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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 90 GIUGNO 2020 CITTÀ DEL VATICANO Emergenze e leadership femminile Quando le circostanze sono straordinarie si scardinano postazioni di potere e gerarchie Ma dopo? POVERTÀ HAITI Marcella Catozza DIRITTI UMANI R.D. CONGO Rebecca Kabugho TRATTA ARGENTINA Martha Pelloni GUERRA CIVILE SIRIA Flavia Chevallard FAME YEMEN DEL NORD Stella Pedrazzini INFANZIA IRAQ Miriam Ambrosini Uomini e donne post coronavirus. Intervista a due voci: Chiara Giaccardi e Mauro Magatti Conventi aperti. Madre Ignazia e le altre che diedero rifugio agli ebrei

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 90 GIUGNO 2020 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Emergenze e leadership femminile

Quando le circostanze sono straordinariesi scardinano postazioni di potere e gerarchie

Ma dopo?

POVERTÀ HAITI Marcella CatozzaDIRITTI UMANI R.D. CONGO Rebecca Kabugho

TRATTA ARGENTINA Martha PelloniGUERRA CIVILE SIRIA Flavia Chevallard

FAME YEMEN DEL NORD Stella PedrazziniINFANZIA IRAQ Miriam Ambrosini

Uomini e donne post coronavirus. Intervista a due voci: Chiara Giaccardi e Mauro Magatti

Conventi aperti. Madre Ignazia e le altre che diedero rifugio agli ebrei

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numero 90giugno 2020

L a maternità provoca una esplosione neuronale e dotail cervello di nuove abilità. Sembra che madre naturaprepari biologicamente le madri per reagire davantiall’emergenza e proteggere la vita. Per esempio, untopo madre è più capace di affrontare il pericolo, ge-

stire lo stress e trovare l’uscita di un labirinto, che un topo vergine.La cosa interessante è che questi tratti si sviluppano anche nelle fem-mine di altre specie che adottano cuccioli senza averli partoriti. L’at-tività di cura genera cambiamenti neurologici. Nel mondo degli esse-ri umani, nascere donna non vuole dire essere madre. Madri si diven-ta con una trasformazione dell’identità femminile, che — scrive GiuliaPaola Di Nicola ne Il linguaggio della madre (Città Nuova) — passa«dell’essere per sé all’essere per l’altro». Questo «decentramento»non è più l’adattamento regolato dall’istinto: è trasformazione cheimpegna la libertà, un vero travaglio. E non sempre accade. Ci sonodonne con figli che forse non hanno un «cervello materno», e donnemadri che non hanno figli biologici. Il cervello materno è creativoper trovare le strade per accudire, moltiplica la propria forza, sa ri-schiare e sacrificarsi. Reagisce creativamente davanti all’e m e rg e n z a .In questo numero raccontiamo storie di donne con cervello di madre.Donne coraggiose e resilienti, capaci di stare in prima linea in conte-sti di guerra, epidemia, fame, povertà, tratta… in ogni periferia esi-stenziale, sfidando schemi preconcetti, dando vita mentre danno laloro vita. Queste donne incarnano il volto della Chiesa Madre, chia-mata a sviluppare un «cervello materno», a diventare «madre dalcuore aperto» (Evangelii gaudium 46), orientata verso poveri ed emar-ginati (ibidem, 48). Una Chiesa Madre è Chiesa «in uscita» che nonsi ripiega sulle proprie sicurezze e supera ogni tentazione di rigiditàautodifensiva (ibidem, 45), di rinchiudersi in un groviglio di ossessio-ni, procedimenti o strutture (ibidem, 49). Una Chiesa Madre è “de-centrata”: sa uscire per le strade senza guardare se stessa, senza pauradi essere accidentata, ferita o sporca; e non rimane tranquilla finchéha un solo figlio senza orizzonte di vita. Le donne di questo numerosvegliano il cervello materno della Chiesa e propongono con il loroesempio e la loro parola che tutti — uomini e donne, di qualunquefede e credo — lo adottino e lo facciano proprio. L’emergenza è unabuona occasione per uscire da se stessi e incontrare l’a l t ro .

MA R TA RODRIGUEZ

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romano

Comitato di DirezioneRI TA N N A ARMENI

FRANCESCA BUGLIANI KNOX

ELENA BUIA RUTT

YVONNE DOHNA SCHLOBITTEN

CHIARA GIACCARDI

SHAHRZAD HOUSHMAND ZADEH

AMY-JILL LEVINE

MA R TA RODRÍGUEZ DÍAZ

GIORGIA SA L AT I E L L O

CAROLA SUSANI

RI TA PINCI (co ordinatrice)

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I A GUIDI

VALERIA PENDENZA

SI LV I N A PÉREZ

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

Cop ertinaANNA MILANO

A cura diMARCO DE ANGELIS

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v aredazione.donnechiesamondo.or@sp c.va

per abbonamenti:abb onamenti.donnechiesamondo.or@sp c.va

Una Chiesa con cervello materno

LE IDEE

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SOMMARIO

PRIMO PIANO

Uomini e donnela sfida post-emergenza

ROMILDA FE R R AU T O A PA G I N A 3

EPIDEMIE

Le sei suore martiridel virus Ebola

ELENA BUIA RUTT A PA G I N A 15

CU LT U R E

Teatro socialeper le emergenze

GIULIA INNO CENTI MALINI A PA G I N A 28

LA STORIA E LE STORIE

Le scelte giustenella stagione dell’o dio

FRANCESCO GRIGNETTI A PA G I N A 31

LIBRI

L’indomabile Juliadalla corte al gulag

MARIE CI O N Z Y N S KA A PA G I N A 36

LA F O R E S TA SILENZIOSA

Elisab etta,che fa apostolato in ufficio

LAU R A ED UAT I A PA G I N A 39

L:15.8.78cc A:10.5nmod

PRIMO PIANO

Uomini e donnela sfida post-emergenza

Intervista a due voci con i sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti

Èvero che nei momenti di emergenza cresce il ruolo delle donne? E che si ri-

velano più adatte ed efficaci degli uomini quando c’è una crisi?

Lei - Nei momenti di emergenza la normalità sovverte, quindi la ri-gidità dei ruoli tradizionali viene meno. Si apre uno spazio per espri-mere un potenziale che normalmente resta più nascosto. Si dice poiche una caratteristica delle donne è quella di essere multitasking, diaffrontare una quotidianità fatta di aspetti diversi da armonizzare,

di ROMILDA FE R R AU T O

Abbiamo sentito dire che nell’emergenza sanita-ria del coronavirus il mondo ha scoperto la for-za, il coraggio, la tenacia e la sensibilità delledonne… Donne medico, infermiere, ricercatrici,madri, compagne, nonne, volontarie e, ancora,donne di fede e ai vertici di istituzioni. Studi re-centi hanno evidenziato la tendenza di impresee istituzioni, in situazioni di crisi, a nominaredonne ai posti di responsabilità: il fenomenodella glass cliff, la scogliera di cristallo.

Perché le donne hanno più coraggio, più ab-negazione. E perché quando le circostanze sonostraordinarie si scardinano postazioni di poteree gerarchie. E allora perché non permettere alledonne di esprimere questi talenti anche oltre iperiodi di emergenza?

Ne abbiamo parlato con una coppia di socio-logi: Chiara Giaccardi e Mauro Magatti. En-trambi insegnano nella Università Cattolica diMilano. Insieme hanno scritto alcuni anni fa illibro Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manife-

sto per la società dei liberi (Feltrinelli, 2014) e unanno fa il libro La scommessa cattolica - C’è anco-

ra un nesso tra il destino delle nostre società e le vi-

cende del cristianesimo? (Il Mulino, 2019) chemolto fa discutere in Italia.

Sono marito e moglie, hanno sette figli, dicui cinque biologici. Vivono a Como in una co-munità di famiglie italiane e migranti, Eskeno-sen. Chiara è nel Comitato di direzione di«donne chiesa mondo».

Haiti / Una battaglia lungauna vita

LAU R A ED UAT I A PA G I N A 9

R.D. Congo / La ragazzacoraggio

DO N AT E L L A RO S TA G N O A PA G I N A 12

Argentina / Se un Papati chiede di “fare chiasso”

LUCIA CAPUZZI A PA G I N A 16

Siria / Star lì a ricostruire ilcorpo e la persona

ELISA CALESSI A PA G I N A 19

Yemen del nord / L’ultimonemico è la carestia

FEDERICA RE DAV I D A PA G I N A 22

Iraq / Tra i piccoli profughivittime della guerra

ELISA CALESSI A PA G I N A 26

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sante femminile. E d’altra parte, forse, questo ha creato anche dellecondizioni per una rinegoziazione del rapporto tra maschile e femmi-nile. Speriamo che questa esperienza ci lasci come eredità la consape-volezza che i due modi di guardare e di stare al mondo — che nonsono solo della femmina e del maschio, ma che sono due accentua-zioni del nostro modo di essere — sono entrambi necessari.

Lei – A proposito dei ruoli scardinati: c’è stata l’occasione per i pa-dri di prendersi cura dei figli. Questo frame stop che il presente haimposto alla nostra vita ordinaria ha aperto uno spazio di riscopertadi dimensioni normalmente molto sacrificate. Un effetto collateralepositivo che dovremmo conservare nella memoria.

Anche perché questa crisi si svolge in gran parte tra le mura domestiche, regno

femminile per eccellenza. Quanto è utile e urgente valorizzare la reciprocità uomo-

donna?

Lei - Reciprocità è una parola chiave: indica un dinamismo, unarelazione che non è basata su ruoli rigidi e su una divisione dei com-piti che diventa separazione e delega, ma su un dialogo tra diversiche cambiano insieme, in un processo dialogico e avventuroso. Inve-ce l’idea di complementarità maschile e femminile è una idea moltostatica, basata sulla separazione dei ruoli e dei compiti. Comunqueritrovarsi a faccia a faccia, 24 ore su 24, con i figli in casa, rimette ingioco anche la coppia. Anche noi, con diversi figli a casa, abbiamovissuto la bellezza ma anche un po’ la fatica di una quotidianità chedeve ritrovare altri ritmi, altri equilibri tra silenzio e parola, intimità econvivialità.

Lui – Le conseguenze di una convivenza forzosa nelle abitazioni levedremo nei prossimi mesi. Adesso non sappiamo cosa esattamente èaccaduto. Come già prima, ci sono stati casi di violenza. E sicura-mente ci saranno state situazioni problematiche, criticità che esisteva-no e si sono acuite. La speranza che sembra avere qualche fonda-mento è che l’esercizio della convivenza, per quanto inaspettato e ab-bastanza prolungato, ci abbia aiutato tutti a recuperare dimensioniche si tendono a perdere nei ritmi di vita ordinaria. Non siamo parti-celle elementari disperse nel globo ma siamo isole che si colleganoad altre isole, arcipelaghi in connessione tra loro, e questo forse l’ab-biamo capito un po’ di più.

In linea generale, e anche in questa crisi, ci sono più donne impegnate nell’e m e rg e n -

za quotidiana e più uomini che parlano sulla scena pubblica. Ma quale sguardo i

con diversi equilibrismi. Le donne sono più abituate a essere interrot-te, a fare fronte a piccole emergenze quotidiane, a rotture diprogrammi e di pianificazioni e questo può essere un vantaggio nellegrandi emergenze. Il rischio è che questa occasione, sfruttata nelmomento difficile, poi venga dimenticata. Ora si sono creati spazi, ilpotenziale delle donne è diventato evidente: la sfida è non perdere laconsapevolezza e la memoria di quello che tante donne stannofacendo.

Lui – Io non so se l’affermazione è vera. Non ho nessun dato. Puòessere! Io credo che questa crisi esalti la dimensione femminile cheabbiamo tutti quanti, maschi e femmine, se intendiamo l’elementodella cura, dell’attenzione al dettaglio, della pazienza. È probabileche questa dimensione femminile si avverta di più nelle donne. Iospero che, in realtà, la crisi abbia stimolato anche tanti uomini a svi-luppare questa dimensione che ci rende poi capaci di dialogare tramaschi e femmine.

Alcune qualità sono presentate come più femminili: abnegazione, tenacia, fiducia, sa-

crificio, flessibilità. Ma il coraggio? Le donne sono più coraggiose?

Lei – È vero che certe caratteristiche che definiamo semanticamentefemminili appartengono anche all’uomo. Poi, socialmente, ci sono di-visioni dei ruoli che tendono a irrigidirsi. Io credo in ogni caso chesia scritto nel corpo della donna il tema del legame, che significaconsapevolezza della mancanza dell’altro, e apertura alla relazioneall’altro, preziosa sempre e a maggior ragione nei momenti di emer-genza. Mai come in questo tempo è emersa la dimensione del “noi”:un noi che non è esclusivo, contro qualcun altro, contro un “l o ro ”,ma è un noi di prossimità, di interdipendenza. Questa dimensionefemminile della mancanza dell’altro, che è anche antropologica, è allaradice delle tante manifestazioni di sollecitudine, di sostegno, di de-dizione cui abbiamo assistito. L’individualismo è un racconto menzo-gnero oltre che triste. È un regalo che questo tempo ci ha fatto, inmezzo a tanti drammi.

