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Il nuovo impero americano delle serie Tv: Buffy, C.S.I., Alias e tutte le altre Chi non ha mai guardato un telefilm americano scagli la prima pietra. Questo libro affronta la produzione americana di telefilm (immancabilmente quelli di maggior successo, con il budget più alto, con gli attori più famosi) dell’ultimo decennio.

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Mario A. Rumor

Created byIl nuovo impero americano delle serie TV:

Buffy, C.S.I., Alias e tutte le altrePrefazione di Franco La Polla

Le virgole. Argomenti 3

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I edizione ottobre 2005Copyright © Tunué Srl

Via degli Ernici 3004100 Latina – [email protected]

Diritti di traduzione, riproduzionee adattamento riservati per tutti ipaesi.

ISBN: 88-89613-00-9

Progetto grafico e copertina: Daniele Inchingoli

Stampa e legatura: Tipografia Monti SrlVia Appia Km 56,14904012 Cisterna di Latina (LT)Italy

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Prefazione di Franco La Polla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7Pilot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15

I Grandi storie, piccolo schermo . . . . . . . . . . . . . . . . . .19Il segreto del successo: la scrittura . . . . . . . . . . . .23C’è posto per tutti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26

II Adolescenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .29Cominciamo dalla fine: The O.C. . . . . . . . . . . . . .30Un passo indietro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34

III Dura lex, sed lex . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .38The Practice, avvocati in scena . . . . . . . . . . . . . . .39Il fascino indiscreto di chiamarsi Ally . . . . . . . . . .41Le altre facce della legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .43

IV Spie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .47Alias: le cose non sono (mai) ciò che sembrano . .4824: Conto alla rovescia in TV . . . . . . . . . . . . . . . . .50Non tutte le spie riescono col buco . . . . . . . . . . . .52

V Famiglie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .53Una serie per amica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .54Serie molto serie (pure troppo) . . . . . . . . . . . . . . .56

Indice

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Intermezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .59Tutti perduti sull’isola di J.J. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .59

VI Morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .64Memorie dal sottosuolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .64Magical Mystery Tour . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .66E chi della morte se ne intende . . . . . . . . . . . . . . .67

VII Indagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .69VIII Femminile, singolare/plurale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .74IX Risate in scatola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .78

Season finale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .81

Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .83Indice delle serie e dei termini tecnici . . . . . . . . . . . . . . . .89

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Mi piace molto la definizione di questo libro come una «cac-cia al tesoro» datane dall’autore stesso. In effetti l’ambizione diMario A. Rumor non è accademica e tutto sommato nemmenosistematica. Accumulata una serie (sì, una serie!) di conoscen-ze sulla varia produzione seriale televisiva americana dell’ulti-ma quindicina d’anni, l’autore indica, in effetti, alcune discri-minanti differenziative, ma si sente bene che è il piacere diripercorrere quella conoscenza che la fa da padrone. E tuttavianon si tratta di un’opera semplicemente – ed entusiasticamente– descrittiva. Il primo capitolo infatti offre un’enorme quantitàdi spunti riflessivi su quell’universo in pollici che siamo ormaianche noi abituati a visitare quotidianamente.

Per esempio, non sono ben sicuro che la televisione riesca araccontare tutto quello che il cinema liquiderebbe subito(ricordo che qualcosa del genere mi disse Sydney Pollack inun’intervista di parecchi anni fa). Probabilmente è vero.Eppure è altrettanto vero e risaputo che da molto tempo ilcinema hollywoodiano si è piegato alle esigenze visuali eaddirittura ritmiche del piccolo schermo, talché non c’è quasifilm americano che non dispieghi frenetico montaggio, campimedi e primi piani, taglio della sceneggiatura adeguato alleinterruzioni pubblicitarie e via dicendo. Del resto è cosa nota:oggi il cinema americano non riuscirebbe a vivere senza losfogo fornito dallo sfruttamento televisivo dei suoi prodotti; e

Prefazionedi Franco La Polla

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per sfruttamento televisivo intendo anche videocassette e DVDi quali, almeno fino a questo momento, vengono fruiti nelledimensioni domestiche (home theatre) del piccolo schermo.Che il rapporto fra cinema e televisione fosse vivo e vegetoanche nei primi anni del nuovo mezzo è cosa indiscutibile: ilnome del divo che coincide con quello dello show non inco-mincia con la fine del secolo appena trascorso (penso al travol-gente successo cinquantesco di trasmissioni oggi dimenticatecome Milton Berle, The Ray Milland Show, The Donna ReedShow – che si inoltrava abbondantemente nei Sessanta – finoai sessanteschi The Patty Duke Show, The Dick Van DykeShow, The Tom Ewell Show, The Andy Griffith Show e ai set-tanteschi The Mary Tyler Moore Show, The Nancy WalkerShow, lo sfortunato Shirley’s World con Shirley MacLaineecc.), ma permea l’intera storia della televisione statunitense.

