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Welfare State, origini e declino BY GABRIELLA GIUDICI Le origini, l’universalizzazione e la de-universalizzazione delle misure di assistenza e previdenza sociale in Occidente. Indice 1. Origini, universalizzazione e de-universalizzazione 2. Il modello americano e la crisi del Welfare europeo 3. Dopo il Welfare, Nonprofit, volontariato e solidarietà 1. Origini, universalizzazione e de-universalizzazione del Welfare La prima legge contro il vagabondaggio (Old Poor Law) è del 1600 L’espressione inglese Welfare State, «Stato del benessere» è stata coniata in Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, per indicare il complesso di politiche pubbliche (detto anche «stato sociale») messe in atto da uno stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire assistenza e benessere ai cittadini, modificando e regolamentando la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato. Fino alla Rivoluzione industriale gli interventi di protezione sociale (Poor Law, 1600) si manifestarono come assistenza alla povertà e furono essenzialmente finalizzati al contenimento della tragedia sociale innescata dalla disoccupazione contadina con le enclosures e al controllo di queste nuove masse di vagabondi. 1

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Welfare State, origini e declinoBY G ABR IELLA G IU D IC ILe origini, l’universalizzazione e la de-universalizzazione delle misure di assistenza e previdenza sociale in Occidente.

 Indice1. Origini, universalizzazione e de-universalizzazione2. Il modello americano e la crisi del Welfare europeo3. Dopo il Welfare, Nonprofit, volontariato e solidarietà

 

 1. Origini, universalizzazione e de-universalizzazione del Welfare

La prima legge contro il vagabondaggio (Old Poor Law) è del 1600

L’espressione inglese Welfare State, «Stato del benessere» è stata coniata in Gran Bretagna durante

la seconda guerra mondiale, per indicare il complesso di politiche pubbliche (detto anche «stato

sociale») messe in atto da uno stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire

assistenza e benessere ai cittadini, modificando e regolamentando la distribuzione dei redditi

generata dalle forze del mercato.

Fino alla Rivoluzione industriale gli interventi di protezione sociale (Poor Law, 1600) si manifestarono

come assistenza alla povertà e furono essenzialmente finalizzati al contenimento della tragedia

sociale innescata dalla disoccupazione contadina con le enclosures e al controllo di queste

nuove masse di vagabondi.

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Nel corso del XIX secolo invece, in seguito al processo di industrializzazione e alla necessità di intervenire

sulle drammatiche condizioni di vita del proletariato urbano, si definì un sistema di assicurazioni sociali

per fronteggiare le più gravi situazioni di disagio e costruire consenso sociale.

Il modello contributivo e non universalistico di Bismarck

Fino alla metà del XX secolo gli interventi vennero indirizzati a determinate categorie sociali, come nei

provvedimenti a favore dei lavoratori dell’industria di Otto von Bismarck (1883-1889) che prevedevano il

versamento di contributi da parte della categoria di lavoratori per il finanziamento dell’assicurazione

sociale.

I primi provvedimenti a carattere universale, cioè diretti ai cittadini piuttosto che a singole

categorie di lavoratori, (anticipati negli anni Trenta dal New Deal di Franklin D. Rooswelt e dai governi

socialdemocratici svedesi) furono attuati in Gran Bretagna con il piano Beveridge (1942), che

estendeva la protezione a tutti i sudditi britannici indipendentemente dal versamento di

contributi, finanziandola con la fiscalità generale. Negli anni ’60 e ’70, la sicurezza sociale fu

introdotta anche negli altri Paesi industriali.

Il modello universalistico proposto da Lord Beveridge

In Italia, l’intervento statale in materia di assistenza era iniziato nella seconda metà del XIX

secolo allo scopo di limitare l’influenza della Chiesa – legge per la confisca dei beni delle associazioni

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ecclesiastiche impegnate nel campo assistenziale (1866), sottomissione al controllo pubblico del sistema

delle opere pie e loro trasformazione in Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza con la legge

Crispi (1890) – e di integrare nel nuovo stato i ceti popolari con politiche di intervento pubblico.

