Costituzione e bioetica

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Costituzione e bioetica Angela Musumeci ARACNE

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Costituzione e bioetica

Angela Musumeci

ARACNE

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0186–0

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I edizione: luglio 2005

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Indice

Introduzione................................................................................................ 7

Capitolo Primo

La bioetica come specifico terreno della riflessione giuridica

1. Il diritto nell’“età della tecnica”. Dalla bioetica al biodiritto?........... 11

2. La questione bioetica all’interno delle democrazie pluraliste............ 22

3. La relatività dei principi costituzionali in materia bioetica ............... 30

Capitolo Secondo Bioetica e biopolitica. Chi decide sulla vita umana?

1. La vita tra tecnica, etica e diritto.......................................................... 37

2. Tecniche di fecondazione assistita e autonomia dei soggetti:

il diritto a procreare............................................................................... 46

3. La legge sulla fecondazione medicalmente assistita tra dubbi

di illegittimità costituzionale e referendum......................................... 48

4. L’eutanasia e il diritto di morire ......................................................... 68

Capitolo Terzo

Usi del corpo e regole giuridiche

1. Premessa ................................................................................................ 73

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Indice 6

2. Libertà di disposizione del proprio corpo, maternità surrogata

e tutela del patrimonio genetico ........................................................... 76

3. Gli organi umani tra donazione e commercio. La direttiva CE sulla

protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche ....................... 81

4. La sperimentazione sugli embrioni ..................................................... 85

Bibliografia ................................................................................................. 89

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Introduzione

Il neologismo “bioethics”, comparso per la prima volta nel 1971

nel libro dell’oncologo Van R. Potter, Bridge to the Future, con la finalità di indicare una nuova scienza, con un proprio statuto episte-mologico, sollecitata dai progressi ottenuti in campo biomedico, ha conosciuto nel corso di un ventennio diversi tentativi definitori1, i quali rivelano che ci si trova di fronte ad una branca dell’etica applicata. Ma se è vero che la bioetica è l’etica “relativa ai fenomeni della vita organica, del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte” è altret-tanto vero “che sotto il so nome vanno nuovi fuochi di interesse, nuove problematiche legate al progresso della conoscenza e delle tecniche biologiche”2. Sul terreno della bioetica si confrontano, o meglio si scontrano, ideologie e fedi religiose, si assiste alla messa in discussione di alcuni valori che appartengono alle moderne demo-crazie occidentali ed all’acutizzarsi di molti dei conflitti di cui soffro-no le attuali società pluraliste. Le ragioni di tanto interesse, verso quest’area di riflessione, denominata bioetica, risiedono, innanzitutto, nell’oggetto: le nuove tecnologie della vita umana promettono una

1 In senso riepilogativo sul termine M. Mori, La bioetica: che cos’è, quand’è

nata, e perché. Osservazioni per un chiarimento della “natura” della bioetica e del

dibattito bioetico italiano in materia, in Bioetica. Rivista interdisciplinare, 1993, 115. A scopo esemplificativo, senza alcuna pretesa classificatoria né tanto meno riassuntiva, si riportano alcune delle definizioni di bioetica più ricorrenti nella ma-nualistica contemporanea: “Studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e principi morali” W. T. Reich, Encyclopedia of Bioethics, vol I, New YorK, 1978; “Filosofia della ricerca e della prassi biomedica” E. Sgreggia, Manuale

di bioetica, Milano, 1990. 2 U. Scarpelli, La bioetica. Alla ricerca dei principi, in Biblioteca della libertà,

XXII, (1987).

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Introduzione 8

vera “rivoluzione biologica”3. È sufficiente pensare al mutamento subito dal concetto di nascita, con l’impiego delle tecniche di fecon-dazione assistita, o a quello di morte, con l’utilizzazione delle terapie di sopravvivenza, ma anche a tutte le possibili trasformazioni che si potranno produrre in seno alla società una volta che l’analisi genetica, la mappatura del genoma, o altre tecniche, diverranno di uso comune, per rendersi conto dello spirito di novità delle biotecnologie. Il loro impiego affascina e preoccupa allo stesso tempo: da una parte si esalta il grande potenziale delle tecniche, mettendo in risalto i benefici che potranno derivare all’umanità dal loro progredire, dall’altro, c’è il timore che si possa mettere a repentaglio la stessa “natura” umana, intesa come categoria antropologica, con conseguenze irreversibili sulle generazioni future4.

Insistere, però, unicamente sul carattere tecnologico del fenomeno bioetico può risultare riduttivo. Volendo essere più precisi occorre ag-giungere che intanto esiste una questione bioetica in quanto essa nasce e si sviluppa nel seno di società complesse, caratterizzate dal plura-lismo di valori e dove non esiste più un’etica unanimemente condi-visa. Nelle moderne società, le nuove tecnologie sono state precedute da un’acquisizione culturale del tutto nuova e molto forte qual è il principio di autodeterminazione, tanto che, per alcuni, “sarebbe logico attendersi” che tale valore venga messo “al centro del dibattito sull’etica delle nuove tecnologie riproduttive e dei modi di formazione della famiglia”5. Il principio ha svolto, inoltre, un ruolo nello sviluppo della persona umana, ed in particolare nel delicato settore delle poli-tiche del corpo umano: le battaglie compiute in diversi Paesi per la legalizzazione dell’aborto, o quelle poste in essere per il ricono-scimento della libertà sessuale, ed ancora l’affermazione dei diritti degli omosessuali, sono solo alcuni degli esempi che si possono forni-re nella ricerca dell’applicazione del principio.

