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Le origini del totalitarismo – Hannah Arendt Il totalitarismo si distingue dalla tirannide tradizionale perché il terrore non viene utilizzato strumentalmente per liquidare avversari politici o per mettere a tacere l’opposizione, ma è piuttosto uno strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti. Il regime totalitario non aspetta la disubbidienza per punire, ma colpisce vittime che sono perfettamente innocenti anche dal punto di vista del persecutore. Questo fu il caso degli ebrei sotto il nazismo o dei milioni di cittadini russi che finirono trucidati da Stalin. Se è vero che il terrore una volta innescato si autoalimenta in quanto le vittime sono impossibilitate a ribellarsi, è anche vero che l’affermazione di un regime totalitario è preceduta da varie tappe storiche ed ideologiche. In questi casi l’ideologia – divenendo ideologia della maggioranza – consente l’affermazione di regimi brutali. Se è inutile soffermarsi sui meccanismi attraverso i quali il totalitarismo si autoalimenta è possibile e necessario tuttavia indagare su quali siano le cause che hanno consentito a certe ideologie di affermarsi. Una di queste è l’antisemitismo. Quali le cause? 1) teoria dell’eterno antisemitismo (scartata dalla Arendt). Teoria alimentata in modo abbastanza miope anche dagli ebrei per consentire la sopravvivenza di un popolo che era privo di storia politica. 2) Teoria del capro espiatorio (non spiega – ma sposta all’indietro il problema). Tesi di Hannah Arendt. Con l’affermazione dello stato nazione nel corso del XIX secolo agli ebrei spettò un destino del tutto peculiare rispetto agli altri gruppi. Gli “ebrei di corte”

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Le origini del totalitarismo – Hannah Arendt

Il totalitarismo si distingue dalla tirannide tradizionale perché il terrore non

viene utilizzato strumentalmente per liquidare avversari politici o per mettere a

tacere l’opposizione, ma è piuttosto uno strumento permanente con cui governare

masse assolutamente obbedienti. Il regime totalitario non aspetta la disubbidienza

per punire, ma colpisce vittime che sono perfettamente innocenti anche dal punto di

vista del persecutore.

Questo fu il caso degli ebrei sotto il nazismo o dei milioni di cittadini russi

che finirono trucidati da Stalin.

Se è vero che il terrore una volta innescato si autoalimenta in quanto le

vittime sono impossibilitate a ribellarsi, è anche vero che l’affermazione di un regime

totalitario è preceduta da varie tappe storiche ed ideologiche. In questi casi

l’ideologia – divenendo ideologia della maggioranza – consente l’affermazione di

regimi brutali. Se è inutile soffermarsi sui meccanismi attraverso i quali il

totalitarismo si autoalimenta è possibile e necessario tuttavia indagare su quali siano

le cause che hanno consentito a certe ideologie di affermarsi.

Una di queste è l’antisemitismo.

Quali le cause?

1) teoria dell’eterno antisemitismo (scartata dalla Arendt). Teoria

alimentata in modo abbastanza miope anche dagli ebrei per consentire la

sopravvivenza di un popolo che era privo di storia politica.

2) Teoria del capro espiatorio (non spiega – ma sposta all’indietro il

problema).

Tesi di Hannah Arendt.

Con l’affermazione dello stato nazione nel corso del XIX secolo agli ebrei

spettò un destino del tutto peculiare rispetto agli altri gruppi. Gli “ebrei di corte”

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erano coloro che prestavano soldi allo stato. Ad essi spettavano privilegi e vantaggi

illimitati; potevano risiedere dove volevano, viaggiare, etcc… ma ad essi tuttavia era

impedito l’accesso alle cariche politiche o al mondo capitalistico. Coloro che non

rientravano fra gli ebrei di corte erano una massa di diseredati, senza diritti politici e

sociali. Infatti la deliberata politica di prevenire il processo di assimilazione degli

ebrei (politica sostenuta dagli ebrei medesimi) comportava che gli ebrei rimanessero

un gruppo a se stante, sebbene non caratterizzato per l’appartenenza ad alcuna

classe.

Con l’ascesa dello stato nazionale il potere degli ebrei di corte si consolidò;

sebbene la fonte dei finanziamenti fu estesa anche ad altri soggetti. La borghesia era

stata tradizionalmente indifferente alla politica e alla finanza pubblica in particolare,

sicché l’ascesa degli ebrei fu ancora più rapida. La situazione era diversa nell’Europa

orientale in cui non essendosi affermato il concetto di stato nazione l’elites degli

ebrei non si creò mai.

Con il declino dello stato nazione alla fine del XIX e con l’ascesa

dell’imperialismo gli ebrei persero gran parte della propria influenza, e sicuramente

persero il monopolio del credito allo stato. Inoltre i banchieri ebrei avevano bisogno

di scarso appoggio delle proprie comunità; sicché spesso finivano per distaccarsi

completamente dalle proprie comunità.

Come gruppo l’ebraismo dei paesi occidentali si disintegrò di pari passo con

lo stato nazionale durante gli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra

mondiale. L’antisemitismo di fine ottocento e dei primi del novecento si inasprì

proprio mentre gli ebrei perdevano il proprio potere di influenza politica pur

mantenendo le proprie ricchezze.

TESI DI ARENDT: la classe ricca è tollerata se gestisce potere, ma se perde

potere viene percepita come puramente parassitaria. Non c’è ragione della ricchezza,

sicché la disuguaglianza diventa insopportabile. Vi sarebbe dunque un ISTINTO

POLITICO che spinge gli individui a tollerare le oppressioni in quanto il potere

comunque preserva la comunità dalla disintegrazione. Ma quando il ceto abbiente

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perde potere diventa insopportabile (situazione simile si era verificata prima della

rivoluzione francese in cui la borghesia aveva perso potere politico).

“In un’Europa il cui equilibrio era stato sconvolto per sempre, il cui senso di solidarietà

era stato soppiantato da un nazionalismo che concepiva il confronto fra le nazioni come una lotta

concorrenziale fra gigantesche imprese economiche, l’elemento ebraico, non vincolato ad alcuna

nazione, tradizionalmente intereuropeo, divenne oggetto di odio universale per la sua inutile

ricchezza, oggetto di disprezzo universale per la sua palese impotenza”.

Il potere degli ebrei nel corso dell’ottocento derivava sia dal finanziamento a

certe operazioni belliche (ad esempio la guerra anti-napoleonica fu in buona parte

finanziata dagli ebrei, e quando Bismarck chiese al parlamento nuovi finanziamenti

per la guerra contro la Francia furono i Bleichroeder ad intervenire) ma anche per le

loro relazioni internazionali (ad esempio i Rotschild consentirono a Bismarck un

collegamento con Disraeli). Ma gli ebrei servivano solo fino a quando sussisteva la

speranza di un accordo fra stati. Quando la prospettiva fu invece quella

dell’annientamento totale del nemico il ruolo degli ebrei svanì (cfr. Nietzsche – il

buon ebreo, buon europeo).

Gli ebrei sostenevano con i loro finanziamenti la politica di vari stati, ma non

per questo condizionavano le scelte politiche. Anzi essi sorprendono per la loro

assoluta mancanza di ambizione politica (si pensi ai Rothschild presenti in Spagna,

Francia, Germania, Inghilterra). Sicché, visti come una casta mercantile

internazionale, da un lato furono identificati col potere statale, dall’altro tuttavia con

nessun elemento della società (e quindi potenzialmente destabilizzanti).

L’antisemitismo cresce con l’assimilazione.

Imperialismo

L’imperialismo nacque quando la classe dominante cozzò contro le

limitazioni nazionali all’espansione dei suoi affari. La borghesia si dedicò alla politica

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spinta dalla necessità economica; perché se non voleva buttare a mare il sistema

capitalistico, basato sulla legge del costante sviluppo industriale, doveva imporre

questa legge ai rispettivi governi proclamando l’espansione come il fine ultimo della

politica estera.

Tuttavia la competizione fra imperi che si innescò alla fine dell’ottocento fu

vista soltanto come tappa. Perché la concorrenza – al pari dell’espansione – non

racchiude in sé alcun principio politico: entrambe hanno bisogno di un potere

politico che le freni.

La struttura politica – a differenza di quella economica – non può estendersi

all’infinito, perché non si basa sulla produttività umana, che è invero illimitata. Di

tutte le forme di ordinamento quella nazionale è la meno adatta all’espansione

perché il consenso, che ne è alla base, non può essere ottenuto da popoli sottomessi.

Uno stato nazionale non potrebbe mai soggiogare popoli stranieri mantenendo

pulita la coscienza, perché ciò è possibile solo al conquistatore che è convinto di

imporre una legge superiore a dei barbari (cfr. Harold Nicolson, The Last Phase).

Il vero obiettivo degli imperialisti era l’ampliamento della sfera di potere

senza la creazione di un corrispondente corpo politico. Le ragioni dell’espansione

sono essenzialmente economiche. Il capitale “superfluo” doveva essere investito

all’estero, fuori dai confini nazionali. Ed infatti così fu. L’espansione politica seguì il

denaro: fu la risposta politica ad un’economia che stava diventando troppo

speculativa. Il decennio che precedette l’imperialismo fu contraddistinto da scandali

finanziari.

Gli ebrei che avevano visto drasticamente ridurre i propri profitti per effetto

dell’istituzione di saldi meccanismi di pressione fiscale cominciarono ad investire i

propri guadagni all’estero. Tuttavia il ruolo dei finanzieri ebrei fu ben presto

soppiantato dagli industriali. Gli industriali si trasformarono ben presto in funzionari

governativi, e cominciarono a governare le colonie con la violenza inaudita di chi

pensa solo all’accumulazione e non si sente legato da alcun vincolo etico con la

comunità dei governati.

L’imperialismo segnò il primo ingresso della borghesia nell’arena politica.

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POTENZA. Hobbes.

Nell’interpretazione di Hannah Arendt Hobbes è colui che meglio ha

anticipato il ritratto dell’uomo borghese. La ragione, secondo Hobbes, non è altro se

non calcolo. La potenza è il controllo accumulato che permette all’individuo di

fissare i prezzi e regolare la domanda e l’offerta in modo che tornino a suo

vantaggio. Il cittadino non è mai leale ad uno stato se non in quanto gli garantisce

sicurezza. Ma questa lealtà per esempio non può essere richiesta al prigioniero

politico.Il commonwealth è una delegazione di potere non di diritti: potere in

cambio di sicurezza. Hobbes è l’antesignano della tesi secondo quanto più cresce

l’accumulazione tanto più assoluto deve essere il potere, perché più grande è

l’accumulazione più alto è il rischio di instabilità.

La filosofia borghese non predica i valori della libertà e dell’autonomia, ma

solo quelli dell’accumulazione e del potere. Solo il potere è il fine della storia: e

siccome i beni sono per natura deteriorabili il sommo potere sta nella possibilità di

distruggere. Il nichilismo fu espressione di questa volontà di potenza – e soppiantò

la fede nel progresso settecentesca ed ottocentesca, ma mantenendone inalterato lo

spirito: “se l’ultimo vincitore non può passare all’annessione dei pianeti, non gli resta

che distruggersi per ricominciare da capo il processo senza fine”.

Le teorie razziali si affermarono proprio nell’epoca dell’imperialismo e fecero

presa anche sulla plebe perché la plebe – che è figlia della borghesia ma non è

vittima dell’ipocrisia borghese – era la meglio titolata ad esprimere senza false riserve

la politica della distruzione.

L’idea di razza è antitetica all’idea di umanità – che invece è alla base del

diritto internazionale.

RAZZISMO

Poche ideologie sono sopravvissute nel ventesimo secolo. La prima

interpreta la storia come una lotta economica fra classi; l’altra che vede nella storia il

conflitto fra razze.

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Le ideologie non sono frutto di scienza, ma sono ARMI POLITICHE.

Comunemente si associa il razzismo al nazionalismo e il conflitto fra classi

all’internazionalismo. In realtà il razzismo ha una portata distruttrice dello stato

nazione, ed al contempo distrugge anche l’idea di un equilibrio internazionale (in

quanto nega l’idea di umanità).

L’insistenza dei nazionalisti tedeschi, durante e dopo la guerra franco

prussiana, sui vincoli di sangue come presupposto essenziale per la nazione ed il

risalto dato dai romantici alla personalità innata e alla nobiltà naturale prepararono la

via al pensiero razzista in Germania. Dalla prima derivò la concezione organica della

storia con le sue leggi naturali; dal secondo nacque il superuomo.

Razzismo francese: i borghesi erano i discendenti degli schiavi gallo-romani,

gli aristocratici dai germanici (teoria elaborata dai fuorisciti prima della rivoluzione

francese, ma fatta propria nel 1853 da Gobineau). Le tesi di Gobineau erano tuttavia

pessimistiche (decadenza della civiltà dovuta alla decadenza della razza per effetto

della mescolanza con razze inferiori); ed in un periodo di ottimismo scientifico non

fecero grande presa (G. in realtà cantava la decadenza della sua classe di

appartenenza, l’aristocrazia; e dunque fu razzista quasi per caso).. Solo dopo la prima

guerra mondiale, quando si affermò la filosofia di morte, le tesi di G.. divennero

famose.

Il razzismo francese sin dagli inizi non ebbe nulla a che vedere con il

nazionalismo. In Inghilterra ed in Germania le cose non andarono così. In origine vi

fu identità. Ma lentamente il razzismo inglese divenne un’ideologia neutrale rispetto

al nazionalismo o all’internazionalismo. L’idea della superiorità razziale si scoprì per

quello che era: e cioè uno strumento per salvaguardare un’identità in crisi ed il senso

di insicurezza che il confronto con il diverso comportava. L’eugenetica e

l’evoluzionismo darwiniano, tradotti nelle teorie biologico sociali di Herbert

Spencer, tentarono all’inizio di fare dell’uomo un dio (sull’assunto dell’ereditarietà di

certe qualità innate).

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Quando la borghesia si appropriò delle teorie della razza, lo fece

essenzialmente per giustificare un movimento politico e cioè l’imperialismo.

Solo la combinazione di teorie della razza ed imperialismo avrebbe partorito

le mostruosità del ventesimo secolo.

Le prime forme di regime politico fondato sul razzismo si ebbero in

Sudafrica: fu l’esperienza più che un’ideologia a trasformare l’amministrazione di

una colonia in una forma di bieco saccheggio in cui gli amministratori si erano

ridotti allo stato brado dei governati (la scoperta dei diamanti e dell’oro creò nuovi

feticci).

La burocrazia con cui l’impero britannico governò sulle colonie -. Sebbene in

apparenza più umanitaria del saccheggio senza regole – in realtà segnò

l’affermazione della legge d’eccezione sul principio di diritto. Gli esperti

governavano e non le leggi – cosa che fece sentire i burocrati slegati dai valori

occidentali e titolati a governare secondo l’occasione. I massacri amministrativi si

pongono in quest’ottica.

Gli agenti segreti appartengono invece alla categoria donchisciottesca di chi

va a combattere il drago (Lawrence d’Arabia, Kim di Kipling, etc…).

