerica delle pagine ma non logica della narrazione.

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l. Verso mezza notte per ogni direzione, ma principalmente verso Trento, col favore

d’un tempo il più placido parevano processioni i ritorni alle rispettive case, carrozze,

calessi, e diplomi.

m. La cosa più mirabile per tutti, e per Tecini la più consolante in occasione di tanta

pienezza di popolo, rimasto unito sino a mezza notte fu quella, per cui tutti ringraziano

Iddio, che in tutta quella giornata, e sera non accadde il minimo disordine in Pergine;

non risse, non furti, non rumori, né villanie, né grida incomposte.

Signori e Signore, Cavalieri e Dame di Trento erano qui in tanto numero, che in quella

sera si trattò d’omettere l’opera teatrale benché annunziata prevedendo la mancanza di

concorso: e fu bensì eseguita, ma col Teatro quasi vuoto.

S’aggiunga che 3. lettere gentiliss(im)e di congratulazioni giunsero in quel giorno a

Tecini cioè 1°. di S(ua) A(ltezza) R(eale) M(onsigno)r Vescovo Principe. 2°.

dell’i(mperial) r(egia) Accademia di Rovereto 3°. dell’i(mperial) r(egia) società agraria

tirolese italiana.

Opuscoli pubblicati colle stampe

A. Monumentum parentale Thomae Ioannis Episcopi, et S. R. I. Principis pataviensis

ex comitibus de Thunn, et Hochenstein Viri incomparabilis sempiterna memoria

sacrum. Salisburgi 1796. Typis Fran(cisci): Xaverii Oberer.

B. Contro i pregiudizi, che ancora si oppongono alla vaccinazione. Trento 1807. Dalla

stamperia Monauni.

C. Sui vantaggi, e sulla necessità delle scuole elementari. 1809. Trento idem.

D. Elementi del buon suddito cristiano. 1810. Trento idem.

E. Uberto, ossia le serate d’inverno pei buoni contadini. Tomi due. Edizione I.a Trento

tipografia Battisti, e Monauni 1817-18.

Edizione II.a Milano tipografia Sonzogno 1823. a spese di quella.

Edizione III.a Firenze tipografia Ricordi 1839. a spese della medesima.

Opere inedite.

1. Sullo sviluppo dell’ingegno umano. Presentata nel 1792. alla reale accademia

fiorentina delle scienze, pel diploma di Socio felicemente ottenuto in data dei 10.

Maggio anno suddetto.

180

2. Sulla incertezza del preciso confine tra il Regno animale, ed il vegetabile- composta

in Firenze, aumentata, e compita in Salisburgo.

3. De sobria philosophandi ratione.

4. Sulle popolazioni tedesche del Tirolo italiano, e dei limitrofi Stati veneti – non

pubblicata in lingua italiana, ma tradotta in Innsbruck dal S(igno)r Professore de’

Mersi, ed inserita nel Tiroler Bothe del 1822. N.34.

5. Sul concorso del Popolo alle funzioni parrocchiali. Lettere ai Curati.

che gli venne voglia di comporre l’opuscolo ancora inedito di cui qui sotto si farà

menzione al n(ume)ro 2. pag(ina) 12534.

8. Fatta conoscenza coi primarj letterati di Firenze e di Pisa, a da tutti ben accolto, anzi

invitato e presentato alle conversazioni di parecchie distinte famiglie, passò Egli dieci

mesi circa in Toscana, e quasi sempre in Firenze, trattane una scorsa, che’ fece in

Marzo a Pisa, Livorno, Lucca, Pescia, Pistoja, Prato e Fiesole.

Prima di partire dalla Toscana fu decorato colla patente di socio di quella celebre reale

Accademia scientifica dopo averle presentato il suo opuscolo, di cui qui sotto si

parlerà, letto in alcune Sessioni. Vedasi qui sotto n(ume)ro 1. pag(ina) 13.

9. Ritornato nel mese di Giugno alla patria, per desiderio manifestatogli per lettera da

S(ua) A(ltezza) R(everendissi) ma l’Arcivescovo, si fermò due settimane in Rovereto

presso il sopra’ nominato Sig(no)r Conte Alberti, che l’Arcivescovo aveva prevenuto

con lettera, onde’ riformare la sua scrittura’, nel che’ (cosa ridicola) dopo che Egli era

già fatto Socio della reale Accademia fiorentina, dovette impegnarsi nell’imparare l’a, b,

c & caligrafico, sotto la direzione del buon Abate Paris. Tecini in breve tempo aveva

fatta una scrittura da scolare: ma giunto poi al suo Posto, subito s’avvezzò

l’Arcivescovo ai di lui bensì leggibili, ma più correnti caratteri, e col tempo anche

alquanto per la fretta strapazzati.

Gli fu gratissima questa fermata in Rovereto: e tanto per la cordialità e gentilezza a

che trovò in casa del Sig(no)r Conte Alberti, come per la coltura, dottrina, e

pulitissime maniere di que’ Signori, primo de’ quali era Vannetti, oltre Carlo de’

Rosmini, Baron Tedeschi, la Sig(nor)a de’ Telani, ed altri, gli pareva ancora di trovarsi

534 Alla pagina 13 ne segue una numerata come terza, che per semplicità la si può definire una “terza bis”: infatti, riporta in maniera quasi letterale, salvo qualche modifica, il contenuto della terza pagina. Per questo anche questa non presenta una consequenzialità logica con la carta precedente. Segue poi la pagina “quarta bis” , praticamente identica alla quarta.

181

in una contrada di Firenze. Rovereto, compreso allora anche il vicino Sacco, dove

fioriva la ricca casa dell’insigne Sig(no)r Giuseppe Maria de’ Fedrigotti, oltre al

chiarissimo litterato Clemente Baroni, ed il piacevolissimo Felice Baroni, Rovereto,

dico, era ed è ancora la prima città, dove il colto viaggiatore, venendo dal Settentrione,

sente ancora più che in Trento il dolce dell’aura italiana, e della fina, cordiale

sociabilità.

10. Dopo avere visitata in Sarnonico la sua cara famiglia, e parentela, in Luglio del

1792. passò Tecini a Salisburgo, dove graziosamente accolto, gli fu consegnato

l’archivio segreto di Conte italiano, e latino disordinato, e polveroso pascolo fino

allora delle tignuole, non mai toccato da alcuno, perché in quella Corte, non vi fu mai

un Secretario italiano, ma ricco di preziosi antichi originali documenti.

11. In Aprile del 1795. venne Tecini a Sarnonico a visitare i Suoi; da là passò a Trento,

dove si fermò nove giorni, cinque dei quali fu onorato da S(ua) A(ltezza)

R(everendissi)ma Vescovo e Principe Pietro Vigilio con inviti a pranzo nel suo

Castello.

Reduce a Salisburgo sul finire d’Agosto fu spedito dall’Arcivescovo per Monaco

fino ad Augusta per suoi affari, dove ebbe la soddisfazione di vedere le solite grandi

Feste annuali della città d’Augusta per la pace religiosa, con bersaglio si balestre in

vicinanza della città con pomposo intervento di quell’allora Sovrano Magistrato in

pompa antica con solenne corteggio535.

Dopo ché Tecini ritornò da quel viaggio, Salisburgo per ungo tempo non ebbe più

quiete, come non la ebbe tutta la Germania avendo ripigliato il furore della guerra

colla Francia, e con tanta rapidità. Che l’armata di Jourdan aveva già occupata la

Baviera, toccava il fiume Enno, e minacciava il territorio Salisburghese. Dovette

l’Arcivescovo Sovrano prontamente pensare al salvamento proprio, delle casse,

delle preziosità, degli archivj &&. Restò Egli, malgrado l’imminente pericolo,

intrepido nella sua Corte, ma spedì via per la strada che porta verso Gratz gran

quantità di carrette cariche, con ottanta persone de’ Suoi Cortigiani, fra quali era

Tecini, oltre la gente di servigio. Cocchieri, e carrettieri coll’ordine a tutti di

fermarsi, come fecero per più d’un mese, nella piccola città di Radstadt. Era tutto

all’ordine per la pronta fuga anche dell’Arcivescovo, ma solo nel caso di vera

535 In margine nota autografa di Tecini che rimanda ad un’integrazione presente sul foglio volante, la stessa a cui allude nella pagina quarta.

182

necessità. Ma intanto l’armata francese fu obbligata dall’Arciduca Carlo ad una

lunga ritirata: ed il convoglio entero da Radstadt ritornò giulivo alla Corte di

Salisburgo.

12. Non dispiaceva a Tecini il soggiorno di Salisburgo, benché chi visse in Italia non

debba pretendere la società sul gusto italiano in Germania, dove l’alta Nobiltà

conversa separatamente, e le famiglie civili quanto agli uomini fanno troppo conto

delle locande, alle quali Tecini non potè, e non volle mai avvezzarsi.