Ma se aver fatto chiarezza sul contesto culturale in cui si inscrivono le tecniche in esame può aiutare a capire perché le trasformazioni da

3 Così la definisce J. Bernard, La Bioéthique, Paris, 1994. Medesimo giudizio è

condiviso da A. Kaufmann, Riflessioni giuridiche e filosofiche su biotecnologia e

bioetica alla soglia del terzo millennio, in Riv. dir. civ., 1988, 205. 4 H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico (1974), Bologna, 1991. 5 M. Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società

liberale (1993), Roma, 1996.

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Introduzione

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loro prodotte hanno avuto una ricaduta sociale molto più incisiva di quella che si è determinata con l’impiego della tecnica in altri settori dell’agire umano, per altro verso, ci appare in filigrana un ordine di problemi ancora diversi, legati questa volta ad una volontà che la tecnica sembra aver resa assoluta, priva di confini. Su questo parti-colare aspetto della bioetica si fa più forte lo scontro tra visioni etiche confliggenti e si invoca di sovente la richiesta di limiti nei confronti di un’autonomia individuale che pare aver assunto preminenza su tutti gli altri valori, compresa la stessa vita umana. Alla bioetica, che molti uomini di cultura giudicano una sfida all’etica tradizionale6 per l’impegno che occorre nel ridare attualità a principi quali la tolleranza, la giustizia, l’autonomia, gli unici, d’altra parte, in grado di far convi-vere le tante visioni che compongono le società pluraliste, spetta il non facile lavoro di ricercare soluzioni a questo genere di controversie. Naturalmente, il carattere delle questioni è tale da offrire più di un motivo di interesse al giurista, per il quale il tema della regola-mentazione della materia si converte in quello ben più complesso della definizione giuridica della bioetica, che coinvolge i valori fondanti di un ordinamento.

6 In merito il Manifesto di Bioetica Laica su Il Sole–24Ore del 9 giugno 1996

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Capitolo Terzo

Usi del corpo e regole giuridiche

Sommario: 1. Premessa – 2. Libertà di disposizione del proprio corpo, maternità surrogata e tutela del patrimonio genetico – 3. Gli organi umani tra donazione e commercio. La direttiva CE sulla protezione giuridica delle invenzioni bio-tecnologiche – 4. La sperimentazione sugli embrioni

1. Premessa L’affermazione del corpo umano come “oggetto giuridico nuovo”1,

è legata agli sviluppi del processo scientifico e alla diffusione delle nuove tecnologie della vita umana: parti distaccate del corpo sono impiegate nella fecondazione assistita; organi umani e parti del corpo sono i protagonisti della nuova frontiera dei trapianti; ed altrettante manifestazioni del corpo umano devono essere considerate le infor-mazioni genetiche ed il genoma umano.

Di riflesso, il corpo entra prepotentemente nei processi di giuri-dificazione: la Francia ha approvato due leggi, che hanno superato il vaglio di costituzionalità del Conseil constitutionnel (déc. N. 94–343–344 DC del 27/7/1994), la n. 94–653 del 29 luglio 1994 “relative au

respect du corps humain”, e la n. 94–654 del 29 luglio 1994 “relative

au don et à l’utilisation des éléments et produits du corps humain, à

l’assistance à la procréation et au diagnostic prénatal”, con le quali viene predisposto un primo gruppo organico di norme sulla bioetica incentrato, come si evince dagli stessi titoli, sulle forme, ed i limiti, di utilizzazione del corpo umano. Il Consiglio d’Europa, dal canto suo, ha redatto una importante Convenzione sulla “Protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione

1 La calzante definizione è di S. Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995. Id.,

Ipotesi sul corpo “giuridificato”, in Riv. crit. dir. priv., 1994, 467.

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Capitolo terzo 74

della biologia e della medicina” (c.d. Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e della biomedicina)2, siglata come ricordato ad Oviedo il 4 aprile 1997, con la quale è stato predisposto un sistema di regole di indiscutibile interesse. Si provvede, ad esempio, a vietare ogni forma di commercializzazione del corpo umano; si vieta la discriminazione delle persone in base al proprio patrimonio genetico; si prevedono garanzie per il rispetto della vita privata e i per i test ge-netici; si vieta la produzione di embrioni per la sola ricerca scientifica; e da ultimo, viene data la massima rilevanza al consenso libero ed informato degli interessati, al loro diritto all’informazione e all’auto-determinazione, disciplinando in modo analitico la ricerca e la sperimentazione sulle persone, con particolare riguardo ai casi dei minori, degli incapaci e dei malati mentali.

Il procedere incessante della produzione normativa sul tema sug-gerisce alcune considerazioni. Innanzitutto, le norme con cui fino ad

2 La Convenzione sulla biomedicina, sottoscritta ad Oviedo nel 1997 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa è entrata in vigore il 1 dicembre del 1999, dopo la ratifica di cinque dei Paesi firmatari, come prevede l’art. 33, comma 3, che nell’ordine sono stati: Grecia, San Marino, Slovacchia, Slovenia, Danimarca, seguiti, subito dopo dalla Spagna. La Convenzione è stata aperta alla firma, oltre, che degli Stati membri del Consiglio d’Europa, anche a quella di alcuni Stati non membri che avevano partecipato alla sua elaborazione (Canada, Giappone, Santa Sede, Stati Uniti), e della Comunità europea. L’Italia l’ha ratificata con la legge del 25 marzo 2001, n. 145, pubblicata nella G.U. del 24 aprile 2001, n. 95, unitamente al Pro-tocollo addizionale sul divieto di clonazione di esseri umani del 12 gennaio 1998, n. 168, siglato a Parigi, ma non ha ancora provveduto a depositare la ratifica. Per un primo commento del documento si v. N. Lenoir–B. Mathieu, Les normes inter-