L’imperialismo inglese poteva sfociare nel totalitarismo. Tuttavia prevalse la

moderazione – che Churchill seppe afferrare.

I PAN- MOVIMENTI

Nazionalismo tribale e imperialismo continentale.

I pan-movimenti nati verso il 1870 (e cioè il pangermanesimo e il

panslavismo) furono quelli che maggiormente hanno influenzato il nazismo ed lo

stalinismo. Il nazionalismo tribale si diffuse specialmente fra I popoli dell’impero

Austro-Ungarico (che aveva governato secondo il motto dividi et impera).

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L’imperialismo continentale (dei pan-movimenti) disprezzò più apertamente

la legalità di quanto non abbia fatto l’imperialismo d’oltremare: in quanto in questo

secondo caso c’era maggiore distanza fra l’illegalità delle colonie e la legalità

metropolitana. In aggiunta i pan-movimenti hanno avuto origine in paesi che non

avevano mai conosciuto il sistema di governo costituzionale.

L’ascesa dei movimenti totalitari fu dovuta a molti fattori, ma essenzialmente

al crollo dello stato nazione con la sua triade POPOLO GOVERNO E

TERRITORIO. Il partito nazista, ma anche quello comunista nelle elezioni del 1932

si presentò come un movimento: un movimento che aveva la pretesa di soppiantare

lo stato e il popolo. Non rappresentava più alcun interesse ma incarnava la

rivoluzione in sé, l’assoluto.

LA FINE DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE E LA

QUESTIONE DEGLI APOLIDI

La fine della prima guerra mondiale squarciò un velo sull’infausto destino dei

diritti umani. Con la sconfitta dell’impero Austro-Ungarico e goffo tentativo del

trattato di Versailles di creare tanti stati nazione dalle ceneri dell’impero in realtà fu

lasciata irrisolta la questione delle “MINORANZE” – che non vedendosi

riconosciute in alcun corpo politico potevano confidare solo nella protezione della

Lega delle Nazioni. Ma la protezione da parte di un organismo internazionale è uno

strumento del tutto effimero.

Col dilagare delle tesi razziste, imperialiste (sia oltremare che continentali),

dei pan-movimenti la questione dei diritti umani fu ridotta a quella dei diritti dei

popoli (nelle sue versioni della pseudoteologia del nazionalismo tribale o

dell’imperialismo) ma al contempo si cominciò a distruggere l’idea di umanità che è

alla base dei diritti dell’uomo.

Gli ebrei prima di essere deportati nei campi di concentramento venivano

privati della cittadinanza, e le pratiche di naturalizzazione furono frequenti anche in

Francia ed in altri stati europei. La massa di apolidi, di gente privata del DIRITTO

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ALL’AZIONE, prima ancora che della libertà, crebbe a dismisura; ma il problema

non interessò nessuno.

DIRITTO DELL’UOMO.

Nella concezione aristotelica, fatta propria dalla Arendt, il diritto dell’uomo

deriva dal potere dell’uomo di pensare e parlare: e cioè dalla CAPACITA’ DI

REGOLARE NELLA CONVINVENZA, CON LA PAROLA anziché CON

LA FORZA, GLI AFFARI, SOPRATTUTTO QUELLI PUBBLICI.

Solo la perdita di una comunità politica esclude l’uomo dall’umanità.

I diritti umani del diciottesimo secolo erano desunti dalla natura – come

prima erano visti come diritti storici. Ma nel ventesimo secolo la natura ha assunto

un aspetto sinistro. Come il diciottesimo secolo si è sbarazzato della storia così il

ventesimo si è sbarazzato della natura.

Ma l’umanità è un fatto inevitabile: il diritto ad avere diritti, il diritto a far

parte di una comunità o all’umanità deve essere garantito.

Hitler diceva: diritto è ciò che giova al popolo tedesco. Fino a quando il

diritto viene fatto coincidere con l’utile, il rischio di crimini contro i diritti umani è

sempre in agguato (del resto l’utilità sostituisce le massime trascendenti della

religione o del diritto naturale).

Già Edmund Burke aveva intravisto questo possibile declino, quando aveva

tacciato i diritti umani di astrazione. I diritti umani sono un’eredità tradizionale, che

scaturiscono dall’intimo di una nazione, ma non dalla razza.

ALTRE CAUSE

L’ascesa dei movimenti totalitari fu dovuta anche ad altri fattori.

Ad esempio i movimenti attecchirono meglio in un sistema politico

multipartitico rispetto che ad un sistema bipolare. Nel sistema bipolare il partito è

un centro di ORGANIZZAZIONE DI AZIONI POLITICHE che ruota intorno a

vari interessi. L’opposizione si tiene viva per il fatto che sa la prossima elezione

potrebbe essere la propria occasione.

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Il sistema multipartitico (come quello presente nella Repubblica di Weimer o

in Italia) poi è più vulnerabile in quanto nessuno si assume veramente la

responsabilità delle scelte. I ministri vengono selezionati non per i loro meriti ma

per effetto di contrattazione con i segretari di partito, e l’intera coalizione può vivere

sotto il ricatto di un piccolo gruppo.

Il sistema dei partiti è comune connesso al sistema classista. I partiti sono

portatori di interessi e pertanto non si identificano con lo stato (nel sistema bipolare

tale immedesimazione può avvenire ma riducendo lo stato al compromesso fra gli

interessi espressi dal partito di governo e non all’interesse di tutti). I movimenti

invece avevano la pretesa di esprimere interessi di tutti: al di là degli interessi

individuali. Facendo appello ad ideologie che ricordavano pseudoteologie –

nazionalismo tribale, pan-movimento – razza, etc… si ponevano addirittura al di là

dello stesso stato: e sicuramente dello stato nazione (che presuppone che l’idea di

cittadinanza non schiacci e soverchi il permanere di interessi individuali o di gruppo

contrapposti).

L’apatia della classe borghese contribuì all’ascesa dei movimenti: ma non nel

senso che l’individualismo borghese dovesse necessariamente portare all’ascesa di

regimi totalitari (in quanto al contrario vi è un netto contrasto fra totalitarismo che

mira alla soppressione delle personalità individuali e spirito borghese che si ripiega

sugli interessi privati) ma unito al dramma economico sociale che seguì la prima

guerra mondiale produsse una miscela esplosiva. Se lo spirito borghese in un certo

senso predicava il disinteresse per gli affari pubblici (se non nella forma sanguinaria

e accumulatrice della politica internazionale espansionista in cui il governo veniva di

fatto identificato con l’impresa capitalistica) esso tuttavia per sopravvivere (almeno

nel breve termine) doveva mantenere intatta l’energia (e dunque la personalità)

privata. Se è vero che lo spirito di accumulazione possa degenerare nello spirito di

distruzione (da questo punto di vista Hobbes è il teorico più lucido della sorte

spietata del Commonwealth e del nichilismo insito nell’insito nell’istinto di

accumulazione) tuttavia i movimenti totalitari fecero innanzitutto presa su masse

diseredate che oltre a non aver mai percepito alcun interesse per gli affari pubblici

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(in quanto essi stessi prodotti dello spirito borghese) persero anche l’interesse per il

proprio io, per la propria personalità.

Da un lato le masse di diseredati riconducevano la crisi economica europea

ad una sofferenza esclusivamente individuale (in questo senso il loro era

egocentrismo) ma dall’altra cominciarono a perdere interesse per la loro stessa sorte

individuale. Così può giustificarsi quello spirito di abnegazione che determinò che

masse intere di uomini sani mentalmente si lasciasse abbacinare dalle parole deliranti

di un leader – sciamano.

TOTALITARISMO

I movimenti totalitari sono i primi movimenti anti-borghesi: in quanto –

sebbene sfruttino l’apatia della borghesia per la vita pubblica – non ne tollerano

l’individualismo. Sicchè la borghesia può appoggiare un regime fascista, un uomo

forte che li esoneri dagli affari pubblici (così da potersi concentrare in quelli privati)

ma non può appoggiare un regime totalitario che mira alla distruzione della vita

privata ancor prima che della vita pubblica.

L’atteggiamento psicologico che sta alla base regimi totalitari e che comunque

ne consente l’ascesa deve essere in grado di giustificare lo spirito di abnegazione che

un’ideologia totalitaria richiede: un disinteresse per la propria persona, la cinica o

annoiata indifferenza di fronte alla morte o alle catastrofi naturali, l’appassionata

tendenza per le idee più astratte come norme di vita, il generale disprezzo per il più

comune buon senso.

Le masse non furono il prodotto della crescente eguaglianza di condizioni,

della diffusione dell’istruzione, del conseguente abbassamento del livello culturale,

della popolarizzazione dei suoi contenuti (l’America è infatti la nazione in cui meno

un’ideologia di massa ha attecchito).

In realtà le masse si formano dai frammenti di una società atomizzata, in cui

la struttura competitiva e la concomitante solitudine di una individuo erano state

tenute a freno soltanto dall’appartenenza ad una classe. La principale caratteristica

dell’uomo di massa non era la brutalità o la rozzezza ma L’ISOLAMENTO, la

mancanza di relazioni sociali.

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Né il nazionalismo tribale né il nichilismo sedizioso erano ideologicamente

appropriati alle masse come erano stati alla plebe. Ma i capi più dotati dei movimenti

totalitari furono creature della plebe più che della massa. Il partito nazista all’inizio

era composto da avventurieri e falliti – il rovescio della società borghese – e gli

industriali che finanziarono all’inizio le SA commisero un errore di valutazione: in

quanto essi speravano l’instaurazione di una dittatura militare (prodotta dalla plebe),

ma non riuscirono a prevedere l’appoggio delle masse ai demagoghi. Anche Stalin

veniva non dal partito ma dall’apparato cospirativo (con il suo tipico miscuglio di

spostati e rivoluzionari).

I movimenti totalitari poggiano dunque SULL’ISOLAMENTO E

L’ATOMIZZAZIONE DELLA SOCIETA’. Per il nazismo la società era già pronta

per il totalitarismo. Nel caso del bolscevismo, Stalin per trasformare la dittatura

rivoluzionaria di Lenin in regime totalitario dovette prima creare artificialmente

quella società atomizzata che in Germania era stata preparata da avvenimenti storici.

Lenin era un dittatore ma non un capo totalitario: ammetteva i propri errori e

ascoltava la controparte. Alla sua morte lasciò una società divisa in classi – e la classe

contadina (che fu quella che in Francia aveva sostenuto lo stato nazione) era molto

forte in quanto numerosa. Soviet erano poi decentrati e quando si aprì la

successione era ancora aperto se prendere la via della collettivizzazione, di un vago

capitalismo o dell’economia di stato.

Stalin comprese che per l’affermazione di un regime totalitario doveva

lentamente sopprimere ogni forma di aggregazione che poteva fondare l’identità

individuale. Cominciò dalla classe dei professionisti (ceto medio) delle città, poi dei

contadini, poi infine liquidò anche il 50%della burocrazia. Qualche anno prima della

sua morte la società sovietica era stata distrutta: la violenza non era utilizzata per

liquidare l’opposizione politica (come nelle dittature classiche) ma per terrorizzare i

cittadini dall’interno. La fedeltà al capo era l’onore diceva Himmler e la stessa cosa

potè dirsi di Stalin. Perché la fedeltà possa essere assoluta il programma di governo

deve essere spogliato di contenuti (per ai contenuti possono essere associate delle

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opinioni, per definizione mutevoli): sicché il regime totalitario bolscevico, come del

resto quello nazista non avevano fine se non l’incessante terrore dall’interno.

Il regime Mussoloniano era ben diverso, essendo molto più simile alle

dittature militari classiche. Mussolini non distrusse le classi sociali ma dominò i

sudditi dall’esterno senza per questo recidere qualsiasi legale fra i cittadini che ne

faceva di loro non solo uomini solidali ma anche e soprattutto uomini. Il regime

totalitario riporta gli uomini allo stato primordiale: quello che precede le parole ed il

discorso.

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DIRITTI FONDAMENTALI E LIBERTA’

La libertà è uno dei valori fondamentali alla base dei diritti umani.

Ma che significa libertà?

Isaiah Berlin ha distinto due concetti di libertà: la libertà negativa che

consiste essenzialmente nella non interferenza o non impedimento. Si dice libero, in

questo primo senso, chi può fare ciò che desidera, o vuole, fare, senza subire

impedimenti - in particolare, senza subire alcuna interferenza ad opera di altri esseri

umani.

Questa idea, ‘negativa’, di libertà (‘libertà da’) sta sicuramente alla base

dell’affermazione e della rivendicazione, in età moderna, di diritti fondamentali. In

particolare, i diritti di libertà sono, prima di ogni altra cosa, diritti a non subire

interferenze - da parte di terzi, in generale, ma, soprattutto, da parte del governo, da

parte dei poteri pubblici - nello svolgimento delle proprie attività, nella

manifestazione delle proprie idee, o nel perseguimento dei fini che ciascuno vuole,

o sceglie di perseguire (nel soddisfacimento dei propri desideri).

Per libertà negativa Berlin intende un ambito, ben delimitato, di non

interferenza dall'esterno, o di libertà dalla costrizione altrui. Essa risponde alla

domanda: qual è l'area entro la quale si lascia il soggetto - una persona o un gruppo

di persone - fare o essere ciò che è capace di fare o essere, senza interferenza da

parte di altri? La libertà positiva, di contro, risponde alla domanda: che cosa o chi

è la fonte del controllo o dell'ingerenza che può indurre qualcuno a fare questo

invece di quello? Essa ha a che fare col concetto di autodeterminazione, che è

qualcosa di più dell'avere garantita una sfera di non interferenza, perché si tratta,

entro questa sfera, di essere padroni di sé e di decidere da soli. Berlin diffida, da

liberale pluralista, della libertà positiva, perché essa si è storicamente sviluppata

come autodeterminazione, ma nel senso che il proprio “vero sé” deve tenere le leve

del comando nel foro interno. Questa interpretazione autorizza a una costrizione

capillare e radicale, da parte di un potere politico detenuto indifferentemente da un

despota illuminato o da una democratica volontà generale con la pretesa di

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rappresentare ciò che in ciascuno vi è di autentico. Infatti, una volta chiarito

descrittivamente quali siano i contenuti necessari della libertà, diventa legittimo sia

“costringere ad essere liberi”, cioè ad adeguarsi a quei contenuti, sia proibire di

essere altrimenti. E così verrebbero eliminate sia la libertà negativa, sia la libertà

positiva, se intesa come genuina autodeterminazione.

La libertà positiva dunque attiene alla autorealizzazione dell’uomo ed è

strettamente connessa al concetto di autonomia.

Comunemente si ritiene che mentre la tradizione che pone l’enfasi sulla

libertà negativa sia da far risalire a Locke, mentre la tradizione che pone enfasi sulla

libertà positiva sia da far risalire a John Stuart Mill.

