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I. Bioetica: etimologia e storia
La bioetica è una disciplina recente che si occupa delle questioni morali che sorgono
parallelamente al rapido progredire della ricerca biologica e medica. Ancor più
esattamente, la sua natura è multidisciplinare, potendo annoverare al proprio interno
aspetti relativi a varie materie, quali: biologia, medicina, filosofia, diritto, ed altre ancora.
Origini:
1. Bioetica e reazione al totalitarismo.
Due sono le tesi sull‟origine del concetto di Bioetica. La prima fa risalire la nascita delle
riflessioni in materia di bioetica – sebbene non alla terminologia - alla fine della seconda
guerra mondiale. La bioetica sarebbe una scienza – o comunque una riflessione razionale
sulla realtà – che fa seguito agli obbrobri posti in essere dai medici nazisti: dalle
sperimentazioni genetiche, all‟idea del miglioramento della razza. Il corpo dei pazienti era
trattato non soltanto a fini strumentali in nome del progresso scientifico, ma spesso per
finalità deliranti che di scientifico avevano ben poco.
La bioetica – in questa prima accezione – sarebbe la reazione alla medicina nazista:
sarebbe dunque la difesa dell‟umanità – e dei suoi valori più alti – di fronte alla cecità e al
cinismo, o al sadismo, della scienza e della politica.
2. Bioetica e progresso: anni „70: Secondo un‟altra tesi, la bioetica nasce intorno agli
anni ‟70 del secolo scorso. Il termine Bioetica – un neologismo di due termini di origine
greca, bios, vita e ethike etica – , viene usato per la prima volta in modo specifico e
significativo dall‟oncologo americano di origine olandese Van Rensselaer Potter
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nell‟articolo del 1970 intitolato: Bioethics: The Science of Survival (Bioetica: la scienza della
sopravvivenza). Potter esprime, col termine bioetica, una nuova forma di sapere in grado
di governare lo sviluppo della ricerca scientifica. Si legge nei testi di Potter che l‟umanità
ha bisogno urgentemente di una nuova saggezza che fornisca la conoscenza di come
utilizzare la conoscenza per la sopravvivenza dell‟uomo e per il miglioramento della
qualità della vita.
Si noti che già nella scelta delle origini della bioetica vi è implicita un‟opzione di valore.
Coloro che rintracciano l‟origine della bioetica nella reazione al nazismo enfatizzano un
aspetto: il valore (spesso ritenuto assoluto) della vita umana di fronte all‟arbitrio non solo
della politica ma anche della ragione cinica. Il filone giusnaturalistico presente in materia
di bioetica sembra prediligere questa tesi.
Sviluppi. Negli anni ‟70 il termine Bioetica diventa sempre più diffuso ma tuttavia il suo
significato viene ridimensionato rispetto all‟accezione fornitane da Potter (come di
scienza per la sopravvivenza). La bioetica viene gradualmente assimilata all‟etica
biomedica. Tale accezione più circoscritta sarebbe riconducibile al medico André
Helleger, cui si deve la nascita del primo centro di studi che porta il nome di bioetica: il
Kennedy Institute for the Study of Human Reproduction and Bioethics, fondato nel 1971. Il
Kennedy Institute nel 1979 viene annesso alla Georgetown University con una nuova
struttura con il nome Center for Bioethics.
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Di quegli anni è un altro centro studi fondamentale fondato nel 1969 dal filosofo Daniel
Callahan1 e dallo psichiatra William Gaylin col nome Hasting Center Institute of Society,
Ethics and the Life Science che pubblica l‟Hasting Center Report.
Nel 1976 Edmund Pellegrino2 e Hugo T. Engelhardt3 fondano il Journal of Medicine
and Philosophy, mentre nel 1978 W.T. Reich pubblica la Encyclopedia of Bioethics in 4 voll.
Secondo la ricostruzione di Reich, la bioetica sorge di fronte all‟emergere di una serie di
problematiche etiche, evidenziate anche da alcuni clamorosi casi giudiziari, che
riguardano la sperimentazione clinica sui soggetti umani, l‟introduzione dell‟alta
tecnologia in medicina, l‟allocazione delle risorse e il possibile uso della medicina come
discriminatore sociale.
Diffusione in Europa. Dal 1970 ad oggi si è assistito ad una proliferazione dei centri di
bioetica. In Italia, fra i primi centri universitari, va ricordato il Centro di Bioetica
dell‟Università Cattolica fondato e diretto da Elio Sgreccia. A livello internazionale sono
stati creati organismi di consulenza in bioetica: ricordiamo il Comitè ad hoc d’esperts pour le
problèmes de Bioéthique del Consiglio d‟Europa, istituito nel 1985 che dal 1992 assume la
1 Callahan appartiene al filone bioetico polemico nei confronti del progresso a tutti i costi in campo medico. Nel suo testo “La medicina impossibile”, l‟autore sostiene che si deve riconoscere che la mortalità è aspetto costitutivo della vita umana, e che la promessa di una vita senza limiti induce false speranze. Nella società in cui è avvenuta la «transizione epidemiologica» (cioè quelle in cui la morte è causata non più da malattie acute ma croniche) si deve procedere a ristrutturare la pratica medica spostando l‟attenzione proprio sulle malattie croniche e sugli interventi di prevenzione, invece che insistere sugli interventi «miracolosi». Solo con questo radicale riorientamento si potrà avere una medicina sostenibile che risponde a esigenze di giustizia. 2 Edmund Pellegrino è noto per la sua insistenza sull’aspetto morale dell’attività medica – che non può essere governata
esclusivamente dal desiderio di progresso o dal mercato. 3 H.T. Engelhardt è esponente invece di quella corrente di bioetica che enfatizza la volontà individuale sul valore della
vita.
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denominazione di Comité Directeur pour la bioèthique al quale si deve la pubblicazione
della Convention sul les Droits de l’homme et la biomedicine, (che ha avuto vari protocolli, fra cui
quello del 1998 che vieta la clonazione umana).
Nel 1990 viene istituito in Italia il Comitato Nazionale di Bioetica, che segue di qualche
anno l‟analogo francese e precede di un anno il Nuffield Council of Bioethics del Regno
Unito.
II. Percorsi di Bioetica
Si possono distinguere diverse linee di fondo.
Una prima distinzione che comunemente viene tracciata è tra bioetica religiosa e bioetica
laica. Mentre nella prima si enfatizza il valore della vita umana nella seconda si sottolinea
invece l‟aspetto dell‟autonomia.
Altra distinzione è quella che corre fra coloro che interpretano la bioetica come un‟etica
applicata, sicchè il problema dello statuto epistemologico della bioetica viene spostato
sulla filosofia morale; coloro che negano decisamente che la bioetica sia una disciplina (e
che dunque le questioni vanno decise caso per caso), e coloro che considerano la
bioetica come una nuova teoria morale (con uno statuto autonomo).
(a) l‟Encyclopedia of Bioethics di Reich e la Bioetica dei principi
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Nell‟Enciclopedia di Reich il termine bioetica consiste essenzialmente in un‟etica
applicata.
Questa la definizione:
“Lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della
salute, nella misura in cui tale condotta è esaminata alla luce di valori e principi morali” 4.
Questa definizione contenuta nella prima versione della Encyclopedia of Bioethics, vede nella
bioetica essenzialmente l‟applicazione di principi e valori già noti e condivisi.
Infatti, sempre in questa prima versione dell‟Encyclopedia, sotto la voce: Concetti e principi
fondamentali vengono menzionati la giustizia, i diritti, il duplice effetto, e le
obbligazioni verso generazioni future.
In sintesi, il presupposto di questa prima definizione di Bioetica è che vi siano principi e
valori condivisi di cui deve tutt‟al più chiarirsi ed esplicarsi le modalità di applicazione.
L‟obiettivo delle prime commissioni di Bioetica era dunque quello di verificare se le
innovazioni scientifiche in qualche modo non mettessero a repentaglio alcuni principi
fondamentali degli esseri umani. Da qui la ricerca di principi che costituissero il punto di
partenza delle nuove regolamentazioni.
4 W.T. Reich, Encyclopedia of Bioethics, NY, 1978, XX.
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Ad esempio nel Belmont Report, stilato da una commissione americana nel 1978, vengono
individuati tre principi da cui partire nella ricostruzione della regolamentazione più
opportuna:
(i) il rispetto per le persone
(ii) la beneficenza
(iii) la giustizia
Nel contesto della sperimentazione su soggetti umani, questi principi danno luogo
rispettivamente ai requisiti del consenso informato, della valutazione dei rischi e benefici,
e dell‟equità nella selezione dei soggetti.
Nel Belmont Report questi principi sono presupposti, ritenuti facenti parte di una morale
condivisa.
I Principi di Etica Biomedica di Tom Beauchamp e James Childress
Simile approccio metodologico, sebbene diverso per contenuto, è quello contenuto
nell‟opera di Tom Beauchamp e James Childress, Principles of Biomedical Ethics, pubblicato
nel 1979.
Qui i principi da cui si muove sono quattro:
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(i) rispetto per l‟autonomia
(ii) non maleficenza
(iii) beneficenza
(iv) giustizia
Alla definizione di Bioetica della prima versione dell‟Enciclopedia di Reich gradualmente
se ne sostituisce un‟altra. L‟idea di Bioetica come di un‟etica applicata di principi
generalmente condivisi deve fare i conti con una serie di teorie che da un lato mettono in
crisi l‟unità metodologica in campo bioetico e dall‟altro contestano che i principi
debbano essere il punto di partenza delle riflessioni teoriche piuttosto che il punto di
arrivo. Si pensi a quegli esempi di bioetica che rifiutano o l‟esistenza di una teoria
comune (e preferiscono piuttosto l‟approccio casisitico) ovvero che preferiscono mettere
l‟accento su alcune implicazioni etico politiche nelle scelte di bioetica (la bioetica
femminista che asserisce che non si può discutere di bioetica partendo dai principi senza
guardare agli effetti che le scelte di bioetica hanno sulle differenze di genere).
Prima di passare in rassegna le teorie normative che stanno dietro alle varie
BIOETICHE verrà brevemente discussa la cd. metaetica coerentista di Beauchamp e
Childress e cioè l‟approccio che muove dall‟assunto che vi siano alcuni principi condivisi.
METAETICA COERENTISTA – BEAUCHAMP E CHILDRESS
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Per Beauchamp e Childress, il punto di partenza della riflessione morale è costituito dalla
moralità comune, cioè da quell‟insieme di norme di condotta socialmente approvate che
vengono comunemente apprese mediante l‟educazione.
Il compito della riflessione teorica – per i due autori – è quello di dare una
sistemazione coerente alla moralità comune nel suo insieme.
I due autori dunque muovono da alcuni giudizi condivisi. Non si tratta di giudizi dettati
dall‟umore o dalle emozioni individuali, quanto piuttosto di giudizi ponderati, giudizi
cioè accompagnati da un certo grado di riflessione e relativi a questioni di giustizia, in cui
sembra che la nostra capacità morale si esprima senza distorsioni e che perciò sembrano
offrire una base abbastanza sicura per i ragionamenti morali.
Esempi di giudizi ponderati sono il rifiuto della discriminazione razziale e
dell‟intolleranza religiosa. Tali giudizi appartengono al senso comune e i nostri
autori ritengono che essi riguardino ogni ambito della moralità.
Per esempio, per Beauchamp e Childress un tipico giudizio ponderato in materia etica
biomedica è il seguente: un medico non deve sfruttare i pazienti a suo vantaggio, perché l’interesse del
paziente viene per primo.
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I giudizi ponderati sono tuttavia punti di partenza più che di arrivo. La riflessione
consiste nella armonizzazione dei giudizi ponderati con altri giudizi della stessa fatta.
Cosa che spesso porta ad una parziale revisione dei giudizi ponderati medesimi o
comunque all‟elaborazione di norme di portata più generale.
Il giudizio contro lo sfruttamento da parte del medico del proprio paziente rimanda alla
regola (specifica per il medico) di anteporre gli interessi del paziente ai propri; a sua volta
tale regola si basa sul principio di beneficenza, di portata più generale.
Lo strumento per l‟affinamento critico dei giudizi ponderati è l‟equilibrio riflessivo, e
cioè un procedimento che mira a far si che l‟insieme dei giudizi ponderati e dei
criteri normativi più generali derivati da essi (regole e principi) dia luogo a un
insieme coerente di regole, principi e giudizi particolari.
Ad esempio la regola della priorità dell‟interesse del paziente deve essere armonizzata
con la possibilità che, talvolta, vi si possa giustificatamene anteporre l‟importanza della
ricerca o dell‟insegnamento, in cui i pazienti sono coinvolti non per il loro interesse ma
per fini sperimentali o didattici.
Questo modo di procedere viene definito coerentismo. La coerenza è il criterio di
armonizzazione fra vari giudizi ponderati. Si tratta di un procedimento che non ha mai
fine. Vi è un costante rapporto dialettico fra moralità comune e equilibrio riflessivo. Se la
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moralità comune è il punto di partenza essa viene messa in discussione dalla riflessione
ispirata al criterio di coerenza che poi entra a far parte della moralità comune.
Il Coerentismo di Beauchamp e Childress è ben diverso dal procedere in modo
deduttivistico da alcuni principi dati. Anzi le norme e i principi dei due autori devono
essere costantemente scoperti.
Va tuttavia sottolineato che il punto di partenza sono le convinzioni radicate nella
moralità comune che contengono in nuce le istanze normative, che le regole
esprimono in una prima forma generica e che i principi esplicitano in modo
formalizzato.
Da questo punto di vista il coerentismo di Beauchamp e Childress è erede del
cognitivismo intuizionistico di Ross e Frankena. Sosteneva Ross: “le convinzioni morali delle
persone ben educate e riflessive sono i dati dell’etica proprio come le percezioni sensoriali sono i dati delle
scienze naturali”5.
Quali sono i principi da cui partire?
1) Autonomia
5 D. Ross, The Right and the Good, Oxford, 1930, p. 41.
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Il principio del rispetto per l‟autonomia si basa sull‟idea che le azioni autonome non
dovrebbero essere sottoposte a vincoli e controllo altrui. In senso negativo ciò
corrisponde a un principio di non interferenza e comporta il riconoscimento dei diritti di
autodeterminazione, fra cui quello di riservatezza e di privacy; in senso positivo, esso
implica il dovere di informare e di rendere possibili scelte realmente autonome (cioè
libere ed adeguatamente informate) da parte dei soggetti.
Le azioni autonome presuppongono tre cose:
(i) l‟intenzionalità
(ii) la comprensione della situazione
(iii) l‟assenza di condizionamenti esterni
Il rispetto dell‟autonomia costituisce la giustificazione di alcune regole pratiche già in
parte pertinenti all‟ambito biomedico: dire la verità; rispettare la privacy, tutelare le
informazioni confidenziali, ottenere il consenso e aiutare, se richiesti, a prendere
decisioni.
2) Non maleficenza
Il principio di non maleficenza si esprime nell‟obbligo di non arrecare intenzionalmente
danno. La non maleficenza giustifica le regole pratiche che vietano l‟uccisione,
l‟inflizione del dolore o sofferenza, il causare uno stato di incapacità, l‟offesa o
privazione di beni importanti per altri.
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Tuttavia Beauchamp e Childress mettono in guardia dall‟uso ideologico di certe pratiche.
Ad esempio l‟uccisione non coincide sempre con l‟inflizione di un danno. Sicché per
costoro gli interventi compassionevoli dei medici classificabili come atti di eutanasia
volontaria non sono intrinsecamente sbagliati, né incompatibili col ruolo di
professionista sanitario.
Si noti che sia Beauchamp che Childress sono contrari alla legalizzazione dell‟eutanasia in
quanto temono l‟effetto del cosiddetto pendio scivoloso: e cioè il consolidarsi di pratiche
in cui l‟eutanasia non venga praticata in casi strettamente eccezionali e si diffonda
piuttosto un atteggiamento di sostanziale indifferenza nei confronti della vita.
In sintesi: Essi ammettono che la regola di non uccidere (principio di non maleficenza)
ha una porta generale, ma che talvolta tale regola deve retrocedere di fronte a regole più
particolari. I principi di bioetica sono solo prima facie validi.
3) Beneficenza
Il principio di beneficenza ha due significati: la beneficenza positiva, vale a dire il dovere
generale di promuovere il bene, e il principio di utilità che prescrive di scegliere l‟azione
che produce il maggior saldo positivo fra benefici e danni.
Le regole della beneficenza includono il rispetto dei diritti altrui, la prevenzione del
danno, l‟eliminazione di condizioni dannose, l‟aiuto ai disabili e il dovere di soccorrere
coloro che necessitano di aiuto.
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Si tratta di doveri che impongono azioni positive. Non è richiesta però imparzialità,
poiché verso alcune persone abbiamo doveri di beneficenza che dipendono dal nostro
ruolo o dalla speciale condizione di coloro che devono essere aiutati.
L‟obbligo di assistenza medica può essere generalizzato ovvero specifico. Dal momento
che la beneficenza è il principio più costoso occorre definire i limiti entro cui esso opera.
Il tema della beneficenza tocca quello del paternalismo medico che Beauchamp e
Childress ritengono per lo più in contrasto col principio di autonomia. Questa
conclusione ha tuttavia delle eccezioni.
Ancora una volta il criterio è quello del bilanciamento.
4) Giustizia
Beauchamp e Childress affermano che vi sono un certo numero di principi di giustizia,
uno formale e alcuni materiali, tutti validi prima facie. Il principio formale afferma
semplicemente che gli uguali devono essere trattati in modo uguale, lasciando quindi
aperta la questione di sotto quale rispetto si debbano considerare uguali gli individui
coinvolti. I principi materiali cercano invece di individuare i criteri normativi sostanziali
che permettano di stabilire una giusta distribuzione delle risorse e degli oneri:
(i) a ciascuno un‟uguale quota
(ii) a ciascuno secondo il bisogno
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(iii) a ciascuno secondo l‟impegno
(iv) a ciascuno secondo il contributo
(v) a ciascuno secondo il merito
(vi) a ciascuno secondo gli scambi di libero mercato
Beauchamp e Childress non prendono una netta posizione per alcuno di questi principi.
Essi tuttavia sembrano sottoscrivere la nozione di equa eguaglianza delle opportunità di
Rawls.
“A nessuno dovrebbero essere garantiti dei benefici sociali sulla base di proprietà vantaggiose immeritate
(perché nessuno è responsabile del possesso di tali proprietà) e a nessuno dovrebbero essere negati benefici
sociali sulla base di proprietà svantaggiose immeritate (perché anch’essi non sono responsabili di queste
proprietà)” .
Secondo questo approccio gli effetti della lotteria naturale e della lotteria sociale devono
essere temperati e compensati dall‟intervento dello stato. Questo presuppone un certo
grado di assistenza sanitaria interamente a carico dello stato – principio questo per lo più
rifiutato negli Stati Uniti sulla base di argomenti libertari.
La linea di ragionamento di Beauchamp e Childress procede su due livelli. Da un lato
l‟assistenza sanitaria rappresenta un aspetto della tutela sociale collettiva controllo le
minacce esterne (come per esempio la guerra, la criminalità, o le calamità naturali), che si
assume lo stato debba garantire; dall‟altro la regola dell‟equa opportunità prevede che le
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possibilità di accesso ai benefici sociali siano aperte a tutte le persone a prescindere da
vantaggi immeritati.
Siccome Beauchamp e Childress sono consapevoli dei costi eccessivi di una sanità
interamente pubblica suggeriscono che venga garantito quanto meno un minimo decente
di cure.
La Critica al Principlism
Il vantaggio dell‟approccio dei quattro principi è quello di essere flessibile e predisporre
di un apparato ampio anche per la soluzione di casi più disparati.
Tuttavia il Principlism spesso viene accusato o di essere insufficiente o di irenismo: in
quanto la giustificazione dei principi non sarebbe adeguata.
Il problema di risolvere conflitti (anche fra teorie normative) è particolarmente urgente
nel contesto di una bioetica intesa come etica applicata. Se però l‟ausilio fornito dalla
riflessione filosofica alla risoluzione dei conflitti morali nell‟area delle scienze della vita e
della salute consiste nell‟elaborazione di uno schema semantico di giustificazione e
articolazione dei giudizi morali, una teoria etica alquanto vaga sia sulla giustificazione
ultima dei principi che sull‟espressione di giudizi particolari rischia di essere di scarso
aiuto per l‟agente.
Oltre all‟accusa di vaghezza al principlism vengono mosse altre critiche.
Qui di seguito alcune delle principali:
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(i) il paradigma dei principi è troppo astratto e decontestualizzato, mentre
la prospettiva opposta sarebbe quella di mettere in primo piano il
soggetto agente e il suo contesto relazionale, storico e personale (le
autrici femministe ed esponenti dell‟etica della cura hanno mosso questa
critica).
(ii) Il modello di ragion pratica presupposto nel bilanciamento fra principi
rimane comunque una visione teoretica. Ad esso andrebbe opposto un
modello che riconosce il carattere analogico, basato sulle somiglianze e
differenze fra casi concreti in rapporto a modelli paradigmatici di
comportamento.
(iii) Il paradigma dei principi non offre un vero strumento critico nei
confronti della moralità comune.
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BIOETICA E UTILITARISMO
L‟utilitarismo è fra le teorie normative più influenti in bioetica. Il primo obiettivo
polemico dell‟utilitarismo è la morale derivata dalla tradizione ebraico-cristiana basata,
secondo le ricostruzioni utilitaristiche, sulla nozione di sacralità della vita, cui gli
utilitaristi oppongono quella di qualità della vita.
All‟interno dell‟utilitarismo vi sono tuttavia varie posizioni. Seguendo lo schema
proposto da Hare, tre sono le caratteristiche comuni alle varie teorie utilitariste:
(i) il consequenzialismo
(ii) il benesserismo (welfarism)
(iii) l‟aggregazionismo
(i) In quanto teoria consequenzialista, l‟utilitarismo fa dipendere la giustificazione degli
enunciati morali esclusivamente dalla valutazione delle conseguenze: una certa azione è
giustificata solamente se produce conseguenze migliori di ogni altra scelta praticabile,
cioè se realizza il miglior saldo di bene sul male rispetto a qualsiasi azione alternativa.
In questa prospettiva ciò che conta non è tanto l‟agente che compie certi atti, né la
natura più o meno buona degli atti in sé. Ciò che conta è lo stato di cose che risulta da
certe azioni. Ad esempio, una politica economica può essere giustificata in base al
principio di utilità se promuove maggiore benessere complessivo – cioè se i suoi effetti
sono positivi. Viene invece tralasciata la circostanza che una certa politica possa essere
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ingiusta in base ad altri parametri (si pensi ad esempio alla nazionalizzazione di alcune
industrie che comporta l‟espropriazione di beni e risorse ai proprietari).
(ii) Welfarism. L‟utilitarismo ha sempre definito il bene come utile e quest‟ultimo come
ciò che realizza la più quantità di benessere. Come afferma Jeremy Bentham, il principio di
utilità “approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa
sembra avere ad aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in
questione”. L‟utilità è quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a
produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità, che nell‟interpretazione di
Bentham si equivalgono.
Il concetto di benessere non è però univoco. Se per alcuni autori, quali Bentham, il
benessere ha un‟accezione sensistica, fisica – coincide in sostanza col piacere e con
l‟evitare il dolore, per altri autori il benessere assume un significato più complesso. Per
Stuart Mill ad esempio il benessere è l‟autonomia individuale – sicché stare bene significa
sostanzialmente potere esercitare pienamente la propria libertà di scelta.
Un‟altra variante del benesserismo è il concetto di preferenza, concetto che viene
comunemente mutuato dall‟ambito economico. La preferenza di uno stile di vita su un
altro è simile alla preferenza per un prodotto piuttosto che un altro. Qualsiasi
valutazione morale di altro tipo – che non risieda nell‟utilità – viene normalmente
estromessa.
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(iii) Il terzo punto di contatto fra le varie forme di utilitarismo è l‟aggregazionismo.
L‟utilitarismo aspira ad essere una teoria morale pubblica e non soltanto un‟etica privata
– che ci suggerisce quale azione è meglio di un‟altra per me. In quanto morale pubblica
non può non riferire il concetto di utilità anche alla società nel suo complesso e non
soltanto ai singoli individui. Quando un‟azione è doverosa secondo l‟etica utilitaristica?
Se si prende a riferimento la società, occorre guardare all‟azione che massimizza la
felicità complessiva. Da qui il termine aggregazionismo, che implica che i desideri dei
singoli vanno aggregati in qualche modo (o facendo la somma delle preferenze, o la
media della preferenze) per arrivare al risultato migliore per la società.
Anche del principio di aggregazione sono state date varie versioni: dall‟idea di Bentham
della massima felicità per il maggior numero, all‟idea del miglior risultato complessivo.
L‟aggregazionismo sembrerebbe ammettere che in nome della felicità complessiva è
ammissibile ipotizzare il sacrificio di pochi o di qualcuno. Si fa l‟esempio del macchinista
di treno che si vede arrivare davanti un camion. Ha davanti a sé un‟alternativa tragica:
non frenare e sicuramente uccidere il conducente del camion e il passeggero, ovvero
frenare bruscamente, risparmiare il camionista ma falcidiare molte vite dei passeggeri del
treno. Secondo il principio di utilità la azione corretta è la prima. Si deve scegliere
l‟azione che causa meno perdite. Ogni altra considerazione è irrilevante: ad esempio è
irrilevante che il treno porti detenuti condannati all‟ergastolo o gente anziana, mentre il
camion contenga dei bambini.
Per dirla con un utilitarista piuttosto noto, Richard Hare:
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“se un effetto produrrà benessere, ma lo distribuirà in modo assai ineguale, mentre un altro ne produrrà
meno, ma lo distribuirà più equamente, in base all’aggregazionismo, è perciò all’utilitarismo stesso, sarà
il primo effetto quello che dobbiamo scegliere”.
Ne segue che una politica economica che magari faccia crescere enormemente la
produttività di un paese ma che tuttavia crei enormi disuguaglianze sia comunque
preferibile ad una politica economica che sia più equanime ma magari meno efficace.
Vi è però un limite a questo modo di ragionare: quasi tutti gli utilitaristi temperano
l‟aggregazionismo col principio di eguale rispetto per gli individui, già presente in Bentham,
secondo il quale “ciascuno deve contare per uno e nessuno per più di uno”: cioè gli
interessi di ciascuno devono ricevere eguale considerazione. Poiché la valutazione delle
conseguenze richiede che la comparazione degli interessi in gioco, nessuno individuo
potrà vantare la superiorità dei propri interessi rispetto a quelli degli altri e ciò comporta
l‟accettazione del principio di aggregazione, che quindi funge da requisito di imparzialità.