Lui – Questo tema “dell’altro che domanda” è stato ciò che ha ac-comunato molti di noi — anche se non tutti, non sempre, sono staticapaci di raccogliere questa istanza. Però mi sembra che siano appar-se due cose: innanzitutto, una modalità più femminile di fare frontea questa situazione. Molte delle persone di cui si è parlato, che han-no avuto ruoli importanti e che sono state figure simboliche, non acaso erano donne. La modalità “e ro i c a ” si è manifestata più sul ver-

«Nei momentidi crisi

la rigiditàdei ruoli

viene meno.Anche stavolta

è stato evidente chele donne sono più

abituatea far fronte

all’e m e rg e n z a .Non perdiamone

la memoria»- Chiara Giaccardi

«Speriamoche questaesperienzaci lascila consapevolezzache i due modidi guardaree stare al mondo,che non sono solodella femminae del maschio,sono entrambinecessari»- Mauro Magatti

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ha tenuto per i bambini. Mauro ha commentato: «Soltanto una don-na poteva fare una cosa del genere». Che cosa ha fatto? Una cosasemplice: ha tenuto conto che i bambini hanno paura, e che l’infor-mazione di questo evento traumatico è tutta rivolta agli adulti. Lapremier ha intuito la necessità di accompagnare i bambini attraversoquesta paura che è normale, che serve a crescere. E questo è un se-gno di come c’è bisogno del contributo femminile, che tenga contodi tutti. Non si tornerà come prima. Le strade sono due: torniamopeggio di prima, perché questa crisi ci ha reso più poveri, l’economiaè in difficoltà, c’è il rischio che le donne escano dal mercato del lavo-ro e perdano posizioni che sono riuscite ad acquisire; mancheranno iservizi per l’infanzia, le scuole riapriranno con limitazioni: il timore èche si dia per scontato che le donne debbano rinunciare al lavoro.Oppure c’è la possibilità che si inauguri un grande cambiamento cul-turale. Abbiamo capito che solo insieme ci si salva, e che la nostra fe-licità non dipende dal consumo. Abbiamo riscoperto la dimensionedel “saper fare”, farina e lievito spariti dagli scaffali... Abbiamo speri-mentato che la vita dell’altro va difesa per difendere la nostra, chesiamo tutti interconnessi, e che la disconnessione, a differenza diquanto il modello digitale ci porta a pensare, è praticamente impossi-bile. Però non sarà facile portare con noi questo bagaglio di illumi-nazioni nella costruzione del futuro, perché le inerzie sono forti, ecambiare è costoso. E si continua a pensare alla ricostruzione a com-partimenti stagni. Si sta giustamente pensando al lavoro, ma senzapensare che i lavoratori sono anche padri e madri.

Lui – Questa crisi può spingerci verso un mondo più cattivo, piùdiviso, più conflittuale. Oppure possiamo andare in una direzionepiù trasformativa, a condizione che riusciamo ad abbattere una seriedi muri e di resistenze che avevamo prima. Uno dei nodi è la rinego-ziazione tra maschile e femminile, tra l’uomo e la donna. Ben sappia-mo che la figura maschile è in difficoltà e quindi in molti casi la crisisfocia nella violenza. Io come uomo auspico che i governi guidati dadonne, e l’elemento femminile che è incarnato più specificatamenteda donne, ci aiutino a generare quelle trasformazioni che dovremmotentare di perseguire nei prossimi anni. E credo proprio che se ci affi-diamo solo a uomini-maschi o a donne-maschi, si tornerà al punto diprima. Credo invece che abbiamo bisogno, oggi ancora più di ieri, eforse c’è qualche condizione in più, del contributo del maschile e delfemminile, nella loro reciprocità, anche nella gestione della cosa pub-blica.

credenti, e in particolare i cristiani, possono portare su queste problematiche? Cosa ci

dice il Vangelo in proposito?

Lei – Ci sono tanti episodi, che non sono solo racconti ma “icone”,con un significato simbolico che parla alle nostre vite di oggi. Unadelle icone più belle, per me, è quella delle nozze di Cana, quandoMaria si rende conto che il vino è finito. Questa è una capacità fem-minile molto preziosa: essere attente agli aspetti della quotidianitàche sembrano dettagli ma non lo sono, perché riguardano il benesse-re di tutti; non pensare soltanto alla sopravvivenza ma anche a ren-dere la vita qualche cosa di bello da vivere, per tutti. Certo, è Gesùche realizza il miracolo. Ma non sarebbe stato possibile se Maria nonavesse percepito una mancanza. È una bellissima immagine della re-ciprocità fra maschile e femminile. Magari il maschile ha l’idea delloscenario, dell’insieme e il femminile più del dettaglio e dei bisognidel singolo, ma dentro un quadro condiviso, dove ciascuno porta ilsuo contributo.

Lui –Il Vangelo, per quanto scritto da uomini-maschi, ha conserva-to una traccia sufficientemente evidente della presenza rilevante e ori-ginale delle donne nella vita di Gesù. Questo è un contenuto rivolu-zionario che per tante ragioni, anche nella cristianità e dentro laChiesa, si è fatto e si fa fatica a cogliere e sviluppare. Io credo cheabbiamo bisogno di rafforzare un’ermeneutica nuova anche di unaserie di passi del Vangelo in cui le donne hanno un ruolo di granderilevanza, perché forse ci sono passi che non riusciamo ancora bene acomprendere. Da questo punto di vista il Vangelo va ancora esplora-to.

Lei –Nella Risurrezione sono le donne che diventano testimoni eannunciatrici di un evento straordinario. Questo legame fra figurefemminili e piccole e grandi emergenze, il Vangelo ce lo mette difronte indirizzandoci verso la nuova ermeneutica di cui parlava Mau-ro, oggi assolutamente necessaria.

L’epidemia del Covid-19 (come la peste, il colera) ha capovolto i valori facendo

trionfare l’umano, campo più prettamente femminile. Quando si tornerà alla norma-

lità, i governi dovranno sforzarsi di riorganizzare tempi e modi del lavoro. Quanto

sarà importante il contributo delle donne?

Lei – Abbiamo visto che le donne sono più presenti nella cura del-le persone, e abbiamo visto che i Paesi che meglio affrontano l’emer-genza sono guidati da donne. Ci è capitato di vedere insieme (Mauroed io) la conferenza stampa che la premier norvegese Erna Solberg

«Nelle Nozzedi Cana

è Gesùche fa il miracolo.

Ma non sarebbestato possibile se

Maria non avessesegnalato una

mancanza. È unacapacità femminile

essere attenteal benessere

di tutti»- Chiara Giaccardi

«Questa crisipuò spingerciverso un mondopiù cattivooppure in unadirezione piùt ra s f o r m a t i v a .Ma se ciaffidiamo soloa uomini-maschie a donne-maschisi tornerà alpunto di prima»- Mauro Magatti

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HAITI POVERTÀ

Una battaglialunga una vita

Marcella Catozza, da 30 anni contro la piaga della miseria

di LAU R A ED UAT I

La forza spiritualedi suor MarcellaCatozza si sente

anche attraverso la li-nea telefonica. Poten-tissima. Un equipaggia-mento necessario perresistere da oltre 30 an-ni là dove la piaga del-

la povertà del mondo incancrenisce e negli ulti-mi 15 nell’emergenza più dura, là dove il confi-ne tra la vita e la morte può essere sottile: perlei è rappresentato dai banditi armati che cir-condano e razziano l’orfanotrofio che dirige adHaiti nella baraccopoli più pericolosa del mon-do, lasciandola nell’angoscia di non poter dareper due giorni acqua e cibo alle decine di bam-bini che, in molti casi, ha aiutato a nascere conle sue mani da madri moribonde. Situazioni allimite che, racconta, «non avrei potuto reggerese non avessi avuto un carattere battagliero e lafede secondo la quale dentro le cose peggioriesiste un bene a volte misterioso. Un bene chesi compie, che non si discute. Che c’è».

Un senso ritrovato proprio affondando l’inte-ro corpo nella bidonville più povera della capi-tale Port-Au-Prince, Waf Jeremie. Una terra dinessuno, anzi una terra di 50 mila disperati, do-ve ha voluto costruire l’ambulatorio pediatricoSan Franswa, unica struttura medica in quellamiseria assoluta, che dona supporto specialmen-te ai bambini denutriti e alle mamme infettate

Suor Marcella Catozza mentre opera come infermiera, e alcune immagini di Waf Jeremie, alla periferia di Port au Princedove presta la sua missione: nel 2004, l’anno precedente il suo arrivo ad Haiti, era considerata la bidonville più pericolosa

al mondo (foto dal sito della Fondazione Via Lattea, costituita nel 2015 dalla religiosa insieme ad alcuni amici)

Missionaria della FraternitàFrancescana, dopo Albania,

Mozambico e Amazzonia, dal 2015nella baraccopoli di Waf Jeremie.«Io non cerco il martirio, spesso

desidero di andarmene»

dall’aids che non possono allattare. Una missio-ne con radici in un lontano passato, quando de-cise di frequentare Medicina a Milano fino alquarto anno, percorso interrotto soltanto in par-te perché poi divenne suora e infermiera nellostesso lasso di tempo. E ancora oggi è quotidia-na la sua attività continua di pronto soccorso

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infermieristico alle persone ferite che bussanoalla sua porta: «Fondamentalmente applicopunti di sutura a gente che si ammazza di bot-te, che si ferisce con i cocci, donne picchiate dalmarito, persone fratturate o ustionate».

Una trincea nella trincea che questa religiosaappartenente alla Fraternità Francescana Missio-naria riesce ad affrontare intagliando le parolecon franchezza: «A volte ci penso: sono nata inun luogo molto tranquillo come Busto Arsizio,una cittadina industriale nel Nord dell’Italia, e

giorni del terremoto era difficile trovare organiz-zazioni che seguissero progetti in quella area,Waf era zona interdetta dalle Nazioni Unite tan-to era pericolosa, abbandonata al dominio dibande criminali e trafficanti.

Eppure quando il 12 gennaio del 2010 il ter-remoto catastrofico ha squassato Haiti facendo200 mila morti, suor Marcella era là, una dellepoche presenze in quel mondo dimenticato dalmondo. Viveva là da cinque anni, aveva già fat-to tanto e dopo il terremoto ha ricostruito una

Sono trent’anni che questa donna coraggiosae forte si trova là dove uragani, epidemie, terre-moti fiaccano l’umanità. Dieci anni in Albania,dove ha fondato la missione di Babice e Madhaed è stata anche responsabile del campo profu-ghi kosovari di Valona. Un boss mafioso ungiorno le si presentò con una valigetta piena disoldi volendo “c o m p r a re ” sei orfani kosovari percurare con i loro organi sei orfani albanesi: leigli scagliò la valigetta addosso e la notte stessariuscì a portare in salvo i bambini presso laCroce rossa. La mafia assaltò la missione, dovet-te intervenire il Battaglione San Marco.

Poi in Mozambico.

Poi cinque anni in Amazzonia dove si è presacura dei ragazzi di strada delle favelas e ha con-tribuito a far nascere il Centro Educativo NossaSenhora das Gracias che accoglie oggi 700 bim-bi dai tre ai diciotto anni. E ora Haiti, tra i piùpoveri dei poveri. È stata contrastata, minaccia-ta; hanno provato a chiederle tangenti. Così haaffrontato il boss della baraccopoli andando acasa sua e facendogli riconoscere che i volontaristavano facendo soltanto del bene alla poveragente. Nel 2011 una delle gang della bidonvilleha assassinato Lucien, giovane ex bandito chelavorava con lei dal suo arrivo ad Haiti. SuorMarcella sa che l’omicidio era un messaggio alei rivolto. Eppure non arretra, rifuggendo l’im-magine della religiosa senza timore: «Io noncerco il martirio, spesso desidero di andarme-ne». Il primo a capire che poteva avere il cari-sma dell’educazione è stato il vescovo della dio-cesi di Parintins, Brasile, dove ha passato gli an-ni dal 2000 al 2005. Nel centro educativo chedirigeva, suor Marcella ha compreso come en-trare in relazione con i bambini: «Mai dare re-gole, nemmeno il Catechismo, se prima nonvengono aiutati nella dimensione umana, a esse-re liberi e positivi, a comprendere che se nonstudiano il danno lo fanno a loro stessi. L’uma-

no è la coscienza di sé, la comprensione di qualidesideri hanno nel cuore. Bisogna provocarequesti ragazzini a rimanere nella realtà, anzi, aobbedire a questa realtà con una motivazioneinterna: devono imparare prima di tutto che oc-corre scegliere il bene perché è la cosa più intel-ligente per loro».