Si legga ad esempio il seguente passo di Mill:

«Secondo l’antica concezione, bisognava lasciare alla scelta del singolo individuo il meno

possibile; una saggezza superiore avrebbe dovuto guidare, nella più larga misura, tutte le sue azioni

(that the least possible should be left to the choice of the individual agent; that all he had to do

should, as far as practicable, be laid down to him by superior wisdom). Lasciato a se stesso,

sarebbe certamente finito male (he was sure to go wrong). Secondo la concezione moderna, frutto di

un migliaio d’anni di esperienza, le cose in cui l’individuo è la persona direttamente interessata non

vanno mai a buon fine se non sono lasciate alla sua discrezione (that things in which the individual

is the person directly interested, never go right but as they are left to his own discretion); e qualsiasi

regolamentazione d’autorità, salvo nei casi in cui serva a proteggere i diritti degli altri, è

sicuramente nociva».

E poi:

“Qual è [...] il carattere peculiare del mondo moderno, la differenza che distingue

principalmente le istituzioni moderne, le idee sociali moderne, la vita moderna stessa, da quelle dei

tempi remoti? È l’idea che gli esseri umani non nascono più nel posto che occuperanno per tutta

la vita, non vi restano incatenati da un vincolo indissolubile (human beings are no longer born to

their place in life and chained down by an inexorable bond to the place they are born to), ma sono

liberi di impiegare le loro facoltà, e di sfruttare le circostanze favorevoli che si offrono, per inseguire

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il destino che appare loro più desiderabile (to achieve the lot that may appear to them most

desirable). La società di un tempo si basava su un principio completamente diverso. Ciascuno

nasceva con una posizione sociale predeterminata, e vi rimaneva inchiodato dal diritto o veniva

privato di ogni mezzo che gli consentisse di uscirne (all were born to a fixed social position, and

were mostly kept in it by law, or interdicted from any means by which they could emerge from it).

Allo stesso modo in cui alcuni uomini nascevano bianchi e altri neri, del pari alcuni nascevano

schiavi e altri liberi e cittadini; alcuni nascevano patrizi, altri plebei; alcuni nobili feudali, altri

popolani e di bassa condizione».

Oggi la distinzione fra libertà negative e libertà positive tende ad essere

leggermente superata. Ad esempio, in un saggio intitolato: il Costo dei Diritti,

Stephen Holmes e Cass Sunstein affermano che tutti i diritti presuppongono un

facere da parte dello stato: un’attività. Ad esempio, non posso esigere che la mia

libertà sia tutelata se non esistono poliziotti, giudici, tribunali, etc..

Rapporto fra eguaglianza, diritti sociali e diritti di libertà

Qual è il rapporto fra eguaglianza, diritti sociali e diritti di libertà?

1) In una prima versione diritti di libertà e diritti sociali sono in tendenziale

contrasto. Più diritti sociali equivalgono a meno libertà e viceversa. Spetta alla

politica di volta in volta decidere per l’una o per l’altra tradizione.

2) Secondo un’altra impostazione diritti di libertà e diritti sociali sono

inestricabilmente connessi, ma nel senso che i diritti di libertà sono la premessa

indispensabile per evitare forme estreme di povertà. Questa è la tesi di

Amartya Sen che ha illustrato nei suoi studi economici come le carestie non

abbiano mai colpito regimi in cui una qualche forma di libertà di informazione

era presente. Le terribili carestie sovietica e cinese ad esempio sono dovute

tanto alla mancanza di informazione circolante fra le popolazioni affette

quanto alle condizioni climatiche avverse.

3) Nella terza impostazione i diritti sociali e i diritti di libertà sarebbero connessi

ma in un senso inverso al punto due. L’attribuzione da parte dello stato di

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alcune garanzie minime di sussistenza è la condizione necessaria perché i diritti

di libertà non si rilevino una semplice beffa. Il barbone o il salariato che lavora

14 ore al giorno o il bambino sfruttato dalle fabbriche o la prostituta

minacciata dal suo capo non sanno che farsene dei diritti di libertà: né della

libertà negativa né dei diritti di partecipazione politica. Anzi, è verosimile che

non votino neanche. Il loro voto del resto non conta nulla. Una qualche forma

di assistenza che consenta un livello minimo di esistenza decente è la

condizione per poter godere della libertà. I diritti sociali sono dunque

strumentali al vero fine dello stato: la libertà (Si consideri l’art. 3 della

Costituzione italiana, e segnatamente il secondo comma: «è compito della

Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,

limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno

sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori

all’organizzazione politica, economica, sociale del Paese». L’idea di fondo

sembra essere questa: l’eguaglianza davanti alla legge (art. 3, I c.: «Tutti i

cittadini (…) sono eguali davanti alla legge»), l’eguale titolarità di diritti, non

bastano, poiché vi sono diseguaglianze di fatto, di condizioni materiali e

sociali, che impediscono, di fatto, l’esercizio delle eguali libertà e diritti, che

rendono nullo, o comunque pregiudicano, il valore di queste libertà e diritti per

alcuni (gruppi di) cittadini. Affinché ciascuno possa effettivamente avvalersi

degli eguali diritti di cui, in ipotesi, è titolare, occorre (non soltanto

l’eguaglianza nei diritti: eguaglianza formale, ma anche) eguaglianza sostanziale

(la rimozione degli ostacoli.…). È necessaria, insomma, l’erogazione di beni e

servizi, da parte delle istituzioni pubbliche, affinché le eguali libertà abbiano

per tutti valore almeno approssimativamente eguale).

4) In una quarta versione i diritti sociali trovano fondamento nel dovere di carità

dello stato nei confronti dei sofferenti. Si tratta di una obbligazione autonoma

rispetto a quella da cui origina il riconoscimento dei diritti di libertà. Questa

seconda linea di argomentazione, si noti, non fa appello a considerazioni

egualitarie, ma all’idea che lo stato debba operare per incrementare il

benessere, la felicità dei cittadini, o comunque ridurne la sofferenza, l’infelicità.

Non è espressione di un’esigenza di eguaglianza, ma di solidarietà.

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5) L’ultima linea di difesa dei diritti sociali non strumentale rispetto alla

realizzazione dei valori sottesi alle libertà civili e politiche ha invece carattere

schiettamente egualitario. L’idea è che la disuguaglianza, o almeno troppa

disuguaglianza, leda il principio che sta alla base dei diritti umani e cioè

la pari dignità dei cittadini. Qui il principio di eguaglianza consiste nel

diritto a che la disuguaglianza (nelle risorse primarie) non sia eccessiva, in

modo tale da acuire il senso di inferiori di chi sta peggio e da ledere la sua

dignità.

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TEORIE SUI DIRITTI UMANI: come si giustificano, cosa sono

Indice:

Human bearer approach vs. Human concern approach.

Diritti umani e Kant: (James Griffin)

Diritti umani e beni (John Finnis)

Diritti umani e bisogni (David Miller)

Diritti umani e capacità (Martha Nussbaum)

Teorie politiche: John Rawls

Diritti umani e pratica sociale

1) Human bearer approach vs. human concern approach

La definizione corrente di diritti umani ci appare in qualche misura vuota: i diritti

umani sono quei diritti che spettano all’uomo in quanto tale. Si tratta dunque di

diritti che spettano a tutti gli esseri umani, a prescindere del luogo in cui vivono, del

tempo in cui vivono, del modo in cui sono governati, della situazione economica e

dello stadio di sviluppo in cui si trovano. A differenza dei diritti costituzionali i diritti

umani si ritiene non mutino da una regione ad un’altra poiché non dipendono né da

leggi positive, né da costituzioni, né da situazioni culturali contingenti.

Che significa che i diritti umani spettano all’uomo in quanto tale? A quale umanità ci

si riferisce quando si fa un’affermazione simile? Jeremy Waldron ad esempio

prospetta una prima grande dicotomia: fra teorie che ritengono che l’umanità a cui ci

si riferisce nella nozione di diritti umani sia effettivamente una caratteristica

determinante dei titolari dei diritti – che dunque ne fonda la titolarità – e coloro che

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invece pensano che il concetto di umanità vada inteso in modo diverso. Diritti umani

sta ad indicare, secondo Waldron, il fatto che certi diritti interessano all’umanità in

quanto tale (a tutti Si pensi alla prima teoria: i diritti spettano agli uomini in quanto

tale, in ragione della propria umanità. Che significa una proposizione di tal genere?

Ad esempio, se l’umanità va definita in termini naturalistici la proposizione solleva

non pochi dubbi. Dice Jeremy Waldron1: “Gli esseri umani si sono evoluti come

specie decine di migliaia di anni fa. Per la maggior parte di questo tempo, tuttavia,

non avrebbe senso parlare degli esseri umani come portatori di diritti. Certamente

essi non si concepivano in questi termini e non avevano governi o stati nei cui

confronti avanzare la pretese di alcuni diritti. Si può veramente dire che l’uomo di

Cro-Magnon avesse certi diritti?” Qualcosa di simile, continua Waldron, accade

anche oggi quando cerchiamo di stilare una lista di diritti umani in virtù dell’umanità

dei suoi detentori. Gli esseri umani vivono in modi estremamente diversi, dal punto

di vista sociale, politico, economico e culturale. Anche se confiniamo la nostra

attenzione ad una zona piuttosto circoscritta del globo – alle cosiddette democrazie

occidentali – continuiamo ad avere problemi nello stilare una lista di diritti umani.

Gli esseri umani in questione includono non solo gli adulti competenti e capaci di

agire fisicamente, ma anche i neonati, gli individui affetti da profonde sofferenze

fisiche e mentali (i malati di Alzheimer, gli affetti da demenza; gli immobilizzati

fisicamente, gli individui in uno stato vegetativo persistente, etc…). sicché Waldron

prospetta la seguente dicotomia.

Umano può riferirsi o alla classe dei titolari dei diritti (tutti gli esseri umani),

ovvero

1 Jeremy Waldron, A Critique of the Raz/Ralws approach,

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alla classe di coloro per cui la violazione dei diritti è una questione

importante. (“One possibility is that “human” refers not to the right-bearers (and their

humanity) but to the class of people for whom violations of these rights are properly a matter

of concern”). Alcuni diritti, si può sostenere, sono una questione di importanza

generale. Come sosteneva Kant: “la violazione di un diritti in una parte del

globo, è sentita da tutti”. L’idea è dunque che vi è una categoria di diritti la cui

violazione non può lasciare indifferente nessuno.

Questi diritti sono chiamati umani perché tutti gli esseri umani sono chiamati

a sostenerli. Così si hanno due approcci abbastanza differenti. Nel primo, i

diritti umani sono tali, perché sono diritti di tutti gli esseri umani in virtù della

loro umanità (“human bearer approach”); nel secondo caso, i diritti sono umani

perché la loro violazione è (deve essere) questione di importanza vitale per

tutti gli esseri umani (“human concern approach”). Dicono ad esempio gli autori

di WHRAN: “Il punto centrale dei diritti umani è, piuttosto, il riconoscimento

dell’esistenza di una responsabilità nei confronti della vita della gente. Si è veramente

“umani” quando si assume che la vita degli altri abbia lo stesso valore della nostra e

quando si vive in un mondo di mutuo riconoscimento, in un mondo umanizzato”.

Naturalmente questi due approcci possono essere combinati (come propone

il testo WHRAN.

2. Teoria della capacità morale (Immanuel Kant e James Griffin)

Le formulazioni dei diritti spesso rinviano al concetto di dignità personale. Ad

esempio, il preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo recita:

“Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia

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umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà,

della giustizia e della pace nel mondo”. La dignità è nuovamente menzionata all’art.

1. Di dignità parlano i Patti Internazionali del 1966; Protocollo 13 alla Convenzione

Europea dei Diritti dell’Uomo; Carta di Nizza: art. 1: la dignità umana è inviolabile).

Ma che significa dignità?

Dignità come valore morale

IMMANUEL KANT (Fondazione della Metafisica dei Costumi). Nella

concezione kantiana – la dignità umana è essenzialmente un concetto morale.

Nella massima di non trattare mai gli uomini come mezzi ma sempre come fini vi

è implicita l’idea che certi valori fondamentali non sono negoziabili. L’uomo non

può mai essere strumento di qualcos’altro. È fine. La dignità è dunque connessa

all’idea di valore: si tratta di un valore intrinseco all’essere umano, in quanto essere capace di

darsi leggi morali – e dunque universali.

Si legga il seguente passo: “Nel regno dei fini ogni cosa o ha un prezzo o ha una dignità.

Ciò che ha un prezzo può essere rimpiazzato da qualcosa di equivalente; ciò che dall’altro lato

si innalza su ogni prezzo e dunque non ammette alcun equivalente ha dignità. Ora, la moralità

è la condizione per cui soltanto un essere razionale può essere un fine in se stesso. dunque la

moralità, e l’umanità in quanto capace di moralità, è ciò che ha dignità”

La dignità è dunque valore senza prezzo:

Si legga questo ulteriore passo della Metafisica dei costumi:

“Non essere il lacchè di nessuno. Non consentire che gli altri calpestino impunemente i tuoi

diritti. Non contrarre debiti che non puoi onorare con certezza. Non accettare favori di cui puoi

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fare a meno…. Lamentarsi e piagnucolare, e perfino piangere dal dolore fisico, non è degno di

te, specialmente quando sei consapevole di aver meritato questo. Inginocchiarsi e prostarsi per

terra, anche per mostrare la tua venerazione per beni celesti, è contrario alla dignità umana….

Per Kant la dignità è valore senza prezzo: il valore assoluto di ogni persona è la

base dell’autostima ma anche della consapevolezza che la natura razionale

è comune a noi e agli altri.

Un esempio recente di questo concetto kantiano di dignità, come di valore non

negoziabile, ci è offerto da una pronuncia della Corte Costituzionale tedesca: in

seguito agli attacchi dell’11 settembre il parlamento tedesco passò una legge che

consentiva alla Luftwaffe di abbattere un aereo in mano ai dirottatori quando era

certo che stessero facendo saltare in aria il velivolo.

La Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale questa legge sulla base

dell’art. 1 della Legge Fondamentale che afferma che la “dignità umana è

inviolabile”. Ne consegue che l’abbattimento volontario delle vite di innocenti

non è mai consentito a nulla rilevando che quelle vite siano destinate tristemente

a cessare in un breve lasso di tempo. E cioè anche quando esse sono per altri

motivi spacciate. “La dignità umana esige la medesima protezione costituzionale a

prescindere dalla durata dell’esistenza fisica del singolo essere umano”.

In altri termini, se accogliamo il concetto di dignità come valore non

negoziabile dovremmo rifiutare qualsiasi concezione morale che:

Ammette che i diritti umani possano in casi particolari essere sacrificati

nell’interesse generale (ad esempio, è giusto torturare un terrorista che può

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confessare dove ha piazzato un ordigno che può uccidere migliaia di

persone;

Ammette che i diritti umani vanno bilanciati con altri diritti. Ad esempio, il

diritto di riservatezza va bilanciato con il diritto ad una stampa libera, e ad

un’informazione accurata.