nationales de la bioéthique, Paris, 1998; F. D’Agostino, Bioetica e dignità dell’es-

sere umano, in C.M. Mazzoni (a cura di), Un quadro europeo per la bioetica, Firen-ze, 1998. Per la loro novità rivestono particolare interesse le norme contenute nei capitoli IV e V della Convenzione, dedicati rispettivamente al “Génome humain” e alla “Recherche scientifique”, esprimono molto da vicino la preoccupazione dei redattori del documento sulla possibilità che forme di discriminazione tra i soggetti possano essere fondate sulla “costituzione genetica” di un individuo, in un moderno e rinnovato significato del principio d’eguaglianza (art. 11); oppure, che tentazioni selettive possano fare capolino per mezzo d’interventi correttivi del genoma umano (espressamente l’art. 13 prevede che “Une intervention ayant pour objet de modifier le génome humain ne peut être entreprise que pour des raisons préventives, diagnostiques ou thérapeutiques et seulement si elle n’a pas pour but d’introduire une modification dans le génome de la descendance”).

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oggi sono stati tutelati gli atti di disposizione del proprio corpo3, prime fra tutte l’art. 5 del codice civile, si rivelano insufficienti in quanto pensate unicamente per quelle forme di utilizzazione del corpo umano che il progresso scientifico del tempo rendeva possibile. La migliore garanzia per la tutela del corpo umano era, in sostanza, rappresentata dagli stessi limiti oggettivi alla sua utilizzazione e su questa logica si basa la norma del codice civile italiano del 1942. Inoltre, buona parte delle forme di disponibilità del corpo, disciplinate specificamente dai testi normativi citati, e da altri ancora, possono ritenersi espressione dell’autodeterminazione dei singoli e quindi come tali dovrebbero configurare anch’esse una forma di libertà negativa, sulla scia di quanto accade per la procreazione assistita. A ben guardare, però, le due fattispecie non sono in tutto e per tutto assimilabili.

La preoccupazione che il corpo, attraverso tutte le possibili forme di scomposizione, venga ridotto ad un oggetto come gli altri è stata, da tempo, manifestata da quanti denunciano i tentativi di ricondurre il corpo nell’area del mercato4, applicando quindi anche ad esso le logiche della proprietà privata. La scelta di disporre del proprio corpo può dunque essere determinata da ragioni profondamente diverse, in genere di tipo economico, da quelle che stanno alla base dell’autode-terminazione procreativa, che rischiano di andare in senso opposto allo sviluppo della persona e al rispetto dell’eguaglianza. Queste ragioni spingono quindi a verificare anche sul terreno della libertà di disporre del proprio corpo l’attualità e, soprattutto, l’utilizzabilità dei principi costituzionali.

3 Sul tema la completa analisi di P. D’Addino Serravalle, Atti di disposizione del

proprio corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1993; R. Romboli, Persone

Fisiche, in comm. codice civile Scialoja–Branca, sub. Art. 5, Bologna–Roma, 1988, 225; A. De Cupis, voce Integrità fisica–diritto alla, in Enc. giur., vol. XVII, Roma. 1989.

4 G. Berlinguer, Il corpo come merce o come valore, in Questioni di bioetica, cit., 74; G. Berlinguer–V. Garrafa, La merce finale. Saggio sull’acquisto, la vendita

e l’affitto di parti del corpo umano, in Micromega, 1993; M. Ricolfi, Bioetica, valori

e mercato: il caso del brevetto biotecnologico, in Una norma giuridica per la

bioetica, cit., 157 ss.

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2. Libertà di disposizione del proprio corpo, maternità surrogata e

tutela del patrimonio genetico Il principio dell’indisponibilità del proprio corpo sostenuto da

Kant, “L’uomo non può disporre di se stesso (…) non gli è consentito di vendere un dente o altra parte di se stesso”5, pare essere defini-tivamente tramontato tanto sul piano culturale quanto sul piano giuridico. Ma nelle affermazioni del filosofo si può cogliere un motivo di preoccupazione che le nuove tecnologie hanno reso ancora più tangibile, vale a dire la possibilità che il corpo possa essere ridotto ad un oggetto e, quindi, ad eventuale merce. Per ciò che concerne, in particolare, l’ambito giuridico bisogna stabilire se, e come, il corpo e le sue parti possano divenire oggetto di atti di disposizione; ed eventualmente verificare se tali forme di disposizione possono avere carattere oneroso.

Nell’ordinamento italiano, il riferimento normativo è costituito dal già citato art. 5 c.c., il quale vieta gli atti di disposizione del proprio corpo per delle ipotesi giuridicamente configurate, tra le quali spicca la “diminuzione permanente dell’integrità fisica”. Con l’entrata in vi-gore della Costituzione del 1948, l’art. 5 c.c., per continuare ad essere applicato, è stato ritenuto tacitamente modificato dai principi costi-tuzionali6, ed il suo ambito di applicazione sostanzialmente ristretto agli atti di natura negoziale. D’altro canto, il silenzio della Costituzio-ne italiana sull’esistenza di una “libertà di disporre del proprio corpo”7 non è stato ritenuto d’intralcio al fine di rendere concreto l’esercizio del diritto. Infatti, richiamando quanto è stato detto sulla capacità estensiva dei diritti nel nostro ordinamento costituzionale e sul rispetto della “persona umana”, occorre riconoscere che nel conflitto tra auto-rità e libertà individuale è quest’ultima a doversi ritenere prevalente, anche nell’ipotesi della libertà di disposizione del proprio corpo.