I ragazzi di Waf Jeremie a contatto con questobene fioriscono: «Molti dei nostri bambini sonosegnati dalla violenza e dall’abbandono: picchiatiin famiglia e picchiati a scuola, rischiano di sen-tirsi definiti unicamente dal trauma e invece ilnostro sforzo è ripetere loro che sono un tesoromeraviglioso. È un insegnamento difficile ma ibambini imparano per imitazione, perciò anchenelle emergenze più gravi imparano ad adottarela postura del coraggio e della sfida, dell’accetta -re la realtà così come viene senza lasciarsi abbat-tere». E poi i giovani che si sottraggono, i cosid-detti “ragazzi perduti” che suor Marcella ha in-contrato spesso nel suo cammino. Di uno, inparticolare, ha memoria: un ragazzino che facevaentrare di nascosto armi nell’orfanotrofio. «Lacompassione è l’atteggiamento peggiore che pos-siamo avere. Se avessi pensato “p overino” gliavrei negato la libertà di aver scelto in quel mo-mento l’adesione a regole sbagliate. L’ho allonta-nato dalla casa-famiglia, a volte lo incontro e ve-do che mi porta rispetto: sa che se volesse cam-biare vita e lasciare la banda di delinquenti chefrequenta la mia porta è sempre aperta». Emer-genza è anche ciò che sta succedendo per la pan-demia scatenata dal coronavirus; il dolore di cuiora è intriso il mondo intero può riempire dipaura. Lei sembra averne soltanto qualche goc-cia: «Se devo avere il controllo sulla mia vita, al-lora tutto mi intimorisce. Dobbiamo comprende-re invece che la vita è data per un bene che puòrisultare avvolto nel mistero: se crediamo, allorala vita smette di essere una fatica e smettiamo divoler piegare le circostanze alla nostra volontà».

avanti accettando ciò che era deciso. Se penso al-le notti passate sveglia con il pensiero che i mal-viventi facessero del male ai ragazzi, se ripenso aquando hanno fatto irruzione nell’edificio spa-rando per rubarci tutto, come è possibile nonprovare terrore? Ricordo di essermi rifugiata sot-to un tavolo e di aver chiamato quella sera ilnunzio apostolico per dirgli: forse non arrivo adomattina, mi dia la sua benedizione. Sono an-cora qui. Perché la vita è una serie di circostanzeche ti spingono a dire «sì», perché queste circo-stanze non dipendono da te. Io mi consegno, sequesto serve a un bene più grande». Fino ai

dove nell’estate 2019 ha portato una ventina trabambini e ragazzi dell’orfanotrofio di Port-au-Prince con l’obiettivo di dare loro una istruzio-ne per poi fare in modo che ripartano per l’iso-la e facciano nascere una classe dirigente diversada quella corrotta che oggi spadroneggia. «Nonpossiamo usare lo sguardo buonista del bambi-no povero che facciamo adottare da una fami-glia italiana perché in patria troverebbe solo mi-seria. Ha senso invece farli tornare ad Haiti per-ché Haiti diventi un luogo migliore» è il suo ra-gionamento, illuminante, frutto di una lungaesperienza con i giovani nei luoghi più difficili.

mi ritrovo a operare in unaisola dove la catastrofe e lasopraffazione sono quoti-diane. Haiti è uno dei paesipiù poveri del mondo, duemilioni di persone non go-dono di una casa, nella lot-ta vince quasi sempre il piùforte. Quelle 48 ore, dueanni fa, senza viveri in balìadei criminali le abbiamopassate cantando e dise-gnando con i bambini. Lapaura esiste, eccome, non èmai tolta; lo stesso Gesù haavuto paura ma è andato

scuola, un orfanotrofio epoi l’ambulatorio, un cen-tro colera, una mensa cheogni giorno dà da mangiarea 300 bambini. Ha aiutatoartigiani e tirato su oltre100 case di mattoni metten-doci cuore e fatica. È il Vi-laj Italyen, ci sono le suefoto, determinata e solida,nel cantiere.

Suor Marcella, 57 anni,oggi parla dalla casa colo-nica di Cannara, nella valledi Assisi, dove ha sede lasua fondazione Via Lattea e

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La ragazzacoraggio

Rebecca Kabugho è stata la più giovane prigioniera politica al mondo

di DO N AT E L L A RO S TA G N O *

«Nella lottacivile enon vio-

lenta ti possono arre-stare, condannare, sipuò anche morire, maquesti non sono motiviper abbandonare; anzi,lottiamo proprio per

una giustizia che funzioni e perché non ci sianopiù condanne ingiuste, lo facciamo per le gene-razioni future» dice Rebecca Kabugho, inun’intervista che la riprende nel film Congo lu-

cha di Marlène Rabaud.

Oggi Rebecca è una donna forte, sorridente edeterminata, come la giovane che ho incontratoper la prima volta nel 2016 a Goma, una donnache continua a mostrare una fierezza e un entu-siasmo contagiosi per aver combattuto per dellecause giuste e nobili.

Rebecca e io ci siamo incontrate per la primavolta nel 2016, nel giardino della Caritas di Go-ma, nella regione del Nord-Kivu nella Repub-blica Democratica del Congo. A quell’epoca era

stata da poco scarcerata, dopo aver scontatouna pena di sei mesi (la condanna era a due an-ni, ridotti poi a sei mesi) per aver organizzatodelle manifestazioni non violente contro l’allorapresidente Joseph Kabila, e aveva subito ripresoil suo posto nei ranghi del movimento civile enon violento Lucha (Lutte pour le Changement –Lotta per il cambiamento). A 21 anni conquell’arresto divenne la prigioniera politica piùgiovane al mondo.

In un Congo in cui la popolazione vive dadecenni prigioniera tra uno stato predatore ecorrotto e centinaia di gruppi ribelli che fannodella violenza contro le popolazioni locali lostrumento di controllo delle ricchezze del sotto-suolo, Lucha si presenta come un movimentocivile che vuole partecipare in prima linea al di-battito politico del proprio paese. Un paese peril quale le enormi ricchezze in materie primerappresentano in realtà precarietà e guerra perla sua popolazione.

Nel 2016 Rebecca partecipava instancabil-mente alle azioni rigorosamente non violentedel movimento, andando a bussare alle porteper parlare con la popolazione, distribuendo vo-lantini che sollecitavano il popolo congolese adire «Bye bye a Kabila». Il mandato di Joseph

di persone con le quali condivideva la stessa vi-sione, le stesse indignazioni e la stessa speranzaper il Congo, per l’Africa e per l’umanità intera.Bisognava costruire e rafforzare un movimentoche non avesse tra i suoi obiettivi quello diprendere il potere, ma che costringesse chi il

potere deteneva a esercitarlo per il bene comu-ne. Era il 2013 e Rebecca aveva 19 anni. Nel2016 Rebecca era una studentessa in psicologiaall’Université Libre des Grands Lacs a Goma.L’arresto e la condanna a sei mesi l’hanno co-stretta ad abbandonare gli studi che poi ha peròpotuto riprendere e terminare in un percorso aostacoli costituito da minacce, intimidazioni, ac-cuse ingiuste e una decina di arresti. Non soquanto tempo abbia passato in prigione in tota-le, ben più dei sei mesi dell’arresto del 2016, maforse non li conta più neanche lei. Quando nel2017 ho invitato Rebecca a venire a Bruxellesper parlare davanti al Parlamento europeo inuna conferenza pubblica che avevo allora orga-nizzato in quanto direttrice del Network Euro-peo per l’Africa centrale – EurAc – era chiaroche gli arresti non avevano affievolito la suamotivazione e l’impegno, frutto dell’indignazio-ne nei confronti della cattiva gestione pubblicae delle ingiustizie così frequenti in Congo. Ac-canto al tema strettamente politico delle elezionie del potere, Rebecca si occupava e si occupatutt’oggi di molti temi sociali come l’accessoall’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione eall’impiego chiedendo un investimento per mi-gliorare le infrastrutture del paese e migliorare

Studentessa in psicologia e attivistadi Lucha, movimento congolese nonviolento, a 21 anni fu incarcerata

per sei mesi. Oggi ha 26 annie nel 2017 ha ricevuto l’International

Women of Courage Award

Kabila scadeva il 19 dicembre di quell’anno mail presidente non dava segnali di voler organiz-zare le elezioni nel rispetto dei dettami dalla co-stituzione che prevedeva, dopo lo scadere deidue mandati consecutivi, la necessità di un’al-ternanza democratica alla presidenza del paese.Mi raccontò che si era avvicinata al movimentoper la sua volontà, di appartenere a un gruppo

Rebecca Kabugho in carcere (foto dal suo profilo Facebook)

DIRITTI UMANI R. D. CONGO

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Le sei suore martiridel virus Ebola«C arissima madre genera-

le, comprendiamo latua trepidazione, masiamo totalmente nellemani di Dio. Nessuna

evacuazione può essere fatta (…) La situazioneè abbastanza drammatica soprattutto all’interno.Ma è necessario conservare la calma. A Kinsha-sa non ci sono focolai e tutte le strade versol’interno sono bloccate (…) Suor Daniela e suorDina non stanno troppo bene».

In un fax fortunosamente inviato in Italianell’aprile 1995, suor Floralba «edulcorava i to-ni», provando a rassicurare la madre generale ri-guardo alla salute delle sue consorelle, missiona-rie delle Suore Poverelle di Bergamo. Da circavent’anni nella diocesi Kikwit, zona di guerra edi carestia, seicento chilometri a sudest di Kin-shasa, le sei suore si trovavano a fronteggiare, inquel momento, l’esplosione dell’epidemia del vi-rus Ebola, silente in Africa dal 1976. Consape-voli del pericolo cui andavano incontro, nono-stante la fuga di massa del personale sanitario,Floralba Rondi, Clarangela Ghilardi, Danielan-gela Sorti, Dinarosa Belleri, Annelvira Ossoli,Vitarosa Zorza, pur potendo riparare in Italia,rimasero nella Repubblica Democratica delCongo, accanto ai poveri ai quali avevano deci-so di dedicare la loro vita. E con i poveri, dapovere, morirono, fra il 25 aprile e il 28 maggio1995, una dopo l’altra, contagiate dal quel «vi-rus rosso» che uccideva in modo fulmineo, perdissanguamento.

Il virus prendeva il nome dal fiume congoleseEbola, dove era stato rinvenuto il primo uomocontagiato probabilmente perché entrato in con-tatto con sangue, secrezioni, organi di animaliselvatici infetti, trovati malati o morti nella fore-sta pluviale. Un virus che uccideva in modospietato in pochi giorni, dopo febbre, diarrea,attacchi di vomito, infezioni alle vie respiratorie

e al fegato, emorragie interne ed esterne: unamalattia di cui, a tutt’oggi, non esiste una tera-pia specifica.

Fu suor Floralba, assistente in sala operato-ria, la prima a cadere, insieme a tutto lo staffmedico che aveva partecipato all’intervento suun paziente “anomalo”, come ricorda la congo-lese suor Nathalie, che all’epoca aiutava nellostesso ospedale della Poverella: «Veniva da unaltro ospedale. Aveva la pancia gonfia. Ricordoche, quando lo vidi, qualcosa dentro di me midisse di non toccarlo, di non avvicinarmi». Do-po il cosiddetto “paziente zero”, il virus attaccòil figlio di questi, poi il fratello e, a catena, altricomponenti della famiglia, fino a che, nel girodi pochi giorni, l’ospedale di Kikwit si riempìdi persone con gli stessi “strani” e devastantisintomi. Le suore non arretrarono: anzi, il loroamore per la popolazione locale si corroborònell’e m e rg e n z a .

Sapevano di rischiare la vita, non erano inge-nue, ma in nome di un amore che le richiamavaalla condivisione totale, avevano scelto di rima-nere in sala operatoria, nei reparti dell’osp edale,al capezzale dei malati, dunque ai piedi dellaCroce: «avvolte tra i poveri» come il fondatoredell’ordine delle Poverelle, il beato Luigi Maria

le condizioni di vita delle comunità che versanoin condizioni molto precarie.

L’impegno senza sosta di Rebecca le ha per-messo di farsi conoscere anche al di fuori delCongo. Nel marzo del 2017 le è stato conferitoil premio internazionale Women of Courage gra-zie al quale ogni anno vengono premiate donnedi tutto il mondo che hanno dimostrato corag-gio, forza e leadership. Quando ho chiesto aRebecca quali siano stati i vantaggi di aver vin-to un tale premio si è soffermata sulla ricchezzadi aver potuto allargare i propri orizzonti e in-contrare altre donne che lottano tutti i giorniper cause altrettanto nobili. Senza sottovalutarel’importanza del fatto che grazie alla visibilitàottenuta, Lucha ha potuto far conoscere la pro-pria lotta al di là delle frontiere del Congo «fa-cendo arrivare al mondo intero la voce di chivoce non ne ha».