13. Era splendida la Corte di Salisburgo, e Tecini vi godeva tutti gli agi. L’Arcivescovo

gli voleva bene; anzi nel 1794. lo nominò suo Consigliere ecclesiastico. Ma non gli

era soffribile la rigidezza di quel clima pericoloso nell’Estate per le rapide mutazioni

che nel Verno, benché il freddo vi giunga qualche volta al grado 18. di R(eaumu)r.

D’altronde lo turbavano le voci ben presto poi verificate di secolarizzazione degli

Stati ecclesiastici, motivi che lo mossero sul principio dell’anno 1797. a bramare la

sua dimissione. La chiese; ma l’Arcivescovo gli esibì un notabile aumento di salario,

ed un migliore appartamento se voleva restare. Tecini però, dopo avere anche

superata una gravissima febbre nervosa, fu costante nella sua risoluzione, ed ottenne

la bramata dimissione, ma con patto di procurare Chi lo rimpiazzasse presso il

Eccelsissimo Padrone; e gli procurò il coltissimo Abate Tacchi roveretano, che prima

era stato Ajo del Principe Lichtenstein.

183

Doc. n. 2

BIOGRAFIA DI MONSIGNORE FRANCESCO TECINI PARROCO E DECANO DI

PERGINE CANONICO ONORARIO DELLA CATTEDRALE DI TRENTO

ESAMINATORE PROSINODALE, DECORATO DELLA MEDAGLIA536 DEL

MERITO CON CATENA D’AUSTRIA E BAVIERA E SOCIO DI VARIE

ACCADEMIE.

Di Mons. Strosio

(AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965)

L’uomo, che in sua carriera mortale volle e seppe a vantaggio del suo simile e

dell’intera società valersi dei doni, che Iddio gli largì, se merita ancor vivo le

benedizioni di coloro che si videro per Lui sollevati, soccorsi, sorretti, e l’ammirazione

di tutti in generale i coetanei, egli è tanto più degno,537 che dopo la sua dipartita

vengano le sue verità messe in luce, i suoi esempli proposti ad imitare, rese manifeste le

sue azioni imperiture ed ovunque conosciuti e lodati538 i vantaggiosi539 suoi studi e le

sudate fatiche.

Appoggiato dunque alla verità di tale asserto confortato dalle sentenze non solo degli

antichi ma ancora de’ moderni540 letterati e filosofi, io entro senza più a parlarvi d’un

uomo, la cui vita fu tutta consacrata a quei fini sublimi ai quali era chiamato e come

cittadino e come Sacerdote e come Scrittore; e tanto più volentieri perché egli mi onorò

del titolo di amico, mi mise a parte delle sue gioje e de suoi affanni, ed inoltre perché io

parlo a voi che lo conosceste, i541 quali supplirete e compatirete se il mio dire non sarà

adeguato al merito di un tale personaggio.

Io intendo, Signori, intesservi la vita d’un nostro Accademico di Monsignore Francesco

Tecini.

Io vi dipingerò l’uomo negli svariati stadj di sua vita, e son certo che le mie parole

faranno cangiare d’opinione coloro che non avendolo542 conosciuto da + vicino, o

approfondite le circostanze de’ tempi, in cui visse, si lasciarono facilmente prevenire

dall’apparenza, o forviare dallo spirito di parte.

536 Segue “della medaglia”: depennato. 537 Segue “de”: depennato. 538 Segue “le”: depennato. 539 Sul manoscritto “vantaggliosi” corretto dall’autore che depennò la lettera “l”. 540 Segue “cauti scrittori”: depennato. 541 Sul manoscritto “il”, corretto dall’autore. 542 Sul manoscritto “avvendolo”, corretto dall’autore.

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Lo scopo, Signori, di questo mio discorso non è altro che di versare sulla tomba di Lui

una lacrima di tenerezza e gratitudine, a spargervi un fiore che ognora la memoria ne

tenga viva nel vostro e nel mio cuore.

Io mi terrò in esso alla traccia di quell’autobiografia che egli dettava in vita, anzi

qualche volta non farò che riportare le stesse parole, rimpolpando dacché solamente

accennò ed aggiungendo quanto egli o per modestia sottacque e d’altronde venne a mia

cognizione, il tutto però comprovando e corroborando di quelle ragioni543 ed

osservazioni che all’uopo mi saranno utili e necessarie.

Annetterò infine un’espo<si>zione544 confermata anche dai giudizi altrui, delle di Lui

opere edite ed inedite,545 fra le quali il solo Uberto o Le Serate d’inverno basterebbe a

rendere immortale la fama di chiunque,546 laonde nel corso della narrazione io non farò,

che accennarle secondo la stessa547 lo richiederà.

Nasceva il nostro Tecini ai 19 Febbrajo 1763 in Sarnonico piccolo paesello548 posto alla

destra della Novella nella pittoresca valle di Non, il cui parroco nel medio evo era in

dignità il primo di tutta la Naunia.

Il padre suo Francesco dottore in medicina, e la Madre Caterina Stefenelli fino dalla

prima infanzia andavano a gara nell’istillare in Lui e ne’ suoi molti e degnissimi fratelli,

tutte quelle massime e quei principj santissimi di soda virtù, che formano poi il vero

cristiano, il cittadino utile, il suddito fedele e che radicati nel cuore e succhiati col latte

non si abbandonano che colla vita. E549 corrispondeva il fanciulletto alle loro tenere

cure550, sicché eglino551 s’avvedevano sin d’allora colla gioja nel core a qual alta meta ei

sarebbe riuscito.

questi provvidi genitori ben s’addiedero che in un paese, qual è il nostro, di confine

colla Germania la lingua tedesca era più che un ornamento una necessità, condizione

che giunse invariata insino a noi, e lo mandavano alle’età circa di dieci anni a San

Michele d’Eppan perché ivi non solo l’apprendesse per intenderla e trarne quindi

profitto a sua coltura, ma anche per discorrerla con quell’accento e quella pronunzia che

543 Segue “che”: depennato. 544 Segue “corroborata”: depennato. 545 Segue “accennandole delle”: depennato. 546 Segue “perciò”: depennato. 547 Segue “narrazione”: depennato. 548 Segue “di Sarnonico”: depennato. 549 Segue “ben”: depennato. 550 Segue “de’ suoi genitori”: depennato. 551 Segue “ben”: depennato.

185

solo da552 fanciulli puossi apprendere e n’ottenne l’intento poi che meglio non avrebbe

potuto parlarla uno nato ed educato in Alemagna. E di quanta utilità ciò gli sia riuscito

potrasse ravvisare nel corso della narrazione.

Ritornato alla casa paterna fu avviato agli studj. Appresi dal Curato di Cavreno D(on)

Pietro de Ghezzi o primi rudimenti della lingua latina, dimostrando sin d’allora colla

mitezza de’ suoi costumi, col suo fare calmo e grave la proclività al Sacerdozio, nel

1777 entrò nel Seminario di Trento, poiché in que’ tempi si ricevevano anche giovanetti

che frequentavano il ginnasio.

Fu egli ammesso alla quarta grammaticale e primeggiando in tutti i corsi compì la

carriera degli studj. Affabile con tutti i suoi condiscepoli, ma affezionato ed amico de’

buoni incuteva rispetto a tanti. Fornito di soda pietà prendeva parte agli onesti solazzi

de’ suoi compagni, anzi gli promuoveva per distoglierli da que’ pericoli, e dagli schifosi

vizj, dai quali chi troppo facilmente vi lascia la studiosa gioventù sobbarcare. Compiti

gli studj con si grande onore e merito conciliossi l’amore e la stima de’ suoi Superiori

per modo, che fu scelto insieme a Giuseppe de’ Carrera a difendere, com’era costume

con magnifico apparato e alla presenza di numeroso e dotto consesso, nel teatro del

Liceo le tesi de universa philosophia, ciò che egli sostenne con universale applauso

essendone professore Francesco Saverio da Fondo. Assolto quindi anche lo studio ed

ordinato Sacerdote nell’anno 1786 gli toccò difendere le tesi di universa teologia

morale. Vi assisteva Sua Altezza Pietro Vigilio Principe e Vescovo di Trento, il quale

conosciuta la di Lui scienza, perspicacia, ortodossia lo nominò unico pubblico ripetitore

di Logica e Metafisica in quel Liceo, cattedra che egli occupò per cinque anni nei quali

oltre aversi acquistata la stima e l’amore de suoi alunni, che godevano al suo porgere

chiaro e pacato, e alla mitezza del suo contegno, si concilio la benevolenza di molti dotti

e nobili Signori della città e fuori. In questo tempo si deve certo conghietturare aver egli

concepito il disegno, gettato i fondamenti attinto le cognizioni e preparato i materiali

alle sue due opere di Filosofia ancora inedite la prima Sullo sviluppo dell’ingegno

umano della quale ritorneremo a far cenno in altra occasione, e l’altra scritta in Latino,

secondo il costume d’allora, De sobria philosophandi ratione.