Ma in quel primo capitolo c’è ben altro. Rumor riporta leparole di Joel Surnow, per il quale oggi la televisione è il tem-pio degli scrittori, mentre il cinema – a suo dire – si dividemeglio tra registi e attori. Insomma, la sceneggiatura cinema-tografica odierna non ha molta importanza se comparata aglieffetti speciali e alle star. Dato e non concesso che questo siavero, non mi sembra un’affermazione generosa, ché essapecca un po’ di «razzismo mediatico». Per il cinema infattisarebbe accaduto quello che in passato era capitato ai neri inAmerica: prima li si teneva in condizioni da non potersi nean-che sognare di condurre una vita come qualunque altro cittadi-no degno di questo nome, poi li si accusava di essere diversi,pigri, sporchi, ignoranti. Insomma, si trasformava in naturaquello che era semplicemente cultura. E per di più culturaimposta dall’esterno. Col cinema è stato lo stesso: prima lo siè messo in crisi, poi lo si è condizionato in modo da adattarsialle necessità della televisione, e infine si va dicendo che peresso la scrittura conta poco, per di più appropriandosi di quel-lo che era stato per decenni il fiore all’occhiello di Hollywood:la sua straordinaria tradizione sceneggiativa.

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PREFAZIONE

Non c’è dubbio: questa è davvero un’epoca televisiva. Edovevamo accorgercene sin dagli anni Cinquanta, quando chiandava d’accordo col piccolo schermo non erano tanto i teena-ger (come si vede, qui non concordo con Rumor) ma i bambi-ni, oltre ovviamente a buona parte degli adulti e soprattuttodegli anziani. Intendo dire che la generazione nata con l’av-vento della televisione non poteva non istituire con essa unrapporto potente e continuato, rapporto che si sarebbe ancorpiù consolidato con le generazioni seguenti per le quali la tele-visione non era una nuova, affascinante invenzione ma un faitaccompli. I teenager di allora andavano al drive-in, si crogio-lavano davanti alle porte scricchiolanti dei manieri messi inpiedi da Roger Corman, alle trovate baracconesche (scheletriche pendono nella sala, piccole scosse elettriche alle sedieeccetera) di William Castle e alla ingenua tridimensionalità deibellissimi b-movies fantascientifici di Jack Arnold. Furonoloro ad aprire la strada al cosiddetto youth movie che avrebbetrionfato per qualche anno a partire dalla fine dei Sessanta,ovvero dall’inizio della New Hollywood. Ma fu solo lo spaziodi un mattino. L’epoca, ripeto, è televisiva.

Non vorrei però che il lettore si immaginasse quest’ultimafrase come fosse pronunciata con un sospiro o magari consdegno da chi scrive. No no, io credo profondamente alla«buona» televisione (sembra un ossimoro, vero?). Di quellatelevisione ne abbiamo avuta e ne abbiamo. Ai confini dellarealtà, Star Trek, Mary Tyler Moore, Seinfeld e oggi ISimpson e Buffy hanno fatto e stanno facendo, fra gli altri, lastoria della «buona» televisione americana (o se si preferisceuna sorta di controstoria di essa). L’intera produzione MTM èuna bandiera sotto la quale si erano raccolti negli anniSettanta alcuni fra i migliori talenti – sceneggiatori, attori,produttori o altro – del piccolo schermo. Ma anche inAmerica è successo quel che abbiamo avuto in Italia: la tele-visione (via cavo) si è fatta produttrice cinematografica, oquantomeno di film destinati direttamente al proprio canale.

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E con pregevoli riuscite: la HBO, per esempio, vanta un for-midabile numero di ammirevoli film.

In questo quadro che cosa ha da dirci la serialità televisivadegli ultimi quindici anni?