Come viene fondato il principio di utilità? Utilitarismo e metaetica
Nell‟utilitarismo classico il principio di utilità ha una base naturalistica. L‟utilità coincide
col piacere e col dolore, per cui il parametro secondo cui valutare la giustezza di
un‟azione è quasi di tipo fisico (Bentham).
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Nelle versioni più recenti la fondazione è più complessa. Ad esempio in Stuart Mill il
principio di utilità riceve una fondazione scientifica attraverso il suo accordo con
l‟esperienza comune.
Si noti che per Bentham vi è un‟omogeneità qualitativa dei piaceri e dei dolori. Sicché
non è agevole distinguere il valore del piacere e del dolore provati dagli esseri umani da
quelli di altri esseri senzienti, quali gli animali. Ad esempio su questa scia Peter Singer
difende i diritti degli animali sulla base di questo argomento naturalistico. Anche gli
animali sono capaci di provare piacere e dolore.
Per Mill invece vi è una differenza qualitativa fra gli interessi degli uomini e quelli degli
animali. I primi infatti sono più complessi soprattutto per effetto della presenza
dell‟autocoscienza, che rendere più esacerbante il dolore. Per Mill vi è dunque una
differenza qualitativa fra tipi di piacere e dolori: e vi è una superiorità assiologia dei piaceri
intellettuali rispetto a quelli sensibili.
Teoria dell‟obbligo:
Utilitarismo dell’atto e utilitarismo della regola
Secondo l‟utilitarismo dell‟atto il calcolo scientifico per capire quale azione sia doverosa
va condotto sulla capacità di ogni singola azione di produrre il miglior risultato possibile:
interpretando così il principio di utilità in senso immediatamente pratico. In questo
senso non vi sono regole assolute, ma solo azioni, che sulla base di una valutazione di
volta in volta effettuata, risultino doverose. Nessun dovere ha valore assoluto tranne
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quello di massimizzare la felicità (ad esempio dire la verità è un dovere solo se costituisce
nelle circostanze concrete un modo di dare attuazione all‟utile). Anche il linguaggio dei
diritti ha in quest‟ottica un valore piuttosto flebile: qualsiasi diritto può esistere ed essere
tutelato solo nella misura in cui, nelle circostanze in esame, il suo rispetto incrementa
la felicità complessiva.
Non stupisce dunque che Bentham definisse i diritti umani nonsenso sui trampoli.
Secondo l‟utilitarismo della regola, l‟utilità complessiva è nel medio e lungo termine è
meglio garantita se si seguono costantemente alcune regole. La doverosità di un atto
dipende dunque dalla sua conformità a una massima che, in condizioni normali e nella
maggior parte delle situazioni, produce un saldo positivo di felicità. Tale regola dovrà
essere seguita anche in quelle situazioni in cui la sua violazione, date le speciali
circostanza, massimizzerebbe il benessere o le preferenze.
Utilitarismo e bioetica
(a) Critica della sacralità della vita
Il principio della sacralità della vita afferma che è assolutamente vietato porre
intenzionalmente termine alla vita perché ogni vita umana, indipendentemente dalla sua
qualità o dal tipo, è inviolabile e di egual valore (Evangelium Vitae – 1995). Si tratta di un
insegnamento assoluto ripetutamente affermato dalla Chiesa cattolica nel divieto di
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uccidere intenzionalmente un essere umano innocente. Tuttavia la maggior parte di
coloro che pur sottoscrivono questo principio ammettono anche che in qualche caso sia
lecito non impedire la morte del paziente: diversamente, infatti, si sarebbe costretti a uno
zelo eccessivo nei confronti della mera sopravvivenza fisica e a forme di accanimento
terapeutico.
Gli argomenti utilitaristi intendono dimostrare, in primo luogo, che tale versione
“qualificata” del principio di sacralità della vita è incoerente con le sue premesse e, in
secondo luogo, che essa si basa su una serie di distinzioni che a un‟analisi serrata si
dimostrano insostenibili.
Quanto al primo punto la tesi di Kuhse (un utilitarista che muove una critica tagliente al
principio della sacralità della vita) è che l‟astenersi dal prevenire la morte imminente di
un paziente è moralmente equivalente all‟interruzione intenzionale della vita perché
persegue lo stesso effetto (la morte del paziente). L‟utilitarismo poi mette in dubbio le
distinzioni fra uccidere e lasciar morire, fra effetti intesi e effetti meramente previsti, fra
mezzi ordinari e mezzi straordinari.
La critica è esemplificata da David Hume:
“Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell'Onnipotente, allora per
gli uomini sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di
scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura, prolungando la
mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi generali della materia e del moto, le era
assegnato. Se la mia vita non fosse del tutto mia, sarebbe delittuoso sia porla in pericolo
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sia disporne!” (da Sul Suicidio, in Opere, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari, 1987,
vol. III)
La critica centrale però è di altro tenore: in realtà il principio della sacralità della vita va
sostituito con quello della qualità della vita.
E‟ la qualità della vita la nozione veramente decisiva nelle decisioni cliniche, e in
generale, nella formulazione dei giudizi morali circa la vita e la morte delle
persone.
Tale nozione è omogenea al criterio utilitaristico del soddisfacimento degli interessi: una
vita è nell‟interesse del paziente se può essere vissuta in condizioni accettabili,
cioè se ha una qualità sufficiente. Inoltre, poiché la valutazione della qualità della
vita spetta in primo luogo al soggetto medesimo, essa presuppone la capacità di
apprezzare la propria esistenza, la quale a sua volta implica che il soggetto
“abbia un concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e di
altri stati mentali, e creda di essere una tale entità continua nel tempo”6.
Compare la nozione di persona ma in un‟accezione diversa da quella ereditata dalla
cultura giudaico cristiana. Persona è un essere autoconsapevole.
Se dunque il valore di una vita dipende dagli interessi del soggetto, l‟uccisione delle
persone non può essere oggetto di divieto assoluto; “L’erroneità diretta dell’uccidere non
risiede nel togliere la vita, ma nel prevaricare in modo assai profondo, gli interessi, i desideri, e le
preferenze di una persona che non vuole morire”7.
6 M. Tooley, “Abortion and Infanticide”, p. 33.
7 H. Kuhse, The Sanctity of Life Doctrine in Medicine, p. 216.
27
Si noti che non tutti gli utilitaristi approdano alle stesse conclusioni in materia di bioetica.
Alcuni ad esempio prediligono il linguaggio dei diritti (come Lecaldano), altri invece
quello dei doveri (Hare).
Tristam H. Engelhardt, ul noto bioeticista ha coniato la definizione di «straniero morale»
per indicare tutti quegli esseri umani (non nati, gravi ritardati mentali, dementi, comatosi,
stati vegetativi, etc.) che non avrebbero titolo a essere considerati persone umane perché
privi della capacità di esprimere biasimo o lode e quindi, appunto, estranei alla comunità
sociale.
(b) Embrioni
Circa lo statuto ontologico e morale dell‟embrione, gli autori utilitaristi condividono in
generale una posizione che tende a negare che esso abbia diritti, e quindi a considerare
lecite le pratiche che possono comportare la sua distruzione: la crioconservazione, la
diagnosi preimpianto, la selezione e la sperimentazione terapeutica e non, inclusa la
genetica. Gli argomenti in merito sono strettamente correlati a quelli relativi all‟aborto e
prevedono i seguenti passaggi:
- se esiste un serio diritto alla vita, esso va attribuito solo alle persone;
28
- lo stesso termine persona deve essere impiegato in senso morale (e non
descrittivo), cioè equivalente a “un ente che ha diritto morale alla vita”
(questa è simile all‟accezione che ne dà Locke che afferma che persona è
un termine forense, che attribuisce le azioni e i loro meriti, e così appartiene solamente
ad agenti intelligenti, capaci di una legge nonché di felicità o infelicità”.
- Perché un ente abbia diritto alla vita, esso deve possedere un concetto di
sé come soggetto continuo di esperienze ovvero essere capace di
autocoscienza o razionale o almeno di apprezzare la propria vita (su
questa scia, Singer, Harris, etc..).
- Dal momento che né l‟embrione né il feto sono soggetti continui di
esperienze non sono titolari di alcun diritto.
Gli utilitaristi rifiutano anche l‟argomento (di stampo aristotelico) della potenzialità,
argomento che recita che dal momento che gli embrioni hanno la potenzialità di
svilupparsi in esseri umani essi vanno valutati alla stregua di ciò che raggiungerebbero se
non si intervenisse per sopprimerli.
Tooley rifiuta l‟argomento col noto esempio dei gattini cui stesse per essere iniettata una
speciale sostanza chimica in grado di renderli razionali che starebbero per diventare
persone. Se valesse l‟argomento della potenzialità, essi godrebbero del diritto alla vita. Lo
stesso potrebbe applicarsi ai gameti presi separatamente che stanno per unirsi. Infine,
poiché il feto e il neonato non possiedono il concetto di sé come soggetto continuo nel
29
tempo, l‟aborto e l‟infanticidio (fino alla prima settimana dopo la nascita) sono
moralmente accettabili.
In proposito, la tesi utilitarista implica più della semplice liceità: se un feto presenta gravi
malformazioni (e perciò una qualità della vita molto bassa) e la sua nascita impedirebbe
alla madre di concepire un altro figlio sano, che avrebbe una vita più felice e non
renderebbe infelice quella dei genitori, sarà più giustificato interrompere la gravidanza
che proseguirla, poiché la nascita del bambino malformato introdurrebbe una sofferenza
evitabile nel mondo.
Digressione: Il cd. aborto post-nascita
Qualche settimana fa (febbraio 2012) due studiosi italiani (Alberto Giubilini e Francesca
Minerva,) hanno pubblicato sul Journal of Medical Ethics, la prestigiosa rivista della stessa
editrice del British Medical Journal, un articolo in cui difendono la tesi secondo cui è lecito
sopprimere i nati (e non solo i nascituri) per le stesse ragioni per cui è lecito
interrompere la gravidanza.
Dibattito (vedi Slide).
(c) Animali non umani
30
Due sono gli argomenti tradizionalmente usati da alcuni utilitaristi per difendere certi
diritti degli animali.
Il primo è che se il diritto a non essere uccisi o comunque fatti soffrire
ingiustificatamente è legato alla percezione di sé nel tempo, certi primati o i delfini
godono di pari diritti.
Il secondo è quello dell‟utilitarismo classico. Bentham ad esempio riconnetteva la
rilevanza morale degli individui non alla circostanza che fossero intelligenti o razionali o
ricchi, ma alla loro capacità di soffrire (la domanda rilevante è non possono ragionare? Né
possono parlare? Ma possono soffrire?). Se alla radice del rispetto dell‟altro vi è la percezione
della sua capacità di soffrire, molte sofferenze gratuite o ingiustificate inflitte sugli
animali dovrebbero essere bandite (Peter Singer).
(d) Nuovi modi di nascere
In tema di procreazione assistita, le tesi utilitaristiche si basano sul rilievo accordato alle
scelte autonome dei soggetti coinvolti. Sinteticamente, la tesi può essere riassunta come
segue: le recenti tecniche di procreazione assistita consentono di soddisfare le preferenze
di quegli individui che, per diverse ragioni, non possono o non vogliono procreare per
via naturale.
Vengono dunque criticate quelle interpretazioni che si fondano su un concetto
normativo di natura (la procreazione per via naturale, o secondo un ordine naturale o
addirittura secondo un comando divino). A essere normative sono le preferenze degli
31
individui e non un presunto ordine oggettivo a cui gli individui dovrebbero
conformarsi.
Anzi l‟assunzione di un controllo efficace dei processi procreativi potrebbe prevenire
effetti dannosi della lotteria naturale. Per cui l‟impiego di queste tecniche dovrebbe non
solo essere permesso ma anche garantito.
I diritti del nascituro sono rilevanti solo se e quanto egli diviene un individuo i cui
interessi possono essere lesi. Da questo punto di vista dunque la fecondazione eterologa,
la surrogazione di maternità, la procreazione in età avanzata, quella dopo la morte di uno
dei partner, quella di coppie omosessuali o di adulti soli, se perseguita col consenso di
tutti gli interessati, potrebbe essere criticata solo se si dimostrasse, tramite ricerche
empiriche, che tali pratiche danneggiano effettivamente il bambino o altri dopo che è
nato: più precisamente, solo se i presunti danni, sopravanzassero i benefici goduti da
coloro che accedono alle tecniche.
Per quanto riguarda l‟eugenetica o le ragioni commerciali, esse non giustificano la libertà
procreativa.
La diagnosi preimpianto, la sperimentazione e tutto ciò che possa migliorare la
condizione umana sono non solo tollerate ma apprezzate in base al principio di utilità.
(e) eutanasia
32
Una posizione favorevole all‟eutanasia (peraltro piuttosto condivisa fra gli utilitaristi) è
espressa da James Rachels, il quale è stato fra i primi a criticare analiticamente le tesi
tradizionali contro le uccisioni e in particolare le distinzioni che mirano a giustificare
l‟omissione di trattamenti vitali nel contesto della teoria della sacralità della vita
(eutanasia attiva e passiva, uccidere e lasciar morire, mezzi ordinari e mezzi straordinari,
ecc..). Rachels sostiene che c‟è una netta differenza fra essere vivi, cioè vivere in un senso
meramente biologico, e avere una vita, cioè essere il soggetto di un‟autobiografia, di una
storia personale.
Per Rachels il valore di una vita dipende dunque dalle esperienze che il soggetto è in
grado di fare nelle proprie condizioni. È la biografia, vale a dire l‟insieme di esperienze
che il soggetto include nel suo racconto, che ha valore, e non il mero sopravvivere
(Rachels, The end of life).
La capacità di avere una vita è legata alla capacità di avere desideri, aspirazioni e una
certa intelligenza.
L‟eutanasia – attiva o passiva che sia – è lecita purché le seguenti condizioni siano
rispettate:
- non preclude alcuna possibilità per la vita biografica
- non impedisce di sviluppare talenti
- non frustra desideri e speranze
- non lascia vite incomplete
33
in alcuni casi essa è addirittura doverosa, quando può porre fine ad ulteriori sofferenze.
Yale Kamisar invece, pur essendo in casi particolari favorevole all‟eutanasia, è contrario
alla sua legalizzazione. Teme ciò che comunemente viene detto il cosiddetto pendio
scivoloso.
Il pendio scivoloso indica la possibilità che la legalizzazione dell‟eutanasia, da un lato
provochi pressione sui pazienti e faccia sfumare il confine fra eutanasia volontaria e
involontaria e in secondo luogo che si diffonda un atteggiamento di generica indifferenza
nei confronti della vita.
Critiche all‟utilitarismo
Molte critiche possono essere mosse all‟utilitarismo
1. Rapporto col senso comune: Molte delle conclusioni giustificate dalla teoria
utilitarista sono in conflitto con le nostre più radicate convinzioni di senso
comune. Ad esempio per un utilitarista sarà legittimo uccidere un prigioniero
anche se innocente per evitare una sommossa popolare.
Egualmente discutibili sulla base delle nostre intuizioni di senso comune sono
le tesi degli utilitaristi (o almeno di alcuni di essi) in materia di infanticidio.
34
2. La seconda critica attiene alla cosiddetta teoria del valore. E‟ estremamente
difficile infatti tener fermo il presupposto per cui tutto ciò che è bene è
riconducibile ad una sola unità di misura, il piacere, nel caso dell‟edonismo o la
soddisfazione delle preferenze nelle versioni più recenti. Il problema è
rappresentato sia dalla variabilità individuale delle preferenze sia dalla loro
differenza qualitativa. Inoltre, la massimizzazione delle preferenze richiede
l‟adozione di un punto di vista impersonale che tenderà ad uniformarsi ad un
criterio universale.
3. Il terzo ordine di problemi per l‟utilitarismo deriva dalle questioni di giustizia: è
frequente l‟obiezione che la massimizzazione delle preferenze, potendo
implicare la frustrazione degli interessi anche fondamentali di un numero
minoritario di persone, generi obbligazioni morali incompatibili con l‟idea di
equità. Poiché ciò che conta è la massimizzazione di felicità complessiva, gli
individui in quanto tali non sono considerati portatori di interessi da tutelare in
quanto tali, ma piuttosto solo in quanto portatori di una certa qualità
potenziale di soddisfazione.
Inoltre l‟utilitarismo ha una conseguenza paradossale sulla moralità comune.
Poiché nei fatti si ottiene la massimizzazione di benessere soltanto se non tutti
gli agenti agiscono consapevolmente in base al solo principio di utilità, sarà
necessario che la società sia retta complessivamente da un gruppo di utilitaristi
35
illuminati, che nascondano a molti la giustificazione utilitaristica di molte
norme. Questa ad esempio è la critica di Bernard Williams all‟utilitarismo.
4. Un quarto ordine di problemi riguarda l‟impersonalità del calcolo delle
preferenze. Per il consequenzialismo hanno rilevanza solo gli stati di cose
conseguenti alle azioni. Le azioni non hanno dunque valore intrinseco ma sono
valutate solo in relazione agli effetti.
Ne deriva che un soggetto può essere responsabile delle conseguenze delle
proprie azioni anche quando queste risultano in via solo indiretta dalle proprie
azioni. Questa irrilevanza morale delle azioni, se non dal punto di vista delle
conseguenze, comporta enormi problemi quando si tratta di attribuire
responsabilità morali. Williams aggiunge anche che questo approccio
presupporrebbe un individuo scisso che agisce prescindendo dal proprio punto
di vista personale e soltanto considerando gli effetti delle proprie azioni.
La critica generale alla bioetica utilitarista si è concentrata soprattutto su tre punti:
(a) l‟astrattezza della razionalità esclusivamente strumentale che è presupposta
all‟idea del calcolo di felicità,
(b) la scarsa considerazione per le dimensioni personali dell‟esperienza morale;
36
(c) il mancato riconoscimento della possibilità di descrivere gli atti non soltanto in
base alle conseguenze ma anche in quanto sono un certo tipo di azioni,
connotate in se stesse di un certo significato morale.
37
Da: Luisella Battaglia: Bioetica senza dogmi
John Stuart Mill
La proposta dell‟autrice è quella di uscire dalle secche in cui si sarebbe arenato il dibattito
bioetico, e cioè l‟alternativa obbligata fra il concetto di sacralità della vita e quello di
qualità della vita.
A questi due poli la Battaglia ne contrappone un terzo: l‟idea di una vita fiorente
(flourishing life). La vita fiorente sarebbe una vita che consente il pieno compimento delle
capacità umane (fulfillement) secondo un insegnamento che fa capo ad Aristotele (ed in
particolare nell‟idea di eudemonia) ma che si ritrova anche nel liberalismo ottocentesco di
Mill.
E‟ proprio John Stuart Mill il punto di partenza della riflessione bioetica “senza dogmi”.
Mill – ritenuto uno dei maggiori rappresentanti del pensiero politico liberale – smentisce
molti degli stereotipici che di solito accompagnano la ricostruzione del liberalismo: ad
esempio che l‟antropologia liberale abbia un‟impronta tipicamente economica (l‟idea
delle preferenze); che sia alla base del cd. individualismo possessivo (ritenuto spesso
figlio del pensiero di Hobbes); che rivaluti l‟egoismo a scapito della solidarietà sociale.
Queste critiche spiegherebbero le resistenze della cultura europea (dal dopoguerra ad
oggi) a far pienamente penetrare il pensiero liberale (assimilato al capitalismo possessivo
o all‟individualismo atomistico).
38
La Battaglia propone un modello di Bioetica liberale che sia erede della tradizione
milliana.
John Stuart Mill scrive il saggio On Liberty, sulla Libertà, nel 1854 (pubblicato nel 1859).
La libertà di cui parla Mill non è il libero arbitrio, ma la libertà civile e sociale, ossia la
natura e i limiti del potere che la società può esercitare su un individuo.
La preoccupazione principale di Mill è quella di non cadere schiavi del conformismo,
della tirannia della maggioranza, dell‟inerzia che fa seguito ad una società giudicante,
oppressiva e totalizzante.
Mill però non difende la facoltà di fare ciò che si vuole dalla tirannia della maggioranza.
Il concetto di libertà che Mill ha in mente è diverso: per libertà Mill intende la possibilità
dell‟individuo di poter sviluppare tutte le proprie potenzialità in modo da poter
acquistare una sorta di coerenza interiore.
Mill dunque non difende la libertà in quanto tale: ma in quanto funzionale al
raggiungimento di certe virtù morali, primo fra tutte le forza del carattere.
Da questo punto di vista Mill si colloca a metà strada fra la tradizione Benthamita (il fine
dell‟uomo è il piacere) e Kant (che asseriva che l‟essenza della libertà è la capacità di
obbedire alla legge morale). Per Mill invece il fine dell‟uomo non è né il piacere, inteso in
termini puramente naturalistici, né il dovere (inteso in senso auto castigante).
Nei confronti di Bentham, Mill elabora una particolare definizione di piacere, asserendo
che esistono piaceri che differiscono per qualità e quantità. Ad esempio, gli esseri umani
hanno piaceri che differiscono qualitativamente da quelli degli animali. Gli esseri umani
trovano piacere nell‟esercizio delle facoltà intellettuali, ma trovano altresì piacere
39
nell‟aiutare il prossimo, nell‟agire per il bene comune. Sicché la nozione di piacere di Mill
è radicalmente diversa da quella di Bentham. Mill è noto per aver espresso questo
concetto nei seguenti termini: è meglio un Socrate insoddisfatto, che un maiale
soddisfatto. L‟essere umano può trovare la felicità anche nell‟inquietudine. Da qui gli
echi del concetto aristotelico di eudaimonia.
Mill è noto per aver formulato in termini espliciti il cd. principio del danno. Il principio
suona così:
(libro p. 24)
Il solo motivo che autorizzi la società a intervenire individualmente o collettivamente nella sfera di libertà
di ciascuno dei suoi membri, è la protezione di se stessa; quindi, l’unica ragione per cui l’autorità è
legittimamente autorizzata a far uso della forza contro un membro di una comunità civile, è quella di
impedire di nuocere agli altri. (saggio Sulla Libertà, p. 37).
In altri termini:
a) la coazione è giustificata solo quando la condotta di un individuo è tale da
nuocere agli altri;
b) il singolo non deve rispondere nei confronti della società se non delle azioni
che incidono sulla sfera di attività del prossimo.
40
Ora questo principio vale per la società. Ciò non significa, però, che l‟individuo possa
essere mosso da sentimenti e ragioni che non si limitino a non danneggiare gli altri, ma
che al contrario, siano ispirati al principio di beneficienza (e dunque di aiuto nei
confronti degli altri).
Mill utilizza il principio del danno in funzione prevalentemente strumentale: esso
tratteggia i caratteri di una società libera ma questo non toglie che poi gli individui
possano fare di più.
La morale personale di Mill è ispirata al principio del carattere. Tanto che alcuni studiosi
hanno definito questa etica come l‟etica del carattere. (liberalismo perfezionista).
Così descrive Mill la formazione del carattere:
“colui che non agisce se non secondo le regole del costume, non opera mai una scelta e non apprende
menomamente a discernere e a desiderare il meglio. La forza intellettuale e morale, così come quella
muscolare, non progrediscono che attraverso l’esercizio. Se una persona adotta un’opinione senza essere
convinta dei principi su cui si fonda, la sua ragione anziché fortificarsi ne uscirà indebolita; e se compie
un’azione non conforme ai suoi sentimenti ed ai suoi modi di vedere (purchè non si tratti di interessi e di
diritti di terzi) non farà che rendere più inerte e intorpidito il carattere che deve invece mantenersi attivo
ed energico”.
Libertà ed eudaimonia
41
La libertà è funzionale allo sviluppo delle potenzialità individuali e sociali. Per questo
Martha Nussbaum vede in John Stuart Mill un rappresentante dell‟etica delle capacità più
che un utilitarista. L‟etica delle capacità sarebbe di derivazione aristotelica.
Aristotele parlava di eudaimonia, felicità: in base a questa tradizione, per felicità si
intende un genere di vita pienamente attiva, fornita di tutto ciò che possiede un
intrinseco valore e completa, nel senso che non le manca nulla che possa renderla
migliore e più ricca. Per cui la felicità di Aristotele (a cui John Stuart Mill sembra fare
ispirarsi) non è la felicità dei sensi, né il piacere come pura assenza del dolore (degli stoici
e poi di Bentham).
Una vita buona è una vita flourishing: fiorente.
John Stuart Mill afferma che i piaceri che gli esseri umani perseguono si distinguono sia
per quantità che per qualità (sicché la massimizzazione del principio di utilità prevista da
Bentham non è possibile in quanto la massimizzazione implica che l‟unità di misura sia
una).
Per Mill nella fioritura della vita c‟è una evoluzione che magari fa seguito ad una crisi.
Nell‟Autobiografia Mill riferisce di avere trascorso degli anni molto bui, alla fine dei quali
si rese conto che la vera felicità consiste nel porsi obiettivi diversi dalla felicità personale:
ad esempio, cercare la verità, pensare agli altri, aiutare il prossimo, etc…
Secondo molti autori nell‟Autobiografica è evidente l‟abbandono della concezione
benthamiana: il perseguimento personale come movente essenziale ed esclusivo
dell‟azione umana.
42
Mill si riferisce ai piaceri dell‟intelletto, del sentimento, dell‟immaginazione e delle facoltà
morali attribuendo loro un valore assai più alto rispetto ai piaceri puramente sessuali. In
esplicita polemica col riduzionismo benthamiano, si ricordi la celebre asserzione:
“Meglio essere un uomo insoddisfatto che un maiale soddisfatto; meglio essere Socrate insoddisfatto che
uno stupido insoddisfatto”.
La felicità è connessa ad una crescita spirituale fino a coincidere con il più alto e
armonico sviluppo dei poteri dell‟uomo in un insieme completo e coerente.
La visione antropologica di Mill appare ricca e articolata: conta non soltanto la ragione
ma anche gli affetti, i sentimenti, le facoltà emotive. Da questo punto di vista Mill eredita
da David Hume l‟interesse per alcuni temi come quello della simpatia che unisce l’uomo ai
suoi simili nonché il recupero della lezione dei classici e del loro ideale di umanità, a
partire da Socrate, Platone e Aristotele, con frequenti richiami agli insegnamenti stoico
ed epicureo.
Ragioni e sentimenti:
si legga il passo della saggio sulla libertà (p. 56 del libro di testo).