Perché queste politiche acquisissero la forma oggi in via di dissoluzione, si deve però attendere gli anni

’40 e la realizzazione del piano Beveridge (1948) che garantiva a tutti i cittadini un trattamento minimo

uniforme per far fronte alle loro necessità più immediate.

Gli obiettivi del welfare state sono stati di assicurare un tenore di vita minimo a tutti i

cittadini, dare sicurezza a individui e famiglie in presenza di congiunture sfavorevoli

e garantire a tutti i cittadini l’accesso ai diritti fondamentali di istruzione e sanità. Gli strumenti

attraverso cui ha operato sinora lo stato sociale sono stati gli assegni di famiglia, di vecchiaia, di

maternità, di invalidità, di disoccupazione, versamenti in denaro per sostenere condizioni esistenziali o

familiari specifiche; l’erogazione di servizi di istruzione, sanitari, di concessione di case popolari; la

concessione di benefici fiscali per carichi familiari, l’acquisto di un’abitazione; e

la regolamentazione di certi aspetti dell’attività economica, quali la locazione di abitazioni a

famiglie a basso reddito, l’assunzione di invalidi ecc..

Queste politiche sono lo strumento attraverso cui lo stato assicura la cittadinanza, cioè i diritti

sociali alle persone fisiche alle quali riconosce lo status di cittadino, quale titolare dei diritti

civili (libertà personale, di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza e di religione,

l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto alla presunzione d’innocenza ecc.) e politici (partecipazione al

governo dello stato).

Dagli anni Ottanta, il welfare state è stato ridimensionato dalle politiche di riduzione della spesa

pubblica iniziate negli USA e in Gran Bretagna con i governi Reagan e Thatcher. Negli ultimi vent’anni il

declino del Welfare si è legato anche alla crisi dello stato nazione e alle dinamiche antisociali della

globalizzazione economica.

 2. Il modello americano e la crisi del Welfare europeo

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Londra nel 1940

[Tratto da N. Dirindin, G. Maciocco, Assalto alll’universalismo] Lord William Beveridge era un politico

liberale, ma il suo piano fu attuato dal governo laburista, poi proseguito da quello conservatore. La

ragione di un consenso così ampio va cercata nelle devastazioni della guerra che avevano mostrato la

fragilità di individui e famiglie, anche benestanti, davanti a eventi negativi e fortuiti. La guerra insegnò

alla popolazione la virtù del razionamento del cibo e del combustibile, cosicché in un momento di grave

carenza tutti potessero avere accesso ai beni essenziali. Tutto ciò preparò l’opinione pubblica a sostenere

con convinzione un sistema di welfare che, finanziato attraverso la fiscalità generale, garantiva

a tutti la sicurezza sociale.

afroamericani

La situazione post-bellica negli Stati Uniti fu molto differente per diversi motivi.  Mentre in Europa il

sistema industriale fu devastato dalla guerra, le imprese americane si rafforzarono proprio grazie alle

spese militari e quindi la popolazione americana non sperimentò le condizioni di ristrettezza che in

Inghilterra avevano favorito il forte senso di coesione sociale. Tuttavia la differenza cruciale fu nel 4

ruolo della questione razziale nella società americana. In America il ricco (bianco) non può mai

cadere in fondo alla scala sociale perché quella posizione è già occupata.  Occupata dai neri che

soffrono di una ampia e diffusa condizione di discriminazione. Gli Europei sanno che possono andare

a letto ricchi e svegliarsi poveri, ma i ricchi americani, bianchi, sanno che non potranno mai

svegliarsi neri.

Le conseguenze di ciò sono evidenti a tutti i livelli nella società americana. Nelle indagini di popolazione il

supporto per il welfare tra gli americani bianchi è fortemente influenzato dalla razza della

popolazione povera che vive intorno a loro: più generosi se i loro vicini poveri sono

bianchi.  Le divisioni razziali continuano a minare la propensione a sostenere il welfare. Negli stati con

più alta proporzione di afro-americani i contributi al welfare sono  molto meno abbondanti.

La resistenza degli americani a finanziare il welfare è dovuta al fatto che questo non è visto

come uno strumento per assicurare la propria famiglia contro un evento catastrofico, ma

piuttosto come il pagamento di una tassa a favore di persone di cui non si condivide

l’identità. In questo modo i poveri si trovano divisi in due gruppi: da una parte i “meritevoli  (di

assistenza)” (“deserving”)  e dall’altra i “non meritevoli” (“undeserving”).

