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Fotografia e propaganda in URSS Cinema e fotografia iniziarono a mostrare tutta la loro forza ed efficacia politica negli anni Venti e Trenta, per opera dei regimi totalitari, che, insieme alla radio, alla pittura e ad altri mezzi di propaganda, se ne servirono ampiamente per diffondere in modo capillare l’ideologia del partito al potere. La Rivoluzione di ottobre fu opera principalmente di Lenin; eppure, difficilmente essa avrebbe avuto successo, se Trockij non fosse stato a Pietrogrado e non avesse materialmente diretto e condotto l’operazione. Se l’uno (determinato a cogliere l’irripetibile occasione propizia e capace di vincere le obiezioni teoriche di molti dirigenti bolscevichi) può es- sere definito la mente e l’ideatore del colpo di Stato comunista, l’altro ne fu il vittorioso braccio armato. Per questo, una delle fotografie più celebri dell’epoca sovietica raffigura Lenin che, alla tribuna, arringa la folla; ma, ai piedi della piattaforma, è ben visibile Trockij, insieme a Kamenev, un altro stretto collaboratore di Lenin. Sappiamo che questa fotografia circolava ancora nella sua versione originale in occasio- ne del decimo anniversario della Rivoluzione, nel 1927. Negli anni Trenta, invece, in pie- na dittatura stalinista, essa venne ritoccata e, sulla destra della tribuna, Trockij e Kame- Il secolo dell’immagine Per ordine di Stalin, le immagini di Trockji e di Kamezev vennero cancellate dalle fotografie dei tempi della rivoluzione. Le due illustrazioni raffigurano un comizio di Lenin: a fianco i due (evidenziati dal cerchio rosso) compaiono accanto al podio, mentre a fianco un abile ritocco fotografico li ha fatti sparire, aggiungendo una parte del palco. UNITÀ 10 Il secolo dell’immagine 1 APPROFONDIMENTO D F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 CULTURA E IDEOLOGIE Trockij e Kamenev

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Fotografia e propaganda in URSS

Cinema e fotografia iniziarono a mostrare tutta la loro forza ed efficacia politica negli anniVenti e Trenta, per opera dei regimi totalitari, che, insieme alla radio, alla pittura e adaltri mezzi di propaganda, se ne servirono ampiamente per diffondere in modo capillarel’ideologia del partito al potere.La Rivoluzione di ottobre fu opera principalmente di Lenin; eppure, difficilmente essaavrebbe avuto successo, se Trockij non fosse stato a Pietrogrado e non avesse materialmentediretto e condotto l’operazione. Se l’uno (determinato a cogliere l’irripetibile occasionepropizia e capace di vincere le obiezioni teoriche di molti dirigenti bolscevichi) può es-sere definito la mente e l’ideatore del colpo di Stato comunista, l’altro ne fu il vittoriosobraccio armato. Per questo, una delle fotografie più celebri dell’epoca sovietica raffiguraLenin che, alla tribuna, arringa la folla; ma, ai piedi della piattaforma, è ben visibile Trockij,insieme a Kamenev, un altro stretto collaboratore di Lenin.Sappiamo che questa fotografia circolava ancora nella sua versione originale in occasio-ne del decimo anniversario della Rivoluzione, nel 1927. Negli anni Trenta, invece, in pie-na dittatura stalinista, essa venne ritoccata e, sulla destra della tribuna, Trockij e Kame-

Il secolodell’immagine

Per ordine di Stalin, le immagini di Trockjie di Kamezev vennero cancellate dallefotografie dei tempi della rivoluzione. Le dueillustrazioni raffigurano un comizio di Lenin:a fianco i due (evidenziati dal cerchio rosso)compaiono accanto al podio, mentre a fiancoun abile ritocco fotografico li ha fatti sparire,aggiungendo una parte del palco.

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CULTURAE IDEOLOGIE

Trockij e Kamenev

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nev scomparvero: entrambi, infatti, erano ormai caduti in disgrazia e Stalin li aveva pri-vati di ogni carica all’interno del partito. Kamenev sarebbe stato condannato a morte (dopoun processo farsa) nel 1936, mentre Trockij venne assassinato nel 1940 in Messico, doveaveva trovato temporaneo rifugio.Lenin, invece, divenne il centro di un nuovo e particolare culto, che venne consapevolmentealimentato da Stalin nel momento in cui si presentava come il discepolo più fedele delgrande rivoluzionario. Nel 1924, subito dopo i solenni funerali di Stato, fu deciso di im-balsamare il corpo di Lenin e di costruire sulla Piazza Rossa, davanti al Cremlino di Mo-sca, un mausoleo per ospitarne il cadavere mummificato, che divenne oggetto di un veroe proprio pellegrinaggio. Come ha scritto il professor Vittorio Strada, esperto del mon-do russo, si trattava di «una pratica del tutto nuova: l’imbalsamazione del cadavere nondi un faraone, ma di un leader; e non per celarlo in una piramide, ma per esibirlo in unsarcofago». In un primo tempo, il mausoleo fu costruito in legno, a forma di cubo. Piùtardi, nel 1929, Stalin ordinò che fosse sostituito da un nuovo edificio, di marmo e di gra-nito. Nel medesimo tempo, la nuova struttura sarebbe servita come tribuna dalla qualeStalin e gli altri dirigenti sovietici avrebbero seguito le parate sulla Piazza Rossa. Il culto di Lenin era solo uno degli aspetti della propaganda comunista, che proprio ne-gli anni Trenta e Quaranta, al tempo di Stalin, raggiunse il vertice della propria capilla-rità ed efficacia. Al cinema fu assegnato il compito di presentare un’immagine dell’URSS

a dir poco paradisiaca, che trovò il proprio compendio nello slogan: «Vivere è diventatopiù bello, compagni, vivere è diventato più allegro». Se i dipinti relativi a Lenin diven-nero innumerevoli, la figura di Stalin era a dir poco onnipresente. L’immagine simbolicapiù popolare e diffusa cominciò a circolare a partire dal 1936; nel gennaio di tale anno,infatti, durante un ricevimento al Cremlino, fu scattata una fotografia che ritraeva Sta-lin insieme a una bambina che gli offriva dei fiori. L’immagine fu pubblicata su tutti igiornali, trasformata in manifesto e riprodotta innumerevoli volte: la sua forza consiste-va nel fatto che Stalin era presentato in atteggiamento affettuoso, come un buon padreche avrebbe garantito a tutti i popoli sovietici un futuro felice e sereno. Proprio la storia della fotografia, invece, svela il vero volto della realtà sovietica al tempodi Stalin. Bisogna ricordare che la bambina si chiamava Engel’sina (Gelja o Guelia) Marki-zova ed era figlia di un alto dirigente comunista della Repubblica Autonoma Mongolo-Buriata.La foto fu scattata in occasione di una visita ufficiale dei vertici comunisti di quella repubblicasovietica a Mosca; tuttavia, l’anno successivo, il segretario del partito mongolo-buriato, M.Erbanov cadde in disgrazia e quindi fu necessario ritoccare la celebre fotografia: nel-l’originale, infatti, compariva sullo sfondo anche questo scomodo personaggio.Più tardi, anche i genitori della bambina furono eliminati, per cui risultò decisamente im-barazzante il fatto che proprio la figlia di un nemico del popolo fosse tra le braccia del capodel partito. In altri casi, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di ritirare l’imma-gine; ma, in questa circostanza, il sequestro di tutti gli esemplari era semplicemente im-possibile, visto che la fotografia era diffusa praticamente ovunque. La scelta fu di cam-biare il nome della bambina, che venne chiamata con il nome di Mamlakat Nachangova,una giovane contadina che (vera stacanovista delle campagne) si era distinta per il suo im-pegno nel lavoro agricolo. Solo molti anni dopo Gelja (sopravvissuta, orfana, a una vitadi stenti) avrebbe rivelato che era lei la bambina che Stalin teneva in braccio, nella fotopiù celebre di tutta la storia sovietica.

