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GRATUITO Anno XIII Numero 82 Maggio 2016 Ogni mese un mondo di cultura in Puglia

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In distribuzione in Puglia e in altre città italiane il nuovo numero di Coolclub.it, mensile di musica, libri, cinema, teatro, arte, eventi. Giuliano Sangiorgi è il protagonista dell'intervista di apertura a cura di Osvaldo Piliego. Ai Negramaro è infatti dedicata la foto di copertina realizzata da Daniele Coricciati.

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GRATUITOAnno XIII

Numero 82Maggio 2016

Ogni mese un mondo di cultura in Puglia

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Piazza Giorgio Baglivi 1073100 LecceTelefono: 0832303707Cell: 3394313397e-mail: [email protected]: www.coolclub.itfb: Coolclub.it - tw: Coolclublecce

Anno XIII Numero 82 - Maggio 2016Iscritto al registro dellastampa del tribunale di Lecceil 15.01.2004 al n.844

Collettivo redazionalePierpaolo Lala (Direttore responsabile), Osvaldo Piliego, Dario Goffredo, Chiara Melendugno, Antonietta Rosato, Toni Nisi, Cesare Liaci

Molla - Chop Chop Band - I Misteri del Sonno - Gabriele Panico (Larssen) - Mirko Signorile - Keep Cool - BlogFoolk (Digressione Music - Os Argonautas)

MUSICA - 12/29

Giuliano Sangiorgi - Negramaro

INTERVISTA - 6/11La cultura non basta mai

EDITORIALE - 5

Flavia Piccinni - Ennio Ciotta - Donpasta Gianrico Carofiglio - Coolibrì

LIBRI - 30/39

Maristella Martella - Io ci Provo

CINEMA/TEATRO - 40/43

Luigi Presicce - Simone FrancoAntonio Massari

ARTE - 44/49

Food Sound System - VaffancoolBrodo di frutta - Affreschi&Rinfreschi Stanza 105 - I Quaderni del senno di poi

BLOG - 50/55

Marta sui tubi - Angela De GaetanoInude - La Municipàl - BReal - Lezioni di rock - Simone Cerio - RainbowMay

EVENTI - 56/63

SOMMARIO

Hanno collaborato a questo numeroRed Vibes, Francesca Santoro, la redazione di BlogFoolk (Salvatore Esposi-to, Ciro de Rosa), Rossano Astremo, Jenne Marasco, Luciano Pagano, Giuseppe Amedeo Arnesano, Lorenzo Madaro, Donpasta, Daniele De Luca, Adelmo Monachese, Mauro Marino, Mino Pica, Francesco Cuna

In copertina Negramaro - foto Daniele Coricciati (Mantova, novembre 2015)

Progetto grafica e impaginazione Mr. Scipione

StampaColazzo Srl - Corigliano d’Otranto (Le)www.colazzo.it

Chiuso in redazione all’alba di un giorno qualunque di una primavera autunnale

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In Italia, da qualche anno, la festa dei lavora-tori ha due piazze. Quella storica dei sindaca-ti di San Giovanni in Laterano a Roma e quella di Taranto dove un comitato spontaneo di cit-tadini “liberi e pensanti” ha lanciato questa iniziativa. Sui due palchi si è esibito il meglio della musica italiana, con qualche incursione internazionale. Alcune cose un po’ datate, per la verità, ma che sono sempre utili per movimentare e far ballare. La cultura e la musica in particolare sono sempre state vei-colo di protesta e spesso anche di proposta. Certo qualcuno ne approfitta. Ne approfitta-no alcuni artisti che si lavano la coscienza an-dando in piazza per poi dimenticare il valore etico del proprio lavoro. E ne approfittano i politici che si ricordano della forza della cul-tura solo in campagna elettorale. Ne appro-fittano anche gli spettatori che rivendicano un ruolo “sociale” solo in rare occasioni. Al-zano i pugni per un giorno. E poi si rimettono le mani in tasca. Negli ultimi anni la Puglia ha vissuto un grande rilancio nel comparto della creatività. Lo abbiamo già scritto e sottoline-ato nei numeri precedenti. Al momento però siamo in mezzo al guado. La nuova ammini-strazione regionale ancora non ha tracciato chiaramente la linea da seguire.

