DAL SECOLO GIAPPONESE AL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE · scrivono, i nostalgici degli anni Trenta e...

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ISAIA SEBASTIANO DAL SECOLO GIAPPONESE AL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE In attesa di una nuova Alba?

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ISAIA SEBASTIANO

DAL SECOLO GIAPPONESE AL TRAMONTO DEL SOL LEVANTE

In attesa di una nuova Alba?

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Gennaio 2015

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Questa volta nessuno ci ha lanciato una bomba... Abbiamo creato il contesto, abbiamo commesso il crimine con le nostre stesse mani, stiamo distruggendo le nostre stesse terre, e stiamo distruggendo le nostre stesse vite. (Haruki Murakami, Gennaio 2012) L’Abenomics, lo dico con orgoglio, ha avuto successo in un senso ancora più importante: abbiamo “riavviato” la psiche collettiva del Giappone. (Shinzo Abe, gennaio 2014). È nella dialettica delle cose – e dei processi sociali – che i fattori di successo possano capovolgersi in altrettanti fattori di debolezza e di crisi, una volta che siano venute meno o che si siano profondamente modificate le precedenti condizioni – endogene ed esogene – che ne avevano reso possibile l’esistenza. Ciò che prima spinge in avanti, in direzione del successo, dopo, in un contesto diverso da quello precedente, potrebbe frenare la corsa e spingere nella direzione contraria, verso l’insuccesso. Probabilmente questa “legge dialettica” ci offre un’importante chiave di lettura anche per decifrare il “caso giapponese”, o comunque per sciogliere qualche suo fondamentale nodo. A patto però che questa “legge” venga a sua volta declinata in modo “dialettico”, così da porci al riparo da interpretazioni rigide e assolute, che soprattutto nel “caso” di cui si tratta non hanno alcuna ragion d’essere. Anche il titolo di questo breve studio va preso con le molle, come peraltro suggerisce il sottotitolo. Una volta l’economista inglese Alfred Marshall disse che la scienza economica non è «un insieme di verità, ma una spinta alla scoperta della verità». Ebbene, e a prescindere dal significato che ognuno è libero di attribuire al concetto di “scienza economica”, debbo dire che la spinta di cui parlava il vecchio Marshall almeno una verità me l’ha fatta scoprire, una verità che intendo esprimere in termini poco rigorosi proprio sul piano della scienza economica: senza profitti la papera capitalistica non galleggia. È questa elementare verità, o,

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meglio, questa tesi che ritengo esprima adeguatamente la sostanza del vigente modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale, che fa da filo conduttore alle mie analisi sociali. So benissimo che quanto appena affermato non brillerà per originalità presso alcuni lettori; ma mi preoccupo di comunicare anche con un tipo diverso di lettori, ai quali la precisazione di cui sopra potrebbe invece essere di qualche aiuto per capire il punto di vista dal quale osservo le cose. Fatta questa breve avvertenza, politica più che metodologica, veniamo adesso al tema che intendo svolgere qui di seguito: il “caso giapponese”. Sempre ammesso che di un simile “caso” si possa a rigore parlare senza incorrere in inaccettabili forzature. Più che fornire risposte conclusive, che purtroppo non sono alla mia portata, qui di seguito cercherò di ammassare problemi e riflessioni utili come premessa e introduzione alla Questione giapponese come si presenta all’inizio del XXI secolo. Quello che il lettore avrà la bontà di leggere non è in realtà che un insieme di appunti di studio che chi scrive ha cercato di assemblare alla meglio; di qui, probabili ripetizioni di dati e concetti che sono sfuggiti alla sua censura. Spero che dal disorganico insieme, attraversato però, almeno credo, da un unico filo conduttore concettuale e politico, sia venuta fuori qualcosa di almeno comprensibile. Viceversa, non potrò fare altro che scusarmi con il lettore e rimandarlo al mio prossimo tentativo.

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1. L’impressione complessiva che si ricava studiando le vicende economiche e sociali del Giappone degli ultimi venti anni è che le politiche “keynesiane” praticate dai governi giapponesi che si sono succeduti abbiano sortito un solo effetto: cronicizzare e stabilizzare lo stato di malessere dell’economia giapponese, la quale se non ha subito un crollo verticale e ha potuto, per così dire, salvare il salvabile, non ha nemmeno messo il Paese nelle condizioni di avviare una ripresa in grande stile dell’accumulazione capitalistica. Si è evitato di spargere troppo sangue e troppe lacrime, cosa che avrebbe certamente nuociuto alla “pace sociale”; ma come sempre la fortuna ha sorriso solo alle classi dominanti. Si oscilla tra consolidamento fiscale e allargamento dei cordoni della borsa statale, tra facilitazione dell’export e sostegno ai consumi interni, tra stretta creditizia e quantitative easing: è un continuo e brusco premere ora sull’uno, ora sull’altro pedale della macchina, cosa che ha fatto nascere negli investitori (nazionali e internazionali) e nell’opinione pubblica giapponese genericamente intesa una sensazione di crescente insicurezza nei confronti del futuro e di sfiducia riguardo alle capacità della politica di guidare la macchina fuori dal tunnel. Magari qualche giapponese avrà pensato: «Non sarebbe meglio una fine nell’orrore, piuttosto che un orrore senza fine?». Un pensiero molto pericoloso, e contagioso. Il paziente non è morto, ma non è nemmeno guarito, e anzi appare sempre più sfibrato e anemico. È forse questo il limite più grande del cosiddetto keynesismo di pace: ben’altro – e sicuramente benefico – effetto potrebbe avere un keynesismo spinto fino alle estreme (belliche?) conseguenze! Almeno è questo che pensano, e qualche volta persino dicono e scrivono, i nostalgici degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. I quali, beninteso, non abitano solo in Giappone. Le inestricabili relazioni che si sono solidificate nel corso dei decenni tra interessi politici, interessi economici e interessi sindacali (una commistione che non dovrebbe suonare estranea all’orecchio “consociativo” degli italiani) hanno realizzato una struttura politico-istituzionale non in grado di affrontare con la necessaria rapidità e decisione le «riforme strutturali» non rinviabili in tempi eccezionali, se non a costo di più gravi conseguenze da pagare nel medio o lungo

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periodo. D’altra parte, la strategia dell’attesa, del wait and see (anche questa politica dice qualcosa ai fatalistici cittadini del Bel Paese), sperando in quella “naturale” inversione di tendenza nel ciclo economico che, «prima o poi», dovrà comunque realizzarsi; questa strategia, dicevo, non ha prodotto i risultati sperati. D’altra parte, nei tempi lunghi saremo tutti morti, e dunque chi se ne frega dell’andamento del ciclo. Il problema è nei tempi medi! L’economia giapponese non ha dunque subito un crollo verticale, ma piuttosto un lento quanto costante – “inesorabile” – declino, e se ciò ha evitato alla società giapponese di conoscere le drammatiche condizioni di disoccupazione e di povertà diffusa che hanno sperimentato in passato (vedi la Russia e i Paesi dell’Asia Orientale e dell’America Latina negli anni 1997/98) e che sperimentano oggi i Paesi sottoposti allo shock della crisi, il peculiare decorso della congiuntura sfavorevole non ha d’altra parte messo il Paese asiatico nelle condizioni di reagire nel modo più rapido e adeguato alle contraddizioni che si sono aperte nella sua struttura economica e nella sua infrastruttura politico-istituzionale. E così, i governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni nel Sol Levante si sono limitati a gestire il declino, cercando di conservare il più possibile le invidiabili posizioni conquistate in passato, operazione che tutto sommato è in larga misura riuscita. È anche possibile vedere la cosa da un’altra prospettiva (ad esempio, dalla prospettiva dalle fazioni capitalistiche tuttora vincenti in Giappone), così che ciò che a noi appare come una sequela di errori attribuibili a politici incapaci e poco lungimiranti, si rivela essere invece come una strategia volta a conciliare gli interessi capitalistici e di Potenza del Sol Levante con la cosiddetta pace sociale, che rimane un importante fattore di stabilità e di ripresa economica. A questo punto è bene mettere in chiaro che a proposito dell’esperienza giapponese occorre respingere qualsiasi interpretazione catastrofista, nel senso che se di crisi e di declino si può legittimamente parlare, si tratta comunque di una crisi e di un declino dal carattere fortemente relativo, non assoluto, e questa considerazione acquista un maggior significato non appena l’esperienza giapponese degli ultimi due decenni viene confrontata

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con l’esperienza della crisi dell’Europa continentale, con la sola eccezione della Germania e dei suoi satelliti. Anche dentro la lunga e tormentata congiuntura negativa (bassa crescita, recessione, depressione) il capitalismo giapponese non ha smesso di fare mostra della sua straordinaria forza strutturale (tecnologica, scientifica, organizzativa) all’interno e, soprattutto, all’estero. Più che fermarsi, il motore della possente macchina industriale giapponese ha girato a vuoto, generando pochi profitti e molta sovraccapacità produttiva. Alla fine degli anni Ottanta il Giappone appariva come il modello vincente soprattutto agli occhi dei detrattori del liberismo occidentale (numerosi tanto a “destra” quanto a “sinistra” dello schieramento politico): la pianificazione strategica degli investimenti elaborata dal mitico MITI, il Ministero del commercio estero e dell’industria; l’occupazione a vita, gli stretti legami tra banca ed industria, l’esistenza di settori industriali e finanziari integrati verticalmente: queste e altre peculiarità del modello nipponico sembravano mostrare la loro superiorità rispetto al modello anglosassone focalizzato sulla ricerca del massimo profitto a breve o brevissimo termine. I sostenitori della superiorità del modello giapponese rispetto al modello anglosassone, molti dei quali sono poi saltati sul carro del modello cinese, individuarono nel processo di liberalizzazione finanziaria l’inizio dei problemi per l’economia giapponese. Inizio dei problemi o piuttosto fenomenologia dei problemi? Prima di tentare una risposta o, meglio, di entrare nel merito della domanda, mi consento una breve digressione polemica. Molti keynesiani di orientamento “marxista” (sic!) parlano del cosiddetto neoliberismo come di un «ritorno al potere della classe dominante». Domanda tutt’altro che oziosa o provocatoria: nei cosiddetti «Trenta’anni gloriosi», mitica età dell’oro (e certamente per il Capitale la cosa ha un senso) di cui quei personaggi avvertono una struggente nostalgia, al potere c’era la classe dominata? È davvero un peccato che chi scrive, il quale allora era un bambino, non si sia accorto che il padre (un operaio edile) e la madre (una cameriera, come si diceva allora) si fossero impadroniti del potere a sua insaputa: magari avrebbe potuto rivendicare più giocattoli! Ma è