Cinema e propaganda nel Terzo ReichIl nazionalsocialismo trovò uno dei più efficaci veicoli di propaganda nell’opera di LeniRiefenstahl che, nata nel 1902, ha vissuto tutto il XX secolo ed è morta a 101 anni nel2003. È universalmente considerata una delle donne più straordinarie del Novecento euno dei registi più dotati dell’intera storia del cinema. Tuttavia, a differenza di un’altracelebre attrice tedesca, Marlene Dietrich, la Riefenstahl scelse di mettere il suo talen-to a servizio di Hitler e del Terzo Reich. Esordì nel mondo dello spettacolo come dan-

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Il culto di Lenin…

…e quello di Stalin

Cambiare la storia

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zatrice, nel 1923; e poiché era una delle donne più belle della sua epoca, benpresto passò al cinema, dapprima come attrice e poi come regista. Nel 1932,quando il suo volto era ormai conosciuto in tutta la Germania, diresse Das blaueLicht (alla lettera, La luce blu; in Italia, però, il titolo del film fu cambiato e di-venne La bella maledetta), che la critica – a cominciare da Charlie Chaplin –definì unanimemente un capolavoro.Quando Hitler salì al potere, la Riefenstahl era dunque al vertice della sua car-riera. Pertanto, nel maggio 1933, il ministro della Propaganda Joseph Goeb-bels la contattò, proponendole girare un film su Hitler e sul partito nazista. Laregista accettò l’invito con entusiasmo e diresse Vittoria della fede, un film sulcongresso della NSDAP che si tenne nel settembre 1933, a Norimberga. L’anno seguente, nel 1934, l’esperimento fu ripetuto su scala ancora più vastae con effetti ancora più potenti. Nacque così Der Triumph des Willens (Il trionfodella volontà), per la realizzazione del quale furono impiegate ben trenta squa-dre di cineoperatori. Dopo la guerra, la regista si è sempre giustificata, dicen-do di essere stata obbligata a girare quel filmato e che esso non era affatto unfilm sul partito: «Non c’è niente di ideologico. – disse in una celebre intervi-sta, rilasciata a G. Sereny nel 1992 – È un film sulla pace. Hitler parlava solodi pace… e di lavoro… contro la disoccupazione». In realtà, anche in quel-l’occasione, il Führer parlò della società tedesca come di un’entità basata sul-l’appartenenza, di una comunità all’interno della quale non c’era posto per i sot-touomini. E di fronte a queste parole, l’uditorio applaudì per diversi minuti. Ma,soprattutto, Il trionfo della volontà offrì un’immagine a dir poco seducentedel nazionalsocialismo: efficienza, disciplina ed estetica si fondevano perfet-tamente, offrendo un’emozionante impressione di unità, forza e invincibilità. Due anni dopo, la Riefenstahl fu incaricata di riprendere le Olimpiadi di Ber-lino del 1936. Il risultato fu un lungo documentario intitolato Olympia, in cuila celebrazione della bellezza virile degli atleti scivolava frequentemente in am-mirazione per la superiorità della razza ariana. Il messaggio razzista, comunque,non né era esplicito né volgare, visto che la Riefenstahl rimase profondamen-te impressionata dalla potenza fisica di Jesse Owens, l’atleta americano nero chevinse ben quattro medaglie d’oro. I nazisti ricorsero al cinema di propaganda in varie altre occasioni. Uno dei prodotti piùraffinati fu il film Io accuso (Ich klage an), che affrontava il tema dell’eutanasia e fu di-stribuito nelle sale tedesche nell’anno 1941. La vicenda narrava di una giovane donna, Han-na, colpita da sclerosi multipla; suo marito, famoso medico, dopo aver tentato invano dicurarla, decide di aiutare la moglie a morire, ma viene portato in giudizio dal fratello dilei, che l’accusa di omicidio. Alla fine del film, i giurati assolvono il medico e esortano ilgiudice affinché lo Stato cambi la propria legislazione in materia.Io accuso fu visto da 18 milioni di tedeschi, in un momento in cui l’eliminazione dei ma-lati di mente e degli handicappati era già iniziata, ma veniva tenuta rigorosamente segretaper timore di reazioni negative da parte della popolazione. La sua distribuzione nelle saleva pertanto considerata come una specie di sondaggio d’opinione: e non a caso, il ser-vizio segreto delle SS (denominato SD) fece una serie di accurate indagini, finalizzate a co-gliere i contrastanti giudizi degli spettatori.Più duro e volgare il documentario antisemita L’eterno ebreo (Die ewige Jude), di Fritz Hip-pler, prodotto nel 1940. Le scene più dure e potenti sono quelle in cui la macellazione ri-tuale, tipica della tradizione ebraica (e musulmana), è presentata come un’azione barbara ebrutale, che solo un popolo criminale può continuare a compiere nella civile Europa del XX

secolo. Del resto, per tutta la durata del film, gli ebrei sono equiparati ai ratti o presen-tati come una razza di pervertiti e di parassiti. Non a caso, il film si conclude presentandola profezia formulata da Hitler nel discorso pronunciato dinanzi al Reichstag, il 30 gennaio1939: «Se il giudaismo della finanza internazionale, in Europa o altrove, riuscisse ancora unavolta a gettare i popoli in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione del-la terra e la vittoria del giudaismo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa».

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Alcuni fotogrammitratti dal film Il trionfodella volontà dellaregista Leni Riefenstahl.

La profeziadi Hitler

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Robert Capa e la guerra di SpagnaLa guerra di Spagna del 1936-1939 fu il primo conflitto che un vero esercito di foto-grafi riuscì a documentare in modo sistematico; ciò fu possibile grazie alle straordi-narie qualità tecniche di una nuova generazione di macchine portatili, di piccole dimensioni,ma dotate di ottica eccezionale: basti pensare alle celebri Leica e Rolleiflex. Inoltre, poi-ché si trattò di un conflitto caratterizzato da una fortissima contrapposizione ideologicatra fascismo e antifascismo, le fotografie svolsero un importante ruolo propagandisti-co. Tramite le immagini, i due contendenti si proposero di narrare le atrocità del nemi-co, oppure la determinazione dei propri soldati a combattere fino all’estremo sacrificio:in una parola, di dimostrare la giustizia della propria causa. Nei primi mesi di guerra, i nazionalisti di Franco si sforzarono soprattutto di presentarele violenze anticlericali cui si lasciarono andare numerosi miliziani repubblicani. Ben pre-sto, tuttavia, la maggioranza dei fotografi si schierò a sostegno del governo democraticoe si impegnò per scuotere le coscienze dei cittadini inglesi e francesi, mentre i governi diLondra e Parigi si ostinavano a seguire una linea di non intervento, per evitare lo scontrodiretto con l’Italia fascista e con il Terzo Reich.Il fotografo più famoso negli anni della guerra di Spagna fu Robert Capa (1913-1954),il cui vero nome era André Friedmann: egli aveva cambiato nome in modo da presentarsicome un professionista statunitense, mentre in realtà era ungherese. Si era formato in Ger-mania, negli anni della Repubblica di Weimar, in un periodo in cui si era affermata l’i-dea di una fotografia socialmente e politicamente impegnata. Durante un soggiornoa Parigi conobbe una giovane esule ebrea, Gerta Pohorylle, fuggita dalla Germania nel 1933,che di lì a poco adottò lo pseudonimo di Gerda Taro. Appassionati entrambi di fotografia,nel 1936 si recarono insieme in Spagna, dapprima a Barcellona, poi a Madrid (assediatadalle truppe di Franco e bombardata dall’aviazione tedesca) e infine in Andalusia (nel Suddella Spagna). Le fotografie scattate da Robert Capa e Gerda Taro colpirono in primo luogo perché, inmolti casi, si concentrarono su figure femminili in armi, allo scopo di sostenere l’idea chea lottare contro il fascismo e per un radicale cambiamento sociale non era un partito, enemmeno una ristretta minoranza politicizzata, bensì un intero popolo, in tutte le sue com-ponenti. Il 5 settembre 1936, nei pressi della città di Cordova, Capa scattò una delle suefotografie più celebri, che ricevette diversi titoli, come Morte di un repubblicano spagno-

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La celebre fotografiadi Robert Capa che

raffigura la morte di unrepubblicano spagnolo.

