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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 59 LUGLIO 2017 CITTÀ DEL VATICANO Costruttrici di chiese

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 59 LUGLIO 2017 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Costruttrici di chiese

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numero 59luglio 2017

Per trovare la forza di resistereLU C E T TA SCARAFFIA A PA G I N A 3

Architetture vicine alla nostra pelleANNA BENEDETTI A PA G I N A 9

Un sogno multiculturaleED WA R D ACTON A PA G I N A 14

Servizi per la comunitàFRANCESCA DAPRÀ A PA G I N A 17

Il colore e la luceGEMA PAJARES A PA G I N A 19

Sentinella sul lagoGIULIA GALEOTTI A PA G I N A 23

LA S A N TA DEL MESE

Una santa marranaANNA FOA A PA G I N A 26

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

Maria di Betania modello di ascoltoBARBARA E. REID A PA G I N A 29

ARTISTE

Donna per le donneELISA ZAMBONI A PA G I N A 36

ME D I TA Z I O N E

Dispersi in troppe coseA CURA DELLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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di LU C E T TA SCARAFFIA

Per trovarela forza di resistere

La storia di Nadia e delle tante piccole chiese domestichedelle badanti ucraine in Italia

Ha un aspetto forte e dolce al tempo stesso Nadia Kuzinmko, ucrainache vive e lavora in Italia dal 2002. È una delle numerose donne chesono immigrate nel nostro paese per lavorare, soprattutto per assiste-re in casa bambini e anziani, per aiutare nelle faccende domestiche.Come quasi tutte loro, ha lasciato nel suo paese una famiglia: il mari-to e due figli, e in Italia ha allevato i figli di un’altra famiglia, assisti-to anziani che non conosceva mentre si facevano vecchi i parenti la-sciati a casa. Ma è contenta che il suo progetto si è realizzato: grazieal suo sacrificio, la famiglia ha adesso una casa di proprietà e i figlihanno potuto studiare.

Come sono stati i primi tempi?

Sono arrivata grazie alla moglie di mio cugino, emigrata a Romaqualche anno prima. Il primo mese è stato duro: non sapevo parlareitaliano, non trovavo lavoro. Ma la mia parente mi ha aiutata, mi hadato un posto in cui stare. Per altre, che non avevano alcun appog-gio, l’inizio è stato molto più duro. Poi ho trovato lavoro a Terni,dovevo assistere una signora anziana. Ma non riuscivo ad avere ilpermesso di soggiorno, e i figli dell’anziana non mi volevano tenerecome clandestina. Sono tornata a Roma, da dove stavo per partireper Firenze, con la morte nel cuore perché a Roma c’erano le poche

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Mensile dell’Osservatore Romanoa cura di

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

RI TA MBOSHU KONGO

MA R G H E R I TA PELAJA

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

Una pietra dopo l’altra, a mani nude fino a raggiungere le pendicidel Potosí. Così un gruppo di cinquanta piccole donne, tutte contrecce nere e gonne colorate multistrato, hanno costruito la minuscolachiesetta che si trova a picco nel percorso verso la Cordillera Real, a6088 metri di altitudine e a 25 chilometri a nord di La Paz. Ci si arri-va tramite una scalinata piuttosto ripida, tra splendidi scorci panora-mici dove le tipiche pietre inca dal taglio poligonale si sovrappongo-no a pezzi di mattoni d’argilla mista a paglia. Un legame indissolubi-le che non si spezza quello tra la popolazione indigena della Boliviae del Perú meridionale con la natura, il paesaggio e la religiosità po-p olare.

Le donne hanno sempre, nella storia e in tutto il mondo, contri-buito in modo determinante a costruire chiese, cappelle, luoghi dipreghiera. Con il loro desiderio, la loro determinazione, il loro sacri-ficio personale ma ultimamente anche intervenendo come architettinei progetti. E se, come ci dice in questo numero Eva Hinds, autricedella splendida Capilla Cardedeu a un’ora di macchina da San Sal-vador, non esiste uno specifico femminile in architettura, è vero peròche, progettando e disegnando, le donne rivelano una speciale sensi-bilità per le esigenze di chi frequenterà questi luoghi, di chi ha biso-gno di questi spazi per vivere.

La Chiesa, intesa come comunità cristiana, è un corpo in continuatrasformazione, e lo sono quindi i suoi spazi celebrativi, sostieneFrancesca Daprà del Politecnico di Milano in questo numero, ponendo una domanda: quali sono le esigenze degli abitanti con-temporanei rispetto agli edifici del culto? Domanda che trova una ri-sposta possibile nel pezzo, scritto dal figlio, su Daphne Acton, incui l’idea di chiesa africana multietnica ha ispirato un intero progettoarchitettonico. (silvina pérez)

L’EDITORIALE

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persone che conoscevo. All’improvviso, ho trovato lavoro presso unafamiglia a Roma, dove sto ancora adesso.

L’immigrazione dall’Ucraina, soprattutto in quegli anni, era prevalentemente femmi-

nile. Ha conosciuto altre donne del suo paese?

Sì, le ho incontrate in chiesa, alla messa della domenica. E siamodiventate subito un piccolo gruppo affiatato. A Roma c’erano già trechiese di rito greco-cattolico ucraino, una a piazza Madonna deiMonti, una all’Aventino e la grande basilica, in cui ci riuniamo per lefeste, di Santa Sofia, a Boccea. All’inizio in chiesa si seguiva solo laliturgia, non c’erano molte iniziative ma poi, grazie a un parrocomolto dinamico, che era un ucraino nato in Australia, don Andreana,la chiesa si è aperta a conferenze, dibattiti, presentazioni di libri,feste.

A Roma era tutto più facile per noi emigrate perché le chiesec’erano già, le stesse che ci sono oggi. Ma nelle altre città trovarsi perpregare era più difficile, seguivamo la messa cattolica ma ci mancava-no la nostra lingua, i nostri canti, le nostre preghiere.

Le chiese quindi erano un luogo di preghiera e di incontro, dove vivere qualcosa del-

la vostra patria. Come avete fatto dove non c’erano, cioè in quasi tutta Italia?

All’inizio ci incontravamo nei giardini, un gruppo di donne cheinsieme recitava il rosario, pregava, cantava. La chiesa eravamo noistesse, la costruivamo in qualche angolo tranquillo della città. Quan-do il gruppo cominciava a diventare più numeroso, le donne prende-vano in affitto un appartamento per farne una chiesa, e al tempostesso il loro luogo di incontro, e cercavano di contattare un sacerdo-te che venisse a celebrare per le feste. Ma erano le donne a forniretutto il necessario, a ricamare le tovaglie d’altare, a tenere tutto in or-dine e dignitoso per l’uso sacro al quale l’appartamento era adibito.Venivano a celebrare giovani preti che si stabilivano a Roma per stu-diare, qualche prete più dinamico, ma in generale queste donne sonoriuscite sempre a costruirsi la loro chiesa, con le sole loro forze.

In un secondo momento, se il gruppo si allargava, poteva provarea chiedere al comune l’uso di una chiesa abbandonata, e talvolta ot-tenerlo. La fatica per aprire una chiesa, tenerla viva e custodirla, farlariconoscere dal clero e dalle autorità, non è mai stata leggera. Ha ri-chiesto sacrifici, investimenti, lavoro che si aggiungeva a quello chegià dovevano svolgere tutti i giorni, ma non sono mai tornate indie-tro, sono sempre riuscite a costruire il loro luogo sacro, per farne ilcentro pulsante della loro vita.

A pagina 5 dall’alto:la comunità ucraina

a Udinee un gruppo di ragazze

in abiti tradizionalia Padova

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Ta n t ’è vero che oggi in Italia ci sono più di duecento chiese ucrai-ne, tutte nate in questo modo.

Mi fa qualche esempio?

A Terni adesso le donne hanno l’uso di una chiesa che era stataabbandonata, e così è successo anche a Napoli, poi sono passate auna chiesa antica che era stata chiusa, riaperta e restaurata con l’aiu-to del Vaticano. Ma poi era vuota, sono state le donne a portare leicone, i tessuti ricamati, il vasellame. A Firenze, accanto a Santa Cro-ce, ci è stata data la chiesa di San Giuda Taddeo, da noi intitolataanche a san Michele. Abbiamo qualche aiuto, ma la maggior partedei restauri e degli arredi è pagata con i soldi delle donne che le fre-quentano.

E la sua esperienza a Roma?

Da decenni noi ucraini siamo impegnati nella costruzione e poinell’abbellimento della chiesa di Santa Sofia, molto grande. La co-struzione è iniziata negli anni sessanta, grazie alla figura più eminen-te della Chiesa ucraina, Josyp Slipyj, simbolo della resistenza del no-stro paese alle persecuzioni naziste e sovietiche. Slipyj, arcivescovodal 1939, fu arrestato per false accuse dalle truppe sovietiche nel 1945,e per varie ragioni passò quasi vent’anni in un gulag, liberato grazieal lavoro diplomatico di Giovanni XXIII e John Kennedy, e creatocardinale da Paolo VI nel 1965. Dalla liberazione in poi è vissuto aRoma, dove si è dedicato alla costruzione della nostra grande chiesadi Santa Sofia, a cui aggiunse un seminario e un’università.

I fondi per costruirla arrivarono dalla diaspora ucraina nel mondo— soprattutto dagli Stati Uniti e dal Canada — ma anche dalle nostreofferte. Sono nostri i ricami delle tovaglie d’altare, nostri e delle suo-re ucraine che vivono in un monastero accanto alla Madonna deiMonti. La pulizia è tenuta da alcune donne retribuite dalla chiesa.