In mezzo a tali occupazioni mai dimenticò la sua famiglia, anzi tanto ne ebbe a cuore il

benessere, che recatosi a Vienna nel 1788 fece valere i suoi diritti di parentela allo

Stipendio fondato dal Cardinale Trojer in favore del fratello Salvatore.553

552 Segue “quelli”: depennato. 553 Segue “N”: depennato.

186

Tali e tanti meriti uniti ad un contegno di vita degno di ogni encomio, non potevano

rimanere a lungo celati, e nel Luglio 1791 per proposta del Conte Francesco degli

Alberti di Poja e del Conte Carlo de Martini di Calliano entrò al Servigio di Sua

Alt(ezza) Rever(endissima) l’Arcivescovo principe di Salisburgo Colloredo in qualità di

Segretario per la corrispondenza italiana e latina e di Cappellano aulico.

Con questo carattere l’Arcivescovo, così lasciò scritto egli stesso, prima di chiamarlo

alla sua corte volle che si portasse a proprie spese a Firenze per alcuni mesi a fine554 di

procurargli quell’aumento di coltura, che promette quella città ristoratrice delle scienze,

del buon gusto e della lingua nazionale.

Accettò il Tecini con giubilo tale notizia, come era naturale in uomo giovine amante

dello studio, di cui quella città era la culla e per quale era salita a così alta fama, animato

anche dalla franchigia d’ogni spesa e dal decoroso collocamento, che poi alla corte di

Salisburgo l’aspettava. Partì egli da Trento nell’agosto del 1791 ma prima di recarsi a

Firenze fece555 sosta qualche giorni presso il suo Mecenate Conte Alberti e questo

stesso palazzo lo accolse, ove conobbe e strinse amicizia coll’immortale Cavaliere

Clementino Vannetti, nome a noi tanto caro. È bello invero il parlare di uomini che

avvicinarono e godettero, perché ne furono stimati degni, della conversazione ed

amicizia di un personaggio che noi vantiamo per fondatore e lustro primario di questa

Accademia, ed ammiriamo pe’ suoi talenti singolari e le sue squisite doti, onde vive la

memoria d’una fama non peritura presso tutti coloro che amano di vero amore le lettere

e le scienze.

Munito il nostro Tecini di preziose commendatizie del Vannetti e dello stesso

Arcivescovo giunse a Firenze dove il forestiere favorevolmente conosciuto, e non

poteva essere altrimenti pel nostro viaggiatore, viene ricolmato di gentilezze.

In questo mezzo tempo era scoppiata, dopo in mezzo secolo e più di preparazione, la

terribile rivoluzione francese, la quale e pei suoi principii e per le556 assurdità da Lei

proclamate e per le sue mire, e per lo spavento, onde popoli e Re erano compresi,

imponeva silenzio ad ogni questione politica o teologica, e solo pensavasi daprima a

difendersi e quindi a557 troncare le incantevoli teste di quell’idea infernale, che cibata e

lorda di sangue umano, chinava la fronte alla personificata magia.558

554 Sul manoscritto “affine” corretto dall’autore. 555 Segue “st”: depennato. 556 Segue “sue”: depennato. 557 Segue “tagliare”: depennato. 558 Segue “Il”: depennato

187

Quindi anche il partito de Giansenisti di Toscana, col559 suo celebre concilio di Pistoja,

e quello di Germania col suo rinomato conciliabolo d’Ems, era in uno stato

d’abbattimento e di costernazione, poiché per aggiunta L’Arcid(uca) Leopoldo, il quale

mentre era granduca di Toscana lo aveva protetto e favorito, salito al trono imperiale più

non se ne prese pensiero. I detti due congressi caddero in dimenticanza, il Vesccovo de

Ricci di Pistoja fuggito dalla sua diocesi videsi costretto vivere qual privato in Firenze.

Ma al sentire l’arrivo560 d’un Secretario dell’Arciv(escovo) di Salisburgo primario

autore del conciliabolo d’Ems, mentre d’altronde il Papa era distratto da affari di

maggior rilievo respirò e sollevossi un poco da quello stato umiliante di generale

disprezzo in cui era piombato, supponendolo un genio tutelare mandato alla riscossa ma

gli illusi non sapevano, che egli era un giovane prete trentino venuto unicamente per

coltivarvi, per nulla diretto dal Principe alla loro Società, della quale non gli avea fatto

neppur menzione, e d’altronde per propria indole alieno da ogni spirito di partito.

Vedendosi poi il Monsignore deluso in quanto che Tecini non solo non cercava la sua

conoscenza, ma neppure avea fatto di Lui alcuna richiesta, divisò di avvicinarlo egli

stesso tantopiù che erano riuscite evasivamente alcune domande a561 lui dirette per

mezzo di altra persona, quindi si preparò nella Biblioteca Magliabecchiana seduto con

un libro in mano vicino allo scrittojo dove Tecini era solito starsene per alcune ore

studiando, e qui gli parlò a lungo gentilmente, non fidandosi però toccare il punto

principale del562 suo563 affare, solo gli fece intendere che pensava564 intraprendere un

viaggio in Germania, ma avrebbe voluto sapere quale accoglienza potesse aspettarsi.

Tecini, cui il Vescovo supponeva venuto da Salisburgo, rispose tenendosi alle generali

che di nulla poteva assicurarlo in tale riguardo, poiché non conosceva ancora il principe

Arcivescovo al quale serviva. E per tal modo finì tale bisogno che avrebbe potuto anche

colla sola apparenza, mentre sulla verità era impossibile ogni dubbio, adombrare la pietà

e la giustezza delle massime di quest’uomo integerrimo.

Ne’ dieci mesi che egli passò in Firenze, trattane una breve gita in Marzo, che intraprese

per visitare le principali città della Toscana, godette dell’amicizia de’ principali dotti e

letterati di quella famosa metropoli e della vicina Pisa. Egli era ammesso ed invitato

alle conversazioni di parecchie distinte ed illustri famiglie. Sopra tutto poi per la sua

559 Segue “loro”: depennato. 560 Segue “in Firenze”: depennato. 561 Sul manoscritto “al” corretto dall’autore. 562 Sul manoscritto “della” corretto dall’autore 563 Sul manoscritto “sua” corretto dall’autore. Segue “bisogna”: depennato. 564 Segue “fare”: depennato.

188

coltura e pe’ suoi studj giovogli la parentela e l’affezione del Celeberrimo Cavaliere

Felice Fontana suo primo cugino. Al nome di sì grande personaggio565 la cui effigie

spicca fra coloro che questa Accademia e patria illustrarono, compreso di venerazione

me sento costretto a tributargli interprete di voi tutti, o valorosi Accademici e gentili

Roveretani, un parola di omaggio e di giusta lode, che desti nei nepoti degeneri la

memoria di lui e susciti ne’ loro cuori il desiderio d’immortalarlo. Al fianco suo il

nostro Tecini frequentava il rinomato gabinetto fisico di storia naturale da lui per sua

Altezza imperiale il Granduca raccolto e sistemato del quale non esisteva in Europa e

tanto meno altrove, l’eguale, ed al quale accorrevano per erudirsi i primarii scienziati di

ogni nazione.

Da Lui scortato ed istrutto non poteva ameno il Tecini di trovare divertimento e profitto,

anzi invaghito del bellissimo studio della natura entro quelle sale si fu che egli

s’invogliò di comporre l’opuscolo sull’incertezza del preciso confine tra il regno

animale e vegetabile che aumentato e566 riveduto poi in Salisburgo trovasi fra le sue

opere inedite.

Questo567 lavoro unitamente a quanto sopra menzionato “Sullo sviluppo dell’ingegno

umano, letti in alcune sessioni della reale Accademia scientifica di Firenze gli ottenne

l’onorevole patente di Socio della medesima.

L’Arcivescovo intanto pel volgere de’ burrascosi tempi sentendo il bisogno di avere al

suo fianco tutte le persone che gli appartenevano e specialmente quelle dalle quali

poteva568 sperare consigli, fece noto al suo nuovo Secretario il desiderio che venisse a

lui, quindi nel Giugno 1792 il nostro Tecini abbandonò la culla di Dante e Macchiavelli

e si diresse alla patria.

Il Conte Alberti sempre affezionato a lui prevenuto con lettera dello stesso Arcivescovo

il fece sostare per due settimane in Rovereto, e per godere della sua compagnia e perché

riformasse la sua scrittura. Egli è cosa ridicola (sono le sue parole) che un Socio della r.

Accademia fiorentina dovette occuparsi ad imparare l’Abici calligrafico sotto la

direzione del buon abate Paris. Crederei di mancare al dovere di amico se io qui non

riportassi a parole ciocché egli lascio scritto nell’autobiografia intorno al suo soggiorno

in questa città, così ei dice: Gli fu gratissima tal fermata in Rovereto e tanto per la

565 Segue “avendo egli per nostro vanto appartenuto alla Rover(etana) Accademia la cui effigie spicca, e questa città potendolo annoverare nel numero de’ suoi figli non degeneri figli”: depennato. 566 Segue “ripulito”: depennato. 567 Segue “opuscolo elaborato”: depennato. 568 Segue “avere”: depennato.