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anche possibile che tante persone politicamente e culturalmente avvedute (e ce ne sono anche fra coloro che hanno letto Marx, compreso il suo antistatalista Programma di Gotha) associno l’interventismo statale al socialismo, o comunque a una fase dello sviluppo capitalistico favorevole alle classi lavoratrici. Che nei periodi di grande espansione cadano anche delle briciole sulla misera mensa dei salariati, è cosa risaputa che Marx, arcinemico del lassalliano «socialismo di Stato» (in realtà un capitalismo a conduzione statale), non mancò di rinfacciare al riformismo dei suoi tempi. Proprio a partire da queste briciole si è formata quella «aristocrazia operaia» che un ruolo molto importante ebbe nella stabilizzazione del sistema capitalistico e nella sua espansione coloniale, prima, e imperialista, dopo. Peraltro, la “caduta delle briciole” per la gran parte dei lavoratori ha avuto il significato di una lotta tesa a strappare un po’ di mollica dalla pingue pagnotta capitalistica: altro che «Trent’anni gloriosi»! La nostalgia è un lusso che i nullatenenti non possono permettersi, e anziché nutrire delle speranze, più o meno vane/fondate, dovrebbero piuttosto essi stessi farsi speranza, diventare speranza per se stessi e per l’intera umanità – Marx docet. Essere speranza, non avere speranza: Spes contra spem, per dirla con la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Non vedo all’orizzonte alcun’altra possibilità emancipativa. Chiudo la parentesi teologico-politica, per così dire. 2. Dopo la Seconda guerra mondiale il Giappone ha continuato la sua espansione economica nello spazio vitale che gli compete dal punto di vista storico e geopolitico. Anziché bruciare i tempi servendosi dello strumento militare come aveva cercato di fare negli anni Trenta, adesso il Giappone si serve dello strumento imperialistico per eccellenza: il Capitale, rivelando in tal modo la vera natura storico-sociale del moderno Imperialismo, la cui intima essenza è radicata nell’imperiosa (brutale, violenta, totalitaria) necessità del Capitale di espandere la propria sfera di dominio – socialmente, geograficamente, esistenzialmente, “antropologicamente”: è il solo concetto di globalizzazione capitalistica che a mio avviso ha senso e che proprio per questo si sottrae alle tradizionali e il più delle volte

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banali declinazioni di quella locuzione. Anziché esportare eserciti, il Giappone del Secondo dopoguerra ha iniziato a esportare merci, tecnologie, scienza e capitali a caccia di alti profitti e di ancora più cospicue e sicure rendite finanziarie. Mutatis mutandis, analogo discorso si può fare per la Germania e, in una forma molto più sfumata, per l’Italia: vedi la sua penetrazione mercantile, finanziaria e politica nei Balcani, nell’aria Danubiana e nelle ex colonie africane. Giappone, Germania e Italia; verrebbe da dire: guarda che combinazione! Ma proprio la natura espansiva e aggressiva del Capitale ha permesso al Giappone di espandere la propria influenza sistemica oltre il suo tradizionale giardino di casa, ben al di là del sudest Asiatico e dell’area del Pacifico Meridionale. Alla fine degli anni Ottanta, ancora prima che il Muro di Berlino cadesse sulla testa degli stalinisti nostrani, industriali, banchieri, geopolitici e politici giapponesi parlavano apertamente di por mano a un nuovo ordine mondiale non più centrato sulla “maligna” potenza militare americana, bensì sulla “benefica” e “cooperativa” potenza economico-culturale del Sol Levante, un po’ come si sente dire dalle parti del Celeste Imperialismo – o Cina che dir si voglia. Non bisogna d’altra parte sottovalutare il ruolo che gli Stati Uniti ebbero nella ripresa, prima, e nel decollo, poi, dell’economia giapponese, ruolo che va considerato alla luce degli interessi imperialistici degli americani nell’Asia Orientale, i quali naturalmente sostenevano la rapida ripresa del Giappone in chiave “anticomunista” (vedi Unione Sovietica e Cina maoista). Mutatis mutandis, è lo stesso ruolo che gli USA recitarono sulla scena europea sostenendo le economie dei due Paesi usciti distrutti dalla Seconda guerra mondiale: Germania e Italia. Scrive Giovanni Arrighi: «Negli anni cinquanta gli Stati Uniti avevano promosso l’integrazione separata del Giappone e delle sue ex colonie all’interno delle proprie reti di commercio, di potere e di protezione. Negli anni sessanta, sotto l’impatto di più severe restrizioni finanziarie, cominciarono a promuovere la reciproca integrazione nelle reti commerciali regionali imperniate sul Giappone. A questo scopo, il governo americano incoraggiò attivamente Corea del Sud e

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Taiwan a superare il loro risentimento nazionalistico contro il passato coloniale del Giappone e ad aprire le loro porte al commercio e agli investimenti giapponesi. Durante l’egemonia statunitense il Giappone ottenne così senza costi quell’entroterra economico per il quale aveva lottato così duramente durante l’espansione territoriale della prima metà del XX secolo e che aveva infine perso nel disastro della seconda guerra mondiale. Il Giappone in realtà ottenne molto più che un entroterra economico nell’Asia orientale. Grazie all’intervento del governo statunitense conseguì l’ammissione al GATT e l’accesso privilegiato al mercato statunitense e alle spese militari all’estero degli Stati uniti. Il governo statunitense tollerò inoltre una chiusura amministrativa dell’economia giapponese alle imprese private straniere, chiusura che avrebbe fatto di qualsiasi altro governo un nemico del mondo libero nella crociata della guerra fredda» (Il lungo XX secolo: denaro, potere e l’origine dei nostri giorni). Quando, alla fine degli anni Sessanta e poi con sempre maggiore insistenza negli anni Settanta, gli Stati Uniti si trovarono nelle condizioni di dover chiedere agli alleati giapponesi (e tedeschi) un minimo di riconoscenza che almeno in parte li ricompensasse della loro “disinteressata generosità”, la risposta che essi ottennero raggelò Washington. La sensazione che la leadership americana ebbe fu quella di aver amorevolmente curato una serpe in seno, che adesso pretendeva di uscire dal nido per andare là dove la portava il Capitale e il suo retaggio storico, che evidentemente bombardamenti “convenzionali” e atomici non erano riusciti a cancellare. Tra il 1945 e il 1970 l’economia giapponese conosce uno sviluppo, sia in termini quantitativi che qualitativi, che probabilmente non ha eguali nell’ambito dei Paesi capitalisticamente avanzati. Nel 1969 il Giappone poteva così scavalcare la Germania (l’Italia gli stava alle spalle già dal ‘58!) sia in termini di PNL, sia in termini di percentuale degli investimenti sul PNL, sia per ciò che concerneva la capacità produttiva e la commercializzazione delle merci. La ricaduta in termini di politica estera della ritrovata potenza economica del Sol Levante ha forse la sua manifestazione più significativa nel piano geopolitico elaborato nell’autunno del 1970 dal Premier Nakasone

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Yasuhiro: «Il Giappone – scrisse Nakasone nel Libro bianco governativo del 1970 sui problemi della difesa – deve investire attivamente i suoi capitali nel Sud Est asiatico e crearsi un suo patrimonio economico in tale zona. Ciò creerà diritti e interessi e uno spazio vitale. Per difenderli, il Giappone avrà bisogno, alla fine, di impiegare la forza militare». Con la crisi internazionale dei primi anni Settanta inizia il relativo declino del Made in Japan, che accelera il suo passo alla fine degli anni Ottanta, proprio quando in tutto il mondo (soprattutto negli Stati Uniti, e con accenti da post Pearl Harbor) si celebra il cosiddetto Secolo Giapponese. Si passa da una crescita media annua di circa il 6% (con punte verso l’alto del 9% negli anni Sessanta e verso il basso del 4% dopo il ‘73) del lungo miracolo economico giapponese, al modesto 1,5% fatto registrare all’inizio degli anni Novanta, caduta puntualmente registrata dagli indici di Borsa (in caduta libera), dal tasso di disoccupazione (crescente) e dal livello dei prezzi (decrescenti). L’indebolimento dell’economia giapponese ha comunque un carattere relativo, come dimostrano le performance che continua a registrare l’export nipponico. È degno di nota il fatto che il motore principale dell’impetuoso sviluppo capitalistico giapponese postbellico fosse rappresentato dai vecchi monopoli “democratizzati“, i tanti deprecati zaibatsu, poi ribattezzati keiretsu, una «parola non facilmente traducibile, che designa la ragnatela di rapporti tra società formalmente indipendenti. Ognuna delle trading company è al centro di un impero con altre imprese autonome ad esse collegate, indipendenti ma vincolate l’una all’altra da ferree partecipazioni incrociate pur senza il condizionamento d’una capogruppo finanziaria (vietata per legge); legate in una comune visione strategica e in un coordinamento operativo ferreo» (F. Mezzetti, Giapponesi giorno per giorno. Mitsubishi, Itah, Sumitomo, Mitsui, Marubeni, Nissan-Iwai, Tomen, Nichimen, Kenematsu: questi i nomi dei keiretsu che costituirono la base del “miracolo economico” giapponese degli anni Sessanta. Questa complessa struttura industriale-finanziaria, supportata in tutti i modi dallo Stato (il quale garantiva la solidità di ultima istanza anche del sistema finanziario privato dinanzi ai suoi creditori),

