Costruttori di cerchi. Psicologia possibile per una scuola felice

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Racconta l’esperienza diretta di collaborazione con la scuola, in special modo negli istituti medi superiori dell’Emilia Romagna, con particolare riferimento alla provincia di Reggio Emilia. Vengono descritti i progetti concreti realizzati nell’ultimo decennio guardando, con un tono volutamente leggero, ai punti di forza e agli aspetti ancora da mettere a punto. Sportelli di ascolto, peer education, interventi di prevenzione, formazione per docenti... sono i pezzi di un puzzle di un approccio integrato al lavoro di promozione del benessere a scuola e per la scuola. Questa carrellata diviene quindi un’occasione per fare il punto sullo stato di salute della scuola e degli operatori che con essa si interfacciano per rilanciare una visione nella quale tale collaborazione possa essere maggiormente soddisfacente e sensata per entrambi.

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Ricerche e Contributi in Psicologia

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Massimiliano Anzivino

Costruttori di cerchiPsicologia possibile per una scuola felice

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037445

© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconli-ne® Srl)

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[Per riformare il sistema scolastico]

si può procedere in un modo “naturale” o in un modo “miracoloso”. […]

Il modo naturale è che sette angeli scendano dal paradiso e ci guidino nel processo. […]

Il modo miracoloso è che lo facciamo da soli.

Norm Green (Torino, 2004)1

1 Convegno Cooperative Learning. Esperienze e nuovi scenari, Torino 12 gennaio 2004. intervento di Norm Green, Niagara University: The benefi ts and challenge of cooperative lear-ning: international perspectives

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INDICE

Nota beneNon solo carta

Parte Prima: la meta fi nale

La forza del cerchioDal disastro al desiderioGiardinieri

Parte Seconda: appunti di viaggio

Antidoti Sportellate di ascoltoProgetti accogli(s)enzaMaleducati alla salutePirl educationCirco timePsicologo al quadratoInsieme si imparaSerate deserte con i genitoriIl divulgatore letterarioDecalogo per l’operatore, decalogo per la scuola

Parte Terza: voglia di partire

Normalmente anomaliIl tempo che non c’è?Lo spazio che non c’è?

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Il denaro che non c’è?Emergenza, emergenzaIl momento del caosReset

Cartoline fi nali

Progetti impossibiliProve di maturità

Bibliografi a

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NOTA BENE

Non solo carta

In questi anni mi sono occupato molto di scuola. La curiosità e l’interesse che mi hanno sostenuto derivano probabilmente dalla portata dell’argomento dal quale tutti, ex-studenti per forza, sia-mo toccati nella nostra storia personale. Tale dedizione è nata a maggior ragione dal bisogno di capire meglio questo mondo nel momento in cui, ai margini degli anni 2000, sono stato chiamato ad averci a che fare nel lavoro2.

Collaborare con la scuola è un’esperienza che rapidamen-te mette di fronte ad un bivio: convivere con la confusione o cercare una strada più salutare. In entrambi i casi non esistono ancora soluzioni defi nitive ma ciò non ci scoraggia certo dal tro-varne quantomeno di provvisorie. Ricordo un insegnante che in un pomeriggio di fi ne maggio davanti alla macchinetta del caffè continuava a dirmi come in stato di trance: come possiamo anda-re avanti così? Non possiamo andare avanti così! Decisamente no: abbiamo tutti molta voglia di una scuola più bella, decifrabile, motivante, in una parola di una scuola felice.

Ho quindi cercato le esperienze di chi ha intravisto alcune vie

2 La mia esperienza lavorativa ha attraversato tutti i livelli di istruzione. In questo te-sto l’attenzione sarà rivolta soprattutto alle scuole medie superiori dell’Emilia Romagna dove ho ricoperto il ruolo di psicologo scolastico e di consulente per i progetti di educazione alla salute.

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di uscita da questa impasse con buone pratiche da socializzare, con storie che danno ossigeno, forza, speranza. Non è stata una ricerca facile perché spesso i racconti dal taglio accademico non sono in grado di entrare nel quotidiano, nel vivo della questione. Al contrario quando ho potuto attingere dal lavoro di chi era riu-scito ad integrare pensiero e pratica e a tradurre in un linguaggio concreto i propri sforzi, ho colto una ricchezza e una forza che ad ogni nuova lettura, ancora oggi, continuano a rinnovarsi. Ci sono tante proposte a disposizione e questo è segno che che ci si interroga molto sulla scuola. Attenzione però a divenire solo ossessivi accumulatori di carta, presi dall’ansia di stare al passo con le infi nite novità, con le ormai settimanali proposte di conve-gni e aggiornamenti vari, con le librerie casalinghe che catturano polvere più che ispirazione.

Prima di rimettere in fi la i pezzi delle mie esperienze, mi sono innanzitutto domandato quale libro avrei desiderato leggere sulla scuola, quali sarebbero state le caratteristiche che mi avrebbero reso contento del risultato fi nale. Ho così immaginato pagine ca-paci di andare oltre i tecnicismi, ho desiderato e preferito offrire qualcosa di personale e di comunicare l’umano che sta dietro le parole.