Molto, credo. Anche se ovviamente in termini profonda-mente diversi da quella dei tempi pionieristici. La sola figuradella donna, per come la riceviamo dal catodico, denuncia unarivoluzione (si fa per dire) alquanto evidente. Dalla casalingaLucy Ricardo alla single romantica Mary Richards fino allasuperdotata e infelice slayer Buffy, la televisione americana haregistrato puntualmente il mutamento dell’immagine e delruolo stesso della donna nella sua società. A sua volta il sem-pre più irresistibile inurbamento ha portato a un moltiplicarsidi serie poliziesche d’azione (fra le quali, mi sembra, primeg-gia per umanità e lucida intelligenza The District), nelle qualinon di rado son proprio le donne le principali protagoniste. Maquel che più colpisce – e che Rumor non manca di evidenzia-re – è il ruolo della morte, dell’aldilà e spesso e volentieri del

Sarah Michelle Gellar in Buffy – The Vampire Slayer© FOX Television

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PREFAZIONE

soprannaturale nell’odierna produzione: penso all’originalissi-mo Sex Feet Under, ma anche allo stesso Buffy, a Tru Calling,a Angel, e tralascio le varie e spesso secondarie esercitazionistregonesche di non poche altre serie. Buffy mi sembra senz’al-tro la più vivace, un incontro di diversi generi (martial arts,college movie e horror film) sul terreno di un’idea centrale: iproblemi dell’adolescenza e della prima giovinezza. Vi sonopagine, nella serie di Joss Whedon, che non hanno nulla dainvidiare alla miglior letteratura (Spike che in un episodio sireca da Buffy per farla finita con lei e, trovandola seduta tristee affranta sul portico di casa, le si pone accanto cercando diconsolarla è un momento degno di un poeta). Whedon giocamolto con le parole (è forse la serie avventurosa più splendida-mente ironica della televisione grazie al suo frizzante dialogo,per lo più appannaggio di uno dei personaggi, Xander), ma saanche usare i silenzi, soprattutto nei suoi finali che fanno pen-sare a dei piccoli tableaux vivants eredi della tradizione del tea-tro melodrammatico francese, una sorta di freeze che congela labattuta finale lasciando lo spettatore a meditare sul suo valore,le sue implicazioni, le sue eventuali conseguenze.

Insomma, una televisione intrattenitiva che fa pensare enella quale ritroviamo i nostri veri problemi e non i falsi dram-mi imposti dai furbacchioni del palinsesto. Che cosa si puòchiedere di più a questo compromesso medium? Solo, che ela-bori altri programmi di questo livello e lasci perdere la spaz-zatura, il reality show (ma quale reality? via, non prendeteci ingiro!), i grandi e piccoli fratelli minorati, i famosi che nonsono nessuno e via dicendo. Aspettiamo con pazienza, le cosesono in parte cambiate e probabilmente cambieranno ancora.Nel frattempo leggiamo con piacere chi, come Rumor, sta pre-parando il terreno per una maggiore e consapevole compren-sione di un fenomeno di cui non è più lecito liberarsi con unascrollata di spalle.

Bologna, estate 2005

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Calista Flockhart e Dylan McDermott in posa per ilcrossover tra Ally McBeal e The Practice.© FOX Television

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Credo che lei guardi troppa televisione, avvocato.(da The Practice – Professione avvocati)

Questa è l’introduzione più discreta al mondo.Il motivo è banalissimo. Se avete scelto di leggere questo

micro-libro sulle serie TV americane, vuol dire che qualcosagià sapete. Non siete un lettore incauto, probabilmente lavostra è una passione di lunga data e quindi abbiamo poco daspiegare. Siccome non siete un lettore incauto, vi domandateanche come sia possibile che cento pagine riescano a cattura-re un intero universo seriale intriso di passioni collettive oindividuali, di anfitrioni con volti da star hollywoodiane checi/vi introducono in vite parallele e finzionali, o in situazioniaction cronometrate al millesimo di secondo oppure altreancora che straripano di risate fuori scena. O lacrime.

La risposta è altrettanto banale: non è possibile. Le serie TVesistono praticamente da sempre, da quando è nata quella sca-tola delle meraviglie elettronica a cui una celebre famigliaamericana di cartoon dalla pelle gialla ad esempio non potreb-be fare a meno. Un postmoderno specchio dei desideri in cuirimirarsi, che esaudisce (quasi) ogni desiderio. Basta saperdevolvere ogni titillamento a un telecomando di plastica. Sulciarpame che questa stessa scatola è in grado di confezionare

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preferiamo azzerare ogni commento. Troppo poco spazio. Perrecuperare preziosi secondi di credibilità, diremo allora che inquesto libro abbiamo deciso di concentrare ogni attenzione sul-l’ultimo decennio, o poco più, di produzioni seriali. Forse per-ché qualcosa si è evoluto nel linguaggio televisivo a cavallo traquesto secolo e l’altro. O forse perché si nasconde qualcosa ditelevisivamente ancestrale dietro a tutto ciò che gli spettatoriintuiscono essere innovativo e originale. Inoltre nella coscien-za degli spettatori s’è insediato il sospetto di un avvenuto «rina-scimento» delle serie TV americane, verso le quali si è pureinaugurato un rispetto filologico e critico impensabile fino apochi anni fa, un rispetto coniugato al verbo televisivo più invoga in questi anni: il digitale della pay TV e del DVD.