189

cordialità e gentilezza che trovò presso il detto Conte Alberti, come per la coltura e

dottrina, e per le pulitissime maniere di que’ Signori primo de’ quali era Vannetti, oltre

Carlo de Rosmini, Baron Todeschi, la Sig(no)ra Telani ed altri, gli pareva ancora di

trovarsi in una contrada di Firenze. Rovereto compreso allora anche il vicino Sacco,

dove fioriva la ricca casa dell’insigne Sig(no)re Giuseppe Maria de Fedrigotti, oltre al

Chiarissimo letterati Clemente Baroni il piacevolissimo Felice Baroni, Rovereto dico

era ed è569 anche al presente la prima città dove il colto viaggiatore, scendendo dal

Settentrione, sente ancora più che in Trento il dolce dell’aura italiana e della fina e

cordiale socialità.

Non tralascierò di narrarvi ciò che udii dalla sua stessa bocca, cosa invero in se piccola,

ma che serve a mettere in maggio luce l’indole del nostro Vannetti e il suo amore per lo

studio, e che potrà, che il Ciel lo voglia, scuotere l’indolenza di certi giovani, che per

nulla reputano quella buona stima che non perisce mai e che nascendo dalla virtù e dalla

scienza abbellisce e decora la ricchezza e la nobiltà della prosapia. Il nostro Tecini avea

fatto provvista in Firenze di molti nuovi libri, che recava seco a suo studio in una cassa

rinchiusa, coll’intenzione di non aprirla che al570 luogo di destinazione, ma gli fu

impossibile di non aderire alle calde istanze dell’amico Vannetti, che mostrava sommo

desiderio di vederli e leggervi qualche cosa per mettersi al livello dei fatti progressi e

conoscere le recenti scoperte, giacché in allora il commercio librario non avea raggiunto

la presente estensione.

Sarebbe stato in vero dilettevole e consolante il vedere questo sommo letterato

ginocchioni sopra la cassa levare i diversi libri, squadernali e quando gliene capitava

qualcuno che più gli dava nel genio, leggerlo, divorarlo per modo da starsene senza

accorgersene in quella incomoda posizione anche più di due ore.

Come è potente la brama di apprendere in un uomo che conosce quanto poco sa e

quanto gli resta ancora ad imparare.

Il nostro Tecini preso commiato dal suo Mecenate e da suoi amici, visitata quindi la sua

famiglia ed i parenti in Sarnonico, nel Luglio 1792 giunse a Salisburgo, dove

graziosamente accolto, e parlato alungo intorno a diverse cose collo stesso Arcivescovo

gli fu consegnato l’archivio segreto di corte italiano e latino, tutto in disordine e

polveroso, pascolo fino allora delle tignole, non mai tocco da alcuno, poiché non si

pensò mai a nominare chi ne prendesse cura. Con quell’amore allo studio ed all’ordine

569 Segue “ancora”: depennato. 570 Segue “suo”: depennato.

190

in lui innato e dalla educazione corroborato s’accinse a ripulirlo, a sistemarlo ne si

lasciò pace o riposo finché non ebbe compito quel disameno lavoro. Ma571 ne

ricevette572 compenso in quanto che lo trovò ricco di preziosi antichi documenti

originali.

Tanto col suo carattere assennato e co’ suoi consigli conciliossi la confidenza

dell’Arcivescovo che questi nel 1794 lo spedì a trattare i proprii affari in Baviera, dove

assistette alle solite grandi feste annuali della città di Augusta per la pace di Religione.

Avendosi egli distinto in tale negoziazione il Principe in ricompensa de’ prestati servigji

lo nominò l’anno stesso suo consigliere ecclesiastico.

Nell’Aprile 1795 desideroso di rivedere i parenti e la patria venne a Sarnonico e visitata

la famiglia e salutati gli amici recossi a Trento dove fermossi 9 giorni, ed ebbe prove

incontestabili della stima, in cui lo teneva l’in allora Principe Vescovo Pietro Vigilio,

poiché lo volle per ben cinque volte alla sua mensa.

Ritornato quindi ad occupare il suo posto, il furore della guerra francese era divampato

per tutta la Germania occidentale con tale una rapidità, che l’armata di Jourdan avea gia

occupato la Baviera, toccava il fiume Enno e minacciava la stessa città di Salisburgo.

L’Arcivescovo fu costretto pensare alla salvezza propria, degli Archivj e delle cose

preziose, onde spedì quest’ultime573 nella fortezza di Radstadt, ove portossi anche il

nostro Tecini, ma egli rimase intrepido contro l’imminente pericolo, pronto ma solo

nella più stretta necessità, ad abbandonare la sua sede; non giunse però tale estremo,

poiché l’armata francese fu obbligata dall’arciduca Carlo a ritirarsi, ed il convoglio di

Radstadt dopo un mese ritornò giulivo alla corte. 574

Il nostro Tecini era legato in amicizia cogli uomini più illustri o per natali o per cariche

o per scienza fra i quali potevasi annoverare Tommaso Giovanni dei Conti di Thun e

Hochenstein cui era unito inoltre per vincolo di patria il quale venne nominato Vescovo

di Passavia nel Novembre 1795.

Ma dopo 11 mesi il Vescovo Tommaso moriva compianto da tutti e gli amici suoi di

Salisburgo tributarono omaggio alla memoria di Lui incaricando il nostro Tecini di

pronunziare un’orazione funebre, la quale venne nello stesso anno stampata col titolo:

Monumentum parentale Tomae Yoannis Episcopi et S. R. I. principis pataviensis ciri

571 Segue “in tale operazione”: depennato. 572 Segue “un”: depennato. 573 Segue “cose”: depennate. 574 Segue “Egli” : depennato.

191

incomparabilis sempiterna memoriae sacrum auctore Francisco Tecino.575 Da essa

chiaro apparisce quanto bene gli s’addiceva il posto di Segretario per la corrispondenza

latina.

Non dispiaceva a Tecini il soggiorno di Salisburgo, benché chi visse in Italia non debba

pretendere la società sul gusto italiano in Germania dove (sono parole sue) l’alta

Nobiltà conversa separatamente, e le famiglie borghesi, quanto agli uomini, fanno

troppo conto delle Locande, alle quali egli non poté ne volle mai avvezzarsi.

Godendo576 di tutti gli agj d’una splendida corte, amato e careggiato da quanto il

conoscevano ed in modo speciale dall’Arcivescovo si avrebbe potuto prevedere, che

giamma fosse per abbandonare il suo posto, ma non gli era soffribile la rigidezza del

clima più pericoloso nella state per le rapide mutazioni che nel verno benché il freddo vi

giunga talvolta a 18 gradi di Reamour. Lo turbavano inoltre le voci, ben presto poi

verificate, di secolarizzazione degli stati ecclesiastici, onde egli fu mosso in sul

principio del 1797 a bramare la sua dimissione. La chiese ma l’arcivescovo gli esibì un

notabile aumento di onorario ed un migliore appartamento, Tecini però, dopo avere

superato una gravissima febbre nervosa, fu costante nella sua risoluzione, sicché

l577’Arcivescovo dové soddisfare al578 desiderio di Lui ma con patto di procurargli un

conveniente e atto successore, ciò che anche mantenne avendo accettato il suo posto il

coltissimo Abate Tacchi roveretano, ajo in prima del principe Lichtenstein.

A dimostrare la splendidezza di quella corte, e579 quanto fosse tenuta in conto anche in

quella città la poesia italiana,580 come la più adatta alla musica, dirò come fu il nostro

Tecini incaricato di comporre una cantata, sulle orme di quelle di Metastasio per

celebrare la nascita del figlio primogenito di S(ua) Eccel(lenza) il conte Francesco di

Lodron Maresciallo di Corte. Questa intitolata il Sagrifizio di amore fu posta in musica

dal Maestro Gabbi e prodotta alla presenza dell’Arcivescovo581, di S(ua) E(ccellenza) il

Maresciallo Conte Strassoldo e di tutta la nobiltà. Copia di questo suo poetico lavoro

trovasi fra suoi autografi il quale spirando il gusto del poeta Cesareo da a vedere, che se

a tal genere di letteratura si fosse applicato avrebbe potuto582 salire a qualche fama.

575 Segue “Essendo essa dettata in latino ben si vede quanto”: depennato. 576 Segue “degli”: depennato. 577 Sul manoscritto “il” corretto dall’autore. 578 Sul manoscritto “alla” corretto dall’autore. 579 Segue “come”: depennato. 580 Segue “come”: depennato. 581 Sul manoscritto “Arcivesccovo” corretto dall’autore. 582 Segue “conseguire”: depennato.