Il testo è stato pensato come un déjà vu, una storia all’interno della quale si possano ritrovare le persone che si occupano o si sono occupate di scuola, come un ritorno a qualcosa di noto, di familiare. Una specie di specchio dove rivedersi, riconoscersi, ri-derci su. Vorrei che le pagine fossero in grado di offrire una chia-ve di lettura del lavoro sul sistema scuola, non solo scorci di un particolare. La penso come una immagine che viene fuori unen-do i puntini, proprio come i giochi della settimana enigmistica, quelli che si fanno d’estate, quando ci si vuole rilassare. Questa immagine fi nale, per quanto viziata dalla mia decisione su quali puntini proporre e tralasciare, spero possa essere un supporto per comprendere i possibili motivi dei successi e delle normali e indi-spensabili diffi coltà incontrate; saper rivedere anche con tenerez-za le ingenuità ma anche le intuizioni che sempre accompagnano

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i progetti e le azioni umane. Da qui ripartire.Questo testo è stato certamente anche un esercizio di auto-

cura per ridefi nire il percorso fatto ed eventualmente rilanciarlo, una necessità profondamente personale, una lenta digestione, da consigliare a chi si sente ingolfato e proprio per questo desidero-so di dare uno slancio nuovo al proprio lavoro. Sono convinto che ci sia tanto ancora da fare e che il contributo di ognuno, come pezzi di un gigantesco puzzle, possa essere estremamente prezio-so. C’è bisogno di autenticità, di esperienze vere e dirette, pulite: ognuno può offrire la sua.

Dietro al progetto di questo libro c’è quindi il percorso che ha accompagnato la mia crescita e sopravvivenza professionale. Uso la parola sopravvivenza non a caso per indicare quanto sia diffi cile oggi stare e restare in contesti un po’ malandati che da un lato richiedono giorno dopo giorno di superare prove con-tinue, dall’altro ci stimolano instancabilmente a migliorare. Ri-percorro anche gli errori più banali e, mi consolo, più comuni. Li voglio davvero pensare come un errare, cercare, scoprire più che come qualcosa di cui vergognarsi. Propongo una chiave di lettura che possa permettere ad altri di limitare le stesse diffi coltà prima di comprenderne il senso e decifrare percorsi più effi ca-ci, rincuoranti, possibili. Oppure semplicemente, e penso sarà il caso più frequente, che aiutino ad interpretare quello che sta succedendo proprio mentre si è immersi nell’opera. Non ci sono precisi binari da seguire ma ogni volta si può affi nare la sensi-bilità per scegliere meglio, per seguire quantomeno un percorso più consapevole.

Si tratta certamente di un punto di vista parziale: ho vissuto la scuola con un ruolo ibrido di operatore esterno, uno psicologo scolastico libero professionista spesso in rete con i servizi pub-blici. Sono stato quindi una fi gura tutto sommato nuova e ancora non ben identifi cata che costruisce il rapporto con le istituzioni standone un po’ dentro e un po’ fuori. Sicuramente le stesse que-stioni sarebbero viste in modo differente da insegnanti, dirigenti, segretari o da operatori dei servizi, assistenti sociali, non solo per

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inevitabile deformazione professionale ma proprio per gli speci-fi ci punti di osservazione. Credo che il mio sia stato un punto di vista privilegiato e proprio questa posizione ibrida tra dentro e fuori, qualcuno direbbe di consulente socio-educativo3, mi ab-bia permesso di focalizzare aspetti che per chi è più immerso nell’identità della scuola o per chi ne sta lontano restano in modi diversi totalmente in ombra.

Il gap tra la teoria e la pratica è consistente, a maggior ragione in contesti come la scuola che alimentano una complessità di-spettosa e si fanno beffe di cosa dice la letteratura specializzata. Tale distanza si avverte soprattutto in momenti pionieristici e, nonostante sia più di un decennio che si parla e si pratica la psico-logia scolastica, i progetti sono ancora in alcuni casi allo stadio embrionale. Insomma non bisogna avere fretta.

Mi piacerebbe che questo libro rispecchiasse la defi nizione proposta da Francesco Erbani: “l’antitesi di una risposta secca”4. Anche se qui forse, più che la risposta, come direbbe un simpa-tico maestro zen, il problema sta nel defi nire la domanda. Molti si avvicinano al mondo della scuola, che già di per sé è carente di punti di riferimento, senza sapere dove vogliono andare, quali obiettivi si pongono, quali motivazioni li guidano e li sostengo-no. A volte semplicemente capita di lavorarci per gli infi niti casi della vita. Spesso si inguaiano perché non immaginano ciò che li attende e quindi la fase preparatoria rischia di essere fatta un pezzo alla volta dal vivo, nel bello (si fa per dire) della diretta. Il maestro zen naturalmente terrà per sé la domanda, aspettando che ci sforziamo di trovarla da soli. Io invece vi propongo subito la mia: che senso ha collaborare con la scuola? Domanda facile facile eppure si tratta di una delle questioni più eluse e relegate ai momenti di sfogo fra colleghi tra i morsi del panino in pausa pranzo. È normale nei bilanci periodici domandarsi se valga la

3 Spunto tratto dal testo Il consulente del lavoro socio-educativo di Luigi Regoliosi (2002)

4 Tratto da La cultura degli italiani a cura di Francesco Erbani (2004)

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pena di spendere consistenti energie in un campo che fa di tutto per convincerci del contrario. Non possiamo permetterci di lavo-rare per lavorare lasciando inevase le domande sul senso.