Intorno a Santa Sofia si vive una grande esperienza comunitaria:prima delle feste ci ritroviamo per mangiare insieme i cibi rituali, co-me il grano cotto, i dolci con mele e papavero. Soprattutto per Nata-le e Pasqua la basilica è pienissima, vengono persone che non la fre-quentano abitualmente.

Nel complesso, frequenta la chiesa meno della metà delle personeimmigrate dall’Ucraina in Italia. Ma per noi che frequentiamoabitualmente è un’esperienza vitale. Dalla fede, dalla preghiera, tro-viamo la forza per vivere un’esperienza dura, per sopportare lasolitudine.

A pagina 6, la chiesadei Santi Sergio e Baccodegli ucraininel rione Monti a Roma

Nadia Kuzinmko ha 58anni, è nata a Livn, oggiUcraina, in passato partedell’impero asburgico e poidello stato polacco. Èsposata e madre di due figlie nonna di due nipoti. Vivee lavora in Italia dal 2002.È una delle tante donneucraine emigrate nel nostropaese: secondo il Rapportoannuale redatto nel 2016 dalministero del Lavoro e delle

Politiche sociali i cittadiniucraini emigrati sono240.141, dei quali il 20,8 percento uomini, il 79,2 percento donne, impegnateprevalentemente nei servizipubblici, sociali e allepersone. Sempre nellostesso anno, in Italia sonostate registrate 146 comunitàreligiose ucraine. In questiultimi anni, 18 chiese sonostate affidate a comunità

ucraine (in città comeAvellino, Bologna, VittorioVeneto, Caserta, Cagliari,Livorno, Napoli, Novara,Pavia, Padova, Pescara,Reggio Emilia, Salerno,Ferrara, Firenze, Foggia,Foligno). Tra queste, settecomunità hanno ottenuto lostatus di parrocchie ufficiali:Avellino, Bologna, Caserta,Livorno, Roma, Pavia,F i re n z e .

Nadia Kuzinmko

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L’architettura, prima di essere disciplina che dà forma a uno spazio, èuno sguardo — e una attitudine — sul paesaggio ed è un campo dovel’abitare è interrogato, dove i bisogni e i caratteri dell’uomo, delle fa-miglie, delle comunità sono convocati per essere compresi come so-stanza a cui dare dimora.

Nel progettare due cappelle — il cui progetto ho seguito personal-mente per conto dello studio di Lisbona Aires Mateus — con un rit-mo paziente e un passo attento, oltre a utilizzare gli strumenti dellanostra professione (l’intuizione della capacità di trasformazione di unluogo, la definizione di uno spazio, la ricerca di una materialità e diun’atmosfera), abbiamo cercato di comprendere il carattere di questecostruzioni, la loro funzione. Una cappella è un’architettura “piccola”ma che possiede un grande valore simbolico e che condensa in sé lavocazione di semplice riparo che è alla genesi del costruire.

Una cappella è una presenza. Come nelle chiese abbandonate diTonino Guerra, una cappella è un luogo dove può abitare un pensie-ro, che altrimenti non esisterebbe.

Una cappella è un simbolo nel territorio, marchio di un crocevia,ricordo di un avvenimento, celebrazione di un fenomeno o sempliceluogo con un nome proprio.

Avendo una Chiesa, un luogo dove passare insieme la domenicacome giorno del Signore, vinciamo la tentazione di lavorare anchenei giorni di festa per guadagnare di più. Abbiamo capito che il gua-dagno della domenica non porta da nessuna parte, mentre ritrovarsiper pregare insieme, per vivere un giorno davanti al Signore, ci riem-pie di forza per affrontare la settimana.

Immagino sia per questo che, anche se siete venute qui in Italia proprio per racco-

gliere un po’ di soldi per aiutare le vostre famiglie, riuscite lo stesso a essere generose

nei confronti della vostra Chiesa...

Sì, la chiesa per noi è una necessità vitale, ci dà la forza di andareavanti. La lontananza dalle famiglie è difficile da sopportare, molte siseparano, e comunque è difficile tenere vivi i rapporti con assenzecosì lunghe, anche con i figli. Ognuna di noi vive con questo pesonel cuore.

La chiesa in molti casi diventa anche un luogo che possiamo con-dividere con gli italiani per cui lavoriamo: alcuni degli anziani cheassistiamo vogliono venire con noi la domenica, per questo una voltaal mese si dice messa in italiano. Poi nelle nostre chiese si celebrano imatrimoni misti, di ucraine con italiani, e diventano quindi ancheluoghi di contatto, di convivenza, di condivisione.

Ma certe volte sono anche luoghi di conflitto: intorno alle chiesela domenica spesso girano uomini in auto che cercano di avvicinarele ucraine che tornano a casa, con modi non proprio gentili...

Architetture vicinealla nostra pelle

di ANNA BENEDETTI

Le cupole della chiesagreco-cattolica ucraina

di Santa Sofia a Roma

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Una cappella è uno scrigno. Di bellezza, di luce, talvolta anchesolo di vuoto: una manciata di aria sottratta all’affanno del resto delmondo e custodita per darci conforto.

Una cappella è un luogo verso il quale camminare, riferimento af-fettivo di devozioni delle piccole comunità e di pellegrinaggi indivi-duali, o semplice meta di una camminata.

Una cappella è una cassa di silenzio, quiete custodita per darci larara possibilità di sentire, di ascoltare. E di tacere.

Una cappella è un punto di riferimento nel territorio, infrastruttu-ra delle nostre campagne e dei nostri monti, rifugio per i pastori lanotte e per i viandanti durante un acquazzone.

Una cappella è anche solo uno spazio. Se lo accettiamo come unriparo semplice ed essenziale, potremo anche lasciarlo sempre aperto.

La riflessione contemporanea sull’architettura liturgica si è interes-sata poco a queste architetture sacre e allo stesso tempo domestiche,vicine alla nostra storia e alle nostre comunità. Forse il nostro viverecontemporaneo ha bisogno di cappelle: punti di una geografia affet-tiva che segnano il nostro paesaggio, scrigni di bellezza, vuoti in at-tesa, casse che accolgano un bisogno di silenzio avvertito sempre dipiù. Architetture dalla dimensione vicina alla nostra pelle.

La cappella di San Gerolamo a Palanzo

La piccola frazione di Palanzo è una manciatadi case di pietra poggiate su un pendio rivoltoverso il lago di Como. La chiesa è collocatasulla quota più alta del paese, svettaleggermente sui tetti in sasso. Da qui, unpercorso in quota si allontana dall’abitato econduce a una via crucis che serpeggia versol’alto, fino alla chiesetta del Soldo. Alle spalledella chiesetta, un piccolo sentiero si inoltra nelbosco fino a raggiungere una radura, e quiincrocia la mulattiera che, sempre dalla chiesadel paese, conduce al Monte Palanzone.La cappella di San Gerolamo è una torre inmezzo alla radura, poco più alta dei faggi che lacircondano. In questo punto del crinale, la luce

orizzontale del sole di fine pomeriggio disegnauna linea d’ombra che resiste a lungo immobileprima di inghiottire il bosco, e poco dopo lacappella. La torre è spartana e minerale. Il suointerno, luminoso e prezioso, è fatto di quattrospazi: un’aula verticale, una soglia profonda chepossa riparare i viandanti, uno spazio alto chelascia entrare la luce da ovest dorando le pareti,uno spazio più basso che si riempie di luceriflessa dalla neve in inverno e accoglie unafigura di san Gerolamo, custode di questo eremo.Segno nel paesaggio, riferimento lungo isentieri, la cappella di San Gerolamo è unospazio scolpito dalla luce, un vuoto in attesa,esso stesso una radura.

Il nucleo abitativodi Palanzoe, a pagina 10, la torrenella radura

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La Madonna del Rumore è postaall’affluenza di un impetuoso torrente dimontagna col fiume in fondovalle. Punto incui echeggia con forza questo convergere diacque, la cappella segna il momento in cui,risalendo la valle, ci si lascia alle spalle tuttoil Rumore, per entrare in un paesaggio dimonti e silenzio. Nel “territorio” della miainfanzia, è la soglia chiara del mio mesed’agosto.

La radioper le madri nubiliin MaroccoÈ nata in Maroccouna web radiogestita da madrinubili, categoriapenalizzata nel Paesedove la gravidanzafuori dal matrimoniorappresenta ancorauna trasgressioneculturale e religiosa.Escluse dallefamiglie edall’ambiente sociale,le madri nubilivengono perseguiteanche legalmente: lalegge 490 del codicepenale punisce infattiogni relazionesessualeextraconiugale conuna pena che va daun mese fino a unanno di carcere.Classificata comezania ( p ro s t i t u t a ) ,la donna nubilerimane sola per ilresto della vita,sub endodiscriminazionianche in ambitolavorativo.Non avendo néreddito né dimora, il36 per cento diqueste madri, d’etàinferiore a 25 anni, sivede obbligata ad

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In Valsesia la cappelladella Madonna del Rumore

O Bom Sucesso a Lisbona

Il quartiere di Belém è nato attorno almonastero dei Jerónimos e al tratto di costa dacui partivano le grandi spedizioni della secondametà del XV secolo. La città di Lisbona ècresciuta nei secoli, fino a raggiungere Belém:all’inizio del XIX secolo con qualche palazzo espiaggia suburbana (la Praia do Bom Sucesso);alla fine dello stesso secolo con grandi struttureindustriali; nel XX secolo con strutture culturalie turistiche. Tuttavia, Belém ha conservato ladimensione distesa dei suoi spazi aperti, ilrapporto franco con il fiume, la scalamonumentale delle sue costruzioni principali(religiose, industriali, culturali) e quella modestadell’architettura domestica, la luce abbaglianteriflessa dal fiume, la pietra bianca delmonastero e dei suoi edifici più importanti.Una casa per anziani nasce sul limitedell’antica spiaggia del Bom Sucesso.L’edificio ha la dimensione, la forma el’orientamento dei grandi archetipiindustriali della zona, ed è rivolto verso ilfiume. Dall’allineamento dell’anticaspiaggia, lungo il quale si affacciano ivolumi della casa di riposo,sporge una piccolacappella, pietrabianca illuminatadalla luce riflessadal fiume,posata sullimite di unterritoriostoricamente

conteso tra terra e acqua. Pellegrini per natura eper tradizione, gli anziani potranno attraversareun piccolo giardino per raggiungerla.All’interno, uno spazio puro è sospeso dallaluce che entra nel volume attraverso un grandelucernario rivolto verso il fiume. Pochiinginocchiatoi permetteranno agli anziani disostare e di appropriarsi di questo spazio senzatempo spoglio di riferimenti. Un altare quasiportatile, come quello dei missionari ches’imbarcavano, permetterà di svolgere alcunefunzioni liturgiche.La cappella del Bom Sucesso è una dimoraspoglia, sempre aperta a una comunità che habisogno di un luogo per la preghiera, una metaper i suoi brevi passi e un ristoro per le suelunghe ore.

