DELLE VOLTE IL VENTO

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Delle volte il vento fa uno strano giro e genera destini nuovi, in rapido divenire.Un viaggio verso una terra promessa che non c’è. L’approdo su una spiaggia di fuoco che è avamposto di un altro domani e gabbia dorata di un’idealità perduta. La nostalgia del ritorno compressa in mille ricordi sedimentati senza valigia e un Salento sempre sospeso tra un passato e un futuro troppo lenti. In mezzo due donne scandalosamente forti e radicate nel loro vissuto ma esposte a un’incertezza nucleare. Un continuo misurarsi con l’orizzonte di un mare che unisce e divide, esaspera la percezione, adultera i colori. Delle volte il vento.

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traversamenti | 02

collana diretta da Anna Chiriatti

Traversamenti sono incontri di creature, di pensieri, di luoghi, di storie,passioni, percorsi, progetti, memorie.

Traversamenti sono narrazioni di esperienze, avventure, nostalgie, de-sideri, partenze. Ritorni. Di fughe e di sogni a occhi aperti. Sentimenti eincanti di realtà.

Sono movimenti obliqui, in bilico sugli argini di cronaca e racconto. Inda-gano differenze. Scrutano orizzonti. Scavano le rocce. Scandagliano i fondali.

Traversamenti sono interrogazioni del tempo, sconfinamenti di spazi,oltrepassamenti di frontiere. Pietre di fionda che frantumano vetri.

Sono tensioni di futuro.Traversamenti.

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Milena Magnani

Delle volte

il vento

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L’autrice ringrazia per il prezioso contributo:Mino Specolizzi, che ha collaborato al reperimento dei testi ap-partenenti alla tradizione popolare salentina e ne ha curato le ver-sioni riportate nel romanzo.Woody Forlano, per la consulenza linguistica relativa all’idiomasalentino.Bashkim Hajdini, per aver offerto tempo e memoria.

Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel e Fax 0832 801528

www.kurumuny.it – [email protected]

ISBN 978-88-95161-77-8

Questo libro è stato pubblicato in prima edizione nel 1996 da Vallecchi editore.

© Edizioni Kurumuny – 2012

Progetto grafico di copertina: Lucio Montinaro.

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A mio nonno Alfredoperduto nel Paese

delle Aquile

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Delle volte il vento. Le stampava il vestito contro. Un vento di cartacce.

Di un odore che, si mormorava, provenisse dallaterra.

Lei lo contrastava con le mani, spostava l’abito chele si infilava tra le gambe.

Delle volte il vento. Di mare. Arrivava gonfio di ri-sate. Di sospensioni tra i gesti.

E allora lei si immobilizzava, quasi sempre conquell’ostinazione negli occhi, cercava qualcosa tral’orizzonte e il nostro essere qua.

Intorno a noi c’era un malfermo recinto di cartonie, oltre il recinto, persone a disperdersi nel litorale.Per lo più ragazzini che si dimenavano a tracannarebirra e sagome di padroni di cani che camminavanosvogliati, con il guinzaglio che gli scendeva dai polsi,a ciondolare.

All’inizio le dicevo soltanto: –Riposa gli occhi, ognitanto.

Ma lei stava lì in piedi, lo sguardo fisso contro ilmare, sembrava incantata dallo scintillio dei pesche-recci.

–Riposa gli occhi.Lo suggerivo ridendo, cercando di inserirmi in

qualche modo nel campo del suo sguardo.Ma niente. Non un cenno. Non una parola.

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Allora ho provato anch’io a guardare in direzionedel mare. A guardare assieme a lei.

Mi mettevo al suo fianco, e respiravo quel mostroinquieto in eterno svolgimento davanti a noi.

Delle volte il vento. Riempiva tutti gli spazi. Creavaun enorme spessore di nulla. Di sabbia impalpabile enulla.

Allora lei allargava le braccia, le spalancava comeun uccello in planata, e se ne stava così, come sel’unico suono che avesse senso ascoltare fosse il ba-tacchiare delle sue maniche sulle braccia.

Provavo a distrarla:–Guarda quel cane! Quel cane che sta correndo

dietro le onde!Ma niente. Occhi fissi contro un punto in mezzo al

mare, a un certo punto le si riempivano di lacrime.–Riposa gli occhi, per favore.

Alla fine non mi restava che toccarlo, il suo mondo,a pochi metri da lei. Sfioravo con le dita il bordo deicartoni che aveva puntellato per confinarsi dentro.Sollevavo il bottiglione per controllare se ci fosse an-cora del vino. Le radunavo i fogli di giornale che avevasparso ovunque.