Created by non intende essere una sintesi ragionata delfenomeno ma una «caccia al tesoro» che parte da specificiargomenti su cui ragionare. A spiegare bene, e diffusamente,cosa siano le serie TV e che differenza concettuale esista con iserial, le soap opera e la fiction all’italiana ci pensano adesempio le pagine introduttive di Aldo Grasso all’ormai cele-

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Manifesto promozionale di Everwood. © The WB

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bre Dizionario dei telefilm compilato con perizia certosina daLeo Damerini e Fabrizio Margaria oppure uno dei libri piùbelli e avvincenti sulla passione telefilmica, scritto da DiegoDel Pozzo e intitolato Ai confini della realtà. Cinquant’anni ditelefilm americani.1

Invece questa nostra piccola creatura, pullulante di vitaseriale, va considerata in esergo al fenomeno e solo per questavolta, promesso. Né più né meno come uno di quei trailer tra-smessi in televisione, in cui una serie si gioca tutto in pochisecondi per suscitare l’interesse dello spettatore.

RingraziamentiPer la fiducia: agli editori di Tunué Massimiliano Clemente,

Emanuele Di Giorgi, Concetta Pianura. Per la pazienza: a MarcoPellitteri. Per il sostegno e un piccolo aiuto: a Cristina e Katya. Per lacollaborazione: a Giuseppa Gatto e Francesca Tauriello della BuenaVista. E un ringraziamento speciale a Franco La Polla per la pregevolePrefazione, naturalmente.

M.A.R.Belluno, estate 2005

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PILOT

Note1 Cfr. Aldo Grasso, «La fortuna di un nome, la fortuna di un genere», in LeoDamerini – Fabrizio Margaria, Dizionario dei telefilm, Milano, Garzanti, 2001.Diego Del Pozzo, Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani,Torino, Lindau, 2002.

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Il cast mafioso di I Soprano. © HBO.

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Grandi storie, piccolo schermo

La televisione ama raccontare storie. Tante e diverse. Diconoche abbia un naso più lungo di Pinocchio e il difetto di voleressere curiosa, a volte morbosa, insospettabilmente premurosaquando impegnata a intrattenere milioni di spettatori che – sin-golare legge del contrappasso mediatico – adorano sentirsi rac-contare quelle storie, sono curiosi, molto morbosi, perfino pre-murosi verso chi sta dall’altra parte del tubo catodico. In que-sto le serie televisive rappresentano la più popolare delle arminarrative al servizio della televisione. Quelle statunitensi, inparticolare, sono diventate irrinunciabili come la Coca-Cola,un prodotto di consumo tra i più rappresentativi e avvincenti.Quasi una sorta di nuova mitologia nell’era elettronica, dove ilprincipale ammonimento esistenziale pare essere introdotto daun poco ortodosso video ergo sum. Con tutte le conseguenzepossibili e immaginabili e cioè una moltiplicazione di sguardi,tanti quante le vite che vengono narrate sul piccolo schermo.

Con le sue origini storicamente avvinghiate agli anniCinquanta del secolo scorso,1 le serie televisive americanesono diventate un appuntamento stabile nella vita degli appas-sionati del genere.2 perfino riuscendo a replicare sé stesse e i

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loro contenuti spettacolari con molte, altre facce; un luogo del-l’immaginario in cui ritrovare una parte di sé, della propria esi-stenza, di quella degli altri (famiglie comprese), del propriolavoro e di tutte le magagne che la vita è disposta a cedere anostro uso e consumo per 25 o 45 minuti circa di programma-zione giornaliera o settimanale (a seconda che siamo In Italiao in America). Una dimensione dello spettacolo, soprattutto,che rispetto al cinema gode di una possibilità in più: la duratae quel procrastinare gli appuntamenti narrativi che fanno della«continuità» il segreto del successo di uno spettacolo televisi-vo. Del resto, un film ha un inizio e una fine, una serie TV puòdurare svariate stagioni con un carico di ore che permette diapprofondire trame e personaggi ben oltre la normale soglia diconoscenza che un film cinematografico consente.