Modello della zonadi Belémcon la casadel Bom Sucesso

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se in seno alla Chiesa fu Ronald Knox, cappellano a Oxford e intel-lettuale cattolico di spicco. Fu lui, vent’anni dopo, a suggerirle l’ideadi costruire una chiesa e a fornire i primi finanziamenti. Divenne pre-sto una grande amicizia: Knox andò a vivere come cappellano ad Al-denham Park, la casa di famiglia degli Acton nello Shropshire, dovetradusse la Bibbia. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, aDaphne fu chiesto di prendere in mano e di coltivare parte del terre-no della proprietà. Per aiutarla ad avviare l’attività, Ronnie Knox leprestò 3600 sterline, all’epoca una somma notevole.

Dopo la guerra, gli Acton, che avevano già sei figli, venduto tutto,acquistarono di nascosto la fattoria di M’Bebi nella Rhodesia Meri-dionale ed emigrarono. Incoraggiata dai missionari gesuiti, Daphneaprì una scuola per i figli dei lavoratori agricoli e molte famiglie fu-rono convertite. Organizzava la messa domenicale, prima sullo stoep

(veranda rialzata) della casa in stile coloniale e in seguito nell’edificioscolastico dal tetto di paglia. Quando ci riusciva, convinceva il vesco-vo a mandarle un cappellano residente. Giunta in Rhodesia, iniziò arestituire il prestito a Knox. Ma con l’arrivo di altri quattro figli — iosono uno di loro — le fu più difficile. Nel 1957 Knox, che aveva visi-tato M’Bebi, scrisse per dire che era gravemente malato e che, invecedi restituire le 1200 sterline che ancora mancavano, doveva offrirleall’arcivescovo per aiutare a finanziare una chiesa o per costruirla leistessa. Daphne decise di costruirla, chiamandola «la Chiesa che devoa Ronnie». Ma i soldi erano sempre scarsi. Pur dedicandosi perso-nalmente all’istruzione dei figli fino alle scuole secondarie, lei e Johndovettero mantenere in collegio almeno cinque figli per tutto il tem-po della costruzione. Ricorsero a un grande prestito bancario.

Quando nel 1960 iniziarono i lavori, aveva reperito solo un quartodelle 5000 sterline del costo finale. I mattoni, che andava a ritirarecon il suo furgone Volkswagen Kombi rosso, erano di “seconda” alprezzo di 2 sterline per mille mattoni. Ci furono momenti in cui i co-struttori, un gruppo del Malawi, dovettero fermarsi e lei istituì unaferoce politica di risparmio a casa per raccogliere un po’ più di soldi.Nei momenti chiave contribuirono anche amici e parenti.

L’architetto era un uomo mite di nome Meredith Price. PoichéDaphne aveva favorito la sua conversione al cattolicesimo, insistetteper svolgere il lavoro gratuitamente. Perciò, venendo a sapere cheegli desiderava mandare sua figlia al nuovo convento americano ge-stito dalle suore del Sacro Cuore di Maria, frequentato anche dallesue figlie più piccole, chiese loro di accoglierla gratuitamente. La su-periora rispose che lo avrebbero fatto se Daphne avesse dedicato lachiesa al Sacro Cuore di Maria. Daphne accettò. Le religiose fecero

abbandonare ilproprio bimbo.Radio Mères en ligne(Madri in primalinea) — che fa partedel progettoomonimo realizzatodalle associazioniSoleterre e 100%Ma m a n s – vuoleessere uno strumentodi difesa dei diritti diqueste madri,sensibilizzandol’opinione pubblicasulle discriminazioniai loro danni eaiutando, ancheattraverso letestimonianze di chiha vissuto questastessa esperienza, ledonne ripudiatedalla società.La radio è animatada un comitato didieci madri nubili,chiamater a p p re s e n t a n t icomunitarie,che hanno ricevutouna specificaformazione sui temidella parità,sulle tecnichedi comunicazione,pro duzione,animazioneradiofonica egiornalismo perp ermettereloro di esprimere lep ro p r i erivendicazioni inmaniera strutturata ea rg o m e n t a t a .Lo studio diregistrazione è aTa n g e r i .

La chiesa del Sacro Cuore di Maria in una fattoria nella valle di Ma-zoe, in Zimbabwe, è una struttura straordinaria. Alta, in mattoni rossie in stile romanico, lontana chilometri da qualsiasi centro urbano, so-vrasta i terreni agricoli ai piedi di una bellissima catena montuosa.Inaugurata nel 1963, anno di svolta nella storia di quella che era allo-ra la colonia britannica della Rhodesia Meridionale, è stata una di-chiarazione politica oltre che religiosa. Ed è stata la creazione di unadonna, Daphne Acton.

Daphne Strutt (1911-2003) apparteneva a una famiglia conservatri-ce inglese che dalle donne si aspettava che non prendessero iniziativenella vita pubblica: suo padre, professore, non vedeva nemmeno lanecessità di mandarla a scuola. Se avesse avuto anche solo un bricio-lo in meno di personalità e di indipendenza mentale, difficilmente ungiorno avrebbe potuto costruire una chiesa, e men che meno unachiesa cattolica.

La sua educazione fu fortemente anticattolica. Quando, dicianno-venne, decise di sposare un cattolico — Lord Acton, nipote dello sto-rico — i suoi parenti rimasero inorriditi. Nonostante la sua ferma di-chiarazione che non sarebbe diventata cattolica, le dissero: «Non po-tresti fare nulla di peggio».

Cinque anni dopo, nel 1936, influenzata in parte dalla forza dellafede di suo marito John, si convertì. Il sacerdote che nel 1938 l’accol-

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Un sognomulticulturale

di ED WA R D ACTON

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L’interno della chiesaa Mazoe

questo avveniva appena un mese dopo la formazione del «RhodesianFront», il partito razzista creato per consolidare il dominio minorita-rio dei bianchi. Quello stesso anno il partito vinse le elezioni, emanòuna Dichiarazione unilaterale d’indipendenza dalla Gran Bretagna econdusse il paese in una disastrosa guerra civile.

La Chiesa cattolica era una voce importante a favore di un futuromulticulturale e Daphne era apertamente liberale. L’anno successivoscandalizzò l’opinione pubblica bianca mandando il figlio più giova-ne nella scuola dei gesuiti di St. Ignatius appena aperta, come unodegli unici due ragazzini bianchi. Quando, due anni dopo, gli Actondecisero di vendere la fattoria, donarono la chiesa, la casa e la scuolaai gesuiti. Altri hanno aiutato, ma questo è stato un progetto di Da-phne dall’inizio alla fine. Con le parole di Knox, ella «ne è stata lacausa formale, efficace, materiale e ultima».

anche di più, raccogliendo soldi negli Stati Uniti per il tabernacolo,le candele, gli arredi dell’altare e i paramenti.

Il progetto era semplice. A forma di croce. Dieci archi stretti, alti,lungo ogni lato, sormontati da un ordine di archi leggermente piùpiccoli. Un’alta torre. I muri interni imbiancati. Il pavimento di sem-plici mattoni disposti a mo’ di parquet. L’elemento più notevole fu lavetrata decorata di Nostra Signora sopra l’altare. John l’aveva ordina-ta per la cappella di Aldenham, in memoria di suo fratello Peter e disua moglie, morti in un incidente aereo nel 1946. Quella tragedia era

stata uno dei fattori che li aveva spinti a emigrare, e la vetrata erarimasta nel suo imballaggio. Portata in volo per 5000 miglia, fuinstallata appena in tempo per l’inaugurazione il 4 aprile 1962.

La cerimonia, presieduta dall’arcivescovo Markall, lamessa in canto gregoriano intonata dai bambini dellascuola della fattoria, rivelavano la scelta multicultura-

le, come osservò la stampa rhodesiana, e

di FRANCESCA DAPRÀ

Serviziper la comunità

«L’edificio chiesa è ancora nella città un luogo divalore rilevante? È ancora il luogo che rappre-senta l’incontro dell’umano con il divino?».Queste due domande chiudono un saggio diMaria Antonietta Crippa, all’interno dell’im-portante volume dal titolo Le nuove chiese della

Diocesi di Milano 1945-1993, a cura di Ceciliade Carli. Le due studiose, già alla fine deglianni Novanta, riflettevano sul ruolo dell’a rc h i -tettura sacra nella nostra società. Oggi, queste

domande sono ancora vive, e devono essere affrontate e rilette allaluce della cultura contemporanea.