192

Non si creda per altro che il Tecini abbandonasse il suo posto per darsi ad una vita

comoda, che anzi compreso dell’alto dovere di un sacro ministro avea chiesto da S(ua)

A(ltezza) il Vescovo Principe di Trento il quale fuggito dalla sua sede a casione

dell’invasione francese, trovavasi esule presso suo fratello Canonico in Passavia, avea

chiesto, dico, un collocamento in cura d’anime, che anche ottenne583 essendo stato

nominato Paroco e Decano del grossi Borgo di Pergine.

Già in Gennaio credeva potersi avviare verso la patria e tutto giulivo se ne stava sulle

mosse, quando giunse la notizia che l’armata francese erasi diffusa pel Tirolo fino a

Sterzing, ed inoltre che un’epidemia solita conseguenza delle guerre in que’ tempi che

le truppe e gli spedali non si tenevano colla polizia e colle cautele che s’introdussero di

poi, infestava il paese, onde gli fu gioco forza sostare fino all’Aprile. Ma appena vi si

seppe che partito di Trento l’esercito della Repubblica584 vi era entrato il 10 Aprile il

generale Conte Neiperg cogli Austriaci, una giovanile frettolisità. Egli dice, mosse

Tecini, che avea seco suo fratello Nicola ordinato prete in Salisburgo, a mettersi in

viaggio per alla patria già nel 18 dello stesso mese, viaggio mal preparato e da

viaggiatori inesperti che non sapevano in quale stato si dovessero trovare tutti i poveri

paesi, specialmente quelli posti sulla strada maestra, di recente percorsi ed infestati da

guerreggianti soldatesche. Dovettero sottostare a privazioni e disagi percorrendo una via

sulla quale avendo di recente successe scaramucce e battaglie, e dove il soldato francese

riguardando in ogni uomo un nemico, e perciò mettendo tutto a ferro e fuoco,

costringeva gli abitanti un po’ agiati ad abbandonare le loro case e ricavarci sui monti.

Le locande solitarie diventate non aveano ancora riveduto i loro padroni, nei borghi si

trovavano feriti ed ammalati di febbre nervosa e585 contagiosa, sulla via cavalli insepolti

che infestavano l’aere, i ponti dell’Eisach abbracciati ne ancora rimessi. In mezzo a tale

luttuoso spettacolo a guisa di fuggitivi anzi che no, i nostri586 viaggiatori, avendo587

apposita vettura, s’affrettavano il più possibile, e in meno di due giornate giunsero da

Innsbruck a S(an) Paolo d’Eppan, dove di buona voglia sostarono presso il loro fratello,

e quindi pel passo della Mendola arrivarono lieti a Sarnonico fra le braccia dei genitori e

parenti ove588 godettero al fine del necessario riposo. Fermatosi ivi il nostro Tecini un

pajo di mesi s’avviò quindi per recarsi al suo posto, e nel giorno di Domenica 2 Luglio

583 Segue “lo”: depennato. 584 Segue “era parti”: depennato. 585 Segue “per”: depennato. 586 Segue “fugg”: depennato. 587 Segue “propria”: depennato. 588 Segue “per”: depennato.

193

1797 gli fu dato da Monsignore Vicario generale Zambaiti il possesso della parrocchia e

Decanato di Pergine.

La fama lo avea prevenuto, e gli giulivi e contenti gli abitanti del luogo e delle

sottoposte gastaldie, la truppa ivi stanziata dell’I(mperial) R(egio) Reggimento

Yelacich589, due compagnie di bersaglieri e molti dilettanti professori di Musica e di

Canto dalla vicina Trento concorsero a rendere decorosa, brillante e splendida questa

installazione.

Eccoci, o Signori, giunti allo studio più importante nella vita del nostro Tecini il quale

uomo sembra aver tronco il corso alla luminosa carriera di lui e pe’ lo sconvolgimento 590 dell’Europa, e per le cariche da lui coperte e per le azioni sue e pei suoi scritti merita

più profonda meditazione, più accurata elecubrazione ed attenzione più intensa.

Quindi per non oltrepassare i limiti d’un accademica lettura, ed affinché in altro

momento possiate ascoltarmi con maggiore lena, sento differire ad altra tornata la

continuazione di questo lavoro.

589 Sul manoscritto “Yellacich” corretto dall’autore. 590 Segue “de’ tempi”: depennato.

194

Doc. n. 3

Lettera di Francesco Tecini inviata a Clementino Vannetti da Firenze il 20 novembre

1791

(BCR, Ms. 7.34.)

Nobilissimo Cavaliere Sig(no)re Sig(no)re P(ad)rone mio Distintissimo

Se sono tardo a fare a V(ostr)a Ill(ustrissi)ma i miei dovuti ringraziamenti per le

gentilissime raccomandazioni senza alcun mio merito favoritemi, la non è mia colpa,

Chiarissimo Cavaliere. Arrivato in Firenze sul fine d’Agosto, non mancai di presentarmi

quanto il potei prontamente al S(ignor) Ab(ate) Lastri, ed al gentilissimo incomparabile

S(ignor) Fabbroni: mi restava il S(ignor) Ab(ate) Perrini; ma per certa espulsione al

volto mi convenne guardare per qualche tempo la camera, e così vedermi differito il

piacere d’inchinare quell’uomo illustre, e di supplire appresso V(ostr)a Ill(ustrissi)ma a’

miei doveri. Ora pare che questa aria nuova siasi contro di me sfogata a bastanza: e sono

tre giorni che mi potei presentare al Suddetto S(ignor) Segretario.

A vista delle di Lei lettere tutti e tre questi Signori mi fecero la più cordiale accoglienza,

e mi fecero altresì comprendere quanto ella debba essere in me l’obbligazione, e i

sentimenti di eterna gratitudine verso chi senza conoscermi tanto mi favorì.

Ella è stata una fatale combinazione che ha fatto c’io non dovessi avere la fortune da

tanto tempo sospirata di conoscere Personalmente V(ostr)a Ill(ustrissi)ma. Il buon Abate

Tartarotti, unico conoscente c’io avessi negli anni scorsi costì, può essermi Testimonio

di questa mia premura: e spero bene che per quante eccezioni egli possa incontrare

altrimenti, mi sarà passato buono almeno l’ufficio di testimonio.

Io Le rinnovo, Chiarissimo S(ignor) Cavaliere i miei più sinceri rendimenti di grazie: e

solo mi rincresce che Ella sarà per mia cagione responsabile di qualche espressione più

officiosa che vera appresso la sua coscienza.

La supplico di darmi occasione, onde poterle dimostrare con quale sentimento di

profondo rispetto, ed obbligazione io ardisca dedicarmi.

A V(ostr)a Ill(ustrissi)ma

Firenze li 20. n(ovem)bre 1791. Devot(issi)mo Obbl(igatissi)mo Umil(issi)mo Servit(or)e

D(on) Francesco Tecini

195

Doc. n. 4

Lettera di Francesco Tecini inviata a Clementino Vannetti da Firenze il 3 aprile 1792.

(BCR, Ms. 7.9.)

Ill(ustrissi)mo Sig(no)r Cavaliere Sig(no)re Sig(no)re P(ad)rone mio Col(endissi)mo

Nella Sua gentil(issi)ma Ella mi proibisce le cerimonie, non però gli atti di dovere:

sicchè non mi credo negato il piacere di rinnovarle e miei distintissimi ringraziamenti

per le preziose conoscenze da Lei procuratemi in Firenze, delle quali provo ogni giorno

i più vantaggiosi effetti. Male che siamo al fine!. A’ primi di Maggio mi converrà

cambiare la Toscana con un Paese in cui le case sono aguzze, e gli…/ questo testo io so

che V.a la può terminare da se:/. Che fatto mortale, Dio buono! Non è però piccolo

vantaggio il mio nel ritrovare un dottissimo Principe, da cui sono certo che non mi

sentirò dire bravo quando avrò fatto uno sproposito, e bestia quando sarò forse

compatibile, cose che pur accadono sovente a che serve nelle Corti.

Quanto al rimanente della Città v’ha pure chi mi conforta coll’assicurarmi che vi

sono alcune Persone assai culte: che non tutti s’occupano di birra e di tarrocchi, e che vi

si vede anche qualche buon libro: che non da tutti si stima più quello che è più ben

legato, e che i frontespizi non sono per tutti le Colonne d’Ercole. Di grazia, diciamoci

tutte queste cose in un orecchio così tra noi, perché qualcheduno non ci strappi i capelli.

Per altro Ella mi chiederà novità letterarie: ma ne abbiamo così poche che si

durerà fatica a credermelo. Questi Scrittori per certa combinazione sembrano essersi

accordati a prendere riposo, come i bacchi da seta, tutti in un tempo. forse non dormono,

ma stanno speculando in silenzio la piega forse non ancora ben intesa del nuovo

governo Toscano.