Una seconda differenza è che gli americani tendono, molto più degli europei, ad attribuire la

condizione di povertà alla pigrizia piuttosto che alla sfortuna. Se i ricchi vogliono aiutare i poveri

possono usare la filantropia che è incoraggiata dal sistema fiscale e facilitata da una forte cultura

religiosa e da un’altrettanto forte avversione per lo Stato. Tuttavia, il contributo volontario significa che i

donatori possono selezionare i beneficiari della loro generosità, piuttosto che lasciare la scelta al sistema

democratico. Negli USA più di un terzo della spesa sociale viene dai contributi volontari, mentre in Europa

questi rappresentano meno di un decimo.

Un terzo fattore di differenza è la debolezza in USA dei sindacati e dei movimenti di sinistra. In

Europa i sistemi di welfare si sono sviluppati in presenza di sindacati forti e di partiti progressisti al

governo.

Capire da dove viene il denaro per finanziare il sistema di welfare è solo la metà del quadro delle

differenze tra USA e Europa. L’altro aspetto riguarda ciò che lo Stato restituisce in cambio delle

tasse: molto meno in USA rispetto all’Europa. In ogni campo gli Stati Uniti sono meno

generosi: dall’istruzione all’assistenza sanitaria, ai sussidi di disoccupazione. E i ricchi

beneficiano molto poco e sempre meno, dopo che lo Stato, ad esempio, ha ridotto gli investimenti nelle

università pubbliche. Il vantaggio del sistema americano, se sei ricco, è che paghi molto meno in tasse.

Non solo: il sistema basse tasse/basso welfare è così distorto che un miliardario paga in

proporzione molto meno in tasse rispetto ai lavoratori con basso reddito, così avviene che i

poveri sussidiano i ricchi. All’inverso, in Scandinavia le tasse sono alte ma – di ritorno – i ricchi

ricevono, gratis o a costo minimo – un pacchetto di benefici di alta qualità: dall’assistenza sanitaria alla

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cura dei bambini, dall’assistenza sociale all’educazione universitaria. C’è un chiaro trade-off : tu paghi le

tasse ma ottieni molto in cambio (oltre a vivere in una società più armoniosa e sicura).

Così per coloro che vogliono distruggere il modello europeo di welfare, la strutturale

debolezza del welfare americano offre un modello attraente. Primo: creare un ben

identificabile gruppo di poveri “non meritevoli”. Secondo: creare un sistema in cui i ricchi

ricevono pochi benefici in cambio dei tributi che pagano. Terzo: diminuire l’influenza dei

sindacati, rappresentandoli come difensori di interessi ristretti e egoistici, dimenticando che

storicamente alti tassi di adesione ai sindacati hanno prodotto benefici per l’intera

popolazione.  Infine, come fece Reagan quando tagliò il welfare negli anni 80, agire in modo

da attirare meno attenzione possibile, mettendo in atto politiche le cui implicazioni sono poco

chiare e i cui effetti si vedranno solo nel futuro. Tutte queste strategie possono essere

osservate nella Gran Bretagna di oggi.

Welfare = assistenzialismo verso gli scroungers

La stampa inglese, gran parte in mano di editori ricchissimi, è in prima linea nel sostenere il primo

approccio. Ogni giorno riempie pagine e pagine di casi di persone che spremono in maniera

ingiustificata il sistema (“people milking the system”) e lo fanno in maniera costante e sistematica con

l’obiettivo di creare una nuova forma di associazione di parole: “welfare” = “scroungers”

(“scrocconi”). Essi accettano che ci sia un gruppo di poveri “meritevoli”, la cui condizione deriva da una

“genuina” sfortuna, ma quando questi gruppi appaiono nelle loro pagine è per denunciare che essi sono

stati abbandonati dallo Stato, che invece concentra i suoi sforzi a favore dei poveri “non meritevoli”. Una

crescente massa di ricerche dimostra che questa continua dieta di odio riesce a fare la

differenza. Provocare disgusto nei confronti dei poveri “non meritevoli” non è nuovo. Ciò che sta

cambiando in Gran Bretagna è la progressiva esclusione delle classi medie dal welfare attraverso la

progressiva erosione dei benefici universali.  La logica è attraente, ma estremamente divisiva: perché lo