5 I. Kant, Lezioni di etica (1775–1780), Roma–Bari, 1991, 189. 6 R. Romboli, Persone fisiche, cit., 234, che lo evidenzia in particolare per quanto

concerne la sostituzione del concetto di integrità fisica con quello di salute. 7 Sull’esistenza di una simile libertà nel nostro ordinamento mi sia consentito al

riguardo il rinvio ad A. Musumeci, Dal “potere” alla “libertà” di disporre del pro-

prio corpo, in Giur. cost., 1991, 626.

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La stessa Corte costituzionale affrontando la questione in alcune decisioni, ha ritenuto di poter considerare la libertà di disporre del proprio corpo come esplicazione della libertà personale, e dunque ricompresa in essa, tutte le volte in cui la volontà del soggetto, sulla quale fanno perno buona parte delle forme di disposizione, è libera-mente determinata, non sottoposta ad alcun condizionamento esterno e, soprattutto, non risulti in contrasto con altri principi costituzionali8.

Soffermandosi esclusivamente sull’aspetto negativo della libertà di disporre del proprio corpo, allo scopo di accertare l’esistenza di limiti alla sfera di autodeterminazione del soggetto in tale ambito, è stato precisato che nessun limite può farsi discendere dal diritto alla salute tutte le volte in cui gli effetti dell’atto dispositivo si esauriscono nella sfera del soggetto, in quanto l’ordinamento riconosce ed ammette anche la configurazione negativa del diritto alla salute9. Consi-derazioni sostanzialmente diverse devono, invece, essere avanzate per il limite della “pari dignità sociale” ci cui all’art. 3, comma 1, Cost., l’unico in grado di giustificare l’esistenza del divieto degli atti di disposizione di cui all’art. 5 c.c. a fini di lucro. Il rispetto della pari dignità sociale, inteso come parità di condizioni all’interno “dei rap-porti che implicano l’esercizio dei diritti di libertà, dei rapporti etico–sociali, economici e di quelli politici”10, impone di considerare il prin-cipio della solidarietà sociale, di cui all’art. 2 Cost, come alternativo

8 Cfr. sentt. nn. 18 del 1986 e 471 del 1990, quest’ultima con le osservazioni di

R. Romboli, I limiti della libertà di disporre del proprio corpo nel suo aspetto

“attivo” e in quello “passivo”, in Foro it., 1990, 1, 15. Ma sul punto più ampia-mente dello stesso A., La “relatività” dei valori per gli atti di disposizione del

proprio corpo, in Pol. dir., 1991, 565. Sui limiti della libertà di disposizione del proprio corpo anche L. Chieffi, Ricerca scientifica e tutela della persona, cit., 158 ss. Per una ricostruzione in parte diversa da quella proposta nel testo si v. A. Pace, voce Libertà personale (dir. cost.) in Enc. dir., vol. XXIV, Milano, 1974, 307; cui contra G. Amato, sub Art. 13, in Comm. cost. Branca, artt. 13–20, Bologna–Roma, 1977, 51 ss.

9 Sul “diritto a non essere curato” in senso conforme al testo P. Barile, Diritti

dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 386; M. Luciani, Salute, cit.; R. Romboli, Persone fisiche, cit., 241; L. Chieffi, Libertà della ricerca scientifica, cit., 149. Con-

tra P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972. 10 Così molto efficacemente G. Ferrara, La pari dignità sociale (Appunti per una

ricostruzione), in Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974, 1103.

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alle regole di mercato e di ritenere, quindi, in contrasto con la salva-guardia del bene–valore della persona umana, così come definito dalla pari dignità sociale, tutti quegli atti di disposizione del corpo con cui il soggetto intende perseguire un soddisfacimento di tipo economico.

Un’ipotesi fin troppo particolare d’atto di disposizione del proprio corpo, sotto il profilo della dignità, è costituito dalla maternità surro-gata o di sostituzione che si verifica ogni qualvolta una donna accon-sente a portare a termine la gravidanza per conto di altri, partecipando o meno con il proprio materiale genetico. Ascesa agli onori della con il famoso caso giudiziario noto come Baby M.11, e successivamente riconosciuta dai legislatori di molti Stati americani, la maternità surro-gata è stata considerata, da una parte della dottrina, come una sorta di espansione del potere femminile di generare, superando, in tal modo, tutti i problemi collegati tanto alla commercializzazione del corpo quanto alla salvaguardia della pari dignità sociale12. Per altro verso, invece, la figura della maternità surrogata è stata equiparata, non senza una certa forzatura, a quella del donatore di sperma, auspicando per le due fattispecie analoga preclusione13. Infine, una terza ipotesi avanzata è quella di considerare questo tipo di procreazione come frutto della libertà di scelta della donna, la quale acconsente a prestare il proprio corpo esclusivamente per ragioni di solidarietà sociale, senza alcun tornaconto di ordine economico. Il pregio di una simile impostazione risiede nella tutela della libertà di scelta della donna, anche nel caso in cui decida di non “consegnare” il concepito ai committenti, oltre che

11 Il riferimento è alla nota sentenza della Corte superiore del New Jersey, del 31

marzo 1987, riportata in Foro it., 1988, IV, 97, con le osservazioni di G. Ponzanelli, Il caso Baby M. La “surrogate mother” e il diritto italiano, che ha deciso, sul rifiuto della madre surrogata di consegnare la bambina ai genitori committenti, al termine della gravidanza, nel senso del rispetto degli obblighi contrattuali.