Oggi Rebecca ha iniziato a collaborare conun artista congolese che vive a Parigi, YvesMwabma: sognano di completare e portare ingiro uno spettacolo teatrale che parla della lottanon violenta in Congo. La lotta continua in for-me diverse, ma l’obiettivo è sempre lo stesso:quello di «fare della Repubblica Democraticadel Congo un paese nuovo nel quale la giustiziasociale e la dignità umana possano regnare, incui i figli e le figlie del paese possano essere fie-re di farne parte, un Congo che promuova la di-gnità delle sue comunità e che faccia emergere ilpaese al cuore dello sviluppo dell’Africa e delmondo».

*Analista politica, ex direttrice del Network europeoper l’Africa centrale

Palazzolo, le aveva esortate a vivere. La secondaa morire fu suor Clarangela.

Suor Danielangela aveva contratto il virus, acausa di un taglio per una fialetta spezzata eper aver lavato continuamente le bende inzup-pate del sangue delle consorelle e degli altricontagiati. Suor Dinarosa, dopo trent’anni dimissione spesi al servizio dei bisognosi, morì tregiorni dopo Danielangela. Suor Vitarosa, nelfrattempo, si era precipitata a Kikwit in aiutodelle sorelle malate, portando con sé 42 chili dimedicine, stipate in due valigie, non capendoancora, come tutti, di avere a che a fare con unnemico di ben altre proporzioni. Dopo aver af-fiancato per giorni suor Annelvira, nella curadelle prime quattro consorelle poi decedute, fumessa in isolamento, sebbene non sembrassepresentare i sintomi tipici del virus. Quando ini-ziò ad aggravarsi, fu subito consapevole: nono-stante le fosse stata nascosta la morte di SuorAnnelvira stessa, disse con serenità ai medici:«Ora è il mio turno».

Per volontà del vescovo locale, le suore ripo-sano davanti alla cattedrale di Kikwit: il 25 gen-naio 2014 si è chiuso il processo diocesano dibeatificazione per le sei Poverelle, martiri dellacarità.

di ELENA BUIA RUTT

EPIDEMIE

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Se un Papa ti chiededi “fare chiasso”

Martha Pelloni, la battaglia per la dignità femminile

di LUCIA CAPUZZI

«Una suoratriste èuna tri-

ste suora» ripetevaspesso alle proprieconsorelle Teresa Ce-peda y Ahumada. Me-more dell’avvertimentodella Santa di Ávila eriformatrice del Car-melo, alla cui famiglia

religiosa appartiene, Martha Pelloni sorridesempre. Non è una posa, è il frutto di una quo-tidiana lotta interiore contro la rassegnazione, loscoraggiamento, l’angoscia, il senso di impoten-za paralizzante. Gli unici sentimenti apparente-mente possibili per chi ha scelto di stare accan-to alle schiave del XXI secolo. Donne — in gene-re giovanissime, spesso adolescenti — comprate,vendute, usate e gettate via alla luce del sole,grazie alla connivenza tra potere politico, eco-nomico, forze di sicurezza. Accade ovunque: latratta è un’emergenza globale. Alcuni territori,dove la vita pubblica ruota intorno a poche,grandi dinastie semifeudali, sono, però, mag-

giormente problematici. Come San Fernandodel Valle de Catamarca, capitale dell’omonimaprovincia argentina. Là, a quasi mille chilometridalla «sua» Buenos Aires, è stata catapultatasuor Martha nel 1976, in piena dittatura milita-re: all’epoca trentacinquenne, la religiosa dellacongregazione delle carmelitane missionarie te-resiane si è trovata a lavorare al fianco del ve-scovo Alberto Devoto, storico difensore dei di-ritti umani. Un’esperienza importante. In queltempo, la suora si dedicava con passione all’in-segnamento e alla formazione. Nel 1990, era ret-trice del collegio del Carmen e San Giuseppequando, quasi alla fine dell’anno scolastico, unadelle diplomande, María Soledad Morales, èstata rapita, seviziata e assassinata. Il 10 settem-bre, alcuni operai hanno trovato il suo corposfigurato sul ciglio della strada numero 38, allaperiferia della città: due giorni dopo avrebbecompiuto 18 anni. Fin dall’inizio, la polizia hafatto di tutto per insabbiare il crimine e garanti-re l’impunità ai «figli del potere»: rampollidell’élite locale su cui convergevano gli indizi.«I signori della notte, padroni della città e dellavita delle donne, specie delle più povere. Aman-ti delle feste a luci rosse, a base di alcol, droga eragazze. María Soledad non era la prima. E non

sarebbe stata l’ultima. L’intero collegio aspetta-va una risposta. Per me, è stata come una nuovachiamata del Signore. Ancora una volta, ho det-to sì. Insieme ai familiari, gli amici, i compagnidi scuola abbiamo deciso di squarciare il velo disilenzio, anche a costo di metterci contro i poli-tici, gli agenti, i magistrati». Le marce del silen-zio, muti atti di accusa di migliaia di donne e

te, sequestrate, vittime di tratta, di ogni generedi abuso. Non potevo tirarmi indietro di fronteal loro grido di aiuto. María Soledad è stata ilmio punto di non ritorno», racconta suor Mar-tha nella residenza delle carmelitane di SantosLugares, nella provincia di Buenos Aires, dovevive da oltre un anno, dopo il pensionamento,del tutto formale. A 79 anni, la religiosa prose-gue la sua battaglia per la dignità femminile,nel nome del Vangelo, con Infancia robada, reteformata da 35 forum sparsi per il Paese, in pri-ma linea nella sensibilizzazione e nella denunciadella tratta e nel recupero delle ex schiave. «Latratta ruba alle persone i propri diritti. Per que-sto, è un dovere cristiano combatterla. Il Vange-lo chiede di lottare contro tutto ciò che denigral’essere umano, creato a immagine e somiglianzadi Dio», afferma la suora «femminista», comela chiamano molti, a cui Papa Francesco, dueanni fa, ha chiesto di «continuare a fare chias-so». «Mi ha inviato un messaggio dicendomiproprio così… Lo conosco da quando era arci-vescovo di Buenos Aires ed era molto sensibilenei confronti delle nuove schiavitù. Gli vogliobene». L’allora arcivescovo Bergoglio le è statovicino in alcuni dei tanti momenti difficili degliultimi decenni, segnati da minacce, incompren-

Carmelitana missionaria teresiana,era rettrice di un collegio quando

una sua studentessa fu rapita,seviziata e uccisa.

«Per me squarciare il velo di silenzioè stata una seconda chiamata»

uomini, sotto il sole e la pioggia, hanno costret-to le autorità a intervenire, anche se i più poten-ti sono stati risparmiati. «Non è finita là. La vi-cenda di María Soledad mi ha obbligato aprendere atto di una realtà che fino ad alloranon avevo visto. Dalla pastorale sociale ho co-minciato a ricevere denunce di ragazze violenta-

TR AT TA DI PERSONE ARGENTINA

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sioni, accuse. Martha è una figura scomoda.All’inizio degli anni Duemila, a Goya, nellaprovincia di Corrientes, dove è stata trasferitanel 1992, ha rivelato un redditizio giro di ado-zioni illegali. «Venivano da me molte giovanidomestiche e mi confessavano di essere regolar-mente abusate dai “maschi di famiglia”. Alcune,rimaste incinte, se non volevano perdere l’im-piego, dovevano cedere in adozione il bambino.Fin da subito, ho sospettato che dietro ci fossequalche perverso business. Ci sono voluti seianni di ricerche ma, alla fine, ho avuto la provaquando una di queste ragazze, che avrebbe do-vuto dare il proprio figlio a una coppia tedesca,si è pentita e mi ha detto tutto. Ed è venutofuori che una politica locale e il marito avvoca-to avevano organizzato una vera e propria com-pravendita di piccoli all’e s t e ro » .

Nel 2008, a Lavalle, vicino a Goya, l’ostinatacarmelitana ha puntato il dito contro il capodella polizia. «È stato tutto merito del coraggiodi Estelita. Per un anno questa quindicenne èstata rapita due volte al mese, violentata e co-stretta a prostituirsi per giorni e poi riportata a

casa dagli stessi agenti che l’avevano seviziata.Alla fine non ce l’ha fatta più e ha rivelato i no-mi dei suoi aguzzini. Da quegli stupri ha avutoun bimbo, nato il giorno di Natale e che, perquesto, si chiama Jesús: ha appena finito il liceoe mi chiama nonna».

Anche grazie all’impegno di suor Martha eInfancia robada, l’Argentina ha approvato im-portanti misure contro la tratta, la violenza digenere, gli abusi sui minori. Al contempo, pe-rò, le forme di schiavitù si moltiplicano insiemealle mafie, favorite dalla corruzione. I due uo-mini riconosciuti colpevoli dell’omicidio di Ma-ría Soledad, ad esempio, sono liberi. Martha,però, non perde il sorriso. «L’ho imparato daSanta Teresa, la mia fonte di ispirazione, unadonna dai forti sentimenti, una lottatrice». Lamistica d’Ávila, però, aveva imparato a non far-si turbare dalle sconfitte poiché, per vedere ifrutti, ci vuole tempo. E il tempo è di Dio:all’essere umano è dato solo di seminare.La paciencia todo lo alcanza, diceva. La pazienzaottiene tutto.

Star lì a ricostruireil corpo e la personaFlavia Chevallard, responsabile del progetto Ospedali aperti

di ELISA CALESSI

«Q uandosuccedonocerte cose

nel mondo, non puoinon guardarle, nonprovare a fare qualcosa.Per me essere qui a Da-masco in questo mo-mento è un regalo».Flavia Chevallard hat re n t ’anni ed è nata a

Barcellona. Nonostante la giovane età, è già laseconda emergenza che si trova ad affrontare.Prima di arrivare nella Siria martoriata dallaguerra civile è stata due anni in Libano. Ora èla responsabile del progetto Ospedali aperti,coordinato dalla Fondazione Avsi, ong che haprogrammi di cooperazione e sviluppo in 32paesi del mondo.

L’obiettivo è tenere aperte le porte di treospedali — quello italiano e quello francese aDamasco e il Saint Louis ad Aleppo — dovepuò trovare assistenza chi non ha soldi per farsicurare. E sono tanti: ad Aleppo i pazienti che

non hanno accesso agli ospedali perché non po-trebbero pagarsi le cure sono oltre due milioni,a Damasco oltre un milione. Il 40 per cento diquelli che vivrebbero senza medicine e senzaoperazioni necessarie sono bambini. Perché lebombe che hanno ucciso centinaia di migliaiadi persone hanno distrutto anche strutture epresidi sanitari dove i sopravvissuti possono es-

Martha Pelloni alla manifestazione per reclamare verità e giustizia sul caso di Lieni “Ta t y ” Piñeiro, 18 anni,violentata e uccisa nel 2012 (foto da misionesonline.net)

Nata a Barcellona, 30 anni, è già laseconda emergenza che affronta, dopoil Libano. «La mia vita è normaleÈ un privilegio che mi abbiano dato

l’opportunità di venire qui»

sere soccorsi. Come accade in ogni guerra: sicolpisce chi cura e chi si cura. Oggi il sistemasanitario siriano è pressoché inesistente, ci vor-ranno anni per ricostruirlo.

Il conflitto iniziato nel 2011 ha creato quellache l’Alto commissario delle Nazioni Unite peri rifugiati ha definito «la più grande crisi uma-

SIRIA GUERRA CIVILE

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nitaria della nostra era». Quasi mezzo milionedi morti, circa otto milioni di sfollati interni.L’agenzia dell’Onu ha stimato che i siriani coin-volti dall’emergenza umanitaria siano 13,5 milio-ni, 6 milioni dei quali bambini. La maggioranza(quasi 9 milioni di persone) non riesce ad avereun pasto decente in una giornata.

La voce di Flavia è cristallina, squillante, no-nostante arrivi da un posto che, immaginatodall’Italia, è quanto di meno solare. «Io mi oc-cupo — ci racconta — del monitoraggio del pro-getto e di coordinare le attività, le attrezzature,il sistema informatico negli ospedali». Il proget-to è nato nel 2016 per iniziativa del cardinaleMario Zenari, nunzio apostolico in Siria dal2008, con l’appoggio dell’allora Pontificio Con-siglio Cor Unum e della Fondazione Gemelli.Oggi ha il patrocinio del Dicastero per il servi-zio dello sviluppo umano integrale e numerosibenefattori, tra cui Cei, Conferenza episcopaleUsa, Roaco, l’organizzazione episcopale tedescaMisereor, Caritas spagnola e molti altri . Dal2017 il progetto è operativo ed è coordinatodall’Asvi: fin qui sono state curate 30 mila per-sone, entro la fine di quest’anno dovrebbero ar-rivare a 50 mila.