Un conflittodocumentato

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lo o Il miliziano che cade. Capa sarà solito ripetere che «se le foto non sono abbastanza buo-ne, è perché non si è abbastanza vicini»; l’espressione va intesa, certamente, nel suo sen-so più stretto, ma può essere letta anche in chiave psicologica: tra fotografo e soggetto dev’es-serci una profonda empatia, cioè un forte legame di vicinanza emotiva.Il 25 luglio 1937, Gerda Taro morì in Spagna, travolta da un carro armato repubblicanoche compì una manovra errata. Capa continuò la sua opera di fotografo fino al terminedel conflitto spagnolo e fu poi attivissimo anche durante la seconda guerra mondiale. La sua fotografia più famosa fu presa sulla spiaggia denominata Omaha Beach, durante losbarco in Normandia, il 6 giugno 1944: un soldato americano (identificato come EdwardRegan) nuota nell’acqua, mentre cerca di raggiungere la terraferma. Capa in realtà avevarealizzato quattro rullini; tre di essi, però, andarono perduti in laboratorio per un’errata pro-cedura nello sviluppo. Del quarto, solo 11 fotografie si sono miracolosamente salvate.Nel 1947, insieme ad altri celebri fotografi (fra i quali ricordiamo Chim e Cartier-Bres-son), Capa fondò l’agenzia fotografica Magnum. Sempre desideroso di essere vicino aglieventi, Capa partecipò anche alla guerra di Indocina, dove venne ucciso da una minanel 1954.

Le bandiere della vittoriaDurante la seconda guerra mondiale, fotografi e registi furono mobilitati in modo anco-ra più metodico e sistematico di quanto non fosse già accaduto durante la guerra di Spa-gna. Nel 1945, l’isola di Iwo Jima fu teatro di una delle più sanguinose battaglie com-battute sul fronte del Pacifico. Le truppe americane infatti persero 275 ufficiali e 5610soldati; altri 826 ufficiali e 16 000 uomini furono feriti, più o meno gravemente. Tra isopravvissuti, almeno 2650 si porteranno dietro disturbi nervosi di vario tipo, provoca-ti dalla battaglia. I giapponesi contesero l’isola palmo a palmo, fino a che non furono tutti uccisi (almeno20 000) o catturati. Il 23 febbraio 1945, un gruppo di marines riuscì ad arrivare sulla cimadel monte Suribachi e a piantare una piccola bandiera, che fu vista con il binocolo dal-la flotta americana e suscitò grande entusiasmo, poiché l’esito della battaglia era ancoraincerto e confuso. Il comandante della Marina, l’ammiraglio James Forrestal, decise di pren-dere per sé quel simbolo di vittoria e quindi inviò una seconda pattuglia, incaricata di so-stituire la prima bandiera con una seconda. Sulla vetta, intanto, era salito anche Joe Ro-senthal, della Associated Press, che fotografò i seimarines impegnati nella sistemazione del gran-de vessillo a stelle e strisce. Pochi giorni dopo, l’im-magine fu pubblicata sulla prima pagina del NewYork Times, ma ben presto fu prodotta su carto-line, francobolli e poster venduti per ricavare de-naro e sostenere la produzione bellica. Nelle piaz-ze di tantissime città americane, quell’immagi-ne divenne il modello per la costruzione di sta-tue di bronzo, in onore dei caduti di guerra.Come ha scritto Michele Smargiassi, giornalistae studioso di storia della fotografia, «quasi nes-suno farà più notare che quell’immagine non rap-presenta l’evento che tutti pensano rappresenti:non è affatto l’alzabandiera della vittoria, ovve-ro il primo alzabandiera, ma un semplice rim-piazzo, una sostituzione. Però è baciata dal diodella Forma. Da sessant’anni l’America rendeomaggio a un non-evento grandiosamente pit-torico e ha ormai dimenticato l’evento sempli-cemente fotografico».

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Militari statunitensiissano la bandieraamericana a Jwo Jima:la fotografia è diventatail simbolo delladeterminazioneamericana a combatterefino alla vittoria.

La carriera di Capa

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Si badi: non si tratta di un falso, in nessuno dei sensi che il termine potrebbe essere usa-to. Il luogo è davvero Jwo Jima, il giorno è quello della conquista del monte, cioè dellavittoria, e non c’è stato alcun artificio di laboratorio. Semplicemente, non raffigura l’e-pisodio che tutti credono esso esprima in presa diretta. È stata la sua perfezione artistica(«il dio della Forma») a trasformarla in icona, in simbolo. Qualcosa di simile è accaduto anche a un’altra bandiera della vittoria, quella fotografatadal corrispondente di guerra russo Evgenij Chaldej, che ha esplicitamente dichiarato diessersi ispirato alla foto di Rosenthal. La scena, in questo secondo caso, è il Reichstag diBerlino, appena conquistato dall’Armata Rossa dopo violentissimi combattimenti. La bat-taglia era iniziata all’alba del 30 aprile 1945, perché Stalin aveva ordinato di conquista-re quell’edificio entro il 1° maggio, dopo averlo identificato come il simbolo della «be-stia fascista». In effetti, il 28 febbraio 1933, il Parlamento era stato incendiato dai nazi-sti, che poi avevano rovesciato l’accusa sui comunisti e varato, in seguito all’incidente, laloro legislazione d’emergenza, che permise l’internamento di tutti gli oppositori. Per compiacere Stalin, il 1° maggio, il generale russo Perewjorkin telegrafò a Mosca rife-rendo che il giorno prima, «verso sera, quando il sole iniziò a declinare e a illuminare diraggi rossi l’intero orizzonte, due dei nostri soldati hanno issato la bandiera della vittoriasulla cupola distrutta dagli incendi». In realtà, anche se il «vessillo n. 5» del LXIX corpodei fucilieri della guardia era stato effettivamente collocato sul tetto del Reichstag, al suointerno continuava una confusa battaglia, che si concluse solo il pomeriggio del 2 mag-gio: il giorno in cui arrivò a Berlino Evgenij Chaldej. Il fotografo era partito da Mosca con un’idea geniale e con il materiale necessario per rea-lizzarlo: un’ampia tovaglia rossa, su cui un suo zio sarto aveva cucito, in un angolo, unagrande falce e martello. Dopo aver convinto alcuni soldati a seguirlo sul tetto, Chaldejscattò un intero rullino di fotografie, e il suo scatto più celebre presenta un soldatoche, in bilico su una guglia, issa la bandiera sovietica. In realtà, anche Chaldej era ar-rivato tardi, e la foto – pur non essendo un falso, in senso stretto – non fissò una situa-zione in diretta, ma un altro non evento, o meglio qualcosa di ricostruito a posteriori, dopoche l’evento vero si era già verificato e concluso. Per di più, Chaldej dovette risolvere in fretta un altro problema. Infatti, una volta stam-pata l’immagine, il fotografo si accorse che il soldato della bandiera aveva al polso alme-no due orologi, che, evidentemente, aveva rubato ai civili o ai tedeschi morti. Poiché l’e-roe della vittoria non poteva certo essere accusato di essere un rapinatore, fu necessario ri-toccare il polso del soldato, affinché l’icona esprimesse tutto il proprio potere simbolico.