La scuola si presta fi n troppo facilmente al tiro al bersaglio: contraddittoria, irrigidita in burocrazie da azzeccagarbugli, in-trappolata nelle riforme e nel precariato, nelle austere logiche dei razionalizzatori della spesa, sotto i rifl ettori di un’opinione pub-blica che vede fannulloni dappertutto. Eppure, che lo vogliamo o meno, è ancora centrale quando ragioniamo del benessere della nostra società. Tutto il movimento di protesta degli ultimi anni è stato un segnale esplicito al riguardo: l’idea della scuo-la come bene comune è circolata nelle piazze e nelle strade con un livello di partecipazione altissimo. Parallelamente l’apprezza-mento per il tema dei beni comuni (simboleggiato ad esempio dai comitati per l’acqua pubblica) ha ripreso vigore e forse ci sono le condizioni per una nuova consapevolezza al riguardo, anche per la scuola. Ho conosciuto persone ingaggiate in questa lotta che trasmettono forza e fi ducia nel futuro. Non sono il solo ad essere convinto che la scuola rappresenti uno degli attori principali sul quale valga la pena di investire e investire tanto, non solo in termini di risorse ma anche in termini di speranze. Addirittura sono arrivato al punto da considerare ciò una necessità inderoga-bile visto che ogni discussione su argomenti di una certa portata stimola immediatamente in me un collegamento con una scuo-la rigenerata: che siano i confl itti bellici, che siano le notizie di cronaca, che sia la crisi della politica, stringi stringi dalla scuola può partire una risposta, forse l’unica realmente convincente. In questo sono sostenuto da posizioni raccolte tra fi losofi , economi-sti e società civile5. Bisogna partire da lì insomma per riavviare il motore.

Un’altra questione che vedo importante è capire in quale modo possano collaborare il mondo della scuola e quello dei professionisti che oggi, sempre più spesso, sono chiamati a inter-

5 Vedi ad esempio Umberto Galimberti, Luciano Gallino e Gherardo Colombo

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facciarsi, come un computer e una stampante quando ancora non esisteva il Plug and Play. Oggi infatti non basta metaforicamente inserire cavo o chiavette senza programmi da istallare, ci sono invece noiose e impegnative procedure da seguire, quantomeno bisogna accogliere il fatto che serva del tempo, che il tutto e subi-to non abita da queste parti. Del resto si tratta di un cambiamento storico di prospettiva e non di un semplice incontro occasionale (o almeno questa è la grande occasione per realizzare la prima possibilità e sfuggire alla seconda).

Uso la categoria della psicologia rappresentando con questa (in modo consapevolmente un po’ forzato) anche altre fi gure che oggi si affacciano sul palcoscenico scolastico. Forse oggi, più che una singola categoria professionale, possiamo parlare di una sorta di competenza psicologica che accomuna i diversi pro-fessionisti, siano essi educatori, consulenti, formatori, psicologi, medici, assistenti sociali, ginecologi per citare solo quelli con cui ho avuto occasione di collaborare a scuola. Naturalmente la mia formazione ha la sua infl uenza sugli elementi che considero la base del lavoro dei diversi profi li professionali. Del resto è da un po’ di tempo che si sente dire che tutte queste fi gure professionali (insegnanti compresi) dovrebbero essere anche un po’ psicolo-gi. Bisognerebbe poi chiarirsi sul signifi cato di questa parola che non signifi ca solo fare psicoterapia ad ogni piè sospinto come molti ancora intendono.

Questo mondo “confuso” che tento di descrivere chiede una forma di resistenza attiva: non è solo una questione di forza di volontà, ma una continua trasformazione mentale, un esercizio che permetta ogni volta di porre il caos nei giusti cassetti offren-do la visuale sulle connessioni che sfuggono e restano in ombra. È il mobile mentale che mi sono costruito per mettere ordine. Non varrà per tutti, ma, a suo tempo, a me avrebbe fatto molto comodo.

Abbiamo bisogno di un grande sforzo per fare la differenza, abbiamo bisogno di dare spazio al pensare e alla nostra capaci-

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tà di creare, i due aspetti che più caratterizzano l’essere umano. Non è detto che sia solo una fatica, per certi versi può essere anche divertente.

Questo testo si divide in 3 parti. La prima tratteggia la visione fi nale, il punto di arrivo ideale

(a volte perfi no realizzabile!) del lavoro che propongo alle scuole. La seconda parla degli strumenti e del modo con il quale ho

percorso fi nora la strada verso la meta fi nale. La terza è la descrizione di dove siamo, della situazione at-

tuale che ha stimolato tutto il resto. In conclusione qualche buon auspicio per il futuro.Per chi si fi da, buona lettura.

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PARTE PRIMALA META FINALE

La forza del cerchio

Quando ho deciso il titolo di questo libro ho messo davve-ro a fuoco qual era il succo della questione. In diverse occasio-ni, lavorando a scuola6, ho lanciato la proposta: mettiamoci in cerchio! Proposta fatta, al di là delle implicazioni simboliche di parità e democrazia, che possono risultare a prima vista un po’ eccessive, solo perché così potevamo parlare guardandoci tutti in faccia. Un’ idea non così banale se ripenso alla bocca aperta di un insegnante, con il quale da anni collaboravo, quando ha realizza-to che il cerchio permetteva questa cosa. Ecco a cosa serve... a guardarsi in faccia...!

Un aspetto che potremmo defi nire banale anche nella logistica: un cambio di setting, a meno che gli ambienti abbiano disposi-zioni a gradinata o seggiole inchiodate al pavimento (e in alcune scuole ho trovato anche questo, state attenti!), richiede poco più di qualche minuto. Un aspetto scontato per chi ha vissuto contesti formativi o solo ne ha sentito parlare, dove la disposizione in cer-chio risulta praticamente ovvia. Per alcuni addirittura può risul-

6 Nelle mie collaborazioni con la scuola ho gestito come consulente psicologico progetti indirizzati a gruppi di studenti, insegnanti e genitori. Si tratta di incontri di carattere informativo, formativo oppure di costruzione partecipata dei progetti stessi.