A reggere i fili ci pensano il pubblico e il network, nessunaltro. Uno show di successo ha la possibilità di andare avantiper dodici anni come N.Y.P.D. Blue (1993-2005), ma se qual-cosa andasse storto talvolta un programma nemmeno conosce-rebbe il consolatorio traguardo del «gran finale» di una stagio-ne (il termine tecnico è season finale). Come accade spesso, leserie TV sanno giocare con la loro stessa vita e morte: possonoassurgere a qualcosa di vicino alla vita eterna tramite il cosid-detto spin-off, mirabile strumento di clonazione di un’idea chetrasferisce uno o più personaggi di una serie in un altro conte-sto simile, come nella serie Law & Order; oppure rigenerarsiattraverso uno stesso genere narrativo: avvocati, poliziotti efamiglie con prole numerosa sono i principali beneficiari diquesto strumento terapeutico.

Spiega Tom Fontana, executive producer di uno dei polizie-schi più interessanti degli anni Novanta, Homicide: Life on theStreet (1993-1999):

Ritengo che la televisione sia il più ciclico degli attualimedia. I network si guardano intorno alla ricerca di qualco-sa che possa diventare un successo e tentano di copiarlo.

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Provate a pensare a uno spettacolo di mezz’ora in cui alcu-ni ragazzi e ragazze siedono in un coffee shop. Nel momen-to stesso in cui questo show dovesse diventare un successo,la programmazione televisiva improvvisamente si intase-rebbe di prodotti analoghi.3

L’attaccamento agli ultimi quindici anni di serialità ameri-cana – senza nulla togliere a quanto realizzato in precedenza –nasce in questa sede dalla consapevolezza che qualcosa nellasua intimità linguistica effettivamente si è evoluto. La stessaindustria dello show business televisivo non è più sembratacosì estranea, ed esterna, al mondo del cinema. Quanto piutto-sto un suo alter ego, ingigantito a dismisura dalle dimensioniche il contesto catodico gli consente di assumere. C’è pure uninsediamento attoriale permanente, un tempo sottostimato esbeffeggiato, in cui le stelle di Hollywood fanno a gara perprendervi parte e rinnovare la loro immagine divistica. Alpunto da dare il loro stesso nome allo show, pur interpretandoaltri personaggi: se The Cosby Show (il nostro I Robinson,1984-1992) è uno dei veterani del tempo che fu, oggi questi«nuovi» programmi, indicativamente tutti sit-com, si chiama-no ad esempio Geena Davis Show, Ellen (dall’istrionica EllenDeGeneres), Whoopi, Bette (con Bette Midler), The BernieMac Show. Pure in salsa latina, come la commedia GeorgeLopez interpretata appunto dall’attore George Lopez.

È quasi impossibile calcolare il flusso migratorio dall’estre-mo cinematografico a quello televisivo. I divi di Hollywoodne sono contagiati. Glenn Close è finita sul set di The Shield(nella quarta stagione, il 2005); Michael Douglas, Madonna,Elton John, Jennifer Lopez, giusto per fare qualche nome,fanno a gara per essere ammessi come guest star nella sit-comWill & Grace; Martin Sheen continua a fare il presidente degliStati Uniti nel serial meglio scritto degli ultimi tempi, TheWest Wing. Ma non è detto che sia una formula di garantitosuccesso: capita anche che grandi attori come Richard

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GRANDI STORIE, PICCOLO SCHERMO

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Dreyfuss e Marcia Gay Harden (Mona Lisa Smile) falliscanoil bersaglio non riuscendo a far decollare la propria serie, il«familiare» The Education of Max Bickford (2001), ponendosé stessi come attrazione delle meraviglie o fulcro attoriale diserie A. Il segreto è: meglio vivere un giorno da guest star checento da protagonisti. E comunque dice bene lo scrittore PhilRosenthal (Tutti amano Raymond, 1996-2005): «Le star nonfanno la TV. È la TV che fa le star».4

Non sono però soltanto i divi a scalpitare per lasciarsi fagoci-tare dal piccolo schermo. Registi del calibro di Walter Hill sonoinvitati a dirigere serie aggressive e spiazzanti come Deadwood(2004, western ideato da David Milch che lascia il segno findalla sigla di testa), mentre un paziente Quentin Tarantino simette in fila pur di scrivere e dirigere l’episodio finale dellaquinta stagione di C.S.I. – Crime Scene Investigation (2000).L’unica risposta che per ora arriva da Hollywood è quella dirifare sul grande schermo i classici televisivi d’un tempo, daCharlie’s Angels a Starsky & Hutch, da Hazzard a un ipoteticoDallas interpretato da Brad Pitt con cappello texano. Non èforse questo un segnale importante su cui riflettere?