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Un soldato dell’Armatarossa issa sul

Reichstag di Berlinola bandiera russa.

Il simbolo della«bestia fascista»

Il problemadei due orologi

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Il bambino di VarsaviaLo sterminio degli ebrei d’Europa è stato ampiamente fotografato e documentato, in tut-te le principali fasi del suo svolgimento. Molte fotografie furono scattate da singoli sol-dati tedeschi, dotati di una personale macchina fotografica. I documenti più importan-ti, però, sono i materiali che in particolari circostanze alcuni ufficiali tedeschi inviaronoa Berlino, a corredo dei loro rapporti. Il primo di questi dossier fu trasmesso nel 1943 dalgenerale Jürgen Stroop, dopo la repressione della rivolta del ghetto di Varsavia. Si trat-ta di un ampio volume rilegato in cuoio nero, intitolato Non esiste più un quartiere ebrai-co a Varsavia. Le fotografie presentano soldati tedeschi in azione, edifici in fiamme o com-pletamente distrutti dal fuoco, gruppi di ebrei catturati. Tra queste immagini, la più famosa è certamente quella che, al centro, in primo piano,mostra un bambino con le braccia alzate. Al suo fianco, a sinistra, si trova un gruppodi circa 15 persone terrorizzate, mentre alle sue spalle è ben visibile un soldato delle SS.Quest’uomo è stato identificato con certezza: si tratta di Joseph Blösche, che prestò ser-vizio nel ghetto dal settembre 1941 ed era famoso per la sua spietatezza; partecipò all’a-zione di repressione della rivolta ed è riconoscibile anche in altre immagini del Rappor-to Stroop. Sull’identità del bambino e sulle circostanze in cui la fotografia fu scattata, in-vece, non c’è accordo fra gli studiosi. Infatti, nel 1982, Tsvi Nussbaum – deportato a Ber-gen Belsen e sopravvissuto allo sterminio – dichiarò che probabilmente quel ragazzino eralui, fotografato al momento del suo arresto davanti a un hotel di Varsavia, situato fuoridal ghetto; il rastrellamento avvenne nel luglio 1943, cioè due mesi dopo la liquidazionedel ghetto effettuata da Stroop e documentata nel suo rapporto.Nussbaum ha sempre lasciato il beneficio del dubbio, né ha mai giurato di essere davve-ro lui il bambino di Varsavia. In effetti, vari elementi sembrerebbero proprio indicare chesi tratti di un’altra persona. Le persone della foto, infatti, indossano pesanti cappotti e ve-stiti da inverno, il che rende più probabile che la scena si sia svolta in aprile, al tempo del-la rivolta. In secondo luogo, poiché l’arresto di Nussbaum è avvenuto in luglio, se fossedavvero lui il bimbo con le mani alzate, bisognerebbe ipotizzare che il rapporto (completodi album fotografico) sia stato confezionato verso la fine di quel mese. Invece, pare piùprobabile che Stroop abbia inviato a Berlino il suo dossier tra il 24 maggio (data che fi-gura sull’ultimo dei telegrammi inviati mentre l’azione era ancora in corso) e il 18 giu-

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Una delle immagini piùcelebri della secondaguerra mondiale: gliebrei del ghetto diVarsavia vengonoradunati dai tedeschiper essere deportati.Tra questi, in primopiano, un bambinospaventato con le manialzate.

Il dossierdi Jürgen Stroop

Dubbio sull’identitàdel bambino

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gno 1943 (data in cui gli fu conferita la croce di ferro di prima classe, un’importante de-corazione militare).All’interno del dossier fotografico di Stroop, questa foto aveva un preciso significato. Nonsi dimentichi che il materiale allegato dal generale nazista al suo rapporto non aveva lo sco-po di suscitare compassione, bensì era stato raccolto con il proposito di documentare egiustificare una durissima azione di sterminio appena completata. Non a caso, il dos-sier si apre con l’immagine della sede del Consiglio ebraico di Varsavia devastata dal fuo-co, quasi a precisare che, effettivamente, il ghetto di Varsavia era stato raso al suolo. Par-lando dei suoi soldati, Stroop dice che hanno compiuto la loro missione «da soldati esem-plari, indefessamente, in un vero spirito di cameratismo e di coesione». Per lui (e per Himm-ler, destinatario del rapporto) ciò voleva dire che erano stati uomini forti, duri ma al tem-po stesso equilibrati: chiamati a svolgere un compito difficilissimo, non sono crollati a li-vello emotivo, neppure quando hanno dovuto arrestare o uccidere donne e bambini. «Dun-que, in questo album concepito in perfetta coerenza con il sistema di valori SS, la presen-za di questa fotografia non è assolutamente un caso: non cerca in nessun modo di solleci-tare la pietà per quelle che consideriamo, noi, delle vittime innocenti, ma al contrario hala funzione di illustrare la forza d’animo di un grande capo, Jürgen Stroop, nonché la de-vozione ammirevole di quelle truppe d’élite, capaci di sormontare l’apparente disumanitàdella loro missione in nome dell’ideale nazista. In definitiva, attraverso un ribaltamento ra-dicale dei valori occidentali giudaico-cristiani, questa fotografia sottolinea e intende dimostrarel’eroismo che nasce dalla capacità di agire, senza lasciarsi ostacolare dalla propria umanitàné dai propri sentimenti, contro gli uomini, le donne e i bambini ebrei, designati dal re-gime e dal suo capo come i nemici più temibili del popolo tedesco» (F. Rousseau).È interessante notare che, al processo di Norimberga, la pubblica accusa selezionòcome prove a carico degli imputati nazisti 18 delle 53 fotografie del rapporto di Stroop;l’immagine del bimbo di Varsavia fu tra quelle scelte, ma non svolse un ruolo speciale.Solo alla fine degli anni Sessanta il bambino iniziò a incarnare il genocidio nella sua to-talità, assumendo il potentissimo valore simbolico che ci è familiare.