12 In termini teorici, la formulazione più radicale di un simile potere femminile si deve a C. Shalev, Nascere per contratto (1989), Milano, 1992; ma si vedano anche le obiezioni critiche sul potere del legislatore e dei giudici sul corpo femminile di B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico (1991), Torino, 1994.

13 L’accostamento è avanzato da F.D. Busnelli, Intervento, in Una giuridica per la bioetica, cit, 112.

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nella possibilità di poter dichiarare nullo qualunque contratto avente ad oggetto una simile prestazione14.

Il primo paese europeo ad essersi occupato della maternità surrogata è stato il Regno Unito, che ha promulgato il Surrogacy Arrangementes

Act del 1985 con il quale venivano riconosciuti gli accordi di semplice liberalità o di cooperazione. Il successivo Human Fertilization and

Embriology Act del 1990 ha parzialmente modificato la disciplina vietando, in linea di principio, l’accordo di surroga, negandogli valore giuridico, ma lasciando la possibilità al tribunale, qualora la gravidanza sia stata portata a termine, di emettere ordinanza con cui, a certe condizioni, il bambino venga considerato figlio dei committenti15.

In Italia, la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente as-sistita, non contempla espressamente un divieto di maternità surrogata, ma la sua esclusione si può ricavare implicitamente dal divieto posto dalla legge di ricorrere, per la fecondazione, a materiale genetico esterno alla coppia, parificando in tal modo la maternità surrogata ad una forma di fecondazione eterologa16. La maternità surrogata è invece espressamente vietata dal Codice deontologico dell’Ordine dei Medici, approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione dei Medici

14 È il percorso logico–giuridico seguito dalla Corte suprema del New Jersey

nella sentenza del 3 febbraio 1988, che decise sull’appello della Corte superiore dello stesso Stato per il caso Baby M, in Foro it., 1989, IV, 293, con le osservazioni di G. Ponzanelli e R. Clarizia. In Italia gli stessi argomenti della Corte superiore sono stati utilizzati dal Tribunale di Roma, I sez. civ., con la sentenza del 17 feb-braio 2000, in Giur. merito, 2000,527 che ha deciso in senso nettamente contrario al precedente di Tribunale di Monza, 27 ottobre 1989, in Foro it., 1990, I, 298.

15 In senso contrario alla soluzione legislativa adottata si v. il Rapporto della commissione Warnock, incaricata, dal governo di sua Maestà, di approfondire i temi della fecondazione artificiale e dell’embriologia: Report of the Committe into

Human Fertilization and Embriology – Warnock Report, London, 1984. Tutti i pro-blemi posti dalla disciplina della fecondazione assistita nel Regno Unito sono riesaminati adesso da M. Warnock, Fare bambini, Esiste un diritto ad avere figli? (2002), Torino, 2004.

16 L’A.C. n. 414 presentato nel corso della XIII Legislatura, sulla disciplina della fecondazione assistita, al suo art. 14 prevedeva espressamente il divieto di maternità surrogata. Dando prova di conoscere molto meglio il fenomeno dell’attuale legi-slatore, nel vecchio progetto di legge si stabiliva: “È vietata altresì ogni forma di surrogazione della madre, di prestito o di affitto del corpo della donna a scopo di gravidanza. Qualsiasi accordo in tal senso è nullo”

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nell’ottobre del 1998, all’art. 42 che parla correttamente di “forme” di surrogazione, alludendo alla possibilità che si realizzi attraverso più combinazioni.

Anche le forme di disposizione del proprio patrimonio genetico possono ritenersi tutelate dai principi costituzionali. Tanto la Rac-comandazione n. 934 del 1982 dell’Assemblea del Consiglio d’Europa quanto la più recente Convenzione di Oviedo sulla biomedicina, pur preoccupandosi di stabilire il principio di indisponibilità del patrimo-nio genetico, non escludono la possibilità di interventi a fini terapeu-tici. A differenza delle ipotesi classiche di disposizione del proprio corpo, nel caso del genoma umano al fine di tutelare un interesse supe-riore a quello individuale, rappresentato dal “patrimonio genetico delle generazioni future” le forme di disposizione sono più circoscrit-te, consentite unicamente a scopo terapeutico, e sempre a condizione che il soggetto abbia reso il proprio consenso in modo libero ed infor-mato17. Inoltre, poiché nel caso in esame, la possibilità di incidenza ad opera di terzi, in genere del personale medico e scientifico, sulla sfera di autonomia del singolo, è più consistente rispetto alle tradizionali forme, occorrerà verificare, di volta in volta, le condizioni di tale intervento, allo scopo di salvaguardare il rispetto della persona umana”, di cui all’art. 32, comma 2, Cost. Di disponibilità del proprio patrimonio genetico, si è parlato di recente, con toni inquietanti, riguardo alla clonazione umana, annunciata, come ricordato in aper-tura, da molti pool di ricercatori. Sull’onda emotiva di quanto era ac-caduto in Scozia con il primo caso di clonazione animale, riuscito con successo, sono diventate più numerose le norme poste in essere da organismi internazionali e non (in merito l’ordinanza dell’allora Ministro della Sanità del 5 marzo 1997 sul Divieto di pratiche di

clonazione umana o animale, ancora in vigore), con le quali scongiu-rare una simile eventualità. Sul piano sopranazionale, oltre alla ricor-data Raccomandazione, si è andata aggiungendo la Convenzione di

17 Si veda al riguardo l’art. 5 della Convenzione di Oviedo che sancisce il prin-cipio generale del consenso libero ed informato agli intereventi sanitari, e riconosce espressamente la libertà della persona interessata di “ritirare in ogni momento”il consenso già prestato. Sul punto anche il parere del Comitato nazionale per la bioetica su Terapia genica del 15 febbraio 1991, nel quale viene ripresa la differenza tra trattamenti sulle cellule somatiche e germinali formulata in sede internazionale.