La conoscenza del contesto territoriale e delle esigenze sociali delluogo, l’ascolto della comunità e la comprensione dei modi di abitaredei cristiani contemporanei, risultano alcuni dei presupposti fonda-mentali per il progetto contemporaneo di una chiesa. La Chiesa, in-tesa come comunità cristiana, è infatti un corpo in continua trasfor-mazione, e lo sono anche i suoi spazi celebrativi.

Sorgono dunque naturali alcune domande. Quali sono le esigenzedegli abitanti contemporanei rispetto agli edifici del culto? In chemodo la comunità abita tali spazi? E che rilevanza hanno i complessiparrocchiali nella città contemporanea?

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Una riflessione — presentata al convegno di Bose dai giovani delLaboratorio di preparazione al convegno (CLI LAB) al quale ho parte-cipato — si è soffermata sull’osservazione di come i luoghi di cultosubiscano nel tempo una serie di trasformazioni, dovute a esigenzeproprie della comunità, talvolta non considerate dall’architetto al mo-mento del progetto, e altre volte mutate nel tempo. Un processo diascolto appare dunque sempre più necessario: da parte dell’a rc h i t e t -to, per conoscere a fondo chi andrà ad abitare gli spazi che progetta,e da parte del padrone di casa per imparare a conoscere l’a rc h i t e t t u r acontemporanea. Il processo partecipativo, così concepito, deve fonda-re le sue radici in un profondo processo educativo e di conoscenza.

Accanto a questo, s’inserisce il tema del ripensamento delle funzio-ni contemporanee offerte da queste strutture, proponendone un’inter-pretazione e un’innovazione.

Questi sono anche i caratteri principali del mio lavoro di ricerca,che si concentra sull’osservazione del ruolo simbolico, religioso e so-ciale che i complessi parrocchiali svolgono nella città contemporanea,in particolare nell’ambito milanese.

Lo studio si concentra sulla valutazione dell’uso reale delle struttu-re parrocchiali, un dato sconosciuto alle amministrazioni e ai gestoridel patrimonio, cercando di capire se le parrocchie siano ancora ingrado di rispondere alle esigenze della società e se i suoi spazi sianoadeguati.

Questa lacuna di conoscenza genera, infatti, situazioni problemati-che: da una parte il non utilizzo di strutture disponibili, ad esempioalloggi parrocchiali vuoti da anni, che potrebbero ospitare nuovi usi,e dall’altra un uso poco ottimizzato di numerosi spazi, che vengonotalvolta sfruttati solo in alcuni momenti della settimana.

È necessaria quindi una gestione migliore degli spazi e una piùampia risposta alle necessità del quartiere e della comunità, ad esem-pio prevedendo adattamenti delle strutture, nuove costruzioni o laproposta di nuovi servizi compatibili da inserire all’interno degli stes-si spazi.

L’obiettivo è dunque quello di mettere in luce e riaffermare quantoancora oggi i luoghi di culto, nel senso ampio del termine, perman-gano come servizi, per l’uomo e per la comunità, e possano tornaread avere quel ruolo di “infrastruttura sociale” e di riferimento per iquartieri e la città, se studiati, valorizzati, interpretati e riprogettatialla luce delle esigenze contemporanee.

In alto, due immaginidella parrocchia

della Pentecoste a Milano;sotto, la chiesa

di Santa Maria a Pulsano

di GEMA PAJARES

Il coloree la luce

Lo studio di Elisa Valero è quasi di fronte all’Alhambra. Ha linee defi-nite ed è bianco, tirato a calce, la facciata è macchiata da finestre ver-ticali che adornano la parete, vani che sono diventati simbolo di al-cune delle sue costruzioni più emblematiche. Attraverso di esse la lu-ce filtra. Lo spazio interno è diafano, così come la sua architetturanella quale predomina, marchiato a fuoco, «il meno è il più» di Miesvan der Rohe. Si sentono nelle sue opere, bellissime, gli echi di unCampo Baeza, anch’essi bianchi, orizzontali. E le voci di un ÁlvaroSiza, portoghese, in questa orizzontalità che esibisce nelle abitazioni,per esempio quelle che ha costruito nel Realejo, a Granada, o inquelle di Gojar, o del complesso di Alameda, a Málaga, dove si sus-seguono vani che ancora una volta lasciano passare il chiarore, dovec’è spazio per vivere.

L’architetto Valero dice che attraverso lo sguardo intenso di suamadre, pittrice, ha scoperto il colore e la luce. «In un momento cul-turale in cui la densità del rumore è enorme, scommetto sull’a rc h i t e t -tura che agisce in silenzio, serenamente, senza richiamare l’attenzio-ne» scrive in una presentazione. Ed è così. L’abbiamo già visto nellesue abitazioni, nella galleria Sandunga, un punto d’incontro impor-tante nella zona, anche nell’ampliamento realizzato per PlácidoArango, dove torna a giocare con quelle aperture verticali piantatenel prato verde come se nascessero proprio dalla terra. Valero ha rea-

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lizzato il raccoglimento di cui parla nel tempio di Playa Granada,una costruzione di cemento che passerebbe inosservata e che nessunoidentificherebbe come una chiesa dove l’invito a raccogliersi nasceproprio dalla nudità del cemento.

Nata a Ciudad Real, respira Granada, identificata con la città econ la terra. Dice che essere originale è tornare alle origini, perciòcon questo edificio è andata al principio: «È nella tradizione delleprime chiese cristiane, con atrio, battistero ottagonale all’entrata,cripta, campanile e coro. E nello stesso tempo è stata realizzata conun linguaggio contemporaneo, come dev’essere un edificio del XXI

secolo». Dove si riconosce anche l’insegnamento del suo maestro Fé-lix Candela, mentore di Calatrava.

La chiesa è accessibile a tutti, non ha muri che la circondino. Dafuori si staglia il suo profilo, dove svetta un campanile, 17 metri in ununico blocco. È la parte che s’innalza dal complesso, non più alto

dip endenzaallontanandole dallaprospettiva distudiare e di avereun lavoro dignitoso.Le cifre sonoallarmanti sia perchéraccontano dibambine costrette acrescere in fretta siaperché si tratta dinascite frutto moltospesso di violenza. Idati presentati dalgoverno riferisconoinfatti di oltre 5000gravidanze nel 2014in bambine di 14anni: tra questi, inquattro casi sucinque l’a g g re s s o resessuale è stato unfamiliare. Leconseguenze sonodrammatiche,compresi i 66.000aborti che si calcolavengano eseguitiogni anno nel paese.I servizi per la salutematerna eriproduttiva sonocostosi e spessoinaccessibili perquanti vivono nellezone interne delGuatemala. Gli altitassi di violenzasessuale controdonne e bambinesono spesso legati albasso livello socialedelle vittime, inparticolare delleindigene di originemaya, in una societàpatriarcale emaschilista comeparrebbe esserequella guatemalteca.Secondo l’Onu ognigiorno nel paese duedonne vengonoassassinate.

degli edifici circostanti che non superano gli otto metri. Scrivevamoche per lei «il meno è il più». Quando si entra in chiesa ci si trova inun unico ambiente, con aperture perché entri la luce e si diffonda ilchiarore, ma senza disturbare né distrarre. La luce è la regina, entradagli spazi del lucernario fino ad arrivare all’altare, al tempo stessosobrio, umile e maestoso. Attraverso una gelosia giocano a nascondi-no i raggi luminosi, che filtrano grazie a fori nel cemento, un mate-riale che si fa nobile nelle sue mani.

«Non mi interessano le mode. Mi interessa di più la costanza chela genialità, di più la coerenza che la composizione artistica, eintendo l’originalità come la riscoperta del senso genuino delle cose»dice Valero, che ha un curriculum spettacolare. Docente a Granada,ha insegnato a Berlino, a Roma, in Messico e a Londra. Ma leipreferisce raccogliersi e dedicarsi a quello che sa fare meglio, cioècostruire, dare luce e abitabilità agli spazi che disegna: «Più luce nonsignifica sempre la luce migliore» ha detto con evidente saggezza.

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Due sorellecon disabilitàsi raccontanocon ironiaSi chiama Th eDisabled Life il blogaperto qualche annofa da due sorellecanadesi, Jessica eLianna Oddi. Ironiae sarcasmo per ledue ragazze che,disegnatrici entrambein carrozzina,raccontano convignette e disegni —tutti accompagnatida un testo scrittoper permetterne lafruizione anche ainon vedenti — il loroquotidiano traavventure ed i s a v v e n t u re .Autoironiche espiritose, le sorellehanno iniziato conun account sutwitter, poi cresciutoin un colorato earguto blog. Sicommenta e siracconta molto: dallamoda ai trasporti,dai sogni alleamicizie, passandoper qualche sonoraarrabbiatura.

Gravidanzain GuatemalaIl Guatemala ha unodei tassi digravidanza più altitra le adolescentidell’America latina,una spirale checonduce le giovaniancor di più sulla viadella povertà e della

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«Mi interessa l’architettura radicata nella terra e nel suo tempo.Accetto i condizionamenti dell’architettura come regole di un giocomolto serio e divertente che cerco di praticare con coerenza e rigore.Benché parlare di servizio non sia di moda, considero il lavorodell’architetto un servizio per eccellenza con lo scopo di rendere piùgradevole la vita delle persone. Un impegno nobile che vuole co-struire un mondo più bello e umano, una società più giusta. L’a rc h i -tettura non è per nostalgici ma per ribelli» afferma, e a questo idealesi mantiene fedele.