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permetteva al capitale nipponico di elaborare strategie industriali di lungo periodo, che non fossero cioè strettamente vincolate alla ricerca della immediata redditività, ma che privilegiassero invece la penetrazione del Made in Japan nei mercati potenzialmente più ricchi e dinamici (TV, radio, videoregistratori, semiconduttori, computer, tecnologie Hi-tech, ecc.), senza peraltro abbandonare i mercati più maturi (acciaio, aerei, automobili, ecc.). Per rappresentare in forma stilizzata la superiorità tecnologica e organizzativa di quel Giappone è sufficiente citare il Just in time la Lean production. Alla fine degli anni Settanta questa possente e complessa architettura capitalistica, che si è dimostrata capace di assicurare un posto al sole all’agguerrito Capitale nipponico, inizia a mostrare alcuni importanti limiti, i quali peraltro non inceppano – non ancora – significativamente l’efficienza espansiva della macchina. Ciò apparve chiaro quando, nella seconda metà degli anni Ottanta (a partire dall’accordo del Plaza sui cambi del settembre 1985) il capitale giapponese si trovò a fronteggiare un duro scontro politico-monetario con gli Stati Uniti, i quali brigavano per affossare la competitività del Made in Japan soprattutto attraverso una spettacolare rivalutazione della divisa giapponese (che si apprezzò di quasi il 30% sul dollaro) e diverse misure protezioniste (in concertazione con l’Europa Occidentale). Come rispose allora il Giappone? Con una nuova strategia asiatica che provo a sintetizzare come segue (cito dal libro di Robert Gilpin Le insidie del capitalismo globale): «L’aumento dei salari e dei costi di produzione giapponesi rappresentava una minaccia per la competitività in molti settori. […] L’attacco alla strategia di crescita export-led pose l’élite giapponese di politici, burocrati e uomini d’affare di fronte a due scelte alternative di politica economica. Una possibilità era di seguire le raccomandazioni della Commissione Maekawa» (vedi il suo Report pubblicato nel 1986), che prescriveva un radicale cambiamento di strategia capitalistica, attraverso un’ampia deregulation nel settore industriale e finanziario, una diminuzione del peso dello Stato nell’economia, una produzione più orientata al mercato interno, ecc. Come si vede, quella Commissione, istituita dall’allora Primo

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ministro Yasuhiro Nakasone, affrontava i «nodi strutturali» che continuano a tormentare il Giappone. Anziché provare a sciogliere quei nodi, con i pesanti contraccolpi che ne sarebbero derivate in termini di rendite di posizione intaccate e di consenso sociale/elettorale, l’élite del Sol Levante reagì, «come è accaduto diverse volte nella storia giapponese dal dopoguerra», predisponendo il sistema-Paese per una nuova corsa in avanti. «Questa strategia richiedeva uno sforzo concertato da parte dell’élite di governo per sfruttare gli enormi capitali giapponesi e le superiori risorse tecnologiche allo scopo di creare un’economia asiatica integrata e dominata dall’economia nazionale giapponese. […] La rivalutazione dello yen e l’aumento dei costi nazionali furono un incentivo potente, per le grandi imprese giapponesi, a spostare la produzione verso le economie con manodopera a basso costo del Sudest Asiatico. Inoltre, gli effetti patrimoniali della rivalutazione fornirono alle imprese e al governo i mezzi finanziari necessari per investire massicciamente in Asia Orientale e Sudorientale […] Inizialmente, il ritrovato interesse nella regione si concentrò sui paesi immediatamente prossimi: Taiwan, Corea del Sud e Hong Kong. Ma l’aumento dei salari e la rivalutazione delle loro monete diminuì rapidamente l’attrattiva di queste economie come sbocchi per gli investimenti giapponesi; ciò spinse il Sol Levante a concentrarsi sull’Asia Sudorientale, e specialmente sulla Cina meridionale. […] Il risultato generale di questa strategia è il sistema asiatico integrato del network capitalism diretto dalle grandi imprese giapponesi con al centro l’economia nazionale giapponese». La crisi delle Tigri Asiatiche di fine anni Novanta e l’ascesa del capitalismo cinese e, in parte, di quello indiano concorsero a depotenziare la strategia asiatica del capitale giapponese adottata con successo negli anni Novanta. 3. L’intervento programmatico di Shinzo Abe del 6 gennaio 2014 (pubblicato su Project Syndicate), passato alla cronaca come il Programma delle tre frecce e che appare molto interessante per più motivi (e nella fattispecie quelli di natura economica non sono necessariamente i più significativi), fu salutato con entusiasmo dai

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keynesiani europei, i quali vi trovarono la conferma che dalla crisi si poteva uscire non con un ottuso programma di austerity, bensì con la vecchia e ancora efficace – almeno a loro giudizio – ricetta keynesiana. Essi però dimenticavano, o semplicemente non sapevano, che la politica keynesiana abitava stabilmente in Giappone ormai da parecchi anni. «Dobbiamo allora chiederci perché le politiche keynesiane non funzionano», scriveva nell’estate del 2001Makoto Itoh, professore di economia presso l’Università Kokugakuin di Tokyo. Ma ritorniamo alle tre frecce di Abe. Con quell’intervento il Premier annunciò «la sorpresa dei salari»: «L’anno 2013 ha visto l’economia giapponese voltare pagina dopo due decenni di stagnazione. E il futuro diventerà ancora più luminoso con l’arrivo di quella che abbiamo chiamato la “sorpresa dei salari”. Dallo scorso settembre c’è stato un intenso dibattito tra il governo giapponese, le imprese e i leader sindacali, volto a rimettere in moto un circolo virtuoso nel quale salari più alti potessero portare ad una crescita più robusta. Ho preso parte a due dei quattro incontri tenuti finora, unendomi al nostro ministro delle finanze, al ministro dell’economia e al ministro del lavoro, così come ai leader dell’industria e dei sindacati come Akio Toyoda, il capo di Toyota Motors, e Nobuaki Koga, che dirige la confederazione dei sindacati giapponesi. Ogni volta, sono uscito dagli incontri con un senso di fiducia e di nuovo vigore. Ammettiamolo. La pressione deflazionistica in Giappone – e solo in Giappone – si è protratta per ben oltre un decennio. Sono rimasto allibito quando ho visto le statistiche per la prima volta: in Giappone il livello degli stipendi dal 2000 era calato a un tasso medio annuo dello 0,8%, rispetto alla crescita media del salario nominale del 3,3% negli Stati Uniti e nel Regno Unito e del 2,8% in Francia. Nel 1997, i salariati in Giappone ricevevano un totale lordo di 279 trilioni di Yen; nel 2012 il totale era sceso a 244,7 trilioni di Yen. In altre parole, i salariati giapponesi hanno perso 34,3 trilioni di Yen nel corso dell’ultimo decennio e mezzo – più del PIL annuale della Danimarca, della Malesia o di Singapore. Solo quando questa tendenza sarà invertita l’economia del Giappone potrà riprendere un percorso di crescita di lungo termine. […] Questo è ciò che le prime due “frecce” dell’Abenomics

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– un’audace politica monetaria e una politica fiscale flessibile – hanno ottenuto finora. Che dire della terza freccia, un insieme di politiche volte a promuovere gli investimenti privati, in modo che la crescita della produttività sostenga una ripresa del Giappone a lungo termine? Per definizione, le riforme strutturali richiedono più tempo rispetto ai cambiamenti nella politica monetaria e fiscale [ma] gli osservatori non dovrebbero fermarsi a guardare gli alberi e perdere di vista la foresta». In realtà, la “terza freccia” aspetta da molti anni di essere scagliata; qualcosa si è fatto (o tentato) in campo bancario, attraverso fallimenti pilotati, fusioni e nazionalizzazioni più o meno a termine di istituti finanziari ormai decotti. Ma anche sul terreno finanziario resta molto da fare, anche perché toccare il capitale finanziario significa mettere le mani su ogni settore dell’economia, e non solo in Giappone. Vedremo tra poco a che punto è «la sorpresa dei salari»: preparatevi a una sorpresa! A proposito di salari. Scriveva il già citato Makoto Itoh: «Nel momento in cui le aziende ridimensionavano le proprie attività, le condizioni dei lavoratori hanno cominciato a subire forti peggioramenti e i salari reali a ristagnare. Nel 1993 i salari reali sono scesi, e sono anche state ridotte le retribuzioni degli straordinari. Come risultato, il reddito reale a disposizione delle famiglie (ossia, il reddito effettivo delle famiglie meno le tasse e le spese di previdenza sociale) ha cominciato a diminuire. La domanda di consumi interni ha quindi subito un tracollo, e la recessione si è aggravata» (La rivista del manifesto n. 19/2001). L’interpretazione sottoconsumista della crisi è quella che in assoluto sembra la migliore chiave per aprire al pensiero tutte le porte, mentre in realtà non riesce a dar conto dell’essenziale, ossia della genesi della crisi, del suo lento maturare in grazia alle leggi della produzione (di valore e plusvalore) e dell’accumulazione (espansione quantitativa e qualitativa della produzione attraverso l’investimento dei profitti) che hanno reso possibile il precedente periodo di boom o comunque di crescita. Il sottoconsumo, che come spiegava Marx è un fatto immanente – e latente – al capitalismo (soprattutto se concepito in termini relativi, ossia in riferimento alla crescente produttività del lavoro salariato, e non assoluti), più che come causa scatenante appare degno di