… il passo si conclude:
Le passioni diventano pericolose solo quando non sono controbilanciate, cioè quando un determinato
complesso di tendenze e di inclinazioni si è sviluppato fortemente, mentre altre tendenze e inclinazioni,
43
che dovrebbero agire parallelamente, sono rimaste deboli ed inattive. Non sono passioni ardenti che
trascinano gli uomini al male, bensì le loro coscienze deboli.
Educazione
La cultura dell‟intelletto va rafforzata dalla cultura del sentimento giacché non sono
sufficienti la logica e l‟analisi se manca l‟arte e la poesia (Mill è a metà strada fra
l‟Illuminismo e il sorgere del Romanticismo).
Cosa significa avere carattere?
p. 57:
“si dice che una persona ha carattere quando ha aspirazioni e desideri propri, espressioni autentiche della
sua natura quale è stata sviluppata e modificata dall’educazione. Un essere che non ha desideri ed
aspirazioni provenienti dalla sua personalità non ha maggior carattere di quanto non abbia, ad esempio,
una macchina a vapore.... Chiunque ritenga che non si debba incoraggiare lo sviluppo individuale dei
caratteri, dovrebbe pure sostenere che la società non ha bisogno di nature robuste, ch’essa non trae
vantaggio da tempre forti e che non è in generale desiderabile che ci sia una media elevata di individui
energici” (dal saggio Sulla Libertà).
Quindi: la società che Mill auspica non è la società di individui un po‟ scialbi, che non
hanno grandi interessi, che magari vivono ritirati dalla vita pubblica, che rinunciano a
vocazioni forti. Ma è piuttosto una società di individui forti: individui di carattere, capaci
di incidere sull‟andamento del mondo.
44
Tutto questo deve farci rileggere attentamente il principio del danno (nessuna
autorità può essere imposta se non per prevenire danno a terzi).
Il principio non è funzionale ad individui che magari si ritirano dalla scena pubblica, che
si chiudono nei loro piccoli mondi privati, che diventano apatici ed indifferenti.
Piuttosto le norme che la società può legittimamente imporre ai suoi membri sono di
due tipi:
- nel non ledere gli interessi altrui, o piuttosto quel determinato gruppo di
interessi che, per espressa disposizione di legge o per tacito consenso, devono
considerarsi quali diritti;
- nell‟assumere ciascuno la sua parte (da stabilire sulla base di certi principi di
equità) di responsabilità e di sacrifici necessari per la difesa della società e dei
suoi membri contro ogni danno e molestia.
Quindi:
i due principi di Mill sono: libertà e responsabilità
Come si raggiunge l‟obiettivo di avere cittadini virtuosi?
Naturalmente la virtù non la si può imporre con la forza:
si legga il seguente passo di un filosofo liberale Will Kymlicka:
45
“Mentre noi possiamo sbagliare nelle nostre convinzioni e valori, non necessariamente ne segue che
qualcun altro, che ha ragione di credere che stiamo incorrendo in un errore, possa venire e migliorare la
qualità della mia vita dirigendola al posto mio… la mia vita migliora solo se sono io a condurla
dall’interno, secondo le mie convinzioni e valori”.
Questo significa che né la politica né la società possono imporre certi valori sugli
individui.
La difesa del pluralismo va fatta seguendo almeno due strategie:
- attraverso la tolleranza: che va intesa non come semplice rassegnazione
all‟altro, né come ritiro dalla scena pubblica, ma solo come l‟interdizione di
tutti i mezzi violenti, ingiuriosi o dolorosi, per esprimere i propri valori.
- Rispetto dei valori altrui
Se dovessimo tradurre questi principi in campo bioetico dovremmo riconoscere la
facoltà di ogni individuo di perseguire nel modo che più gli si confà le scelte più
importanti (quelle di procreare, di continuare una gravidanza iniziata, di ricorrere a
tecniche artificiali per la procreazione, di morire in un modo dignitoso).
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Il conflitto come scuola dell‟io: La lezione di Georg Simmel
Nella storia della filosofia vi sono due tradizioni opposte sul conflitto. Quella che risale a
Platone e che vede nel conflitto il male assoluto (la rottura dell‟armonia) e quella che
risale ad Eraclito che vede nel conflitto l‟essenza della giustizia (nel frammento 80 si
legge: la giustizia è conflitto).
Georg Simmel appartiene a questa seconda tradizione. Egli vede nel conflitto una
caratteristica fisiologica sia degli individui che della società. Il conflitto si Simmel è
diverso sia da quello di cui parlava Konrad Lorenz (secondo cui il conflitto è pre-sociale
ed è generato dall‟aggressività naturale degli esseri umani) sia da quello di Freud
(secondo cui il conflitto nasce dalla frustrazione delle pulsioni da parte della società. Per
Freud è la società – l‟educazione, la civiltà, etc .. – a creare un disagio che si esprime nel
conflitto).
Per Simmel la categoria da utilizzare per comprendere il conflitto è quella
dell‟ambivalenza.
il primo conflitto è un conflitto di doveri (che derivano dalle varie affiliazioni sociali:
doveri di padre, di uomo politico, di professionista, di uomo di chiesa, etc….).
Simmel prospetta una tripartizione fra le richieste degli imperativi etici i quali
possono provenire:
- dalla realtà materiale (dalle cose)
47
- dalla società (gli uomini)
- dagli ideali (la religione, l‟arte, il diritto, la filosofia, le idee).
Simmel fa l‟esempio di Antigone che vuole opporsi a Creonte e dare sepoltura al fratello.
Qui il conflitto è fra pietà familiare e legge dello stato. Tuttavia, questa lacerazione
dell‟individuo moderno, dilaniato fra varie e contrapposte affiliazioni, non ha solo un
effetto tragico, negativo. Ma anche un effetto liberatorio.
L‟uomo inchiodato ad un solo imperativo non percepisce la tragicità del conflitto ma
non può pienamente esprimere se stesso, la molteplicità di appartenenze può far sì che
l‟uomo scelga e si individualizzi prescindendo da ciascuna di esse.
Quanto più la vita scorre uniforme, tanto meno fortemente emerge il sentimento della
personalità; viceversa, confronti, attriti, conflitti scatenano una molteplicità di relazioni
che rafforzano quel sentimento dell‟io che, altrimenti, rimarrebbe latente.
La pluralità dei rapporti, la moltiplicazione dei legami d‟appartenenza dell‟individuo a
diverse cerchie sociali – associazioni professionali, partiti, club – gli garantiscono la
possibilità di autonomia ed individualizzazione sconosciute in epoche precedenti.
In una società primitiva l‟individuo vive nel gruppo e soggiace agli imperativi del gruppo
(ad una volontà unitaria). Ma con il crescere della complessità – dell‟esposizione ad
appartenenze plurime – allora cresce anche la necessità di differenziarsi.
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Simmel ridimensiona il concetto di ruolo (concetto che fino agli anni ‟50 aveva una
potenza dirompente: il buon amministratore, il buon padre di famiglia; il buon
lavoratore, la brava moglie, etc…).
p. 85: “sappiamo dell‟impiegato che non è solo impiegato, del commerciante che non è
solo commerciante, dell‟ufficiale che non è solo ufficiale: e questo suo essere extra
sociale, il suoi temperamento e la conseguenza delle sue vicende, dei suoi interessi, del
valore della personalità, per quanto poco possa influire sul fatto principale delle attività
impiegatizie, commerciali o militari dell‟individuo, gli dà tuttavia per ogni situazione alla
quale si trova di fronte, di volta in volta, una particolare sfumatura e intesse il suo essere
sociale di elementi imponderabili extra sociali”.
Gli individui si distinguono per quell‟oltre.
La appartenenza plurima ha effetti non solo sull‟etica ma anche sulla bioetica:
si pensi al caso di Terry Schiavo, la donna in stato vegetativo permanente, per cui il
marito chiese al tribunale che venisse staccata la spina della macchina a cui stava legata. I
genitori si opposero:
A chi appartiene il corpo? Alla famiglia d‟origine, parentale o a quella contrattuale? E
qualora il corpo di cui si discute appartiene a un individuo separato che convive con
un‟altra donna, a chi appartiene la scelta? Alla ex moglie o alla attuale compagna?
In sintesi la complessità della società rende più complesse le soluzioni.
49
Tuttavia, Simmel seppure rinunci ad offrire una soluzione, suggerisce una strada. La
strada è quella di prendere sul serio la soggettività.
L‟autonomia è solitudine, ma è anche il presupposto per una forte coscienza di sé.
p. 87:
“Nel sentire più basso non si giungerà facilmente al conflitto, ma non si giungerà così facilmente a una
forte coscienza dell’io; -…che cos’è l’unità dell’anima nessuno lo sa, ma si potrebbe forse dire: l’anima è
ciò in cui ha luogo la lotta e la pace”.
Il conflitto viene rivalutato anche per la dimensione dialogica che esso instaura.
Dialogare significa essere in conflitto: ma significa anche competere ed argomentare per
vincere.
Il dialogo però perché sia proficuo deve essere arricchito di altri ingredienti:
1) la capacità di ascolto dell‟altro
2) la rinuncia alla sacralità dei valori difesi
3) la sostituzione del concetto di sacralità dei valori con quello dell‟eccellenza
della elaborazione di un‟etica che anziché effettuare una gerarchia fissa di principi e
valori muova da una visione condivisa dell‟uomo (magari con l‟ausilio di un
approccio interdisciplinare).
La democrazia come confronto di idee
50
Suggerisce Stuart Hampshire che la vera essenza della democrazia è quella
dell‟argomentare posizioni diverse. Il compito del ragionamento pratico è quello di
arrivare ad una politica culturale condivisa all‟interno di istituzioni condivise.
Hampshire è convinto che il dibattito aperto sul conflitto dei valori sia un valore in sé.
Hampshire si dichiara favorevole all‟accettazione della molteplicità di ideali e di
concezioni del bene, temperata dal rispetto per le convenzioni locali e per le regole sulla
risoluzione dei conflitti.
51
TEORIE LIBERALI E LIBERTARIE
1. La bioetica come etica pubblica
L‟influenza dell‟utilitarismo è stata preponderante nel dibattito politico, specie in area
anglosassone, per buona parte del Novecento. Fino a quando il dibattito teorico non si è
spostato dall‟utilitarismo ai diritti individuali di libertà.
Vi è stato secondo Herbert Hart:
“un processo di abbandono del vecchio credo un tempo diffusamente accettato che una qualche forma di
utilitarismo debba poter cogliere l’essenza della moralità politica…. Nuovo credo è che la verità può
trovarsi… in una dottrina dei diritti umani fondamentali che proteggono specifici interessi e libertà
fondamentali degli individui…8.
Le teorie fondate sul valore della libertà individuale possono essere distinte fra loro in vari
modi.
Occorre distinguere fra teorie dell‟eguaglianza liberale o teorie egalitariste e teorie libertarie.
Teorie liberali
Le prime collocano i diritti di libertà nel contesto del disegno di una società di individui
liberi e eguali, ove l‟eguaglianza è intesa anzitutto come equa eguaglianza delle
8 H.L.A: Hart, Fra Utilità e diritti,, Sociologia del diritto (VI) 1979, pp. 1-22.
52
opportunità o delle risorse che permettono il pieno esercizio della libertà. All‟interno di
questa prospettiva, si possono distinguere le formulazioni che si fondano sull‟esplicita
ripresa della nozione di contratto sociale e sull‟idea di principi normativi di giustizia, il
cui esempio più importante è la teoria della giustizia come equità di John Ralws, da
quelle che si articolano più direttamente in termini di diritti, assegnando una precisa
priorità ai diritti di eguaglianza rispetto ai diritti di libertà e al calcolo delle conseguenze.
In questo senso Ronald Dworkin ha sostenuto che in base al diritto fondamentale di
ogni individuo a uguale considerazione e rispetto, i diritti individuali a libertà
particolari sono riconosciuti solo quando il diritto al trattamento come eguali comporta
questi diritti.
Teorie libertarie
Il secondo gruppo di teorie si distacca nettamente dal criterio dell‟eguaglianza, in
particolare quanto esso è riferito ai beni e alle opportunità a prescindere dal percorso
storico delle acquisizioni. Secondo Robert Nozick una distribuzione è giusta se ognuno
ha titolo ai beni che possiede con quella distribuzione e la titolarità del possesso è valida
se è stata acquisita giustamente: infatti, la giustizia nei possessi è storica; dipende da ciò
che è realmente accaduto… circostanze passate o le azioni delle persone possono creare
titoli validi.
In questa prospettiva i diritti di libertà sono prioritari rispetto al principio di eguaglianza.
I diritti di libertà non possono essere limitati da considerazioni di equità o da criteri
53
egalitaristi di ripartizione delle risorse. La libera autodeterminazione degli individui è in
sostanza l‟unico diritto fondamentale, che comporta la tutela da interferenze su tutto ciò
che fa parte della sfera privata del soggetto (la sua corporeità, le sue scelte personali, le
sue capacità, i suoi beni).
Contrattualismo e neocontrattualismo
La tradizione liberale ha una lunga storia che ha avuto inizio nella tradizione
giusnaturalista e ha in autori come Locke, Rousseau e Kant alcuni fra i suoi principali
esponenti.
L‟idea che la società è il risultato di un contratto sociale fra individui liberi e eguali è uno
dei fondamenti della teoria dei diritti individuali: diritti che preesistono allo stato e alla
società politica in genere e che dunque sono naturali.
La teoria del contratto sociale è stata ripresa dai pensatori liberali americani. John Rawls,
nel suo Una Teoria della Giustizia, riprende la formula del contratto originario – che è
un‟operazione mentale per stabilire a quali principi di giustizia i membri di una società
aderirebbero in una situazione ipotetica e originaria.
Nel contratto originario, infatti, gli individui contrattano trovandosi nella condizione
definita velo di ignoranza: essi non conoscono quale posizione avranno nella società, né
quali sono le posizioni degli altri. In questa situazione ipotetica gli individui
verosimilmente formuleranno due principi di giustizia: (a) ad ognuno deve essere
garantita tanta libertà quanto sia compatibile con la libertà di ogni altro individuo; (b) le
54
disuguaglianze sono tollerabili nella misura i mutamenti che generano disuguaglianza
siano tali da migliorare la posizione di coloro che stanno peggio.
Afferma Rawls:
(a) Ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile ad uno schema pienamente adeguato
di uguali libertà di base compatibile con un identico schema di libertà per tutti gli
altri;
(b) Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni:
primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di
equa eguaglianza delle opportunità; secondo devono dare il massimo beneficio ai
membri meno avvantaggiati della società (principio della differenza).
I due principi sono ordinati lessicalmente in modo che il secondo principio non
possa essere applicato in modi che implichino la violazione del primo: la libertà può
essere limitata solo in nome della libertà stessa, e cioè o per rinforzare il sistema totale
delle libertà condivise o in forza della libera accettazione di coloro a cui si impongono
i vincoli.
Le libertà fondamentali sono beni primari: fra questi la libertà di espressione, di
associazione, di movimento, poteri e prerogative connesse a responsabilità. La salute
e le cure sanitarie non rientrano per Rawls fra i beni primari.
55
Il presupposto antropologico del neocontrattualismo di Rawls è che
Ogni persona possiede un‟inviolabilità fondata sulla giustizia cui neppure il
benessere della società nel suo complesso può prevalere.
Dworkin: i diritti presi sul serio
I diritti, secondo Dworkin, sono “pretese giustificate”, vale a dire ragioni per agire o
essere trattati in un certo modo, di cui si può esibire giustificazione in grado di ottenere
un riconoscimento sociale.
Tutti i diritti traggono giustificazione dalla necessità di garantire a tutti eguale
considerazione e rispetto, che funge da diritto fondamentale.
Il diritto all‟eguale considerazione e rispetto si traduce nella tutela di interessi critici, fra
cui quello all‟autodeterminazione, in particolare in riferimento a momenti salienti della
vita come il generare (in relazione all‟aborto) e il morire.
Teorie libertarie: Robert Nozick
Le teorie libertarie si strutturano intorno al diritto fondamentale di proprietà su di sé,
cioè sul proprio corpo, le proprie abilità, i propri beni.
In base a quello che Nozick chiama principio di autoappartenenza, l‟autonomia
significa innanzitutto l‟assoluta sovranità su se stessi.
Bioetica contrattualista, dei diritti e libertaria
56
In linea generale la bioetica liberale si fonda sull‟idea che lo stato deve mantenere
una certa neutralità di fronte alle scelte morali dei suoi cittadini. Dal momento
che molte decisioni in materia di bioetica attengono alle scelte morali – il non
interventismo statale è riflesso del rispetto dell‟etica liberale per il principio di
AUTONOMIA.
1. Medicina e il contratto sociale
Una prospettiva esplicitamente contrattualista, formulata su basi rawlsiane è quella
sostenuta da Robert M. Veatch.
Veatch muove da una constatazione di fatto: il declino dell‟epoca ippocratica,
caratterizzata da una forte componente paternalista medico-paziente.
Con l‟affermazione di principi di autonomia, il rapporto fra medico e paziente è
reinterpretato in termini di contratto: di partnership fra soggetti con pari dignità e reciproci
doveri.
I principi sono generati da un triplice livello di contratti:
a) il contratto sociale generale che istituisce le regole di una pacifica convivenza
democratica;
57
b) quello fra la società e il gruppo di professionisti (medici, avvocati o altro) nel
quale si stabiliscono gli scopi e i confini di una pratica socialmente
riconosciuta;
c) e quello fra il singolo paziente e il suo medico, in cui si definiscono gli obiettivi
e i mezzi di una specifica prestazione professionale.
Dal contratto emergono due generi di criteri normativi: Principi non consequenzialisti
(autonomia, veridicità, fedeltà alle promesse, astensione dall‟uccisione, giustizia) e
principi consequenzialisti (beneficenza e non maleficenza).
I principi non consequenzialisti prevalgono sempre su quegli consequenzialisti.
Norman Daniels: sostiene che il diritto alle cure si basa sul principio di eguaglianza di
opportunità: poiché infatti la malattia comporta una diminuzione della capacità
individuale di accedere alla normale gamma di opportunità, il sistema sanitario deve
garantire a ogni malato la possibilità di ristabilire il funzionamento normale del proprio
organismo in modo da poter conseguire gli scopi basilari di ogni individuo ragionevole.
58
2. Diritto alla vita, autodeterminazione e eutanasia
Il riferimento ai diritti (inteso innanzitutto come diritti morali in quanto distinti dai diritti
giuridici) è assai diffuso in bioetica. Ciò non sorprende, in quanto il linguaggio dei diritti
ha spesso la funzione di segnalare esigenze morali non eludibili sul piano politico e
giuridico, rispetto alle quali i diritti costituiscono un essenziale ponte concettuale, oltre
che un‟arma retorica estremamente efficace.
Dworkin ha sviluppato un insieme di tesi su questioni di bioetica, benché esse non siano
derivate in modo diretto dalla sua concezione dei diritti. Piuttosto Dworkin mette a tema
alcune precomprensioni che costituiscono uno sfondo comune, nelle società liberali, per
dibattere questioni relative alla vita e alla morte (in particolare su aborto e eutanasia).
Si tratta dunque di uno sfondo comune di etica pubblica dal quale emergono i diritti.
Dworkin critica la impostazione classica del dibattito sull‟aborto, che fa dipendere quest
ultimo dalla vexata quaestio dello statuto ontologico e morale dell‟embrione e del feto.
A questa discussione derivata, che non può risolversi a causa dell‟incomparabilità delle
concezioni in lizza circa l‟embrione, Dworkin oppone una tesi indipendente, basata sul
valore intrinseco della vita umana.
Dworkin asserisce che vi è un generale accordo su un principio fondamentale: la vita
umana individuale è sacra.
59
Per Dworkin questa idea si fonda su un‟intuizione: il valore della vita è oggettivo e del
tutto indipendente dal suo valore personale per ognuno. Anzi, l‟idea di un valore
intrinseco è un luogo comune.
Tuttavia questa precomprensione deve essere interpretata: la vita umana ha valore
intrinseco se permette la realizzazione di interessi critici. “La vita non si giudica
calcolando la somma totale di piacere, godimento e soddisfazioni, bensì in modo più strutturale, allo
stesso modo di come giudichiamo, per esempio, le opere letterarie, nelle quali i brutti finali sfigurano
quanto li precede”9
Questo significa che la vita ha valore in quanto ambito di realizzazione di interessi critici.
Per questo noi abbiamo l‟intuizione che la perdita di certe vite è più grave di altre.
“La frustrazione è infatti più grave se si verifica dopo anziché prima che una persona abbia fatto un
investimento significativo sulla propria vita, ed è minore se accade dopo che un qualche investimento sia
stato sostanzialmente realizzato, o comunque realizzato nella misura del possibile”10.
Il dibattito nelle sue linee essenziali potrebbe di per sè approdare ad un sostanziale
accordo di tutte le posizioni, sia conservatrici che liberali, se ci si limitasse al valore
"sacro" ("inviolabile" in termini laici) della vita umana. Valore che sancisce una "ragione
indipendente". Il disaccordo invece così frequente su quei temi, nasce da una "ragione
derivata" di carattere giuridico. Infatti, non si mette in gioco il valore religioso-filosofico
e intrinseco della vita umana, che laici e credenti in genere condividono, E' piuttosto
9 R. Dworkin, Il Dominio della vita, Aborto, eutanasia e libertà individuale, trad. it. di C. Bagnoli,
Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 16. 10
Ivi, p. 37.
60
l'adozione di un certo linguaggio, che nel caso dell'aborto definisce il feto "persona", a
far scattare una conflittualità di tipo giuridico, con diritti contrastanti e problemi di
precedenza riguardo a disposizioni di legge di competenza dello Stato. Se il feto è
soggetto di diritti, a pari titolo di qualsiasi cittadino, l'aborto diventa omicidio. La
Costituzione, che tutela eguali diritti per i singoli cittadini, vieterebbe in ogni caso di
"uccidere una persona innocente per salvare la vita di un'altra"[p.156]. La proposizione
"l'aborto è un omicidio" non regge: suppone un'ammissione giuridica sulla persona del
feto, inconsistente. Per quanto si possa accettare che l'embrione abbia un proprio codice
biologico e che a quattordici giorni è "organismo vivente identificabile"[28], è questione
"troppo ambigua"[29] chiedersi se esso sia anche persona. Con tali premesse ogni
vivente sarebbe persona. Anche la storia giuridica delle interpretazioni costituzionali non
va in tale direzione.
Presupponendo che "la vita umana in se stessa ha un significato morale intrinseco"[47]
sarebbe possibile combinare, anche nel caso della più rigorosa morale cattolica,
"metafisica tomistica tradizionale e scienza moderna"[58] (S.Tommaso non era così
tassativo nel determinare il momento dell'animazione del feto, decisivo per un discorso
sulla persona). E' noto, del resto, che solo da un secolo la posizione cattolica adotta il
linguaggio dei diritti del feto. Precedentemente giudicava grave ogni "interferenza con la
forza creativa di Dio"[59] e condannava, a questo titolo, masturbazione, contraccezione
e aborto. Quest'ultimo indipendentemente dagli "interrogativi sul momento in cui
l'anima spirituale viene infusa"[60]. Lo si rileva ancora nel 1974, da una nota della Sacra
Congregazione della Chiesa. Il cambiamento di linguaggio argomentativo è dovuto al
61
fatto che la Chiesa intende farsi valere in ambito politico laico, ove l'argomentazione
sulla sacralità della vita ormai non fa più presa.
Anche il movimento femminista concorda sul valore intrinseco e inviolabile della vita. In
più sostiene lo "speciale legame tra una donna in stato di gravidanza e il feto che porta in
grembo"[69]. Tale "speciale legame" rientra nel senso espresso dalla Corte suprema
statunitense nel caso Roe v.Wade (caso che ha ritenuto incostituzionale una legge che
vietava l‟aborto), ed è inteso estensivo del diritto della privacy (rapporti sessuali,
decisioni delle coppie...). Da intendersi però non come diritto di privacy egoistica. Qui è
in causa l'"argomento basato sulla responsabilità"[78]. Sono le donne che devono tener
conto della "dura realtà" che fa sì, come dice la femminista R.West, che "la decisione di
abortire è quasi invariabilmente presa all'interno di una rete di responsabilità e impegni
interconnessi, confliggenti e spesso inconciliabili"[78]. Dunque, la vera questione
dell'aborto non è lo "status metafisico del feto" ma il "conflitto di responsabilità"[80].
Abortire non è pertanto problema a senso unico: spesso è più egoistico volere il
bambino comunque, senza pensare alle conseguenze.
Solo "l'idea di sacro" ci guida nei giudizi sulla vita umana (aborto, eutanasia, generazioni
future, ecc.), come idea "intuitivamente potente"[108], valida anche per i non religiosi. E'
idea universalmente condivisa in occidente che l'aborto "è moralmente sbagliato"[86]. Lo
stesso linguaggio legislativo la evidenzia (in Francia si promuove "un esercizio di
responsabilità personale" chiedendo alla donna, senza per questo intaccarne la libertà, di
consultarsi in merito alla propria decisione; in Germania, con una significativa sentenza
62
della Corte costituzionale, si dichiara anticostituzionale un aborto "senza alcuna ragione"
nelle prime dodici settimane dell'embrione).
Quel che si deduce sempre, e che nemmeno la "posizione ancora più estrema per cui
l'aborto non è mai giustificato", propria di "una minoranza di cattolici", è che tale idea dà
"priorità all'investimento divino o naturale nella vita"[129] e non alla tesi giuridica del
feto come persona, su cui sarebbe ingiustificabile un intervento di terzi (il medico).
Altra fonte di disaccordo tra conservatori e liberali si riscontra nel fatto che i primi
privilegiano la vita in quanto realtà naturale ("investimento naturale" e relativa "perdita-
di-vita"); i secondi, invece, valutano la vita nei suoi significativi coinvolgimenti emotivi di
"processo creativo" ("investimento umano" che può subire "frustrazione"[122]). E' con
questa categoria, non con quella di perdita di vita, che abitualmente stabiliamo gerarchie
di gravità (tra embrione o feto maturo, tra morte di un giovane o di un vecchio, ecc.) con
comprensibili giudizi discordanti. Tuttavia, tra i due estremi, "l'idea che conti solo
l'investimento naturale...e l'idea che conti solo l'investimento umano" c'è "un insieme di
criteri più moderati e complessi"[125-7].