Guai tuttavia a commettere l’imperdonabile errore di circo-scrivere ogni fenomenologia al solo prodotto telefilmico. Èl’intero sistema televisivo che va considerato: quello delleminiserie (Angels in America, 2003, diretto da Mike Nicholssu testo del drammaturgo Tony Kushner è senza dubbio il piùsignificativo e uno dei più premiati) e dei film TV. Forse per labanalissima ragione che la televisione riesce a raccontare, epuò permettersi di farlo, tutto quello che il cinema liquidereb-be subito. Alter ego, dunque, ma anche sublime canale di sca-rico in cui l’America riesce a vedersi narrata, o sbeffeggiata,per quello che realmente è o crede di essere.

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Il segreto del successo: la scrittura

A volte succede che anche quotati sceneggiatori di serie TVcorrano in soccorso del grande schermo. Il caso più eclatanteè quello del geniale J.J. Abrams, creatore di Felicity (1998),Alias (2001) e del recente Lost (2004), finito sotto l’ala protet-tiva di Tom Cruise che l’ha voluto come regista di Mission:Impossible 3 (2006), scaricando senza troppi ripensamenti ilgià designato Joe Carnahan, anch’egli uno che non scherza inquanto a scrittura: basti vedere il suo splendido Narc – Analisidi un delitto (2002).

Questo è solo l’apice di un discorso che andrebbe analizza-to a fondo. A suo tempo abbiamo osservato Joss Whedon,creatore di Buffy – The Vampire Slayer, scrivere le sceneggia-ture dell’innovativo film d’animazione della Pixar-Disney ToyStory (1995, di John Lasseter) e del quarto capitolo della sagaAlien (1998). Scrittori che si sono divisi con successo tra gran-de schermo e TV, o viceversa, sono: Kevin Williamson (autoredella serie Dawson’s Creek ma già trionfatore al botteghinocon il film Scream, 1996); Aaron Sorkin (per il citato The WestWing); Alan Ball, premio Oscar per American Beauty (2000) eautore della serie Six Feet Under; David E. Kelley con AllyMcBeal; la coppia Marshall Herskovitz e Edward Zwick conle loro malinconie tele-generazionali (Thirtysomething,Ancora una volta) e i tripudi guerreschi nuovamente sotto ilsegno di Tom Cruise (L’Ultimo Samurai, 2003).

Tutti sanno quanto sia difficile assicurarsi un minimo di cre-dibilità tra un medium e l’altro. Se necessario corre allora inaiuto il passato e la mente vola al 1985, quando il regista cine-matografico Michael Mann diede fondo a tutta la sua irrive-renza nei confronti dei consueti codici telefilmici creandoMiami Vice; poi al 1990, quando il surreale David Lynch(Dune, 1984 e Velluto blu, 1986) e il «televisivo» Mark Frost(arrivava da Hill Street giorno e notte, 1977) realizzarono unodei cult più ricordati e amati della televisione, I segreti di Twin

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GRANDI STORIE, PICCOLO SCHERMO

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Peaks. Già qui possiamo individuare la chiave di quell’evolu-zione che condurrà a gran parte del tesoro telefilmico di que-sti anni. Un’evoluzione che si basa praticamente sulle stessemitologie del passato ma le ravviva iniettando loro forza sulpiano narrativo: passano gli anni e si avvicendano i tormento-ni su misura, dal «chi ha sparato a ‹Gei-Ar›?» di Dallas al «chiha ucciso Laura Palmer?» di Twin Peaks a «cosa diavolo è lamisteriosa creatura che si aggira sull’isola di Lost?», eppure ildiscorso non cambia di una virgola. Ma in sostanza è la paro-la scritta a fornire l’alibi per la nuova consistenza visiva e lin-guistica delle serie di quest’ultimo quindicennio. Più di tutti imezzi tecnici che si è disposti a investire per trasformare inrealtà delle semplici parole. Ne sono convinti pure loro: quel-li che la televisione la fanno. Ad esempio riconoscendo che daquando esiste la TV gli scrittori hanno guadagnato il rispettoche meritano, e non solo quando questo diventa metafora dicontratti milionari siglati con le major, e che quasi il 70% diessi lavora proprio per il piccolo schermo.

Sul concetto si esprime con convinzione Joel Surnow, auto-re del Nikita televisivo e dello spettacolare 24, quando dice

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I segreti di Twin Peaks. © ABC

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che la televisione è il tempio degli scrittori, mentre il cinemasi divide meglio tra registi e attori: «Nei film di oggi la sceneg-giatura non è importante come il concept, gli effetti speciali àla ILM [Industrial Light & Magic, la factory delle meravigliedegli effetti speciali fondata da George Lucas] e le grandi star.Tutto deve essere big. Pensate forse che un film come Volcano[1998] sia attraente per il suo contenuto drammatico? Certoche no».5 Questo non significa in alcun modo che cinema e TVsi guardino in cagnesco. Anzi, semmai tra loro c’è un flirt inin-terrotto dove ognuno assimila qualcosa dell’altro, nella consa-pevolezza che in alcuni spettacoli è possibile filtrare libera-mente qualcosa di sé stessi, come ha fatto Kevin Williamsonin Dawson’s Creek o Linwood Boomer (era il marito cieco diMary Ingalls in La casa nella prateria) creando il buffoMalcolm in the Middle (2000).