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considerazione come concausa, una volta che il processo di accumulazione subisce un contraccolpo dal lato del saggio del profitto. Da magagna latente e sempre incombente, solo a certe condizioni il «sottoconsumo delle masse» diventa fattore di crisi, mai però come fattore autonomo e principale di quest’ultima. «Il fatto che le merci siano invendibili vuol dire solo che per esse non sono stati trovati acquirenti in grado di pagare, ovvero consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare un’apparenza di maggiore attendibilità affermando che la classe operaia riceve una porzione troppo piccola del proprio prodotto, e che quindi si rimedierebbe al male qualora essa ne ottenesse una porzione maggiore, e perciò crescesse il suo salario, si deve notare solo che le crisi vengono sempre preparate proprio da un periodo in cui il salario in genere aumenta e la classe operaia “realiter” [effettivamente] riceve una porzione più grande della parte del prodotto annuo destinato al consumo. Quel periodo invece – secondo questi cavalieri del sano e “semplice” (!) buon senso – dovrebbe allontanare la crisi» (K. Marx, Il Capitale, III). Come giustamente scrive Itoh, il declino della capacità d’acquisto del mercato aggrava la recessione, ma – e questa è una mia considerazione – non la crea immediatamente. Scrive Paolo Pini, economista keynesiano dell’Università di Ferrara: «La regola d’oro suggerisce che siano le retribuzioni reali del lavoro a dover tenere il passo della produttività fisica del lavoro. In tal caso le quote distributive rimarrebbero invariate. Risultato questo difficile da realizzare, in economia aperta, in particolare sotto i vincoli della moneta unica che non consente svalutazioni monetarie tra Paesi aderenti. […] Questo non allineamento del salario reale alla produttività è ciò che conduce al cambiamento della quota distributiva del lavoro sul reddito. […] Si noti che peggio del Giappone (caratterizzato da dinamica negativa delle retribuzioni) fa solo la Germania, prima tra i Paesi dell’Eurozona ad evidenziare una dinamica della quota distributiva a sfavore del lavoro, con un gap di più di 1 punto percentuale su base annua tra retribuzioni reali e produttività, che porta ad una significativa diminuzione della quota del lavoro sul reddito. Questo è lo scenario effettivo nel periodo 1995-2011». C’è da chiedersi: «regola d’ora», certo, ma per chi (a

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favore di quale classe)? La regola d’ora, o di bronzo, in quella che Pini definisce «economia aperta», e che io chiamo semplicemente capitalismo del XXI secolo, è quella che apparecchia il processo produttivo e la struttura sociale nel suo complesso in modo da ottenere la massima redditività dell’investimento. Questa legge trova il suo limite (assoluto sul piano storico, relativo sul terreno del processo sociale capitalistico) nello stesso meccanismo che si sforza di mettere ogni singolo investitore di capitale nelle condizioni di mettere le sue mani sul maggiore profitto possibile nel tempo più breve possibile. 4. Commentando le elezioni politiche giapponesi del 14 dicembre, Giorgio Cuscito giustamente osserva che «la vittoria in Giappone di Abe non è un trionfo: il consenso verso di lui è sceso e i problemi economici restano» (Limes, 22/12/14). In effetti, la cosiddetta Abenomics, basata su un assai generoso quantitative easing e salutata dalle nostre parti come la «rivoluzione keynesiana» da prendere senz’altro come modello alternativo a quello “austeriano” di marca «neoliberista», non ha risolto nemmeno uno dei numerosi problemi «strutturali» che da diversi lustri azzoppano un’economia che tuttavia rimane ancora potenzialmente forte e competitiva. Dopo tutto stiamo parlando della terza economia del pianeta, preceduta da due economie radicate in giganteschi sistemi sociali e geopolitici: quello statunitense e quello cinese. Anche questo non va dimenticato quando approcciamo il “caso giapponese”. Che qualcosa non stesse funzionando nella miracolistica (quanto poco originale rispetto alla stessa storia recente del Giappone) ricetta economica lanciata alla fine del 2012 dal keynesiano con caratteristiche giapponesi Shinzo Abe, apparve chiaro nell’aprile di quest’anno, quando il crollo dei consumi verificatosi in seguito all’aumento di tre punti della tassa nazionale sui consumi (aumento che andava a impattare su un livello dei consumi già strutturalmente basso, rispetto alla potenziale domanda interna di beni e servizi) mostrò l’estrema volatilità di una ripresa economica basata appunto su una impressionante iniezione di liquidità nelle arterie alquanto sclerotizzate del capitalismo giapponese. La scossa adrenalinica ha

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avuto un grande impatto sul malato (in termini di crescita dell’inflazione, del PIL e degli indici di Borsa), non c’è che dire, e difatti gli «Evviva!» non sono mancati in Giappone come nei Paesi europei alle prese con il “rigorismo” tedesco; ma l’effetto-shock è durato assai poco. Di qui, la decisione presa a novembre dal Primo Ministro giapponese, peraltro fresco di impegnativi vertici internazionali (a Pechino, Myanmar e Australia), di sciogliere la camera bassa della Dieta e di indire le elezioni anticipate appunto per Dicembre, in modo da ottenere dall’elettorato un secondo e più forte mandato. Per fare cosa? In effetti, questo non appare al momento del tutto chiaro. Di fatto si è trattato di un referendum sulla sua politica economica, che del resto non ha dato una eccellente prova di sé. Decidendo di portare il popolo giapponese alle urne, Abe confidava anche nella perdurante debolezza politica del Partito Democratico, il più forte – o meno debole – partito d’opposizione, e in ciò il suo fiuto non ha sbagliato. In effetti, non bisogna sottovalutare il messaggio squisitamente politico che sta dietro la prova di forza del Premier, il quale vuole accreditarsi come un leader forte in grado di reggere il confronto con il Presidente degli Stati Uniti e con il Presidente della Cina, impegnato a sua volta ad acquistare potenza all’interno del Partito-Regime cinese. C’è da dire che la popolarità di Abe è lievitata seguendo il crescente tasso di nazionalismo (soprattutto in chiave anticinese, ma non solo) dei suoi discorsi “revisionisti”, assai contestati a Pechino e in tutte le capitali dei Paesi del Sudest Asiatico che a suo tempo sperimentarono i rigori dell’imperialismo militare nipponico. Il progetto di revisione costituzionale in materia di Difesa e sicurezza (l’Articolo 9 della Costituzione giapponese, «introdotto per insistenza personale di McArthur», come scrive lo storico Jon Halliday nella sua Storia del Giappone contemporaneo) si inscrive anche in questo quadro. Non bisogna poi dimenticare l’aumento del budget della Difesa, il più forte negli ultimi dieci anni e parte integrante del piano di stimoli “keynesiani” approntato dal primo governo Abe. Nel primo trimestre di quest’anno la crescita del PIL faceva registrare un risultato di proporzioni – quasi – cinesi: 5,9 per cento su

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base annua e anche le esportazioni registrarono un più che decoroso + 6% sempre su base annua, con una discreta crescita della produttività (+ 4,9% per cento negli investimenti di capitale delle imprese). Si trattò di un grande abbaglio, di una sorta di illusione ottica? «L’economia giapponese supera ampiamente le aspettative e torna a cresce a un ritmo robusto in tandem con il ritorno dell’inflazione, proprio mentre una Europa anemica sente avvicinarsi lo spettro della deflazione che ha attanagliato per vent’anni il Sol levante» (Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2014). Ma quanto fosse precaria e addirittura paradossale la sorprendente performance giapponese veniva reso evidente dalla circostanza per cui «il balzo del Pil nipponico si è verificato soprattutto per un’impennata dei consumi, a causa di una corsa agli acquisti di beni durevoli in anticipazione dell’aumento dell’Iva dal 5 all’8% scattato poi il primo aprile. Dopo una politica monetaria ultraespansiva e una serie di stimoli pubblici all’economia, insomma, è stato proprio il primo provvedimento di irrigidimento fiscale varato dal governo ad abbellire il Pil trimestrale. Il problema è che nel trimestre in corso i consumi sicuramente diminuiranno e l’economia è destinata quindi a una contrazione che vari economisti si attendono in un ordine tra il -4% e il -6% annualizzato. Per questo la Borsa non ha festeggiato e continua piuttosto ad attendere di vedere quanto incisivo sarà il piano di riforme di sistema che il premier Shinzo Abe annuncerà il mese prossimo». Secondo il report sull’economia reso noto a novembre dal governo Abe, l’inflazione era scesa di nuovo (0,9% su base annua, ben al di sotto dell’obiettivo del 2% fissato un anno prima dalla Banca Centrale Giapponese), e a fronte di un leggerissimo miglioramento nel tasso di disoccupazione (dal 3,6% al 3,5% nel mese di ottobre), i dati confermavano il lungo trend discendente dei salari reali (-3% su base annua). Il potere d’acquisto dello yen è sceso di oltre il 30% rispetto al 2013, e se questo ha aiutato solo un poco l’export giapponese, che deve comunque fare i conti con l’anemica economia europea, con una ancora oscillante ripresa americana e con la relativa frenata della locomotiva cinese, ha certamente aumentato non poco i costi dell’import: energia, materie prime industriali, componentistica