JAMES GRIFFIN. Sulla stessa scia si pone James Griffin (nel suo On Human Rights,

Oxford University Press, 2008): James Griffin sostiene di mutuare il suo concetto di

dignità umana da Pico della Mirandola. La dignità dell’uomo risiederebbe nella capacità

tutta umana “di essere ciò che desidera”. Questa capacità viene definita: capacità

normativa. Talvolta i diritti umani sono strumentali a questa capacità: ad esempio

abbiamo diritto ad un minimo di assistenza perché se affamati non siamo in grado di

darci delle legge; talaltra i diritti sono invece una conferma della nostra capacità

normativa: ad esempio quando ci viene riconosciuto il diritto di compiere una scelta.

Dunque i diritti possono essere strumentali o fini in se stessi.

In tutti i casi, però, la dignità è un concetto morale: è un attributo inerente all’umanità e

da cui viene desunto il principio legale dei diritti.

La tesi di James Griffin ha ascendenza kantiana. I diritti umani spettano all’uomo

in quanto tale, perché l’essere umano è dotato di capacità morale: può decidere di

conformarsi o meno alla legge universale. Tuttavia, Griffin dichiara di seguire un

percorso diverso da quello di Kant. Se Kant procedeva dall’alto verso il basso

(l’uomo ha valore e dunque ha diritti), Griffin comincia la discussione come

riflessione sul discorso sui diritti:

Ecco come ci spiega John Tasioulas – allievo di Griffin – la tesi del suo maestro.

“Ci sono almeno quattro elementi identificati da Griffin: (a) la caratterizzazione astratta dei

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diritti umani come di diritti morali che abbiamo per il semplice fatto di essere umani. I diritti

umani vanno dunque distinti da quei diritti che si acquisiscono per effetto di qualche attività (un

atto di volontà, ad esempio – come nella conclusione di un contratto) o in quanto ci si trovi in una

situazione speciale da un punto di vista sociale o istituzionale (ad esempio, il privilegio che mi

spetta in quanto nobile); (b) per la comprensione del concetto di umanità né il ragionamento

morale, né un’indagine filosofica, o un’argomentazione giuridica possono servire; (c) che l’umanità

a cui ci si riferisce nella individuazione dei diritti umani va identificata nello status di agenti

normativi, capaci di compiere valutazioni, e scegliere fra vari concetti di bene2. Anzi i diritti

umani sono la protezione proprio di questo status che si fonda sul nostro interesse nell’autonomia,

nella libertà e in quelle norme minime necessarie a rendere il possesso di tale status effettivo. (d)

Griffin dunque menziona una lista di diritti – sostanzialmente riconducibili alla tradizione

illuminista. I diritti di libertà vi sarebbero inclusi, come le previsioni contro la tortura, mentre ne

rimarrebbero esclusi i diritti sociali (Tasioulas, Taking Rights Out of Human Rights).

In sintesi, l’agency – con consiste nella capacità di scelta morale – è l’idea fondamentale a

cui sono associati i diritti umani. Se dovessimo seguire la dicotomia proposta sopra fra

human bearer approach e human concern approach¸ dovremmo dire che la tesi di Kant/Griffin

rientra nella prima categoria.

L’essere umano è capace oltre che responsabile di condurre la propria vita. La sua volontà

non può essere soggetta ad alcuna autorità (ivi inclusa l’autorità dello stato) se non in

quanto sia necessario a prevenire un danno sociale (a terzi).

Secondo questa impostazione i diritti umani sarebbero tutti quei beni che ci permettono

di funzionare come agenti (ma anche solo quei beni). James Griffin è espressione di

questa impostazione3.

Questa teoria ha due vantaggi:

offre una spiegazione adeguata dell’universalità dei diritti umani;

previene l’inflazione dei diritti (nel senso che non tutte le cose buone

per un’esistenza umana sono oggetto di diritti umani ma solo i beni

2 J. Griffin, On Human Rights, Oxford University Press, 2008, 2; cfr. anche Tasioulas, Taking Rights out of Human Rights,

p. 4. 3 Ibidem.

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strumentali ad un’esistenza autonoma). Dice Griffin che negli ultimi

vent’anni la discussione sui diritti umani è diventata criterionless, senza

criterio e cioè troppo inflazionata4.

L’idea di Griffin è che sono diritti umani solo i diritti di libertà o comunque i diritti in

qualche misura legali alla capacità morale dell’essere umano. James Griffin ha

recentemente proposto la tesi che l’agency theory ha una portata giusgenerativa e che

consente l’estensione della lista dei diritti (On Human Rights, 2008).

Limiti: I limiti di questa teoria è che essa non spiega tutta una serie di diritti. Fondare i

diritti umani soltanto sul valore dell’autonomia può essere riduttivo. Come ha spiegato

Joseph Raz, il valore dell’autonomia ha poca rilevanza se non è arricchito da una serie di

scelte che rendono la vita di qualche significato. Raz ci fa l’esempio dell’uomo caduto nel

pozzo e che dispone di cibo a sufficienza per sopravvivere: può decidere se dormire ora o

più tardi, se mangiare adesso o più tardi, se muovere le dita, come affrontare la solitudine,

etc… (The Morality of Freedom).

L’agency non spiega pienamente (e da sola) il valore di un’autonomia significativa (che

deve essere associata con la ricerca di qualche bene).

3. Diritti Umani e Fraternità: Thomas Endicott.

Endicott muove una critica a Griffin. Il valore dell’autonomia tuttavia può non spiegare

tutta una seria di diritti. Come ha spiegato Joseph Raz, il valore dell’autonomia ha poca

rilevanza se non è arricchito da una serie di scelte che rendono la vita di qualche

significato. Raz ci fa l’esempio dell’uomo caduto nel pozzo e che dispone di cibo a

sufficienza per sopravvivere: può decidere se dormire ora o più tardi, se mangiare adesso

o più tardi, se muovere le dita, come affrontare la solitudine, etc… (The Morality of

Freedom). L’agency non spiega pienamente (e da sola) il valore di un’autonomia

significativa (che deve essere associata con la ricerca di qualche bene). L’agency da sola

non basta a spiegare la genesi dei diritti umani. Essa va associata a qualche altro bene

(verso cui l’autonomia è diretta): perché altrimenti non si comprende quale sia il valore

che sta alla base dei diritti. Endicott ad esempio segnala l’importanza di un altri principi

4 Ibidem, 14-15.

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per spiegare il concetto di diritti umani. Quali?

Endicott comincia col passare in rassegna quelle teorie che radicano i diritti umani non

sulla libertà ma sull’eguaglianza. Ma ne segnala l’inadeguatezza.

La rivoluzione francese ha colto l’insufficienza della sola libertà a spiegare i diritti umani.

L’eguaglianza coglie l’aspetto relazionale dei diritti umani. Se vediamo gli altri esseri umani

come eguali a noi vediamo qualcosa che va al di là dell’agency: possiamo riconnettere i

nostri doveri nei loro confronti alla relazione morale che c’è fra noi. Jim Harris ha colto

proprio nell’eguaglianza l’origine dei diritti umani. Ma l’obiezione di Timothy Endicott è

che non è l’eguaglianza in quanto tale che fonda i diritti umani ma piuttosto l’irrilevanza di

certe differenze. Se Y ha una malattia contagiosa e X no, negare l’accesso a Y in un luogo

pubblico non significa necessariamente calpestare i suoi diritti. Ma se a Y è vietato entrare

solo perché è nero, allora la diseguaglianza dà luogo ad una violazione. Ma non perché la

diseguaglianza esiste, ma perché si dà rilievo ad una differenza che invece dovrebbe essere

irrilevante. Jim Harris aggiunge all’agency anche il diritto all’integrità fisica. Ma questo,

obietta E. , non è ancora sufficiente.

Piuttosto Endicott propone di fondare i diritti umani su un altro valore, quello della

Fraternità.

Si potrebbe pensare che fondare i diritti umani sulla fraternità porta ad un’inflazione dei

diritti umani. Del resto ciò che mi posso legittimamente aspettare da mio fratello non è

detto che possa pretenderlo dallo stato.

Ma Endicott replica:

“Any of us (and any human agency) has good reason to respect and to look out for certain interests of a

human being, at least if we are able to meet a need that cannot otherwise be met, without disregarding or

damaging other interests that ought to be respected and promoted (this last part explains the deep

conditional nature of many human rights). Those are the interests that make a good life (the interests that

make liberty worth having, and that give a standard of relevance for judgments of human equality)”.

I diritti umani, secondo Endicott, possono essere definiti solo in relazione ai beni che si

ritengono necessari al benessere degli esseri umani. La libertà non è sufficiente, così come

non è sufficiente l’uguaglianza. Occorre qualcosa di più: occorre guardare al benessere.

“Welfare is not a mere means to enable persons to act as agents; it is a concern that can,

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in the right conditions, give rise to a duty for its own sake”.

1. Diritti umani e beni fondamentali: John Finnis

John Finnis radica i diritti umani su interessi umani universali5. Finnis tuttavia muove

da un’idea più ampia della natura umana rispetto a Griffin. Se per Griffin il valore

dell’uomo – il valore che fonda i diritti – risiede nella sua capacità di scelta morale, per

Finnis i diritti umani sono connessi al concetto di legge naturale. Dice Finnis che coloro

che sostengono l’esistenza della legge naturale ritengono che la legge naturale fornisca

uno standard obiettivo per stabilire se le nostre decisioni e le nostre azioni siano giuste o

sbagliate dal punto di vista morale6.

John Finnis definsce la legge naturale come “quell’insieme di principi di ragion pratica che

consentono di mettere ordine nella vita umana e nella vita della comunità”7.

Finnis sostiene che vi sono alcune nozioni che indicano “una forma di base del fiorire

umano e che sono beni che vanno perseguiti e realizzati”. Finnis aggiunge che tali beni

sono evidenti (self-evident) a tutti coloro che riflettono su cosa renda la vita degna di essere

vissuta8. E che sono dunque principi che informano la nostra ragion pratica.

Quali sono questi beni? Finnis ne menziona sette – che sono i beni di base. Dalla

combinazione di questi si ottengono altri beni – che tuttavia sono derivati.

Guardiamo quali sono i sette beni fondamentali perché una vita possa dirsi fiorente:

vita,

conoscenza,

gioco;

esperienza estetica;

socialità e amicizia;

ragionevolezza pratica;

religione9

Secondo Finnis qualsiasi uomo ragionevole converrebbe su tali beni10 .

5 Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, 1980, p.214

6 Ibidem, p. 23.

7 Ibidem, p. 280.

8 Ibidem, p. 23.

9 La lista è contenuta in Ibidem, p. 86-89.

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Finnis sostiene che una vita fiorente è data dalla combinazione di questi beni. Non c’è

gerarchia nella lista e dunque i beni fondamentali sono incommensurabili. In altri

termini, non si può dire se la vita sia più importante della conoscenza11 (si pensi a

Socrate che fu disposto a bere la cicuta e dunque a morire pur di non rinunciare al suo

desiderio di verità; si pensi ai martiri che si fanno uccidere pur di non ripudiare la

propria fede religiosa).

Questi beni, secondo Finnis sono fini in se stessi. Non sono dunque strumentali a

qualcos’altro. Sono anche pre-morali in quanto non presuppongono alcun giudizio

morale12. Perché si passi al giudizio morale occorre mettere in moto la ragion pratica.

Finnis spiega che vi sono alcuni principi di ragion pratica che servono ad orientare il

giudizio morale privato.

I principi di ragion pratica sono derivati tutti dal primo principio di ragion

pratica che afferma che “il bene va perseguito ed il male va evitato”13. Gli altri

principi di ragion pratica sono derivazione del primo principio. Finnis descrive nove

principi di ragion pratica che derivano dal primo.

Questi principi sono:

avere un piano di vita coerente;

non avere preferenze arbitrarie fra i beni fondamentali

non avere preferenze arbitrarie fra le persone

mantenere un senso di distacco da tutti i progetti specifici e limitati di

vita che si intraprendono

non abbandonare alla leggera gli impegni generali

agire in modo che il bene possa essere realizzato in modo efficiente

rispettare i valori fondamentali in ogni azione non sacrificando mai

interamente un bene fondamentale

favorire e promuovere il bene della comunità cui si appartiene

seguire la propria coscienza14.

10

Ibidem, p. 83-84. 11

Ibidem, p. 92-93. 12

Ibidem, p. 59. 13

Il principio è di derivazione tomista: Germain G. Grisez, “The First Principle of Practical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae 1-2, Question 94”, Article 2, 10 NAT. L.F. 168, 168 (1965). 14

Finnis, 125.

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Oltre al primo principio di ragion pratica – e le sue specificazioni – Finnis

fornisce il primo principio morale. A differenza dei beni fondamentali, il primo

principio morale non fornisce ragioni per l’azione; esso piuttosto moderare la

deliberazione fra le ragioni a favore o contro una certa azione, tenuto conto dei

beni fondamentali.

Il primo principio della moralità stabilisce: “Nelle azioni volontarie dirette a beni

umani e volte ad evitare ciò che è opposto ai beni medesimi, si devono scegliere e dunque desiderare

solo quelle possibilità compatibili con una realizzazione integrale dell’essere umano”15

Il primo principio della morale è un principio guida e non una norma che

indica uno ed un solo risultato.

Dalla lista dei beni fondamentali si può comprendere come Finnis passi alla

caratterizzazione dei diritti umani.

Innanzitutto, la vita: la vita include non solo la mera sopravvivenza,

ma l’essere immuni da dolore fisico e psichico, salute, capacità di

autodeterminarsi. Finnis annovera la protezione dei bambini –

nonché della procreazione – proprio nel primo bene (quello della

vita). “A first basic value, corresponding to the drive for self-preservation, is the

value of life. The term 'life' here signifies every aspect of vitality . . . which puts a

human being in good shape for self-determination . . . we should include in this

category the transmission of life by procreation of children . . ."16

La conoscenza, per Finnis, non è un bene strumentale a

qualcos’altro. È un fine in sé. Conoscere dà piacere e gratificazione. L’esperienza

estetica è anch’essa una forma di gratificazione. Si noti che l’arte è un bene non in

quanto una forma espressiva – di manifestazione – ma in quanto oggetto di

godimento. Si pensi alle società in cui il godimento artistico è vietato – perché

potenzialmente sovversivo; ovvero dove l’arte è imposta dal partito (come durante

il Nazismo o nell’Unione Sovietica).

“A preference for true over false belief, corresponding to that basic drive we call

curiosity, a drive which leads us to reject any celebration of self-proclaimed ignorance or

superstition”17.

15

Ibidem, 283. 16

Ibidem, p. 86. 17

Ibidem, pp. 59-75.

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Il gioco (Play) (ma anche la recitazione). Finnis ritiene essenziale nella vita cultura di

ciascuno la possibilità di ricoprire ruoli e recitare parti semplicemente per il gusto

della recita e senza altro fine.

Esperienza estetica: l’ammirazione per una bellezza sensibile, sia che sia il risultato

di un artefatto umano, sia che si tratti di oggetti di natura.