Gli ospedali sono gestiti da tre congregazio-ni: le suore di Saint Joseph de l’Apparition adAleppo, le Figlie di Maria Ausiliatrice e le Fi-glie della carità di Saint Vincent de Paul a Da-masco. Donne in prima fila contro le emergen-ze. Flavia Chevallard racconta una sanità pub-blica da dopoguerra. «Gli ospedali statali ci so-no — spiega — ma più della metà sono stati col-piti o distrutti. E poi mancano attrezzature, ma-teriale, dottori, infermieri, personale amministra-tivo che sono scappati durante il conflitto. Piùdella metà della popolazione della Siria è anda-ta via o è sfollata all’interno del paese. Le con-seguenze della guerra durano a lungo». Sonoferite del corpo e anche della dignità, che lei ve-de ogni giorno: chi ha perso tutto e non ha mo-do di comprarsi nemmeno il cibo, come puòpensare a un esame di diagnostica?

Ospedali aperti ha evitato che migliaia di vit-time si aggiungessero a quelle già causate dalconflitto. A fine 2019, ci racconta Flavia, eranopiù di 30.500 i trattamenti gratuiti assicurati.«All'inizio venivano soprattutto feriti di guerra.Ora per la maggior parte sono persone che acausa della guerra e della grande crisi che c’ènon hanno altro modo di ricevere cure. Molti

sono senza lavoro e non hanno i soldi per com-prare le medicine. Per cui non si curano». E co-sa fa Asvi? «In ogni ospedale c’è un ufficio so-ciale, dove le persone vengono accolte. Cerchia-mo di capire la situazione e se non hanno altriaiuti, ci occupiamo noi di loro». I trattamentiofferti sono di ogni tipo: esami specialistici, me-dicina di base, operazioni salva-vita, interventichirurgici. Fondamentale, dice questa ragazzacoraggiosa e determinata, è soprattutto il lavorodi diagnosi. «Non avendo accesso a servizi me-dici, molti non fanno i controlli. Stanno arri-vando, per esempio, tante persone malate dicancro in stato avanzato». E arrivano anche mi-norenni, per quanto in percentuale ridotta: «So-no circa il 10 per cento dei nostri pazienti». Po-chi perché «dopo la guerra sono rimasti in granparte anziani, spesso soli».

In un paese ancora non in pace, perché alconfine con la Turchia c’è tuttora la guerra, nonsono tranquille nemmeno le aree tornate sotto ilcontrollo del governo. A Damasco si sta megliorispetto a due anni fa, non ci sono combatti-menti, spiega Flavia, «ma la crisi economica èenorme, aggravata dall’embargo internaziona-le». In più c’è il Libano, che è in pieno tracollo

finanziario. Una situazione, questa, che «influi-sce anche sulla Siria, per tante cose dipendenteda Beirut». Tra i tanti effetti, è aumentata l’in-flazione, sono cresciuti i prezzi. Poi, come dap-pertutto, è arrivato il coronavirus, un fiammiferoin una polveriera. Perché la Siria non è in gradodi affrontare la normalità, figurarsi una emer-genza sanitaria. Mancano medici, dispositivi sa-nitari, materiale necessario per le cure. L’embar-go e le sanzioni, poi, aggravano quel drammache tutto il mondo vive.

Le chiedo se non le manca una vita normale,in un paese più tranquillo. «La mia vita è nor-male. Per me è un privilegio che mi abbiano da-to l’opportunità di venire qui e fare qualcosa inun momento così critico. Da un lato la vita inSiria è molto più facile, che non in un paese co-siddetto ricco. Certo ci sono rinunce, ma perme conta di più essere qui». Come immagina ilsuo futuro? «Non penso a lungo termine. Delresto anche in Italia, come in tutto il mondo, lapandemia ha insegnato che fare grandi progettinon ha senso, tanto poi la vita li cambia. Pianopiano si vede. È la vita che ti fa vedere dove an-d a re » .

A sinistra Flavia Chevallard. Sopra e nella paginaaccanto, ospedali aperti a Damasco(foto @AldoGianfrate da sito Asvi)

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L’ultimo nemicoè la carestia

Stella Pedrazzini, di fronte a una apocalisse umanitaria

di FEDERICA RE DAV I D

Dallo schermo delcomputer Stellasorride. «Sono

contenta di parlare conqualcuno. Sono qui so-la da giorni». E non èper il covid-19, anzi:«Quando sono entratein vigore le restrizioniin Italia, parlando con

la mia famiglia, con i miei amici, ho pensatoche stessero capendo qual è la mia vita di tutti igiorni: per gli umanitari che lavorano in zone diconflitto, non uscire di casa, vivere il momentodella spesa come il picco della settimana, conl’eccitazione di poter vedere gente, è una cosanormale. Ora sono in ufficio, ma vede la scalaqui dietro a me? Porta alla mia casa».

Non c’è traccia di rivendicazione o lamentela,nella voce di Stella Pedrazzini, 35 anni, coordi-natrice di programmi per Intersos nello Yemendel Nord. «La felicità di svegliarsi al mattino esapere che stai facendo qualcosa di grande, tipermette di sopportare un forte compromesso:non veder crescere una nipotina, se non attra-

verso il video; vedere gli anni che passano per ituoi genitori e non avere ricordi, se non quellidi una telefonata via Skype o WhatsApp.Quando, a 25 anni, ho detto ai miei “vado inPa l e s t i n a ”, è stata una tragedia. Come ogni co-municazione di un nuovo lavoro in un nuovoluogo. Io cerco di mitigare questa cosa tutti igiorni e un po’ funziona, perché mi vedono se-rena: perdi tante cose dalla vita normale, ma c’èquesta vita anormale che dà talmente tanto».

È iniziata nel 2010, questa vita anormale;quando Stella, da Melzo, hinterland milanese, èpartita per il Medio oriente: quattro anni in Pa-lestina, poi Giordania, Iraq, Libano. «Da marzo2018 sono in Yemen. Prima ad Aden, nel Sud,dove mi occupavo di un progetto di protezionerivolto agli sfollati yemeniti. Da febbraio, a Sa-na’a, la capitale dell’area che dal 2015 è control-lata dal governo de facto delle milizie huthi».Da cinque anni lo Yemen è devastato da unaguerra che lo ha spaccato in due: «Al Sud c’è ilgoverno sunnita di Hadi internazionalmente ri-conosciuto, appoggiato dalla coalizione guidatadall’Arabia Saudita; al Nord le milizie huthi,sciite. Poi ci sono altre fazioni in altre aree, concui noi operatori umanitari dobbiamo dialogare.

Ciascuno ha le sue regole e impone le sue re-strizioni, è molto complicato».

Intersos Yemen è una missione gestita soloda donne. «Dal capo missione Evelyn, a tutte lecoordinatrici: Chiara ed io, programmi Sud eNord, Luma, risorse umane, Loubna, protezio-ne. Siamo donne forti, che hanno scelto una vi-ta diversa, in prima linea; che la soddisfazionela trovano utilizzando le proprie capacità dovenecessario, mettendosi al servizio di chi più neha bisogno». E qui 24 milioni di persone, l’80per cento degli abitanti, hanno bisogno di assi-stenza umanitaria. La malnutrizione uccide piùdelle bombe, dicono gli analisti di Intersos:quasi 16 milioni di persone, oltre il 53 per centodella popolazione, sono in una condizione di«insicurezza alimentare severa» e si prevede chenel 2020 il numero di bambini sotto i cinqueanni con «malnutrizione severa media» avrà su-perato il milione e 900 mila, mentre oltre 325mila saranno i piccoli con malnutrizione severa

donne, uomini, anziani. L’accesso al cibo era li-mitato già prima della guerra».

I progetti che Stella coordina, riguardano as-sistenza medica e nutrizionale, tutela di rifugiatie migranti, accesso a educazione e corsi profes-sionalizzanti, assistenza psicologica e protezioneper le categorie più vulnerabili, interventi Wash,un acronimo che sta per acqua, sanità e igiene.«Sulla malnutrizione svolgiamo un’attività dibase attraverso squadre mobili o attraverso il so-stegno ai diversi tipi di strutture sanitarie sulterritorio. Il pacchetto va dallo screening mater-no e dei bambini per l’identificazione dei casiacuti severi e acuti medi, fino a una rete dicoordinamento con altre organizzazioni o istitu-zioni governative, che propongono servizi ditrattamento attraverso i Centri di nutrizione te-rapeutica e, quando serve, l’osp edalizzazione».

Ma poi si torna nella quotidianità ed è moltodifficile uscire dal cerchio della fame. «Una par-te importante del nostro intervento è restituiredignità alle persone, dare loro la capacità diprovvedere alla propria famiglia e a se stessi.Tentiamo di dare risposte integrate attraverso latutela delle vittime di abusi, l’accesso alle cure

Milanese, 35 anni, operatriceIntersos, prima in Palestina,

poi Giordania, Iraq e Libano.«Ma quando potevo rientrare

per il coronavirus, mia madre miha detto: stai lì che è più sicuro»

acuta. «La fame in Yemen è un problema stori-co, ci sono molte aree remote dove si soddisfa-no i bisogni di base e niente di più, e a volteneanche quelli in modo appropriato», spiegaStella Pedrazzini. «La situazione è devastante,tragica, non riguarda solo i bambini, ma anche

FAME YEMEN DEL NORD

Stella Pedrazzini

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mediche, l’organizzazione di corsi di formazioneper svolgere attività che generino entrate, l’edu-cazione e la consapevolezza alimentare. Pro-muoviamo buone pratiche di alimentazione e diallattamento, perché le donne non hanno chiglielo insegni o le segua durante la gravidanza;spesso generano bambini malnutriti, non hannoil latte per sfamarli o non sanno come gestirlo».In ogni caso «in famiglie con 10/15 figli è diffi-cile provvedere a una corretta alimentazione: sitenta soprattutto di mantenere in forze l’uomo,che deve andare a lavorare». Ma non è dettoche questo significhi portare i soldi a casa: «C’èla piaga sociale del qat, pianta allucinogena cheha sostituito le piantagioni di caffè per le qualilo Yemen era famoso. Il lavoratore giornalieroriesce a guadagnare una decina di dollari (conedilizia, trasporto di materiali, pulizie, lavaggiomacchine…) che non sempre arrivano ad essere

spesi per le necessità della famiglia: piuttosto,vengono investiti in una porzione di qat. È unmercato legale, un rituale sociale; tutti gli accor-di, gli affari fra uomini, perfino gli incontri neiministeri si fanno masticando qat».

Corsi, lavoro, socialità, tutto è stato stravoltodal coronavirus e dalle misure di distanziamen-to. Considerando che la malnutrizione mina ilsistema immunitario e moltiplica esponenzial-mente, soprattutto nei bambini, la possibilitàcontrarre infezioni mortali e che la guerra ha di-strutto il 49 per cento delle strutture sanitarie,da infezioni e pandemie ci si possono aspettaresolo esiti catastrofici. E non si tratta solo del co-ronavirus: «Colera, dengue, malaria, difterite so-no presenti nel paese, tornano a ondate stagio-nali. Quest’anno è riapparsa anche la H1N1» lacosiddetta peste suina. Il tutto sotto le bombe,con tregue ripetutamente dichiarate e poi viola-

te. Eppure, racconta Stella, «quando c’è stata lapossibilità di prendere l’ultimo volo che uscivadallo Yemen, prima della chiusura per il virus,mia mamma, dalla Lombardia al picco del con-tagio, mi ha detto: “ma no, stai lì che è più si-c u ro ”». Il che rende le cose ancora più dure:«Alla lontananza dalla famiglia non ci si abituamai e se non hai un limite temporale, un obiet-tivo, è più complicato».

Nel frattempo, lei non rinuncia a progettarneuna sua, di famiglia, purché non la distolga dal-la missione della vita. «Ho visto tante famiglienascere ma rimanere nel settore. Un uomo euna donna che hanno esigenze e passioni in co-mune, che si trovano, si sposano, fanno figli evanno ad operare in aree classificate Family Du-ty Stations: Libano, Giordania, molte partidell’Africa, paesi in cui non si fa assistenza, masviluppo e quindi è normale avere una famiglia.

Certo non lo Yemen, qui non ci vieni con i bim-bi».