Fotografare AuschwitzRealizzare fotografie nei campi di sterminio era severamente vietato. Talvolta, tuttavia, leautorità di Berlino ordinarono dei veri e propri reportage fotografici, che vennero cura-ti nei minimi dettagli. È il caso del cosiddetto Album di Auschwitz, realizzato tra la finedi maggio e l’inizio di giugno 1944 e ufficialmente intitolato Umsiedlung der Juden ausUngarn (Il trapianto degli ebrei di Ungheria). Le 28 pagine dell’album hanno un forma-to di 25 x 35 cm; ciascuna pagina ospita in genere 3 o 4 fotografie, per un totale di 197immagini (oggi, però, l’album contiene solo 193 fotografie: quattro sono andate disper-se). Probabilmente, operarono diversi fotografi delle SS, e non un unico operatore.L’album si apre con due immagini di propaganda, cioè con due foto che ritraggono alcu-ni ebrei in pose e con fattezze considerate tipiche; nelle intenzioni dei redattori dell’album,quei loschi personaggi erano l’incarnazione del Male, e quindi fornivano la più chiaragiustificazione della soluzione finale, che almeno ad Auschwitz toccò il suo vertice pro-prio con la liquidazione in massa degli ebrei trasferiti dall’Ungheria. Le pagine seguenti documentano in modo minuzioso l’arrivo dei convogli, lo sbarco deideportati sulla nuova rampa (all’interno di Birkenau) e la selezione. Uomini (maschi adul-ti e ragazzi) e donne (coi bambini più piccoli) vengono divisi in due gruppi e la proce-dura avviene di giorno, con calma, in modo ordinato e tranquillo; sotto questo profilole foto sono ingannevoli, in quanto molte testimonianze parlano di arrivi notturni e disbarchi che sono condotti in fretta, a gran velocità, per traumatizzare i deportati e impe-dir loro di capire dov’erano stati condotti. Per terrorizzare ulteriormente i nuovi arriva-ti, spesso si faceva ricorso a spari, percosse e cani. Vengono poi mostrati i due diversi destini degli abili al lavoro (inviati nei lager, dopo es-sere stati immatricolati) e degli improduttivi (diretti alle camere a gas e ai crematori). Le

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Lo scopo deimateriali fotografici

Foto ingannevoli

L’Album diAuschwitz

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procedure di eliminazione non sono state fotografate, così come gli edifici dei cremato-ri fanno la loro comparsa solo da lontano, nelle foto che in primo piano (dall’alto) inquadranoi vagoni appena arrivati. La realtà dello sterminio, però, è onnipresente, o meglio perce-pibile nelle lunghe file di deportati selezionati che si dirigono verso i crematori, nei grup-pi di persone che, fra gli alberi del bosco di betulle, attendono di essere immesse nelle ca-mere a gas, nella gigantesca mole di effetti personali accumulati nel cosiddetto Kanada,un vasto quartiere di baracche-magazzino, ognuna delle quali ospitava un genere parti-colare di oggetti (le posate, gli occhiali, le scarpe…).Nell’estate 1944, con l’arrivo in massa degli ebrei ungheresi, l’attività di messa a mortead Auschwitz II-Birkenau divenne frenetica. Poiché i quattro grandi crematori entrati infunzione nel 1943 non erano sufficienti a eliminare tutti coloro che erano stati destina-ti al gas e a distruggerne i cadaveri, fu necessario ricorrere a due procedure supplemen-tari. Dietro l’edificio dell’immatricolazione (denominato Zentral Sauna) venne messa dinuovo in funzione come camera a gas la casa colonica che era stata denominata Bunker2; i cadaveri uccisi in questa piccola costruzione venivano bruciati a cielo aperto, nei pres-si della casa stessa. Una procedura simile venne impiegata anche nei dintorni del CrematorioV, con grandi roghi e pire, per integrare il lavoro dei forni, che, secondo alcune testimo-nianze, erano difettosi (mentre, secondo altre, semplicemente non erano sufficienti perbruciare l’enorme numero di cadaveri che andava accumulandosi).Proprio in questa fase parossistica dello sterminio, furono scattate nei pressi del Crema-torio V alcune fotografie clandestine di straordinario valore documentario. Per ca-nali che non sono del tutto noti (forse grazie a un lavoratore civile polacco di nome Mor-darski, oppure ricevendola dal Kanada) i membri del Sonderkommando (i gruppi di de-portati obbligati a collaborare con le autorità naziste all’interno dei campi) riuscirono aentrare in possesso di una macchina fotografica; un detenuto (David Szmulewski) si col-locò sul tetto, che in precedenza era stato appositamente danneggiato per poter simula-re la riparazione. Dall’alto, Szmulewski riuscì a passare l’apparecchio a un detenuto gre-co di nome Alex (il cognome è sconosciuto), che scattò quatto fotografie.Le prime due fotografie furono scattate dall’interno del Crematorio V, sicché il soggettocentrato (la pira, su cui un gruppo di uomini della squadra speciale getta nuovi cadaveri)è come incorniciato dal quadrato nero dell’apertura della porta della camera a gas.Il terzo e il quarto scatto vennero effettuati all’aperto; le precauzioni, pertanto, dovette-ro essere maggiori: Alex non poté più tenere la macchina correttamente, cioè stare in po-

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L’arrivo adAuschwitz II-Birkenaudi un gruppo di ebreiungheresi.

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DOCUMENT INota di accompagnamentoalle fotografie

Il 4 settembre 1944, due detenuti politici polacchi internati ad Auschwitz (Józef Cyrankiewicz e Sta-nislaw Klodzinski) riuscirono a far avere alla resistenza polacca un biglietto, in cui commentavano lefotografie scattate da Alex presso il Crematorio V di Birkenau. L’originale del messaggio è conservatoal Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau.

Urgente. Inviate il più rapidamente possibile due rullini di pellicola in metallo per macchinafotografica 6x9. Possiamo fare foto. Inviamo foto di Birkenau che mostrano i detenuti inviatialle camere a gas. Una foto rappresenta uno dei roghi all’aria aperta in cui si bruciano i ca-daveri, poiché il crematorio non è grande abbastanza per bruciarli tutti. Davanti al rogo ca-daveri che stanno per esservi gettati. Un’altra foto riproduce un luogo nel bosco in cui i de-tenuti si spogliano, così credono di farsi una doccia. A ruota saranno inviati nella camera agas. Inviate i rullini prima possibile. Inviate subito le foto a Tell [nome in codice di Teresa La-socka-Estreicher, della resistenza polacca a Cracovia, n.d.r.] – pensiamo che foto ingran-dite possano essere inviate più lontano.

G. DIDI-HUBERMAN, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005,p. 31. Traduzione italiana di D. TARIZZO

sizione eretta e centrare con precisione il soggetto che avrebbe voluto inquadrare. Forse,addirittura, la seconda coppia di immagini è stata scattata da un uomo in movimento,mentre teneva l’apparecchio all’altezza della propria pancia.Malgrado ciò, un’immagine è relativamente nitida, almeno nell’ingrandimento: si vedo-no molto bene delle donne che, dopo essersi spogliate all’aperto, stanno per entrare nel-la camera a gas. L’altra fotografia, invece, coglie solo le cime delle betulle, mentre il restodell’immagine è del tutto annerita dalla luce del sole. A quel punto, Alex lanciò di nuo-vo la macchina sul tetto: l’intera operazione durò circa 15 secondi, 20 al massimo.Szmulewski nascose l’apparecchio in un secchio; la pellicola fu estratta al campo base (Au-schwitz I) e fatta uscire dal lager da Helena Dantón (che era impiegata presso la mensadelle SS) in un tubetto da dentifricio. Il 4 settembre 1944, la resistenza polacca di Cra-covia entrava in possesso delle prime prove visive dello sterminio degli ebrei ad Auschwitz.