Tra gli stessi conservatori c'è dibattito se l'aborto sia ammissibile solo per salvare la vita
della madre o anche in altre circostanze (stupro, malformazione, ecc.). In ogni caso "la
tesi della personalità del feto" risulta insostenibile: perché il nascituro avrebbe meno
diritti? Solo la tesi dell'"investimento creativo" ammette eccezioni (conservatori
moderati): "lo stupro è una dissacrazione terribile dell'investimento della vittima nella
propria vita"[131].
63
Diremo allora: gli "Stati non hanno il potere di imporre ai loro cittadini una
concezione particolare di come e perché la vita sia sacra"; tuttavia "gli Stati
hanno il potere di incoraggiare i loro cittadini a trattare seriamente la questione
dell'aborto"[209]. Ad esempio, stabilendone "un ragionevole quadro
normativo"[210]. Imporre delle restrizioni non va contro l'obiettivo della
responsabilità personale della donna, nè impedisce l'adozione di "strategie
politiche" atte a incrementare ogni forma di vita quale valore in sè, quella del feto
in primo luogo. Quali restrizioni, allora? La "notificazione obbligatoria al
coniuge"? Un "periodo obbligatorio di attesa"[237s]? Certamente ci sono modi
meno coercitivi per scoraggiare l'aborto; per esempio offrendo sostegno
economico alle madri povere.
In definitiva, il "diritto di abortire" si evince dal fatto che "la controversia è, alla fine,
religiosa"; e la Costituzione americana (primo e quattordicesimo emendamento) tutela la
libertà di religione. C'è diversità di opinioni religiose sulla moralità dell'aborto, per cui lo
Stato deve "accantonare il problema". Naturalmente va ricordato che tale Costituzione
offre un esempio della "cultura politica occidentale" la quale mette al primo posto la
"dignità dell'individuo". Essa sta alla base della scelta dell'abolizione della schiavitù e
degli ordinamenti democratico-repubblicani; per cui "il principio di autonomia
procreativa, in senso lato, è implicito in ogni cultura autenticamente democratica".
Sull'EUTANASIA, premesso che c'è differenza essenziale tra dare direttamente la
morte o sospendere un trattamento terapeutico o il suicidio assistito da un medico,
vanno valutati tre tipi di situazione:
64
1) soggetti coscienti, capaci di intendere e volere;
2) soggetti incoscienti (con o senza testamento che escluda il prolungamento artificiale
della vita);
3) soggetti coscienti ma incapaci di intendere e volere, come avviene nello stadio iniziale
di certe forme di demenza senile.
Sta il fatto "che la convinzione che la vita umana sia sacra può rivelarsi un argomento
cruciale a favore, anziché contro, l'eutanasia". Tre sono infatti gli obiettivi da
interconnettere in una decisione di eutanasia: l'autonomia del paziente, i suoi migliori
interessi e il valore intrinseco della vita. Non è vero che l'alternativa all'eutanasia sia
tutelare gli interessi del paziente prolungandone la vita vegetativa credendo di non
causarne danno: "costringere a vivere persone che vogliono realmente morire causa loro
grave danno". "Vi sono pericoli sia nel legalizzare l'eutanasia, sia nel rifiutare di
legalizzarla". E' impossibile che tutti abbiano le stesse convinzioni su ciò che fa una "vita
buona". Sarebbe pretendere che tutti abbiano gli stessi gusti. Lo Stato pertanto non deve
imporre "alcuna uniforme concezione generale attraverso la sovranità della legge" ma
deve piuttosto incoraggiare "le persone a dare esse stesse disposizioni meglio che
possono per la loro assistenza futura"; oppure deve permettere che si "lasci la decisione
nelle mani dei loro familiari o di altre persone intime".
Fermo restando che "scegliere la morte prematura è...l'offesa più grande al valore sacro
della vita" ci troviamo davanti pur sempre a due posizioni: quella conservatrice che
salvaguarda "l'investimento naturale" del valore della vita (in questo caso non va mai
65
praticata l'eutanasia) e quella liberale che si basa sull'"investimento umano"[295]. Ma
anche nella posizione conservatrice non c'è accordo sul fatto che l'eutanasia frustri
inevitabilmente la natura. In certi prolungamenti artificiali della vita si hanno frustrazioni
della natura: "diremo allora che talvolta l'eutanasia difende questo valore"[297]. C'è più
rispetto della vita evitando certe situazioni che impediscono una morte dignitosa. Il
problema politico è "se una società decente sceglierà la coercizione o la
responsabilità"[298]. Occorre "mostrare ciò che è veramente in gioco nell'accesa
discussione pubblica sull'eutanasia". Il problema non è se rispettare o meno la sacralità
della vita ma "come la sacralità della vita debba essere intesa e rispettata"[299].
"La tolleranza è il prezzo che dobbiamo pagare per la nostra avventura nella
libertà". Del resto "nessuna vita è buona se vissuta contro la propria
convinzione"[230]. E' importante il come si muore, il ricordo che si vuol lasciare di se
stessi, il giudizio negativo su una dipendenza totale dall'aiuto altrui, la considerazione
degli oneri finanziari pubblici e privati, il rifiuto di una vita totalmente artificiale, la
previsione di dolori intollerabili nella fase terminale, insomma, la coerenza con una
rappresentazione di sè per cui si è vissuti. Per molti vale ancora la "antica speranza" che
"la loro morte esprima...i valori che reputano i più importanti della loro vita"[292]. Come
c'è una ragione per vivere, c'è una ragione per morire onde evitare "una vita
vegetale"[293].
In conclusione, pare ammissibile che le "grandi questioni morali dell'aborto e
dell'eutanasia, che segnano l'inizio e la fine della vita in senso proprio, hanno strutture
simili. Ciascuna implica decisioni non solo sui diritti e gli interessi di persone particolari,
66
ma sull'importanza cosmica intrinseca della vita umana stessa. In ciascun caso le opinioni
si dividono non perché alcuni disprezzano i valori che altri onorano, ma, al contrario,
perché i valori in questione sono al centro delle vite di ciascuno, e nessuno è disposto a
considerarli così banali da accettare gli ordini di altre persone riguardo al loro
significato"[300].
Nell'ultimo capitolo del Dominio della vita Dworkin esamina il caso di persone dementi
(morbo di Alzheimer) giunte ad uno stadio che toglie le capacità di "condurre" in
autonomia la propria vita (non importa se con autonomia coerente o incoerente rispetto
a certi valori). In tal caso la persona "non ha diritto a che le sue scelte...siano rispettate
per ragioni di autonomia". Per quanto la questione sulla capacità di autonomia di
persone a vario grado di demenza sia molto complessa, si può arrivare alla "decisione
surrogata per persone dementi"[310].
3. L‟Eugenetica liberale
Dal momento che il liberalismo di Rawls muove dal principio dell‟equa eguaglianza di
opportunità, l‟eugenetica può offrire un contributo – tecnico – per rimuovere alcuni
effetti della lotteria naturale. Ma fino a che punto questo intervento è consentito?
La ingegneria genetica da un lato estende la responsabilità sociale per l‟equa
eguaglianza al di là della semplice distribuzione di beni primari, dall‟altro tuttavia può
essere stessa dar luogo a forme impreviste di iniquità.
67
Alcuni autori di impronta liberale (Norman Daniels, Buchanan, Winkler, autori del
testo: From Chance to Choice: Genetics & Justice, Cambridge, 2000) scrivono:
“Vi è una presunzione ben fondata che l‟intervento genetico per prevenire o
migliorare gravi limiti di opportunità dovuti alla malattia sia un requisito di
giustizia. E la giustizia può richiedere di regolare le condizioni di accesso al
potenziamento genetico per prevenire l‟esarcerbarsi delle attuali
disuguaglianze ingiuste” (p. 101).
L‟eugenetica che tuttavia segue scopi diversi da quello di appianare le storture della
lotteria naturale, che ad esempio è improntata alla discriminazione razziale, va
sicuramente bandita.
Particolarmente severo è Jurgen Harbemas il quale insiste sul fatto che la differenza
fra terapia e potenziamento deve restare un limite invalicabile. Egli scrive:
“Interventi genetici migliorativi compromettono la libertà etica in quanto fissano l’interessato a
intenzioni di terze persone e gli impediscono di concepirsi come l’autore indiviso della propria vita.
Solo nel caso negativo in cui si tratti di prevenire mali estremi e universalmente riconosciuti come tali,
sussistono buone ragioni per ritenere che l’interessato sarebbe d’accordo con quelle aspettative” (Il
Futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, 2002).
4. Diritti di libertà e bioetica
68
Mentre il principio di base della bioetica liberale è quello della sostanziale neutralità delle
scelte pubbliche su questioni morali, le tesi libertarie si spingono oltre.
Sulla scia di Nozick e della tesi dell‟autoappartenenza, le teorie libertarie basate sui diritti
hanno un percorso e una via diversa per pervenire alla liceità dell‟aborto e dell‟eutanasia.
Secondo Judith Jarvis Thomson, benché si possa riconoscere un diritto del feto alla
vita, cioè a non essere ucciso ingiustamente, tale diritto non può prevalere sul diritto
della donna a disporre liberamente del proprio corpo.
La situazione, nel caso di gravidanza, è infatti analoga a quella di qualcuno il cui corpo
fosse collegato ad un altro individuo (nel caso di Thomson, un famoso violinista) la cui
vita dipendesse proprio da tale connessione fisica: come non vi sarebbe un obbligo
assoluto di mantenere la connessione e tenere in vita l‟altro individuo, così non vi è un
dovere inviolabile di portare a termine la gravidanza.
John Robertson con argomenti simili difende la libertà procreativa, sia dei singoli che
delle coppie, sia sterili che non.
Circa gli embrioni la tesi libertaria è condivisa da H.T. Engelhardt, il quale afferma: “a
essere speciali, almeno se uno ha solo una morale laica, sono le persone, non gli esseri
umani. Gli umani adulti capaci di intendere e di volere moralmente hanno uno stato
morale che i feti umani e i bambini piccoli non possiedono”. (Manuale di Bioetica).
69
COMUNITARISMO, ETICA DELLA VIRTU‟ E BIOETICA
Se il liberalismo propone innanzitutto una separazione fra pubblico e privato e il
predomino del principio di autonomia, il comunitarismo muove una critica
all‟individualismo liberale espresso in particolare dalle teorie neocontrattualistiche e dalle
tesi libertarie.
Il comunitarismo riprende la nozione antica di bene comune, ovvero del bene della
comunità in quanto tale e asserisce che il perseguimento di una vita buona presuppone
anche la condivisione di certi valori con gli altri membri della comunità.
Lo stato ispirato a principi comunitaristi non soltanto rifiuta l‟idea della neutralità asettica
della politica, ma muove altresì una critica ben più radicale al concetto di individuo
astratto – coperto da un velo di ignoranza, e comunque capace di emanciparsi dalle
proprie relazioni umane più comuni (sociali, culturali, razziali, religiose) quando entra
nell‟arena pubblica. Secondo il comunitarismo i cittadini entrano nella vita politica con
una serie di vincoli e legami sia affettivi che culturali. Nelle teorie liberali della giustizia,
infatti, si cerca di prescindere proprio da quegli aspetti (la concezione del bene,
l‟appartenenza culturale, i ruoli sociali, i vincoli emotivi) che costituiscono la sostanza
dell‟identità personale degli individui; le conclusioni che da tali teorie si possono ricavare,
secondo i comunitaristi, risultano inadeguate perché esse non corrispondono ai valori
realmente in gioco nelle situazioni concrete.
All‟obiettivo della semplice convivenza pacifica, i comunitaristi affiancano anche
l‟aspirazione di ogni essere umano al riconoscimento: ad essere riconosciuti per quello
70
che si è dagli altri concittadini. Per questo motivo la comunità politica non può
facilmente spogliarsi dei valori condivisi dai suoi membri. Anzi la politica deve recepire
tali valori comuni, per consentire a ogni cittadino il pieno sviluppo di sé.
Questa impostazione riflette la critica mossa da Hegel alla morale kantiana, in particolare
la contrapposizione fra moralität astrattamente impersonale e universalistica e l‟eticità
(Sittlichkeit) incarnata nelle pratiche sociali di una comunità (lo Stato per Hegel)
storicamente e culturalmente situata.
Anche per il comunitarismo le vie da perseguire non sono sempre le stesse. Se da un lato
MacIntyre vede nella tradizione aristotelico-tomista delle virtù gli elementi necessari e
sufficienti per il superamento della frammentazione morale contemporanea, Charles
Taylor invoca piuttosto il recupero della tradizione moderna della soggettività intesa
come ricerca dell‟autenticità – che ha il suo principale esponente in Rousseau.
Le teorie morali che stanno dietro al comunitarismo, seppure nella loro diversità, sono
caratterizzate da alcuni tratti ricorrenti:
- l‟enfasi sull‟agente (colui che compie l‟azione) più che sull‟azione medesima;
- l‟interesse per i motivi, le intenzioni, le emozioni e i desideri – in genere per il
carattere della vita morale interiore e dei modelli di motivazione;
- l‟enfasi sulla nozioni di narratività, vita buona e comunità;
- il ripudio del concetto di unencumbered self (di individuo decontestualizzato e
privo di vincoli).
71
Queste teorie vanno comunemente sotto il nome di etica della virtù per contrapporle
alle etiche consequenzialiste (utilitarismo) e quelle deontologiche (liberalismo).
Etica della virtù e bioetica
Il teologo protestante Stanley Hauerwas critica l‟impostazione sia delle etiche
consequenzialiste che di quelle deontologiche. Il problema morale, dal punto di vista
dell‟etica della virtù, è definito non dalla questione di cosa si debba fare, ma dal modello
d‟agente che l‟azione dovrebbe realizzare (Chi dovrei essere?11).
Hauerwas sottolinea come la prassi medica, originariamente connotata dai contenuti etici
della cura dei sofferenti, tenda naturalmente a configurare una comunità morale in grado di
sostenere la presenza del dolore e della malattia, ma che al tempo stesso essa ne sia oggi
obiettivamente impedita dal progressivo oscurarsi di significati riconoscibili e condivisi
dell‟esperienza della salute e della malattia. L‟impegno della comunità a prendersi cura
dei sofferenti è oggi oscurato dall‟ethos autonomistico e da quello contrattualistico.
In termini di virtù si è articolata la più antica tradizione di ricerca morale anche
nell‟ambito della riflessione filosofica. L‟etica fondata sulle virtù ha la sua
sistematizzazione canonica nell‟Etica Nicomachea di Aristotele.
******
11
S. Hauerwas, On Medicine and Virtue: a response, in E.E. Shelp (a cura di), Virtue and Medicine, Dordrecht, 1985,
p. 348.
72
Le argomentazioni in termini di virtù difficilmente conducono a tesi normative nette su
pratiche biomediche: fa parte di questo approccio il rifiuto di considerare le questioni di
bioetica esclusivamente come problemi cui la teoria morale deve fornire delle soluzioni
per tutti i casi simili. Piuttosto si ritiene primario il discernimento del singolo soggetto
agente di fronte a situazioni concrete, vissute in base al proprio carattere, nel loro
contesto specifico, e perciò non suscettibili di una valutazione normativa uniforme.
1. Aborto e virtù
Rosalind Hursthouse affronta il tema dell‟aborto articolando il giudizio etico in tre fasi:
a) un‟azione è giusta se è ciò che un agente virtuoso farebbe in quelle circostanze;
b) l‟agente virtuoso è colui che esercita le virtù;
c) una virtù è un tratto del carattere che un uomo deve avere per vivere bene e
prosperare (a flourishing life).
In relazione all‟aborto, l‟autrice americana svolge un‟ampia critica della posizione
utilitaristica e degli argomenti basati sull‟appello ai diritti (in particolare quelli avanzati
dalla J.J. Thomson sul principio di autoappartenenza).
Hurthouse sostiene piuttosto che il problema vada affrontato come la questione del
riconoscimento, da parte del soggetto agente e della comunità cui appartiene,
dell‟importanza e del significato dei fatti biologici e psicologici connessi al sorgere della
73
vita: l‟evento della generazione, infatti, mostra di avere un valore intrinsecamente
positivo (moralmente degno e significativo), che le argomentazioni utilitaristiche
e quelle basate sui diritti disconoscono totalmente12.
L‟importanza dell‟esperienza di generare una vita e dunque il suo significato
originariamente positivo non consentono che la scelta di abortire possa essere qualificata
un diritto. Il carattere virtuoso si impegnerebbe in prima istanza a tutelare il
sorgere della vita.
Tuttavia, continua Hursthouse, in certe circostanze e per certe donne, la scelta di
abortire può egualmente risultare compatibile con il riconoscimento del valore intrinseco
della genitorialità.
Si pensi ad una madre che concepisce un figlio in età avanzata e che magari ha già altri
figli. L‟aborto in questi casi è a tutela di una genitorialità responsabile che potrebbe
essere compromessa dall‟età avanzata della gestante. Lo stesso deve dirsi per i casi di
stupro, quando la donna può avere interesse a non far nascere un figlio di un padre
ignoto o violentatore. Nei casi di gravidanze in qualche modo deliberate, sebbene non
desiderate, la Hursthouse sostiene che sarebbe stato più saggio evitare la gravidanza
piuttosto che terminarla anticipatamente.
2. La medicina come pratica di virtù
12
R. Hursthouse, Beginning Lives, Oxford, 1987, pp. 307-318.
74
Edmund D. Pellegrino e David C. Thomasma hanno proposto di recuperare la
tradizione ippocratica della medicina. Il principio fondamentale che deve ispirare l‟etica
biomedica è la beneficenza. Al paternalismo della medicina tradizionale, tuttavia
Pellegrino e Thomasma oppongono una più ampia nozione di bene del paziente. Il
medico nel somministrare la cura deve prendere in esame una concezione di bene più
ampia di quella presa in considerazione dalla medicina ippocratica. Vengono individuati
vari livelli di bene (bene biomedico, miglior interesse in senso oggettivo, bene del
paziente come persona, bene ultimo) e vengono tutti inseriti in una visione unitaria della
persona.
La medicina è definita come una prassi per promuovere la salute, intesa come bene
relazionale, cioè come una valore primario per il paziente e per il medico in relazione fra
loro. Tale relazione si svolge sotto il segno costante della fiducia, in quanto il paziente
rivolge al medico un appello a prestargli soccorso con le conoscenze di cui dispone,
affidandosi così alle sue cure. Al medico è richiesto di non tradire la fiducia del paziente,
nonché una ben coltivata attitudine morale che lo abiliti a una particolare sensibilità nei
confronti delle richieste del paziente, dei suoi valori, delle sue opzioni fondamentali. Il
principio guida è dunque la beneficenza-nella-fiducia (beneficence in trust).
Il medico non si sostituisce al paziente nel compiere una scelta. Ma prende in
considerazione le opzioni fondamentali del paziente nel suggerirgli il percorso più
adeguato.
3. L‟eutanasia nell‟ottica della virtù
75
L‟etica della virtù non suggerisce un‟unica teoria normativa per la bioetica. Tuttavia non
mancano autori che hanno preso una posizione pro o contro una pratica.
Per l‟eutanasia verranno menzionati due autori – Philippa Foot e Daniel Callahan – che
hanno una posizione diversa in materia di eutanasia.
Philippa Foot muove dalla premessa che la morte è in generale un male. Tuttavia
l‟autrice ammette che in certi casi essa è piuttosto un beneficio piuttosto che un danno
per il paziente, a causa delle sue condizioni di grave sofferenza senza rimedio. Ora,
normalmente, la virtù della giustizia e quella della carità ci impongono di rispettare la
volontà di vivere delle persone, perché la prima esige la non interferenza rispetto
all‟integrità e alla vita delle persone e la seconda ci impone di prenderci cura del
sofferente.
Sulla prima si basa il divieto di uccidere e quindi il diritto alla vita, mentre sulla seconda
si basano il principio generale di non lasciar morire chi ha bisogno di aiuto e il dovere di
beneficenza. Il divieto di uccidere e il non lasciar morire sono virtù distinte: il
primo attinente alla giustizia e il secondo alla carità.
Foot sostiene la pluralità delle virtù, e questo ammetterebbe la possibilità di concedere il
lasciar morire quando la virtù della carità non può esprimersi in alcuna forma di cura
sensata per il paziente, mentre al contempo ci si rifiuta di uccidere. Tuttavia, sostiene
Foot, non sembra che si violi il diritto alla vita di una persona se la si uccide con il suo
permesso e di fatto su sua richiesta13: in casi come questi, la carità si allinea alla giustizia e
13
P. Foot, Euthanasia, in Id., Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Oxford, 1978.
76
l‟eutanasia non costituisce un comportamento vizioso né dal punto di vista di chi la
richiede né dal punto di vista di chi la somministra.
Tuttavia, Foot ritiene che non si debba legalizzare l‟eutanasia sulla base dei seguenti
argomenti:
1) innanzitutto l‟eutanasia creerebbe situazioni difficili da verificare in merito alla
richiesta di eutanasia e al rispetto del consenso dell‟interessato – specie quando mancano
le condizioni per il consenso (capacità decisionale, libertà, etc..)
2) in secondo luogo, le aspettative di cura, nel contesto di un sistema che prevedesse
l‟eutanasia per gli incurabili, risulterebbero significativamente ridotte, poiché il paziente
saprebbe che, nelle sue condizioni, ci si attende normalmente che egli rinunci a essere
curato e anzi chieda di essere ucciso.
Un più netto rifiuto dell‟eutanasia viene formulato da Daniel Callahan, in un‟ottica
comunitarista fortemente critica della letteratura bioetica dominante: secondo Callahan,
infatti, il dibattito sulla bioetica è viziato da una pregiudiziale libertaria.
Callahan oppone sostanzialmente tre argomenti contro l‟eutanasia e il suicidio
assistito:
a) in primo luogo l‟eutanasia e il suicidio assistito non sono atti che riguardano
esclusivamente l‟autonomia individuale in quanto coinvolgono anche un altro soggetto (il
medico o colui che deve aiutare a morire).
b) In secondo luogo, l‟uccisione non è mai stata accettata nella storia come regola
della relazione contrattuale fra adulti. Anzi col passare del tempo la legittimazione
77
dell‟omicidio è sempre più esigua (oggi limitata alla legittima difesa e alla guerra giusta).
L‟eutanasia sarebbe una pericolosa eccezione a questa tendenza.
c) In terzo luogo Callahan rispolvera l‟argomento di J.S. Mill contro la schiavitù
volontaria (è contraddittorio scegliere liberamente di rinunciare alla libertà). Callahan in
modo simile afferma che non si può rinunciare liberamente a ciò che ci rende umani,
cioè la vita e la libertà.
Callahan invece riprende la distinzione fra uccidere e lasciar morire che ritiene piena di
significato.
In questo quadro, la sospensione o la non somministrazione di alcuni trattamenti
per patologie che condurranno certamente a morte, anche in tempi non
brevissimi, appaiono scelte preferibili alla ricerca del limite oltre il quale il
trattamento è giudicato futile.
Questo argomento si applica ad esempio ai pazienti in stato vegetativo permanente, per i
quali, una volta accertata l‟irreversibilità e il progressivo scadimento del loro stato, le
terapie e anche la stessa alimentazione e idratazione forzata rappresenterebbero soltanto
un prolungamento ingiustificato del processo del morire. Callahan sostiene che il dovere
del medico sia quello di evitare le “deformazioni” del morire.
78
L‟ETICA DELLA LEGGE NATURALE
1. Teologia e etica normativa e bioetica
I rapporti fra teologia morale ed etica filosofica sono sempre stati profondi. Ciò ha avuto
riflesso anche nel campo della bioetica. Nei primi centri di bioetica nati negli anni ‟70
(Hasting Center, Kennedy Center) vi erano anche personalità religiose: teologi morali
cattolici e protestanti, filosofi di formazione cattolica (o religiosa) o ex-cattolici
fortemente critici nei confronti delle posizioni espresse dal cattolicesimo ufficiale (in
particolare in seguito al dibattito apertosi dopo la pubblicazione dell‟enciclica Humanae
Vitae del 1968).
Inoltre, molte nozioni centrali delle tesi dibattute e soprattutto degli strumenti
argomentativi ricorrenti in bioetica vengono dal repertorio concettuale della teologia
morale: è il caso ad esempio del duplice effetto, delle distinzioni fra uccisione diretta e
indiretta, fra uccidere e lasciar morire, fra cooperazione materiale e formale, nonché della
discussione circa l‟animazione immediata o ritardata del feto14.
La metodologia di fondo all‟etica della legge naturale è che vi sono beni fondamentali
che non possono essere sacrificati, pretermessi, o bilanciati con altri beni. L‟etica della
legge naturale rifiuta sia il consequenzialismo che il proporzionalismo.
14
L. Walters, La religione e la rinascita dell’etica medica negli Stati Uniti: 1965-1975 in E.E. Shelp, (a cura di),
Teologia e bioetica. Fondamenti e problemi di frontiera, Bologna 1989, pp. 37-57.
79
2. Il bene fondamentale della vita
La teoria della legge naturale è stata applicata specialmente nell‟ambito della filosofia del
diritto, soprattutto ad opera di John Finnis, di Boyle Jr, di Grisez. Tuttavia alcuni
contributi trattano in dettaglio questioni di bioetica.
Nell‟ottica della legge naturale, le questioni bioetiche riguardano innanzitutto il bene
fondamentale della vita umana: in quanto bene fondamentale essa è inviolabile e in
nessuna circostanza sono ammesse azioni che intenzionalmente e direttamente
danneggiano il bene. Questa impostazione è quella tradizionalmente seguita dalla morale
cattolica, anche nelle interpretazioni neoscolastiche.
Alcune azioni, quali la menzogna o l‟infedeltà alle promesse, l‟uccisione diretta
dell‟innocente, etc… sono semplicemente escluse dal punto di vista morale.
3. Embrioni, feti, aborto
La nozione di persona adottata da questi autori ha una chiara connotazione ontologica.
John Finnis muove da una nozione di persona condivisa nel pensiero e nel linguaggio
comune, la quale identifica come persone tutti e solo e gli individui viventi; perciò chiunque
sostenga che ogni individuo umano integro e vivo non sia una persona ha l‟onere di
dimostrare che la nozione ordinaria di persona è errata.
DEFINIZIONE DI PERSONA
80
“Quando la vita umana diventa persona?” Le nuove scoperte scientifiche hanno posto
nelle mani dell‟uomo il “meccanismo della vita” e l‟embrione, nascosto da sempre nel
grembo materno, è oggi visibile ed è inoltre possibile entrare in relazione con esso.
La nozione di persona non è definita in modo univoco, né nella storia del pensiero
filosofico, né nel contesto della cultura attuale. Per dì più il concetto di persona, dal
punto di vista giuridico, è cosa diversa («persona giuridica» può essere anche una società
o un'istituzione).