E quella coperta insabbiata. Quella coperta cheprovavo a scrollare nonostante lei. Nonostante la sab-bia le arrivasse proprio dentro gli occhi.

La provocavo: –Scusami.

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Insistevo: –Scusami almeno.Ma niente. In piedi. Guardava là.

Una volta mi sono messa a dare calci, ho calciatoripetutamente quello che rimaneva del suo falò. Homaledetto la cenere che mi si appiccicava sui calzoni,e ho urlato con l’intento di essere offensiva, di offen-dere lei.

Ma solo un istante lei si era voltata. Imprevedibil-mente. Mi aveva proposto la sua espressione esterre-fatta. I suoi occhi contro i miei, era durato un attimo,giusto il tempo di sentirle dire: –Aq më bën–1 poi dinuovo, con lo sguardo, era tornata là.

Là c’erano le scie bianche dei barconi. E le bracciadei pescatori che sbrogliavano le corde. Staccavanogli ultimi ormeggi.

E spesso c’era anche lo sguardo incuriosito di unacoppia. Lei che sgomitava lui. Indicava Lume. Imitavale sue braccia a gabbiano contro il vento. Sghignaz-zava.

Le scie lente dei barconi. E il rumore dei motori adissolvere nel mare.

Avevo ancora il fiato corto per le grida: –E tu avrestilasciato l’Albania per vivere così?

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1 Non mi fai niente.

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Lei stava ferma. Non si girava. Tutt’al più ripetevail mio finale: –Così.

Allora succedeva che le arrivavo di spalle, la strat-tonavo, avanti e indietro: –Non puoi vivere qui, nonha senso, non puoi vivere così!

–Io puoi.–Senti, c’è un posto, vedi su? Oltre il piazzale c’è

un centro tenuto da un prete che per altre cinquedonne ha posto, e anche il mangiare, anche il man-giare danno!

–No, qui… qui…A quel punto la mandavo al diavolo. Io verso la mia

casa e lei là, dentro il suo recinto di cartoni. Che continuava a fissare i pescherecci in alto mare,

e di tutto un litorale faceva esistere soltanto quelli.

Il rimbalzo del sole asciuga lo sguardo. Sfoca tuttii contorni. Alla fine solo un’unica macchia, il mare.

Io tornavo verso casa, e incontravo le mogli dei pe-scatori sedute nei vicoli. Queste avevano dei raggi dirughe intorno agli occhi. E dei piccoli uncinetti ascomparire tra le dita.

Lo dicevano loro: –Il rimbalzo del sole asciuga losguardo.

Loro che avevano guardato per tutta una vita versoest, la linea piatta del mare: –Sfoca tutti i contorni.Alla fine è solo un’unica macchia. La vita.

Stavano sul trono di certe sedie impagliate, mi ri-

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volgevano impercettibili cenni di testa. Mai un salutodeciso. Come se a loro fosse concesso di esprimeresolo accoglienze a metà, che tanto ormai avevanol’abitudine di esistere in uno sfondo.

Mi usavano come tramite: –Dì a tua madre di venire.–Sì sì –Che è nato u Cocò, dille.–Che è nato?–è nato u Cocò, che sembra un angelo, dille.–Sì sì.

Che strano. Attraverso il tempo non riesco più aimmaginare come deve essere stato. Entrare in casavisibilmente frastornata per il vento e vedere l’espres-sione che induriva sul volto di mia madre.

–Cosa cerchi, cosa? –Pane, solo un po’ e vado. Mia madre scrutava da un cantone, me la ricordo

rigida a preparare l’innesco della discussione: –An-cora in spiaggia con quella donna, mi offendi!

Facevo dei cenni con le mani, di tagliar corto.E lei: –Che se lo compri, quella donna, il pane!

Come deve essere stato? Scivolare tra le stanze, trala vita di mia madre, e rivolgerle frasi prive di tono:

–Se vai da un certo Cocò, han detto. –Da chi? –Da Cocò, hanno detto. Aprire il frigorifero, tracannare un sorso d’acqua,

staccare due foglie da un cespo di insalata.

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Gesti che riuscivo a compiere con movimenti ec-cessivamente lenti, movimenti che rallentavo sempree soltanto per dimostrare una disinvoltura urtante,per poter dire a mia madre che tutto avveniva comese lei non fosse stata lì.

Che tanto, ovunque lei mi cercasse, il mio mondoera altrove.