Fotografi di guerra in VietnamSecondo numerosi storici, il conflitto in cui la fotografia ha avuto il peso più importan-te è stato la guerra in Vietnam, nella sua fase più drammatica: quella degli anni 1965-1973,che videro il massiccio e diretto coinvolgimento delle forze armate americane. In Indo-cina, cronisti, corrispondenti di guerra e fotografi inizialmente furono lasciati liberi di scri-vere o riprendere qualsiasi cosa, senza alcuna speciale censura. Il risultato fu la prima guer-ra in diretta, cioè una grande quantità di immagini e di scene, spesso molto potenti o trau-matiche, che invasero le case dei cittadini americani per mezzo dei quotidiani, delle rivi-ste o della televisione. Secondo Marshal McLuhan (uno dei primi intellettuali che intuìla nuova forza assunta dai mass media, oltre a cogliere che, grazie a essi, il mondo si eratrasformato in un unico villaggio globale), «la televisione portò la brutalità della guerra neisalotti delle case. La guerra del Vietnam fu persa nei soggiorni americani, non sul cam-po di battaglia».Forse, questo giudizio è troppo semplicistico, in quanto bisogna tener conto di numero-si altri fattori, ciascuno dei quali risultò determinante o contribuì alla sconfitta america-na. Senza dubbio, le più alte autorità politiche e militari statunitensi sottovalutarono ladeterminazione a resistere a oltranza del popolo vietnamita, o per lo meno del suo grup-po dirigente, che riuscirono a sopportare le terribili perdite dei bombardamenti aerei e

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La brutalità dellaguerra in casa

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delle azioni militari di terra. In questo contesto, impossibilitati com’erano ad andare finoin fondo – cioè a invadere il Vietnam del Nord – per timore di una reazione sovietica, laguerra non poteva essere vinta.Mentre il conflitto si prolungava all’infinito, senza risultati tangibili, i fotografi e ci-neoperatori americani (su questo punto McLuhan ha perfettamente ragione) posero,grazie al loro lavoro, una serie di interrogativi sempre più seri e inquietanti, che spin-sero un numero crescente di cittadini ad assumere un atteggiamento contrario alla guer-ra. Uno dei primi e più drammatici servizi fotografici fu realizzato nel 1965, per la rivi-sta Life, da Larry Burrows, che documentò un episodio di guerra a bordo di un elicotte-ro colpito dalle mitragliatici vietnamite. «Ero combattuto – disse Burrows a posteriori –tra l’essere un fotografo e l’essere un uomo con normali sentimenti umani. Non è facilefotografare un pilota che sta morendo tra le braccia di un amico e poi fotografare l’ami-co che crolla… Stavo semplicemente sfruttando il dolore degli altri?».In altri casi, i fotografi si trovarono in una situazione meno difficile e meno problemati-ca, in quanto il loro lavoro assunse un preciso scopo di denuncia dei caratteri sem-pre più brutali che il conflitto stava assumendo. Si pensi, in primo luogo, al sergenteRonald L. Haeberle, che il 16 marzo 1968 documentò l’eccidio compiuto da un repar-to americano nel villaggio di My Lai, ove furono uccisi 347 civili, accusati di aver aiuta-to i vietcong.In un primo tempo, Haeberle tenne per sé le diapositive che aveva scattato, e che pub-blicò solo un anno dopo gli eventi, in occasione dell’inchiesta condotta dalle autorità mi-litari. Le fotografie prese da Eddie Adams per la Associated Press, invece, fecero subito ilgiro del mondo: si trattava di immagini a dir poco imbarazzanti, visto che ritraevano ilgenerale sud-vietnamita Nguyen Ngoc Loan, mentre minacciava un vietcong alla tem-pia e poi lo uccideva a sangue freddo.Ancora più celebre divenne la fotografia scattata nel 1972 dal fotografo sud-vietnamitaNick Ut, dopo che una bomba al napalm americana aveva per errore colpito un vil-laggio di contadini. Dopo essersi liberata dei vestiti in fiamme, Kim-Phuc, di nove anni,correva disperata invocando soccorso e urlando: «Nong quá! Nong quá!» (ovvero: «Trop-po caldo! Troppo caldo!»). Nick Ut stesso le fornì i primi soccorsi, ma furono poi neces-sari almeno 17 interventi chirurgici, in 14 mesi, per salvarla. L’11 novembre 1996, Kim-Phuc si riconciliò pubblicamente con l’ex-capitano John Plummer, che nel 1972 avevadato l’ordine di sganciare le bombe al napalm, ma che poi, profondamente colpito daglieffetti della sua azione militare, nel frattempo era diventato sacerdote.

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Al centro dell’immagine,kim-Phuc, una bambinavietnamita, corredisperata dopo che unabomba al napalm avevacolpito il suo villaggio.

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La fotografia comemezzo di denuncia

Kim-Phuc

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R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c iRobert Capa, fotografo di guerra

Robert Capa divenne famoso come fotografo di guerra nel 1936, allorché la rivista francese Vu pub-blicò il servizio che egli aveva realizzato in Spagna, lavorando insieme a Gerda Taro. Tra le foto di quelservizio, fece subito scalpore quella che era riuscita a bloccare l’istante della morte di un miliziano re-pubblicano.

Davanti a Cordova Capa deve aver scattato la fotografia del miliziano che cade morendo,la più famosa fotografia della Guerra civile spagnola. […] Lo stesso uomo si può scorgerein molte altre foto; in un gruppo di miliziani che saltano una trincea e corrono in avanti. Suiloro berretti sono chiaramente leggibili le iniziali del sindacato anarchico, la CNT. Il milizianofu colpito contemporaneamente dal proiettile nemico e dall’obiettivo. Oltre a lui e al suo fu-cile nella foto si vedono simbolicamente solo il cielo e la terra. L’aspetto più significativo diquesta fotografia è che la macchina fotografica ha fissato qualcosa che non era visibile: ilmomento della morte. Capa stesso vide l’immagine del miliziano che cade morendo solo aParigi. Fu pubblicata su Vu a settembre e suscitò molta attenzione. Per i lettori della rivistaillustrata non solo il momento in cui era stata scattata la foto era scioccante e sensazionale,altrettanto spettacolare era il fatto che Capa si fosse trovato in pericolo di vita per farla. Il ri-schio corso dal fotografo garantiva l’autenticità ed era inseparabile dall’effetto provocato dal-l’immagine, che suscitava partecipazione e turbamento. Taro e Capa si consideravano partein causa, soggetti colpiti e alleati in questa guerra, e la foto del miliziano che cade morendoriesce a esprimerlo perfettamente. La disponibilità con cui mettevano in gioco la loro vita inSpagna affondava le radici nelle loro convinzioni ed esperienze politiche. La pressione eser-citata dalle riviste illustrate per ottenere foto sensazionali e le conseguenti riflessioni riguardoalle possibilità di carriera e affermazione sul mercato, da sole non potevano bastare a spin-gere i fotografi fino a questo punto. Per Gerda Taro e Robert Capa i criteri adottati nella va-lutazione dei pericoli che correvano non erano legati soltanto all’ambizione professionale,anche se loro, come ogni reporter in zona di guerra che si rispetti, avevano dovuto calco-lare che uso farne.

La tanto citata frase di Capa – «se le foto non sono abbastanza buone, è perché non siè abbastanza vicini» – viene usata perlopiù come ostentazione di forza e goffa spavalderia

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Un gruppo direpubblicani spagnoli inuna fotografia di Robert

Capa: tra loro sonopresenti alcune donne.