Esistono , in particolare, tesi cosiddette „separazioniste‟, per le quali non tutti gli
individui umani possono essere definiti, considerati e di conseguenza trattati come
persone umane. Queste tesi tendono ad identificare l‟origine della persona umana con il
momento in cui dallo sviluppo dell‟individuo umano emergerebbe la capacità di mettere
in atto quelle particolari qualità o funzioni proprie della natura personale, quali la
razionalità, l‟autocoscienza, l‟autonomia come affermano Peter Singer e H.T.
Engelhardt.
Secondo questa teoria non tutti gli esseri umani sono persone in quanto per persone si
intendono agenti morali che hanno obblighi e problemi morali: “…i feti, gli infanti, i
ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma costituiscono esempi di non persone
umane. Tali entità sono membri della specie umana” (Engelhardt).
Viene così distinta la vita umana biologica dalla vita umana personale ed è
quest‟ultima ad avere un‟importanza centrale per le preoccupazioni morali. Lo status
morale di chi, in quanto privo di cervello, non può essere definito persona è dato
81
dall‟importanza che egli ha per le persone ad esso legate: ad esempio l‟importanza che un
feto ha per la madre che lo porta in grembo.
Altre tesi individuano l‟origine della persona umana nel completamento dell‟impianto in
utero (14° giorno dal concepimento), altri nella creazione del sistema nervoso (attorno al
4° mese), altri nel primitivo sviluppo della corteccia cerebrale (ottava settimana), altri
ancora in fasi più o meno susseguenti alla venuta alla luce del neonato.
La coscienza morale attuale comunque rifiuta che si possano condurre sperimentazioni
mortali su esseri umani, anche se si trattasse di ammalati ormai in fase terminale, di
handicappati fisici o mentali. Mentre per quanto riguarda l‟utilizzo degli embrioni umani
questo precetto morale non è uguale per tutti.
Se già sulla questione dell'individualità emergono posizioni diverse, ancora più
contrastato è il dibattito circa l'attribuzione all'embrione dell'attributo di persona.
I primi interrogativi sull‟inizio della vita umana risalgano all‟antica Grecia, madre non
solo della filosofia ma anche dell‟embriologia scientifica fondata sull‟osservazione.
Il dibattito su questo tema si articolò essenzialmente sulla tematica dell‟animazione: che
genere di anima possiede l‟embrione? A partire da quale momento si può dire che egli
possiede un‟anima umana e perciò è una persona?
La risposta a queste domande si espresse fin dal V secolo a. C. nelle due linee di
tendenza che accompagneranno i secoli successivi.
Nel corpo ippocratico si sostiene la coesistenza di anima e corpo fin dal momento del
concepimento: ANIMAZIONE IMMEDIATA
82
Aristotele affermava invece che l‟anima razionale (quella che caratterizza l‟individuo
come persona) giunge dall‟esterno ad un determinato stadio dell‟ontogenesi dopo cioè
che sull‟embrione ha agito l‟anima vegetale (quella delle piante) e quella sensitiva (che
caratterizza gli animali): ANIMAZIONE RITARDATA.
LA MORALE DEFINISCE QUANDO L‟EMBRIONE E‟ PERSONA.
Nonostante Aristotele non specifichi esattamente il “quando” dell‟animazione razionale,
egli considera illecito l‟aborto nel momento in cui entra in funzione l‟anima sensitiva (il
40° giorno dal concepimento per i maschi e il 90° giorno per le femmine). Non sapendo
il sesso del nascituro il limite è posto al 40° giorno.
Ippocrate nel suo giuramento invece affermava: “non darò a nessuno, a richiesta, un
farmaco mortale, similmente non darò a una donna un pessario abortivo.”
Entrambe le tesi furono ereditate dal pensiero cristiano e opportunamente modificate
alla luce della Rivelazione e della concezione cristiana dell‟anima. Esse, più che
appoggiarsi sulle teorie embrionali e mediche, erano sostenute da argomentazioni
teologiche o, nel caso dell‟animazione immediata, sulla cristologia.
Per secoli la dottrina dell‟animazione congiunta con i vari problemi di carattere morale e
giuridico costituì un tema di dibattito interno alla Chiesa. E fino all‟età moderna il
pensiero si svilupperà in un connubio tra fede e ragione.
I Padri della Chiesa arricchirono il dibattito con nuove argomentazioni:
Si pensi, ad esempio al CREAZIONISMO, dottrina della creazione dell‟anima
individuale ad opera di Dio, al TRADUCIANESIMO MATERIALISTA di Tertulliano,
che tematizzava la trasmissione dell‟anima per via genitoriale, e alle critiche ad entrambe
83
le tesi di S. AGOSTINO. Merito della patristica è aver formulato esplicitamente la
questione dell‟animazione collegandola con i problemi fondamentali della teologia.
Tommaso d‟Aquino sfruttò abilmente l‟eredità aristotelica dell‟animazione ritardata, e le
implicazioni teologiche derivate dalla patristica elaborando una sintesi rigorosa.
Nella teoria tomista del processo generativo l‟anima razionale creata da Dio è infusa nel
corpo umano solo dopo il completamento dell‟individuo, vale a dire solo dopo che
l‟anima vegetativa prima e sensitiva poi hanno cessato di assolvere i loro scopi. La
comparsa dell‟anima razionale trasforma l‟organismo materiale in “persona” dotata di
autonomia ontologica e morale.
Ancora oggi questa teoria crea non pochi imbarazzi all‟interno della Chiesa cattolica in
quanto potrebbe, insieme alla negazione della resurrezione degli embrioni privi
dell‟anima razionale da parte dello stesso aquinate, legittimare l‟aborto. Di fatto
quest‟ultimo è considerato da S. Tommaso un atto contro natura prima del 40° giorno e
un omicidio superato questo limite.
Il compromesso a cui giunse S. Tommaso si basa sul fatto che l‟embrione ha diritto a un
rispetto assoluto in quanto anche prima dell‟animazione lo sguardo divino si è posato su
di lui.
Il secolo XVII e la rivoluzione scientifica daranno all‟embriologia un potente impulso e
inizierà a prendere quota il processo di indipendenza della ragione dalla fede che sfocerà
nella totale emancipazione del pensiero anche dallo stesso aristotelismo.
Nel XIX secolo l‟affermazione della teoria cellulare determinerà un fondamentale
chiarimento del processo generativo: piante, animali ed esseri umani sono un aggregato
84
di cellule e ogni cellula proviene per divisione da una cellula preesistente; l‟embrione si
sviluppa per segmentazione delle cellule primigenie.
Sul piano filosofico-teologico si assiste a un avanzare sempre più deciso della teoria
dell‟animazione immediata. Se nei secoli precedenti, ai problemi morali venivano
anteposti i problemi ontologici, dal XIX secolo la situazione all‟interno della Chiesa
Cattolica si ribalta e al problema ontologico si antepone la condanna dell‟aborto e il
rispetto e la tutela della vita umana.
La linea ideologica “laica” che poneva il dibattito sull‟inizio della vita fuori dal campo
della fede, e la sfiducia all‟interno del pensiero cristiano di poter mai riuscire a giungere a
una conclusione sul momento dell‟animazione razionale, portarono i Papi succedutisi dai
primi del „900 ad oggi, a pronunciarsi tout court contro ogni pratica abortiva eludendo lo
statuto ontologico dell‟embrione.
PER LA CHIESA LA VITA DELL'EMBRIONE E' SACRA
Nell‟enciclica Casti Connubii 31 dicembre 1930, papa PIO XI richiamandosi alle tesi
fondamentali dell‟insegnamento cristiano sul matrimonio qualifica l‟aborto come
“gravissimo delitto”.
Paolo VI nell‟Humane Vitae (1968) riafferma il rispetto della vita umana e considera
l‟aborto una colpa di omicidio. Durante il suo pontificato, tuttavia, molte nazioni
promulgarono leggi sulla regolamentazione dell‟aborto.
85
Il tema dell‟aborto ha dunque per secoli accompagnato il problema dell‟inizio della vita
umana, ma negli ultimi anni la conformazione ideologico-culturale della società e i nuovi
sviluppi nel campo della bio-medicina, hanno ampliato e reso molto più complesso il
problema dello statuto ontologico e morale dell‟embrione.
Nel febbraio 1987 la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò l'Istruzione "Il
rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione", meglio nota come
"Donum Vitae", nella quale il passaggio decisivo sottolineava come "l'essere umano è da
rispettare, come una persona, fin dal primo istante della sua esistenza", vale a dire dal
momento della fecondazione.
Conseguenza di queste tesi è la richiesta di riconoscimento di personalità giuridica per gli
embrioni, ed il divieto di utilizzarli o generarli apposta per la ricerca scientifica.
Tali posizioni sono state ribadite anche recentemente dalla “ Dichiarazione sulla
produzione e sull‟uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane” ,
diffuso dalla Pontificia Accademia della Vita il 24 agosto 2000.
LA POSIZIONE DELLA SCIENZA: IL PRE-EMBRIONE
Interrogarsi se l‟embrione è persona non avrebbe di per sé senso, in quanto non esiste
un'entità 'embrione' a sé stante, se l‟embrione non fosse la fase di sviluppo di un essere
umano e se gli embrioni (o i pre-embrioni) non fossero utili per la ricerca scientifica.
Negli anni '80 quando la ricerca scientifica nel campo delle tecniche della fecondazione
assistita ha reso possibili sperimentazioni su cellule della linea germinale umana e
sull‟embrione, si è acceso un dibattito internazionale che ha coinvolto scienziati, filosofi,
giuristi e teologici e che continua.
86
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che, dopo la fecondazione e
fino all'incirca al quattordicesimo giorno, il prodotto del concepimento potrebbe
dividersi dando vita a un parto con più nascituri. Inoltre, allo stato dell'arte non
sappiamo quali cellule formeranno la placenta e quali il nascituro.
La tesi del 14° giorno è stata utilizzata dal famoso 'Rapporto Warnock' per definire il
momento di cesura tra la vita del cosiddetto pre-embrione, non ancora individuo umano,
e quella dell'embrione15.
Anche in Italia questa tesi ha avuto sostenitori in eminenti scienziati quali il premio
Nobel italiano Rita Levi Montalcini che ha ribadito il concetto: “lo zigote (l'ovocita fecondato)
allo stadio di morula o di blastula (i primi stadi di moltiplicazione delle cellule dopo la fecondazione)
non sono una persona. Ogni cellula di questi elementari aggregati può infatti generare a sua volta una
persona completa. In altre parole prima dell'inizio della differenziazione, cellule totipotenti non possano
essere considerate un individuo”.
John Finnis rifiuta la tesi tomista dell‟animazione ritardata – la tesi cioè secondo cui
l‟infusione dell‟anima razionale non avviene al momento del concepimento, ma soltanto
quando la materia è pronta a ricevere l‟anima. Finnis piuttosto afferma che non vi è
ragione di pensare che intervenga un mutamento sostanziale all‟apparire dei precursori
immediati dello sviluppo celebrale, che abiliterebbe l‟infusione dell‟anima razionale. La
tesi più plausibile, per Finnis, è quella che fa iniziare un nuovo individuo dalla
fecondazione, riconoscendogli il potenziale attivo per l‟esercizio delle facoltà distintive
delle persone.
15
Cfr. anche N. Ford, When did I begin, Cambridge, 1988.
87
Sulla base di questa difesa della tesi tradizionale sull‟embrione, ogni violazione della vita
di una persona, a partire dalla fecondazione, è considerata una violazione della regola
morale assoluta posta a difesa del bene della vita.
Il divieto di danneggiare direttamente tali embrioni si applica perciò pienamente alla vita
degli embrioni. Tale divieto include la creazione di embrioni a scopo di ricerca, ma anche
il congelamento di embrioni a scopo di ricerca. Analogamente anche gli screening
genetici e le diagnosi prenatali miranti ad identificare eventuali anomali aperte alla
possibilità di aborto sono già atti intrinsecamente immorali.
Aborto indiretto. L‟aborto indiretto è una pratica secondo cui l‟uccisione del feto è un
effetto collaterale dell‟unica azione possibile per salvare la vita di un altro essere umano
(la madre) o costituisce un esito molto probabile del tentativo migliore di salvare la vita
di entrambi. Questi casi di aborto sono stati tradizionalmente considerati leciti
specificamente nel caso di gravidanze ectopiche e dell‟utero canceroso.
Tuttavia, conclude Finnis, non ogni tipo di uccisione indiretta è lecita: non lo è per
esempio quando sarebbe possibile rimandare a l‟intervento quando il feto sia viabile.
Gli aborti indiretti non sono dunque per definizioni leciti, ma solo quando sono
inevitabili.
4. Eutanasia e duplice effetto
L‟etica della legge naturale rifiuta in genere l‟eutanasia in quanto non possono essere
previste eccezioni alla regola morale assoluta posta a difesa del bene della vita.
88
L‟eutanasia volontaria è, come il suicidio, un atto che viola direttamente il bene
fondamentale della vita.
Finnis rifiuta la distinzione fra eutanasia attiva e passiva, poiché la nozione di eutanasia
implica comunque l‟intenzione deliberata di porre fine ad una vita: che questo avvenga
attivamente, tramite interventi che causino direttamente la morte, o per
omissione di trattamenti efficaci e necessaria non fa alcuna differenza.
Finnis però ammette la dottrina del duplice effetto.
La dottrina del duplice effetto si applica quando uno stesso atto produce sia un effetto
buono che uno dannoso per uno più beni fondamentali. Ad esempio un atto può avere
come effetto quello di ridurre la sofferenza del paziente ma anche un effetto dannoso, e
cioè l‟abbreviazione della vita residua del paziente. Per Finnis è permessa la sedazione
terminale, anche quando comporti un‟abbreviazione della vita residua, purché
non ci siano alternative praticabili.
La dottrina del duplice effetto presuppone che vi sia un effetto inteso – voluto – ed un
effetto collaterale.
Vi sono diverse situazioni in cui il trattamento medico che prolunga la vita può essere
considerato indesiderabile: quando è sperimentale o rischioso, quando è molto doloroso
e sarebbe vissuto negativamente dal paziente, quando è contrario ai suoi principi religiosi
o morali. Il rifiuto in questi casi di essere trattati non configura un atto direttamente
rivolto contro il bene della vita, purché sia chiaro che la ragione del rifiuto del
trattamento non è l‟intenzione di suicidarsi, bensì la volontà di tutelare la propria vita e
dignità dallo sfiguramento provocato dal prolungarsi dell‟agonia.
89
ETICA DELLA RESPONSABILITA‟
La nozione di responsabilità compare con una certa frequenza nei dibattiti bioetica,
particolarmente per riferimento al futuro e alle condizioni della vita, umana e non, sulla
terra.
Il principale rappresentante dell‟etica della responsabilità è HANS JONAS.
Oltre alla questione ecologica, il tema della responsabilità investe più in generale il
rapporto fra lo sviluppo scientifico-tecnologico e la vita, in primo luogo quella umana,
esposta alla possibilità di trasformazioni che coinvolgono le sue strutture originarie. Le
tecnologie biomediche assumono in questo senso un significato emblematico: ogni
nuovo potere sulla salute e la malattia rappresenta al tempo stesso la fonte di possibili
abusi sulla vita delle persone e dei viventi in generale. La questione cruciale, in
quest‟ottica, appare la seguente: come è possibile evitare le degenerazioni senza
rinunciare agli incommensurabili vantaggi offerti dal nuovo potere?
L‟etica di responsabilità rifiuta un assunto costante nell‟etica di derivazione kantiana e
cioè che vi sia una simmetria fra gli agenti morali: tale simmetria è alla base dell‟idea che
diritti e doveri si applichino a ciascun agente morale a valgano reciprocamente, in
applicazione del principio di imparzialità.
Al contrario, la nozione di responsabilità mette in luce l‟aspetto fondamentalmente
asimmetrico fra l‟io e l‟altro (presente o futuro), in cui all‟io agente viene rivolto un
appello ineludibile ad agire unilateralmente (cioè senza reciprocità) a favore dell‟altro,
innanzitutto nel senso di non usargli alcuna forma di violenza. Per questo aspetto, è
90
possibile fare rientrare nell‟orizzonte della responsabilità la riflessione di Emmanuel
Levinas, basata sull‟imperativo proveniente dal volto dell‟altro a non lasciarlo ricadere nel
nulla, ad assumersi appunto la responsabilità dell‟accoglienza del suo appello verso di
noi.
La responsabilità asimmetrica vale a compensare un rapporto già nei fatti sbilanciato: e
cioè quello fra potere tecnologico e fragilità della vita umana. L‟ “altro” per cui si è
responsabili è in primo luogo, per Jonas, il fenomeno della vita. Tale valore è minacciato
radicalmente dalla possibilità concreta della totale distruzione, la quale dipende da una
serie di scelte che esigono una valutazione responsabile.
La dottrina di Jonas non ripudia l‟etica tradizionale, ma si inserisce nel solco della
medesima aggiungendovi principi propri del principio del responsabilità resi necessari dal
radicale mutamento del rapporto fra azioni umani ed effetti – rispetto al passato. Non si
può semplicemente fermare lo sguardo agli effetti prossimi, ma occorre considerare
l‟enorme potenzialità distruttiva della tecnica.
La morale deve essere in grado di guardare al futuro.
Gli archetipi della responsabilità sono rispettivamente la figura del genitore e dell‟uomo di
stato.: il primo per riferimento all‟altro, il bambino inerme e totalmente dipendente dalla
sua cura; il secondo nei confronti della comunità. Entrambi questi archetipi sono infatti
responsabili per la totalità dell‟esistenza del loro oggetto, per la loro continuità e per il loro
futuro.
Come il genitore ha la responsabilità di rendere possibile la vita autonoma del
figlio nel futuro, così l‟uomo politico ha la responsabilità di mantenere aperta la
91
possibilità della vita politica futura, per esempio ponendo le condizioni affinché i
cittadini non siano ridotti in schiavitù o completamente alienati da se stessi.
La regola dell‟esercizio del potere è nel dovere mantenere anzitutto le condizione
di sopravvivenza della vita indifesa, di quella umana in primo luogo.
Per questo il principio di responsabilità è il fondamento dell‟etica nella civiltà
tecnologica.
Il principio di responsabilità
“Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la
permanenza di un‟autentica vita umana sulla terra”, oppure “agisci in modo che
le conseguenze delle tue azioni non distruggano la possibilità futura di vita”.
Il principio di responsabilità si applica innanzitutto nell‟etica pubblica, mentre nell‟etica
privata continua a prevalere l‟etica della prossimità (e dei diritti).
Il valore che il principio di responsabilità tutela non è la vita in quanto tale, ma la
possibilità di una vita autentica, e dunque libera. La libertà, per Jonas, è essenzialmente
l‟uscita da un sistema meccanicistico di cause e effetti. La autoconsapevolezza (cioè la
conoscenza dei nostri meccanismi psichici) è una condizione di libertà. La libertà però
genera responsabilità. Soltanto chi è veramente libero può prevedere e calcolare le
conseguenze future delle proprie azioni, e solo chi è libero le può modificare.
92
Jonas prende atto che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha assunto dimensioni
impensabili rispetto al passato. Nel passato il rapporto fra scienza (mezzo) e fine
(alimentazione, difesa, miglioramento delle condizioni fisiche) era abbastanza stretto. La
scienza moderna ha perso la connessione fra mezzi e fini, perché gli effetti sono
imprevisti e i bisogni di norma sorgono solo dopo gli sviluppi della scienza.
Il principio di responsabilità impone innanzi tutto prudenza. Di fronte ad una
innovazione scientifica che potrebbe arrecare danni all‟umanità, occorre ragionare
presupponendo che i danni si verificheranno (in dubio pro malo). Questo atteggiamento si
traduce nel principio giuridico politico di precauzione.
Principio di responsabilità e bioetica
1. Libertà della ricerca ed etica della sperimentazione
Uomini cavie
Di fronte al progresso tecnologico il principio di autonomia ha un valore ridotto. Non si
può fare esclusivo affidamento sulle scelte individuali di chi, ad esempio, decide di
sottoporsi ad un esperimento per scopi medici.
Occorre prendere atto che l‟attività di sperimentazione richiede un sacrificio in chi
decide di sottoporsi a cure sperimentali. Sicché ci si deve assicurare che i fini dell‟uomo
cavia ed i fini della ricerca tendano a coincidere (per evitare ad esempio fenomeni di
93
sfruttamento di esseri umani per scopi scientifici). Ne deriva che in primo luogo i primi
uomini cavie devono essere i ricercatori. In secondo luogo coloro che potrebbero trarre
vantaggio effettivo dai risultati positivi della ricerca, purché però siano seriamente
informati di tutti i rischi cui vanno incontro. Sarebbe meglio escludere i poco abbienti o
istruiti e comunque vietare in modo categorico qualsiasi forma di remunerazione.
2. Ingegneria genetica e clonazione
Jonas affronta tre temi:
a) eugenetica
b) clonazione
c) modificazione del DNA
a) Eugenetica
Jonas distingue fra eugenetica negativa che mira ad evitare la trasmissione di geni
patogeni ed eugenetica positiva che invece mira a raggiungere un obiettivo miglioristico
(selezione del colore degli occhi, della statura, della forza, etc…). Se la prima forma di
eugenetica può essere tollerata, la seconda va radicalmente respinta. L‟argomento è che
non si possono determinare quali dovrebbero essere i criteri di eccellenza secondo cui
migliorare il patrimonio genetico.
94
La varietà genetica e la casualità sembrano, al contrario, i mezzi più efficaci che
l‟evoluzione abbia a disposizione per proseguire la propria dinamica.
“Tranne che per gli oggetti più inequivocabili dell’eugenetica negativa, dove si deve appunto giustificare
l’alto prezzo umano di tali intrusioni, e di sicuro nella terra di sogno della perfettibilità genetica positiva,
non acquistiamo nessuna sicurezza in più barattando il non pianificato col pianificato”.
b) Clonazione
La clonazione è una forma di riproduzione asessuata, che si riscontra in molte piante
accanto a quella sessuale e a differenza di questa produce copie geneticamente esatte
della pianta originale. Essa si basa sulla capacità germinativa delle cellule diploidi del
corpo che in circostanze determinate cominciano a germogliare (esempi classici, fragole
e patate). Agli animali – tranne che in alcune specie inferiori – è negata tale capacità
riproduttiva. Essi sono vincolati alla riproduzione sessuale mediante speciali cellule
germinali apolidi (gameti), il cui nucleo cromosomico dimezzato si deve unire a una metà
corrispondente dell‟altro sesso e formare un tutt‟uno (zigote) per dare inizio al processo
di divisione che originerà il nuovo individuo.
Tuttavia, utilizzando il fatto che tutte le altre cellule dell‟organismo posseggono ciascuna
una doppia serie completa di cromosomi che definisce l‟identità genetica dell‟individuo,
si è sviluppato un procedimento di laboratorio, tramite cui una cellula del corpo
adeguatamente selezionata può essere indotta a dare il via da sé al processo iniziato di
95
solito dalla cellula fecondata. Questo procedimento è già stato applicato ai mammiferi
(un topo) mentre l‟estensione agli esseri umani è per lo più bloccata dalla legge. In linea
teorica il procedimento richiede l‟ovulo femmina mentre può prescindere dalla presenza
maschile. Questo significa che le tecniche riproduttive della clonazione rendono
superflui gli esseri umani maschi. Certa fantascienza o certa letteratura femminista hanno
dipinto questi scenari a tinte piuttosto grottesche.
Questioni sulla clonazione:
Jonas pone tre questioni:
i) Che cosa si ottiene con la clonazione?
ii) Perché occorre ottenerlo? Cioè, che motivi ci sono per desiderarlo?
iii) Si deve ottenerlo? Cioè, l‟obiettivo è accettabile o riprovevole?16
i) Il risultato fisico della clonazione. La clonazione produce un doppione genetico del
donatore della cellula con lo stesso grado di somiglianza nell‟aspetto esteriore
(nel fenotipo) che si vede nei gemelli identici. Clone e donatore sono in effetti
gemelli identici con una differenza temporale; la loro non contemporaneità è
rilevante ai fini della valutazione complessiva. La distanza temporale è
arbitraria.
ii) Ragioni a favore della clonazione. La clonazione consente la replicazione di
esemplari per così dire “unici”: sia la mucca pregiata da latte. La ragione che
16
H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Einaudi,1997, p. 139.
96
comunemente si adduce è quella di perpetuare l‟eccellenza. Peraltro la
moltiplicazione di esemplari eccellenti può dare impulso alla spinta evolutiva –
qualora poi gli esemplari clonati si accoppino e riproducano. Stesso discorso si
può fare per gli uomini? Lo scienziato Leon Kass di Chicago offre una lista di
ragioni a favore della clonazione:
1. replicare individui di gran genio e bellezza per migliorare la specie o
rendere più piacevole la vita;
2. replicare individui sani per evitare il rischio di malattie ereditarie;
3. fornire grandi quantità di soggetti geneticamente identici per condurre
studi scientifici sull‟importanza relativa di natura innata e ambiente per i
diversi aspetti delle prestazioni umane;
4. procurare un figlio a una coppia sterile;
5. procurare un figlio con un genotipo di propria scelta: una personalità
che si ammira, un cora estinto, il coniuge, se stessi, una celebrità;
6. determinare il sesso del figlio;
7. produrre squadre di soggetti identici per assolvere compiti speciali in
pace e in guerra (non escluso lo spionaggio);
8. produrre copie di embrioni di ogni persona da tenere congelate qualora
siano necessarie riserve d‟organi;
9. per battere russi e cinesi, non ammettere lacune nel campo della
clonazione
97
[da L. Kass, Toward a More Natural Science: Biology and Human Affaire, The Free Press, New
York, 1985].
Jonas liquida la lista come cinica e perversa. Tuttavia ritiene di dover replicare all‟unico
argomento che può avere una qualche pregnanza da un punto di vista filosofico: quello
dell‟eccellenza.
Replica all’argomento dell’eccellenza: L‟argomento dell‟eccellenza, benché ingenuo, non è
futile in quanto si appella alla nostra venerazione per la grandezza e ad essa paga il
tributo del desiderio che possano esistere più di un Mozart, un Einstein, etc.. ad abbellire
la razza umana. La prima critica viene per così dire dall‟esterno: da chi osserva la società
di cloni. E‟ davvero migliore una società con tante repliche di genio? Che dire, ad
esempio, dalla nota infelicità degli uomini di genio? Che dire della stessa idea di
eccellenza, che presuppone comunque un certo grado di straordinarietà?