La socievolezza e l’amicizia: Nella sua forma minima, questi beni sono realizzati con

la pace e l’armonia fra gli uomini, ma nella forma più densa nella possibilità che si

crei un legame di amicizia. Ancora una volta, uno sguardo ai paesi totalitari, ovvero

alle situazioni estreme (nei campi di sterminio), può illuminarci sul valore della

socievolezza. È possibile creare un legame fra gli esseri umani in quelle società in

cui gli esseri umani sono utilizzati per scavare le fosse per i loro stessi corpi, o per

estrarre i cadaveri dei loro figli dalle camere gas, ovvero dove regna la fame nera;

ovvero – dove i servizi segreti controllano la vita dei cittadini in modo capillare. Se

legge i romanzi di Isaac Singer vi viene descritto che in Unione Sovietica le coppie

si sposavano e poi entrambi i coniugi andavano a denunciare l’altro ai servizi segreti.

Non solo un minimo di libertà e benessere è necessario perché possa svilupparsi lo

spirito cooperativo, ma occorrono anche altre condizioni. Ad esempio, una società

pervasa dall’invidia è una società in cui la socievolezza può pienamente svilupparsi?

Ed in una società dove lo spirito competitivo assume forme paradossali?

L’altro bene è la capacità di giudizio morale: ragionevolezza pratica. Finnis la

descrive come la capacità di utilizzare la “propria intelligenza per scegliere come

comportarsi [quante persone intelligenti conosciamo che raramente indirizzano la

propria condotta al bene] e per condurre uno stile di vita che possa forgiare la

propria persona”. Per comprendere questo punto, vale la pena di riprendere la

nozione di carattere che ci ha dato John Stuart Mill:

Così descrive Mill la formazione del carattere:

“colui che non agisce se non secondo le regole del costume, non opera mai una scelta e non

apprende menomamente a discernere e a desiderare il meglio. La forza intellettuale e

morale, così come quella muscolare, non progrediscono che attraverso l’esercizio. Se una

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persona adotta un’opinione senza essere convinta dei principi su cui si fonda, la sua

ragione anziché fortificarsi ne uscirà indebolita; e se compie un’azione non conforme ai

suoi sentimenti ed ai suoi modi di vedere (purchè non si tratti di interessi e di diritti di

terzi) non farà che rendere più inerte e intorpidito il carattere che deve invece mantenersi

attivo ed energico”.

Sebbene Finnis non condivida pienamente il pensiero di Mill, però l’idea del carattere

evoca quella della pensatore ottocentesco. Per Finnis la formazione del carattere presuppone

libertà, educazione, autenticità.

L’ultimo dei beni fondamentali per Finnis è la religione. E cioè la capacità

di porsi domande e darsi risposte sui problemi ultimi (l’origine del mondo,

il fine dell’essere umano, etcc…): “Is it reasonable", asks Finnis, "to deny that it

is, at any rate, peculiarly important to have thought reasonably and (where

possible) correctly about [the] questions of the origins of cosmic order and of human

freedom and reason - whatever the answer turns out to be . ..,?”18

Finnis radica i diritti naturali proprio sui beni fondamentali e sui principi di ragion pratica.

Le critiche che sono state mosse a Finnis sono di due tipi.

Innanzitutto, poiché la lista dei diritti è ritenuta dall’autore evidente, si può

confutarne qualche punto. Questa lista ad alcuni appare troppo lunga (ad esempio

il gioco), ad altri appare troppo corta (mancano ad esempio l’amore ed il piacere).

L’altro tipo di critica è che questa lista contiene già una concezione del bene,

mentre i diritti umani sembrano nozioni minime, meno ambiziose, a cui si può

arrivare attraverso l’accordo fra chi la pensa diversamente. Dice Rawls che la lista

dei diritti umani va redatta attraverso il meccanismo della ragione pubblica.

Vedremo più oltre di cosa si tratta.

18

Ibidem, p. 89.

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5) Diritti umani e bisogni fondamentali

La teoria successiva non radica i diritti umani su beni fondamentali, ma su bisogni

fondamentali.

DIRITTI UMANI E BISOGNI – David Miller

L’autore fonda i diritti umani su dei bisogni fondamentali. Come prima

approssimazione questo significa che abbiamo diritto a qualsiasi cosa sia

necessaria per soddisfare i nostri bisogni fondamentali in quanto essere

umani.

Ma cosa sono i bisogni fondamentali?

I bisogni sono qui intesi come quegli oggetti o condizioni di cui è necessario che

una persona disponga se deve poter evitare di subire un danno. Per danno Miller

intende i seguenti concetti:

nei casi più semplici il danno è identificato in termini fisici o biologici: una persona

subisce un danno quando patisce un dolore, o è paralizzata, o la sua vita è

interrotta, o contrae una malattia.

Lo standard di partenza è quello di un essere umano funzionante.

Le concezioni fisico-biologiche del danno, anche se importanti, non sono di per sé

sufficienti a dar vita a bisogni che possano fondare un insieme adeguato di diritti

umani. Gli esseri umani sono creature sociali che hanno bisogni che trascendono i

semplici dati fisici.

In questo secondo senso una persona è danneggiata quando non può vivere una

vita minimamente decente nella società cui appartiene. Una vita minimamente

decente è certamente meno di una vita fiorente (flourishing).

Ad esempio:

- una persona deve essere in grado di sostentarsi senza elemosinare;

- deve aver un reddito sufficiente per vestirsi e nutrirsi;

- deve poter avere una casa sicura;

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- opportunità di sposarsi e mettere su famiglia;

- deve poter fare progetti per il futuro, inclusa la vecchiaia, senza temere la

povertà;

- deve poter muoversi al di fuori delle immediate vicinanze del luogo in cui vive,

- deve poter entrare in luoghi pubblici senza subire molestie o abusi etc.

chi raggiunge questi obiettivi ha di certo una vita ancora triste: ma almeno non si

sentirebbe degradato, socialmente escluso, senza valore, etc…

BISOGNI E CONTESTI SOCIALI

Vi sono due modi in cui il contesto sociale condiziona i bisogni.

Nel primo modo il contesto può far variare le modalità di soddisfacimento dei

bisogni fondamentali (avere una casa sicura è cosa diversa in Italia o in India); e lo

stesso può dirsi del diritto alla salute – che ha modalità di soddisfacimento diverse

in Europa e in Africa.

Nel secondo modo il contesto modella il bisogno stesso (e non le sue modalità di

soddisfacimento).

Ad esempio il riparo dalle intemperie è un bisogno universale. Ma solo in alcune

società si traduce nel bisogno di una dimora fissa.

Miller dunque distingue fra BISOGNI FONDAMENTALI (universali) e

BISOGNI SOCIALI (che mutano al variare dei contesti sociali).

Come si individuano i bisogni fondamentali? Miller suggerisce l’approccio per

intersezione ai bisogni fondamentali: I BISOGNI FONDAMENTALI SONO

DEFINITI COME L’INTERSEZIONE DI TUTTI I BISOGNI SOCIALI.

In altri termini: si deve dapprima guardare ai bisogni sociali nelle varie società e poi

studiare cosa tutti questi bisogni hanno in comune.

Tuttavia questo approccio presenta qualche limite, in quanto si può finire di essere

ostaggio di alcune definizioni di bisogni sociali. Ad esempio si pensi ai diritti delle

donne: in alcune società i diritti delle donne sono percepiti come soddisfatti

quando secondo altre società standard minimi sono calpestati: diritti alla

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contraccezione, pratiche contrarie alla circoncisione femminile, etc… (a questo

riguardo alcuni parlano di bisogni adattativi).

Sicché si deve avere un approccio più obiettivo. Partire dall’esistenza di alcune

attività che è necessario poter compiere per poter avere una vita decente (lavorare,

pensare, mettere su famiglia, giocare, etc..) e poi individuare i diritti conseguenti

anche a prescindere dalla percezione che di queste attività si abbia in certe società

(ad esempio le donne in certe società possono non percepire quanto poco i propri

bisogni siano soddisfatti).

I BISOGNI FONDAMENTALI DUNQUE DEVONO ESSERE INTESI CON

RIFERIMENTO A QUESTA IDEA DI VITA UMANA DECENTE. SONO

LE CONDIZIONI CHE DEVONO ESSERE SODDISFATTE perché SI

POSSA VIVERE UNA VITA DECENTE date le condizioni ambientali che si

trova ad affrontare.

Un individuo ha una vita decente nella misura in cui è in grado di usufruire

dell’opportunità di compiere le attività FONDAMENTALI: quali lavorare,

mettere su famiglia, giocare, etc…).

Questo non significa che poi l’individuo debba effettivamente compiere tali

attività, tuttavia occorre che egli sia in grado di poterle compiere.

La lista di tali bisogni comprenderà:

a) cibo e acqua

b) vestiti e riparo

c) sicurezza fisica

d) cure mediche

e) educazione

f) lavoro e svago

g) libertà di movimento

h) libertà di coscienza e di espressione

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Una data società può non riuscire a comprendere la sussistenza di tali bisogni: o

per pregiudizi culturali (ad esempio le donne non hanno bisogno di lavorare) che

per un errore empirico (si potrebbe non riconoscere che una data condizione

necessita di un trattamento medico) ovvero perché lo standard di decenza minima

è più basso in conseguenza di credenze adattative: ad esempio se la aspettativa di

vita è molto bassa (45 anni) allora i bisogni vengono calcolati ma fino a quell’età.

L’idea di bisogno fondamentale è in questo senso un concetto critico: può

essere usato sia per condannare delle pratiche sociali che per fondare diritti

umani e gli obblighi internazionali.

L’idea dei bisogni fondamentali tuttavia non porta direttamente a quella dei diritti

umani. I bisogni fondamentali sono o possono essere senza limiti. Essi si

definiscono a prescindere sia dall’effettiva realizzabilità della soddisfazione del

bisogno sia indipendentemente dai limiti che vengono imposti agli altri consociati

per la soddisfazione del bisogno medesimo.

In altri termini, se io sono disabile o malato incurabile è evidente che ho bisogno

di qualcosa che ristabilisca la mia esistenza al di sopra dei limiti della decenza: ma

non per questo potrò efficacemente aspirare alla soddisfazione dei miei bisogni.

In secondo luogo la soddisfazione dei bisogni di un individuo comporta spesso

degli oneri in capo agli altri individui: fino a che punto tali oneri sono sopportabili

e giustificabili?

L’idea dei diritti umani cerca, infatti, di conciliare le esigenze del titolare del diritto

con gli interessi di coloro il cui comportamento sarebbe limitato dall’esistenza di

quel diritto.

James Griffin ad esempio rintraccia nei diritti umani un duplice fondamento: la

personalità e praticabilità. L’esistenza di un diritto umano deve dipendere in una certa

misura dal fatto che si tratti o meno di una pretesa effettiva e socialmente

realizzabile. Fondare i diritti umani soltanto sulla personalità (si pensi all’art. 2 della

costituzione italiana) significa consentire che i diritti umani si espandano

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indefinitamente.

ALTRI LIMITI ALLA DERIVAZIONE DEI DIRITTI DAI BISOGNI.

Ovvero: COME SI PASSA DAI BISOGNI AI DIRITTI?

1. E’ impossibile che l’azione umana possa fornire l’oggetto del bisogno. Si pensi alle

malattie per cui ancora non esiste cura. Un malato di cancro per cui ancora non

esiste cura non ha diritti ad essere guarito: ciò non avrebbe senso. Non esiste

un’obbligazione medica di guarire una malattia allo stato incurabile. E tuttavia il

diritto alle cure mediche del malato di cancro – sebbene non includa il diritto alla

cura specifica per quel cancro – fonda un’obbligazione ulteriore, che consiste nel

dovere dei governi di investire una parte dei loro fondi per la ricerca medica, bello

sforzo di trovare una cura contro il cancro.

2. L’oggetto del bisogno non può essere preteso da altri soggetti. Alcuni bisogni

possono essere soddisfatti solo da risposte volontarie di altri. Le esigenze di amore e

rispetto sono esempi evidenti. L’amore e il rispetto sono ingredienti indispensabili

per una vita decente e tuttavia non si può pretendere di essere amati e rispettati

semplicemente imponendo un obbligo di amore e rispetto su altri. Questo vale ad

esempio per alcune forme di rispetto. Tuttavia il bisogno di amore e rispetto può

indirettamente fondare certi diritti: come ad esempio quello di sposarsi o di non

essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Ma non c’è una semplice

corrispondenza biunivoca fra bisogni e diritti. I diritti umani sono limitati dalla

considerazione pratica che ci sono modi di relazionarsi con gli altri, implicanti certi

atteggiamenti nei loro confronti, che non possono essere ottenuti attraverso la

costrizione e che non possono essere resi obbligatori.

3. Obbligare altri a soddisfare i bisogni violerebbe i loro diritti umani. Una persona i

cui reni o fegato non funzionano più ha bisogno di un trapianto. Ma obbligare i

soggetti sani a donare un rene o il fegato non è lecito. Coloro che possono

soddisfare i bisogni di qualcun altro hanno diritto di rifiutare di farlo. Ciò deriva

dal diritto all’integrità fisica. Lo stesso vale quando si ha bisogno di avere 24 su 24

di cure mediche specialistiche. Non si può obbligare qualcuno a prestare assistenza

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24 su 24 perché ciò violerebbe il diritto alla libertà personale di costui.

Perché i bisogni possano diventare diritti occorre che essi superino non soltanto il

test di coerenza ma anche quello di compatibilità. Ad esempio riprendendo il caso

della donazione degli organi: se A perde il fegato muore mentre se B cede un lobo

del suo fegato sopravvive. Sicché se si adottasse un principio di massimizzazione

di benessere complessivo si potrebbe dire che A ha diritto al lobo del fegato di B

(e cioè che il bisogno di A dà origine immediata ad un diritto). Tuttavia perché i

bisogni possano dirsi diritti occorre che non siano violati diritti che altri hanno

autonomamente. Occorre dunque compatibilità fra diritti e non solo coerenza.

Siccome esiste un diritto di B all’integrità fisica (un diritto cioè a non cedere il

proprio lobo di fegato) allora il diritto di A non è compatibile con il diritto di B.

Sicché A non ha un diritto.

4. Bisogni, diritti e scarsità delle risorse. Cosa succede in una situazione di scarsità

delle risorse – tipo una carestia – ai diritti? Continua ad esistere un diritto al cibo

sebbene sia impossibile soddisfare il diritto per tutti? Miller riprende le posizioni di

Jeremy Waldron. Waldron precisa che anche se nelle circostanze di scarsità non si

possono simultaneamente soddisfare i diritti tutti, è tuttavia possibile soddisfare il

diritto di ciascuno considerato singolarmente. Questo naturalmente comporta che i

diritti entrino in conflitto fra di loro. Ma l’esistenza dei diritti non implica anche

che debbano essere esclusi i conflitti. E’ dunque possibile affermare che esiste un

diritto umano al cibo e contestualmente essere consapevoli che il soddisfacimento

del diritto di qualcuno può avere l’effetto di violare il diritto di qualcun altro.