E lei: –Come le donne che sono state stregate, nonstai né dentro né fuori di te.

Stavo in silenzio, arrotolavo il pane in un fogliomarrone.

–L’ha detto Sara, a parrucchiera, ha detto: ho in-contrato tua figlia, ‘ntra ll’occhi tene 2 la luce nera, cheforse quella donna la stregò.

Sovrappongo: uno scolapasta appeso a un chiodo,le bottiglie della conserva, il ferro per fare i minchia-reddhi.3

Sovrappongo: il sorriso di mio zi’ Giginu contornatoda crisantemi di plastica e madonne e rosari. E lafrase, scritta con la calligrafia incerta di mio padre:sei stato un grande faticatore e adesso riposi nellapace.

Sovrappongo: un istante muto, le bolle di umidonell’intonaco.

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2 Negli occhi tiene.3 Tipo di pasta alimentare casalinga ottenuta arrotolando l’impa-sto intorno a un ferro.

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Qualcuno in strada che dice: –Mi devi credere To-nino, se compri il computer poi vedi come ti passa piùveloce il tempo.

E Tonino dal suo panchetto d’appostamento cheinterrompe: –Sch! Il mare, non lo senti? è come seoggi fa il fruscio del niente.

Sotto braccio allora stringo il cartoccio di pane e,con un ginocchio, sferro il mio solito colpo alla portadi casa. Che mentre si apre, scatena i lamenti diquella donna con i capelli raccolti a crocchia, che èmia madre. Scatena quel no! Che non se lo sarebbeproprio sognato lei di tornare in strada a quell’ora,che quando lei era giovane la vita era seria e la matinac’era da alzarsi presto cu ba sse còje u tabaccu.4

Mi fermo a metà, tra la soglia e la strada. E non sa-pendo cos’altro fare, prendo a tamburellare le dita sulsacchetto del pane. Poi, come a sottolineare che lamia attenzione è rivolta più fuori che non dentro lacasa, mi intrometto nel chiacchiericcio del marcia-piede di fronte:

–è vero Tonino, è strano oggi il rumore del mare, ècome quello di una radio sulle frequenze vuote.

Ma su questo mio distacco vedo la reazione stizzitadi mia madre, alle mie spalle. Si abbandona su unasedia. E reggendosi la fronte in un avvilimento pia-gnucolante, dice che li sente i commenti del paese,

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4 Per andare a raccogliere il tabacco.

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che proprio con quella disgraziata mi dovevo mesco-lare ca, sutta sutta, si dice che anche il mio fidanzato,che santo è stato finora quel Tonio, nu vagnone teoru,5 uno che oltre a lavorare in campagna è ancheriuscito a laurearsi, mo’ puru iddhu6 si è stancato e losa vero Iddio che mi abbandonerà.

Mi giro a guardarla: –è che io non ti sento– dico –vedi mamma che tu parli, ma io non sento?

E uscendo in strada, subito dopo, lascio la portaaperta e, nella traiettoria dello sguardo di mia madre,mi sforzo di canticchiare e ballonzolare, di lanciare inaria il sacchetto del pane. Poi sul suo grido di minac-cia: –Mo’ nu ticu a pátrita!–7 prendo di nuovo a battereil sacchetto, a farci intorno una riverenza, una gira-volta, un mezzo cerchio, un saltello.

Pizzicarella mia pizzicarellalu caminatu tou nai ni nai nalu caminatu tou pare ca bballa.

Addhu te pizzicáu ca a notte scinnesutta lu giru nai ni nai nasutta lu giru giru te la suttana.

Quantu t’amau t’amau lu core meu

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5 Un ragazzo d’oro.6 Adesso anche lui.7 Adesso lo dico a tuo padre.

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mo nu te ama cchiu nai ni nai namo nu te ama cchiu se ne scurdáu.8

Lascio mia madre così, mentre segue irritata la miaesibizione. E sola. In un presente di tanto tempo fa.Che è la sera di un cielo che prende a caricarsi di nu-vole da est, oblique e nere. Un cielo che mi inghiottein mezzo ai passi incerti delle anziane. Si muovonoingobbite a portare dentro casa le sedie.

E ragazzini che corrono esagitati. E sudati. Con ilpallone tra i piedi. Si fanno inseguire dal giornalaio.

–Ca ci bbe zzìccu!–9 e in fuga. Selvaggi.Una sera di chiaroscuri improvvisi nel piazzale del

prete. E di due scritte spray, sul portale della chiesa.Riaffiorano sotto una sottile censura di vernice:banda te latri e viva a sacra corona.