Ma l‟argomento di Jonas contro la clonazione umana è di tipo esistenziale e cioè il
seguente: Jonas muove da una domanda: cosa significa essere un clone? Nella risposta è
implicita la critica: clonando, si priva il clonato di un diritto fondamentale: il diritto di
non sapere il tipo di destino che ci spetta. Il clonato invece è investito di aspettative –
peraltro reificate nella persona da cui viene effettuata la clonazione – che non gli
consentono di vivere una vita pienamente libera:
98
“In poche parole, il prodotto della clonazione è defraudato in anticipo della libertà, che può prosperare
solo sotto la protezione del non sapere. Defraudare volutamente di questa libertà un essere umano che
deve ancora nascere è però un crimine imperdonabile che non si deve commettere neppure un’unica volta”.
E poi ancora:
“Il precetto morale, che compare sulla vasta scena del potere moderno, afferma allora: non si può mai
negare a un’esistenza il diritto a quell’ignoranza che è la condizione perché possa agire in modo
autentico, vale a dire la condizione della libertà,¸oppure: rispetta il diritto di ogni vita umana a
trovare la propria strada e ad essere una sorpresa per se stessa.
Vero è che anche nei gemelli monozigoti la identità di DNA può compromettere
l‟unicità. Ma innanzitutto si tratta di ipotesi eccezionali, e dovute all‟arbitrio della natura.
In secondo luogo il caso dei gemelli non è assimilabile a quello del clone per l‟assenza, in
quest‟ultima ipotesi di contemporaneità. I due gemelli identici non è detto che condividano
lo stesso destino. Non c‟è nulla di scritto nella vita di ciascuno dei due. Non così per il
clone.
La non contemporaneità e il diritto a non sapere. Al contrario della contemporaneità dei gemelli
veri, copiare un genotipo preesistente crea condizioni essenzialmente disuguali per i
fenotipi in questione, una distinzione a completo svantaggio del clone.
99
Jonas non fa appello al diritto all‟unicità: diritto dal sapore ontologico ed espresso in
maniera molto poetica anche in molte pagine sacre (Jonas al riguardo cita un passo –
midrash – del Talmud: “Un uomo conia molte monete da un unico stampo ed esse sono tutte una
uguale all’altra; ma il re che è re su tutti i re ha coniato tutti gli uomini dallo stampo del primo uomo e
tuttavia nessuno è uguale al suo prossimo).
Jonas lascia aperta la questione se il dono dell‟unicità dia anche luogo a un diritto (tanto
più che non è ancora pienamente nota la relazione fra mappatura genetica e destino
individuale).
Egli piuttosto invoca un altro diritto – che al clone è negato: il diritto a non sapere. Questo
diritto sembra contro intuitivo: sembra smentire l‟affermazione condivisa di tenore
opposto – e cioè che il sapere e non il non sapere è un diritto. E sembra altresì opporsi
al monito dell‟oracolo di Delfi che ci intimava di conoscere noi stessi.
Ma il diritto al non sapere in questa accezione è funzionale alla libertà. Il rampollo
clonato sa – o crede di sapere – troppo su di sé e gli altri sanno – o credono di sapere –
troppo su di lui. Entrambi i fatti – il supposto già sapere proprio e degli altri – paralizzano
lo spontaneità del divenire se stesso, e il secondo anche la sincerità del rapporto con gli
altri. L‟archetipo già noto – donatore di cellule – se è una personalità pubblica detterà in
anticipo ogni aspettativa, previsione, speranza, timore sulla vita del clone. Non ha
importanza sapere se le conoscenze sono accurate, se vi sia effettiva corrispondenza fra
donatore e clone: quello che conta è che questa mole di informazioni soffoca lo
spontaneo divenire del soggetto: e soffoca anche la conoscenza di sé che funziona solo
100
nella misura in cui sia progressiva – proceda, cioè a piccoli passi, e muova da una certa
dose di ignoranza.
Il precetto morale che compare sulla vasta scena del pensiero moderno afferma allora:
non si può mai negare a un‟esistenza il diritto a quell‟ignoranza che è la condizione
perché possa agire in modo autentico, vale a dire la condizione di libertà; oppure:
rispetta il diritto di ogni persona a trovare la propria strada e a essere una
sorpresa per se stessa.
L‟ignoranza originaria è funzionale al “conosci te stesso”. Basta capire, ci dice Jonas, che
la scoperta di sé, che quel precetto ci impone, è essa stessa una strada per divenire
proprio quel sé, il quale forma se stesso a partire da quanto gli è dato e che non conosce,
e nel medesimo tempo conosce se stesso, cosa che avviene nelle prove della vita e sarebbe
impedito dal sapere predittivo, contro cui qui combattiamo.
c) Modificazione del DNA umano
Jonas prende in considerazione le possibilità più estreme, vale a dire le modificazioni del
genoma che modifichino i tratti naturali dell‟uomo. Questa pratica, a dire di Jonas,
costituirebbe una rottura metafisica con l‟essenza normativa dell‟uomo.
Creazione e morale: Jonas asserisce di provare sconcerto e terrore di fronte alle sfide
titaniche della scienza con cui l‟uomo si arroga il diritto di diventare creatore – (come di
101
un golem). Dalle grottesche immagini di mezzi uomini mezzi animali alla più classica
immagine dell‟uomo imago dei, l‟imperativo morale di preservare l‟umanità dalle derive
scientiste e tecnologiche è essenzialmente uno. Il dilemma morale di ogni manipolazione
biologica sull‟uomo che vada al di là del fatto puramente negativo di preservare dai
difetti ereditari è proprio questo: “che la possibile accusa del discendente contro colui che l’ha creato
non trovi più nessuno che sia in grado di rispondere e pagare nessun prezzo del risarcimento. Questo è un
campo in cui si possono commettere crimini in completa impunità. Questo da solo, li obbliga (ci obbliga)
ad un’estrema e scrupolosa cautela nell’applicare sull’uomo il potere crescente della tecnologia. Qui è
consentito soltanto preservare dalla disgrazia, non sperimentare una nuova felicità. L’uomo, non il super
uomo sia il fine”17
3. Procreazione e diritti
In materia sia di procreazione medicalmente assistita Jonas imposta la questione nei
termini di conflitto fra diritti. Vi è un diritto della madre alla procreazione, ma vi sono
anche diritti dei nascituri.
Jonas ad esempio esprime perplessità sulla proliferazione del congelamento degli
embrioni; così come esprime perplessità sulla fecondazione eterologa, in quanto priva il
nato del diritto a conoscere il genitore e dunque la propria storia.
Sicché anche per alcune pratiche di procreazione assistita (nonne-madri, affitto di utero,
etc…) la dottrina dei diritti va mitigata dal principio di responsabilità.
17
Jonas, cit. p. 154.
102
4. Il diritto di morire
Sull‟eutanasia la posizione di Jonas è espressa in un pamphlet dal titolo “Il diritto di
morire”. Le sue tesi si fondano sul diritto di ogni essere umano ad una morte dignitosa
che non è altro che espressione di una vita dignitosa. E allo speculare di non imporre un
prolungamento di un‟agonia con mezzi tecnici che passivizzano l‟esistenza e privano di
dignità la morte.
Come esiste un diritto di ogni individuo adulto a rifiutare le cure – ad esempio
decidendo di interrompere i cicli di dialisi o terapie eccessive – così esiste un diritto ad
essere aiutati a terminare la propria esistenza qualora così si sia espresso.
Sull‟eutanasia sui malati terminali, Jonas afferma che la vita vegetativa e senza alcuna
prospettiva dovrebbe poter essere terminata. Ma con estrema cautela, per evitare che si
generalizzi un atteggiamento cinico e distaccato nei confronti della morte.
103
RIFLESSIONE FEMMINISTA, ETICA DELLA CURA E BIOETICA
La bioetica ha debiti significativi nei confronti della riflessione femminista. Quest‟ultima
ha offerto contributi originali al dibattito bioetica per almeno tre aspetti:
a) anzitutto una serrata critica all‟esclusione delle donne dal potere economico
politico;
b) in secondo luogo sviluppando indagini empiriche e innovative, miranti a far
emergere la specifica differenza femminile nella riflessione morale, in
particolare sulla sessualità e sulla maternità;
c) infine, una serie di approfondimenti assai utili su alcuni problemi morali,
politici e sociali, quali l‟aborto, la procreazione assistita, che sono stati assorbiti
nella riflessione bioetica.
Dai diritti delle donne alla differenza di genere
Si è soliti distinguere due fasi del pensiero femminista, la prima legata innanzitutto alla
rivendicazione dei diritti civili, politici e sociali negati per secoli alle donne, la seconda
rivolta al tema della differenza sessuale e fortemente critica della tendenza androcentrica
dominante nella filosofia occidentale.
La pubblicazione nel 1792 dell‟opera di Mary Wollstonecraft Vindication of the
Rights of Women rappresenta in un certo senso l‟atto di nascita del movimento
femminista. Il pamphlet della Wollstonecraft anticipava due temi propri della critica
femminista del XIX sec.:
104
a) la critica al patriarcato e
b) la rivendicazione di uguaglianza di diritti fra uomini e donne.
Nel corso del XIX il movimento culturale a favore delle donne si è sviluppato secondo
due direttrici, affinando sia la critica al patriarcato sia la rivendicazione dei diritti: quella
liberale, a cui vanno ascritte l‟attività di Harriet Taylor e l‟opera del marito John Stuart
Mill L’asservimento delle donne (1869) e quella socialista che trovò espressione nel libro di
Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata re dello stato (1884).
Mentre nella prima tradizione era in discussione innanzitutto la questione
dell‟uguaglianza dei diritti: di voto, di disporre dei propri beni, di divorziare, etc…- nella
tradizione socialista si sottolinea la necessità di emancipare la donna dal dominio
dell‟uomo (e della famiglia) che è frutto di una sovrastruttura borghese.
Nel corso del novecento Simone de Beauvoir denuncia la concezione dominante della
donna come l‟altro dal soggetto, come l‟inessenziale che si definisce a partire
dall‟essenziale (che è l‟uomo).
Simone de Beauviour insistette su un punto che poi diventerà caro alle femministe di
seconda generazione, e cioè della specificità del sesso femminile nel definire le questioni
etico politiche.
Le filosofie della differenza di genere
Il tema della differenza di genere, indagato soprattutto con riferimento alla sessualità e
alla riproduzione, è stato interpretato secondo due direttrici distinte e per molti aspetti
105
contrapposte. Accogliendo la terminologia proposta da Luisella Battaglia le si può
caratterizzare rispettivamente come Utopia della liberazione e Teoria della congiura.
a) Utopia della liberazione
Shulamith Firestone ne La dialettica dei sessi sostiene che occorre perseguire la
liberazione dal giogo biologico della maternità, attraverso il ricorso di metodi di
controllo della fertilità e delle tecnologie riproduttive, giudicate perciò in modo
incondizionatamente positivo. Svincolata dal ruolo riproduttivo, grazie alla fecondazione
in vitro e, in un futuro più lontano, all‟ectogenesi, la donna potrà cancellare la divisione
fra il mondo tecnologico (maschile) e il mondo estetico (femminile) di generare cultura.
b) Teoria della congiura
Gena Corea oppone a questa celebrazione delle sorti tecnologiche della maternità una
visione meno utopica e più disincantata: le tecnologie riproduttive sono saldamente in
potere degli uomini costituiscono un ulteriore strumento di controllo delle donne; le
capacità riproduttive, che costituiscono una ricchezza per le donne, vengono
costantemente espropriate da un‟eccessiva medicalizzazione. La facilità di accesso a
pratiche abortive non fa altro che deresponsabilizzare l‟uomo e lasciare la donna sola. Il
dominio tecnologico della maternità va rifiutato, almeno fino a quando le tecniche
riproduttive non siano strumenti in mano delle donne.
106
L‟etica della cura
L‟etica della cura prende le mosse dal decisivo rilievo per i soggetti concreti dell‟aspetto
relazionale, della dipendenza da altri, dell‟appartenenza alla famiglia o ad altri gruppi.
L‟etica della cura rifiuta pertanto la morale kantiana che si fonda su un individualismo
impersonale.
Agli albori l‟etica della cura è di appannaggio della riflessione femminista.
Alle origini della riflessione sulla cura vi stanno alcune intuizioni di Carol Gilligan e
Nancy Chodorow tratte dalla psicologia morale. La Gilligan ad esempio rifiuta la teoria
dello sviluppo morale di Lawrence Kohlberg il quale asserisce che le femmine
raggiungerebbero uno sviluppo morale decisamente inferiore a quello dei maschi.
Sulla scala a sei stadi di Kohlberg, le femmine si fermerebbero al terzo o al massimo
quarto livello. Mentre i maschi in età adulta si dimostrano capaci di ragionare in termini
astratti di diritti universali, di teorie della giustizia e di principi generali a prescindere dalle
particolarità individuali e dai legami sociali, le femmine mostrano la tendenza a non
staccarsi troppo dal contesto, dalle responsabilità di chi agisce verso coloro che sono
coinvolti, dai sentimenti e dai legami affettivi. La formazione dell‟identità personale dei
maschi sembra seguire un percorso che va dalla dipendenza alla separatezza, alla
singoralità e all‟autonomia, mentre nelle femmine questo cammino sarebbe interrotto
o impedito dal peso dei vincoli affettivi.
Gilligan contesta l‟idea di Kohlberg (suo maestro) secondo cui lo sviluppo morale delle
femmine sarebbe incompleto, sebbene riconosca che le femmine hanno una psicologia
morale diversa dai maschi: “l’imperativo morale che emerge ripetutamente nei colloqui con le donne è
107
un’ingiunzione a prenderci cura della vita, la responsabilità di cogliere e alleviare i problemi reali e
riconoscibili del mondo. Agli uomini invece l’imperativo morale si presenta piuttosto come ingiunzione a
rispettare i diritti altrui per tutelare così da ogni interferenza il diritto di vivere e realizzarsi. (C.
Gilligan, Con Voce di Donna).
Gilligan conclude che lo sviluppo dovrebbe, per entrambi i sessi, comportare
un‟integrazione tra diritti e responsabilità, attuata attraverso il riconoscimento della
complementarità di queste due visioni morali così divergenti.
Gilligan dunque mette in tensione l‟etica dei diritti e quella della responsabilità o della
cura.
Negli sviluppi successivi l‟etica della cura si è sganciata dalla matrice femminista. Ad
esempio Joan Tronto vede l‟etica della cura come un‟etica complementare all‟etica dei
diritti ma rifiuta la dicotomia maschile e femminile nell‟ambito della psicologia morale.
W.T. Reich si colloca si questa nuova scia. In particolare egli ricorda il Mito della Cura
come rappresentativo di una via di mezzo fra la Terra (l‟affetto irrazionale) e Giove (lo
spirito astratto). Il mito, riportato originariamente da Igino, nel II sec. d.C. racconta della
dea Cura come di colei che attraversando il fiume raccoglie penosa del fango a comincia
a dar forma a un uomo. Quasi inconsapevole del proprio operato, mentre rifletteva su
ciò che aveva fatto, le si avvicina Giove, al quale essa chiede di dare al fango formato lo
spirito chiamato vita, ottenendolo prontamente. Si accende però una disputa, in cui
interviene anche la Terra, da cui era tratto il fango, su chi abbia il diritto di dare il nome
all’uomo, cioè di compiere l‟atto simbolico che indica l‟appartenenza della creatura al
108
Creatore. Eretto Saturno giudice, si stabilisce che, dopo la morte Terra riabbia il corpo e
Giove lo spirito, ma che Cura possegga l‟uomo finché egli vive.
Riflessione femminista, etica della cura e bioetica
La riflessione femminista è tradizionalmente favorevole sia all‟aborto che alle pratiche di
procreazione assistita, che all‟eutanasia. Tuttavia si è già fatto cenno alla diffidenza con
cui una certa dottrina (La teoria della congiura) guarda alle nuove tecnologie.
L‟etica della cura, benché si ponga sul solco dell‟etica dei diritti, aggiunge qualche
ulteriore riflessione alle tematiche bioetiche, enfatizzando sia l‟aspetto della sollecitudine
nei confronti della parte debole (il malato, il moribondo, il feto), ma anche il dramma
umano di chi deve compiere la scelta.
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EUTANASIA:
Atti posti in essere intenzionalmente da un medico per porre fine alla vita di un
individuo che ne ha fatto esplicita, in equivoca e ripetuta richiesta, con lo scopo
di liberarlo dalla sofferenza psicofisica derivante da una malattia inguaribile, e
dall‟individuo stesso avvertita come insopportabile.
- intenzionalità degli atti: insistenza sulla eutanasia attiva;
- richiesta esplicita ed in equivoca (sicché siamo fuori dalle ipotesi di
interruzione delle cure ai pazienti che versano in stato vegetativo
persistente o permanente – a meno che non vi siano Direttive Anticipate
di Trattamento)
- liberazione dalla sofferenza (valutata sia con criteri oggettivi – derivante
dal malattia inguaribile – sia con criteri soggettivi – insopportabilità);
- continuità fra eutanasia e suicidio assistito.
Secondo questa accezione vi sarebbe dunque una contiguità fra assistenza al suicidio ed
eutanasia – sicché l‟intervento del medico, anche semplicemente per consegnare le pillole
letali o per predisporre una macchina per auto iniezioni, sarebbe essenziale.
La definizione proposta consente di focalizzare l‟attenzione sulla eutanasia attiva
volontaria – individuando proprio in questo aspetto (e cioè la volontarietà della richiesta
110
unita alle altre caratteristiche prima menzionate) la liceità morale e giuridica della
richiesta.
Questa accezione di eutanasia proposta è distinta e più circoscritta di un‟accezione più
generica, e cioè di eutanasia come buona morte – e cioè morte serena, senza angoscia,
senza sofferenza fisica – concetto questo, già diffuso nell‟antichità, sebbene con
terminologie diverse. Infatti, il termine eutanasia è riconducibile a Bacone da cui fu
coniato nel 1605.
Da questa definizione rimangono esclusi atti la cui qualifica di eutanasici appare
fuorviante: si tratta di atti volti deliberatamente a dare ad un individui una fine non
dolorosa:
a) con fini eugenici (eliminazione degli individui malformati o con turbe psichiche –
pratiche queste tristemente note durante il nazismo, cfr. D. Neri, Eutanasia,
Valori, scelte morali, dignità delle persone, etc..).
b) con fini economici (eliminazione degli individui inguaribili per ridurre i costi
dell‟assistenza sanitaria);
c) con fini solidaristici (individuazione di un individuo per salvarne molti);
d) e con fini sociali (eliminazione di alcuni individui per salvare la società nel suo
complesso);
111
e) per finalità diverse da quelle di alleviare una sofferenza che risulta da malattia
inguaribile (ad es. una pena d‟amore).
Vi sono poi atti che sono volti ad eliminare o alleviare la sofferenza di un individui ma
che sono posti in essere senza l‟intenzione di accelerarne la morte:
- cure palliative;
- omissioni o sospensioni di trattamenti attuate in osservanza del diritto del
paziente di rifiutare le cure, un diritto che nel contesto italiano, ha avuto
sempre più ampi riconoscimenti, non solo sul piano morale ma anche sul
piano deontologico (vedi ultra).
In relazione alle omissioni o sospensioni di trattamenti, anche salvavita, rifiutati dal
paziente mediante una manifestazione attuale o anticipata di volontà, viene qui sostenuta
la tesi che diano luogo ad una forma di desistenza terapeutica – concetto che sembra
più appropriato di un altro che più comunemente viene usato, che è quello di eutanasia
passiva.
Argomenti morali contro l‟eutanasia:
I. indisponibilità della vita nelle versioni religiose:
l‟uomo non può disporre della vita e del proprio corpo. Tradizione che va da Pitagora a
Platone, all‟ebraismo, alla tradizione cattolica del pensiero cristiano (aperture verso
l‟eutanasia si sono avute nella chiesa protestante: 1998, Tavola Valdese, documento su
112
Eutanasia e Suicidio Assistito). L‟assunto teologico è che Dio, in quanto creatore della
vita ne è l‟unico proprietario.
Non mancano nella tradizione cattolica esempi di situazioni in cui pare giustificato il
sacrificio della vita altrui (uccisione per autodifesa, del nemico in guerra, pena di morte,
rogo dell‟eretico) o propria (martirio): tuttavia alla vita umana si attribuisce un valore
assoluto, sicché non esistono vite indegne e vite degne, e tutte le esistenze umane sono
egualmente dotate di valore, a prescindere dalle capacità effettive, razionali, sociali, etc.
(si pensi alle discussioni sull‟embrione, sugli individui malformati, sugli individui in stato
comatoso, etc…).
Tuttavia le posizioni assunte nella Dichiarazione sull‟Eutanasia dalla Sacra
Congregazione per la dottrina della fede elaborata nel 1980 e approvata da
Giovanni Paolo II, se da un lato ribadiscono che nessuno può autorizzare l‟uccisione di
un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o vecchio, malato
incurabile o agonizzante, e nessuno può richiedere di essere assistito e aiutato a morire,
tuttavia riconosce che “la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte
degli ammalati l‟uso di quei farmaci che siano atti a lenire e a sopprimere il dolore, anche
se ne possano derivare effetti secondari torpore e minore lucidità”. Qualora poi l‟uso di
narcotici possa risultare in un‟accelerazione della morte, esso è consentito, purché
quest‟ultimo evento sia solo l‟effetto secondario e non voluto di quello di lenire il dolore
(dottrina del duplice effetto).
113
II. Indisponibilità della vita nelle versioni laiche
a) giusnaturalistico-vitalistica: la teoria sostiene che la vita umana – per natura
– vuole conservarsi. L‟istinto di conservazione ne è la riprova. La rimozione e
l‟esorcizzazione della morte – tipiche del mondo contemporaneo – sono in
parte influenzate dal vitalismo dilagante.
b) Kant: il diritto di disporre della vita propria o altrui è negato in nome di una
concezione rigorosa della morale. L‟eliminazione della sofferenza potrebbe
essere un fine arbitrario rispetto a quello che è il soggiacere alla legge morale.
c) Versione sociale organicistica: l‟individuo fa parte di un più ampio corpo
sociale nei cui confronti ha dei doveri. La richiesta di eutanasia volontaria
potrebbe configgere con i doveri nei confronti della famiglia, del lavoro e della
società.
III. Indisponibilità della vita nella prospettiva dell‟etica e della deontologia
medica:
Questa posizione enfatizza l‟aspetto paternalista del rapporto medico paziente. L‟art. 17
del Codice di Deontologia medica del 2006 afferma: il medico, anche su richiesta del
malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocare la morte”. (le
funzioni di sanare e serbare vitam sono prevalenti).
114
Tale principio però trova due limiti invalicabili:
- il rifiuto di trattamento da parte del paziente (art. 35);
- divieto di accanimento diagnostico e terapeutico (art. 16).
IV. Inautenticità della volontà eutanasia
Un altro argomento contro l‟eutanasia si fonda sull‟assunto dell‟inautenticità della
volontà del richiedente. L‟assunto implica che in momenti drammatici – come quello di
prostrazione psico-fisica in cui versa chi è affetto da malattia inguaribile – non è in grado
di percepire o tanto meno esprimere i propri bisogni più autentici.
V Pendio scivoloso e inopportunità di una legislazione esplicita
ARGOMENTI A FAVORE
I Paradossalità delle tesi sull‟indisponibilità della vita:
David Hume: 1756
“se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell‟Onnipotente, al punto
che per gli uomini disporre della propria vita fosse un‟usurpazione dei suoi diritti,
sarebbe egualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso
che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il dominio peculiare
115
dell‟onnipotente, prolungando la mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi generali
della materia e del moto, le era assegnato” (Hume, Sul suicidio). 1783
Michel de Montaigne: sottolinea la natura pervasiva del provvidenzialismo. La mia
volontà di terminare la vita è anche essa espressione della provvidenza.
II. Il vero principio a favore dell‟eutanasia è il principio di
autodeterminazione.
La più forte strategia argomentativa è il riconoscimento del diritto di ogni soggetto
adulto e consapevole a scegliere i tempi e i modi della propria morte nel quadro del
diritto a definire e ridefinire il proprio piano di vita mediante libere scelte.
Questo diritto va posto in relazione al diritto di disporre del proprio corpo: connessione
questa riconosciuta esplicitamente dalla giurisprudenza italiana (la Corte di Cassazione
nel caso Englaro – in cui si riconosce uno stretto collegamento fra libertà personale e
diritto all‟integrità fisica).
Sulla capacità di scelta: verificata caso per caso, ma in ogni caso va riconosciuta la
possibilità stessa di poter scegliere.
III. Il diritto ad essere aiutati a morire come estrema espressione del diritto a
non soffrire
116
La necessità di porre fine alle sofferenze è la misura della ragionevolezza della scelta.
Questo distingue l‟eutanasia dal suicidio.
COSA DICE IL DIRITTO
Attualmente riconosciuta solo in Olanda, Belgio e alcuni cantoni svizzeri. Negli Stati
Uniti, nell‟Oregon.
CASI GIUDIZIARI in Europa:
Nel Regno Unito:
Miss B.; Dianne Pretty: entrambe poco più che quarantenni affette da gravi malattie
neurologiche irreversibili e gravemente invalidanti e dal desiderio di porre fine ad
un‟esistenza ritenuta da entrambe immeritevole di essere seguita.
Miss B: mantenuta in vita da un ventilatore meccanico, l‟Alta Corte di giustizia del
Regno Unito, Divisione della famiglia, ha emesso sentenza di accoglimento (22 marzo
2002) della richiesta, avanzata dalla paziente dell‟interruzione del trattamento cui era
sottoposta.
Miss Pretty: la Corte Europea dei diritti dell‟Uomo ha negato la sua richiesta –
effettuata sulla base agli art. 3 – il diritto a non subire torture o trattamenti inumani o
degradanti, e 8 (a non subire interferenze nella vita familiare).
117
IN ITALIA
Caso Welby:
Nel caso di Piergiorgio Welby, la giurisprudenza ha negato il diritto alla sospensione
delle cure. Il Tribunale di Roma (sezione prima civile, ordinanza 16-16 dicembre 2006)
pur avendo affermato di essere di fronte a concetti “sì di altissimo contenuto morale
e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti la dignità della persona)”
ma aveva aggiunto che si tratta di principi “indeterminati e che appartengono ad un
campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito
dall‟intervento del giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il
ricorso all‟analogia o ai principi generali dell‟ordinamento giuridico”.