Valero, con la sua équipe, lavora nello studio senza fermarsi giàdalla mattina presto. Contemporaneamente insegna. Le piace guarda-re, un piacere per il quale bisogna dimenticare l’orologio e soprattut-to il cellulare, che sta nel cassetto: «M’interessa molto l’atteggiamen-to contemplativo. Per guardare bene bisogna contemplare, che nonsignifica solo vedere ma fermarsi ad ascoltare questa musica silenzio-sa. Il silenzio e la contemplazione vanno insieme. È importante con-servare la capacità di meravigliarsi. Bisogna imparare a non attirarel’attenzione, l’architettura molte volte consiste nello “s p a r i re ”» ha ri-sposto in un’intervista.

Nelle pagine 20, 21 e 22l’interno e l’esterno

della chiesadi Playa Granada

di GIULIA GALEOTTI

Sentinellasul lago

«O figlio dell’uomo,io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele.

Quando sentirai dalla mia bocca una parola,tu dovrai avvertirli da parte mia» (Ezechiele 33, 7)

C’è una sentinella al centro del continente americano: sta sul lago Coa-tepeque, un meraviglioso specchio d’acqua incontaminato annidatosul versante orientale del vulcano Santa Ana, a un’ora di macchinada San Salvador.

È la Capilla Cardedeu, realizzata nel 2012 e diventata in brevissi-mo tempo una vera icona architettonica. La sua struttura è semplicis-sima: uno spoglio trapezio di cemento, aperto in entrata e in uscita,che incornicia il paesaggio circostante inglobandolo in sé. L’effetto èquello di un imbuto gentile spalancato sull’acqua. La cappella è stataribattezzata chiesa-cornice: a renderla unica è questa totale assenza diun dentro e di un fuori. Il lago, le montagne, gli alberi come anchele condizioni meteorologiche e le ore del giorno si fondono con lachiesa.

«Volevamo porre tutta l’attenzione sul lago, sottraendo qualsiasielemento che potesse in qualche modo distogliere il visitatore da lui»ci spiega Eva Hinds, l’architetta che ha disegnato la cappella e gli al-

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tri edifici circostanti che compongono il complesso Cardedeu. D opola laurea a Bogotá e alcuni anni passati a Toronto, Hinds è approda-ta a San Salvador dove, con Anita Olivares de Guerrero, ha fondatolo studio Emc Arquitectura. A capo di uno staff giovane compostoda donne e uomini, le architette negano che esista uno specifico fem-minile nell’architettura, ma per la loro personale esperienza sonoconvinte che il fatto di essere madri non sia irrilevante. Non solo pertutto ciò che significa, inevitabilmente, in termini di bilanciamento eutilizzo del tempo: «Essere madri ci ha cambiate come persone, ren-dendoci più sensibili a tutto quello che circonda la nostra famiglia. Enel lavoro gli spazi che creiamo finiscono per avere un sentimentomolto più personale a seconda del progetto che realizziamo».

Negli anni Emc Arquitectura ha ottenuto premi e riconoscimenti,divenendo uno studio noto a livello internazionale. Che si tratti diuna chiesa, di una villa privata, di un complesso commerciale o abi-tativo, il tratto precipuo dell’operato della équipe di Eva e Anita èquello di lavorare con la natura circostante. Non solo rispettandola,ma — dove possibile — inglobandola. E lasciandole comunque sem-pre il posto d’o n o re .

È esattamente il caso del complesso Cardedeu (che oltre alla cap-pella comprende un hotel, un ristorante e diversi spazi per incontri),disegnato e costruito, in un continuo gioco di piani e pendenze, peresaltare lo spazio aperto in un posto così privilegiato, innanzituttoper le sue spettacolari vedute.

L’utilizzo di materiali locali — il legno di una fattoria vicina e lepietre provenienti da una cava non lontana — legano il progetto allamaterialità della zona, ci spiega Eva Hinds. Allo stesso tempo, però,«abbiamo voluto l’introduzione di materiali esteri come il calcestruz-zo, il cemento e l’acciaio che ci hanno consentito di creare una strut-tura capace di generare l’incredibile sensazione di star galleggiandotra gli alberi. O addirittura di volare sul lago».

Ogni particolare della Capilla Cardedeu è stato pensato per favo-rire questo dialogo con la natura circostante, ad esempio il sistema diaerazione. La scelta di realizzare il fondo della cappella più ampio ri-spetto al lato di entrata è dettato anche dal fatto che così l’aria puòcircolare costantemente all’interno, rendendo più tollerabile il climatropicale per fedeli e turisti. Il tampone di aria che separa i due stratidi calcestruzzo sopra i quali è poggiata la cappella fa il resto.

In coerenza assoluta, anche l’interno della Capilla Cardedeu èsemplicissimo. L’arredo — altare, leggio e file di panche — è ridotto

all’essenziale: e se tutto conduce al lago, ciò avviene attraverso unagrande croce di ferro.

Il risultato generale è dunque quello di un luogo di preghiera ilcui volto muta più volte nel corso dello stesso giorno. Così se la lucedell’alba la rende compagna accogliente per la recita delle lodi mat-tutine, il giorno che tramonta, con la sua inconfondibile ora blu, latrasforma in coprotagonista nella recita dei vespri.

La cappella accompagna la natura, incorniciando una preghierache non vuole barriere tra ciò che è costruito dall’uomo e ciò che èofferto dalla natura. Perché il ruolo della sentinella è questo. Ascolta-re la parola di Dio, e trasmetterla al mondo, in un incredibile e con-tinuo dinamismo.

La Capilla Cardedeusul lago Coatepeque

(El Salvador)

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LA S A N TA DEL MESE

Santa Ester, celebrata dalla Chiesacattolica il 1° luglio, altro non è chela protagonista del biblico libro diEster, la regina Ester, moglie di

Assuero. Un libro, quello diEster, che ci è pervenuto in due diverse

versioni, una ebraica e una greca, e che èaccettato tanto nel canone ebraico che in

quelli cristiani, cattolico e ortodosso.Nel canone cattolico, è accolto nellaversione ebraica con alcune aggiuntedal testo greco. Il libro di Ester nonè invece compreso nel canone bi-

blico protestante.

La storia narrata nel librodi Ester, considerata general-mente dalla critica biblica co-me priva di base storica, èambientata nel V secolo pri-ma dell’era cristiana, ai tempidell’esilio babilonese, anchese il testo fu composto in un

Una santamarrana

periodo assai più tardo, intorno al 100 primadell’era cristiana. Ester è un’orfana ebrea dellatribù di Beniamino, che viene adottata dallo zioMardocheo, funzionario del re Assuero. Bellissi-ma, viene scelta dal re come sposa dopo il ripu-dio della precedente regina, Vasti. Il re ignoraperò, e su consiglio di Mardocheo Ester nonglielo rivela, che ella è ebrea. Quando il malva-gio Haman, ministro di Assuero, decide di ster-minare gli ebrei in odio a Mardocheo, questi sirivolge a Ester pregandola di intercedere pressoil re. Presentarsi al re senza suo invito è peròproibito, a rischio di morte. Ester decide di cor-rere il rischio, digiuna per tre giorni e si presen-ta al re con le sue ancelle. È bellissima e il reper amor suo acconsente alla sua richiesta: gliebrei saranno salvi mentre Haman sarà giusti-ziato insieme ai suoi figli. Mardocheo prenderàil posto di Haman come ministro di Assuero. Illieto fine della storia è celebrato ancor oggi da-gli ebrei nella festa di Purim.

Come le altre figure dell’Antico Testamento,tutte canonizzate in età molto precoce dallaChiesa — e ricordo fra i santi Abramo, Isacco,Giacobbe, Sara, Rachele e Rebecca — Ester èquindi ripresa nel martirologio cristiano e rap-presenta un ulteriore ponte, dopo i libri sacriche esse hanno in comune, tra le due religioni.Ma a differenza delle matriarche, che come san-te non hanno goduto di grande favore da partedei devoti, Ester ha goduto di una grande po-polarità anche come santa, sia pur in un conte-sto assai particolare e tutto diverso da quellodei secoli, forse il V-VI, che ne avevano vista lacanonizzazione.

Siamo nella Spagna del Quattrocento, dove apartire dalla fine del Trecento si susseguono le

violenze volte a spingere gli ebrei spagnoli allaconversione. Molti tra gli ebrei si convertono,sulla punta della spada, altri accettano Cristosull’onda delle dispute religiose messe in attodalla Chiesa e dalle Corone, in quella che sipuò considerare una vera e propria catastrofeteologica dell’ebraismo spagnolo. In molti deinuovi cristiani, i c o n v e rs o s , la conversione non èche un velo che copre il permanere di credenzee pratiche ebraiche. In altri, le generazioni suc-cessive, quelle dei figli e dei nipoti, si riaccende-rà l’attrazione per la religione che i loro padrihanno abbandonato. Il risultato è la vasta diffu-zione di cripto-giudaismo che interessa interecomunità e che preoccupa fortemente l’Inquisi-zione spagnola, nata proprio per salvaguardarela fedeltà dei c o n v e rs o s alla nuova religione. InSpagna, e dopo la conversione forzata del 1497anche in Portogallo, la religione dei marrani —termine spregiativo con cui vengono designati icripto-giudaizzanti cristiani — in realtà è tantolontana dall’ebraismo quanto dal cristianesimo.L’ebraismo vagheggiato viene vissuto attraversogli schemi del cattolicesimo imposto. L’osser-vanza marrana è condizionata sia dal timoredell’Inquisizione che dalla perdita progressivadi conoscenza, man mano che le generazioniavanzano. Dai testi biblici si strappano fram-menti di informazioni, nel tentativo di ripercor-rere le strade dimenticate dell’ebraismo. Fra imille percorsi di questa ristrutturazionedell’identità, si afferma e si diffonde il culto disanta Ester. Nella protagonista del libro di Estersi identifica la prima marrana della storia, coleiche ha nascosto la sua identità ebraica per di-ventare la moglie del re, che ha vissuto come imarrani nella duplicità religiosa senza perdere ildiritto a essere venerata dagli ebrei come una

di ANNA FOA

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santa. E, nella sua dife-sa dell’ebraismo perse-guitato, non sono sol-tanto le virtù eroichedella santità a emerge-re, come per i cattolici,

ma forse anche la spe-ranza di un esito felice

della storia, di un Purimdi salvezza per i marrani

p erseguitati.