Stato dovrebbe pagare per coloro che si possono permettere di pagare da sè? Perché operai e impiegati

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(“ordinary working people”) dovrebbero pagare per benefici goduti dalla classe media? La crisi economica

ha offerto al governo l’opportunità che capita una sola volta nella vita. Come Naomi Klein ha descritto

in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una

buona crisi. Il deficit deve essere ridotto e così, uno a uno, i benefici vengono rimossi e i gruppi vengono

messi l’uno contro l’altro e alla fine l’interesse della classe media per il welfare svanisce.

Il quadro è estremamente preoccupante anche in Italia. Per quanto riguarda la sanità, le recenti

manovre hanno previsto tagli ai fondi per il Servizio Sanitario Nazionale che arriverebbero a

raggiungere nel 2014 un valore pari a circa mezzo punto di Pil (poco meno di 8 miliardi di euro, su

un Pil che purtroppo cresce molto lentamente). Ai tagli nel settore sanitario, si aggiunge il quasi

totale azzeramento dei fondi statali per gli interventi sociali che nel 2013 saranno pari a circa

un decimo di quelli stanziati nel 2008. Più in generale, la riduzione delle entrate delle Regioni e degli

Enti locali rende impraticabile qualunque intervento da parte dei livelli decentrati di governo.

L’effetto complessivo di tali pesanti restrizioni non potrà che gravare sulle persone più

fragili. A questo si aggiunge il rischio di una progressiva demotivazione degli operatori, del

sociale e del sanitario, sui quali ricadono condizioni di lavoro sempre più pesanti e la

“responsabilità” di negare i servizi alle persone. 

Campagne stampa contro i falsi invalidi

La crisi NON può diventare comunque la giustificazione di un rovesciamento dei principi. I

segnali di “assalto” all’universalismo non mancano neanche in Italia. Il tentativo di sostituire le

politiche sociali con la beneficienza, l’introduzione di un superticket che rende più conveniente

rivolgersi alla sanità privata piuttosto che alle strutture pubbliche, la previsione di un ulteriore forte

aumento dei ticket (2 miliardi dal 2014, un onere per gli assistiti quasi doppio rispetto all’attuale), le

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ipotesi di abolizione delle esenzioni per patologie alle classi medio-alte (con la conseguente

riduzione dei benefici loro garantiti al momento del bisogno, nonostante il prelievo fiscale che

sopportano), le campagne contro i falsi invalidi e i falsi poveri (sulla base di pochi casi, biasimevoli

ma che continuano ad essere una eccezione), la distrazione dei fondi per gli investimenti in

sanità (riallocati a favore di altre finalità, mentre gli ospedali sono sempre più obsoleti),  la continua

proroga dell’intramoenia allargata (una diffusa e odiosa pratica selettiva), l’espansione delle

forme integrative di assistenza (che si avvantaggiano delle agevolazioni fiscali), non sono che alcuni

esempi della tendenza a favorire da un lato il depauperamento del sistema universalistico e dall’altro lo

sviluppo di forme alternative di tutela.

Eppure, nonostante la pesante crisi economica e il conseguente sensibile aumento del

rapporto spesa/Pil, in Italia la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) è ancora nettamente

inferiore a quella dei paesi con livello di sviluppo simile al nostro: 9,5% del Pil nel 2009 (11,8% in

Francia, 11,6% in Germania, 10% in Svezia, 9,8% nel Regno Unito). Anche la spesa sanitaria pubblica si

assesta su livelli inferiori rispetto sia a quelli dei paesi con sistemi di sicurezza sociale (per lo più di tipo

categoriale, come Francia, Germania, Austria) sia a quelli dei paesi scandinavi con sistemi universalistici.

Anche le stime delle morti evitabili attraverso interventi sanitari tempestivi e appropriati (Oecd 2010)

vedono l’Italia fra i paesi più avanzati: su 27 paesi, il nostro occupa il terzo posto (dopo Francia e

Islanda) per il minor numero di morti evitabili. E ciò nonostante il basso tasso di ospedalizzazione (il 24%

in meno della media europea) e la bassa spesa sanitaria pubblica.