Tuttavia, successivamente il GUP del Tribunale di Roma ha prosciolto l‟anestesista che
ha staccato la spina a Welby in quanto “l‟imputato ha agito in presenza di un dovere
giuridico ed esercitando un diritto soggettivo, riconosciutogli in ottemperanza al
divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”.
Il COMITATO NAZIONE DI BIOETICA:
Rifiuta l‟eutanasia - definita come l‟insieme di atti intenzionali per per porre fine alla vita
di un individuo che ne ha fatto esplicita, in equivoca e ripetuta richiesta, con lo scopo di
liberarlo dalla sofferenza psicofisica derivante da una malattia inguaribile, e dall‟individuo
stesso avvertita come insopportabile.
118
RIFIUTO O RINUNCIA al trattamento sanitario
L‟articolo 32 co. 2 della Costituzione recita che nessuno può essere costretto ad un
trattamento sanitario obbligatorio se non nei casi previsti dalla legge. In ogni caso il
trattamento sanitario deve essere in sintonia al principio del rispetto della persona.
Il rifiuto consiste nell‟astersi dal cominciare un trattamento sanitario.
La rinuncia invece presuppone che il trattamento sanitario sia iniziato e tuttavia lo si
vuole interrompere.
Il CNB distingue fra varie fattispecie:
1)- rifiuto o rinuncia posti in essere da soggetti consapevoli e coscienti;
2) rifiuto o rinuncia per soggetti incoscienti (in stato vegetativo persistente o in coma
irreversibile)
All‟interno di 1) il CNB distingue ulteriormente fra:
a) soggetti capaci fisicamente di interrompere le cure
b) soggetti dipendenti: che richiedono l‟intervento del medico per interrompere le
cure.
119
Per i soggetti coscienti.
Il CNB ammette la facoltà di costoro di rifiutare o rinunciare al trattamento. Il
CNB peraltro precisa che seppure sussista un diritto (in termini giuridici), il sottrarsi al
trattamento può essere oggetto di biasimo morale in quanto si viene meno a certe
responsabilità verso terzi (Dio, la famiglia, la società, etc…).
Se il soggetto cosciente è però inabilitato ad interrompere il trattamento (come nel caso
Welby), allora la rinuncia o il rifiuto non sono ammissibili se non nella misura in cui
siano necessari ad interrompere l‟accanimento terapeutico.
L‟accanimento terapeutico va valutato oggettivamente (le conoscenze mediche) e
soggettivamente (quanto sia penoso per il paziente il prolungamento del trattamento).
Questo significa che qualora il soggetto sia cosciente e tuttavia incapace – fisicamente –
di rifiutare o rinunciare al trattamento sanitario, allora non rimane che vedere se il
trattamento consista o meno in accanimento terapeutico.
Le fonti normative utilizzate per risalire a queste conclusioni sono: l‟art. 5 c.c. (che vieta
disposizioni del proprio corpo); le norme del codice penale sull‟omicidio del
consenziente; l‟art. 32 co.1 che impone un obbligo di cura; e alcuni articoli sparsi del
codice di deontologia professionale che impongono la cura.
120
Stralci del parere del CNB 2008:
RINUNCIA/RIFIUTO – AUTONOMIA
Sul piano morale e giuridico, il rifiuto/rinuncia consapevole al trattamento sanitario
investe profondamente sia l‟ambito dell‟autodeterminazione dell‟individuo nelle scelte
sanitarie (consenso informato all‟atto medico, limiti della disponibilità della vita umana,
ecc.), sia la definizione dello statuto deontologico e della funzione sociale della
professione medica, con particolare riguardo al significato della cura e al ruolo
dell‟alleanza terapeutica.
Come risulta ormai acquisito, il consenso informato non può considerarsi implicito o
automaticamente desumibile dal fatto che l‟attività del medico sia preordinata al bene del
paziente. Nell‟etica medica attuale, il consenso informato ha assunto un ruolo chiave,
consentendo la piena valorizzazione delle scelte compiute dal paziente competente, sulla
base del principio di autonomia. Come noto, la moderna scienza medica e biotecnologica
dispone di strumenti di intervento in grado non semplicemente di prolungare, ma di
trasformare profondamente il modo stesso di vivere la malattia fino ai momenti terminali
dell‟esistenza, aprendo così inediti spazi di scelta per il paziente. Questi è infatti chiamato
a scegliere non solo fra le varie tipologie e modalità di cura disponibili, ma anche,
consapevolmente e nei limiti di legge, a rifiutarle o a rinunciare ai trattamenti medici già
in corso.
Sul piano giuridico, l‟impossibilità di delineare un obbligo generale di curarsi – la cui
coercibilità, peraltro, sarebbe di regola esclusa – trova fondamento nella Carta
121
costituzionale. Vengono specialmente in rilievo l‟art. 13 Cost., che sancisce l‟inviolabilità
della libertà personale, il cui contenuto minimo e incontrovertibile è rappresentato dalla
possibilità per il soggetto di dominare in via esclusiva la propria sfera fisica, sia pure
entro i limiti e gli obblighi posti dall‟ordinamento; e soprattutto l‟art. 32, co. 2, Cost., che
dispone: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana”.
I limiti e le garanzie sancite dall‟art. 32 Cost. trovano riscontro tanto nella normativa di
rango ordinario2, quanto in varie pronunce della Corte Costituzionale3 e della Corte di
Cassazione4, nonché a livello della giurisprudenza di merito5. Si riflettono inoltre in
varie disposizioni del codice di deontologia medica, in particolare agli artt. 35 e 37, Capo IV
(intitolato Informazione e consenso).
A livello sovranazionale, i medesimi principi informano sia la Convenzione sui diritti
dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo) del 1997 – che all‟art. 5 stabilisce che
“un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la
persona interessata abbia dato consenso libero e informato” – sia la Carta dei diritti
fondamentali dei cittadini dell‟Unione Europea del 2000, che al Capo I, art. 3, afferma:
“Nell'ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato il
consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla
legge”.
122
RINUNCIA/RIFIUTO – DIPENDENZA
Alcuni Componenti ritengono che l‟interruzione delle cure nell‟ambito dell‟alleanza
terapeutica va considerata come eticamente e giuridicamente doverosa solamente nei casi
di accanimento clinico. Come espressamente sancito dal codice deontologico (art. 14), il
medico ha un preciso dovere di astenersi da condotte di accanimento diagnostico-clinico.
La complessa determinazione dell‟accanimento clinico avviene prevalentemente sulla
base di due parametri: da un lato, la valutazione in scienza e coscienza da parte del
medico; dall‟altro, la percezione soggettiva del paziente. Ci si basa, cioè, su
un‟integrazione fra dati oggettivi – definibili sulla base di parametri scientifici ed
accertabili dal medico – ed il dato, soggettivo, della personale percezione del paziente
circa la “straordinarietà” dell‟intervento (il “sentire” del paziente quale emerge attraverso
il dialogo nell‟alleanza terapeutica). A volte la rinuncia alle terapie può essere espressione
di una riserva nei confronti dell‟uso di certi mezzi (per ragioni religiose o personali) ma
non una richiesta di morire: spetta al medico attivarsi per verificare la disponibilità di
mezzi alternativi (accettabili dal paziente) al fine di curare la salute del malato (si pensi al
caso del testimone di Geova che rifiuta le emotrasfusioni ma non vuole affatto morire,
ed alla possibilità che il medico predisponga sacche di sangue per autotrasfusioni o di
emoderivati).
Ciò premesso in questa prospettiva, pur riconoscendo la rilevanza del vissuto soggettivo
del paziente circa la straordinarietà delle cure, nel caso di terapie proporzionate
l‟eventuale rifiuto opposto dal paziente non può essere acriticamente accolto. In
123
particolare, la richiesta indirizzata al medico di farsi strumento per l‟interruzione di
trattamenti necessari alla sopravvivenza appare bioeticamente problematica: vi è infatti
un evidente nesso di causa-effetto tra l‟atto del medico (distacco del respiratore, dei
mezzi di idratazione o alimentazione artificiale, ecc.) e la morte del paziente. Vero è che
quell‟atto, come già ricordato, può essere inteso come conseguenza diretta del venir
meno del potere di cura, ma è vero anche che si richiede al medico una condotta che
presenta profili di attrito con il suo dovere di curare il paziente, di tutelarne la vita.
Si evidenzia che molte sono le norme a tutela della vita, della salute e dell‟integrità fisica
che ritengono illegittima l‟autodeterminazione del soggetto che possa risolversi in un
pregiudizio o addirittura nel sacrificio di tali beni. L‟art. 32 Cost. inibisce gli interventi
che invadono la sfera di salvaguardia della salute, riservata al rapporto del malato col
sanitario, salvo contraria disposizione di legge ed entro i limiti imposti dal rispetto della
persona umana. Vi sono peraltro delle situazioni, come quelle relative alle vaccinazioni
obbligatorie o ai trattamenti obbligatori per i malati di mente, che evidenziano la
necessità di bilanciare interessi, libertà individuali e solidarietà sociale, autonomia del
singolo e politiche sanitarie di interesse generale. La salute rappresenta infatti un bene
costituzionale di rango primario che «la Repubblica tutela come fondamentale diritto
dell‟individuo e interesse della collettività, garantendo altresì cure gratuite agli indigenti»
(art. 32, Cost.). Di qui la funzione sociale del medico e la ragione per la quale la stessa
professione medica è autorizzata, dal momento che la salute è sia un diritto individuale
che un diritto sociale, e come tale oggetto del principio di solidarietà. In base a tale
124
principio occorre evitare una radicale “privatizzazione” della questione concernente il
rifiuto o la rinuncia alle terapie, tale da ridurre l‟atto medico a mera variabile dipendente
dalle opzioni individualistiche del paziente. Inoltre l‟art. 32 della Costituzione va letto
non soltanto come fondamento normativo dell‟autodeterminazione in campo
sanitario, ma altresì come fonte di limiti alla disponibilità esclusiva sulla propria
sfera personale. Il limite del rispetto della persona umana posto dalla norma in esame
avalla la configurazione di un diritto alla vita e non sulla vita, il che esclude un potere
dispositivo di carattere assoluto del titolare del diritto. Se ne avrebbe conferma, a livello
di legislazione ordinaria, negli artt. 579 e 580 del codice penale (dedicati alle fattispecie di
omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio) e nell‟art. 5 del codice civile
(che limita gli atti di disposizione del corpo); tale interpretazione, nel fissare i limiti
alla disponibilità della sfera fisica, pone in stretta connessione l‟art. 5 c.c. e la disciplina
del consenso scriminante di cui all‟art. 50 c.p.
Altri membri del Comitato Nazionale di Bioetica dissentono su queste conclusioni.
Il diritto di astensione (Obiezione di coscienza)
Qualora per accogliere la competente e documentata richiesta di interruzione delle cure
formulate da un paziente in stato di dipendenza siano necessari un‟azione o comunque
un intervento positivo da parte del medico e della sua équipe (ad esempio lo
spegnimento di un macchinario che garantisca la sopravvivenza del malato), si riconosce
125
il diritto di questi di astenersi da simili condotte da loro avvertite come contrarie alle
proprie concezioni etiche, deontologiche e professionali (cfr. art. 22 del Codice di
deontologia medica).
COMITATO PER L‟ETICA DI FINE VITA
Il diritto del paziente capace al rifiuto del trattamento
terapeutico trova, sul piano morale, fondamento nel principio che impone il
rispetto dell‟autonomia degli individui sino alla fine della vita. Tale diritto trova,
inoltre, pieno riconoscimento nel codice di deontologia medica attualmente
vigente (pubblicato il 16 dicembre 2006), il cui art. 35, al penultimo comma, senza
introdurre alcuna distinzione tra trattamenti salvavita e non salvavita, afferma «In
ogni caso, in presenza di documentato
rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai
conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun
trattamento contro la volontà della persona». Sul piano giuridico, poi, pur in
assenza di una disciplina che regoli in via generale la materia sul piano
legislativo, il diritto del paziente capace al rifiuto dei trattamenti discende dal
principio di volontarietà dei trattamenti sanitari. Tale principio è stato sancito dal
seconda comma dell‟art. 32 della Costituzione e da documenti normativi di
carattere sovranazionale entrati a far parte dell‟ordinamento giuridico italiano,
quali la Convenzione sui diritti dell‟uomo e la biomedicina (Oviedo 1997) e la
126
Carta dei diritti fondamentali dell‟unione europea (Nizza 2000), ed ha trovato
applicazione in una consolidata ed autorevole giurisprudenza.
Prendendo le distanze dalla fuorviante interpretazione seconda la quale nel caso
Welby sarebbe in gioco il riconoscimento del diritto all‟eutanasia, il Comitato per
l‟etica di fine vita ritiene, dunque, che la richiesta del paziente possa, anzi, debba
trovare accoglimento in quanto esercizio di un diritto, quale appunto il diritto al
rifiuto dei trattamenti, già oggi riconosciuto dalle norme della deontologia e del
diritto, oltre che dalla morale del rispetto
delle persona. Tanto più che, nel caso specifico, la volontà negativa rispetto alla
prosecuzione del trattamento non riguarda situazioni future ed incerte, ed è
ribadita dal paziente avendo
piena consapevolezza delle implicazioni che il rifiuto comporta.
IDRATAZIONE E NUTRIZIONE ARTIFICIALI (parere 30 settembre 2005)
Alla luce delle precedenti considerazioni, il CNB ribadisce conclusivamente che:
a) la vita umana va considerata un valore indisponibile, indipendentemente dal
livello di salute, di percezione della qualità della vita, di autonomia o di capacità
di intendere e di volere;
127
b) qualsiasi distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute è da
considerarsi arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita, in modo
variabile, in base alle condizioni di esistenza;
c) l‟idratazione e la nutrizione di pazienti in SVP vanno ordinariamente
considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base;
d) la sospensione dell‟idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP è
da considerare eticamente e giuridicamente lecita sulla base di parametri
obiettivi e quando realizzi l‟ipotesi di un autentico accanimento terapeutico;
e) la predetta sospensione è da considerarsi eticamente e giuridicamente illecita
tutte le volte che venga effettuata, non sulla base delle effettive esigenze della
persona interessata, bensì sulla base della percezione che altri hanno della
qualità della vita del paziente.
DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO (parere CNB 2003)
Le Dichiarazioni anticipate di trattamento fanno parte di un tema la cui rilevanza è
andata costantemente crescendo negli ultimi anni e che, nella letteratura bioetica
nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l‟espressione inglese living will,
variamente tradotta con differenti espressioni quali: testamento biologico, testamento di
vita, direttive anticipate, volontà previe di trattamento ecc. Tali diverse denominazioni
fanno riferimento, in una prima approssimazione, a un documento con il quale una
persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali
128
desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una
malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio
consenso o il proprio dissenso informato. Di questi documenti si discutono in letteratura
le diverse possibili tipologie (alcune delle quali hanno ottenuto in alcuni paesi un
riconoscimento giuridico).
Per far acquisire rilievo pubblico (anche se non necessariamente legale) a questi
documenti il COMITATO NAZIONALE DI BIOETICA (CNB) fornisce le seguenti
indicazioni:
1) essi siano redatti per iscritto,
2) non possa sorgere alcun dubbio sulla identità e
3) sulla capacità di chi li sottoscrive,
4) sulla loro autenticità documentale e
5) sulla data della sottoscrizione e
6) che siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver
adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze
delle decisioni da lui assunte nel documento.
7) E‟ auspicabile che il sottoscrittore indichi una scadenza temporale per la
conferma e/o il rinnovo della sua Dichiarazione, fermo restando il diritto di
revocare o parzialmente cambiare le sue disposizioni in qualsiasi momento.
8) E‟ inoltre da ritenere che spetti esclusivamente alla decisione di chi compila tali
documenti stabilire le modalità della loro conservazione, il numero di copie
129
autentiche da produrre e l‟individuazione dei soggetti ai quali affidarli per la
custodia e per la loro eventuale esibizione e utilizzazione.
E‟ opportuno che il legislatore predisponga, per coloro che lo richiedano, una procedura
di deposito e/o registrazione presso un‟istituzione pubblica delle dichiarazioni anticipate.
Si ritiene altresì opportuno che i sottoscrittori stabiliscano, ove tali documenti vengano
poi effettivamente utilizzati nei loro confronti, se il loro contenuto possa essere reso di
dominio pubblico.
Fonti normative:
- la Carta dei diritti fondamentali dell‟Unione Europea, da cui emerge come
il consenso libero e informato del paziente all‟atto medico non debba più
essere visto soltanto come un requisito di liceità del trattamento, ma vada
considerato prima di tutto alla stregua di un vero e proprio diritto
fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all‟integrità
della persona (titolo I. Dignità, art. 3. Diritto all‟integrità personale);
- la ratifica della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (L. 28 marzo
2001, n. 145), già firmata a Oviedo il 4 aprile 1997. Ribadendo la centralità
della tutela della dignità e identità della persona, la Convenzione attribuisce,
all‟art. 9, particolare rilievo ai desideri precedente espressi dal paziente,
stabilendo che essi saranno presi in considerazione;
130
- 1998, dal Codice di deontologia medica italiano (1998), che all‟art. 34, sotto
la rubrica Autonomia del cittadino, dispone : “ Il medico deve attenersi, nel
rispetto della dignità, della libertà e dell‟indipendenza professionale, alla
volontà di curarsi liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente
non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita,
non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso”
- 2006 . Codice di deontologia medica italiano
La tesi del CNB è piuttosto restrittiva. Le dichiarazioni anticipate possono esprimersi
qualora la rinuncia o il rifiuto delle cure sia legittimo e nel rispetto dei principi generali
dell‟ordinamento giuridico che fanno supporre il principio di indisponibilità della vita
umana.
Da questa definizione appare subito evidente (ma mette conto sottolinearlo) che questo
principio esclude che tra le dichiarazioni anticipate possano annoverarsi quelle che siano
in contraddizione col diritto positivo, con le norme di buona pratica clinica, con la
deontologia medica o che pretendano di imporre attivamente al medico pratiche per lui
in scienza e coscienza inaccettabili. Per quanto concerne l‟ordinamento giuridico italiano,
è da ricordare la presenza di norme costituzionali, civili e penali che inducono al
riconoscimento del principio della indisponibilità della vita umana. Di conseguenza,
attraverso le dichiarazioni anticipate, il paziente non può essere legittimato a chiedere e
ad ottenere interventi eutanasici a suo favore. Si aggiunga il fatto che l‟ambiguità con cui
131
in alcuni paesi sono state redatte o sono state interpretate in modo inaccettabilmente
estensivo dai giudici leggi che hanno riconosciuto validità alle dichiarazioni anticipate
contribuisce a rendere estremamente complessa la corretta analisi del punto in questione
e ha favorito in molti settori della pubblica opinione l‟idea che il riconoscimento della
validità delle dichiarazioni anticipate equivalga alla legalizzazione dell‟eutanasia. E‟ per
questa ragione che il CNB ritiene essenziale eliminare ogni equivoco e ribadire che il
diritto che si vuol riconoscere al paziente di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere
sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, non è un diritto all‟eutanasia,
né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far valere nel rapporto col medico
(esemplare al riguardo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell‟uomo del
29.4.2002, Pretty v. The United Kingdom), ma esclusivamente il diritto di richiedere ai
medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più
estremi e tragici di sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale
e giuridico di rifiutare, ove capace –si pensi a pratiche non adeguatamente convalidate,
comportanti gravi rischi, onerose, non proporzionate alla situazione clinica concreta del
paziente, di carattere estremamente invasivo o fortemente gravose per la serenità del
trapasso- (3).
Tenendo tutto ciò per fermo, l‟attenzione deve concentrarsi sui vari tipi di trattamenti ed
interventi che, in linea di principio, risultano inclusi nel principio sopra enunciato. Pur
senza impegnarsi in una completa analisi comparativa dei contenuti dei modelli di
dichiarazioni anticipate già esistenti sembra possibile evidenziare alcuni tipi di
indicazioni:
132
1. Indicazioni sull‟assistenza religiosa, sull‟intenzione di donare o no gli organi per
trapianti, sull‟utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca e/o didattica;
2. Indicazioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di
essere curato in casa o in ospedale ecc.);
3. Indicazioni che riflettono le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle
possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della
malattia;
4. Indicazioni finalizzate ad implementare le cure palliative, secondo quanto già indicato
dal CNB nel già citato documento Questioni bioetiche sulla fine della vita umana, del 14
luglio 1995;
5. Indicazioni finalizzate a richiedere formalmente la non attivazione di qualsiasi forma
di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiano
sproporzionati o ingiustificati;
6. Indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti
terapeutici
di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di
accanimento;
133
7. Indicazioni finalizzate a richiedere la sospensione dell‟alimentazione e dell‟idratazione
artificiale.
Il CNB ritiene ammissibili i primi 5 punti, ma altamente controversi gli ultimi due
(posizione questa ribadita in un parere del 2005).
Queste le conclusioni:
10. Raccomandazioni bioetiche conclusive
In sintesi, il CNB ritiene che le dichiarazioni anticipate siano legittime, abbiano cioè
valore bioetico, solo quando rispettino i seguenti criteri generali:
A. abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai
orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati,autonomi e non
sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale;
B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il
diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico
non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza;
C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si
auspica che esse siano compilate con l‟assistenza di un medico, che può controfirmarle;
D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente,
non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in
134
maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da
chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano
poi essere prese in considerazione.
Il CNB ritiene altresì opportuno :
a) che il legislatore intervenga esplicitamente in materia, anche per attuare le disposizioni
della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina e nella prospettiva
di una futura normativa biogiuridica di carattere generale relativa alle professioni
sanitarie, cui lo stesso CNB potrà fornire il proprio contributo di riflessione;
b) che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate,
escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli,
sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente
in cartella clinica le ragioni della sua decisione;
c) che le dichiarazioni anticipate possano eventualmente indicare i nominativi di
uno o più soggetti fiduciari, da coinvolgere obbligatoriamente, da parte dei medici,
nei processi decisionali a carico dei pazienti divenuti incapaci di intendere
e di volere;
d) che ove le dichiarazioni anticipate contengano informazioni “sensibili” sul piano
della privacy, come è ben possibile che avvenga, la legge imponga apposite procedure
per la loro conservazione e consultazione
IDRATAZIONE E NUTRIZIONE VS. TRATTAMENTI SANITARI:
PARERE DEL CNB DEL 2005
135
(caso Terry Schiavo)
Con l‟espressione stato vegetativo persistente (un tempo denominato coma vigile) si
indica un quadro clinico (derivante da compromissione neurologica grave)
caratterizzato da un apparente stato di vigilanza senza coscienza, con occhi aperti,
frequenti movimenti afinalistici di masticazione, attività motoria degli arti limitata a
riflessi di retrazione agli stimoli nocicettivi senza movimenti finalistici. I pazienti in
SVP talora sorridono senza apparente motivo; gli occhi e il capo possono ruotare
verso suoni e oggetti in movimento, senza fissazione dello sguardo. La
vocalizzazione, se presente, consiste in suoni incomprensibili; sono presenti
spasticità, contratture, incontinenza urinaria e fecale. Le funzioni cardiocircolatorie
e respiratorie sono conservate e il paziente non necessita di sostegni strumentali. E‟
conservata anche la funzione gastro-intestinale, anche se il paziente è incapace di
nutrirsi per bocca a causa di disfunzioni gravi a carico della masticazione e della
deglutizione. Se è vero che alcuni malati terminali possono diventare malati in SVP,
è pur vero che le persone in SVP non sono sempre malati terminali (potendo
sopravvivere per anni se opportunamente assistite). Non è corretto nemmeno
associare la condizione dello SVP al coma: lo stato comatoso è infatti privo di
veglia, mentre le persone in SVP, pur senza offrire chiari segni esteriori di
coscienza, alternano fasi di sonno e fasi di veglia. Il problema bioetico centrale è
costituito dallo stato di dipendenza dagli altri: si tratta di persone che per
sopravvivere necessitano delle stesse cose di cui necessita ogni essere umano
(acqua, cibo, riscaldamento, pulizia e movimento), ma che non sono in grado di
136
provvedervi autonomamente, avendo bisogno di essere aiutate, sostenute ed
accudite in tutte le loro funzioni, anche le più elementari. Ciò che va rimarcato con
forza è che le persone in SVP non necessitano di norma di tecnologie sofisticate,
costose e di difficile accesso; ciò di cui hanno bisogno, per vivere, è la cura, intesa
non solo nel senso di terapia, ma anche e soprattutto di care: esse hanno il diritto di
essere accudite. In questo senso si può dire che le persone in SVP richiedono
un‟assistenza ad alto e a volte altissimo contenuto umano, ma a modesto contenuto
tecnologico.
La nutrizione e l‟idratazione non sono attici medici secondo il CNB
Per giustificare bioeticamente il fondamento e i limiti del diritto alla cura e
all‟accudimento nei confronti delle persone in SVP, va quindi ricordato che ciò che
va loro garantito è il sostentamento ordinario di base: la nutrizione e
l‟idratazione, sia che siano fornite per vie naturali che per vie non naturali o
artificiali. Nutrizione e idratazione vanno considerati atti dovuti eticamente
(oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per
garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere (garantendo la
sopravvivenza, togliendo i sintomi di fame e sete, riducendo i rischi di
infezioni dovute a deficit nutrizionale e ad immobilità). Anche quando
l‟alimentazione e l‟idratazione devono essere forniti da altre persone ai pazienti in
SVP per via artificiale, ci sono ragionevoli dubbi che tali atti possano essere
137
considerati “atti medici” o “trattamenti medici” in senso proprio, analogamente ad
altre terapie di supporto vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Acqua
e cibo non diventano infatti una terapia medica soltanto perché vengono
somministrati per via artificiale; si tratta di una procedura che (pur richiedendo
indubbiamente una attenta scelta e valutazione preliminare del medico), a parte il
piccolo intervento iniziale, è gestibile e sorvegliabile anche dagli stessi familiari del
paziente (non essendo indispensabile la ospedalizzazione). Si tratta di una procedura
che, rispettando condizioni minime (la detersione, il controllo della postura), risulta
essere ben tollerata, gestibile a domicilio da personale non esperto con opportuna
preparazione (lo dimostra il fatto che pazienti non in SVP possono essere nutriti
con tale metodo senza che ciò impedisca loro una vita di relazione quotidiana).