Spostarsi non sarebbe un problema, e fino adoggi si ritiene fortunata. «Vedo il Medio orientecome una seconda casa, mi sono sempre sentitaaccolta, ho trovato persone meravigliose in unacultura meravigliosa. Adesso questa vita misembra il massimo della mia aspirazione; ma ungiorno, trovare la persona giusta e avere una fa-miglia è un’idea che mi appartiene… Vengo daun paesello, mia mamma mi dice sempre: non sipuò essere felici da soli, come fai a essere felice?Io però le rispondo che non per forza si è feliciin due. Quando sei così tanto a contatto con lamiseria e la sofferenza, ogni giorno è una bene-dizione. Le cose troppo a lungo termine mi spa-ventano. La mia vita è fatta di contratto in con-tratto, di anno in anno. La cosa che conta è es-sere in pace con se stessi».

Operatori di Intersos nello Yemen. Nella pagina accanto,immagini della inondazione dell’aprile scorso

(foto da Facebook e sito di Intersos)

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ottobre scorso, in occasione della Giornata in-ternazionale delle bambine, sono ben 12 milioninel mondo le ragazze che si sposano ogni annoprima di aver compiuto 18 anni, molto spesso inmatrimoni concordati dalle famiglie, e circa 2milioni quelle con meno di 15 anni che riman-gono incinte.

Tra i piccoli profughivittime della guerra

Miriam Ambrosini, dalla parte dei bambini che vivono sotto le tende

di ELISA CALESSI

Miriam Ambro-sini lavora inuna polverie-

ra. Ha un ufficio a Er-bil nel Kurdistan ira-cheno dove vive dal2015 ed è la responsabi-le in Iraq di Terre desHommes, organizzazio-

ne impegnata nella difesa dei diritti dell’infan-zia. Proteggono i bambini, dagli abusi, dallaviolenza, gli operatori di Terre; cercano di ga-rantirne il diritto all’istruzione, alla salute; di as-sicurare a ognuno il miglior intervento possibi-le. Il nome lo hanno preso dal titolo del libroTerra degli uomini di Antoine de Saint-Exupéry,l’autore de Il piccolo principe.

In Iraq i bambini sono emergenza. Più di unmilione vive nei campi, sotto le tende dopo chel’Isis ha distrutto le loro case. Sono le prime vit-time di una matassa di guai che sono strascicodella guerra, dalla crisi sanitaria a quella econo-mica e politica, e di un dopoguerra in cui anco-ra si muore: secondo il ministero della Difesa diBaghdad nei primi quattro mesi di quest’anno

più di 80 civili sono stati uccisi e più di 120 fe-riti. Doppiamente vittime sono le femmine,spesso costrette a unirsi in matrimonio, nono-stante la legge lo vieterebbe.

«È stato un caso — racconta di sé questa ra-gazza originaria di Milano, che ha avuto le sueprime esperienze di cooperazione con la Caritasambrosiana — Stavo lavorando nella sede diun’altra ong italiana, ho mandato il curriculume sono arrivata qui. Dopo la maturità avevo fat-to una esperienza all’estero e da lì ho deciso diriprovare. Ho studiato cooperazione internazio-nale». Nonostante Erbil sia oggi considerata zo-na più tranquilla, rispetto ad altre, è segnata dauna povertà estrema che incrudelisce una vita diper sé inevitabilmente difficile. Ufficialmente laguerra contro l’Isis è finita, ma più di un milio-ne di persone sono senza casa, mentre oltre 4milioni sono rientrati nelle proprie aree di origi-ne. «Ma mancano molti servizi essenziali, nonc’è lavoro, chi aveva un’attività agricola o unnegozio ha perso tutto». E il quadro politico re-sta fragilissimo.

Terre des Hommes ha l’ufficio principale a Er-bil e due più piccoli a Baghdad e Mosul. «Sia-mo 5 stranieri e circa 250 locali. I nostri progettisono rivolti soprattutto ai bambini vittime della

guerra e che quindi sono dovuti scappare dalleloro case e si trovano nei campi o in alloggiprovvisori in altre città. Offriamo servizi sociali,supporto educativo o psicologico. Lavoriamoanche con i bambini che stanno rientrando nelleloro città di origine dopo la fine del conflitto».Spesso manca la scuola, oltre a tutto il resto. Avolte non hanno nemmeno i documenti. Miriame gli altri cercano di rispondere a tutti questiproblemi. «L’anno scorso abbiamo seguito 15mila bambini».

Il primo problema, ci racconta Miriam, è lapovertà. Ci sono bambini che non hanno vestiti,non hanno modo di curarsi se si ammalano,non vanno a scuola perché la famiglia spessonon ha i soldi per pagare mezzi di trasporto, li-bri, quaderni. Il secondo problema è quello chenon si vede, ma si sente: «Lo stress psicologicodovuto alla guerra, a quello che hanno visto». Ibambini non ne parlano facilmente, ma le feriteci sono. Entrano nel loro sguardo, condizionanole loro scelte. Il terzo problema riguarda lebambine. «È diffusissimo — racconta Miriam —il matrimonio minorile. Le femmine hanno untasso di analfabetizzazione molto più alto deimaschi. Appena crescono viene loro vietato diuscire, di andare a scuola, di frequentare altri

coetanei al di fuori dalla famiglia». E a molte diloro, ancora minorenni, viene imposto il matri-monio. «La legge lo vieta, ma a livello religiosoil rito è legittimo. Anche sotto i 15 anni. Uffi-cialmente è illegale, ma di fatto non è persegui-to. Noi cerchiamo di arrivare prima che il matri-monio venga celebrato, cercando di convincere igenitori a non farlo. Spieghiamo le conseguenzelegali, ma anche fisiche e psicologiche». Se in-vece il matrimonio è già avvenuto, provano atamponarne gli effetti. «Lo psicologo e l’assi-stente sociale seguono la ragazzina per capire sevive una condizione accettabile o se è vittima diviolenza da parte del marito». Perché spesso siaggiunge anche questo. «Si cerca di prevenireche resti incinta molto giovane, si fanno attivitàeducative con le bambine nei campi per inse-gnare loro a leggere e scrivere o a imparare unlavoro per renderle un minimo indipendenti». Ilfenomeno delle spose-bambine, del resto, è dif-fuso ben oltre l’Iraq. Secondo un report fattoproprio da Terre des Hommes e presentato l’11

La cooperante milanese di Terre desHommes, 32 anni, lavora a Erbil

nel Kurdistan iracheno. «Le femminesono doppiamente vittime, costrette

ai matrimoni forzati»

Miriam Ambrosini (dal suo profilo Facebook)

INFANZIA IRAQ

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Teatro socialeper le emergenze

Maddalena Grechi in Angola e Paola Galassi in Etiopia

di GIULIA INNO CENTI MALINI *

Che cosa c’entra il teatro con l’emergenza e quali vantaggi può portareuna pratica che pare solo di intrattenimento a coloro che stanno vi-vendo drammatiche condizioni di crisi? Il teatro sociale, la declina-zione italiana del più diffuso applied theatre, da tempo interviene conbuoni risultati in questi contesti come ci illustrano le esperienze diMaddalena Grechi e Paola Galassi. In tempi e in situazioni emergen-ziali diverse, queste due operatrici hanno impiegato le pratiche dellateatralità per prendersi cura di persone, di gruppi e di piccole comu-nità.

Maddalena Grechi arriva a Lubango in Angola nel giugno del2000. Prima di partire, ha studiato la situazione del paese e le suetradizioni culturali e artistiche. Ha imparato il portoghese, per capiree parlare con gli angolani. Ha scoperto le vicende della guerra civileche da lunghi anni provocava la morte di milioni di persone, lascian-do migliaia di bambini senza famiglia. I bambini di strada, il motivodella sua missione in Angola con il progetto «First and foremost theRight to Have a Future - Programma pilota per la protezione deibambini vittime di guerra in Etiopia e in Angola» realizzato dallaong italiana Alisei e in cui le attività artistiche sono solo una piccolaparte importante. Maddalena mette in valigia i vestiti scelti con cura(resterà in Angola per quasi 2 anni) i manuali di giochi e di eserciziteatrali, i quaderni, su cui annoterà il più possibile di un processoche si costituirà giorno per giorno. E infine alcuni piccoli strumentiper il laboratorio di teatro sociale. Ogni oggetto in questa valigia èparte di un argine che lei sta costruendo per contenere la paura di

CU LT U R E

non farcela a gestire i problemi, le sofferenze e le morti che incontre-rà.

Lo sa, perché non è la sua prima esperienza. È già stata in Burki-na Faso e in Costa d’Avorio come operatrice di teatro sociale. E ognivolta, prima di partire ha sentito quello stesso senso di inadeguatezzadi fronte a situazioni tanto più grandi di lei. Una consapevolezza deisuoi limiti che diventa la molla per cercare in quali direzioni andareinsieme agli altri. A Lubango i primi mesi sta molto per strada, in-contrando ragazzi e bambini nei luoghi dove si aggregano, dove la-vorano e nei parcheggi dove dormono sotto i camion, al caldo deimotori appena spenti. Le è subito chiaro che non si può tornare allanormalità. Non è ancora possibile. Così abbandona l’idea che le atti-vità teatrali possano essere il modo per ricordare e rielaborare untrauma attraverso la sua rappresentazione. Decide, invece, di sostene-re i punti di forza dei ragazzi, la loro resilienza. Osservandoli si ac-corge delle condotte adattive che hanno sviluppato nella vita di stra-da e parte da lì perché le pratiche ludiche e teatrali siano un momen-to in cui scoprire abilità, desideri e passioni. Un cambiamento im-portante avviene con l’apertura del Centro di aggregazione giovaniledove le attività espressive possono avere una routine quotidiana e di-ventare un punto di riferimento. Osserva che molti ragazzi tra lorogiocano ad una sorta di c a p o e i ra , una danza-lotta di resistenza alladominazione che fu inventata dagli schiavi angolani in Brasile. Deci-de con l’equipe di dare spazio e risorse a questa attività, potenzian-done le parti musicali, il canto, le coreografie e la roda de la vida,quel cerchio ritmico di gruppo entro il quale avvengono le sfide dan-zate. Dopo un anno dalla sua apertura, il Centro accoglie giornal-mente circa 300 tra bambini, bambine, ragazzi e ragazze. Un centi-

Le due operatricihanno impiegatole pratiche dellateatralità perprendersi curadi persone, gruppie piccole comunità.Processi peri m m a g i n a reinsieme agli altricome cambiareanchele condizionipiù avverse

Maddalena Grechi e a destra Paola Galassi(foto dai loro profili Facebook)

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naio partecipano con continuità alle attività di teatro sociale. Glispettacoli realizzati dai ragazzi del Centro e proposti nel quartiere,suscitano approvazione e riconoscimento da parte della comunità lo-cale, dimostrando che un diverso destino è possibile. Dopo questiprimi 18 mesi, il progetto non viene però rinnovato: la guerra civile siè conclusa e ne è iniziata una in Afghanistan, per cui i d o n o rs decido-no di spostare gli investimenti. Una ferita aperta, la definisce ancoraoggi Maddalena, uno strappo che le ha fatto ridiscutere le grammati-che degli interventi internazionali nei contesti di emergenza e che laconduce, di lì a qualche anno, a rivolgere il suo lavoro ai contesti disvilupp o.

Secondo Paola Galassi, operatrice di teatro sociale che dal 2016 adoggi ha lavorato in Etiopia in diversi progetti di cooperazione inter-nazionale condotti dal Social Community Theatre Center di Torino,la conclusione di un progetto è un momento cruciale in cui si tiranole somme di tutto quello che si è fatto. Lavorare bene vuol dire farein modo che quello che lasci non smetta di funzionare in tua assenzae abbia prodotto azioni concrete di trasformazione. Per questo è ne-cessario che l’intervento di teatro sociale sia radicato, condiviso epartecipato dagli stakeholders locali. E perché questo avvenga, riflettePaola, non basta uno spettacolo. Bisogna dare vita ad un lento pro-cesso di co-creazione artistica e sociale a cui partecipino l’equipe, icittadini, gli artisti locali, i servizi, le istituzioni, le ong attive nel ter-ritorio. Il gruppo del laboratorio di teatro sociale, quel primo cerchiodi cui parla anche Maddalena, è il motore principale che promuovela rete di comunità e stimola il desiderio di nuove competenze soste-nendo così future autonomie operative.

Nel limen creato dalla situazione emergenziale, le pratiche perfor-mative del teatro sociale possono dunque diventare processi di curareciproca per la collettività con i quali coltivare la speranza nel futu-ro e immaginare insieme agli altri come cambiare anche le condizionipiù avverse. È questo che Maddalena Grechi e Paola Galassi hannosperimentato anche su se stesse, maturando competenze, sensibilità evisioni che oggi le sostengono nell’impegno professionale sulle que-stioni della migrazione. Donne pronte a mettere in discussione le re-gole e le strutture, che troppo spesso diamo per scontate, per poterpartecipare alla co-costruzione di un mondo più giusto.