 3. Dopo il Welfare, Nonprofit, volontariato e solidarietà

Il terzo settore, così

chiamato per la sua collocazione tra stato e mercato (non profit, volontariato, solidarietà), assume un

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particolare significato se inquadrato nello scenario della crisi dello Stato sociale e delle sue politiche

assistenziali. La proliferazione di iniziative benefiche e filantropiche degli anni ’90 è stata, infatti, la

risposta alla crisi del Welfare, una crisi di risorse, ma anche ideale e organizzativa, che si è

legata alle crescenti difficoltà di raccolta fiscale degli stati nazione (si vedano le

voci globalizzazione e fiscalità di vantaggio).

Retrospettiva del Corriere della Sera sulla storica inchiesta

Il disimpegno dell’iniziativa statale è stato infatti accompagnato da critiche all’efficienza e

all’efficacia degli interventi e da scandali che evidenziavano come le politiche di Welfare fossero intessute

di malversazioni. Lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio, aprì non a caso la stagione di Mani

pulite a Milano nel 1992, poi sfociata in Tangentopoli; un’epoca che si è chiusa idealmente

con lo scandalo delle esternalizzazioni a cooperative non meno costose per l’erario o più

affidabili dal punto di vista della trasparenza degli appalti, come ha mostrato Mafia

capitale nella quale gli affari della cooperativa Buzzi edificavano un vero mondo-di-mezzotra

politica (dall’estrema destra dei NAR all’amministrazione capitolina di centro-sinistra) mondo

imprenditoriale e mafie.

Dai primi anni ’90 ad oggi, il mercato sociale e l’aziendalizzazione dei servizi pubblici si sono sostituiti

significativamente alle tradizionali politiche di Welfare.Ciò che accomuna queste proposte di

liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi, è l’accento posto sulla

«tendenziale sostituzione del welfare state, che presuppone mediazione amministrativa e responsabilità

pubblica nella riproduzione sociale – ha osservato Ota del Leonardis in un’indagine sociologica del 1998

– , con relazioni di scambio tra domanda e offerta di beni ‘sociali’, che presuppongono invece capacità di

autoregolazione della società».

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Mafia Capitale

Di fronte alla crisi fiscale, ideale e organizzativa dello stato sociale si è risposto, insomma,

con la fiducia assoluta nell’autorganizzazione della società tramite le energie del libero

mercato.

Separate dalla cornice politica – che ha nel patto costituzionale la sua fonte – le misure assistenziali

hanno finito per naturalizzare il disagio sociale e la povertà [temine che ha smesso di fare scandalo

ed è stato riammesso nei dibattiti pubblici] che ben si conciliano con la priorità assegnata ai criteri

economici e con la passività nei confronti dell’insostenibilità sociale dell’economia. L’insistenza sulle

capacità autorganizzative della società (la welfare society) tradisce infatti un ritorno delle

«culture del privatismo», in cui anche per quanto attiene alle questioni di cittadinanza si fa

appello a motivazioni appartenenti alla sfera privata (gli interessi personali, i valori morali) e

in cui la solidarietà stessa può  diventare «il sostituto

privatistico della corresponsabilità verso la cosa pubblica» [O. De Leonardis, In un diverso

Welfare. Sogni e incubi, Milano, 1998, p. 19], in cui non mancano, anche nei casi di corretta gestione,

ambiguità significative circa la presunta assenza di profitto di associazioni che si comportano in tutto

come imprese, promuovendo il proprio brand sui media e assumendo personale per assicurare la

continuità organizzativa delle iniziative. Un caso specifico è rappresentato dalle cooperative

sociali che occupano lavoratori retribuiti (con contratti di solito particolarmente

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svantaggiosi) insieme a volontari, per un giro d’affari stimato nel 2005 a oltre sei miliardi euro [fonte

Wikipedia].

Mentre si prepara un riordino normativo che si prefigge di ampliare la sfera d’azione del terzo settore,

emergono iniziative di segno contrario, concentrate in un dibattito a più voci sul reddito di

cittadinanza (Basic Income).

http://gabriellagiudici.it/welfare-state-origini-e-declino/

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