Procedure assistenziali non costituiscono atti medici solo per il fatto che sono
messe in atto inizialmente e monitorate periodicamente da operatori sanitari. La
modalità di assunzione o somministrazione degli elementi per il sostentamento
vitale (fluidi, nutrienti) non rileva dal punto di vista bioetico: fornire naturalmente o
artificialmente (con l‟ausilio di tecniche sostitutive alle vie naturali) nutrizione e
idratazione, alimentarsi o dissetarsi da soli o tramite altri (in modo surrogato, al di
fuori dalla partecipazione attiva del soggetto) non costituiscono elementi di
differenziazione nella valutazione bioetica. Il fatto che il nutrimento sia fornito
attraverso un tubo o uno stoma non rende l'acqua o il cibo un preparato artificiale
(analogamente alla deambulazione, che non diventa artificiale quando il paziente
deve servirsi di una protesi). Né d'altronde si può ritenere
138
La nutrizione e l‟idratazione sono accanimento terapeutico solo se straordinarie (e cioè
quando le sostanze non possono più essere assimilate), ma non quando si tratta di
idratazione e nutrizione ordinaria:
La decisione di non intraprendere o di interrompere la nutrizione e la idratazione
artificiale non è disciplinata dai principi che regolano gli atti medici (con riferimento
ad altri supporti vitali): in genere si ritiene doveroso sospendere un atto
medico quando costituisce accanimento, ossia persistenza nella
posticipazione ostinata tecnologica della morte ad ogni costo,
prolungamento gravoso della vita oltre i limiti del possibile (quando la
malattia è grave e inguaribile, essendo esclusa con certezza la reversibilità,
quando la morte è imminente e la prognosi infausta, le terapie sono
sproporzionate, onerose, costose, inefficaci ed inutili per il miglioramento
delle condizioni del paziente, sul piano clinico). Nella misura in cui l‟organismo
ne abbia un obiettivo beneficio nutrizione ed idratazione artificiali costituiscono
forme di assistenza ordinaria di base e proporzionata (efficace, non costosa in
termini economici, di agevole accesso e praticabilità, non richiedendo macchinari
sofisticati ed essendo, in genere, ben tollerata). La sospensione di tali pratiche va
valutata non come la doverosa interruzione di un accanimento terapeutico, ma
piuttosto come una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente
crudele, di “abbandono” del malato: non è un caso infatti che si richieda da parte di
139
molti, come atto di coerenza, l‟immediata soppressione eutanasica dei pazienti in
SVP nei cui confronti si sia decisa l‟interruzione dell‟alimentazione e
dell‟idratazione, per evitare che dopo un processo che può prolungarsi anche per
due settimane giungano a “morire di fame e di sete”.
Non sussistono invece dubbi sulla doverosità etica della sospensione della
nutrizione nell‟ipotesi in cui nell‟imminenza della morte l'organismo non sia più in
grado di assimilare le sostanze fornite: l‟unico limite obiettivamente riconoscibile al
dovere etico di nutrire la persona in SVP è la capacità di assimilazione
dell‟organismo (dunque la possibilità che l‟atto raggiunga il fine proprio non
essendovi risposta positiva al trattamento) o uno stato di intolleranza clinicamente
rilevabile collegato all‟ alimentazione.
Si può disporre del rifiuto o rinuncia all‟idratazione e nutrizione artificiale nelle
direttive anticipate di trattamento? Si, solo se straordinaria. Altrimenti si tratta di
eutanasia omissiva, assimilabile all‟eutanasia attiva e quindi illecita.
Nel contesto del presente documento è opportuno elaborare alcune considerazioni
in merito alla possibilità che un soggetto, nel redigere alcune Dichiarazioni
anticipate di trattamento, vi inserisca la richiesta di sospensione di alimentazione e
idratazione, nella previsione di un suo possibile futuro venirsi a trovare in una
140
situazione di SVP. Non c‟è dubbio che la formulazione di questa richiesta sia
assolutamente lecita, così come non è dubbio che una simile richiesta non possa che
essere del tutto generica, essendo difficilissimo prevedere le modalità specifiche del
futuro realizzarsi di eventi così particolari. Il criterio etico fondamentale al quale
riferirsi per valutare la legittimità dei contenuti delle Dichiarazioni anticipate è stato
individuato dal CNB in un documento dedicato formalmente alle Dichiarazioni
anticipate di trattamento e approvato il 18 dicembre 2003. In esso, al § 6, il CNB ha
ritenuto unanimemente che nelle Dichiarazioni “ogni persona ha il diritto di
esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti
terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la
propria volontà attuale”. Non è quindi da mettere in dubbio che quando
alimentazione e idratazione assumano carattere straordinario e la loro sospensione
sia stata validamente richiesta dal paziente nelle proprie Dichiarazioni anticipate, il
medico potrebbe accedere a tale richiesta (nelle modalità peraltro indicate dal CNB
nel predetto documento), anche se a questa soluzione sembra che osti la grande
difficoltà (psicologica ed umana) cui sopra si è fatto cenno, quella di lasciar morire il
paziente per inedia. E‟ però diversa l‟ipotesi –che in queste pagine è ritenuta quella
tipica- in cui alimentazione e idratazione più che il carattere di un atto medico,
abbano quello di una ordinaria assistenza di base. Ad avviso dei membri del CNB
che sottoscrivono questo documento, la richiesta nelle Dichiarazioni anticipate di
trattamento di una sospensione di tale trattamento si configura infatti come la
141
richiesta di una vera e propria eutanasia omissiva, omologabile sia eticamente che
giuridicamente ad un intervento eutanasico attivo, illecito sotto ogni profilo
POSIZIONE DEL COMITATO PER L‟ETICA DI FINE VITA
Leggere il parere a firma di Patrizia Borsellino: è possibile accogliere la richiesta di
sospensione di trattamento sanitario di paziente cosciente ma fisicamente impossibilitato
a muoversi (Welby), sia per ragioni morali (rispetto del principio di autonomia) che per
ragioni giuridiche (per rispetto del principio di eguaglianza).
GIURISPRUDENZA ITALIANA (caso Englaro):
la Corte ha riconosciuto il diritto del tutore (il padre di Eluana) a richiedere la
sospensione delle cure mediche sulla base dei seguenti principi:
- art. 2 cost;
- art. 13 cost;
- principi in materia di consenso informato;
- art. 32, co. 2, Cost.
Il caso Englaro – che ha avuto un‟enorme risonanza mediatica – riguarda la battaglia
legale di un padre per ottenere il riconoscimento del diritto all‟interruzione dei
trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale della figlia, in stato vegetativo
permanente da diciassette anni.
142
La vicenda – spesso ribattezzata tragicamente come la vicenda di un corpo conteso – è
stata scandita da un‟alternanza di provvedimenti giurisdizionali e politici.
La sentenza della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007 n. 21748 ha riconosciuto il
diritto di Eluana – richiesto ed attivato dal padre tutore – ad interrompere i trattamenti
di idratazione e nutrizione artificiali che la tenevano in vita (una vita puramente
vegetativa) da più di diciassette anni.
La Corte di Cassazione ha utilizzato un diritto antico: il diritto alla libertà personale (art.
13 Cost) nel quale “è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di
disporre del proprio corpo”.
“Il diritto di rifiutare un trattamento indesiderato per il mantenimento in vita configura
una libertà negativa” che richiede un non facere da parte dei poteri pubblici: un‟astensione
dall‟interferire nella sfera privata dell‟individuo, in quanto si collega alla possibilità di
disporre di sé e del proprio corpo o, per usare le parole della Convenzione Europea dei
diritti dell‟uomo, al diritto alla vita privata (art. 8.1. CEDU)18.
Per tutelare questo diritto primario – la libertà personale (che implica anche la libertà a
non subire interferenze sul proprio corpo) – già agli albori dello stato moderno furono
predisposte una serie di garanzie finalizzate a prevenire illegittime ingerenze dello stato:
18
La sentenza della Corte di Cassazione 16 ottobre 2007 cita il caso Pretty v. Regno Unito, 29 aprile 2002, della Corte
Europea dei diritti dell’uomo: “Coerentemente con tale impostazione, la stessa sentenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo ha cura di sottolineare: che, in campo sanitario, il rifiuto di accettare un particolare trattamento potrebbe,
inevitabilmente, condurre ad un esito fatale, e tuttavia l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso di un
paziente adulto e mentalmente consapevole interferirebbe con l’integrità fisica di una persona in maniera tale da poter
coinvolgere i diritti protetti dall’art. 8.1 della Convenzione (diritto alla vita privata); e che una persona potrebbe
pretendere di esercitare la scelta di morire rifiutandosi di acconsentire ad un trattamento potenzialmente idoneo a
prolungare la vita.
143
quali, ad esempio, il principio di legalità, la separazione dei poteri, la riserva di legge, la
riserva di giurisdizione, quest‟ultima richiamata espressamente dall‟art. 13 della
Costituzione.
La Corte di Cassazione, con la sentenza Englaro, ha altresì segnalato la connessione fra
art. 13 Cost, art. 2 Cost (dignità personale) e art. 32, co. 2 Cost. (diritto a non essere
sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori).
Di fronte a questa pronuncia, la politica ha reagito con un vigore che non si può non
definire invasivo.
- la deliberazione della Camere di promuovere conflitto di attribuzione di fronte
alla Corte Costituzionale avverso la sentenza della Corte di Cassazione. In altri
termini, le Camere hanno sollevato il dubbio che la Corte lungi dall‟applicare il
diritto esistente (funzione tipicamente giurisdizionale), lo ha creato (Camera
dei deputati 31 luglio 2008; Senato della Repubblica 1 agosto 2008);.
- L‟atto del direttore generale della direzione generale della sanità della giunta
regionale della Lombardia (Regione dove Eluana era ricoverata), con il quale si
nega che il personale del servizio pubblico sanitario regionale possa procedere,
all‟interno di strutture pubbliche, alla sospensione del sostegno vitale (3
settembre 2008);
- L‟atto di indirizzo del Ministro del Lavoro, della salute e delle politiche sociali
rivolto ai presidenti delle regioni, affinché nelle strutture sanitarie pubbliche e
144
private assicurino alle persone in stato vegetativo permanente l‟alimentazione e
l‟idratazione (16 dicembre 2008);
- Il decreto legge deliberato dal Consiglio dei ministri (6 febbraio 2009), con il
quale si stabiliva l‟impossibilità di sospendere l‟alimentazione e l‟idratazione
artificiali per i soggetti non in grado di provvedere a se stessi, la cui
emanazione è stata rifiutata dal Capo dello Stato;
- Identico disegno di legge approvato poche ore dopo dal Consiglio dei Ministri
immediatamente presentato al Senato, subito calendarizzato, esaminato dall
12ma Commissione permanente nella giornata del 9 febbraio e trasmesso
all‟Alula nel pomeriggio medesimo, la cui votazione, già programmata per la
seduta notturna, non si è potuta svolgere a causa del concomitante decesso di
Eluana Englaro.
In questo caso assistiamo sia ad uno scontro fra poteri (politico e giudiziario), ma anche
e soprattutto ad uno scontro su concezioni dei diritti fondamentali.
La Corte di Cassazione ha richiamato fra gli altri atti la Convenzione di Oviedo che
ribadisce il divieto di sottoporre un individuo a trattamenti sanitari che non desidera.
La Corte Costituzionale, interpellata sul conflitto di attribuzione, ha liquidato la
questione asserendo che non la Corte di Cassazione si era limitata a ricostruire un diritto
già esistente e non a crearne di nuovi. In un caso precedente, quello di Piergiorgio
Welby, la giurisprudenza si era mossa diversamente. Il Tribunale di Roma (sezione prima
145
civile, ordinanza 16-16 dicembre 2006) pur avendo affermato di essere di fronte a
concetti “sì di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo
fra tutti la dignità della persona)” ma aveva aggiunto che si tratta di principi
“indeterminati e che appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto e non
suscettibile di essere riempito dall‟intervento del giudice, nemmeno utilizzando i criteri
interpretativi che consentono il ricorso all‟analogia o ai principi generali dell‟ordinamento
giuridico”.
Tuttavia, successivamente il GUP del Tribunale di Roma ha prosciolto l‟anestesista che
ha staccato la spina a Welby in quanto “l‟imputato ha agito in presenza di un dovere
giuridico ed esercitando un diritto soggettivo, riconosciutogli in ottemperanza al divieto
di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”.
DIGNITA‟ DEL MORIRE:
tre condizioni:
- non abbandono
- impedire ogni forma di mortificazione nei confronti di chi sta morendo
- privazione dello status di persona
146
BACONE (dei tre obiettivi della medicina – serbare vitam, sanare e sedare dolorem – il
terzo è il più importante).
: Io penso che l‟ufficio del medico non è soltanto quello di ristabilire la salute, ma
anche quello di mitigare i dolori e le sofferenze causate dalla malattia; e non
soltanto quando ciò, come eliminazione di un sintomo pericoloso, può giovare a
condurre alla guarigione, ma anche quando, perdutasi ogni speranza di
guarigione, tali mitigazione serve solo per rendere la morte serena. Ma ai nostri
tempi i medici si fanno una sorta di religione nel non far nulla quando hanno
dato il paziente per spacciato; mentre a mio giudizio, se non vogliono mancare al
loro ufficio e quindi all‟umanità, dovrebbero acquisire l‟abilità di aiutare i
morenti a congedarsi dal mondo in modo più dolce e più quieto e a praticarla con
diligenza (Della dignità e del Progresso delle scienze, 1605).
147
Procreazione medicalmente assistita. Problemi etico-politici.
Esiste un diritto alla libertà procreativa?
1. Per libertà procreativa si deve intendere qualcosa di diverso dal diritto a
procreare. Anzi il diritto alla libertà procreativa implica il diritto a non
procreare. Esso muove da quella particolare libertà che alcuni studiosi hanno
riconosciuto come esclusiva della specie umana (Dawkins, 1992). La nostra
specie è l‟unica specie animale in grado di controllare mediante la scelta la
propria attività procreativa, stabilendo non solo quando (e ora possiamo dire
come) procreare e quante volte procreare, ma anche se procreare del tutto.
2. Le riflessioni su una libertà procreativa non sono nient‟altro che il
prolungamento delle discussioni sulla procreazione responsabile che già
nell‟ottocento erano state fatte valere per la procreazione naturale. Si pensi ad
esempio all‟impegno di Harriet Taylor e John Stuart Mill sulla questione.
3. La tesi di Lecaldano è che il riconoscimento del principio di disponibilità della
nascita deriva dal prendere atto delle sofferenze e delle morti di innocenti che
conseguono all‟affidare a presunte leggi naturali lo sviluppo demografico e la
riproduzione umana specialmente in un mondo come quello contemporaneo
caratterizzato da profonde differenze nell‟incremento della natalità cui
corrisponde una grande iniquità nella distribuzione delle risorse. Il più grande
crimine morale – secondo Lecaldano – dal punto di vista di un‟etica
148
della disponibilità della nascita consiste nel propagandare un
atteggiamento irresponsabile nei confronti della nascita naturale e di
ostacolare la diffusione di forme artificiali (quali i contraccettivi) di
controllo delle nascite.
4. Il diritto alla libertà procreativa discende dal principio più generale della
disponibilità dei processi di nascita – che altro non è che il corollario del
principio di una procreazione responsabile. Tuttavia la libertà procreativa non
è senza limiti. Anzi, dal momento che la libertà procreativa è un diritto morale,
non tutte le scelte saranno approvate ma solo quelle per le quali vi siano
ragioni morali.
5. La letteratura femminista in un primo tempo ha desunto il diritto alla libertà
procreativa dal diritto alla privacy - alla proprietà sul proprio corpo,
all‟autonomia. Sulla stessa lunghezza d‟onda si è mossa certa giurisprudenza
della corte suprema degli Stati Uniti. Da questo punto di vista gli argomenti a
sostegno della libertà procreativa sono simili agli argomenti a sostegno
dell‟interruzione della gravidanza: l‟atteggiamento pro-choice che si oppone a
quello pro-life.
6. Ma non tutta la letteratura femminista si è mossa all‟unisono. Ad esempio
Gena Corea denuncia l‟elemento paternalistico e di dominio maschile insito
anche nelle nuove discussioni sulla procreazione assistita. La Corea insieme al
movimento Finrrage (Feminist International Network of Resistence to Reproductive and
149
Genetic Engeneering) insistono più sulla libertà dalla procreazione che sulla libertà
della procreazione.
7. Virginia Held (1997) aderisce ad un altro filone: l‟autrice sostiene che la
libertà procreativa e dunque il superamento della concezione esclusivamente
biologica della nascita rappresenti un valore peculiare dell‟etica delle donne. “Il
fatto che le donne possano procreare per dei motivi, rende la nascita un evento
profondamente diverso da un semplice fenomeno biologico”. La libertà
procreativa va di pari passo al riconoscimento della portata morale della
procreazione: la procreazione genera responsabilità e dunque presuppone un
atteggiamento responsabile.
8. Lecaldano contesta il concetto di natura dei giusnaturalisti che ritengono
legittima esclusivamente la procreazione naturale. Lecaldano cita John Stuart
Mill: “la parola Natura ha due significati principali: o essa denota l’intero sistema delle
cose, con l’aggregato di tutte le loro proprietà, oppure denota le cose come sarebbero,
prescindendo dall’intervento umano. Nel primo di questi sensi, la dottrina che l’uomo
dovrebbe seguire la natura, è priva di significato; l’uomo non ha infatti altro potere che quello
di seguire la natura; tutte le sue azioni sono compiute o per mezzo, o in obbedienza, di una o
di molte fra le leggi fisiche o mentali della natura. Nell’altro senso del termine, la dottrina
che l’uomo dovrebbe seguire la natura, o, in altre parole, dovrebbe erigere a modello delle
proprie azioni volontarie il corso spontaneo delle cose, è altrettanto irrazionale e immorale.
Irrazionale, perché tutte le azioni umane, quali che esse siano, consistono nell’alterare il corso
spontaneo della natura, e tutte le azioni utili consistono nel migliorarlo. Immorale, per il
150
motivo che – essendo il corso dei fenomeni naturali zeppo di azioni le quali, quando vengono
commesse dagli uomini, risultano degne del massimo aborrimento – chiunque tentasse di
imitar nel proprio modo di agire il corso naturale delle cose, sarebbe universalmente
considerato e riconosciuto come il più malvagio degli uomini”. (Mill, 1972, Saggi sulla
religione, del 1850, pp. 51-52). In altri termini Mill – e sulla scia di Mill di
Lecaldano – contestano il concetto normativo natura: o la natura include anche
l‟indole umana – che include anche la capacità di modificare il corso naturale
delle cose – e allora il concetto non può essere normativo; ovvero la natura si
riferisce a fenomeni non umani: ma allora l‟uomo non può essere inchiodato a
modelli che non hanno nulla di morale.
9. La critica più radicale alle pratiche di procreazione assistita viene da chi
intravede nelle medesime una pericolosa scissione fra l‟aspetto affettivo e
quello riproduttivo – ovvero fra la relazione sessuale e la procreazione. Questa
posizione – tipica specialmente della Chiesa cattolica – viene sarcasticamente
liquidata da Lecaldano come retriva e “sessuofobica”. Lecaldano tuttavia
ammette che la libertà di procreazione assistita si esprima entro certi limiti
(limiti ancora più stringenti prospetta Hans Jonas) e anche su questa posizione
segue John Stuart Mill: la procreazione genera responsabilità; ergo la
procreazione – sia essa naturale che artificiale – presuppone che si ponderino
le circostanze della nascita. Ad esempio Mill riteneva immorale per dei genitori
far nascere un figlio nella consapevolezza che non si avessero i mezzi per un
sostentamento materiale. Questo significa che – dal momento che il criterio
151
guida è il benessere dei soggetti coinvolti – ed in primis quello del nascituro –
allora occorre valutare se certe pratiche non comportino un danno per il
soggetto che si vuole far nascere. Nel caso delle fecondazione eterologa ci si
può chiedere se l‟impossibilità di conoscere il proprio padre – o madre naturale
– non sia di per sé un danno. Discorsi analoghi possono essere fatti per le
coppie omosessuali o per la procreazione delle donne single.
10. Sul punto le argomentazioni di Jonas sono molto più puntuali. Jonas ad
esempio teme il rischio di Banche del Seme selettive (le banche del seme dei
premi Nobel già aperte in California), le banche di neri, di bianchi, di gialli, etc.
Jonas arriva a prospettare l‟ipotesi che sarebbe eticamente preferibile l‟adulterio
nascosto – o con la complicità del coniuge sterile – che la pratica di
fecondazione eterologa.
a) La cura della sterilità come criterio etico decisivo. Una delle principali
motivazioni morali alla procreazione medicalmente assistita è l‟esigenza
di cura. Questa, ad esempio, è l‟impostazione della nostra legge n. 40 del
2004 che consente il ricorso alle pratiche di procreazione medicalmente
assistita (“PMA”) solo nell‟ipotesi di sterilità di coppia. Gli artt. 13 e 14
della legge – prima che intervenisse la modifica da parte della Corte
Costituzionale – è che non si potesse ricorrere alla PMA per usi
terapeutici – ad esempio qualora vi siano ampie chance di
malformazioni del concepito (la legge infatti faceva divieto della
diagnosi pre-impianto). Lecaldano contesta decisamente questa
152
impostazione che definisce illiberale (in quanto finisce per affidare una
decisione così privata al legislatore o al medico) e comunque ambigua
(come definire chiaramente la “sterilità”? si tratta di sterilità la
propensione ripetuta della donna all‟aborto spontaneo?).
b) Evitare malformazioni o anomalie genetiche. Questa seconda linea di
argomentazioni asserisce che si può ricorrere alla PMA non solo nelle
ipotesi di sterilità ma anche nelle ipotesi di coppie i cui membri sono
portatori di malattie genetiche (talassemia, trisomie, etc…). Lecaldano
contesta anche questa seconda modalità argomentativa. Egli contesta
infatti l‟idea di ancorare la legittimità del ricorso alla PMA a fattori
oggettivi (sterilità, malattie genetiche).
c) Il diritto alla libertà procreativa e le ragioni morali come limiti. Lecaldano
suggerisce di percorrere un‟altra strada: da un lato disancorare la PMA
da criteri oggettivistici, dall‟altro però valutare l‟ammissibilità della PMA
sulla base delle ragioni morali addotte dalle coppie che richiedono il
trattamento. La procreazione non è un atto che coinvolge solo la coppia
ma coinvolge anche una terza persona: l‟individuo che dovrà nascere.
L‟idea di Lecaldano è che le pratiche di fecondazione in vitro sono prima
facie benefiche perché da esse nasce un nuovo essere umano. Non vi
sono dati certi sulla maggiore “felicità, psicologica o materiale” dei figli
nati dalla fecondazione naturale piuttosto che quella artificiale. Sicché si
potrebbe suggerire che l‟intervento della legge debba essere evitato
153
quanto più è possibile e che ci si debba affidare alla capacità morale
delle persone coinvolte.
10. Quali ragioni morali per le tecniche di PMA? Il primo approccio asserisce che è
sufficiente che ci si assuma la responsabilità della crescita della prole. Non occorre
alcuna ulteriore giustificazione. Sulla natura delle tecniche dunque non si dibatte.
Questa posizione tuttavia presenta il rischio di utilizzo distorto delle pratiche di
PMA: ad esempio un medico senza scrupoli può suggerire il ricorso a pratiche di
produzione di parti gemellari, ovvero si può ricorrere alla fecondazione eterologa per
un miglioramento genetico, etc…
11. L‟autonomia individuale: l‟argomento è: basta che il figlio si voglia. Anche questo
argomento tuttavia è monco. L‟autonomia individuale va esercita in maniera
responsabile (si può ad esempio invocare il ricorso alla PMA per il quinto o il sesto
figlio?).
12. La salvaguardia delle ragioni della famiglia. L‟argomento seppure obsoleto
continua ad esercitare qualche suggestione. Senza figli le coppie si dissolvono: da qui
la legittimità del ricorso alla fecondazione assistita.
13. Il pensiero delle donne e le ragioni etiche delle cura come guida alle scelte
procreative. Tre fasi del pensiero femminista:
a) In una prima fase si guardò alle tecniche di PMA come ad una modalità di
liberare le donne dal giogo della gravidanza.
b) In una seconda fase si scorse nelle nuove tecniche una forma di dominio
maschile – che continua ad avere il monopolio delle tecniche riproduttive.
154
c) La terza fase è quella di un femminismo che si è liberato dalle incrostazioni
ideologiche. Virginia Held indica con chiarezza che ciò che è caratteristico
della condizione umana è la facoltà di trascendere la dimensione puramente
biologica della nascita e di farne un processo culturale – come tale dipendente
da azioni responsabili. L‟etica della cura ha il compito di moralizzare le nascita:
proprio perché non si tratta di un semplice evento naturale e biologico ma di
qualcosa di più – che coinvolge la dimensione affettiva ma anche la più
profonda dimensione umana – l‟atteggiamento responsabile è quello di
individuare le circostanze che fanno della nascita un evento positivo. Solo il
controllo sulla capacità di procreare – che implica anche la facoltà del ricorso a
tecniche di PMA - può far si che la donna si ponga seriamente la domanda:
“perché devo avere un bambino? Per quale motivo dovrei mettere al mondo
un figlio? Nel mettere al mondo un figlio a cosa darò espressione umana?.
Possiamo mettere al mondo un figlio per le ragioni più svariate: perché un
essere umano possa provare gioia, perché il genere umano possa continuare ad
esistere, perché la famiglia di cui facciamo parte si possa perpetuare, perché
l‟amore che condividiamo possa essere condiviso da un altro o possa essere
suggellato da un‟unione. Possiamo dare la vita per esprimere la nostra
concezione di noi stesse, dell‟umanità e della vita. Il fatto che le donne possano
procreare per dei motivi dovrebbe rendere chiaro di quanto la nascita sia una
cosa diversa da un fatto biologico. “L‟aspetto su cui penso sia opportuno riflettere è
155
che le donne possono scegliere per cosa partorire o per cosa rifiutarsi di farlo,
e che queste opzioni caratterizzano la nascita umana”.
Conclusioni: Lecaldano conclude affermando che si devono considerare in linea
di massima lecite tutte le forme di PMA, mentre l‟attenzione deve essere spostata
non sui dati oggettivi al ricorrere dei quali la PMA è consentita, né sulle tecniche,
ma piuttosto sulle ragioni che inducono una coppia ad avere una figlia o un figlio.
Le ragioni possono essere le più varie, ma in linea di massima va riconosciuta la
capacità morale dei soggetti che decidono di procreare: specialmente quando la
procreazione richiede uno sforzo di gran lunga superiore (come per molte
tecniche di fecondazione in vitro) di quanto non richieda la fecondazione naturale.