Miller contesta invece l’approccio secondo cui l’esistenza dei diritti nelle ipotesi di

scarsità viene desunta dopo avere individuato un principio di giustizia distributiva

(ad esempio il cibo va ripartito in parti eguali, o soddisfacendo prima i più

bisognosi, etc…). Questo metodo intanto si scontra con la difficoltà di stabilire il

principio di giustizia adeguato, ed in secondo luogo è troppo riduttivo.

L’obiettivo della definizione dei diritti umani è anche quello di indicare le finalità dei

governi o delle politiche internazionali. Ad esempio esiste un dovere dei governi di

prevenire situazioni di carestia o di forte scarsità delle risorse.

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6) Diritti umani e capacità umane: Martha Nussbaum19

Martha Nussbaum comincia con il ricostruire brevemente le varie tradizioni sui diritti

umani. La tradizione dominante, a dire della filosofa, radica i diritti nel possesso di

capacità razionali e nel linguaggio. Sicché non si potrebbe parlare di diritti con riferimento

agli animali non umani, o ai soggetti mentalmente ritardati. La Nussbaum riconduce

questa tradizione di pensiero a Cicerone. Altri filosofi al contrario ritengono che tutti gli

esseri senzienti sono portatori di diritti fondamentali e che dunque anche gli animali

hanno diritti (Peter Singer, Animal Liberation, 1990). Accanto ai teorici che radicano i diritti

umani nel diritto di natura, vi sono poi pensatori che ritengono che i diritti sono

puramente artefatti dello stato.

La filosofa muove dalla costatazione che molte questioni teoriche sui diritti rimangono

aperte. Ad esempio, chi è il titolare dei diritti, necessariamente un individuo o può trattarsi

anche di entità complesse, come la famiglia, gruppi etnici, religiosi, linguistici, nazioni?

Altra questione è se i diritti vanno visti come limiti esterni sugli obiettivi che lo stato

persegue ovvero se si tratta di elementi interni a questi obiettivi. Ad esempio, se Nozick e

Dworkin aderiscono alla prima tesi – diritti come vincoli sugli obiettivi -, altri autori

ritengono che diritti, obiettivi e politiche siano tutti ingredienti di un medesimo puzzle

(Fallon). Altra questione è se i diritti presuppongano necessariamente doveri. Poi, occorre

chiedersi a quale fine tendono i diritti. Quando parliamo di diritti umani, intendiamo

innanzitutto il diritto ad essere trattati in un certo modo? Ovvero del diritto di raggiungere

un certo grado di benessere? Un diritto ad avere risorse necessarie per potere costruire e

realizzare un progetto di vita? Ovvero un diritto a certe opportunità e possibilità per poter

scegliere fra diversi piani di vita? Se l’eguaglianza è un ingrediente dei diritti umani, in che

senso essa va intesa? Come eguaglianza di benessere, eguaglianza di risorse, di

opportunità, o di possibilità (capabilities)20.

La discussione sui diritti deve dunque appoggiarsi ad una teoria (Bernard Williams, The

Standard of Living: Interests and Capabilities, in The Standard of Living 94, 100 (Geoffrey

Hawthorn ed., 1987). Cosa che aveva già sostenuto Bernard Williams secondo cui il

concetto di capabilities può spiegare i diritti umani.

19

Martha Nussbaum, Capabilities and Human Rights, 66 Fordham L. Rev. 273 1997-1998. 20

Amartya Sen, Equality of What?, I The Tanner Lectures on Human Values 195 (Sterling M. McMurrin ed., 1980), reprinted in Choice, Welfare and Measurement 353 (1982) [hereinafter Equality of What?] (arguing that the most relevant type of equality for political purposes is equality of capability)

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Martha Nussbaum spiega il concetto di capabilities nei seguenti termini. Dal 1993, Il

Programma di Sviluppo dell’ONU ha redatto una serie di Human Development Reports, che

descrivono la qualità della vita nelle varie nazioni del mondo utilizzando il concetto di

capabilities e cioè dell’effettiva capacità degli individui di fare ed essere in modo che

ritengono di valore.

Sotto l’influenza del filosofo economista Amartya Sen, si è usata questa griglia concettuale

per potere comparare gli obiettivi pubblici in regioni molto diverse.

La Nussbaum aggiunge che il concetto di capabilities viene mutuato da Aristotele che parla

di dunamis ed energeia (entrambi i termini denotano certe capacità umane) con riferimento

alla capacità di raggiungere scopi collettivi.

Sia Sen che Nussbaum rifiutano l’idea di misurare la qualità della vita solo in termini di

PIL e di soddisfazione di tipo materiale. Mentre il concetto di capacità umane deve essere

associato a quello dei diritti.

Nussbaum aderisce alla tradizione liberale – progressista statunitense e ritiene che al

centro del concetto di capacità vi siano i diritti classici di libertà di manifestazione del

pensiero, di religione e di associazione. Tuttavia, riconosce insieme a Sen, che a questi

diritti ne vanno affiancati altri perché le capacità umane possano esplicarsi.

Nel libro Capacità Umane (come diventare persone), Nussbaum fornisce una prima

elencazione dei diritti: la libertà di espressione e di religiose sono aspetti della generale

capacità umana di utilizzare la propria mente ed i propri sensi sotto la guida della ragion

pratica individuale. A questi va aggiunto il diritto a non subire interferenze nelle scelte di

vita personali ed importanti per lo sviluppo della propria persona. Il diritto di associazione

e di partecipazione politica. Ma anche la capacità di cercare un’occupazione fuori dalla

propria casa nonché altre importanti capacità.

L’Eguaglianza è un ingrediente essenziale nel concetto di capacità. Se ad esempio

misuriamo il prodotto interno lordo in termini di somma algebrica è irrilevante se una

fetta piuttosto piccola possiede tantissimo e gli altri quasi nulla, perché quello che conta è

la somma complessiva. Ma un’immagine di questo tipo non rende conto a sufficienza

della Qualità della vita di un paese. Si può dire che la qualità della vita nel Sudafrica pre-

apartheid potesse essere indicato dal reddito di pochi bianchi? E che dire dell’opportunità

di ricevere un’istruzione gratuita? Della sanità? Dell’aspettativa di vita? del godimento di

alcune libertà fondamentali? Dell’esistenza di discriminazioni razziali o di genere?

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Un approccio etico classico per misurare la prosperità di un paese è l’utilitarismo.

L’utilitarismo aspira ad essere una teoria morale pubblica e non soltanto un’etica privata – che ci suggerisce quale azione è meglio di un’altra per me. In quanto morale pubblica non può non riferire il concetto di utilità anche alla società nel suo complesso e non soltanto ai singoli individui. Quando un’azione è doverosa secondo l’etica utilitaristica? Se si prende a riferimento la società, occorre guardare all’azione che massimizza la felicità complessiva. Da qui il termine aggregazionismo, che implica che i desideri dei singoli vanno aggregati in qualche modo (o facendo la somma delle preferenze, o la media della preferenze) per arrivare al risultato migliore per la società. Anche del principio di aggregazione sono state date varie versioni: dall’idea di Bentham della massima felicità per il maggior numero, all’idea del miglior risultato complessivo. L’aggregazionismo sembrerebbe ammettere che in nome della felicità complessiva è ammissibile ipotizzare il sacrificio di pochi o di qualcuno. Si fa l’esempio del macchinista di treno che si vede arrivare davanti un camion. Ha davanti a sé un’alternativa tragica: non frenare e sicuramente uccidere il conducente del camion e il passeggero, ovvero frenare bruscamente, risparmiare il camionista ma falcidiare molte vite dei passeggeri del treno. Secondo il principio di utilità la azione corretta è la prima. Si deve scegliere l’azione che causa meno perdite. Ogni altra considerazione è irrilevante: ad esempio è irrilevante che il treno porti detenuti condannati all’ergastolo o gente anziana, mentre il camion contenga dei bambini. Per dirla con un utilitarista piuttosto noto, Richard Hare: “se un effetto produrrà benessere, ma lo distribuirà in modo assai ineguale, mentre un altro ne produrrà meno, ma lo distribuirà più equamente, in base all’aggregazionismo, è perciò all’utilitarismo stesso, sarà il primo effetto quello che dobbiamo scegliere”. Ne segue che una politica economica che magari faccia crescere enormemente la produttività di un paese ma che tuttavia crei enormi disuguaglianze sia comunque preferibile ad una politica economica che sia più equanime ma magari meno efficace. Vi è però un limite a questo modo di ragionare: quasi tutti gli utilitaristi temperano l’aggregazionismo col principio di eguale rispetto per gli individui, già presente in Bentham, secondo il quale “ciascuno deve contare per uno e nessuno per più di uno”: cioè gli interessi di ciascuno devono ricevere eguale considerazione. Poiché la valutazione delle conseguenze richiede che la comparazione degli interessi in gioco, nessuno individuo potrà vantare la superiorità dei propri interessi rispetto a quelli degli altri e ciò comporta l’accettazione del principio di aggregazione, che quindi funge da requisito di imparzialità. Come viene fondato il principio di utilità? Utilitarismo e metaetica Nell’utilitarismo classico il principio di utilità ha una base naturalistica. L’utilità coincide col piacere e col dolore, per cui il parametro secondo cui valutare la giustezza di un’azione è quasi di tipo fisico (Bentham). Nelle versioni più recenti la fondazione è più complessa. Ad esempio in Stuart Mill il principio di utilità riceve una fondazione scientifica attraverso il suo accordo con l’esperienza comune.

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Si noti che per Bentham vi è un’omogeneità qualitativa dei piaceri e dei dolori. Sicché non è agevole distinguere il valore del piacere e del dolore provati dagli esseri umani da quelli di altri esseri senzienti, quali gli animali. Ad esempio su questa scia Peter Singer difende i diritti degli animali sulla base di questo argomento naturalistico. Anche gli animali sono capaci di provare piacere e dolore. Per Mill invece vi è una differenza qualitativa fra gli interessi degli uomini e quelli degli animali. I primi infatti sono più complessi soprattutto per effetto della presenza dell’autocoscienza, che rendere più esacerbante il dolore. Per Mill vi è dunque una differenza qualitativa fra tipi di piacere e dolori: e vi è una superiorità assiologia dei piaceri intellettuali rispetto a quelli sensibili.

Martha Nussbaum rifiuta questo approccio per una serie di ragioni. Primo, perché

non tiene conto delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito (quello che conta

è la somma complessiva o aggregata) né del legame sociale. Secondo, perché l’idea di

avere una sola unità di misura (l’utilità – traducibile in termini di piacere o

soddisfazione immediata) non è soddisfacente. Dice Nussbaum che non si può

utilizzare un’unica unita di misura per comparare la vita delle persone. La terza

critica che Nussbaum e Sen rivolgono all’utilitarismo concerne il concetto di

soddisfazione come indicatore per esprimere la Qualità della vita. La soddisfazione,

dicono gli autori, è un concetto soggettivo – spesso condizionato da una serie di

fattori esterni. Ad esempio, la gente ricca e privilegiata può provare insoddisfazione

di fronte a piccole rinunce (Nussbaum cita Seneca che fa l’esempio del principe

triste perché ha perso la collezione di penne di pavone). Si pensi alla reazione che la

tassa sul lusso suscita (costa molto parcheggiare una barca in un porto).

Naturalmente si tratta di fastidi ma possono queste insoddisfazioni essere un’unità

di misura affidabile nel misurare la Qualità della Vita? Di contro, continua

Nussbaum, coloro che vivono in condizioni miserrime, che magari sono stati

cresciuti nella rassegnazione e nell’indifferenza nei confronti della propria

condizione, non possono pienamente riferire della propria condizioni in termini di

insoddisfazione piena. La Nussbaum fa l’esempio delle vedove bengalesi nel 1944. A

seguito di una potente carestia, moltissime donne rimasero vedove. Intervistate da

un ente governativo indiano, poche di loro riferivano di condizioni di malessere

fisico, sebbene i dati dell’ufficio della sanità fossero di tutt’altro tenore. Dice Sen:

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“Quiet acceptance of deprivation and bad fate affects the scale of dissatisfaction generated, and the

utilitarian calculus gives sanctity to that distortion”21.

In termini psicologici questo stato di cose viene definito “preferenza adattativa”:

coloro che sono stati da sempre oggetto di discriminazioni si adattano al basso

livello di soddisfazione. Incontriamo preferenze adattative specialmente in quei

gruppi che sono stati vittima di persistenti forme di discriminazione e che hanno

verosimilmente introiettato l’idea di valere meno. Questo vale a maggior ragione

quando ci troviamo di fronte a gruppi che hanno inadeguate informazioni della

propria situazione, delle loro possibilità (si pensi al caso della condizioni femminile

nei paesi in via di sviluppo). Questa è la ragione fondamentale per cui l’utilitarismo

non può offrire promettenti risposte al tentativo di definire il concetto di qualità

della vita.

Per questo Nussbaum e Sen propongono di sostituire all’approccio dell’utilità quello

delle capacità. Anziché chiedersi “quanto è soddisfatto A” ovvero di quante risorse

ha bisogno, ci si chiede “Cosa è capace di essere A?, cosa è capace di avere?”

Nussbaum stila una lista di queste capacità, precisando che non si tratta di una lista

esaustiva e che la lista va aggiustata sulla base dei dati empirici. La lista qui di sotto

illustrata è stata redatta con riferimento all’India:

1. Vita: essere in grado di condurre una vita fino alla sua fine naturale, non morire

prematuramente.

2. Salute fisica. Essere in grado di godere di buona salute, inclusa la capacità

riproduttiva; la capacità di essere nutriti a sufficienza; di avere un riparo adeguato.

3. Integrità fisica: essere in grado di muoversi liberamente da un posto all’altro; di

essere al riparo da forme di violenza fisica, inclusa la violenza sessuale; dalla violenza

domestica; avere l’opportunità di una soddisfazione sessuale e di una scelta in

materia di procreazione.

4. Sensi, immaginazione e pensiero. Essere in grado di utilizzare i sensi; essere in

grado di immaginare, di pensare, di argomentare; di fare le cose in modo

“autenticamente umano”, in un modo che sia propiziato da un’educazione adeguata

che non sia limitata all’educazione letteraria e scientifica. Essere in grado di utilizzare

21

Amartya Sen, Rights and Capabilities, in Morality and Objectivity: A Trib-ute to J.L. Mackie 130 (T. Honderich ed., 1985), reprinted in Amartya Sen, Resources, Values and Development 307-24 (1984).

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l’immaginazione attraverso opere artistiche, religiose, letterarie, musicali, etc.. Essere

in grado di utilizzare la propria mente in modo garantiti dalla libertà di espressione e

di religione.

5. Emozioni. Essere in grado di provare attaccamento nei confronti di persone

altre da noi; di amare; di addolorarci per l’assenza di persone amate; di provare

gratitudine ma anche rabbia. Essere in grado avere uno sviluppo emotivo che non

sia impedito da paura ed ansia. Sostenere queste capacità significa sostenere quelle

relazioni che ne consentano lo sviluppo (innanzitutto le relazioni genitori figli).