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e beni di consumo. Complice anche l’impennata dei prezzi delle importazioni, i redditi reali delle famiglie si sono contratti del 6%. La bilancia commerciale, un tempo vanto del Sol Levante, deve continuare a sperimentare giorni poco gloriosi, e si capisce allora perché Abe intende rilanciare il programma energetico nucleare, a onta di tutti i sondaggi fatti dopo il disastro dell’11 marzo 2011 a Fukushima. È bene ricordare che prima del 2011 il Giappone era il terzo Paese per consumo di energia nucleare dopo Usa e Francia. Nonostante i dati non brillanti Tomo Kinoshita, economista di Nomura Securities, rassicurava gli investitori internazionali: «Pensiamo che l’economia sia in graduale miglioramento. Non c’è motivo di essere pessimisti per il futuro». Ma non tutti, in Giappone e all’estero, condividono lo stesso ottimismo. Tutt’altro. Come informavano le agenzie e i quotidiani dello scorso 27 dicembre, il governo del rieletto Shinzo Abe ha varato un nuovo pacchetto di aiuti da 3.500 miliardi di yen (in dollari 29 miliardi, in euro 24 miliardi) per favorire le regioni e le famiglie a basso reddito. L’obiettivo, poco ambizioso ma probabilmente realistico, è quello di incrementare il PIL dello 0,7% e di centrare l’obiettivo già fissato un anno prima di riportare l’inflazione al 2%, mantenendo l’impegno a una riduzione del deficit. Circa 1.700 miliardi di yen saranno destinati a interventi nelle aree colpite da disastri naturali; 600 miliardi saranno destinati alla rivitalizzazione delle economie locali e 1.200 miliardi andranno alle persone in difficoltà e alle piccole imprese colpite dalla congiuntura economica. «”Con la veloce applicazione di queste misure, credo che potremo alimentare i consumi e risollevare l’economia delle province ed espandere il ciclo di crescita a tutte le regioni del paese”, ha detto Abe ai deputati del suo partito durante un incontro con i deputati del suo partito» (La Repubblica, 27 dicembre 2014). Della serie: Ritenta, la prossima volta sarai più fortunato! David Stockman, già a fine novembre, scriveva: «Rimandando ancora una volta il giorno della resa dei conti del Giappone, questa volta fino al 2017, il primo ministro Abe si sta rivelando per quello che è: un pazzo allo stadio finale. Ma non rimarrà solo. A breve avrà tanta compagnia» (Stampa Libera, 26 novembre 2014). Scenario

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inquietante, non c’è che dire. Il giudizio di Francesco Simoncelli è, se possibile, ancora più impietoso: «Ci sono ancora commentatori là fuori che si sforzano di trovare lati positivi o spiegazioni plausibili al recente tonfo del Giappone. Ci mostrano grafici sulla disoccupazione, sull’occupazione, trasformazioni delle statistiche del PIL e quant’altro per venderci l’idea che il Giappone non è in recessione. Sono d’accordo. Non lo è. Infatti il Giappone è economicamente morto. [Questo] rappresenta il fallimento del mantra keynesiano spacciato come verità: “I deficit aiutano a superare una recessione”. La politica folle di Abe è stata un fallimento sin da quando è stata implementata due anni fa e l'Abenomics non ha fatto altro che danneggiare l’economia reale» (Trend Online,10 dicembre 2014). 5. Per il Giappone la cosiddetta trappola della liquidità è una realtà ben consolidata, e contro i bassi profitti attuali e attesi non c’è misura monetaria e fiscale in grado di costringere il cammello a bere, la papera a galleggiare, il consumatore a comprare, il capitalista a sfruttare. Tra l’altro, il tasso di risparmio del Giappone è costantemente diminuito, passando dal 20% del reddito familiare prima degli anni Settanta, al 15% nei primi anni Ottanta, al 10% nel 1990, al 5% nel 2000, al 2% nel 2009. Oggi questo tasso si aggira intorno al 3%. Secondo il professor Martin Feldstein, dell’Economics at Harvard University, «La capacità del Giappone di sostenere alti deficit pubblici, bassi tassi di interesse ed esportazioni di capitale netto è stato possibile grazie al suo alto tasso di risparmio privato, che ha mantenuto positivo il livello di risparmio nazionale. Ma, considerata oggi la scarsa propensione al consumo da parte delle famiglie, il circolo vizioso di deficit e debito presto azzererà il risparmio nazionale» (Economics, Business & Finance, 24/2010). Mauro Bottarelli concorda con questa nera previsione e rincara la dose: «Abe comincia ad aver paura che la situazione stia sfuggendo dal suo controllo. E qualcuno questo lo sa da tempo, visto che nella settimana conclusasi il 14 novembre scorso gli investitori a livello globale hanno ritirato dai fondi azionari giapponesi qualcosa come 3,8 miliardi di dollari, il più grosso outflows di capitale dal maggio

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2010». I fondi azionari USA hanno invece conosciuto a fine dicembre un inflows di 36,5 miliardi, l’flusso in entrata più alto dal 1992». Continua Bottarelli: «Vi dicono niente tutti questi dati messi assieme? A me sì. Ovvero, il Giappone è sulla strada del non ritorno, e chi investe per professione ha già incassato il premio e ora scappa a gambe levate lasciando le speranze nell’Abenomics a Krugman e ai suoi gonzi adoratori europei» (Affari e Finanza, 29 dicembre 2014). In effetti, è almeno dal 1998 (vedi La trappola del Giappone) che il celebre economista americano invita i leader giapponesi a una più intelligente (leggi: keynesiana) «gestione dell’inflazione» attraverso l’immissione nel sistema economico di nuovo denaro in grado di generare aspettative di leggera inflazione». Scriveva Alberto Annicchiarico sul Sole 24 Ore del 2009: «Il premio Nobel Paul Krugman proprio durante la caduta dell’economia giapponese propose un modello dinamico per interpretare la trappola della liquidità: gli agenti economici prendono delle decisioni che riguardano non solo il presente ma anche il futuro, anello mancante dei modelli keynesiani della prima generazione. Una trappola della liquidità può verificarsi se la crescita attesa dell’economia è negativa. In questo caso, come si diceva, la propensione è a risparmiare oggi per poter consumare anche domani, quando il reddito potrebbe essere perfino più basso. La terapia, allora, secondo Krugman potrebbe essere una politica monetaria attiva che generi aspettative di inflazione». Posta l’originalità di Krugman nell’ambito della scuola neo/post keynesiana, cosa che personalmente metto in questione, si può certamente affermare che il premio Nobel ha perso molte battaglie sul fronte Giapponese, se non l’intera guerra. In effetti, i governi giapponesi che si sono succeduti negli ultimi quindici anni hanno cercato di sostenere la cosiddetta domanda effettiva sia emettendo debito pubblico (e controllando le spinte inflazionistiche attraverso la Banca Centrale), sia emettendo moneta (mettendo in conto una moderata inflazione), con i magri risultati che ci sono noti. «Non c’è niente di misterioso», sosteneva sempre Krugman nel 1999 (Il ritorno dell’economia della depressione), «riguardo all’inizio della recessione giapponese del 1991: presto o tardi la bolla

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finanziaria doveva scoppiare e, una volta successo, avrebbe determinato un declino negli investimenti, nei consumi e quindi nella domanda complessiva» Detto che nessuno può negare la tendenza a scoppiare delle bolle finanziarie (è nella loro natura, per così dire); detto questo, mi sembra che la spiegazione addotta da Krugman, la quale peraltro si inscrive nella interpretazione mainstream della lunga crisi giapponese, sia fin troppo semplice, e soprattutto che essa non colga il punto centrale del problema: le cause strutturali che generarono quella bolla. Cosa ha permesso il formarsi in Giappone di una mostruosa bolla finanziaria a partire dagli anni Ottanta, ossia proprio quando l’ascesa del capitalismo giapponese appariva (e per molti versi fu davvero) inarrestabile? Domanda ancora più decisiva e insidiosa: cosa spiega il perdurare del “caso giapponese”? In primo luogo occorre soffermarsi sul peculiare carattere della crisi giapponese («caratterizzata da stagnazione intervallata da lunghi periodi di recessione e da una lunga deflazione», come leggo dal Rapporto di Previsione pubblicato da Prometeia nell’ottobre del 2008): essa appare per molti aspetti un rompicapo di difficile comprensione e di più ardua soluzione. Per un verso si tratta di capire le cause immediate e remote di questa crisi, e per altro verso di spiegare, come dicevo sopra, i motivi della sua eccezionale durata, che per certi aspetti ricorda la depressione americana degli anni Trenta: «Negli Stati Uniti la Grande Depressione finì grazie a un ingente programma di lavori pubblici finanziato dal deficit, conosciuto sotto il nome di Seconda guerra mondiale; perché non tentare di resuscitare la crescita giapponese con qualcosa di simile, anche se più pacifico?» Così scriveva Krugman alla fine degli anni Novanta nel già citato saggio sul Ritorno dell’economia della depressione, ristampato con successo all’inizio della crisi economica internazionale del 2008. Nel frattempo sono state sperimentate in Giappone diverse politiche economiche di stampo keynesiano, con risultati a dir poco controversi. Certo, manca ancora all’appello il keynesismo dei tempi di guerra, che tanto piace al Nobel per l’economia americano (e, a dire il vero, non solo a lui), anche se ovviamente non lo confesserebbe nemmeno sotto tortura (nemmeno da parte degli alieni…).