Una sera di questo mio sostare così, in mezzo allastrada. Così, a guardare un gruppetto di profughi al-banesi, proprio accanto alle scritte. Stanno stendendodei panni su una siepe. Tutt’a un tratto, come in unimpeto liberatorio, gridano in coro: –J’a hodhëm!10

E sotto quel grido, si sentono suonare le campane.

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8 Pizzicarella mia pizzicarella/ la tua andatura.../ la tua andaturasembra un ballo./ Dove ti pizzicò che la notte scende/ sottol’orlo…/ sotto l’orlo della sottana./ Quanto t’amò t’amò il cuoremio/ adesso non ti ama più/ adesso non ti ama più se ne è di-menticato.9 Se vi prendo!10 Li abbiam fregati!

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Che forse però le sento solo io. Diffondono un suonoimpercettibile, nel nero che avanza.

è strano. Penso. Da quando conosco la donna,tutto quello che ho intorno mi sembra solo accennato.E sganciato da me. E a perdere.

Comunque, con il passare degli attimi, anche le sa-gome delle persone per strada erano sempre più rare.Scivolavano giù dai vicoli con passo veloce. Che, dal-l’alto, tra la nuvolaglia nera, avevano preso a scenderedelle lame di luce. E facevano stringere gli occhi.

–Mi sa che si prepara la pioggia, ah Carmelina! Allora mi ero accorta che stavo ferma al centro

della strada e avrei voluto rispondere qualcosa a zi’Nziata, che era una mia parente anziana. Avrei volutoma lei già era sgusciata avanti e con una mano si te-neva in testa u maccaturu 11 e con la bocca ruminavauna frase: –La farai morire quella santa donna di tuamadre.

Mi ero messa a vagare. O per lo meno, dalla len-tezza del mio passo, a Tzigaretta doveva essere sem-brato che io vagassi.

–Ci ffaci cu ddhu pane a mmanu?12

–Niente– che, in effetti, non avevo intenzione di

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11 Fazzoletto che le donne anziane usano legarsi in testa.12 Cosa fai con quel pane in mano?

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spiegargli niente e solo stavo entrando nella cabinatelefonica di fronte a cui lui stava appostato.

Tanto stava sempre lì Tzigaretta. Ci era pratica-mente nato. Con il sedere puntellato al parapetto pa-noramico. E tra le gambe grosse, bello stretto, unsacchetto di sigarette di contrabbando.

Sbadigliava i suoi trent’anni.Ogni tanto li sputava anche, qua e là.E quando sbirciava, lo faceva come i cani, a testa

storta.–La turtura a lla gabbia–13 aveva ridacchiato. Per

via della cabina dentro cui ero entrata, di cui si man-teneva in piedi solo il telaio metallico sbilenco e ar-rugginito.

–Pensa alla gabbia tua, Tzigaretta!Ma: –La turtura a lla gabbia– seguitava a ridere lui

che in quel momento non aveva clienti e avvicinava eallontanava continuamente il sedere dal muretto.

D’altra parte era tutta così la sua vita. E dietroaveva il mare. Una massa scura che gonfiava in unalunga inspirazione. E certe volte sembrava che gli sidovesse catapultare sulla testa.

Che era di capelli lunghi, la testa di Tzigaretta, seradopo sera, sempre lì. A inzupparsi di sale contro i va-pori del mostro. Contro il saliscendi di quel matto pol-mone.

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13 La tortora nella gabbia.

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–La turtura a lla gabbia– e il doppio mento gli si ac-cumulava gelatinoso tutto a lato.

–Guarda che sei tu che stai in gabbia, Tzigaretta.Ma poiché come al solito parlavamo ciascuno per

conto proprio, quel dialogo si era presto interrotto.Lui aveva spalancato la bocca ed era scomparso

dentro uno sbadiglio. E io, con una chiave, avevo co-minciato a cercare di riesumare la tastiera telefonicache stava sepolta ad arte sotto un rosone masticatodi chewingum.

Dal porticciolo sotto, mi aveva raggiunto in quelmomento, il rumore a salire di una mandria di pecore,che però erano i giunti delle vele da diporto che acce-leravano il dondolio nel vento.

Trafficando in mezzo al chewingum, a un certopunto riesco a comporre il numero di Tonio:

–Pronto, Tonio?Ma proprio appena lui risponde, si scatena la mi-

traglia di un motorino con la marmitta espansa,passa di fianco alla cabina. Fa la gimcana tra le autodel piazzale.