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tare fastidioso avviare una comunicazione in gruppo con un’altra disposizione, una volta sperimentata la forza del cerchio. Molti insegnanti a distanza di anni mi confessano: ormai sono talmente abituata a metterci in cerchio che non riesco a lavorare in altro modo. Il Che tu sia maledetto che a volte percepisco in questa affermazione mi fa dubitare che si tratti di un esclusivo apprez-zamento! Perché il cerchio un po’ complica la vita, bisogna pur dirlo. Attenzione allo stesso tempo a idealizzarlo; per carità, a volte c’è bisogno anche di un bel lavoro frontale. Si tratta alla fi ne dei conti di strumenti, non di un credo religioso.

A scuola non è possibile, e neppure consigliabile, dare nulla, ma proprio nulla per scontato. Anche l’aspetto più innocuo na-sconde insidie e guai per i quali è bene tenersi pronti. Del resto quando si ha a che fare con persone (e la scuola prima di tutto è formata da persone, benché spesso ce ne dimentichiamo) bisogna vedersela con le insidie delle relazioni che Dante ha riassunto nel bellissimo cred’io ch’ei credette ch’io credesse7: insomma capir-si è complicato e il malinteso dietro l’angolo. State attenti anche e soprattutto a questo. E mettete in conto di sbagliare, comunque.

È comune incontrare interlocutori letteralmente incatenati ai banchi, resistenti nell’abbandonare la rassicurante disposizione tradizionale. Per questo è buona norma arrivare con largo anti-cipo sul luogo del prossimo delitto per farli sparire quei banchi e apparecchiare già la sorpresa delle sedie in cerchio. Ma (può capitare) ci sono aule corridoio dove costruire un cerchio divie-ne impossibile. In questi casi c’è poco da fare, se non chiede-re il soccorso della propria creatività. Poi intervengono i cam-biamenti organizzativi dell’ultimo minuto che il più delle volte mettono in crisi proprio lo spostamento di banchi e seggiole, e andare prima o dopo non fa alcuna differenza. Quando tutte que-ste resistenze vengono gestite, intervengono spesso i bidelli ad esporre il loro profondo malessere per lo spostamento di banchi e seggiole: comunicano che non sono assolutamente disponibili

7 Inferno, Canto XIII

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a riportare l’aula nelle condizioni di partenza al termine dell’in-tervento, mossi dal timore che la messa in cerchio equivalga ad una automatica creazione di disordine e caos. Anche perché, e su questo possiamo dargli ragione, la messa in cerchio a volte, con il contributo essenziale degli studenti, mette a nudo condizioni igieniche degli ambienti non proprio eccezionali. Nel centro della stanza va dato atto ai banchi di riuscire abilmente in alcuni casi a nascondere delle piccole capitali della munnezza. Non so cosa ne possa pensare uno psicanalista, ma questa storia dei banchi e del-le seggiole mi pare molto interessante. Come se un cambiamento a livello fi sico mettesse a repentaglio qualcosa di molto più deli-cato e profondo? Oppure semplicemente è solo una questione di disordine...

Più volte mi sono ritrovato in aule frontali a ingegnarmi per smontare fi sicamente il setting, spostare e trasportare banchi e seggiole per creare questo tanto agognato cerchio. Un lavoro simbolico di fatica, di rielaborazione fi sica dell’ambiente che non viene mai dato una volta per tutte e che, cerchio dopo cerchio, costituisce un aspetto fondamentale del lavoro a scuola. Cerchio dopo cerchio crea una cultura della comunicazione di cui c’è un gran bisogno. La scuola purtroppo stenta proprio in termini di comunicazione, quella che gira nella metafora delle onnipresenti “circolari”, quei documenti informativi che circolano, circolano e circolano senza riuscire a raggiungere nessuno. Mai. Per quanti sforzi si possano fare.

Dare corso a questa trasformazione è un passaggio tutt’altro che semplice o automatico: un gruppo di insegnanti motivati a starsene dietro al banco sa essere un ottimo deterrente a qualsiasi iniziativa diversa dal solito. Così come gli sguardi di terrore di genitori venuti per ascoltare l’esperto e improvvisamente cata-pultati nel disagio iniziale del cerchio, mettono alla prova le pro-prie certezze metodologiche. Negli anni, oltre ai resistenti di cui abbiamo detto, si sono create due categorie di reazioni alla propo-sta del cerchio. Se da un lato molti si sono ammorbiditi e hanno cominciato a considerarla una condizione che facilita il lavoro,

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per altri si è creata, al contrario, una sorta di insofferenza, come quando si propone qualcosa di estremamente superato e fuori moda, che oggi proprio non ci sta. Che so, come il mangianastri per cassette o i pantaloni a zampa di elefante. Anche qui bisogna avere le spalle forti per restare fedeli alla linea e non abdicare alle proprie convinzioni. Cerchio ho detto e cerchio sia!

Ad alcuni potrà sembrare una camicia di forza ma questa pro-posta del cerchio non è assolutamente la fi ssazione di un momen-to: sotto sotto le motivazioni teoriche ci sono tutte, sia chiaro! È che questa cosa lavora su degli aspetti un po’ delicati. Le resi-stenze vanno ascoltate ma, da questo punto di vista, non sempre è bene assecondarle.

In questa ricerca, circolare in tutti i sensi e fatta un passo per volta, si è andata confermando una convinzione di base: l’impor-tanza del lavoro sulla relazione. Ciò signifi ca dare valore alla persona e costruire gruppi e comunità sane partendo proprio da questi piccoli cerchi. Cerchi simbolo di una lotta contro la cor-rente che distrugge la relazione, distrugge i gruppi e le comunità in nome di altri valori, forse meno nobili, ma sempre più al centro della nostra vita, primo tra tutti l’individualismo condensato nel noto motto pubblicitario di un gestore telefonico: tutto intorno a te!