6. Ragion Pratica. Essere in grado di avere una propria visione del bene, di avere

spirito critico e nel decidere quale piano di vita seguire. È necessaria la libertà di

coscienza ma anche di culto.

7. Associazione.

a) Amicizia. Essere in grado di vivere con e per gli altri; riconoscere e

dimostrare interesse e cura per altri esseri umani; essere capaci di partecipare a

forme di associazione e cooperazione umana. (libertà di associazione e

partecipazione politica)

b) Rispetto. Possedere le basi per il rispetto di sé; non essere sottoposto ad

umiliazioni; essere trattato come una persona degna di pari rispetto. Ne segue un

obbligo di non discriminazione per ragioni di sesso, razza, appartenenza etnica,

casta, religione, origini nazionali.

8. Altre specie. Essere in grado di provare affezione e rispetto per animali, piante, e

il mondo della natura.

9. Gioco. Essere in grado di ridere, giocare, e divertirsi in attività ludiche.

10. Avere controllo sull’ambiente circostante.

a) Da un punto di vista politico. Essere in grado di partecipare in scelte politiche

che riguardano la propria vita; avere il diritto di partecipazione politica; tutela della

libertà di espressione e di associazione.

b) Da un punto di vista materiale. Essere in grado di tenere proprietà (sia mobili

che immobili); avere il diritto a trovare occupazione; avere il diritto di non essere

sottoposti a perquisizioni e sequestri arbitrari.

Differenza fra capacità e concrete realizzazioni.: Nussbaum spiega poi che le

capacità non vanno confuse con la piena realizzazione di queste capacità. Sebbene

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una politica pubblica deve poter garantire la piena realizzazione di queste capacità,

devono essere i soggetti a rimanere liberi di scegliere se darvi seguito o meno. Il

tema è quello delle capacità e non della realizzazione personale. Si faccia l’esempio di

chi compie una scelta mistica e ritiene che il digiuno sia parte essenziale della propria

crescita interiore. L’idea di avere diritto a nutrizione sufficiente non significa il

divieto di condurre la vita diversamente. Ma una cosa è il digiuno di chi può

mangiare ed altra è il digiuno di chi muore di fame. Stessa cosa per altre scelte di

vita: la castità ad esempio. Si può scegliere la castità, ma questo non significa che

non vada garantita la possibilità di scelta (come nel caso delle mutilazione genitali

femminili che sostanzialmente precludono alle donne il piacere sessuale).

Il gioco ed il tempo libero sono beni essenziali. Questo però non preclude che io

possa scegliere di essere un maniaco del lavoro e rinunciare a qualsiasi svago.

Insomma, quello che conta è la possibilità (libertà) di sviluppare le proprie capacità, e non

la loro effettiva realizzazione.

Come si passa dalle capacità ai diritti:

Nussbaum spiega che i diritti sono pretese rilevanti (urgent) che un individuo avanza

per il semplice fatto di essere umano (e dunque indipendentemente dalla propria

posizione sociale, o economica), indipendentemente da come va il mondo intorno a

lui: cosa che implica un dovere del governo, ma della società nel suo complesso di

attivarsi perché tali capacità possano essere esplicate. Se io sono donna e

formalmente sia la costituzione che le leggi mi autorizzano a trovare un lavoro, ma

se lo faccio rischio fortemente di essere molestata dal mio capoufficio o percossa da

mio marito, allora il mio diritto traballa. Il concetto di capacità rende riempie il

concetto di diritto umano.

Nussbaum spiega che appoggiare il concetto di capacità al linguaggio dei diritti è una

potente arma retorica: un conto è dire che ogni essere umano ha certe potenzialità e

sarebbe giusto che avesse la possibilità di esplicarle, altro è dire che gli esseri umani

hanno diritto a che le proprie capacità fondamentali siano realizzate. Il linguaggio

dei diritti poi pone enfasi sulla autonomia: (ho diritto a che non mi sia preclusa

la possibilità di una vita sessuale, e dunque le mutilazioni genitali sono una

violazione dei miei diritti, anche se preferisco la castità).

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I diritti umani sono obiettivi pubblici o limiti esterni all’azione di governo?

Sen sostiene che i diritti umani sono obiettivi che le politiche pubbliche

devono perseguire e rifiuta la tesi secondo cui i diritti sono vincoli esterni

che l’azione pubblica non può travalicare. Esempio di questa seconda

impostazione – che noi abbiamo qualificato come erede della tradizione dei

diritti naturali - è Robert Nozick (Anarchia, Stato ed Utopia) il quale ritiene

che i diritti detenuti dagli individui sono così solidi e di una tale portata

(diritti di libertà e proprietà) che lo Stato serve solo nella misura in cui vi

accordi protezione. Anzi sorge la questione di cosa rimanga da fare allo

Stato, ammesso che qualcosa rimanga. Solo uno Stato Minimo è legittimo:

e cioè solo lo Stato che protegga gli individui dalla sopraffazione, dal furto e

dalla frode. La giustizia distributiva dipende da due requisiti: Che

l’acquisizione iniziale della ricchezza sia compiuta in modo giusto; Che il

trasferimento da un soggetto ad un altro avvenga secondo giustizia. Lo

stato non può ridistribuire ricchezza ad esempio attraverso la pressione

fiscale (la tassa è una forma di schiavitù per Nozick, in quanto mi impone

di lavorare gratis): sicché il prelievo fiscale è legittimo solo nella misura in

cui il gettito venga utilizzato per proteggere i diritti naturali pre-statali. In

questa concezione, i diritti sono chiaramente limiti esterni all’azione

governativa. Segnano il confine di ciò che lo stato non può e non deve fare.

Sen rifiuta questa concezione e asserisce, in linea all’idea delle capacità, che

poiché i diritti si radicano sulle capacità, essi consistono negli obiettivi che

le politiche devono perseguire e non nei vincoli che non si possono

travalicare (l’idea che i diritti sono obiettivi e non vincoli esterni è piuttosto

diffusa, cfr. anche Fallon22).

Sulla stessa scia si pongono Cass Sunstein e James Nickel. Nickel nega la

tesi secondo cui i diritti umani impongano dei doveri negativi, di non

facere, piuttosto che di facere. Nickel nega questa caratteristica anche con

riferimento alle libertà negative. Anche i diritti all’integrità fisica o contro la

tortura presuppongono dei doveri di facere da parte degli stati (emanare

22

Richard Fallon, Individual Rights and the Powers of the Government, 27 Ga. L. Rev. 343 1992-1993.

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leggi che facciano divieto di violenza o tortura e predisporre dei tribunali

che implementino questi doveri). Sunstein sostiene qualcosa del genere.

Nussbaum si dissocia parzialmente da questo modo di ragionare. La

filosofa spiega che l’idea dei diritti come side constraints e cioè come vincoli

sull’azione governativa, rende l’idea dell’urgenza dei diritti umani che

vanno tutelati e realizzati anche quando nell’interesse generale sarebbe

meglio procedere diversamente. Si pensi alla reazione degli stati occidentali

di fronte alla minaccia del terrorismo. Negli Stati Uniti si è riacceso un

dibattito sulla legittimità perfino della tortura nei casi limite (ad esempio,

necessità di scongiurare il rischio di una bomba). La Nussbaum invece dice

che la nozione di diritti umani sta a segnalare che ci sono pretese così

urgenti e importanti che vanno ritenute legittime e tutelate pur quando

sarebbe nell’interesse generale agire diversamente. Qualcosa di simile

sostiene Ronald Dworkin, secondo cui i diritti umani sono trumps: carte

vincenti, che prevalgono sulle politiche ordinarie.

Dall’Enciclopedia Treccani La Nussbaum, sotto ogni aspetto, si colloca qui nel filone del pensiero liberal, del progressismo come visione del mondo, e questa sua posizione l’ha obbligata a sostenere nell’ambiente accademico e mediatico statunitense lunghe e aspre polemiche. La filosofa di New York impegna le sue energie intellettuali per combattere fondamentalmente tre battaglie: una, quella forse più ovvia per un pensatore progressista, ma niente affatto scontata nella presente congiuntura storica, per difendere i diritti conquistati nel Novecento ed espanderli a livello globale; la seconda, che appare ai nostri occhi europei come frutto tipico della cultura giuridica americana, è l’esplorazione di quali sentimenti e stati d’animo siano legalmente valutabili all’interno delle aule di tribunale; la terza, infine, è attenta a identificare e legittimare i “nuovi diritti”, i diritti del Terzo Millennio. La fragilità del bene del 1986 costituisce in un certo senso l’antefatto della ricerca etica della Nussbaum, che qui affronta la questione del rapporto tra etica e fortuna nella tragedia greca, per allargare poi la ricerca a un motivo importante per la sua successiva riflessione: il ruolo cognitivo delle emozioni. Platone e Aristotele diventano i due opposti in questa dialettica della fragilità della vita buona: il primo la nega, in quanto compito del filosofo è negare la propria natura per conformarsi all’Idea, il buono e il giusto in sé; il secondo, invece, la afferma, in quanto la ragione può sublimare sì le sciagure, ma l’uomo – per citare Schopenhauer – non è affatto “alata testa d’angelo” ed è immerso nella fortuna dalla doppia valenza. Con questa umanità l’etica deve fare i conti e, quindi, l’azione perfetta non è difficile, è impossibile: il “giusto mezzo” è il meglio che si può fare, il Bene di Platone è un’altra cosa, richiederebbe la soppressione dell’umanità.

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Nuovi diritti La Nussbaum tra Platone e Aristotele, come la Arendt, sceglie il secondo. Nei due testi, tra loro collegati, Coltivare l’umanità (1997) e Nascondere l’umanità (2004) troviamo, da un lato, la necessità di definire l’essere umano, e quindi i suoi diritti, prescindendo da ogni cittadinanza e appartenenza di classe, di genere e razza, verso un modello di cosmopolitismo culturale in antitesi con i recenti arroccamenti occidentali fondati sulla “difesa delle tradizioni”; dall’altro, utilizzando il valore cognitivo delle emozioni, l’esigenza di scoprire quali e quando queste siano usate contro l’umanità anziché come risposte positive per istituire nuove sfere di diritto. Disgusto e vergogna, le due emozioni poste al centro di Nascondere l’umanità, possiedono un valore etico profondamente diverso a seconda che siano usate – come nella mentalità conservatrice tradizionale – per isolare e confinare in condizione di inferiorità dei soggetti oppure – come nella mentalità progressista – per riconoscere l’ingiustizia e affermare la dignità negata a soggetti cui il primo approccio destinava la condanna sociale e giuridica. L’approccio conservatore che la Nussbaum critica è quello, per esempio, che cerca di suscitare paura e repulsione per il diverso, lo straniero, facendo appello alle viscere dell’egoismo; al contrario, la capacità di suscitare sentimenti di empatia e solidarietà per i discriminati, gli esuli, i poveri caratterizza una più ampia e comprensiva concezione dell’identità umana. La filosofa intende soprattutto costruire un futuro dei diritti: quelli delle donne (in Diventare persone del 2000), quelli delle scelte libere e consenzienti in materia sessuale, e quelli dei paesi poveri schiacciati dall’oppressione dei modelli economici fondati sulla dittatura del PIL (è il tema di Creare capacità del 2011), senza escludere (partendo dalle premesse della dottrina dell’anima tripartita di Aristotele e da quelle del moderno pensiero ambientalista) anche la possibilità di considerare anche gli animali detentori di diritti di base. Per favorire una mentalità aperta, in grado di oltrepassare i limiti angusti dei tecnicismi economici e gli egoismi privi di lungimiranza, occorre per la Nussbaum difendere e propugnare la cultura umanistica: Non per profitto (2010) è l’appassionata orazione a favore dell’importanza degli studi umanistici, il cui valore non è solamente estetico bensì consiste proprio nella capacità che essi hanno di costruire cittadini più “utili” alla comunità, più consapevoli, più elastici, più sensibili nei confronti del prossimo e, in definitiva, più resistenti ai condizionamenti del potere o del mercato: senza vera cultura, non c’è vera democrazia.

7) Teorie Politiche: John Rawls

Le teorie politiche si preoccupano innanzitutto di distinguere i diritti umani

dagli altri diritti morali. Esse rifiutano l’idea che i diritti umani trovino fondamento

in una teoria morale comprensiva e piuttosto sostengono che i diritti umani sono

quelle norme condivise a cui si perviene con l’uso della ragione pubblica. I diritti

umani vengono identificati come quei diritti che identificano gli standard di

legittimità delle istituzioni politiche (degli stati) (Rawls, Williams) come standard che

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vengono utilizzati innanzitutto per misurare la condotta dei funzionari pubblici

all’interno di uno schema coercitivo (Pogge).

Rientrano in questa categoria, Beitz, Dworkin, Raz, Skorupski, Pogge.

L’esempio più chiaro di teoria politica dei diritti umani è quello di John

Ralws:

John Rawls comincia con il definire le condizioni necessarie per costruire

istituzioni giuste. Ecco il suo modo di procedere. Si chiede: in che modo si può

arrivare a stabilire condizioni giuste per la società? Siccome Rawls rifiuta l’idea che

vi siano principi sostanziali già noti in partenza (evidenti, iscritti nei cuori,

intellegibili, etc..) Rawls spiega che si devono scegliere procedure adeguate per

arrivare a stabilire alcuni criteri di giustizia.

Il contratto originario: Rawls immagina che tutti i membri di una

comunità politica si riuniscano per stabilire le condizioni migliori per

avere istituzioni giuste (ad esempio una costituzione adeguata).

Come si fa ad arrivare ad una scelta equa? Noi sappiamo che spesso

le parti hanno interessi diversi. Pensiamo a quello che succede per la

legge elettorale. In teoria dovrebbe essere la procedura che assicuri li

risultati più equi e più efficienti, ma noi sappiamo che le parti

politiche non sono insensibili alle modifiche se ad esempio possono

perderci da una nuova legge elettorale. Allora si devono trovare

condizioni di partenza eque che consentano di arrivare ad un

risultato.

Il velo di ignoranza. Rawls fa un esperimento mentale. Ipotizziamo

che i contraenti originari, quelli che devono fissare le condizioni di

giustizia delle nuove istituzioni giuridiche non sanno che posto

occuperanno nella società. Io no so se sarò democratico o

repubblicano, se sarò ricco o se sarò povero, se sarò uomo o se sarò

donna. Sono coperto, dice Rawls, da un velo di ignoranza. Ora, se

si muove da questa situazione si arriverà a disegnare procedure eque

_ che cioè non avvantaggiano qualcuno rispetto a qualcun altro.

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Quali istituzioni? A questo punto Rawls dice che individui coperti

da un velo di ignoranza arriverebbero alle seguenti conclusioni.