*Docente di Antropologia della rappresentazione e teatro sociale pressol’Università Cattolica del Sacro Cuore

LA STORIA E LE STORIE

Le scelte giustenella stagione dell’o dio

Le religiose che aprirono conventi e monasteri durante l’occupazione nazista

di FRANCESCO GRIGNETTI

Ottanta anni fa, nella stagione delsangue e dell’odio, ci furono daaffrontare eventi estremi. In Ita-lia tra il 1943 e il 1945 la crudeleoccupazione nazista chiamò le

persone di buona volontà a scelte difficilissime,rischiose. C’era da dare aiuto e ricovero a tantagente: disertori, perseguitati, sfollati. E a chi ri-schiava più di tutti: gli ebrei.

Per la Chiesa venne “l’ora della carità”, comeè stata definita.

Uno dei temi storiografici più dibattuti delsecolo, ovvero le scelte di Pio XII, torna a occu-pare studiosi e ricercatori dopo la decisione diPapa Francesco di aprire i fondi degli Archivivaticani relativi al lungo pontificato di EugenioPacelli (1939-1958). Una massa di documenti oraaccessibili alla consultazione che richiederannoun lavoro lungo di esame e analisi, al momentointerrotto a causa del coronavirus perché pochigiorni dopo l’attesa apertura dell’archivio è su-bentrato il lo ckdown. È certo però che molti re-ligiosi e religiose operarono in situazioni diemergenza dinanzi alla richiesta angosciata di

tanti. Soprattutto le suore si trovarono in primalinea e spontaneamente, per moto d’animo.L’ultima protagonista, suor Cecylia Roszak, èmorta un anno fa, a 110 anni, nel convento do-menicano di Cracovia, dove era nota per esserela suora più vecchia al mondo e testimone della

Suor Cecylia Maria Roszak, Cracovia 1947(Archivio delle Suore domenicane di Cracovia)

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Shoah. Suor Cecylia durante l’occupazione te-desca della Lituania aveva fondato con alcuneconsorelle un convento nei pressi di Vilnius cheospitò diversi ebrei fuggiti dal ghetto.

Non deve meravigliare. Più della metà deiGiusti d’Israele, insigniti per avere salvato gliebrei durante la guerra, sono donne. Diverse lesuore, anche se dietro ognuna di quelle menzio-nate per nome c’era una comunità che rischiavainsieme. Maria Agnese Tribbioli, madre superio-ra di un convento di Firenze, agiva nell’ambitodei soccorsi organizzati dal rabbino NathanCassuto e dal cardinale Elia Dalla Costa. SuorMarie-Emilienne e madre Marie-Rose Brugeron,assieme a padre Joseph Caupert, nascosero di-versi bambini ebrei nell’orfanotrofio di Mende,nella Francia meridionale. Madre Maria Giusep-pina Biviglia era la badessa del monastero assi-siate di San Quirico, tappa obbligata delle corsedel campione Gino Bartali, che in biciclettaportava i messaggi del vescovo tra Assisi e Fi-re n z e .

O ttant’anni dopo, possiamo citare le misurateparole di suor Grazia Loparco, salesiana e do-

cente di Storia della Chiesa presso la PontificiaFacoltà di Scienze dell’educazione Auxilium diRoma: «L’emergenza divenne un’opp ortunitàimpensata per sprigionare una capacità di pren-dere posizione e di rischiare, per affermare conle scelte valori civili e religiosi, oltre che umani,forse insospettati. Per una specie di eterogenesidei fini, la guerra divenne un’occasione per av-vicinare mondi culturali ancora piuttosto lonta-ni, di cui gli ebrei identificati hanno raccontatovarie sfumature».

Grazie agli studi di suor Loparco e del Coor-dinamento storici religiosi ne sappiamo davverotanto di più. Specie di quanto accadeva a Ro-ma, dove i numeri furono imponenti per pre-senza di case religiose e per numero di ebrei inpericolo. In una prima ricognizione del 1961 lostorico Renzo De Felice calcolò che circa 4.000ebrei sfuggirono al rastrellamento; e di loro3.500 avrebbero trovato rifugio nella case reli-giose. Dalle stime di suor Loparco, secondo unaricerca ancora aperta, a Roma furono certamen-te più di 220 le case religiose che accolsero cit-tadini di religione ebraica; più di due terzi era-

no istituti femminili e avrebbero ospitato alme-no 2.775 persone. Ci fu chi nascose una solapersona, chi più di 100. Di fatto, non è possibi-le determinare con certezza un numero com-plessivo, per diverse variabili che giocarono neimesi dell’o ccupazione.

In attesa della riapertura degli Archivi vatica-ni, possiamo raccontare lo stesso la storia ditante suore che si gettarono nell’impresa. Le Be-nedettine di Priscilla, ad esempio, accolsero 28ebrei, li nascosero persino nelle catacombequando temettero una perquisizione: una di lo-ro andava tutti i giorni al mercato, anche fuoricittà, e tornava sempre con la spesa, fatta maga-ri alla borsa nera. La loro storia è tra le più no-te perché a rifornire tutti di documenti falsi, ungiorno arrivò dal Vaticano un ventenne di nomeGiulio Andreotti, il futuro uomo politico.

Le suore di San Giuseppe di Chambery na-scosero 57 donne ebree con le figlie nello stu-dentato pur condividendo il muro di cinta conun comando tedesco. «Vicini pericolosi e temuti— ricordarono — tanto più perché alcuni di loropassavano e ripassavano nelle vicinanze. Spesso

venivano anche da noi per chiedere l’uso dellacucina… di una sala con pianoforte per le loroserate di divertimento». Ci pare quasi di averleconosciute, suor Ferdinanda Corsetti e suorEmerenziana Bolledi grazie al memorabile libroUna bambina e basta di Lia Levi, scrittrice egiornalista, famiglia piemontese di religioneebraica, trasferitisi a Roma negli anni dellaguerra. Toccante una testimonianza di suor Fer-dinanda: «Rivedo Franca, che una tarda sera fuconsolata da noi perché in lacrime, consapevoledi una retata di uomini, avvenuta nelle vicinan-ze; piangeva per timore di suo padre nascostoin un casolare vicino. Quasi al buio, accanto alsuo letto, pregammo insieme e, nel dolore, ciunirono le bibliche parole del Salmo: Dal pro-fondo ho invocato te, o Signore…». Lia Levi hascritto pagine commoventi su come le suore diSan Giuseppe organizzarono una camerata disole giovani ebree per permettere loro la pre-ghiera. «Ero piccola — ricorda — e non saprei seci fu un ordine di accoglierci del Vaticano. Ri-cordo bene, però, certi momenti di pericolo.Subito dopo l’irruzione dei fascisti nella basilicadi San Paolo fuori le Mura (accadde il 3 feb-

Il rastrellamento del Ghetto ebraico di Roma (Ansa), la brigidina RiccardaBeauchamp Hambrough e Madre Maria Agnese Tribbioli di FirenzePio XII dopo il bombardamento su Roma (Ansa)

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braio 1944) le suore ci dissero di cambiare no-me, che bisognava stare particolarmente attente,e che questa era l’indicazione del Vaticano».

Nel convento di Nostra Signora di Sion, lesuore Virginia Badetti e Emilia Benedetti accol-sero ben 187 persone in pericolo. Le prime fami-glie erano state inviate da monsignor GiovanniBattista Montini, sostituto della Segreteria diStato, futuro Paolo VI. Le suore di Santa Brigi-da, convento di semi-clausura in piazza Farnese,proprio dinanzi all’ambasciata di Francia, an-ch’esse citate tra i Giusti d’Israele, accolsero 20persone, tra loro l’intera famiglia Piperno, unadelle più conosciute della Comunità ebraica ro-mana. «La nostra famiglia ha avuto la fortunadi trovare molte persone che hanno aiutato, manessuna come la beata Elisabetta e madre Ric-carda che ci hanno salvato la vita e restituito ladignità», ha potuto raccontare l’ormai anzianoPiero. Le brigidine madre Maria Elisabetta Hes-selblad e madre Riccarda Beauchamp Ham-brough nel momento peggiore innalzarono sulconvento la bandiera di Svezia, Paese neutrale.«Madre Elisabetta esortava tutto il gruppo acontinuare le pratiche religiose ed a rispettareDio secondo la nostra fede. Ricordo il granderispetto che ella ha avuto nei nostri riguardi inquesto contesto senza mai volerci influenzareper lasciare la nostra fede né farci pesare che citrovavamo in un ambiente di religione cattoli-ca».

Accaddero cose incredibili. Dopo l’o ccupa-zione di Roma, il 10 settembre 1943, fu requisitoil piano terreno di un palazzo di nuova costru-zione, la comunità delle Francescane della Mise-

ricordia, ordine lussemburghese con suore quasitutte di madrelingua tedesca, per farne un ospe-dale da campo per le SS ferite. Capitò così cheal piano terra c’erano i nazisti, al primo le suo-re, nel sottotetto erano nascosti 40 ebrei. Pernove mesi andò avanti questa folle convivenza.Dal diario di madre Ignazia, la superiora, sap-piamo che ella personalmente bloccò un paio ditentativi dei soldati di esplorare i piani superio-ri. Suor Ignazia si parò sulle scale e il tono bru-sco del suo tedesco, più ancora che la estensio-ne della extraterritorialità del Vaticano, fece ilmiracolo. Solo dopo il 5 giugno 1944, alla Libe-razione di Roma, le SS sgomberarono il palazzoe i rifugiati dell’ultimo piano poterono tirare ilfiato.

Sembra tuttora improbabile un censimentoesatto di quanti istituti, maschili e femminili, inItalia e nel resto d’Europa, aprirono le porte achi fuggiva la furia di nazisti e repubblichini.Innanzitutto per un motivo pratico: non sareb-be stato pensabile che un’attività così rischiosafosse messa per iscritto in modo preciso e siste-matico. Mai probabilmente si troverà documen-tazione esauriente negli archivi per chiarire lecircostanze di ogni decisione, che comunque ap-paiono differenziate e multiformi. Secondo imomenti, almeno una sorta di incoraggiamentoautorevole, e di caldo invito ad aprire i portoni,però, dev’esserci stato se famiglie intere si na-scosero anche nei conventi di clausura. Accaddenel monastero delle suore cistercensi di SantaSusanna con 26 rifugiati, ad esempio. O pressole agostiniane dei Sette Dolori che ne ospitaro-no 103.

Ancor prima della terribile razzia del Ghettoebraico di Roma, il 16 ottobre 1943, il Vaticanocercò di dare uno scudo giuridico ai conventi,estendendo al massimo i vantaggi dell’extraterri-torialità. Se ne occupò monsignor Aloys Hudal,di origine austriaca, rettore del collegio teutoni-co di Santa Maria dell’Anima, scelto forse pro-prio perché di note simpatie per il Terzo Reich:«L’ufficiale di collegamento — ha lasciato scrittoHudal — tra il Quartiere supremo del Fuhrer equello dell’Italia, colonnello barone von Vel-theim, di religione protestante, e a me conosciu-to come nemico del nazismo, ha a me consegna-to più di 550 dichiarazioni, da lui sottoscritte emunite con un timbro che conventi, istituti,pensioni ecc. da me nominati non potevano es-sere ispezionati e visitati dalla polizia militare…Io stesso ho consegnato numerose tali dichiara-zioni e una grande parte ho dato al principeCarlo Pacelli… Oggi posso dire che in nessuncollegio, istituto, pensione ecc. munito di unatale dichiarazione è accaduto qualcosa… mi-gliaia di ebrei nascosti a Roma, Assisi, Loreto,Padova ecc. furono così salvati».

Fu grazie a questa ospitalità, dunque, se sisalvarono dall’Olocausto una metà degli ebreipresenti a Roma, che superarono i dodicimilacontando i romani e chi si era rifugiato nella ca-pitale della cristianità. Lo stesso accadde a Mi-lano, Genova, Firenze, Assisi, in altre città epiccoli centri. Tanti conventi del Piemonte edella Lombardia funzionarono soprattutto da

corridoio per la Svizzera. Nelle Venezie, acco-glievano chi fuggiva dai terribili Balcani.