Qualcuno ha evocato William Shakespeare – più o menodopo il trauma statunitense dell’11 settembre 2001 – per ribadi-re che tutto si stabilisce in quattro paroline: «amore, odio, dolo-re, rabbia». E le serie televisive già contengono dentro di sé lastruttura estetica ideale per miscelare questi ingredienti dram-matici, sotto qualunque forma narrativa. Hanno però un pubbli-co da accontentare, un pubblico che attende di guardare questispettacoli per rivoluzionare la propria condotta di pensiero,avvertire il peso dei sentimenti umani e scambiare questi stessisentimenti con le altre persone. Qualcosa che la vita, forse, nelrutilante mondo di oggi (di ieri e domani) ha congelato, rivesti-to di finto glamour da patinato reality show in cui cercare l’as-soluzione dai problemi di tutti i giorni o investito in succulentiprogrammi popolari, con o senza pacchi da «scavicchiare».Nella consapevolezza, soprattutto, che per stupire e fare inna-morare di sé quel pubblico – magari giusto per non vedersi can-cellare dal network – è necessario anche realizzare qualcosa chenessun altro ha mai visto prima: un esempio arriva dalla sit-comTutti amano Raymond in cui gli autori normalmente partono dasituazioni e avvenimenti ordinari per trasformarli sul piccolo

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schermo in eventi straordinari, cose che nella vita di tutti i gior-ni non accadono o non dovrebbero accadere, ad esempio facen-do ridere secondo i copioni di un Ray Romano (il protagonistadi questa sit-com), che partono sempre da situazioni poco piùche reali.

C’è posto per tutti

Negli ultimi anni si è rivelata fortissima la volontà di alcu-ne personalità dell’industria cinematografica di allungare lemani su questo fortunato strumento espressivo e spettacolare.Un nome su tutti: Jerry Bruckheimer. Il potentissimo produt-tore americano che sta dietro a successi commerciali comeArmageddon (1998), Pearl Harbor (2001), La maledizionedella prima luna (2003) e Il mistero dei templari (2004) è statoabilissimo nel riuscire a infilarsi con altrettanta maestria e lun-gimiranza nel territorio della televisione, reality compresi(vedi Amazing Race).6 Non serie di secondo piano, bensì showche occupano i primi posti nelle classifiche dei programmi piùvisti negli USA: dal citato C.S.I. a Senza traccia (Without aTrace, 2002) e Cold Case – Delitti irrisolti (Cold Case, 2003).Tre polizieschi, tre modi di reinventare un genere.

Gente con pretese spettacolari più semplici come GeorgeClooney e il regista Steven Soderbergh non ambisce a conqui-stare le vette delle classifiche settimanali, ma comunque perse-gue la strada della qualità del prodotto televisivo. Uno strumen-to per dire la propria (per tale ragione hanno dato vita alla socie-tà di produzione Section Eight) e condividere un credo artisticosimile. Frutto di questo credo è la serie televisiva in dieci episo-di K Street (2004), in cui realtà e finzione si fondono pericolo-samente. L’idea è formidabile: penetrare nei corridoi della vitapolitica e lasciare che a reggere il gioco, e la scena, siano veripolitici. Un tipo di show televisivo che si inserisce a meraviglianel clima «post 11 settembre» e risale la china del trauma

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mescolando satira e finzione con la sagacia al vetriolo di cuiSoderbergh è capace. Più classici e conservatori Will Smith ecompagna, Jada Pinkett Smith (vista nel film Collateral insiemea Tom Cruise), produttori di una sit-com «all black» (cioè consoli protagonisti afroamericani) intitolata All of Us (2003), in cuisi ragiona sulla fatica di essere genitori oggi, divorziati ma fortidi un lavoro gratificante. Pure qui vengono superati i confinidella finzione e viene introdotta una strategia narrativa chemette in campo l’esperienza di vita reale dei due attori.