Ho usato il termine costruttori (di cerchi) al plurale non a caso. Per quanto la maggior parte delle volte ci si trovi confron-tati personalmente con le proprie decisioni e capacità, il lavoro come operatore nella scuola non permette di isolarsi, di lanciar-si nella mischia contando esclusivamente sulle proprie forze. Per tanti il risultato è stato l’inevitabile schianto, il burn-out, l’indu-rimento, la delusione, la disillusione se non proprio l’abbandono della speranza di portare anche un minimo contributo a questa istituzione. La scuola è un osso duro e tante volte viene voglia di gettare la spugna di fronte alla rigidità dell’istituzione totale8.

8 Termine utilizzato da Goff man per indicare luoghi in cui persone risiedono e convi-vono per un signifi cativo periodo di tempo. Il riferimento che ne fa l’autore è a luoghi diversi dalla scuola (come prigioni e manicomi) e viene utilizzato nel contesto di questo libro a scopo

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Ho perso il conto delle occasioni in cui quella spugna me la sono rigirata tra le mani, l’ho lanciata, ripresa, strizzata e maledet-ta, come l’allenatore a bordo ring che vede il suo pugile in balia dell’avversario ma resiste fi ducioso. È un lavoro fatto di scambi, collaborazioni, discussioni, confronti che permettono la nascita di idee, procedure più o meno collaudate e barzellette per tenere alto lo spirito e l’umore. Il valore della condivisione e la creazio-ne di spazi di scambio sono la linfa vitale per poter restare in pie-di contro i sistemi. Questo vale non solo per psicologi, ma anche per tutti quegli operatori che fanno capo a professioni diverse, delle quali poco si conosce, tra le quali inutilmente si spendono competizioni e incomprensioni. Ciò che sviluppo in questo libro può essere generalizzabile a tutte queste categorie proprio perché tocca gli aspetti trasversali del lavoro relazionale all’interno della scuola che davvero non ha colore o partito professionale. Siamo in tanti ad attraversare i corridoi della scuola e per forza abbiamo a che fare con un lavoro congiunto e multidisciplinare, che lo vogliamo oppure no, che venga accolto dalla scuola oppure no. Alcune questioni che verranno toccate riguardano nello specifi co solo le magagne del mondo della psicologia, nelle sue peculiarità, nelle sue eccezionali ed inevitabili contraddizioni, ma solo per ragioni di folklore essendone io un rappresentante!

Nell’immagine dei costruttori di cerchi vedo anche l’idea at-tiva di chi si adopera per promuovere un cambiamento cercando di dare ad esso una forma e una direzione. Vedo la consistenza dell’opera che può essere lenta, ma, forse proprio per questa ra-gione, estremamente effi cace. Vedo cerchi che, dal fi sico delle di-sposizioni delle seggiole, si trasformano in un concetto molto più ampio che abbraccia il senso stesso della scuola e della vita. I co-struttori di cerchi rimandano a un’immagine antica, di un lavoro quasi magico e rituale che ha a che fare con l’origine dell’uomo, con l’idea della condivisione, dello stare insieme, di ritrovare il valore della persona e della comunità. Ricordano il raduno serale

provocatorio per enfatizzare la rigidità legata ai contesti istituzionali.

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intorno al fuoco per raccontare, raccontarsi e preparare domani. Lo sguardo spazierà nel testo da un lato all’altro della barrica-

ta simbolica rappresentata da quei banchi che con fatica si pos-sono spostare per aprire una nuova visuale. Una barricata spesso costituita dai ruoli e dalle reciproche etichette che rendono il con-fronto tanto farraginoso, forse perché tutte queste barriere non ci permettono di far sentire la nostra voce o di ascoltare quella dell’altro. Mi ricorda tanto il lavoro lento e graduale di addo-mesticamento della volpe e del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry9.

Il rumore stridente dei banchi e delle seggiole trascinate, spo-state, accatastate alle pareti, riaggiustate a comporre il cerchio fi nale, rappresenta ormai per me il segnale dell’avvio della tra-sformazione: c’è bisogno di un po’ di caos per cambiare le cose. I presidi a volte non sono della stessa opinione, specie se il loro uffi cio si trova esattamente al piano di sotto!

Ma tant’è, a volte bisogna rischiare qualcosa.

Dal disastro al desiderio

Nel 2004 a Torino10 il Professor Norm Green descriveva così la scuola canadese nella quale lavorava:

“[…] eravamo carenti sotto diversi aspetti: ci mancava vi-sione, avevamo una leadership debole e un insegnamento non soddisfacente. Non riuscivamo a gestire il cambiamento, non or-ganizzavamo il curriculum in un modo effi cace. Avevamo poche risorse fi nanziarie, che ogni anno ci sembravano diminuire, e non avevamo partnership con il nostro territorio. Mancava nello staff il senso di responsabilità, non era chiaro il focus delle atti-vità, gli insegnanti si sentivano isolati e demotivati.

9 “Che cosa vuol dire addomesticare?” “È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami...”

10 Convegno Cooperative Learning. Esperienze e nuovi scenari. Torino, 12 gennaio 2004.

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In realtà la situazione era anche peggiore. […] Stavamo vi-vendo una crisi culturale: le persone non erano più interessate ai musei, alla musica classica e alle altre forme della vita culturale. Era in corso anche una crisi politica: gli studenti partecipava-no sempre meno ai processi democratici. Le scuole cercavano di contrastare la dispersione, ma perdevano comunque studen-ti che diventavano dipendenti dal sistema di assistenza sociale. Cosa dovevamo fare?