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Secondo il citato Rapporto di Prometeia, «la politica economica attuata nella gestione della crisi è stata in sostanza fallimentare nel rispondere adeguatamente agli eventi (quando non addirittura controproducente) e quindi il protrarsi e l’acuirsi della crisi è da imputarsi in gran parte all’incapacità dei policy maker in termini di abilità, intensità e tempestività». Sul “keynesismo” con caratteristiche giapponesi ritorneremo dopo. A Michael Spence, economista della New York University e premio Nobel nel 2001, non sembra invece «appropriato addossare tutta la colpa al governo Abe né alle misure di incremento fiscale per l’entrata in recessione del Giappone per la quarta volta in sei anni. La verità è che, quando guidi un Paese che è da vent’anni in deflazione, cammini su un crinale talmente stretto che la caduta è lì, imprevedibile, ad ogni momento. Sarebbe ingiusto definirlo, in modo secco, un errore. È stato un tentativo, un esperimento, che è purtroppo andato male» (La repubblica, 18/11/2014). Non c’è dubbio. Diciamo che è da quasi vent’anni che il Giappone fa tentativi e che sperimenta di tutto e di più, fuorché affrontare di petto i famigerati problemi strutturali. Ecco il circolo vizioso giapponese di lunga durata: quantitative easing a gogò, spesa pubblica finanziata in deficit e continui tentativi di tenere il debito pubblico sotto controllo aumentando le tasse, tentativi che puntualmente annullano quel po’ di crescita innescata dai soliti rimedi “keynesiani”. Il risultato è quello che vediamo: debole, se non inesistente, crescita, deficit del 10% sul PIL e debito pubblico molto oltre il 220% sul PIL, il più alto del mondo. C’è da dire che il debito, per finanziare il quale lo Stato destina una percentuale sempre più alta delle sue entrate fiscali (si viaggia verso un inquietante 30%), e sul quale esso paga tassi di interesse sui decennali intorno allo 0,82% (e quindi minori di quelli tedeschi e americani); il debito, dicevo, è detenuto quasi tutto da giapponesi, cosa che solo in parte, e a determinate condizioni (che per adesso appaiono soddisfatte), rappresenta un punto di forza per il sistema-Paese. Per Mike Norman, capo economista della John Thomas Financial (istituto finanziario di Wall Street), il debito pubblico in generale (e il debito pubblico battente bandiera giapponese in particolare) non è

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che un falso mito: «Se anche il Giappone avesse un rapporto debito/pil del 300, 500 o 1000% la sua capacità di far fronte alle sue obbligazioni in yen è fuori discussione» (MMT, 13 febbraio 2013). A garanzia del debito pubblico, osserva Norman, si pone la stessa sovranità dello Stato di emettere moneta: «Per esempio, gli USA emettono la loro moneta dal nulla e saranno sempre in grado di ripagare un’obbligazione denominata nella loro valuta, il dollaro». Senza entrare nel merito di questo – presunto – «nulla», occorre dire che il dollaro ha come suo solido retroterra la prima potenza capitalistica globale (non solo economica) del pianeta, mentre la stessa cosa non si può dire della divisa giapponese. Quanto importante sia la capacità politico-militare degli Stati Uniti in rapporto al dollaro, e attraverso quest’ultimo in rapporto ai traffici commerciali e finanziari degli altri Paesi, è stato dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio dalle numerose guerre monetarie (che hanno visto come protagonisti il dollaro, la sterlina, il marco e lo yen) che si sono succedute dalla fine degli anni Sessanta in poi. D’altra parte, il Paese che detiene il monopolio della valuta internazionale, sulla cui base si stabiliscono le transazioni commerciali e si denominano crediti e debiti delle multinazionali e delle nazioni, è un po’ come quel giocatore che, poggiando il revolver sul tavolo verde, decide di tenere il banco e di dare le carte arrogandosi il “diritto di sbirciata”. Guai al giocatore che, non sapendo o dimenticando che il diritto è in primo luogo la ratifica di un fatto, denuncia il gioco sporco di chi siede al banco. La crisi monetaria internazionale che, con alterne vicende, va avanti ormai da almeno quattro decenni (qui è appena il caso di ricordare il momento di svolta rappresentato dalla dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro del 1971), riflette per un verso il declino degli Stati Uniti come incontrastata prima potenza globale del pianeta, e per altro verso la loro reazione a questa tendenza, la quale ha in ogni caso natura relativa e ha senso solo in rapporto all’azione delle potenze che aspirano al primato, o quantomeno a una migliore posizione nell’agone interimperialistico. Per questo quando il solito Krugman sostiene, sempre in riferimento alla crisi che attanaglia il Giappone, che «I benefici che gli Stati Uniti traggono dal ruolo internazionale detenuto dal dollaro sono,

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anche se pochi vorranno crederci, nell’ordine dello 0,1 o 0,2% del PIL», e che quindi «gli interessi economici di una grande nazione» come il Giappone «non devono essere sacrificati sull’altare della vanità» (fare dello yen una valuta globale), fa un po’ ridere. La sua ingenuità economicista andrebbe premiata, magari con un altro bel Nobel. 6. I giapponesi vantano il non invidiabile primato mondiale per quanto riguarda la loro età media: 44,7 anni. Quella giapponese è, infatti, la popolazione più vecchia del mondo, davanti a quella tedesca e italiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’età media giapponese si aggirava intorno ai 22,5 anni: esattamente la metà di quella attuale. E se ancora a metà degli anni Settanta del secolo scorso il tasso di natalità in Giappone oscillava sopra il 2%, oggi il Paese deve fare i conti con una decrescita che fa registrare una contrazione della popolazione totale. Sulla scorta di dati basati sulla proiezioni del trend demografico degli ultimi anni, la popolazione giapponese potrebbe passare dagli attuali 125 milioni circa di abitanti a poco più di 80 milioni entro il 2060. La popolazione attiva del Giappone rappresenta una percentuale via via decrescente della popolazione del Paese. Oggi in quel Paese si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio. L’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica attualmente non supera il 20% del PIL, ma secondo recenti stime questa incidenza potrebbe oltrepassare il 35% entro il 2035. Come osserva l’Ocse nel suo Outlook sulle pensioni per il 2014, l’Italia spende per le pensioni (in rapporto alla spesa pubblica) più di tutti i paesi monitorati. In riferimento all’anno 2011, l’Ocse registra per il nostro paese una spesa previdenziale pari al 32% del totale della spesa pubblica contro la media del 18% nei Paesi più avanzati del mondo – il livello più basso è dell’Islanda, con il 5%. La spesa previdenziale italiana è stimata, sempre dall’Ocse, al 14% del Pil nel 2015, al quinto posto tra i paesi Ocse, contro una media del 10%. A lungo termine la spesa per le pensioni in Italia si fermerà al 16% del Pil, contro il 12% della media Ocse. È sempre utile fare un raffronto fra i diversi Paesi.

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Com’è noto, la società del Sol Levante è storicamente chiusa nei confronti di acquisti di popolazioni “barbare”: l’unico gruppo etnico non giapponese che vive nel Paese è quello Ainu, che conta circa 25.000 persone concentrate quasi interamente sull’isola di Hokkaido e sulle Isole Curili. «L’altissimo livello di coesione sociale e razziale della popolazione, che ha sperimentato pochissimi matrimoni misti con etnie diverse», è alla base di «una coesione che si palesa non solo in un fortissimo senso di identità nazionale e in una specificità culturale, quanto anche – ed è questo che maggiormente impressiona gli occidentali – in una marcata enfasi su principi quali armonia sociale, ricerca del consenso, deferenza generazionale e subordinazione dei desideri individuali al bene collettivo» (P. Kennedy, Verso il XXI secolo, 1993). Il forte senso di appartenenza comunitaria dei giapponesi, che dopo la tragedia dell’ultima guerra mondiale ha avuto come suo punto di riferimento non più l’esclusiva figura dell’Imperatore, un Dio in Terra, ma l’Azienda (con tanto di bandiere e inni aziendali), ha prodotto nei primi anni Novanta un altrettanto forte e invincibile senso di alienazione ed esclusione sociale (kodokushi) in molti lavoratori espulsi dal processo produttivo. Assai significativo suona il pensiero che Haruki Murakami attribuisce al politico Wataya Noboru, un personaggio del suo bellissimo romanzo L’uccello che girava le Viti del Mondo (1994): «La gente non poteva agire senza un’indicazione precisa. Aveva bisogno di un principio vhe fungesse da modello, almeno provvisorio. L’unico modello che potesse attualmente offrire lo Stato giapponese era l’efficienza. […] Ma ci si soffermasse un momento a riflettere: oltre a far funzionare le cose sempre meglio, per tutto il dopoguerra noi giapponesi avevamo creato una filosofia o qualcosa del genere? Eppure l’efficienza era una forza valida solo se aveva una direzione ben precisa. Venendo a mancare questa, l’efficienza non valeva più nella. In caso di naufragio in mezzo al mare, se si perdeva il senso dell’orientamento a cosa serviva mettere ai remi uomini abili e robusti?». La crisi economica degli anni Novanta ha fatto di «uomini abili e robusti», inquadrati nell’esercito industriale nipponico, non più che bambini

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fragili, insicuri, spaesati, incapaci di inventarsi una nuova missione, una nuova “filosofia di vita”. Diversi sono stati i casi di abbandono della propria famiglia da parte di lavoratori disoccupati vinti dall’umiliazione, e numerosi i casi di suicidio. A tal proposito, un picco di suicidi si è registrato ultimamente nelle zone colpite dal terremoto e dal maremoto del marzo 2011: un rapporto ufficiale che studia l’andamento del fenomeno nel Paese parla di oltre 30.000 suicidi in un anno. Secondo la polizia molti sono i casi di suicidio “camuffato” da incidente domestico, automobilistico, e così via. Scriveva lo psichiatra Maurizio Pompili nel 2012 a proposito del kodokushi: «È il suicidio delle relazioni interpersonali, il fallimento totale della società, dei rapporti con gli altri. Il fallimento totale della società, dei rapporti con gli altri. Quando viene meno la socializzazione vuol dire che qualcosa non va nel sistema, nella comunità intera e nei suoi modelli socio-culturali». Ecco cosa fa il Dominio sociale capitalistico ai suoi sudditi; e non solo a quelli più “sfortunati”. Chiudo la parentesi “esistenzialista”. Insomma, la politica della purezza della razza oggi mostra tutti i suoi limiti, e la demografia del Giappone si è incamminata da anni lungo un sentiero molto problematico. Naturalmente qui non si fa riferimento a un’astratta demografia, alla demografia in sé, per così dire, ma alla questione demografica come viene configurandosi nel contesto di una società capitalistica collocata in un pianeta dominato dai rapporti sociali capitalistici. Insomma, una lettura malthusiana di questo problema è, almeno per chi scrive, del tutto priva di senso. Il Giappone anticipa il nostro futuro? È la domanda che almeno da vent’anni, da quando la locomotiva giapponese ha finito di marciare a tutto vapore, sta sulla bocca degli economisti, dei politici (almeno di quelli che aspirano allo status di statista) e degli analisti di geopolitica del Vecchio Continente. Va pure detto che a cominciare dalla seconda metà degli anni Settanta le industrie giapponesi, per reagire ai contraccolpi della crisi economica internazionale, hanno impiegato sempre più donne lavoratrici a basso costo (soprattutto casalinghe part-time), grazie anche alla diffusione delle tecnologie informatiche sia nelle industrie