Tra di loro, della festa delPurim, come di altre feste escluso

il Kippur, si era perduta ogni trac-cia. Era rimasta, tipica del marranesi-

mo, l’importanza accresciuta data ai digiuni,che a volte erano addirittura bisettimanali. Lacelebrazione di Ester avveniva un mese primadella Pasqua ebraica, nel mese di Adar, ed eracaratterizzata dall’osservanza rigorosa del suodigiuno, di solito mantenuto per un solo giornoma talvolta anche per tre, a imitazione della re-gina. Grande importanza veniva inoltre data al-la sua preghiera. Era una preghiera piena di so-litudine e di paura, rivolta nel testo biblico alSignore prima di presentarsi al re, una preghierache era divenuta assai popolare fra i c o n v e rs o s ,tanto che una delle figlie di un giudaizzanteportoghese, bruciato in effigie in Messico nel1592, riusciva a recitarla perfino a rovescio. Lapopolarità di Ester nel mondo marrano spiegal’attenzione che l’Inquisizione iberica rivolgevaal digiuno di Ester, considerato nei testi inquisi-toriali un segno inequivocabile di adesioneall’ebraismo. Così la storia della regina Ester,canonizzata dalla Chiesa, era divenuta, nel con-flitto tra Inquisizione e marrani, più che sospet-ta. E la sua celebrazione, il 1° luglio per la Chie-sa e nel mese ebraico di Adar per i c o n v e rs o s , ri-velava quanto grande fosse l’abisso che dividevai due mondi, nonostante avessero in comune illibro di Ester e ne venerassero entrambi lap ro t a gonista.

L’autrice

Anna Foa ha insegnato storia modernaall’università La Sapienza di Roma. Si èoccupata principalmente di storia sociale eculturale della prima età moderna, distoria dell’Inquisizione, di storia degliebrei. Tra i suoi libri: Ebrei in Europa dalla

Peste Nera all’Emancipazione (Laterza,1992), Giordano Bruno (Il Mulino, 1998),Eretici, storie di streghe, ebrei e convertiti (IlMulino, 2004), Diaspora. Storia degli ebrei

nel Novecento (Laterza, 2009), Portico

d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo

inverno del 1943 (Laterza, 2013), Andar per

ghetti e giudecche (Il Mulino, 2014). Halavorato sulla didattica della storia e hapubblicato per Laterza, insieme ad AnnaBravo e Lucetta Scaraffia, un manuale distoria per le scuole superiori: I nuovi fili

della memoria. Uomini e donne nella storia.

NEL NUOVO T E S TA M E N T O

Maria di Betaniamodello di ascolto

di BARBARA E. REID

Tondo ad affresco di Tita Gori(chiesa di San Gervasio a Nimis)

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Il gran numero di donne di nome Maria nel Nuovo Te-stamento crea molta confusione su chi è chi. La madredi Gesù è quella preminente, apparendo in Ma t t e o 1-2;12, 46-47; 13, 55; Ma rc o 3, 31-32; 6, 3; Luca 1-2; 8, 19-20;Giovanni 2, 1-1; 19, 25; Atti degli apostoli 1, 14. Maria diMagdala è presente in tutti e quattro i vangeli come te-stimone della crocifissione e della sepoltura di Gesù,come prima persona a scoprire il sepolcro vuoto, a ve-

dere il Cristo risorto e a ricevere il mandato di proclamare la buonanovella (Ma t t e o 27, 56 e 61; 28, 1; Ma rc o 15, 40 e 47; 16, 1 e 9; Luca 8,2; 24, 10; Giovanni 19, 25; 20, 1-18). In Ma t t e o , anche Maria madre diGiacomo e Giuseppe è testimone della morte di Gesù (27, 56), e pro-babilmente è «l’altra Maria» presente alla sua deposizione nella tom-ba (27, 61) e presso il sepolcro (28, 1). In Ma rc o , la compagna di Ma-ria Maddalena alla crocifissione, alla deposizione e al sepolcro è«Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses» (15, 40, 47; 16, 1); inLuca 24, 10 è «Maria di Giacomo». In Giovanni 19, 25 sta presso lacroce Maria moglie di Cleofa. In Atti degli apostoli 12, 12 Maria, ma-dre di Giovanni detto anche Marco, ospita la comunità di credenti.Paolo saluta una collaboratrice di nome Maria in Romani 16, 6. Infi-ne, in Luca 10, 38-42 e Giovanni 11, 1 – 12, 8 appare Maria di Betania.Le molte Marie e la somiglianza tra le loro storie e quelle di altredonne senza nome nei vangeli hanno reso difficile non confonderle.A complicare le cose, nel 591 Gregorio Magno pronunciò un’omeliain cui dichiarò che Maria di Magdala, la peccatrice senza nome cheera stata perdonata in Luca 7, 36-50, e Maria di Betania erano la stes-sa persona. Qui ci concentreremo sulle tre scene in cui appare Mariadi Betania, prima nel vangelo di Luca, poi in quello di Giovanni.

Nel vangelo di Luca, l’episodio con Maria e sua sorella Marta (10,38-42) avviene mentre Gesù è in cammino per Gerusalemme. Nonvengono indicati né il luogo né il nome esatto del loro villaggio (cfr.Giovanni 11, 1; 12, 1). Il racconto inizia così: «Una donna, di nomeMarta, lo accolse nella sua casa» (Luca 10, 38). Poi Maria viene pre-sentata come sua sorella, «la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascolta-va la sua parola» (10, 39). Entrambe le donne sono aperte e acco-glienti verso Gesù e la sua parola.

Ma emerge una tensione: «Marta invece era tutta presa dai moltiservizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che miasorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”» (10,40). Gesù risponde: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti permolte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è sceltala parte migliore, che non le sarà tolta» (10, 41-42). Ciò che non è su-bito evidente nella New Revised Standard Version e in altre traduzio-

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che trovare un equilibrio tra contemplazione e azione nella vita cri-stiana è sempre una sfida, non è questo il messaggio di Luca 10, 38-42. In tutto il suo vangelo sottolinea che il discepolato consiste sianell’ascoltare sia nel fare la parola (6, 47; 8, 15, 21; 11, 28). C’è qualco-sa che non va, qui, quando Gesù esalta una cosa rispetto all’altra.

I primi copisti del vangelo si sono sforzati di chiarire la questione.Mentre il manoscritto più antico del Vangelo, P75, ha «una sola è lacosa di cui c’è bisogno» (Luca 10, 42), altri manoscritti sostituiscono«una sola cosa» (henòs) con «alcune cose» (olìgon). Alcuni manoscrit-ti combinano le due espressioni, creando un controsenso: «Alcunesono le cose di cui c’è bisogno, oppure una sola» (olìgon de estìn

chrèia è henòs). Infine, alcuni copisti hanno omesso l’intera frase, pro-babilmente perché incomprensibile.

Diversi studiosi hanno interpretato l’approvazione di Gesù cheMaria stia seduta ai suoi piedi e ascolti (cfr. Luca 8, 35; Atti degli apo-

stoli 22, 3) come un’approvazione, da parte sua, delle donne che per-seguono un’educazione teologica. Altri arrivano perfino a sostenere

Barbara E. Reid è unareligiosa domenicanadi Grand Rapids,nel Michigan.Ha conseguitoun dottorato di ricercain studi biblici pressoThe CatholicUniversity of Americaa Washington, D.C.Vicepreside e presidedi facoltà, nonchédo centedi studineotestamentari

ni è la natura esatta del problema. La frase periespàto perì pollèn diako-

nìan è stata interpretata in diversi modi: Marta è «preoccupata e agi-tata per molte cose» (New Revised Standard Version), «oberata damolti servizi» (New American Bible), «occupata intorno a tutti i det-tagli dell’ospitalità» (New American Bible, 1970), «affaccendata pertutti i preparativi che occorreva fare» (New International Version).La maggior parte di queste traduzioni non colgono il fatto che il so-stantivo diakonìa e il verbo diakonèin possono riferirsi al servire unpasto, ma che il più delle volte in Luca (8, 3; 22, 25-27) e negli At t i

degli apostoli (1, 17; 6, 2, 4; 11, 29; 12, 25; 19, 22; 20, 24; 21, 19) conno-tano un servizio ministeriale. È più probabile che il racconto rispec-chi i conflitti nella Chiesa dei primordi riguardo ai ruoli delle donnenel ministero piuttosto che un episodio storico nella vita di Gesù.Marta esprime la preoccupazione delle donne coinvolte in «moltoministero», le quali desiderano convincere le altre, rappresentate daMaria, a non limitarsi a promuovere l’ascolto della Parola da partedelle donne, ma a esortare anche a metterla in pratica pubblicamen-te. Luca cerca di risolvere la disputa mettendo sulle labbra di Gesùche la scelta di Maria è preminente rispetto a quella di Marta. Il ter-zo evangelista condivide una prospettiva simile a quella degli autoridelle lettere deuteropaoline, che imponevano restrizioni alle donneministranti (per esempio in 1 Timoteo 2, 11-12 e Ti t o 2, 3-4).