Molti docenti, nonostante tutte queste diffi coltà, si oppone-vano al cambiamento e, in particolare, a modifi care il proprio approccio all’insegnamento. Gli insegnanti avevano proposte valide ma si sentivano marionette, manipolate dal Ministero, per realizzare un curriculum in cui non credevano. Sentivamo che, sotto molti aspetti, ci mancavano le competenze per realizzare quanto ci veniva richiesto. Ci sentivamo disperati, come se aves-simo dato la nostra ultima goccia di sangue al sistema di istru-zione e ci chiedevamo come avremmo potuto proseguire”11.

Uno scenario decisamente simile al nostro, con tanti punti di contatto nonostante la distanza fi sica e culturale esistente tra Ca-nada e Italia. Di queste descrizioni ne esistono parecchie, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda. Molti addetti ai lavori si ri-troveranno in queste frasi pensando è proprio così, sono le stesse identiche cose che viviamo anche noi.

Eppure se ci troviamo tutti più o meno d’accordo su cos’è che non funziona nella scuola siamo invece molto in diffi coltà nel descrivere la scuola dei nostri desideri. Forse perché non abbia-mo esperienza diretta di modelli diversi, forse perché fatichia-mo anche solo a concepire qualcosa di alternativo a ciò che noi stessi abbiamo vissuto, forse perché non ce lo siamo mai chiesti, ma l’immagine che ne viene eventualmente fuori è spesso poco concreta, un po’ bacchettona, estremamente antipatica per chi a scuola ci lavora.

11 Norm Green, 2004. Torino, Convegno Cooperative Learning. Esperienze e nuovi scena-ri. Presentazione di sollecitazioni e quadro generale di riferimento: the benefi ts and challenge of cooperative learning: international perspectives.

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Se domani un preside mi accordasse carta bianca per trasfor-mare la sua scuola avrei un sacco di idee (e di stupore), ma a dirla tutta non so se sarei in grado di raggiungere quel modello che ho in testa. Quindi prima di proporlo ci tengo a dire alcune cose:

1. che la sfi da è grande. Chi fi no ad oggi ha messo le mani sulla scuola non può essere additato come un incapace o un fannullone. Proprio quando le sfi de sono di questa por-tata ci si espone a derive inconsapevoli e imprevedibili e a scontrarsi con un sistema restio ai cambiamenti radicali.

2. che nessuno ha in mano il vademecum, nessun manuale tascabile ma solo parti di un testo unico che presenta an-cora parecchie lacune. Lavori in corso quindi.

3. che la soluzione richiede di mettere in moto le energie di tanti, come persone, come ruoli, come professionali-tà, come sistemi. Purtroppo non si può fare affi damento a guru o profeti, fi nora nessuno si è rivelato tale. É molto improbabile che ciò avvenga in futuro.

Detto questo, voglio tenere in vista l’immagine della scuola che vorrei, non tanto per il gusto di fantasticare ma per eserci-tarmi a vedere i punti su cui impegnarmi, per non farmi bloccare dalle resistenze della realtà, per abituarmi ad avere uno sguardo più ampio e più preciso. Ho la sensazione che oggi ci manchi questo sguardo lungo e che lavoriamo a testa bassa in attesa del prossimo stacco per riprendere fi ato. Guardare nei nostri desideri ci aiuta a riprendere possesso delle nostre azioni, a ridargli quel senso che ho detto essere il fulcro della domanda sulla scuola, quel senso che ci serve per rimanere umani, centrati, pieni.

Nella mia visione c’è una scuola di formazione della per-sona, che permetta lo sviluppo di capacità trasversali che poco hanno a che vedere con una singola professione. Oggi possiamo davvero ancora credere che faremo uno stesso lavoro per tutta la vita? o che quello che studiamo oggi valga nei prossimi dieci o cinque anni?

Vedo piuttosto una scuola capace di offrire competenze di tipo emotivo e relazionale come i più incalliti lettori di Gole-

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man12 sostengono da anni. E fi nalmente fi nirla con il primato dell’intelligenza verbale e matematica, come se tutto si fermasse lì. C’è dell’altro ed è altrettanto se non più importante: in questa visione la scuola ne prende fi nalmente atto ed è capace di andare oltre quelle frasi che ho più volte ascoltato in alcuni istituti di alto profi lo: lasciate amici, hobby e attività sportive perché qui non avrete il tempo di fare altro che studiare!

Poi competenze legate alla percezione del bene comune e allo sviluppo della propria comunità, perché le sfi de che si av-vicinano richiederanno questo sopra ogni cosa. Richiederanno la capacità di incontrare altre persone, discutere, criticare, me-diare, trovare soluzioni, arricchire i rapporti di una storia fatta anche di disaccordi. Richiederà di pensare ad economie del noi13 e non solo a pensieri in prima persona. Ma per parlare al plurale bisogna sapere come si fa: la scuola che immagino avrà questo concetto ben chiaro. Avrà una struttura e un’organizzazione pen-sate per stimolare l’incontro, la discussione, l’aiuto reciproco. Si potrà paradossalmente anche copiare perché non sarà in gioco la valutazione di chi ha studiato e chi no. Non sarà quello il punto, quanto la capacità di collaborare, di trovare nuove soluzioni, di arricchire un gruppo che ha affrontato un problema: non è forse questo che da adulti ci viene chiesto di fare tutti i giorni?

Ci saranno lezioni tra classi diverse, lezioni aperte, laboratori per fare esperienza non di luoghi fi ttizi ma della realtà. Ci sa-ranno insegnanti entusiasti, stanchi certo perché insegnare è un lavoro impegnativo ma con tutto un altro tipo di stanchezza che una buona notte di sonno sa rigenerare. Dirigenti che escono dal proprio uffi cio, che trovano il modo di dare alla burocrazia uno spazio, non tutto lo spazio, che possano parlare con gli studenti, che possano conoscerli, insegnargli qualcosa della vita e della propria saggezza.