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che negli uffici. Questo non ha però spinto la politica giapponese a modificare sostanzialmente il vecchio assetto del Welfare, centrato sul lavoratore maschio e sul gratuito lavoro di cura svolto dalla donna moglie e madre. Il rapido aumento dell’impiego femminile ha provocato un netto calo del tasso di natalità media, che è sceso da 2,05 nel 1974 a 1,34 nel 1999. Nel 1996 il Premier Hashimoto cercò di varare un ambizioso programma di riforma del Welfare, basato su un diverso assetto del sistema di assicurazione sanitaria, fonte di grande inefficienza (nell’inefficienza, com’è noto, si radicano rendite finanziarie e politiche, ma anche stipendi e sussidi di vario genere, senza parlare dei “fenomeni corruttivi”), e sull’aumento dei contributi pensionistici, ma il suo tentativo naufragò miseramente. Scriveva Paul Kennedy nel 1993, quando la gravità della crisi sistemica giapponese era appena percepibile e comunque veniva oscurata dal lungo retaggio fatto di indiscutibili successi per il Sol Levante: «Non c’è dubbio che i funzionari e gli imprenditori nipponici temano molto che lo sfavorevole trend demografico, insieme ai mutamente economici e sociali, possa condurre nel lungo periodo a un declino del paese in quanto potenza economica. […] Tutte le più pessimistiche previsioni sulle possibili ripercussioni economiche di una popolazione mediamente sempre più anziana ignorano gli effetti del progresso tecnologico sulla capacità produttiva. Ciò spiegherebbe non solo i maggiori investimenti in nuovi impianti, macchinari, acciaierie e cantieri ad alta tecnologia, ma anche la forte attrazione nei confronti dell’automazione e della robotica di cui si è discusso in precedenza. Se manterranno le loro promesse, infatti, i robot potranno offrire una meravigliosa via d’uscita ai problemi del paese, che potrà mantenere la leadership del processo produttivo a al contempo ovviare a qualsiasi ulteriore scarsità di forza lavoro, senza dover importare milioni di lavoratori stranieri e le loro famiglie» (Verso il XXI secolo). Kennedy ignora a sua volta la natura capitalistica del fenomeno sociale che cerca di spiegare. Infatti, per il capitale ha senso investire in tecnologia (e quindi in ricerca scientifica teorica e applicata) solo perché le macchine hanno la prerogativa di allungare quella parte della

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giornata lavorativa che genera il marxiano plusvalore, mentre restringe di conseguenza quella parte retribuita con il salario. Nell’epoca capitalistica caratterizzata, secondo Marx, dalla «sussunzione reale del lavoro al capitale» (formula che mi permetto di modificare sostituendo al concetto di «sussunzione reale» quello di sussunzione totalitaria), la tecnoscienza permette al capitale di ampliare il tempo di pluslavoro (lavoro erogato dal lavoratore a titolo gratuito, base materiale del plusvalore) senza allungare i limiti assoluti della giornata lavorativa o, anzi, accorciandoli: è questo il concetto di produttività del lavoro che coglie l’essenza del processo capitalistico come si svolge nella realtà, e non nella testa dei feticisti della tecnologia, i quali naturalmente ignorano che anche la tecnologia è, in primo luogo, un rapporto sociale. Il robot, insomma, ha un senso capitalistico solo se riesce a incrementare il saggio di sfruttamento dei lavoratori, cosa che d’altra parte deve armonizzarsi con un altro e più decisivo saggio ai fini dell’accumulazione: il saggio del profitto, il quale è influenzato in modo ambivalente (contraddittorio, dialettico) proprio dalla composizione organica (rapporto tra “capitale tecnologico” e “capitale umano” espresso in termini di valore) delle imprese capitalistiche. Il problema “tecnologico” del capitale si riduce come segue: l’investimento in tecnoscienza e in tecnologia avanzata fa crescere in modo adeguato il rendimento (la profittabilità) dell’intero capitale investito? Decisamente il robot non è la panacea delle magagne capitalistiche. Dalla trappola demografica, che affligge tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati (o “maturi”, ovvero “vecchi”) del pianeta, si può uscire solo aumentando sempre di nuovo la produttività del lavoro, cosa che d’altra parte presuppone la bronzea condizione di profittabilità (o redditività) dell’investimento capitalistico in attività che creano ricchezza, e che non si limitano a farla semplicemente circolare, facendola passare da una metaforica tasca all’altra, creando l’illusione della creazione di ricchezza dalla semplice “movimentazione” della stessa ricchezza. Mi permetto di citarmi: «A Piketty “Sembra necessaria la leva della tassazione. Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le

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grandi fortune a livello mondiale, da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà politica”. No, occorre in primo luogo che l’accumulazione capitalistica riprenda in grande stile, occorre che la generazione di ricchezza sociale attraverso lo sfruttamento sempre più intensivo (scientifico) della capacità lavorativa torni a sorridere al profitto come ai bei tempi (per il capitale industriale, beninteso) del boom economico, perché solo questo rende possibile la distribuzione della lana, per riprendere la celebre metafora di Olof Palme sulla pecora borghese da tosare solo dopo averla ben nutrita. Insomma, anche nel Capitalismo del XXI secolo la “volontà politica” non sorretta da un adeguato saggio di accumulazione del capitale distribuisce solo la miseria» (Brevi note critiche al Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty). Se non si prosciuga almeno una parte del mare di parassitismo sociale che si è formato insieme alla straordinaria crescita del capitalismo cinese; e se i governi giapponesi non orientano il sistema-Paese verso una rapida crescita della produttività totale (non solo industriale), sarà difficile creare in Giappone un sostenibile Welfare. Inutile dire che questi sono nodi che aspettano di essere sciolti in tutti i Paesi capitalisticamente “maturi” del pianeta, in primis là dove l’alto tasso di parassitismo sociale, la sperimentata inefficienza della macchina politico-istituzionale e la bassa produttività sistemica totale sono magagne molto vecchie, e quindi assai robuste e radicate nella società. Il lettore sta pensando al Bel Paese? E fa bene! 7. Tra le misure promesse nel dicembre 2012 dal governo Abe per incrementare la produttività totale ed eliminare consistenti sacche di inefficienza sistemica, spiccava per originalità quella relativa al regime di protezioni (nei confronti dei coltivatori, delle società farmaceutiche, degli studi professionali, ecc). Soprattutto la produzione agricola ha sempre goduto in Giappone di massicci sussidi e di imponenti barriere protezionistiche, cause di continui

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battibecchi con gli Stati Uniti e con i competitori asiatici, ma anche di malessere per una consistente fascia di popolazione giapponese. L’agricoltura del Paese è rimasta molto indietro rispetto all’industria, e nemmeno la ristrutturazione negli assetti proprietari delle terre (concentrazione e razionalizzazione nel capitale “verde”) e la rivoluzione biotecnologica degli anni Novanta hanno modificato radicalmente il quadro. Ciò che sta avvenendo nel significativo (di più: strategico, per il Giappone e per tutti i Paesi asiatici) comparto del riso forse annuncia una ripresa dell’iniziativa governativa: «A partire dal 2014, la consolidata politica giapponese sulla produzione e sulla vendita del riso subirà un radicale cambiamento. Il controllo delle quote, che ha radici storiche molto lontane, dal 1970, è stato impostato con l’obiettivo di mantenere il prezzo del riso alto e di garantire agli agricoltori un sussidio statale annuale. Nell’arco di quattro anni, entro la fine del 2018, sarà eliminato ogni tipo di aiuto economico da parte del governo e i prezzi saranno liberalizzati. La conseguenza, secondo alcuni analisti giapponesi, sarebbe un notevole incremento della produzione del 40% rispetto all’attuale e un importante abbassamento dei prezzi. Ciò permetterebbe di rendere il riso giapponese molto competitivo sui mercati esteri e incrementare le esportazioni come mai avvenuto prima. […] La Cina si trova in una condizione del tutto opposta rispetto a quella giapponese. Il più grande produttore di riso al mondo ha mantenuto i prezzi troppo bassi fino a oggi. In questi anni si è registrata una differenza enorme tra i guadagni pro-capite dei cittadini cinesi che vivono nelle città e coloro che vivono di agricoltura nelle campagne. Se il governo tenterà di appianare tale differenza, ed è costretto a farlo presto dato che rappresenta un problema socio-politico di dimensioni enormi, il costo dei prodotti agricoli è destinato ad aumentare notevolmente. In questa ottica, il Giappone quanto gli altri grandi produttori del Sud-Est asiatico, potranno cominciare a competere addirittura sul mercato cinese. Un pericolo non indifferente per Pechino che scorge una minaccia capace di toccare il delicato equilibrio fra esportazioni, demografia e industria alimentare» (P. Balmas, BloGlobal, 9 maggio 2014). Com’è noto, chi tocca (o non tocca: dipende!) il cibo muore…