Tradizionalmente i cristiani considerano Maria come la sorellacontemplativa e Marta come la sorella attiva, interpretando Luca 10,38-42 come un’affermazione dell’importanza della preghiera prima disvolgere il ministero attivo. Molti cristiani s’identificano con Marta,sentendosi trascinati in un’incessante attività da molteplici esigenze,pur anelando ad avere tempo per la contemplazione. Anche se è vero

L’autrice

Silvia Vagnoni«Maria di Betania»

e a pagina 31Eustache Le Sueur«Noli me tangere»(1651, particolare)

presso la CatholicTheological Uniondi Chicago. Il suolibro più recente èWisdom’s Feast. An

Introduction to Feminist

Interpretation of the

Scriptures ( E e rd m a n sPress, 2016). È statapresidente dellaCatholic BiblicalAssociation of America(2014-2015).

che Gesù è rivoluzionario o unico nell’i n c o r a g g i a rel’istruzione delle donne. Non c’è però nulla che possasostenere questa interpretazione. In epoca ellenistica,l’educazione formale delle donne iniziò a essere piùaccettabile, come affermano diversi autori romani, peresempio Marziale, Musonio Rufo e Plinio il Giovane.Il fatto che alcune ebree fossero erudite nella Torahemerge da testimonianze epigrafiche di donne guidedi sinagoghe. La vera questione non è se le donne so-no discepole o perseguono una formazione teologica;la controversia verte su come e che cosa fanno dellaloro educazione.

Se Luca crea un triangolo in cui Maria e Marta sono in competi-zione l’una con l’altra mentre Gesù dichiara che «Maria si è scelta laparte migliore», nel quarto vangelo il ritratto delle due sorelle è mol-to diverso. Entrambe appaiono nell’importante scena della risurrezio-ne del loro fratello Lazzaro (11, 1-57) e, nel capitolo successivo, allacena a Betania (12, 1-8). Tutti e due gli episodi sono di fondamentaleimportanza, gettando le basi per il racconto della Passione.

In Giovanni 11 Maria viene presentata prima della sorella e ulterior-mente identificata: «Maria era quella che aveva cosparso di olio pro-fumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suofratello Lazzaro era malato» (11, 1-2). Si tratta di una sequenza stra-na, poiché l’unzione non avviene che al capitolo 12. Potrebbe indica-re che il ricordo e l’importanza dell’azione di Maria fossero tali che

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riempì del profumo dell’unguento» (12, 3). Giuda obietta che si sa-rebbe potuto vendere il profumo per dare il denaro ai poveri (12, 5),ma Gesù difende Maria, interpretando il gesto profetico di lei comepreparazione alla sua sepoltura (12, 7).

In tutti e quattro i vangeli una donna unge Gesù, ma solo nelvangelo di Giovanni viene chiamata per nome. In tutti tranne che inLuca (7, 36-50) l’unzione avviene subito prima della Passione e ognivolta viene sollevata l’obiezione che si sarebbe potuto vendere l’un-guento per dare il denaro ai poveri. In ognuno di essi, Gesù difendela donna e interpreta il suo gesto come preparazione alla sua sepoltu-ra. In Ma rc o 14, 3-9 e in Ma t t e o 26, 6-13 l’unzione del capo di Gesù èun atto profetico che rispecchia l’unzione dei re (per esempio 2 Re 9,3-6). In Luca la scena si svolge in Galilea e a ungere i piedi di Gesùè una donna alla quale sono stati perdonati molti peccati. Qui l’un-zione non è un preparativo per la sepoltura di Gesù, bensì un gestoesuberante di amore che scaturisce dal perdono ricevuto e che Gesùpone in contrasto con l’amore inconsistente del suo ospite. Il raccon-to lucano ha una funzione molto diversa rispetto agli altri tre. Que-ste narrazioni aggiungono confusione sulle diverse Marie.

Oltre a essere un’azione profetica che prepara alla sepoltura di Ge-sù, in Giovanni 12, 1-8 l’unzione dei piedi di Gesù da parte di Mariadi Betania prefigura la lavanda dei piedi dei discepoli da parte diGesù in Giovanni 13, 1-20. L’atto di Maria, come quello di Gesù, èquasi una parabola, offrendo in anticipo un’interpretazione della suamorte. Simboleggia il genere di servizio che viene chiesto di svolgereanche ai discepoli, con la disponibilità a dare perfino la propria vitaper amore. Il cattivo odore della morte (11, 39) è vinto dal profumodell’amore che si diffonde. Mentre Marta svolge un ruolo fondamen-tale in 11, 17-27 facendo una profonda professione di fede, Maria svol-ge un ruolo altrettanto importante mettendo in pratica il comanda-mento di Gesù di amare come lui ama.

Unendo il ritratto lucano e quello giovanneo di Maria di Betania,questa donna incarna l’atteggiamento di ascolto del discepolo, cheprima ascolta la parola e poi la mette in pratica. Maria e sua sorellasono state talmente importanti nella memoria della Chiesa dei pri-mordi da essere identificate nel III secolo come le prime testimonidella risurrezione nel commento al Cantico dei cantici (25, 6) di Ippo-lito, il quale evidentemente riteneva che la Maria presso il sepolcrovuoto fosse la sorella di Marta, e non una diversa Maria di Magdala.A quest’ultima negli ultimi anni è stata dedicata molta attenzione,ma anche Maria di Betania merita la nostra considerazione.

difficilmente la si poteva menzionare senza ricordare il suo gesto (cfr.anche Ma rc o 14, 9 e Ma t t e o 26, 13, dove Gesù afferma che quanto ladonna anonima dell’unzione ha fatto verrà narrato in sua memoria).

Nel quarto vangelo, Maria e Marta agiscono in armonia, sebbeneognuna abbia un ruolo distinto da svolgere. Insieme inviano a Gesùil messaggio che il loro fratello è malato (11, 3), tutte e due sonoamate da Gesù (11, 5) e gli altri ebrei vengono a consolare entrambele sorelle per il loro fratello (11, 19). Quando Gesù arriva, Marta oc-cupa il centro della scena, uscendo per andargli incontro, mentreMaria sta seduta in casa (11, 20). Il dialogo che segue tra Gesù eMarta è uno tra i più importanti del vangelo, culminando nella di-chiarazione: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio diDio che deve venire nel mondo» (11, 27). Marta, poi, chiama sua so-rella Maria e le dice: «“Il maestro è qui e ti chiama”. Quella, uditociò, si alzò in fretta e andò da lui» (11, 28-29).

Anche se i commentatori in genere dedicano più attenzione al dia-logo tra Marta e Gesù e alla sua dichiarazione di fede (11, 17-27), ilruolo di Maria in 11, 28-37 è altrettanto importante. Maria dà voce alconflitto vissuto da tutti i credenti che perdono una persona cara,quando s’interrogano sull’apparente assenza di Dio e sul perché egliabbia permesso la morte del loro caro: «Signore, se tu fossi stato qui,mio fratello non sarebbe morto!» (11, 32). Le parole di Maria fannoeco a quelle di Marta (11, 21), ma non per ripetere semplicemente lostesso dialogo. Il dramma giunge al culmine quando le lacrime diMaria e dei suoi compagni commuovono profondamente Gesù e loturbano nello spirito (11, 33). La partecipazione di Gesù al doloreesprime con forza che, anche in una comunità che crede nella risurre-zione e nella vita eterna, la morte e il dolore che questa suscita sonocomunque reali.

Va osservato che in questa scena gli altri ebrei sono collegati aMaria. Sono stati presentati come persone venute per consolare Mar-ta e Maria (11, 19), ma eccoli in casa con Maria, a seguirla quandoesce (11, 31) e ad accompagnarla e a piangere con lei (11, 33). Alla finedella scena si nota di nuovo il collegamento con Maria: «Molti deigiudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli avevacompiuto, credettero in lui» (11, 45). Maria, come la donna di Sama-ria (cfr. Giovanni 4, 39) e Maria Maddalena (cfr. Giovanni 20, 18),conduce altri ebrei a credere in Gesù.

Nel capitolo successivo, Gesù giunge a Betania per una cena doveMarta serve e Lazzaro siede a tavola (12, 1-2). Maria si fa avanti:«Presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, co-sparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si

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«M aryam», lo spetta-colo portato inscena da ErmannaMontanari, con laregia di Marco

Martinelli su un testo di Luca Doninelli, è unaliturgia fatta di gesti, parole, musiche, luci, chesi compongono per dare vita a un unico fortegrido.

La scena tocca, scuote, nella sua essenzialità.La musica penetra nel cuore, nella mente, nellestesse ossa. Una donna incorniciata, quasi im-prigionata dai giochi di luce e dalle sovraim-pressioni di paesaggi di guerra, fili spinati, rica-mata sulla pelle da scritte arabeggianti che urla-no, feriscono, evocano e risuonano nella salagrazie alla voce cangiante e sempre precisa dellaprotagonista. Una donna sola in scena, in unaposa dimessa, relegata a lato, ferma, eppure po-tente e protagonista. Così Ermanna Montanaridà corpo, quasi annullandosi, a un mondo didonne.

Lo spettacolo mette in scena il dolore, un do-lore insanabile: quello di una donna che perdeil figlio, il fratello, l’amica. Un dolore universa-le, che supera barriere di culture, di religione, dicolore. Un dolore che trova il grido in una pre-ghiera. Ma r y a m è questo: è il grido, la preghiera

che tre donne innalzano verso un’altra donna,Maria, colei con la quale possono condividere illoro dolore, perché anche lei l’ha vissuto. ConMaria queste donne possono mettersi a nudo,rivelare tutta la loro verità, anche arrivando adaugurare il male al loro nemico.