L’attentato alle torri gemelle ha minato l’innocenza sotto-messa delle serie americane, le quali hanno reagito nel migliormodo possibile, rispondendo all’invito di chi quell’innocenzavuole vederla ricostruita e solidificata: the show must go on.7

Lo spettacolo deve andare avanti, perché ci sono tante nuovestorie che il pubblico desidera farsi raccontare, altre modalitàdi intrattenimento che sappiano interagire con la realtà più diun qualunque reality. Altrimenti perché mai nella stragrandemaggioranza dei manifesti pubblicitari i protagonisti delleserie amate ci guardano dritto negli occhi? Ma è ovvio.Ricambiano il favore che, ogni settimana, gli spettatori fannoloro assistendo a vite finzionali, dannatamente (im)perfette ecosì tanto americane.

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Note1 Va qui accennato, seppure in modo telegrafico, che la televisione, diffusanelle case degli americani a partire dalla fine degli anni Quaranta, accolse i suoispecifici tipi di serialità narrativa riprendendoli inizialmente dalla radio, che giàproponeva spettacoli seriali quali il radio drama (che ebbe il suo boom neglianni Trenta) e la soap opera (nata negli anni Quaranta).2 Almeno qui in nota occorre distinguere, per chiarezza, fra generi narrativi(giallo, drammatico, fantascienza ecc., nell’ambito della letteratura per l’appun-to cosiddetta «di genere» o popolare) e generi televisivi, fra cui annoverare ilquiz, il varietà, lo sceneggiato ecc. Ora, il telefilm è un prodotto girato con

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mezzi, mentalità e linguaggi cinematografici, però assume struttura serialeall’interno di una piattaforma mediatica che non è il cinema ma appunto la tele-visione. In tal senso bisogna stabilire una differenza fra il telefilm e gli altrigeneri televisivi «simili»: la soap opera e la telenovela, lo sceneggiato, la sit-com ecc. Il telefilm di cui parliamo in questa sede è un genere televisivo a séstante, perché usa budget spesso rilevanti, regia dinamica e di stampo quasi hol-lywoodiano o precisamente hollywoodiano (anche per la dislocazione dei set eper le maestranze usate), pellicola o recentemente l’alta definizione digitale.Quindi è un genere televisivo a sua volta chiaramente declinato in generi narra-tivi. E ovviamente ha contribuito a innovare per la televisione alcuni di questigeneri (il poliziesco, la commedia sentimentale, la fantascienza, la teen storyecc.) e perfino alcune delle sintassi cinematografiche.3 Edward Gross-Douglas Perry, «Must-See TV», Cinescape, Anno IV, n. 1,March/April 1998, p. 61.4 In Lynette Rice, «Funny Business», Entertainment Weekly, n. 758, April 2,2004, p. 23. Tutti amano Raymond (Everybody Loves Raymond) è una spassosasit-com creata da Rosenthal, Stu Smiley e Rory Rosegarten con l’attore RayRomano nei panni del giornalista sportivo Raymond Barone alle prese con lavita di tutti i giorni in famiglia. Tra gli interpreti Patricia Heaton (la moglieDebra), Peter Boyle (il padre Frank) e Doris Robert (la madre Marie). 5 Edward Gross-Douglas Perry, op. cit., p. 61.6 Prodotto da Jerry Bruckheimer e creato da Elise Doganieri e Bert VanMunster, Amazing Race è un reality show di genere avventuroso (comeSurvivor) che conduce ventidue persone divise in coppie in giro per il mondosenza l’utilizzo di cellulare e con un budget personale assai ristretto. Possonoviaggiare occasionalmente in aereo e devono spostarsi grazie ad altri mezzi ditrasporto (biciclette, treni, autobus): solo quando ogni tappa è stata raggiunta ele prove sono state superate i concorrenti possono passare alla fase successiva.In palio un milione di dollari. Il programma ha esordito il 5 settembre 2001 sulnetwork CBS e oggi è alla sua quinta stagione. 7 Il messaggio più autorevole è arrivato in apertura della 55a edizione degliEmmy Awards, nel 2001, da Walter Cronkite, storico anchor man della CBS. GliEmmy Awards sono i premi che annualmente vengono attribuiti alle opere pro-dotte per la televisione: si dividono in «Day Time» (i programmi del mattino) e«Prime Time» (tutto quanto viene trasmesso in prima serata). Walter Cronkite(1916) è uno dei più famosi giornalisti e «mezzi busti» (anchor man) del picco-lo schermo americano, avendo condotto per anni il programma della CBSEvening News: tra i suoi servizi più celebri l’annuncio della morte del PresidenteJohn F. Kennedy nel 1963. La CBS (Columbia Broadcasting System) è una delletre principali reti televisive statunitensi (le altre sono ABC e NBC). Nasce nel1927 come stazione radiofonica, per diventare emittente televisiva nel 1939; ilprimo programma a colori vi viene trasmesso nel 1941. Per saperne di più:www.nationmaster.com/encyclopedia/CBS.

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