Divisero anche paura e fame. Ha destatoscandalo che molti dovessero pagare una retta,ma non erano tempi in cui si andava al super-mercato e la borsa nera costava cara. Ed è veroanche che a qualcuno accadde, finiti i soldi, diessere messo alla porta. «Ci furono — commentasuor Loparco, con sguardo largo da storica —tanti casi di grande coraggio e altri, minoritari,di ignavia. L’errore più grande, però, sarebbeassolutizzare una realtà che fu così estrema eframmentata». E ha scritto la storica ebrea An-na Foa: «Il rifugio nelle chiese e nei conventiemerge in continuazione dai racconti dei so-pravvissuti, percorre come un filo rosso le testi-monianze oraliraccolte negli an-ni in Italia — co-me il corpo va-stissimo delle te-stimonianze diebrei italiani resealla Shoah Foun-dation — si ritro-va presente nellamaggior partedelle memorie deicontemporanei. Èraccontato comeun dato di fatto,appartiene alcampo delle evi-denze, con tutte le diversità delle situazioni, daiconventi che chiedono una retta a quelli che ac-colgono gratis gli ebrei, i quali a loro volta dan-no una mano nel lavoro quotidiano. È un’im-magine che è il frutto non del dibattito sul temaChiesa e Shoah, ma anche e soprattutto della ri-cerca volta a illuminare la vita e il percorso de-gli ebrei sotto l’occupazione nazista».

Nella pagina accanto: il ringraziamento della famigliaFunaro alle suore salesiane e la storica suor GraziaLoparco. A sinistra: madre Maria Elisabetta Hesselbladdelle Brigidine di piazza Farnese a Roma. Sotto: lacopertina del libro di Lia Levi «Una bambina e basta»edizioni e/o

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L’indomabile Juliadalla corte al gulag

La vicenda di una donna fuori del comune, la teologa russa Danzas

di MARIE CI O N Z Y N S KA

È una delle storie più avventurosedel secolo scorso. «Julia Danzas havissuto una vita (o piuttosto varievite) pienamente immersa nel suosecolo, nel quale spicca come una

grande figura spirituale e intellettuale. La mol-teplicità delle prove, subite o ricercate da Julia,e dei suoi talenti, combinata a una ricerca meta-fisica costante, le sue idee così poco conformi-ste, arricchiscono considerevolmente la letturaattuale, spesso troppo semplificata, del pensierorusso del XX secolo», scrive parlando di lei l’ac-cademico francese Michel Niqueux, che le dedi-ca un’appassionante biografia, corredata da testiinediti: Julias Danzas, De la cour impériale au

bagne rouge, èditions des Syrtes.

Il suo percorso è degno di un romanzo diDostoevskij. Nata ad Atene nel 1879, figlia diun diplomatico e nipote del testimone del duel-lo in cui rimase ferito a morte il poeta Aleksan-dr Sergeevič Pushkin, fu damigella d’o n o redell’ultima imperatrice di Russia, sottufficiale diun reggimento di cosacchi durante la guerra, bi-bliotecaria e monaca di clausura cattolica nella

Pietrogrado rivoluzionaria; quindi collaboratricedello scrittore Maksim Gor’kij, arrestata nel 1923per la sua attività religiosa, condannata a diecianni di carcere scontati prima nella prigione diIrkutsk e poi nel campo delle isole Solovki, rila-sciata nel 1932 su richiesta di Gor’kij e di suamoglie, riscattata dal governo sovietico da suofratello, che la fece emigrare in Francia; e anco-ra terziaria domenicana e colonna portante dellarivista «Russie et Chrétienté», presso il Centrodomenicano di Studi russi Istina (“la verità”) aLille.

Gli ultimi tre anni della sua vita Julia Danzasli ha infine trascorsi a Roma, come collaboratri-ce del cardinale Eugène Tisserant, presso laCongregazione per le Chiese orientali, dove hascritto una confutazione dell’ateismo bolscevico.Ha collaborato anche a «L’Osservatore Roma-no». La sua opera scritta è lo specchio della suaesistenza: fervida d’idee, grande lavoratrice, halasciato una summa eclettica e imponente.

Ma ciò che più colpisce nella vita di JuliaDanzas è l’estrema modernità del suo percorsospirituale, che ne fa una delle figure che piùhanno ispirato il mondo contemporaneo. Indo-mabile e con una gran passione per lo studio,divora la biblioteca familiare. A 15 anni ha già

letto tutti gli storici, dai classici dell’antichità fi-no a quelli del XIX secolo, tutti i filosofi «e so-prattutto — afferma lei stessa — i filosofi mate-rialisti del XVIII secolo: Voltaire, Rousseau, Hu-me, Montesquieu: li ho letti tutti, fino allaGrande Enciclopedia!». Profondamente segnatada quella che descrive come una «ondata diateismo», lei, la cui pratica consiste nel comuni-carsi a Pasqua «senza attribuirgli altra impor-tanza se non quella di un atto tradizionale, ob-bligatorio per le persone della “buona società”»,considera il cristianesimo come «una supersti-zione tipicamente femminile, a cui si facevaqualche concessione per tradizione e per snobi-smo». Ma a sedici anni, la sua vita viene stra-volta dalle Confessioni di sant’Agostino. «All’ini-

zio ho sfogliato quel libro senza interesse, perconfrontare il suo stile con la bella prosa latinadei classici, poi all’improvviso mi ha appassio-nato, mi ha aperto orizzonti sconosciuti» spie-ga. «Per la prima volta nella mia vita, ho vistoche il cristianesimo era un grande sistema filo-sofico, che affrontava direttamente il problemadel male e le altre questioni che tormentano ilpensiero umano; ho visto che quel sistema filo-sofico aveva soddisfatto grandi pensatori. Hoscoperto un mondo nuovo e ho deciso di stu-diare il cristianesimo dal punto di vista filosofi-co e storico». Divora i Padri della Chiesa, sistupisce dinanzi a san Basilio Magno e a sanGiustino il Filosofo. Ma, anche se ammira laprofondità del pensiero cristiano, il suo cuore

Julia Danzas a Roma, 1940 circa

LIBRI

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resta muto. «Ignoravo Gesù. E per circa quindi-ci anni mi sono dibattuta in un agnosticismodoloroso, cercando sempre una verità che misembrava inafferrabile».

Procede alla cieca. Nella corte imperiale flirtacon il misticismo e l’occultismo dell’alta societàdi San Pietroburgo. Poi si appassiona agli gno-stici dei primi secoli, concependo la gnosi come«una ricerca mistica della Divinità da cui il cri-stianesimo si è allontanato a seguito della suademocratizzazione e del suo assurgere al rangodi religione ufficiale (Editto di Teodosio, 380),ma che il monachesimo ha conservato nel-l’“ideale dell’asceta contemplativo”», precisaMichel Niqueux. In definitiva, vede nella gnosiun antidoto al razionalismo. Prima che, comeconfessa nel suo quaderno introspettivo L’ineffa-

ble, la ricerca della «Divinità», partita dallognosticismo, verso il quale diventerà sempre piùcritica, s’incarni nel Cristo crocifisso e risorto.

«Dolorose contraddizioni hanno accompagnatoJulia nel suo cammino reso tanto accidentatodalla Storia» scrive Michel Niqueux. «È il para-dosso di una giovane nobildonna, destinata aun felice avvenire mondano, che, influenzatadallo stoicismo e dallo gnosticismo, aspira soload appartarsi da un mondo percepito come in-gannevole e illusorio, e che invece si ritroveràimmersa nella fornace della guerra, poi nel geloe nella promiscuità del Gulag, prima di trovarepace, a Roma, in una sorta di eremitismo deditoallo studio, dopo aver compreso che abdicarealla sua volontà e rinunciare al lavoro intellet-tuale per piegarsi alle esigenze della vita mona-cale comunitaria (con delle “pie donne”) era aldi sopra delle sue forze (…) Pur aspirando aldistacco dal mondo, vi s’immerse anima e cor-po. E malgrado le contraddizioni, le contrarietàe le prove, la sua fede in Dio restò incrollabile emissionaria». Per questo, secondo Niqueux,«meriterebbe il titolo di confessore della fede».

Elisabetta, che fa apostolato in ufficioma senza catechismo durante la pausa caffèAppartiene a una Congregazione di religiose che lavorano: sono operaie, impiegate, magazziniere

di LAU R A ED UAT I

Ogni mattina Elisabetta Brescianitimbra il cartellino dell’aziendadove lavora a Padova e nellaquale svolge la mansione di ad-detta al controllo dei lotti dei

farmaci e siede al fianco delle sue colleghe, tuttelaiche, sposate e con famiglia. Lei è una suora:una suora operaia della Santa Casa di Nazarethnata nel primo Novecento con l’esplodere dellefabbriche, che ancora oggi persegue l’imp egnodi portare sollievo e ascolto tra chi lavora. Lasede generalizia è a Brescia, ma le suore operaiesono dappertutto in Italia e all’estero: in Brasi-le, Burundi, Mali, Rwuanda, Gran Bretagna.Lavorano tutte, e sono lavori semplici, dipen-denti, zero privilegi, a contatto con altri lavora-tori.

Nel periodo pandemico la vicinanza fisica èstata soppiantata dal telelavoro, ma la sostanzaè rimasta la medesima: il fatto che Elisabetta siauna suora è una faccenda come un’altra. «Oquasi», puntualizza lei: «Nel senso che la circo-stanza di portare il velo spinge le persone a pre-stare maggiore attenzione alla mia presenza equesta curiosità può portare a chiedere un pare-re, una confidenza, un supporto forse più pro-fondo».

Elisabetta, 36 anni, è nata in una piccola co-munità delle valli bergamasche, Villongo, otto-mila residenti e due parrocchie. In una di que-ste, San Filastro, ha cominciato un percorso difede che per molto tempo sembrava relegata in

un luogo fertile ma circoscritto. La passione deisuoi anni adolescenti, invece, era un’altra: il ka-rate. Allenamenti duri che la portarono a diven-tare campionessa regionale in Lombardia e apartecipare alle gare nazionali a Terni nel 1997.

LA F O R E S TA SILENZIOSA

Julia Danzas prima del 1914(Le foto sono tratte dal libro «Julias Danzas, De la cour impériale au bagne rouge», èditions des Syrtes)

Elisabetta Bresciani (foto da suo profilo Facebook)

«Per me rimane una disciplina di grande fasci-no poiché insegna il contrario di quanto si pen-si: l’autocontrollo e la capacità di agire per evi-tare guai peggiori». A 19 anni, racconta, ha sen-tito che doveva scegliere quale vocazione segui-re. Con sua sorpresa, la più forte era quella che

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ancora oggi sostiene le sue giornate all’internodella congregazione delle Suore Operaie dellaSanta Casa di Nazareth, che prevede propriol’inserimento delle religiose in un contesto lavo-rativo normale: «Non dovrei dirlo ma per anniho temuto che la vita religiosa fosse una serienoiosa di regole da seguire. Non avevo messo inconto la gioia quotidiana. Ho scelto di diventa-re suora operaia per la semplicità della vita conle consorelle, per il fatto che tutto sia organizza-to come nella famiglia originaria di Nazareth,una famiglia straordinaria e normalissima allostesso tempo».

Ha un profilo su Linkedin e il curriculumper trovare un impiego lo ha mandato lei: hasostenuto un colloquio ed è stata assunta noveanni fa da una cooperativa di farmacie. Così ac-cade anche alle sue consorelle in Italia e all’este-ro, dove svolgono il mestiere di operaie, impie-gate in ufficio, magazziniere Amazon. Lavoranodove trovano, sono contrattualizzate, percepi-scono lo stipendio previsto dal contratto di la-voro. La loro semplice presenza in reparto osulle linee di produzione è una sfida per chinon crede, ma per altri è anche una occasioneper avvicinarsi alla fede: «Alcuni colleghi pro-vocano discussioni sulla Chiesa e sull’esistenzadi Dio. Ma la maggioranza poi si avvicina percapire come vivere una fede autentica. Io respi-ro quotidianamente il bisogno di Dio, la mia te-stimonianza è che non occorre andare sulla lunaper sentire la vicinanza del Signore, perché èpossibile ritrovarlo ogni giorno e nelle piccolecose, anche durante la pausa caffè delle 10.30,quando ci ritroviamo davanti alla macchinetta eparliamo del momento che stiamo vivendo, avolte in allegria a volte con tristezza se è acca-duto qualcosa di serio a una di noi. Non mimetto a fare prediche o catechismo, la mia èuna testimonianza evangelica fatta in punta dipiedi».

E questo sarà un uomo

Questo è il nido di sangue perun’anima; qui s’intessono i nervi, quile ossa si architettano e drizzano; èl’arcana foresta dove germina l’inizio.

Questo sarà figura d’uomo, ed ora èoscuro ramo d’oscura radice, alla zollaconnesso come i morti, ma violentasuggendo in sé la vita.

Questo è il rubino nella notte, ilfuoco che cova nel segreto, ma sicuroeromperà nel destinato attimo.

E questi sono frantumi d’immaginicom’è scheggiata e franta la mia vitache in te trapassa.

Fu mia parte il caos, ma venga ormailo Spirito ed albeggi per te sulladistesa delle acque!

Margherita Guidaccida Paglia e polvere (1961)

POESIA

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