Abbiamo il Capitano Cajaffa, il quale stampa qui appresso il Grazioli il suo

Cimone. Per non esporsi a que’ colpi della Crusca che avvanzarono a Torquato, egli

credette bene di recitare la sua Opera avanti una scelta Società, la quale ad istanza

dell’Autore si radunava la sera in casa del nostro S(ignor) Fabroni per giudicare

specialmente

Sulla purità della lingua. C’entravo anch’io non già qual giudice, ma qual discepolo: e

posso dire che il Cimone fu applaudito comunemente. Staremo a vedere se letto

freddamente a tavolino piacerà come piacque recitato in fretta e con enfasi dall’Autore

medesimo.

196

Il Dottor Cioni direttore della nominata stamperia ne pubblicò un manifesto, il quale,

per onore dell’Opera, desidero che non arrivi alle mani di V(ostr)a Ill(ustrissi)ma. Egli

dice cose da bestia; e propostosi di dare qualche saggio del Poema, ha scelto delle

ottave, a mio credere, le più addattare per mettere in diffidenza: così il buon Uomo

serve al suo vantaggio, ed alla gloria del Poeta.

Il Proposto Lastri ha commesso una baronata, e non si può convertirlo: non vuol

più sapere de’ Novelle letterarie. Quando Ella gli giunse, ne lo bravì altamente.

Vuol’Ella di peggio? Saltò fuori dal palco scenico un Brighella, ed ebbe la temerità di

farsegli successore. Il medesimo è ancora l’infelice Scrittore della Gazzetta universale,

il disonore di Firenze. Si chiama Rastrelli.

In una gita fatta giorni sono a Livorno trovai certo S(ignor) Poggioli, uomo di

garbo, buon intelligente d’antichità, il quale s’affatica a raccogliere le migliori edizioni

del 1400. A quest’ora egli ha radunate gran belle cose. Di là venuto a Pisa, ebbi il

piacere di fare delle ottime conoscenze con molti di que’ Professori. Da Zampedi

Pubblicista, e da Sarti Critico ho sentito gran belle lezioni. Più di tutto però mi

compiacio d’una corrispondenza incamminata specialmente con Monsignor Fabbroni

Presidente dell’Università. Questo sta scrivendo presentemente la Storia della

medesima; opera che riuscirà interessante e insieme bella perché nasce fra buone mani.

Eccole quel poco che avevo di qualche importanze. Altre cose di minor rilievo le

riservo pel giorno, in cui avrò la consolazione di conoscere un Cav(allier)e di cui tanto

conosco il Nome.

La supplico di ricordare la mia Servitù a codesto gentil(issi)mo S(igno)r Conte

Alberti, e di lui Famiglia: e pieno di rispetto sono-

A V(ostr)a Ill(ustrissi)ma Devot(issi)mo Osseq(uiosissi)mo

Servitore

Francesco Tecini

Firenze li 3. Ap(ri)le 1792.

197

Doc. n. 5

Lettera di Francesco Tecini inviata a Clementino Vannetti da Salisburgo il 16 novembre

1792.

(BCR, Ms. 7.10.)

S(igno)r Cavaliere Gentil(issi)mo, mio Padrone Col(endissi)mo

Non Signore, non Signore…/: Signor Cavaliere, ora io non parlava col Lei; parlava col

Diavolo, il quale assai più importuno di codesti nostri italiani, mi va ronzando

all’orecchio, perché discolpi la mia tardanza delle mie lettere con una bugia, dicendo

che mi astenni dallo scriverle per non disturbarla dal suo Orazio:/ Non è vero, bugia

spaccata! Restai di scriverle per negligenza: vogliamo noi dirla tonda? Per asinità, mia

favorita Virtù. Così è, e così va detto per onore e gloria dell’Eroe che la possiede.

Ciò non pertanto, dopo sì candida confessione, mi lusingo bene di meritar fede,

se bene adduco delle altre ragioni, bensì meno principali, ma però vere; cosicché tutto

insieme basti per ottenere il perdono da V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma. Che se

codesta V(ostra) Signoria Ill(ustrissi)ma riuscirà di perdonarmi, perdonatemi voi

Vannetti gentilissimo, a di lei dispetto e così, siccome Voi l’ordianste, si troncherà con

esso ogni commercio, e carteggiare mio fra noi.

Ecco per tanto le altre ragioni di sopra accennate. Partito dal Tirolo alla metà di

Luglio colla testa piena delle più moleste apprensioni dell’avvenire ad accrescere le

quali serviva mirabilmente l’orrore del viaggio per valli e monti, ne’ quali mi parea

vedere l’anticamera dell’Inferno e di leggervi la mansione: Per me si va nella Città

…giunsi finalmente a Salisburgo dopo otto giorni di viaggio, e di paura. Ed eccomi

balzato dall’Italia alla Germania, dalla mia vita pacifica e libera all’impiego in una

Corte, Corte nuova, Padrone Nuovo, ufficio nuovo, nuova lingua, nuovi usi, nuovo

cielo, nuovo Mondo, e Mondo a cui sono destinato: tanti oggetti di timore e di spavento

che mi convenne affacciare in un colpo, non sono eglino capaci d’impietrire uno sul

fatto? Od almeno di fargli entrare un tremore di mano da non potere più stringere la

penna?

Grazie a Dio ne sostenni il primo aspetto con una intrepidezza che io stesso non

mi sapeva d’avere, quantunque non senza commozione d’animo.

Trovai però un indicibile conforto sul primo momento che ebbi la grazia di conoscere il

Principe mio Signore, che trovai oltre ogni credere benignissimo, e consolante. Allora

198

ogni cosa mi parve più bella, tutto mi riusciva o soffribile, o piacevole, ed allor fu la

paura un poco cheta. A poco a poco poi lavorando sempre di microscopio veddi, più da

vicino il giardino del buon Campano, c’entrai arditamente, e conobbi per mia ventura

che esso non corrispondea tutto affatto alla Prospettiva che egli ne inventò; non si può

però negare che costui abbia mostrata gran perizia d’architettura, e distintamente di

proporzioni per quanto riguarda la gente basse e mediocre, ad anche la più alta che non

ha viaggiato. Ma che volete farci? Io per me debbo essere ben contento e posso

chiamarmi felice d’aver trovato in un paese sì rozzo un Principe di tanto ingegno, così

affabile, e clemente: c’è ancora qualche Canonico e qualche Cavaliere trattabile e di

garbo. Ma quanto alle belle lettere! o Dio! mettiamo discorso. di grazia.

E come state voi, onore della Patria, delizia della letteratura, Segretario

d’Orazio? E il vostro Orazio è egli ancora in veste da camera, o abbigliato?

Mi direte che questo mio cristo sente del recente e ne porta la fede battesimale in

fronte. Voi dite bene; ma io mi sono un uomo tale, che quando mi fisso in un pensiero, e

ci vogliono sassate per farmelo riterare. Io te lo schiccherò tal quale nasce; esso nasce

vestito ma non sempre alla moda: talvolta mi si presenta con tanto di parruccone e colla

sottoveste più lunga della giubba: mi pare d’aver dato alla luce il primo Rigo

dell’Opera; gli rido dietro e lo lascio correre.

Ma torniamo al nostro Orazio. Io lo gustai in Firenze: ne ho ancora il dolce in

bocca; e quando lo potrò mai godere? Speditemelo per atto di compassione veros un

povero amico spinto così lontano dalla patria del buon gusto: aggiungetevi di più le

nuove della vostra salute, preziosa all’Italia, de’ vostri studj, e delle principali attuali

vicende letterarie di costì. Io non vi potrò corrispondere con la stessa merce da

Salisburgo: datemi piuttosto commissioni di lingue salate, d’ombrelli…

E come sta ella adorabile v(ostr)a mamma, e la vostra deliziosa Società?

Rammentatemi di grazia a tutti e tutte col più sincero rispetto. Io rimprovero

continuamente la poca salute che godetti costì durante il mio breve soggiorno, no meno

che la tediosa ma pure per me necessaria occupazione normale/: che non isfoggio in

questa:/ le quali cose mi impedirono di fare più vicina conoscenza con delle Persone che

io rispetto infinitamente perché voi le rispettate. Che se avessi potuto aggiungere tale

trattenimento alla invidiabile conversazione della per me troppo benevola e gentile Casa

Alberti, avrei ritrovata Firenze in Rovereto. Ma giuro a Dio, che se mi riesce di fare

costà una scappata, ciò che però sino in due o tre anni non tento nemmeno, mi ricatterò

d’ogni cosa.

199

La Camilla si ricorda ancora di me: giorni fa la buona Vecchia mi mandò una

sua anacreontica, l’unica cosa, per quanto io so, che essa abbia stampato da molti anni:

eccovela qui acchiusa. L’originale lo mandai a codesta S(ignor)a Contessa Alberti.

Da principio vi domandai perdono per non avere scritto. ora ve lo chiedo per

avere scritto troppo. Amatemi.

D(evot)o Obb(ligat)o Servitore

Tecini

Salisb(urg)o li 16 novembre 1792.

PS: Perdonate se ho scritto confusamente, o luridamente: avvezzatevi a compo(si)tioni,

pensando che=in qua scribebam…terra fuit.