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Oviedo, ma principalmente il Protocollo addizionale alla stessa del 12 gennaio 1998 n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani, che l’Italia ha ratificato unitamente alla Convenzione. Identico divieto è previsto inoltre dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove però si fa esplicito riferimento alla sola “clonazione riproduttiva”, lasciando quindi intendere l’ammissibilità di quella terapeutica. Il Parlamento italiano ha altresì vietato “inter-venti di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca”, in base a quanto previsto dall’art. 13, comma 3, lett. c), della legge n. 40 del 2004.

Lasciando da parte i dubbi di tipo morale sollevati da una simile pratica e la sua ancora lontana accettazione sociale, sul piano giuridico la clonazione difficilmente può configurare una ipotesi di disponibilità del proprio corpo e, quindi, tutelabile dai principi costituzionali prima individuati. Per respingere la sua pratica, pare invece più opportuno richiamare il valore della differenza, ultima e più recente espressione dell’eguaglianza, e come tale tutelato dalla pari dignità sociale. È, infine, il caso di ricordare che ledendo alla differenza si finisce per incidere sull’unica condizione in grado di rendere possibile “il rico-noscimento del pluralismo dei sistemi di valore”18.

3. Gli organi umani tra donazione e commercio. La direttiva CE sulla

protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche

Una questione di grande attualità in bioetica, riguardante gli organi umani, che solo in parte coincide con il più ampio e tradizionale tema dei trapianti19, è costituito del loro reperimento e dalla successiva allocazione, considerata l’esiguità del bene a disposizione.

18 Così L. Ferrajoli, Introduzione, in I.M. Young, Le politiche della differenza, Milano, 1996; Id., La differenza sessuale e le garanzie dell’eguaglianza, in Dem. dir., 1993, 49 ss. Sugli specifici problemi giuridici della clonazione S. Rodotà, Sul buon

uso del diritto e i dilemmi della clonazione, in Riv. crit. dir. priv., 1999, 561. S. Stam-mati, Costituzione, clonazione umana, identità genetica, in Giur. cost., 1999, 4067.

19 Sul tema dei trapianti la letteratura è naturalmente molto ampia. Per il carattere generale degli studi si ricordano, tra gli altri, F. Mantovani, I trapianti e la sperimen-

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Il carattere di gratuità delle forme di disposizione del proprio corpo è confermato dalla legge del 26 giugno 1967, n. 458, sul trapianto del rene tra persone viventi. Posto che, con tale atto si realizza una diminuzione permanente dell’integrità fisica del donante (limite stabilito dall’art. 5 del c.c.), la ragione di tale regola è da rinvenire nei “fini umanitari dell’atto e nel fatto che esso è espressione dell’adem-pimento di un dovere morale o sociale ricollegabile al principio di solidarietà umana”20. Più ristretta, invece, la sfera di libertà del donatore allorquando si tratta di individuare il soggetto ricevente, che la stessa legge si incarica di definire21. Una forma di remunerazione è invece prevista dalla legge del14 luglio 1967, n. 592, sulla raccolta e la distribuzione del sangue umano per i c.d. “donatori professionali” sottoposti a costanti e continui controlli. Tale attività remunerativa è sempre stata considerata, dalla dottrina, in armonia con l’intero testo di legge finalizzato a sottrarre la materia alla logica del profitto e ad evitare il commercio del sangue. Una deroga a tale principio è, invece, posto in essere dalla direttiva n. 89/3817CEE del 14 luglio 1989, la quale al fine di consentire l’armonizzazione fra le varie legislazioni degli Stati membri, ha conferito la qualifica di medicinale al sangue e al plasma umano, consentendone così l’ingresso sul mercato. A parte le differenze segnalate entrambe le fattispecie, donazione di rene e sangue, non prescindono in nessun caso dal consenso del soggetto interessato. Quindi, con la cessione a titolo gratuito di parti del proprio corpo vengono rispettati tanto il principio della pari dignità sociale quanto le esigenze di natura solidale e sociale, proclamate dagli artt. 2

tazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974; G. Giacobbe, voce Trapianti, in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992; M. Gabrielli, Il prelievo e il tra-

pianto di organi a scopo terapeutico, in Medicina e diritto, cit., 259; AA. VV., La

questione dei trapianti tra etica, diritto, economia, a cura di S. Fagiuoli, Milano, 1977.

20 R. Romboli, Persone fisiche, cit., 314; M. Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato Rescigno, II, Torino, 1982, 74 ss.

21 Un modello analogo, seppur ancora più restrittivo del nostro, è utilizzato dalla legge francese n. 94–654, la quale all’art. L 671–3 stabilisce che “Il prelievo di organi da una persona vivente, che ne fa dono, può essere effettuato solo nel diretto interesse terapeutico del ricevente. Il ricevente deve essere padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, salvo il caso del prelievo di midollo osseo a fini di trapianto. In caso d’urgenza, il donatore può essere il coniuge”.

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e 3 Cost. Per completare il quadro normativo di riferimento, restano da menzionare la Convenzione di Oviedo e la Carta dei diritti fon-damentali che vietano, entrambe, di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una forma di lucro.