12 Daniel Goleman, ricercatore americano noto per i suoi studi sull’Intelligenza Emoti-va

13 L’economia del noi. L’Italia che condivide di Carlini Roberta (2011).

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La salute verrà prima di ogni cosa, perché non ha senso im-parare tutto quello che c’è nel libro e poi conoscere poco su come si fa a vivere. In tutti i documenti uffi ciali al primo punto ci sarà il benessere delle persone, non solo degli studenti. Sarà normale aspettarsi che un adolescente metta in crisi l’adulto, gli si oppon-ga, lo metta in discussione perché l’adolescente è programmato per questo. Quindi una scuola che pone al centro la persona e che intorno a questo concetto costruisce le sue impalcature essenzia-li. Dove viene dato valore e rispetto alle relazioni umane. Dove è possibile sostenere questi aspetti con risorse economiche e stru-menti effi caci non attendendo inutilmente che cadano dal cielo, ma attivandosi in prima persona perché ciò avvenga. Una scuola che sia luogo di crescita culturale e non nozionismo sterile, dove si possa parlare di questioni legate al quotidiano, alla sessualità, alla gestione del denaro, allo stile di vita. Dove si possa impa-rare a pensare in modo libero e autonomo e non a rispondere in modo automatico, codifi cato, da manuale. Dove un po’ di confu-sione faccia parte del gioco e dell’interazione appassionata. Dove sia possibile diventare cittadini di un mondo nuovo. Una scuola aperta mattina, pomeriggio e sera per accogliere iniziative cul-turali, per essere luogo di scambio e di creazione di pensiero e cultura oltre che punto di riferimento di un quartiere. Un luogo in cui le competenze degli operatori esterni vengano usate per il meglio ovvero per quello che realmente possono dare e possano contribuire a fare un salto di qualità .

Penso ad una scuola in cui un ragazzo possa desiderare cre- scere evitando l’adolescenza a oltranza come la nostra società , con un sistema economico malato, spinge sempre più giovani ad accettare. Una scuola che apra al mondo nella sua complessità e nella possibilità di trasformarlo dando ognuno il suo contributo. Una scuola nella quale si possa pensare, stare in silenzio, con-frontarsi, essere in disaccordo in modo normale, in cui si possano esprimere le diversità e al contempo il rispetto reciproco, dove non sia necessario distruggere gli altri per stare bene con se stes-si. Dove si possa avere la fi ducia di trovare il proprio posto giusto.

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Un sogno?Ecco come Norm Green descrive la stessa scuola che abbiamo

visto sopra, 15 anni più tardi:“[…] eravamo diventati un Distretto che dimostrava interesse

per l’apprendimento e le possibilità di vita dei propri studenti. Ci hanno detto che sapevamo gestire l’innovazione, il cambiamento e lo sviluppo; che sapevamo come valorizzare le competenze dei nostri insegnanti; che avevamo acquisito una leadership delle scuole innovativa; che riuscivamo a coinvolgere genitori, stu-denti e altri attori del sistema di istruzione nel nostro progresso e che avevamo raccolto dati oggettivi che certifi cavano la quali-tà dei nostri programmi”.

Solo le situazioni più diffi cili aiutano a trovare le motivazioni per darsi da fare. Per questo il quadro critico nel quale ci trovia-mo oggi assume un’altra valenza, paradossalmente positiva, per-ché ci obbliga a scavare dentro di noi per rintracciare quelle risor-se insospettate, inutilizzate. Inoltre il fatto che un cambiamento sia davvero possibile, partendo dagli esempi di altri rappresenta un forte incentivo a mettersi al lavoro. Perché questo passaggio non rimanga un sogno o un’utopia è essenziale capire che molte delle condizioni necessarie non dipendono dall’alto, dal Governo ma che sono in buona parte nelle nostre mani. Anzi proprio la possibilità di far partire un cambiamento dal basso costituisce il valore più grande in termini di responsabilità personali ed effi -cacia perché a sostenere il tutto non c’è una legge del ministro di turno ma una radicata e profonda convinzione umana:

“Non potevamo aspettare che il governo migliorasse il siste-ma o che altre persone ci dicessero cosa fare: dovevamo trovare la maniera di farlo per conto nostro. Dovevamo progredire da dove eravamo a dove volevamo arrivare. Io non volevo lavorare nel peggiore Distretto scolastico dell’Ontario e non volevo che i miei fi gli andassero a scuola nel peggiore Distretto scolasti-co dell’Ontario. Non volevo che nessuno dei miei studenti fos-se impreparato di fronte al futuro. Dovevamo superare diversi passaggi: facendolo abbiamo scoperto delle realtà stupefacenti

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attorno a noi. Abbiamo capito che il futuro non è un posto dove si sta andando, ma è qualcosa che stiamo creando e che i percorsi non devono essere trovati ma costruiti”.

Da chi dipende?Non credo che in questa scuola canadese un bel giorno si siano

guardati allo specchio per dirsi, dopo le celebrazioni, che basta-va così, che era stato fatto abbastanza, che quella era la scuola perfetta. Credo invece che ogni anno da quel 2004 in cui in Ita-lia siamo venuti a conoscenza di questa realtà, abbiano dovuto adoperarsi parecchio per tenere vivi quei traguardi. Non è un lavoro in cui si arriva ad un punto fi nale. Ci possono essere vitto-rie e successi ma sempre a condizione di guardare avanti perché la scuola è come il mondo che viviamo, veloce e imprendibile: questo è il bello.

La sfi da più grande e la più importante non sta nei contenuti, in quello che pensiamo di fare. Essi ci danno una linea, una dire-zione e una fondamentale concretezza certo, ma il punto centrale come dice Stefano Soldati14, propugnatore della rivoluzione edile delle case di paglia, sta nel “cambiare la testa delle persone”, nel dargli il coraggio, la consapevolezza e la forza per compiere il primo passo.