Se non è troppo ardua, io vi prego di dire al S(ignor) Marchesani che mi faccia venire

quella edizione di Boccaccio che Voi gli additerete, e me la spedisca col mezzo.

Mi riuscì d’affibbiare la mia cattiva ad un buon Tedesco.

La mia cassetta di libri mi giunse per via di Trieste: non avete perduto molto col non

vederla, essendo quasi tutti libri Ecclesiastici, a riserva delle Opere di Machiavelli, e

qualche altro libriccino.

PS: Ier l’altro arrivò qua sopra 14 casse l’argenteria, l’archivio ed altre cose preziose del

Vescovo Pr(incip)e, e delle chiese di Wirtzbürg, e furono riposti in fortezza.

200

Doc. n. 6.

Lettera di Francesco Tecini inviata a Clementino Vannetti da Salisburgo il 7 gennaio

1793.

(BCR, Ms. 7.11.)

Ornat(issi)mo Sig(no)r Cavaliere

Preceduto dalla Vostra brillantissima colla data in bianco, mi giunse ieridì il plico de’

libri favoritimi condannato a fare lentamente il suo viaggio in cassetta colle merci di

Bolzano. Ci sei pure una volta alla buon’ora, mi misi a gridare; e laceratone con

impazienza l’invoglio, non già per leggere ma per divorare, che ti venga la rabbia!trovo

i libri da legare. Io rimasi come l’asino col frenello avanti il fieno e dissi=non est

matura. Ora mi conviene fare l’anticamera al lega libri, e moderare la mia curiosità. Dio

ve lo perdoni, Vannetti mio, Vi perdoni insieme, giacché ei ci si mette, l’ultimo

paragrafo della Vostra lettera, in cui mi dite, che per poco che io avessi prolungato

codesto mio soggiorno, v’avrei scavalcato di bello. Vi par egli che mezzo moribondo,

come mi era allora, avrei potuto smovere dal suo posto chi lo sa occupare con tanta

fermezza? E poi Voi non sapete quanto poco garbo io ci abbia, e quanto io sia infelice

se m’accosto a Donne belle, e di talento: effetto di poca prattica! Che se s’ha a

giudicarne dall’esperienza, mi conviene restar persuaso chela madre natura nella

distribuzione delle forze attrattive, e ripulsive newtoniane m’abbia empito il corpo delle

seconde, omesse affatto le prime. Ma voi mi tirate in Fisica mio mal grado: e sono pur

troppo fuori di strada, avendo cominciato dall’ultimo articolo della V(ostr)a lettera la

mia replica cui dirò far fare un rompicollo retrogrado per venire a’ primi.

Voi dite bene ch’io ho un testone pieno di grilli, che saltano fuori, e giuocano;

ma non vi posso concedere che essi giuochino sempre a tempo: perché il mio

temperamento al di fuori malenconico e gajo al di dentro, specialmente quando scrivo,

mi fa essere talvolta Arlecchino anche con chi o no intende il linguagio, o non ne ha

voglia, e sarò gradito come il dotto animale che s’avvisò d’immitare col suo Padrone le

carezze del cane.

Proseguirei ma parte la Posta. Vi ringrazio senza fine del regalo fattomi: leggerò,

godrò e poi scriverò di più. Finisco con un addio tanto fattone.

Salisb(urg)o li 7 Gen(nai)o 1793

201

Il V(ostr)o Tecini

PS: Bellissima quella del catalogo che Voi chiamate Martirologio! Ma non Signore, che

non ve lo mando perché già so che m’intendete: e poi =intendami chi può, che

m’intend’io.

202

Doc. n. 7

Lettera di Francesco Tecini a Clementino Vannetti inviata da Salisburgo il 25 aprile

1794.

(BCR, Ms. 7.15.)

Nob(ilissi)mo S(ignor) Cavaliere P(adro)ne Col(endissi)mo

Dopo un discreto silenzio eccomi fermo nel proponimento di non perdere il possesso

d’incomodarvi. /:Ho seguito a carteggiare con esso Voi, e non più colla V(ostr)a

Signoria, pregandovi però in ogni evento di farne appresso di essa le mie discolpe:/

Io sono all’impegno di fare una dissertazione, come ancora vi dissi, per la difesa

di mio fratello. Avevo scelto per tema= de sobria philosophandi ratione= e mi ci ero già

inoltrato: ma la cosa mi riusciva di tratto in tratto troppo scotante ed avrei fatto dire a

più d’uno foenum habet in cornu; onde cambiai bandiera, e lasciando le materie odiose,

le quali in tanta divisione di partiti mi potevano attirare qualche dispiacere, mi rivolsi

alla fisica, e scelsi per argomento = L’incertezza dei confini tra il regno animale ed il

vegetabile in italiano = Sono già a buon segno, e non dispero di ridurla alla fine. Ora io

vorrei una cosa, che assolutamente Voi, Voi, dico, così gentile, non mi potete negare.

Vorrei avere su di ciò qualche Vostro pensiero, per inserircelo, onde renderla almeno

per questo verso rispettabile, ed illustrarla al Vostro Nome.

Così non ci sarà chi mi possa dire che tutto sia cattivo. Io preveggo la vostra scusa:

direte che la Fisica, e la storia naturale non è il v(ostr)o principale studio. Sappiate che

non ve la meno buona. Io so, e lo dicono a chi nol sa i Vostri scritti, quanto voi valete in

ogni genere di scienze: e vi prego a non negarmi l’occasione di nominarvi per mio

decoro nella mia operetta. Più di tutto mi converrà parlare dei Polipi d’acqua dolce, che

formano il più vicino confine, almeno a noi cognito, fra due Regni nominati.

Io fo venire il Giornale di Pisa e quello di letteratura italiana di Mantova. Restai

contento di quanto disse M(onsigno)r Fabbroni della vostra opera sopra Orazio, benché

non comprendo come, se l’ha letto, l’abbia potuto collocare fra le novelle quasicché

fosse un opuscolo.

Ma mi si mosse la bile al freddo giudizio trattone da Mantovani. Vi dirò per altro in

genere che né l’uno, né l’altro di codesti Giornalismi piace in confronto de’ Tedeschi.

v’assicuro che adesso la Germania è giunta ad un segno da invogliare i letterati italiani

vostri simili ad impararne la lingua.

203

Fra manoscritti di quest’aulica Biblioteca trovai un eccellente opera del nostro

cel(ebre) de Gaspari = Historia lateranismi in Provincia Salisburgensi = Se potessi

raccogliere materiali bastanti per tesserne l’elogio, farei volentieri quest’atto di omaggio

alla Patria, e me ne assumerei l’impegno, pubblicando poi tutto insieme. Mi potreste

Voi mai aiutare?

Come sta la deg(nissi)ma V(ost)ra S(igno)ra Madre? Bacciatele a mio nome la

mano.

Vi prego di non istancarvi a riguardarmi quale sono tutto rispetto e riconoscenza.

Nob(ilissi)mo Cavaliere

Salisb(urg)o 25 Ap(ri)le 1794

V(ostr)o D(evotissi)mo Obb(ligatissi)mo

Servitore ed Amico

Tecini

204

Doc. n. 8

Lettera di Francesco Tecini all’avvocato Antonio Mazzetti inviata da Pergine il 1

febbraio 1832.

(BCT, Ms. 1-1368, p. 215)

Il gentile saluto di V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma mandatomi mediante codesto

S(ignor) Alborghetti mi da il coraggio per disturbarla colla presente, onde ringraziarla

primieramente per l’onore che ella mi fa col ricordarsi di me, e poi anche pel regalo

fattomi della sua eruditissima operetta = delle antiche relazioni fra Cremona e Trento,

edizione 2a = questa come debba essere cara a tutti i trentini e cremonesi per la

ricchezza dei lumi storici contenuti, è preziosa anche a me, ed alla mia famigli della

quale l’albero genealogico finisce con Antonio Thesin, in latino Thesinus (convicino di

Sarnonico, come apparisce dalla prima carta di Regola di quel luogo del 1587, dove egli

era già ben possidente. Per la vicinanza dalla per l’identità del nome e cognome e

perché in quel tempo la famiglia Thesinus/ la quale sulla tabella che tiene qual

magistrato delle famiglie cittadine mancanti è scritta Tecini, come Tecini si chiamarono

poi sempre anche i figli e discendenti del mantovato Antonio/ e comincia a comparire

quella di Sarnonico, pare così simile che il nostro Antonio sia quel che ella nomina alla

pagina 99 oppure un di lui figlio dello stesso nome. Non è nemmeno improbabile che in

quei tempi di guerre e di peste qualche famiglia di Trento si sia ricoverata in Val di sini

in Non. Benché queste non siano infine che semplici congetture, vi accresce però

qualche peso la circostanza che la famiglia di Antonio Thesino in Sarnonico fu sempre

di condizione civile in mezzo ad una popolazione di agricoltori, lo che sembra indicare

la provenienza da altro luogo più colto. Mi ricordo che il S. C. Giuseppe Crivelli

Console, anni fa mi stimolava assai a cercare l’anello di congiunzione fra la famiglia

Tecini mancata da Trento, e la nostra: anzi fu egli che mi condusse in Magistrato a

vedere la suddetta tabella. Ma allora la cosa era troppo oscura: ora che V(ostra)

S(ignoria) Ill(ustrissi)ma scoperse quell’Antonius Thesinus, prova più facile trovare

quest’anello di congiunzione.