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di un fotografo di guerra. Per quanto Gerda e lui andassero, e ve ne sono prove, «vicino vi-cino», la sua dichiarazione non deve essere semplicemente ridotta alla vicinanza nello spa-zio. La scelta di abbandonare il punto di vista distanziato e sicuro dell’osservatore nascevadal bisogno di partecipare e d’essere parte di qualcosa, era la scelta della solidarietà. La vi-cinanza interiore e la comunanza ideologica richiedevano – un po’ come gli uomini e le donneche si unirono volontari alle milizie – una vicinanza che superava i confini. Questa vicinanzava considerata un elemento centrale dell’etica professionale di Capa e Taro. Non la distanzaimparziale e l’osservazione pronta a sezionare, ma la partecipazione emotiva e l’esperienzaintensa e diretta decidevano il loro modo di agire. […]

La guerra civile spagnola è la prima guerra moderna anche dei media; soprattutto la rap-presentazione fotografica spingeva il pubblico della stampa di massa a diventare spettatoreimmaginario di rivoluzione e guerra. Gli avvenimenti in Spagna erano un evento mediatico,avevano contemporaneamente carattere d’intrattenimento, informazione e propaganda.Giornalisti e fotografi professionisti, ma anche numerosi dilettanti – combattenti, sostenitoripolitici e simpatizzanti – prendevano la macchina fotografica e la penna per fissare le loroimpressioni e renderle pubbliche. […] Nelle fotografie e nei film, i fascisti trovarono il mate-riale per glorificare la guerra. I difensori della Repubblica e i loro alleati usarono gli stessi mezziper smascherare la politica mediatici diffondere le loro idee. […] La scelta di campo degliemigrati Taro e Capa e la fotografia in azione che nasceva con loro avevano origine nelle mi-nacce e nelle perdite subite sotto il fascismo hitleriano, ma erano anche legate, indiretta-mente, al clima politico della Francia del Fronte popolare. La loro carriera fotografica, ma an-che la storia degli effetti provocati dalle loro fotografie, non è immaginabile senza il grandeinteresse da parte dell’opinione pubblica alla guerra di Spagna e senza la stampa di sini-stra, allora così presente con riviste e giornali di grande tiratura. Le possibilità di pubblica-zione dipendevano in misura notevole dall’uso propagandistico delle loro fotografie. Capae Taro accettarono di prestare questo servizio – laddove rispondeva alle loro visioni delmondo e dell’umanità – non soltanto per ragioni commerciali, ma anche perché era un’op-portunità per agire contro il fascismo attraverso il loro lavoro.

I. SCHABER, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, Roma,DeriveApprodi, 2007, pp. 131-133 e 136. Traduzione italiana di E. DORIA

Le fotografie scattate nei pressidel Crematorio V, nell’estate 1944

Nella sua attenta analisi delle quattro fotografie scattate nell’estate del 1944 nei pressi del Cremato-rio V di Auschwitz II–Birkenau, il filosofo francese G. Didi-Huberman offre alcune indicazioni di metodo va-lide per qualsiasi lavoro storiografico che si serva delle immagini. Ogni dettaglio dev’essere accuratamentetenuto in considerazione, pena l’errata valutazione della fotografia e degli scopi di chi l’ha scattata.

Ci sono due modi di prestare disattenzione, per così dire, a im-magini del genere: la prima consiste nel renderle ipertrofiche, nel vo-lerci vedere tutto. Consiste, in altre parole, nel farne altrettante iconedell’orrore. Per far questo, bisognava che i cliché originali fossero resipresentabili. E a tal fine non ci si pensò due volte a trasformarli com-pletamente. Così, la prima fotografia della sequenza esterna [quella cheritrae un gruppo di donne, nude, che stanno per entrare nella cameraa gas del Crematorio V, n.d.r.] ha subito tutta una serie di ritocchi: l’an-golo inferiore destro è stato ingrandito; poi ortogonalizzato, in modotale da rendere più normale un’inquadratura che non lo era affatto; einfine è stato ritagliato e isolato dal resto (ridotto a scarto). Ancora peg-gio, i corpi e i volti delle due donne in primo piano sono stati ritoccati,un volto lo si è inventato, e i seni sono stati addirittura ringiovaniti…Questa sofisticazione aberrante – non so chi ne sia l’autore e quali fu-rono le sue intenzioni – rivela una volontà folle di dare volto a ciò chenell’immagine è solo movimento, scompiglio, evento. […]

L’altro modo di prestare disattenzione consiste invece nel ridurree asciugare l’immagine. Consiste, in altre parole, nel vedervi solo undocumento dell’orrore. Per quanto strano possa sembrare in un con-testo – la disciplina storica – che di solito rispetta il suo materiale diindagine, le quattro fotografie del Sonderkommando sono statespesso trasformate allo scopo di risultare più informative di quanto lo

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Una delle fotografiescattate clandestinamenteda un membro delSonderkommandodel Crematorio V adAuschwitz nell’estatedel 1944.

Spiegal’affermazione:«Taro e Capa siconsideravanoparte in causa».

Da che cosa nacquela scelta di RobertCapa e di GerdaTaro di abbandonareil punto di vistadistanziato e sicurodell’osservatore?

Spiegal’affermazione:«Gli avvenimenti inSpagna erano unevento mediatico».

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fossero originariamente. È un altro modo di renderle presentabili e di restituire loro unvolto… Si nota, ad esempio, che le immagini della prima sequenza [le fotografie che furonoscattate dall’interno della camera a gas e che ritraggono un gruppo di uomini del Son-derkommando intenti a bruciare all’aperto dei cadaveri, n.d.r.] vengono regolarmente rein-quadrate. C’è senz’altro, in questa operazione, una – buona e inconscia – volontà di avvi-cinarsi isolando quanto c’è da vedere, purificando la sostanza dell’immagine dal suo pesonon documentario.

Ma, reinquadrando queste fotografie, si effettua una manipolazione al tempo stesso for-male, storica, etica e ontologica. La massa nera che circonda la visione dei cadaveri e dellefosse, questa massa in cui nulla è visibile restituisce, in realtà, un segno visivo altrettanto pre-zioso della rimanente superficie impressionata. Questa massa in cui nulla è visibile è lo spa-zio della camera a gas: la camera oscura in cui è stato necessario ritirarsi per porre in luceil lavoro del Sonderkommando, fuori, al di sopra delle fosse di incinerazione. Questa massanera ci restituisce dunque la situazione stessa, lo spazio di possibilità, la condizione di esi-stenza delle fotografie. Sopprimere una zona d’ombra (la massa visiva) a beneficio di unaluminosa informazione (l’attestazione visibile) equivale inoltre ad affermare che Alex avrebbepotuto tranquillamente scattare le sue foto all’aria aperta. Significa disprezzare il rischio dalui corso e la sua astuzia di resistente. Reinquadrando queste immagini, senza dubbio si èpensato di preservare il documento (il risultato visibile, l’informazione distinta). Ma se ne èsoppressa la fenomenologia, tutto ciò che faceva di queste immagini un evento (un processo,un lavoro, un corpo a corpo).

Poiché questa massa nera non è altro che il segno dello statuto ultimo secondo il qualebisogna guardare e comprendere queste immagini: lo statuto di evento visivo. Parlare quidi gioco di ombre e luci non è una fantasia da storico dell’arte formalista: significa invecenominare l’elemento portante di queste immagini. Esso appare come soglia paradossale traun interno (la camera della morte che protegge, in quel momento, la vita del fotografo) e unesterno (l’ignobile incinerazione delle vittime appena gasate). Esso offre l’equivalente dell’e-nunciazione nella parola di un testimone: interruzioni, silenzi, tono affaticato. Quando si dicedell’ultima fotografia [quella sbagliata, tutta nera e priva di immagini riconoscibili, n.d.r.] cheessa è semplicemente senza utilità – storica, beninteso – si dimentica tutto ciò di cui feno-menologicamente essa testimonia a proposito del fotografo: l’impossibilità di inquadrare, ilrischio corso, l’urgenza, la corsa forse, la goffaggine, l’accecamento di fronte al sole, il fiatocorto. Questa immagine è, formalmente, senza respiro: pura enunciazione, puro gesto, puroatto fotografico senza obiettivo (senza orientamento, senza alto né basso) che ci dà accessoalla condizione di urgenza nella quale furono strappati questi quattro lembi di reale all’infernodi Auschwitz. E anche questa urgenza fa parte della storia.