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8. Per Makoto Itoh la classe dirigente giapponese è stata keynesiana nei confronti del capitale finanziario e delle grandi multinazionali, e neoliberista nei confronti del piccolo e medio capitale, nonché, soprattutto, con le classi subalterne: riduzione dei salari, contrazione del Welfare, privatizzazioni di società pubbliche, riforma del mercato del lavoro, attacco ai diritti sindacali, ecc. D’altra parte, privatizzare i profitti e socializzare le perdite non è un’invenzione giapponese. «Se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato una tendenza a realizzare un sistema di eguaglianza sociale economica, è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca, della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle altre istituzioni finanziarie. […] Il compito attuale più importante, ma anche più difficile da perseguire per il futuro, è quello di ricreare nella politica giapponese, sulla base dei movimenti di lavoratori e di cittadini, un tipo di legame sociale generale per le masse della popolazione». È proprio ciò che a mio avviso i lavoratori, il ceto medio proletarizzato e le «masse popolari» in generale devono guardarsi dal fare, se non vogliono continuare a consegnare il loro metaforico scalpo al Capitale senza neanche lottare. Non condivido e anzi combatto la reazionaria nostalgia di Itoh per il «tipo di legame sociale generale» che la crisi degli anni Novanta ha mandato in frantumi. «Il fatto che l’economia giapponese sia finita, per diversi motivi concomitanti, in una spirale di recessione è, per molti versi, una chiara prova del fallimento del “neoliberismo”. Diversamente da quel che tuttora molti credono, il neoliberismo è diventato la linea guida delle politiche economiche anche giapponesi all’inizio degli anni ‘80, sulla scia di quanto avveniva negli Stati Uniti e nel Regno Unito. A differenza del keynesismo dominante fino agli anni ‘70, il neoliberismo prevede una riduzione del ruolo economico dello Stato, e giura sulla capacità del libero mercato di determinare un ordine economico razionale ed efficiente. Non si tratta semplicemente di una reazione al fallimento pratico del keynesismo nel far fronte alla crisi economica degli anni ‘70, ma di una dottrina economica che ben si sposa con il processo di ristrutturazione industriale in atto. Con

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l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, le aziende capitalistiche hanno ulteriormente intensificato la competizione di flessibilità nel mercato, moltiplicando i modelli di prodotti, delocalizzando impianti e uffici sia all’interno del paese che all’estero, sviluppando un’organizzazione del lavoro che prevede un aumento di lavoratori flessibili part-time e di attività globalizzate in vari settori». Itoh chiama dottrina neoliberista o «credo neoliberista nei principi del libero mercato» ciò che a tutti gli effetti si configura come prassi capitalistica, tendenza alla speculazione compresa. «Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usuraio minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usuraio gigantesco. […] L’evoluzione del capitalismo è giunta a tal punto che, sebbene la produzione di merci continui come prima a “dominare” e ad essere considerata come base di tutta l’economia, essa in realtà è già minata e i maggiori profitti spettano ai “geni” delle manovre finanziarie» (Lenin, L’imperialismo). La politica del profitto a ogni costo propria della ristrutturazione promossa dalle aziende in base ai principi del libero mercato, sostiene l’economista giapponese, ha generato la crisi: ma tutto ciò non rappresenta né una novità né il fallimento del Capitale ma piuttosto la sua fisiologia. Il fatto che, dopo il lungo boom economico del Secondo dopoguerra, l’accumulazione capitalistica nei Paesi capitalisticamente “maturi” non abbia ritrovato più un adeguato sentiero di crescita o, ancora più esattamente, un sentiero di crescita almeno paragonabile a quello dei “bei tempi”, ciò per un verso appare “naturale” (gli alti tassi di sviluppo si sono spostati nei Paesi un tempo arretrati o «in via di sviluppo»), e per altro verso ci dice che perdurano nel processo di accumulazione (che è in primo luogo un processo di valorizzazione, ossia di sfruttamento del lavoro salariato) quelle tendenze di fondo che si manifestarono nei primi anni Settanta e che generano 1) ristrutturazioni tecnologiche e organizzative, 2) accelerazione nel processo di internalizzazione delle imprese, 3) nuove configurazioni nella divisione internazionale del lavoro, 4) processi di finanziarizzazione speculativa, e così via. Solo all’interno di questa griglia concettuale assume un senso compiuto, almeno ai miei occhi, l’eccezionale durata della bassa

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crescita nel seno delle metropoli capitalistiche più vecchie, che quasi tutti i governi hanno cercato di fronteggiare con politiche tese a stimolare i consumi. Scrive infatti lo stesso Itoh: «Per queste ragioni, il governo giapponese, in contraddizione con una posizione di formale neoliberismo, ha intrapreso una politica di interventismo pubblico su larga scala». 9. Nel 1998 il Premier Keizo Obuchi, insediatosi a metà del 1998 e alle prese con una grave – l’ennesima – recessione, annunciò il varo di un pacchetto di misure economiche in grado di fare uscire «definitivamente» il Paese dalle secche della lenta crescita alternata a periodi di vera e propria stagnazione. Si tenga presente che nel solo 1998 i prestiti inesigibili ammontavano a circa un trilione di dollari: una montagna di instabilità pronta a innescare un effetto domino dalle inquietanti dimensioni. Solo la solidità del sistema-Paese colto nel suo complesso, e l’eccezionale retaggio capitalistico del Giappone impedirono al Paese un esito catastrofico di stampo latinoamericano. Occorre anche ricordare che nel 1997 il Premier Ryutaro Hashimoto, approfittando di una “ripresina”, aveva aumentato le tasse per ridurre il deficit di bilancio (che si aggirava intorno al 10% sul PIL) e arrestare la corsa verso il baratro della crisi fiscale. Cosa che generò l’ennesimo capitombolo congiunturale che attestava la perdurante e assai problematica fragilità dell’economia giapponese. Ma veniamo alle misure di Obuchi: «Il pacchetto di reflazione, che ammontava a quasi 200 miliardi di dollari e abbracciava una combinazione di tagli fiscali, crediti e spesa pubblica, fu il più grande nella storia giapponese» (R. Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, 2000). Alla fine del ’98 il parlamento giapponese elaborò un piano di salvataggio da 500 miliardi di dollari rivolto alle banche. Anche allora le misure governative ebbero sull’economia giapponese un effetto positivo, rivitalizzante, “adrenalinico”, comunque tale da confortare le speranze di tutti, anche quelle del Presidente degli Stati Uniti Clinton, il quale «era fermamente convinto che il Giappone dovesse perseguire politiche fiscali e monetarie espansive», politiche, cioè, che segnassero un’inversione di tendenza rispetto alla

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tradizionale strategia capitalistica nipponica basata sulle esportazioni. È un po’ quello che oggi si chiede di fare alla Germania, sempre cambiando quel che c’è da cambiare: in Italia è soprattutto Renato Brunetta, economista di sicura levatura scientifica (diciamo), che non fa passare giorno senza ricordare all’odiata Cancelliera che deve implementare una politica rigorosamente reflattiva, se non vuole accollarsi la responsabilità «politica ed etica» della distruzione dell’Unione Europea. Com’è noto, La “ripresina” del 1999/2000 non segnò affatto per l’economia giapponese l’uscita «definitiva» dal tunnel, né un’inversione di tendenza. Tassare il più possibile il «nocivo» risparmio privato, generare un’aspettativa di inflazione, favorire in tutti i modi il consumo delle famiglie, così da innescare il circolo virtuoso della crescita: questa la ricetta keynesiana che la gran parte degli economisti occidentali consigliarono ad Abe dopo la sua ascesa a Premier nel dicembre del 2012. «Queste sarebbero davvero riforme radicali. C’è una minima possibilità che Shinzo Abe si muova in questa direzione? No. Ma senza queste riforme, la nuova linea della Banca del Giappone si dimostrerà, nella migliore delle ipotesi, un palliativo di breve durata, e nella peggiore delle ipotesi un disastro inflattivo. Intanto la Cina farebbe bene a prendere nota che è questo il risultato finale di un’economia costruita in modo da favorire gli investimenti e reprimere i consumi. È un’ottima strategia per colmare il divario con i Paesi ricchi, ma una volta che la crescita veloce finisce, si lascia dietro grossissimi grattacapi». Così scriveva Martin Wolf sul Sole 24 Ore del 10 aprile 2013. Mutatis mutandis, anche la Germania farebbe bene a prendere nota della cosa? Secondo Renato Brunetta e gli altri economisti antitedeschi la risposta non può che essere una sola e categorica: sì! Ma è davvero questo (alti investimenti, bassi consumi privati, demografia sfavorevole) il problema che affligge il depresso capitalismo giapponese? È davvero la mancanza di una tassazione in grado di scoraggiare il risparmio privato (oggi generato quasi integralmente dalle imprese) che rende assai problematica la ripresa in grande stile dell’economia del Sol levante?

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Scriveva sempre Wolf: «Il risparmio privato in Giappone è di gran lunga troppo alto rispetto alle opportunità di investimento plausibili. La somma di ammortamento e capitale di risparmio delle imprese giapponesi nel 2011 arrivava alla sbalorditiva percentuale del 29,5 per cento del Pil, contro il 16 per cento negli Stati Uniti, che pure sono alle prese anche loro con un problema di surplus finanziario delle imprese. Il sistema economico giapponese è una macchina fatta apposta per generare un elevato tasso di risparmio nel settore privato. Un’economia matura, con una popolazione in invecchiamento, non è in grado di fare un uso produttivo di questi risparmi. Come fa notare Dumas, gli investimenti lordi in capitale fisso delle imprese in America negli ultimi 10 anni sono stati in media del 10,5 per cento del Pil, contro il 13,7 per cento in Giappone. Eppure la crescita economica negli Usa è stata di gran lunga superiore. Le corporations giapponesi evidentemente investono troppo, non troppo poco. Non si può pensare che alzando il tasso di investimento, per assorbire una parte maggiore dell’eccesso di risparmio delle imprese, non si accresca lo spreco. Nel breve termine, tassi di interesse reali negativi potrebbero far crescere un po’ gli investimenti, perché i risparmi frutterebbero meno. Ma nel medio-lungo termine gli investimenti delle imprese nipponiche dovrebbero diminuire». Insomma, la struttura industriale giapponese è in crisi di sovraccumulazione. Rimane da individuare le cause “ultime” di questa crisi. La ricerca continua – per definizione.