Giardinieri

Non so se la psicologia così come l’abbiamo intesa fi no ad oggi possa aiutare questo processo, possa facilitare questo pas-saggio epocale con diagnosi e terapie. Forse potrà essere utile nel momento in cui anch’essa avrà attraversato la sua transizione verso una forma professionale più agganciata alla vita. Prima di allora temo che l’incontro tra scuola e psicologia sarà poco utile a entrambi.

14 Stefano Soldati, architetto e docente all’Università di Firenze, in Italia si occupa del-la diff usione della tecnica costruttiva di case con balle di paglia

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Credo anche che il contributo della psicologia potrà essere fondamentale quando l’impatto del cambiamento sociale che stiamo attraversando15 sarà arrivato davvero, dopo anni di se-gnali e di attese. In parte ci sono stati interessanti laboratori di sperimentazione ma senza il bisogno impellente nessun processo ha la spinta suffi ciente per realizzarsi. Per ora queste perlustra-zioni ci hanno confermato sulla bontà delle proposte, che i sen-tieri tracciati sono buoni, permettono di respirare aria fresca e di guardare lontano. Non credo siamo molto lontani dall’ora X e mi piace pensare, come mi disse un collega, che sarà quello il mo-mento in cui certe competenze potranno fare la differenza, dove si potrà andare all’essenziale, saltando oltre i rallentamenti e gli ostacoli che riempiono oggi il quotidiano, senza girare intorno alle questioni per mantenere tutto in un inutile e fi nto equilibrio.

Essere operatori del sociale oggi richiede di connettersi stret-tamente con discorsi che esulano dal versante scolastico e ci confrontano con le contraddizioni del nostro modo di vivere. Dobbiamo connetterci con le questioni politiche, economiche, sociali, con i nostri comportamenti quotidiani, con il contribu-to che ognuno decide di dare anche nelle piccole cose di tutti i giorni, anche solo un buongiorno, un frase di cuore, il resistere dallo scaricare le proprie tensioni con il più debole della catena. Cercare una strada che possa essere percorribile per permettere alle persone con cui lavoriamo e soprattutto a noi stessi di vivere bene. Penso che il mondo della psicologia abbia questo compito, di farsi portavoce innanzitutto di tale esigenza, di costruire e dif-fondere per sé questa scoperta. Allora sì, potrà essere usata come uno strumento di salute coerente.

Come professionisti così come a livello di senso comune ab-biamo frainteso per lungo tempo quello che uno psicologo può fare. Abbiamo creduto prima che fosse un mago poi un meccani-

15 Molti autori hanno defi nito questo periodo storico come un momento di grande e drammatico cambiamento che richiede di ripensare profondamente tutti gli aspetti della nostra società a fronte di un proliferare di contraddizioni e di problemi che abbracciano fette sempre più ampie di popolazione. Vedi ad esempio le rifl essioni di Gino Mazzoli in bibliografi a.

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co, a volte lo abbiamo usato come un Messia o un capro espiato-rio. Abbiamo creduto soprattutto che il suo compito fosse esclusi-vamente quello di inserire parole e diagnosi su sintomi e disagio, questo disagio che ovunque si respira, quindi ovunque sorgono psicologi. Come professionisti non siamo riusciti a connetterci con quelle questioni che riguardano il funzionamento più ampio del nostro mondo. Abbiamo vincolato la nostra visuale ad aspetti parziali senza connetterci con un piano più largo, con uno sguar-do periferico, con l’obiettivo del grandangolo. Abbiamo consi-derato il disagio come un elemento da rimettere in ordine e non come la risposta normale di fronte al contesto in cui viviamo, primo generatore di disagio. Questo modo di intendere la psico-logia non mi convince perché mi sembra tenga in considerazione solo una parte dello scenario, mi sembra si dimentichi di tutta una serie di aspetti centrali per la salute. In che modo il disagio è dato dal cibo che mangiamo, dalle ore di sonno che ci conce-diamo, dalle modalità con cui sono costruite le scuole, le città, da come sono pensati (o non pensati) i luoghi di aggregazione, dalla cultura dominante che sta dietro la valanga di messaggi che rice-viamo tutti i giorni? In che modo il disagio è fi glio della ricerca di un modello economico insostenibile?

Ci sono delle connessioni talmente elementari che ci ingan-nano, sono diventate invisibili; tanto che non siamo in grado di vedere che un cambiamento nei distributori automatici di bibite e snack di una scuola potrebbe fare molto, a volte più di uno sportello di ascolto; che la costruzione di piccole esperienze di comunità intorno alla scuola potrebbero creare una rete superiore a quella dei servizi sociali e sanitari; che avere un giardino o un orto potrebbe essere lo strumento più potente per gestire alcune diffi coltà; che se un insegnante si illumina improvvisamente di fronte a un fi ore vuol dire che lì, nella bellezza, c’è una risposta.

L’essenziale è sfuggito al nostro orizzonte culturale. L’impor-tanza delle cose di base, degli aspetti più elementari che più ci mancano: un cibo sano, relazioni e comunità forti, il contatto con la natura.

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Può la scuola occuparsi di questo? Mi hanno detto: assolutamente no, non c’è tempo, non è il

nostro mandato, di questo se ne occuperà qualcun altro. Ma chi?La famiglia, il medico di base, il catechista, l’allenatore spesso

rispondono in modo molto simile o alzano le mani di fronte alla sfi da educativa rimandando ai mittenti la tentata delega.

Se tutti ci occupiamo d’altro, chi si farà carico dell’ovvio?

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