Tenuto conto del fatto che gli organi umani costituiscono un bene decisamente scarso, sia per la mancanza di cultura della donazione sia per le limitate ipotesi in cui viene consentito il trapianto tra viventi, le soluzioni per ilreperimento degli organi sono diventate uno dei terreni di battaglia dei sostenitori dell’analisi economica del diritto di matrice nord–americana22. Sebbene le proposte avanzate siano le più diverse la loro matrice comune è data dal criterio della libertà di scelta del sog-getto, mentre tutte contestano duramente il paternalismo del legisla-tore che in questo caso è volto a condizionare pesantemente la libertà di scelta.

Al di là delle singole ipotesi e soluzioni prospettate da questa corrente di pensiero giuridica, la loro applicazione nel nostro ordina-mento può dirsi scongiurata dalla presenza di un quadro di principi costituzionali informato al rispetto e alla promozione della persona umana piuttosto che alla subalternità della stessa al mercato. D’altra parte, occorre riconoscere che il problema del reperimento degli organi è sentito anche nel nostro Paese, e questo dovrebbe obbligare il legislatore di un ripensamento di tutta la normativa in materia di prelievo di organi da cadavere. In questo caso, se non si vuole espor-tare in Italia come quello messo in atto dallo Human Organ Transplant Act di Singapore del 1987 (che prevede tutta una serie di incentivi, consistenti nel titolo preferenziale a trapiantare gli organi a vantaggio di colui che abbia dichiarato in precedenza la sua disponibilità a donarli), occorrerà, in mancanza di una dichiarazione espressa del defunto, sulla esportazione degli organi, ritenere prevalente il prin-cipio di solidarietà sociale, rispetto ad una contraria volontà dei congiunti. L’ostacolo verso una completa realizzazione del principio è

22 Da ultimo, H. Hansmann, Mercati di organi umani, in Una norma giuridica

per la bioetica, cit, 177 ss, il quale suggerisce di adottare contratti con effetti post mortem, in forza dei quali una persona acconsente all’espianto di uno o più organi in cambio di una riduzione dei premi assicurativi, consentendo così alle compagnie interessate di commerciare a suo tempo gli organi ceduti.

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rappresentato, nel nostro ordinamento, dalla legge 2 dicembre 1975, n. 644, sulla disciplina dei prelievi da cadavere, che vanifica in parte i progressi compiuti con l’approvazione della legge sulla morte cere-brale (l. n. 578/1993). La legge n. 644/1975 conferisce, infatti, il potere di decidere in merito alla donazione degli organi del defunto ai congiunti più prossimi, tenuto conto che nella maggior parte dei casi l’interessato non ha espresso in tempo e con le modalità previste dalla legge, il proprio consenso.

Ma il tema del mercato torna ad interferire con le politiche del corpo a seguito dell’approvazione di una discussa direttiva del Parlamento europeo, la n. 98/44/CE del 6 luglio1998 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Certamente, in relazione a tale tipo di ricerche, specie per quanto concerne la riproduzione in laboratorio di sequenze del DNA, l’eventuale possibilità di brevetto può costituire un importante incentivo per le imprese del settore all’investimento di capitali ingenti per ricerche assai costose. Tuttavia, il rischio concreto è che, attraverso la concessione di brevetti, si finisca col creare posizioni di mercato dominante, attraverso le quali la reale accessibilità a determinate forme di terapia genica è di fatto riservata a pochi ovvero sottoposta ad insostenibili condizioni23. Il fenomeno, che fin ora ha interessato in prevalenza il settore agroali-mentare, per i c.d. cibi “transgenici”24, rischia di estendersi al settore delle applicazioni biomediche, allorché fossero brevettabili le se-quenze genetiche per l’eliminazione di determinate patologie. Una simile eventualità, naturalmente, rende insostenibile qualunque osser-vazione circa il beneficio generalizzato della ricerca di settore, in un campo come quello della salute, dove particolarmente odiose sono le diseguaglianze dovute alla diversa condizione economica dei soggetti. In verità nella direttiva n. 98/44, con il termine “invenzioni biotecno-logiche” si è inteso escludere la brevettabilità del genoma in quanto tale, e delle sue sequenze, lasciando però impregiudicata la possibilità di brevettare “un elemento isolato del corpo umano o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza

23 Sul tema di recente M. Ricolfi, Bioetica, valori e mercato: il caso del brevetto

biotecnologico, in Una norma giuridica per la bioetica, cit., 157. 24 In materia si veda la direttiva n.2001/18/CE

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o sequenza parziale di un gene” (art. 5). In sostanza, il semplice apporto dello strumento tecnologico col quale isolare una parte dal resto del corpo è in grado di giustificare una forma di “proprietà della vita”25, con tutto quel che consegue. Di certo, nessuno intende negare i vantaggi che da queste scoperte derivano all’umanità, come nel caso dei medicinali derivati da elementi isolati dal corpo umano o alla possibilità di creare organi dalla struttura simile a quella di elementi naturali esistenti nel corpo, eliminando così in radice il problema del rigetto degli organi artificiali. Ma gli argomenti non sono sufficienti per giustificare l’esistenza di un diritto di proprietà da parte di terzi su parti del corpo, che configura, tra l’altro, una crepa pericolosa del principio dell’inalienabilità, a titolo oneroso, di parti del corpo umano.

4. La sperimentazione sugli embrioni La situazione di cui si occupa è indubbiamente nuova rispetto alle

tradizionali forme di disposizione del corpo, trattandosi di una pratica che si è resa concreta solo con lo sviluppo e il perfezionamento delle tecniche di fecondazione assistita, e precisamente con la fecondazione in vitro, e la contestuale possibilità di creare embrioni in vitro.