Se a lei, che malgrado il peso gravissimo del suo Ministero, vive tutto nelle indagini

della cosa patria, venisse casualmente qualche cosa in proposito, la supplico di volerlo

gentilmente comunicare o a me oppure a mio fratello Commissario superiore di Polizia

in Cremona.

205

Ella viva felice alla gloria della Patria ed alla propria e mi … quale con profondo

ossequio mi glorio d’essere.

Di V(ostra) S(ignoria) Ill(ustrissi)ma

Pergine 1° Febbrajo 1832

Dev(otissi)mo Obb(ligat)o Servitore

Fran(cesco) Tecini Arcip(ret)e

206

Doc. n. 9

Lettera di Francesco Tecini inviata all’Accademia Roveretana degli Agiati da Pergine il

24 marzo 1845.

(AARA, fascicolo 322.2)

Pregiatissimo Signore!

Mi fu di dolcissima sorpresa la nomina, e la relativa Patente, con cui codesta

celeberrima I(mperial) R(egia) Accademia si degnò graziarmi assumendomi all’onore di

Suo Socio corrispondente. Pieno di riconoscenza per tanto favore, prego V(ostra)

S(ignoria) di volerne a mio nome tributare i più ossequiosi ringraziamenti al

Nobilissimo Signor Presidente, ed ai Suoi dottissimi S(ignor)i Assistenti.

Mi farò un dovere di eseguire quanto prima ciò che impone ai Socj il §20 degli

Statuti. Intanto supplicando anche V(ostra) S(ignoria) di gradire i miei rendimenti di

grazie per avere contribuito a questa beneficienza in aggiunta a ciò che fece per mio

onore già nel 1842. presso il S(ignor) Majer in Livorno, mi pregio di esserle.

Pergine 24. Marzo 1845.

Dev(otissi)mo Obbl(igatissi)mo Servo

Fran(cesco) Tecini Arciprete Pergine

207

Doc. n. 10

Lettera inviata dall’Accademia Roveretana degli Agiati a Francesco Tecini da Rovereto

il 2 luglio 1847.

(AARA, fascicolo 323)

L’Imp(eriale) e Reale Accademia Roveretana

degli Agiati

al venerando Sozio d’onore

M(onsigno)r Francesco Tecini Canonico della Cattedr(ale) di Trento,

Decano e Parroco benemerito di Pergine ecc.

Quei sentimenti d’onore e di devozione, che oggi nel vostro gregge parlano una voce

d’esultazione, e di compiacenza straordinaria, doveano ben trovare un eco spontaneo, e

cordiale in una Società, che si tiene onorata del chiarissimo nome vostro collocato fra i

molti de’ Socii onorarj, ond’è ricco il Suo repertorio.

Fra i plausi dunque, de’ quali oggi voi, Monsignore, sentite risuonare le

Perginesi contrade, fra i lieti augurii, con cui dalla onorata vostra comizia benedice un

popolo, che in voi lungamente amò e spera ancora molto d’amare, l’ottimo dei pastori,

abbiano luogo onde i plausi e gli augurii onde gli Accademici Roveretani vogliono

manifestarvi la parzialissima stima che hanno delle vostre rare virtù, e de’ meriti

letterarj, di cui va decorato l’illustre autor dell’Uberto.

Che il cielo feliciti, e prolunghi i vostri giorni preziosi alla religione, ed alle

lettere!

Rovereto, a 2. Luglio 1847

Il presidente

Il segretario per le corrispondenze

208

Doc. n. 11

Lettera inviata da Francesco Tecini all’Accademia roveretana degli Agiati da Pergine il

17 luglio 1847.

(AARA, fascicolo 322.2)

Alla insigne Imp(erial) R(egia) Accademia degli Agiati di Rovereto

Alle consolanti pubbliche dimostrazioni di benevolenza che in questi giorni per

cinquantesimo anno di mio spirituale servigio mi diede la Popolazione perginese, volle

codesta insigne I(mperial) R(egia) Accademia, di cui mi pregio di essere Socio, mettere

il colmo co’ gentilissimi Suoi augurii, pei quali rendo ossequiosamente le più distinte

grazie.

Memore dell’obbligo, che ho di presentare le mie memorie della lunga vita, che

Dio mi concesse benché di poco rilievo, non mancherò di farle avere fra poco al

S(igno)r Epistolografo della I(mperial) R(egia) Accademia.

Pergine 17. Luglio 1847.

Devotissimo

Tecini Arcip(ret)e Dec(an)o Pergine

209

FONTI E BIBLIOGRAFIA

ABBREVIAZIONI ACP = Archivio storico comunale di Pergine Valsugana APP = Archivio parrocchiale di Pergine Valsugana BCT = Biblioteca comunale di Trento ADT = Archivio diocesano di Trento BCR = Biblioteca civica di Rovereto AARA = Archivio dell’Accademia roveretana degli Agiati APS = Archivio parrocchiale di Sarnonico ACRR = Archivio di Casa Rosmini di Rovereto FONTI INEDITE ACP, Fondo Famiglia Montel, Cenni biografici di Francesco Tecini, n. prov. 506. ACP, Fondo Famiglia Montel, Alberi genealogici della famiglia Montel, n. prov. 440. ACP, fascicolo 164. ACP, fascicolo 262. APP, XII. A. 15. APP, V. i. 1. APP, V. i. 2. APP, Registro dei morti e sepolti. 1853-1896, Tomo X, p. 13. AARA, fascicolo 166.1, già XX, 965. AARA, fascicolo 322.2. AARA, fascicolo 323. AARA, fascicolo 2, Statuti. Costituzioni, 1823. AARA, fascicolo 663, Registro dei soci. Registro delle aggregazioni, 1752-1914.

210

ACRR, IX. 5. 1. BCR, Ms. 7.9. BCR, Ms. 7.10. BCR, Ms. 7.11. BCR, Ms. 7.15. BCR, Ms. 7.34. BCR, Ms. 20. 2-20. BCT, Ms. 1-1368, p. 215. ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 401. ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 411. ADT, Atti visitali, 1828, 86, n. 469. ADT, Atti visitali, 1840, 89, n. 262. ADT, Libro B (98), 1797, n. 64. ADT, Libro B (95), 1798, n. 52. ADT, Libro B (97), 1798, n. 289 ½. ADT, Libro B (97), 1798, n. 333. ADT, Libro B (120), 1806, n. 65. ADT, Libro B (130), 1808, n. 930. ADT, Libro B (135), 1809, n. 464. ADT, Libro B (212), 1820, n. 613.

211

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- La grammatica, l’abaco e la dottrina: l’alfabetizzazione nell’antico regime, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, Comune di Trento, 1998, pp. 13-19.

BALDINI U., Elementi scientifici nella formazione del clero secolare in Italia (secoli XVI-XVIII), in M. SANGALLI (a cura di), Pastori pope preti rabbini. La formazione del ministro di culto in Europa (secoli XVI-XIX), Roma. Carocci, 2005, pp. 66-108. BASSOLI M., I libri di lettura nella scuola elementare trentina dell’Ottocento, in Q. ANTONELLI (a cura di), Per una storia della scuola elementare trentina. Alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, Comune di Trento, 1998, pp. 157-168. BATTISTI F. S., Positiones ex universa philosophia, quas sub auspiciis celsissimi, & reverendissimi domini domini Petri Vigilii episcopi, et S.R.I. principis Tridenti, marchionis Castellarii &c. &c. ex comitibus de Thunn, et Hochenstein &c. &c. praeside p. Francisco Xaverio a Fundo ord. Min. Refor. pub. philosoph. prof. propugnandas suscepit venerabilis, & admodum eruditus clericus Franciscus de Tecinis Annaniensis sem. episc. alum. in episcopali Tridentino lyceo die I. julii MDCCLXXXII. horis ante, & post meridiem consuetis data cuilibet post quartum arguendi facultate, Trento, Monauni, 1782. BENIGNO F., L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla Restaurazione, Bari, Laterza, 2007. BENVENUTI L., La Cronaca di Folgaria e le Memorie di Pergine e del perginese del sig. Decano don Tommaso Vig. Bottea con riguardo specialmente all’origine dei Mocheni, considerazioni dilucidazioni ed appunti di Luigi Benvenuti, Trento, Seiser, 1881. BENVENUTI S., La Chiesa di Trento sotto il governo bavarese (1806-1809), in “Archivio trentino di storia contemporanea” n.s., 39, (1990), n. 3, pp. 19-35.

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- Le istituzioni ecclesiastiche, in M. GARBARI, A. LEONARDI (a cura di), Storia

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