Disegnerebbero istituzioni in base alle quali:

o Ogni persona ha lo stesso titolo indefettibile ad uno schema

pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un

identico schema di libertà per tutti gli altri;

o Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due

condizioni:

primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a

tutti in condizioni di equa eguaglianza delle opportunità;

secondo devono dare il massimo beneficio ai membri meno

avvantaggiati della società (principio della differenza).

In altri termini: tutti devono poter godere della massima libertà possibile

compatibile con la libertà altrui: da qui, tutta una serie di diritti: non solo di libertà

di espressione, di religione, ma anche la protezione da sequestri e perquisizioni

arbitrarie, la limitazione dell’arresto a casi eccezionali; libertà di movimento e

circolazione; libertà di associazione; libertà politica, etc…

Questi diritti devono essere uguali per tutti, indipendente dalla razza,

religione, appartenenza etnica, sesso. Infatti nessun contraente sa in anticipo se

sarà uomo o donna, ebreo o cristiano, italiano o vietnamita.

Rawls poi si chiede: i contraenti originari vorrebbero uno stato di assoluta

eguaglianza o sarebbero disposti a “rischiare” e dunque a tollerare qualche

differenza? Rawls propende per la seconda riposta: i contraenti tollererebbero

differenze e tuttavia questa considerazione va specificata. Perché Rawls richiede

l’esistenza di due ulteriori condizioni:

Le diseguaglianze possono essere tollerate solo a patto che: (a) tutti abbiano

in linea di massima la possibilità di raggiungerle; (b) una politica che introduca

maggiori diseguaglianze comunque migliori le condizioni di chi sta peggio.

Ecco qualche esempio. Riguardo alla prima condizione: Rawls sostiene che è

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accettabile consentire qualche differenza, ad esempio, in relazione al merito (chi

lavora di più o è più abile guadagna di più), purché tutti abbiano le stesse

opportunità. L’istruzione gratuita va garantita e magari anche le azioni affermative

possono trovare giustificazione. Infatti dice Rawls:

“A nessuno dovrebbero essere garantiti dei benefici sociali sulla base di

proprietà vantaggiose immeritate (perché nessuno è responsabile del possesso di

tali proprietà) e a nessuno dovrebbero essere negati benefici sociali sulla base di

proprietà svantaggiose immeritate (perché anch’essi non sono responsabili di

queste proprietà)” .

I diritti per Rawls sono le condizioni di legittimità di un’istituzione politica. Sono

quelle condizioni che contraenti originari coperti da un velo di ignoranza fissano.

Questo però vale per i diritti costituzionali: quelli cioè interni ad un sistema politico

ed ad un sistema statale in particolare.

Dai diritti costituzionali ai diritti umani:

Che dire dei diritti umani? Ralws ha un’idea più circoscritta dei diritti umani. Essi

non sono tutti i diritti costituzionali, ma hanno innanzitutto una dimensione

internazionale. I diritti umani non fissano le condizioni di legittimità di istituzioni

politiche dall’interno ma sono quei diritti che vanno rispettati perché la sovranità di

uno stato possa rivendicare la non interferenza da parte della comunità politica

internazionale. I diritti umani sono quei diritti al ricorrere della cui violazione,

lo stato deve cedere sovranità: e cioè, la comunità internazionale può

intervenire con sanzioni di vario tipo (embargo, etc..) o addirittura attivare un

intervento militare.

Alcune implicazioni:

I diritti umani sono norme internazionali: non ha senso parlare di diritti umani con

riferimento ad un ordine costituzionale;

I diritti umani molto meno numerosi dei diritti costituzionali. Essi si limitano ad

alcuni valori e libertà fondamentali (la vita, la libertà di credo e di circolazione) ma

non includono altri diritti costituzionali come ad esempio, il diritto all’istruzione, ad

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un’equa retribuzione, etc…

La ragione pubblica internazionale è dunque meno ambiziosa di quella interna a

ciascuno stato.

In sintesi, per John Rawls i diritti umani sono quei diritti alla cui violazione è legittimo

l’uso della violenza contro lo stato trasgressore.

Michael Ignatieff, Per una ragionevole apologia dei diritti umani

I diritti umani non sono altro che una forma di politica, che deve condurre

i fini morali alle situazioni concrete e deve essere pronta a sottoscrivere

compromessi spiacevoli non solo tra fini e mezzi ma anche tra un fine e l’altro.

I diritti umani vengono garantiti da società stabili (e dunque contrarie allo

smembramento di entità politiche in ossequio a tendenze secessioniste) ovvero da

democrazie.

La diplomazia internazionale è impreparata ad affrontate la questione delle

pretese secessionistiche: impreparata sia da un punto di vista dei principi che da un

punto di vista strettamente politico.

Il caso della Turchia è significativo. Sebbene la repressione della minoranza

curda sia deprecata dal mondo intero gli stati occidentali non si esimono dal blandire

il governo turco ed offrire ad esso armi.

La politica dell’occidente nell’Indonesia è stata abbastanza significativa. Fino

agli anni 1990 flussi di denaro immenso e di armi scorrevano dagli stati uniti al

regime di Suahrto, considerato l’unico baluardo asiatico contro la minaccia sovietica.

Poi però dopo il crollo dei regimi comunisti, e la capitolazione di Suahrto la politica

occidentale si è trovata totalmente impreparata. Solo dal 1998 la questione del

Timor Est è venuta alla ribalta. Sebbene il consiglio di sicurezza dell’ONU avesse

mandato ispettori per monitorare sulla correttezza della procedure referendaria in

Timor Est, nulla hanno fatto le organizzazioni internazionali per evitare il massacro

dei civili da parte delle milizie filo-indonesiane.

La politica occidentale dei diritti umani promuove

l’autodeterminazione delle autonomie ma nello stesso tempo mette davvero

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in pericolo la stabilità, che è il requisito essenziale del rispetto dei diritti

umani.

Le pretese secessioniste non sono sempre vantaggiose per i diritti umani. E

diritti umani e democrazia non avanzano sempre di pari passo.

Per tutelare i diritti umani la politica occidentale dovrà promuovere non

tanto la democrazia quanto il costituzionalismo, la difesa dell’equilibrio dei poteri, il

controllo giudiziario sulle decisioni dell’esecutivo e la tutela effettiva e garantita dei

diritti delle minoranze (Zakaria, The rise of illiberal democracy).

Ad esempio il caso dello SRI LANKA: dal 1983 il governo dominato

dall’etnia cingalese (filo-indiana) opprime la minoranza TAMIL (negando l’accesso

alle cariche pubbliche, et.c..). ma attribuire l’indipendenza dei tamil significherebbe

consegnare la regione ad un governo tirannico monocratico, e significherebbe altresì

premiare il terrorismo tamil che ha versato molto sangue.

Negli stati poverissimi lo stato è l’unica fonte di prestigio sociale ma anche di

sopravvivenza. In uno stato come il RWANDA la guerra per il controllo del

governo è anche una guerra di sopravvivenza. Sicchè una strategia politica globale

non si può limitare ad un costituzionalismo di facciata che attribuisca dei diritti alle

minoranza, ma deve anche attivare un politica economica che bilanci tali scompensi.

Nei regimi totalitari la principale minaccia ai diritti umani era data dallo stato:

sicchè l’erosione della sovranità statale significa una corrispondente aumento della

tutela dei diritti umani. Ma adesso occorre prendere atto che minacce egualmente

significative ai diritti umani vengono anche dalla guerra civile e dall’anarchia. Si può

dire che i diritti umani vengono protetti meglio dalle loro istituzioni statali che da

interventi esterni.

L’esempio dello stato fittizio Kazanistan di Rawls è significativo: è uno stato

che garantisce accesso politico solo ai cittadini di una certa fede, ma lascia liberi gli

altri cittadini di esercitare in privato il proprio credo. La società vive in pace.

Non c’è nulla che giustifichi in questi casi un intervento umanitario.

DIRITTI UMANI ED INTERVENTO UMANITARIO

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Dalla fine degli anni 1990 tre criteri (non si può intervenire dappertutto):

1) gli abusi devono essere gravi, sistematici e dilaganti;

2) devono costituire un rischio per la pace internazionale e per la

sicurezza della regione circostante;

3) l’intervento militare deve avere una reale probabilità di mettere fine

agli abusi.

Nella pratica entra in gioco un quarto interesse: la regione interessata deve

essere di vitale interesse per una delle potenze del pianeta e non deve esserci

l’opposizione di altre potenze.

FONDAZIONE DEI DIRITTI UMANI?

I. propone di rinunciare a qualsiasi pretesa fondativa e concentrarsi su ciò

che i diritti umani fanno.

La storia insegna che gli essere umani sono a rischio della propria vita se

sono privi di un minimo di capacità di azione e che questa capacità di azione

necessita di protezione mediante norme condivise internazionalmente; che queste

norme devo autorizzare individui e gruppi a resistere a leggi ingiuste del proprio

stato, e che quando tutti gli altri rimedi sono esauriti hanno diritto ad appellarsi

all’aiuto di altri stati, popoli o organizzazioni internazionali.

I diritti umani riguardano ciò che è giusto ma non ciò che è bene. I diritti

umani devono essere compatibili col pluralismo morale.

Ignatieff propone una definizione minima dei diritti umani, a partire dalla

richiesta della vittima. Le argomentazioni delle vittime devono essere soppesate con

quelle degli oppressori, ma alle prime deve essere dato maggior valore.

La richiesta non deve riguardare un semplice inconveniente, ma deve essere

qualcosa di più: deve riguardare un esercizio essenziale della capacità di azione

umana. La vittima ha luogo di provare che la violazione ha avuto luogo.

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I diritti umani sono importanti perché aiutano la gente ad aiutarsi. Con

capacità di azione I. intende quello che Isaiah Berlin chiama libertà negativa: la

libertà di perseguire un progetto razionale di vita senza intralci da parte degli altri.

Con razionali si intende non necessariamente morali o degni di stima ma progetti

che non comportano un danno patente per gli altri. Il discorso sui diritti umani

conferisce agli uomini il potere (empowererent) di scegliere. Solo con tale potere essi

possono proteggere essi stessi dall’ingiustizia. Ugualmente quando gli individui

hanno capacità di azione essi possono decidere per che cosa vogliono vivere o

morire.

Le tre sfide ad una concezione universalistica dei diritti umani

1. ISLAM

Già dal 1947 la delegazione dell’Arabia Saudita si dissociò dalla bozza di

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo contestandone due punti: la libertà di

scelta matrimoniale; la libertà religiosa.

Gli argomenti furono due: la difesa di una società patriarcale, e la difesa del

corano.

La vera sfida cominciò tuttavia con la rivoluzione teocratica in Iran: che

esplicitamente ripudiò il principio di separazione fra stato e chiesa, il principio di

eguaglianza fra uomo e donna, il principio di libertà di contrarre matrimonio.

Le voci meno fondamentaliste all’interno dell’Islam sono date dall’Egitto e

dalla Tunisia. Mentre l’elite laica algerina non è riuscita nel processo di

secolarizzazione della società.

Una parte del pensiero occidentale (Adamantia Pollis e Peter Schwab)

asserisce che i diritti umani sono un costrutto occidentale (fondato sul liberalismo)

non esportabile ad altre culture (misto di critica marxista, critica antropologica al

modello borghese, critica postmoderna).

2. VALORI ASIATICI

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Singapore: Lee Kuan Yew: senza dubbio una società con valori comunitari,

nella quale gli interessi della società prevalgono su quelli degli individui, si addice agli

asiatici molto più dell’individualismo americano”. L’alto tasso di divorzi e di

criminalità dell’occidente, assente negli stati autoritari d’oriente, sarebbe una riprova

del fatto che il modello autoritario è quello vincente.

La Dichiarazione Universale recepì molti suggerimenti della tradizione cinese,

induista, marxista. Non si cita dio, sicchè è laica.

Fu redatta alla fine della guerra quando si aveva consapevolezza che la

decolonizzazione era imminente.

Non c’è trionfalismo: semmai il contrario. Essa fu redatta come monito al

resto del mondo a non dimenticare la barbarie prodotta dal nazismo.

Il richiamo al valore della dignità individuale è molto di più che un semplice

richiamo ai valori del capitalismo borghese. Il testo è memore delle catastrofi

prodotte dal collettivismo totalitario. Vi è al contrario un’eco della tradizione del

diritto naturale occidentale che giustifica l’opposizione ad un governo ingiusto.

Sicchè essa contiene un limite allo stato nazione.

L’articolo 29 della dichiarazione col suo richiamo ai doveri di solidarietà

sociale sembra pagare un tributo alle tradizioni comunitariste non occidentale (e

occidentali, cfr. Sandel). Ma in realtà ciò si fonda su un equivoco.

I diritti sono significativi solo se conferiscono autorizzazioni e

immunità agli individui. Solo se possono essere fatti valere contro le

istituzioni, lo stato, la famiglia, la comunità, la chiesa.

Ritenere che i trattati sui diritti umani contengano tutti i valori mondiali

significare travisare la vera funzione dei diritti umani: RISOLVERE CONFLITTI.

Il linguaggio dei diritti è privo di senso al di fuori dell’individualismo

morale.

I diritti sono universali solo perché definiscono gli interessi universali

di chi è deprivato di potere e cioè garantiscono che il potere possa essere

Page 58: Le origini del totalitarismo Hannah Arendt - unikore.it · Le origini del totalitarismo ... La filosofia borghese non predica i valori della libertà e dell’autonomia, ma solo quelli

esercitato solo su di essi in modi che rispettino la loro autonomia come

agenti.

Non si può pretendere che l’universalità consista nell’accordo fra parti

asimmetriche: tra coloro che sono privi di potere e coloro che invece il potere ce

l’hanno.

I diritti dei gruppi non possono essere intesi fino a negare agli individui che

tali gruppi compongono ad uscirne.

La crisi che la retorica dei diritti umani sia nient’altro che l’altra faccia della

globalizzazione, che essa sia asservita agli interessi dell’economia capitalistica globale

non coglie nel segno. Essa fa coincidere internazionalismo e globalizzazione. Ma gli

attivisti delle ong che si battono contro Nike e Shell sarebbero esterrefatti nell’essere

esposti a questa equazione e nello scoprire che stanno facendo gli interessi dei

gruppi che combattono.

Se i diritti umani non si fondassero sull’autonomia morale individuale, sulla

libertà negativa di I. Berlin, non si comprenderebbe il richiamo che essi hanno

esercitato su milioni di individui: sulle donne di Kabul che quando rivendicano la

protezione dei loro diritti non vogliono necessariamente abdicare al proprio stile di

madri musulmane ma vogliono opporsi alle percosse, alla pratica di essere bruciate

vive perché si sono opposte ai propri mariti, all’essere deprivate di assistenza

sanitaria in assenza di medici donne.

Esse non chiedono di vestirsi come le occidentali, di parlare come le

occidentali o di adottare un sistema di vita occidentale.

Sicché la critica anti-occidentale (ed interna all’occidente) dei diritti umani

non coglie nel segno.

Si deve tenere a mente che sono le vittime locali (le afgane, le pakistane, etc..)

che muovono queste rivendicazioni e non le agenzie internazionali.