Due motorini.Coprono la voce di Tonio che: –Pronto! Pronto!– sta

dentro la cornetta che già rimbomba per le ventate.Tre motorini.Poi finalmente pace. Una pace ancora fragile che

continua a tintinnare assieme alla mandria delle vele.

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–Senti Tonio, vorrei cercare di aiutare quella donnadella spiaggia, per questo sto salendo al dormitoriodei profughi… cerco notizie sul suo conto, per ca-pire…

–Come ieri– commenta lui –sempre uguale– e, percomunicarmi il suo umore, prende a picchiettare leunghie sulla cornetta.

–Dopo scendo a ‘mmare per portarle del pane, setu per caso hai voglia di venire…

Che non ci pensa proprio, rimbecca, che lui non hatempo da perdere al capezzale di una pazza. E, daitoni striduli che raggiunge con la voce, mi sembra divedere anche i suoi occhi, che devono essere là, a fis-sare il telefono come fucili.

–Tonio…Ma lui: –è da un mese che stai sempre con quella

squilibrata, la verità è che ti è esplosa la bolla deimatti nella testa…

Replico che non è una squilibrata. Che più tra-scorro tempo al suo fianco, più mi convinco che siamopiuttosto noi che non siamo in grado di capirla…

Il fatto è che non replica nulla, lui.–Senti Tonio, magari più tardi, quando torno... po-

tremmo incontrarci.–Hai detto quando torno o se torno– e ride. Ma è

una risata senza allegria, una risata fatta così.–Ho detto quando.–Va beh, senti– chiude lui sbrigativo –quando torni

non mi trovi, perché devo andare giù, passare là, tor-nare su, vedere se...

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è evidente che cerca di confondermi. –Meglio un’altra sera– risolve –non credi?–Un’altra sera, sì– e per non rimanere in silenzio,

aggiungo qualche frase inutile e banale che dico tantoper dire, qualcosa di talmente vuoto e impersonaleche si perde nel nulla.

Il nulla è quel suo riprendere a picchiettare le un-ghie sulla cornetta. è quella pesantezza improvvisache mi assale, e che mi fa pensare che questa storiad’amore o cambia all’improvviso oppure si annulla,muore da sé.

–Delle volte...– fa lui –tu e quella matta...I giunti delle vele prendono a dondolare più forte.

Vedo Tzigaretta, oltre la cabina che rabbrividisce nellagiacca. Un bambino gli allunga i soldi. Lui tira fuoriuna stecca dal sacchetto. La apre. Mostra il fondo diun pacchetto:

–Marlboro zero cinque! Dillo a pàtrita!–14 urla. Nelgrigio. Che a poco a poco rotola di rifiuti.

–Delle volte cosa Tonio? Cosa hai detto?–Ho detto: delle volte quando scendo dalla litoranea

ti vedo. Con quella poveretta.–Io e quella donna cosa?–Sembrate due matte perché lei poi… santo Iddio… E dopo niente. Che se l’era inghiottito il telefono il

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14 Tuo padre.

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finale di quella sua considerazione. Se l’era inghiottitoassieme al rumore metallico del gettone.

E comunque mi era sembrato di vederla, la suabocca. Che bestemmiava nel corridoio di casa.

E mentre abbassavo la cornetta, capivo che era unamore diverso quello che avrei voluto avere nei miei gesti.

Un amore che senza alcuna esitazione mi facesseinserire altri gettoni, ricomporre il numero telefonico,dire: –Rieccomi.

E invece mi sentivo addosso solo una pigriziastrana, preoccupante. Una pigrizia sotto cui respiravaun’inquietudine nuova, un’inquietudine che probabil-mente dovevo gestire da me.

Fuori dalla cabina Tzigaretta annuisce facendopenzolare le sue guance flaccide: –Secuta cu nu lluchiami... ca poi rimani comu a zita te Turre!15

La sua sagoma sembra sconfinare nelle crespaturegrigie del mare.

Gli faccio: –Sempre ad ascoltare i fatti degli altri tu!–Emmè– ribatte lui –quistu ete u postu meu.16

–Cosa mai cambierebbe se tu ti spostassi qualchemetro più in là?

–Riggetta ddhai !– fa ancora lui –Sulu u bricatieredecide se m’aggiu spustare–17 e si mette a far rimbal-

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15 Continua a non chiamarlo... che poi rimani come una zitella!16 Questo è il mio posto.17 Stai calma! Solo il brigadiere decide se mi sposto.

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