Le questioni che vengono sollevate sono molteplici ed in parte connesse tra loro: Si discute, ad esempio, di un diritto degli embrioni all’integrità genetica, ma, al contempo, viene posto in capo ai “pro-prietari” del materiale genetico la titolarità del consenso per interventi di tipo terapeutico sull’embrione. C’è la questione dell’utilizzazione degli embrioni soprannumerari per fini di tipo scientifico, la quale ripropone il tema della proprietà di parti del corpo e si scontra con la richiesta di conferire lo status giuridico di persona umana anche all’embrione. L’affermazione che gli embrioni, e contestualmente con essi le generazioni future, hanno “diritto” all’integrità genetica è contenuta per la prima volta nella Raccomandazione del Consiglio

25 L’espressione è di J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio

di una nuova era, Milano, 1988, il quale afferma che “I brevetti sulla vita colpiscono al cuore le nostre convinzioni sulla vera natura della vita, cioè se quest’ultima debba essere considerata come un valore intrinseco o un semplice valore di utilità”, 111.

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d’Europa n. 934 del 1982, la quale, rinviando esplicitamente agli artt. 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, prevede per essi “il diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione”; analoga dichiarazione è contenuta nella successiva Raccomandazione n. 1046 del 1986 dove si parla di un “diritto al pa-trimonio genetico non manipolato”; ed, infine, la ritroviamo nell’ulti-ma Raccomandazione dello stesso organo, la n. 1100 del 1989, dal-l’eloquente titolo “Uso degli embrioni umani e dei feti nella ricerca scientifica”.

Queste dichiarazioni, associate alla concezione cattolica della sa-cralità della vita umana, sono state utilizzate per sostenere l’equipa-razione dell’embrione alla persona già esistente, con eguale titolarità di diritti, escludendo così qualsiasi intervento scientifico su di essi. La questione dell’equiparazione dell’embrione alla persona già esistente è di certo una delle più delicate dal punto di vista della riflessione etica ma non certo sul piano giuridico, salvo non voler accedere ad una concezione della vita di tipo giusnaturalistico. Essa va infatti risolta sulla base del principio della pari dignità sociale, ai sensi della quale ogni equiparazione tra la persona esistente e l’embrione viene elimi-nata in radice. Di conseguenza, per il diritto, l’unica relazione rile-vante è quella tra la libertà della ricerca scientifica e la persona umana già esistente. Volendo poi portare alle estreme conseguenze il ragiona-mento dell’equiparazione, occorre osservare che se ciò che si intende tutelare è il processo di sviluppo della vita umana non si capisce perché arrestarsi al momento del concepimento, in quanto anche nell’ovulo e nello sperma si può trovare qualcosa di potenzialmente in grado di far nascere una persona umana26.

In realtà, nel caso della sperimentazione sugli embrioni, si eviden-zia in modo netto un conflitto tra due opposte esigenze: da un lato il diritto al libero sviluppo della ricerca scientifica, il quale come già ricordato si pone come un momento primario di evoluzione della col-lettività; dall’altro la tutela della sicurezza e della stessa sanità pubbli-

26 In tal senso A.M. Capron, Quali norme per la procreazione, in Una norma

giuridica per la bioetica, cit., 79 ss. ma in modo sostanzialmente conforme P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più (1994), Milano, 1996; R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., 128.

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ca impediscono di abbandonare la ricerca all’attività incontrollata di operatori insufficientemente impreparati a comprendere le conseguen-ze, a breve e a lungo termine, delle proprie sperimentazioni. La dif-ficoltà sta dunque nel trovare tra i due momenti, privilegiando tuttavia l’aspetto della ricerca e dell’evoluzione, rispetto ad una malintesa tu-tela dell’identità biogenetica o della sicurezza. Quest’ultima dovrà essere garantita mediante controlli accurati sui centri di ricerca, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di ostacolare realmente attività che, pur se riconosciute come improduttive o pericolose, possono facilmente essere occultate o trasferite in Paesi compiacenti.

Pertanto, le dichiarazioni riportate in precedenza, più che fondare diritti di soggetti non esistenti, vanno, correttamente intese come un ri-chiamo al principio di responsabilità della comunità scientifica, affin-ché nel suo progredire non ponga in essere pratiche dal carattere euge-netico; lasci impregiudicata la libertà di scelta delle generazioni fu-ture, senza rinunciare con ciò all’obiettivo di minimizzare i danni. Merita di essere segnalata, a tale proposito, la scelta del legislatore del Regno unito che con lo Human Fertlization and Embriology Act del 1990, recependo ampiamente le indicazioni contenute nel rapporto Warnock del 1984, ha autorizzato la ricerca sugli embrioni fino al quattordicesimo giorno dal concepimento, istituendo, tra l’altro, una Authority alla quale è deferito il compito di autorizzare e controllare l’attività di ricerca e di fecondazione assistita.

Altrove, l’impossibilità di individuare un effettivo titolare dei diritti dell’embrione, e delle generazioni future riconosciuti in sede inter-nazionale, ha obbligato i legislatori, che hanno affrontato il tema, a condizionare la disponibilità di feti ed embrioni umani, da parte della comunità scientifica, al previo assenso della coppia “proprietaria” (ma tecnicamente si deve parlare di donatori) escludendo sempre il fine di lucro (così ad esempio, la legge spagnola n. 42 del 3 dicembre 1988, artt. 1 e 2; la raccomandazione n. 1100/89, lett. H, n. 22; e da ultimo, con una deroga al principio generale dell’indisponibilità, la legge francese n. 94–654, art. L. 152–8).

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