Ma r y a m è stata definita una «partitura inquattro movimenti»: tre donne che pregano euna donna che com-patisce. Tre donne palesti-nesi innalzano la loro preghiera a Maria, condi-vidono con lei il dolore per la morte dei figli edei fratelli, morti dovute all’ingiustizia e agli or-rori del mondo. Madri che si rivolgono a lei perchiedere consolazione, o per gridare la propriarabbia, per reclamare vendetta, o semplicementeper invocare una risposta al perché della guerrae della violenza. Zeinab, che chiede vendettaper l’amica Sharifa, violentata e uccisa dallo zio.Intisar, che deve assistere alla pazzia della ma-dre dopo la morte del padre in un attentato equella del figlio come attentatore, e innalza unapreghiera colma di odio. Dohuah che nella casadi Maria prega e trova l’unico luogo in cui puòsopportare la morte del solo miracolo della suavita, il figlio Alì. La invocano come fanno tantedonne nei santuari musulmani del Medio orien-te, e come lo scrittore Luca Doninelli ha vistofare all’interno della basilica dell’Annunciazione

ARTISTE

D onnaper le donne

di ELISA ZAMBONI

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a Nazareth, come egli stesso racconta: «L’ideadi Maryam viene da lontano, precisamente dallabasilica dell’Annunciazione di Nazareth dovemi recai tra il 2005 e il 2006. Lì assistetti allospettacolo di una fila quasi ininterrotta di don-ne musulmane che entravano nella basilica perrendere omaggio alla Madonna. Quella visionemi colpì per la sua solennità, per la certezza fi-duciosa che quelle donne mi trasmettevano».

Sul palco queste tre donne sono voci primache corpi, sono parole, di cui si fa carico l’unicavoce implorante, aspra e rabbiosa, ma anchedolce e melodiosa, della Montanari alla qualespettano tutti i ruoli, compreso il ruolo finale diMaria. «Essere madri è ciò che unisce Maria aqueste donne — dice l’attrice — e questo rappor-to può essere il modo per affrontare i grandi in-terrogativi del nostro tempo. Ci dà la possibilitàdi cogliere un punto di generazione dentro unmondo di morte». Le tre donne innalzano pre-ghiere diverse, ma nel profondo le preghieredelle donne si somigliano: le donne mescolanorabbia e amore e paura, pronunciano parole digratitudine, di richieste d’aiuto ma anche di co-raggio per farcela da sole, quasi sempre preganoper altri, le loro preghiere hanno una profonditàcomune, che va al di là della religione cui ap-partengono. Si rivolgono a Maria, a una donnache somiglia loro, e questa a volte è l’unica pos-sibilità per le donne di trovare un luogo in cuipoter esistere.

Zeinab, Intisar, Dohuah cercano risposte chepossano dar tregua alle loro lacrime inconsola-bili: la violenza gratuita, la follia ideologica sui-cida, la perdita di un figlio risvegliano la voceancestrale e incontenibile della vendetta, che ap-pare l’esito inevitabile di ciascuna di queste trepreghiere. Da Maria attendono parole che le ab-braccino e che colmino il vuoto doloroso dellaperdita di ogni speranza, da lei ci si attende larisposta al grande mistero originario che ci abi-ta, il mistero del dolore che pare inscindibiledalla creazione.

A Maria è lasciata la parola finale che portain sé una risposta che però non ha risposta.Maria compare, a mani vuote, ha ascoltato manon può dare risposte, non le ha. Qui Maria èprima di tutto donna, conosce il patire e condi-vide con queste donne la pena e il mistero di unamore pieno di lacrime e di dolore che nemme-no Dio sa riscattare. Dice infatti Maria alle don-ne: «Io non ho mai perdonato Dio per aver fat-to morire mio figlio anche se è risorto, anche seè per sempre nella gloria. Quella ferita rimaneintatta, questo Dio lo sa e non accampa pretesedi perdono». E ancora: «Se avessi potuto com-piere il prodigio di togliere mio figlio dalla cro-ce, cosa sarei io per voi, oggi? Fortunata quella,beata lei. Questo direste di me, senza amore.Invece voi mi amate e io vi amo di un amoresconosciuto ai macellai e ai becchini, ai sommisacerdoti e ai procuratori generali».

Lei che ascolta e soffre per tutte, sa metterel’ultima parola: una parola di compassione, con-divisione per dire il mistero di un amore chenon promette risposte ma solo la certezza di es-sere, solo la possibilità di essere condiviso. «Ilmistero che abbraccia tutto l’universo: l’onnip o-tenza dell’Amore, che è anche l’imp otenzadell’Amore». Proprio lei che ha assistito impo-tente alla morte del figlio («Io che non ho po-tuto nulla...») viene a porsi come una figuraponte tra le diverse religioni, a significare chel’incontro non solo è possibile, ma è alla portatadi chi sa ascoltare. Maria, la figura dell’i n c o n t roporta in sé il mistero della follia dell’a m o reevangelico, donna tra le donne racchiude in séla profondità del mistero dell’amore umano cheproprio oggi viene così violentemente e dram-maticamente sfigurato dal male della guerra.

E come lei, le donne non hanno risposte, noncercano nemmeno il perdono, le donne hannocome risposta la com-passione, la condivisioneche accomuna, dona prossimità, crea ponti.

LUCA 10, 38-42

Nella festa di Marta, Maria e Laz-zaro, amici e ospiti del Signore,ascoltiamo un racconto moltonoto, che vede la presenza delledue sorelle e di Gesù. Sono ri-

cordate sempre quali sorelle, e sorelle di Lazza-ro, ciascuna e insieme legate al Signore Gesù,mosse dalla sua venuta, come si legge alla mortedi Lazzaro nel quarto vangelo (cfr. Giovanni 11,1-45), che non manca di far notare che «Gesùvoleva molto bene a Marta, a sua sorella Mariae a Lazzaro» (Giovanni 11, 5).

All’inizio il testo si apre con un plurale(«mentre erano in cammino») ma subito si con-centra su Gesù, chiamato qui sempre ho kýrios,“il Signore”, che entrò in un villaggio «e unadonna, di nome Marta, lo accolse nella sua ca-sa». Non c’è abbondanza di parole: «lo accol-se» basta a dire il dovere e la premura dell’ospi-talità incarnata da Marta. L’evangelista passa al-

ME D I TA Z I O N E

D ispersiin troppe cose

a cura delle sorelle di Bose

Lara Sacco, «Betania» (ori su legno, Bose)Nella pagina seguente:

«Gli amici del Signore» (tempera all’uovo, Bose)

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la figura della sorella, della quale viene dettoche ascoltava la parola del Signore, seduta aisuoi piedi, rannicchiata con umiltà e semplicità.Il cammino del discepolo era riservato agli uo-mini, eppure qui è Maria a farsi discepola, amettersi in ascolto. Che cosa ascoltava? Nonsappiamo, ma «ascoltava» indica una durata,immette in uno stare, in un modo, crea un cli-ma. «Invece Marta», incalza Luca, era come«strattonata», sballottata dai molti servizi, per il«molto servizio», letteralmente. L’accento sem-bra cadere ora su questo «era occupata»: la suapersona era disgregata, dissipata in un molto,un molto che lascia intuire un troppo. Di fronteall’ascolto silenzioso di Maria irrompe l’ansia diMarta, divisa interiormente. Marta ci appare fi-gura contraddittoria, molteplice, come ciascunodi noi, che rischia di ridursi, anche ai suoi stessiocchi, a un ruolo, rischia di chiudersi a una opiù funzioni, al dover fare. Il problema non è ilfare bensì l’agitazione che causa affanno. La di-cotomia non è tra ascoltare e fare ma tra la di-sposizione all’ascolto e il rischio di restare in-

trappolati, dispersi in molte cose, troppo «pie-ni». Forse Marta cerca solo di offrire una buonaospitalità, di essere una buona padrona di casa(ruolo comunemente riservato agli uomini). Maecco lo scacco: Marta si sente sola, o meglio sisente lasciata sola, abbandonata dalla sorella, dacolei che avrebbe dovuto esserle vicina, di soste-gno, di aiuto, di consolazione. La immaginiamotutta presa in cucina e il suo brontolio, la suainsoddisfazione esplodono in un rimproveromosso addirittura a Gesù, l’ospite, nei confrontidi Maria. Non avrebbe potuto rivolgere la paro-la direttamente alla sorella? No, Marta, troppopreoccupata, o forse troppo stanca come a voltesiamo anche noi, diventa impaziente e pungen-te, incapace di mettersi in una relazione alla pa-ri; cerca una parola più autorevole. Sembra cheMarta si senta doppiamente sola, non compresa:non solo la sorella l’ha lasciata sola a servire maanche lui, il Signore, non si cura di lei! Martarivendica la mancanza di riconoscimento, di re-lazione.

Ed ecco che Gesù, al quale era stato chiestodi intervenire con una in favore dell’altra, calmala tempesta rivolgendosi direttamente a Marta,chiamandola per nome con affetto accorato:«Marta, Marta». La riporta al tu per tu, alla re-lazione centrale con lui, il Signore, e in lui econ lui al rapporto con la sorella.

Gesù indica, letteralmente, la «parte buona»,non la «parte migliore». Nel testo non c’è nes-suna superiorità. Gesù non intende risolvere unproblema trovando una soluzione, non fomentauna facile contrapposizione, un’opposizione trasorelle, ma sembra rivelare qualcosa: la prioritàè il convergere a lui; il resto, tutto il resto, è re-lativo, è comunque un mezzo, il fare come ilpregare. Si può imparare a servire se prima ci silascia lavare i piedi. Si può imparare a pregarese si ascolta il Signore e ci si lascia visitare dalui, se si condividono con lui anche i nostri af-fetti.

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