G. DIDI-HUBERMAN, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005,pp. 54-56. Traduzione italiana di D. TARIZZO

I fotografi americani durante la guerrain Vietnam

La guerra in Vietnam fu seguita da un numero elevatissimo di fotografi, pronti a cogliere gli atti dieroismo dei soldati, ma anche la loro disperazione e, al limite, i loro gesti più violenti e le azioni più cri-minali.

La Guerra del Vietnam è stata un’esperienza nuova per il giornalismo fotografico, per-ché per la prima volta i fotografi hanno potuto lavorare in completa libertà, senza alcuna cen-sura, incoraggiati a fotografare e a scrivere reportage sul conflitto e condotti ovunque vo-lessero recarsi. Per l’America, è stata una guerra diversa da tutte le altre. Inizialmente gli StatiUniti non ebbero un ruolo attivo nel conflitto e dovettero sforzarsi di giustificare la loro pre-senza nella regione, enfatizzando l’apprezzabile ruolo della loro missione. L’America volevache la storia del Vietnam venisse raccontata e invitò i giornalisti perché informassero l’opi-nione pubblica. In seguito questa politica improntata alla sincerità si sarebbe rivelataun’arma a doppio taglio, e gli aspetti più sordidi della guerra sarebbero apparsi sulle primepagine dei giornali, sulle copertine delle riviste e in televisione. A quel punto però, sarebbestato ormai troppo tardi per la censura. Ad alcuni corrispondenti invisi ai comandanti mili-tari fu proibito di recarsi in Vietnam, ma era chiaro che restrizioni più estese non avrebberoche accresciuto il fervore dei movimenti contrari alla guerra.

Oltre a facilitare il lavoro dei corrispondenti civili, l’esercito americano inviò centinaia difotografi militari in missione in tutto il Vietnam per fotografare la guerra dall’interno. I foto-

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Spiegal’affermazionesecondo la quale«reinquadrandoqueste fotografie,si effettua unamanipolazioneal tempo stessoformale, storica,etica e ontologica».

Per quale motivo, agiudizio dell’autore,non si devesopprimere la zonad’ombra presentenelle fotografie?

Per quale motivoè importante,secondo l’autore,perfino la fotografiache è risultata tuttanera?

Page 15: dell’immagine IPERTESTO - seieditrice.com · nev scomparvero: entrambi, infatti, erano ormai caduti in disgrazia e Stalin li aveva pri-vati di ogni carica all’interno del partito.

grafi in uniforme operavano spesso con modalità simili a quelle dei loro colleghi civili e ave-vano il compito di documentare con la massima completezza le attività dell’esercito ame-ricano nel sud-est asiatico. Fotografarono i vari corpi delle forze armate in tutti gli aspetti dellaloro vita in Vietnam e lo fecero in un modo diverso da quello dei civili, al loro interno, da fra-telli, da membri della famiglia. Vestivano le stesse uniformi dei soldati, mangiavano lo stessocibo, dormivano nelle stesse tende e ricevevano lo stesso salario degli uomini che fotogra-favano. Affrontavano anche gli stessi rischi e subivano le stesse perdite. Operavano senzaalcuna restrizione sul campo e molti di loro si trovarono in luoghi e situazioni di battaglia inac-cessibili ai fotografi civili. Durante quegli anni di guerra, i fotografi di guerra hanno avuto unaproduzione di vaste dimensioni, testimonianza inestimabile dell’esperienza del Vietnam. […]

Se da un lato il fotografo militare aveva il vantaggio di vivere la guerra dall’interno, dal-l’altro l’uniforme militare comportava alcun svantaggi. Ufficialmente tutte le fotografie scat-tate dai fotografi militari appartenevano alle forze armate. Anche se i fotografi militari eranopraticamente liberi di fotografare qualsiasi cosa, molte delle loro fotografie si persero nel tun-nel delle formalità burocratiche. […] Va ricordato, tuttavia, che il personale dei vari magaz-zini fotografici conservò un gran numero di testimonianze di grande valore sul Vietnam, purdovendo esaminare montagne di materiale, soprattutto nel periodo di maggiore coinvolgi-mento degli Stati Uniti nella guerra, quando, secondo un impiegato del Pentagono di allora,riceveva fino a 10 000 fotografie al mese dal solo esercito. Inoltre molti fotografi riuscivanoa conservare stampe e a volte anche negativi e a duplicare diapositive di immagini che sisarebbero altrimenti smarrite per sempre. Grazie alla loro opera di raccolta e al lavoro de-gli archivisti ufficiali il vasto materiale dei fotografi militari in Vietnam è stato conservato edè oggi ancora disponibile.

I fotografi di guerra che lavoravano per le varie pubblicazioni militari, come Stars & Stri-pes o Leatherneck, non dovettero passare attraverso le trafile burocratiche di Washington.Nella maggior parte dei casi operavano esattamente come i fotografi civili, recandosi libe-ramente su tutti i campi di battaglia, scattando fotografie e inviandole in tutta fretta alle re-dazioni dei periodici. Stars & Stripes era talmente simile a un giornale civile che un colon-nello americano lo soprannominò Hanoi Herald e lo tacciò di tradimento in seguito allapubblicazione di un articolo a firma di uno dei suoi corrispondenti, Bob Hodierne. Un clas-sico esempio della libertà d’azione di cui godevano i fotografi militari è costituito dalle foto-grafie sul massacro di My Lai, scattate dal sergente Ronald Haeberle. Probabilmente que-ste foto non avrebbero mai visto la luce del giorno se Haeberle le avesse tutte consegnatenelle mani dei suoi superiori. Invece diede loro soltanto i rullini in bianco e nero e si tennequelli a colori, che furono in seguito sviluppati e pubblicati. Fu così che il fotografo militareRonald Haeberle divenne noto per aver fotografato i momenti più ingloriosi e infamanti del-l’America durante la guerra in Vietnam. […]

A My Lai, soltanto in un’occasione i soldati manifestarono una certa preoccupazione perla presenza della macchina fotografica di Haeberle. Fu quando il fotografo raggiunse ungruppo di soldati e di civili, quattro donne e tre bambini, rannicchiati dietro un chiosco dibambù. La più giovane delle tre donne stava riabbottonandosi la camicetta. Qualcuno deisoldati aveva tentato di strapparle i vestiti, ma una delle donne più anziane aveva difeso laragazza, scacciando gli uomini. Quando uno dei ragazzi notò la macchina fotografica di Hae-berle urlò: «Oh, Oh! », non si sa bene se per ammonire il fotografo o per mettere in guardiai compagni. Haeberle una foto dei civili, poi si voltò e fece per andarsene. «Tutt’un tratto –bam, bam, bam! Mi volto e vedo questa gente cadere a terra». Haeberle ha calcolato di es-sere stato testimone diretto di almeno 50 uccisioni di civili vietnamiti a My Lai, tra cui diversibambini [le vittime totali del massacro furono in realtà 347, n.d.r.].

N. MILLS, Fotografi in prima linea, Bresso, Hobby & Work Italiana, 1993, pp. 9-11 e 135-136.Traduzione italiana a cura di Servizi Estero – Desio/MI

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

Spiegal’espressione: «gliaspetti più sordididella guerra».

Di quali privilegigodevano i fotografimilitari, rispetto aglialtri soldati?

Che cosa volevaindicare l’ufficialeamericano cheribattezzò HanoiHerald la rivistaStars & Stripes?