Esperienze positive, seppur con le consue-te e inevitabili luci e ombre, come Puglia Sounds, Apulia Film Commission, Puglia Promozione, Teatro Pubblico Pugliese, Bol-lenti Spiriti sono state ridimensionate o rifi-nanziate per un breve periodo. Almeno per ora. I segnali positivi stanno arrivando, per fortuna. Da operatori - Coolclub fa anche parte del Distretto Puglia Creativa - speria-mo sempre che si possa migliorare. Ce lo auguriamo. Passando al nuovo numero del giornale ab-biamo deciso di mettere in copertina (un-dici anni dopo la prima volta) i Negramaro. Giuliano Sangiorgi in una lunga intervista a cura di Osvaldo Piliego con alcune foto di Daniele Coricciati (che firma anche la prima pagina) ripercorre i quindici anni di storia della band e ci parla del nuovo cd “La rivo-luzione sta arrivando” e del tour che parte da Taranto. E chiudiamo il cerchio. Il primo maggio, nella città martoriata dall’Ilva, mi-gliaia di persone hanno chiesto alla politica di non dover scegliere tra salute e lavoro. Noi chiediamo anche di ripartire dalla cultu-ra. La nostra più grande industria. Perché la cultura davvero non basta mai. Buona let-tura!

EDITORIALE

LA CULTURA NON BASTA MAI

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Sono passati circa 15 anni. Quella dei Negra-maro è una storia lunga. Una storia che vale la pena raccontare, una storia di amicizia, di talento e di lavoro. Come in un romanzo di formazione i protagonisti sono dei ragazzi pieni di sogni che partono dalla provincia salentina e arrivano in cima alle classifiche. Una fiaba moderna, direbbero in molti, nien-te a che vedere con gli inconsistenti successi costruiti dai talent show con questa assurda inversione di marcia delle carriere musica-li. Quella dei Negramaro è la costruzione di un’identità musicale solida che ha radici nell’underground di un territorio dal qua-

GIULIANO SANGIORGII Negramaro dalle cantine del Salento al palco di San Siro. Quindici anni di parole, musica e amicizia. Una “rivoluzione” che riparte in tour da Taranto

a cura di OSVALDO PILIEGOfoto DANIELE CORICCIATI

INTERVISTA

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le emerge senza mai dimenticarsene. Una della poche band in Italia che ha conservato un carattere musicale, che non ha mai cam-biato formazione, che si è sempre proposta come un gruppo unito, un collettivo. Una “famiglia allargata” che va oltre la musica e si compone di una squadra che si occupa di tutto quello che ruota intorno a un pro-getto. Amici di Coolclub da sempre, sono per la seconda volta in copertina, la prima fu nel 2005 in occasione della loro parteci-pazione al festival di Sanremo. Oggi tornano con il nuovo album “La rivoluzione sta arri-vando” (Sugar Music) e un tour che passa dalla Puglia (Taranto - 5 e 6 maggio). Abbia-mo colto l’occasione per scambiare qualche “parola in libertà” con Giuliano Sangiorgi. Bello ritrovarsi dopo tanti anni, ognuno a inseguire il proprio sogno. Avete fatto tan-tissima strada, ma sembra in qualche modo che le origini e il ritorno siano un elemento importante per voi, un punto da non perde-re mai di vista. La casa, la famiglia, l’amicizia, sono legami indissolubili. È questo il vostro elisir di lunga vita?Non si può vivere veramente se non si è sal-damente incollati alla terra attraverso radici robustissime. Senza di quelle non arrivereb-be l’aria alla testa, la vita alle mani, il futuro agli occhi. Saremmo incompleti. Non avrem-mo tutte le categorie a posto per poter com-prendere il mondo appieno. Più profonde sono le radici e più si tende a dimenticarle nel tentativo di approcciare al nuovo con la necessaria purezza. Tanto si sa, quanto più

provi a farne a meno, tanto più ti ricordano che fanno parte di te, come fossero pelle, come fossero anima. Non pensi mica di aver-le sempre addosso, quelle: eppure sono tut-to di te e tu niente senza di loro.

“La rivoluzione sta arrivando”: c’è bisogno di piccole rivoluzioni, quotidiane, che parto-no dal basso, ma sono in grado di cambiare il mondo. È semplicemente la nascita, una nuova vita come un nuovo disco che cambia il mondo intorno, qualcosa che non c’era e adesso c’è?È la coscienza di sé che porta il mondo intor-no a cambiare. La consapevolezza di tutto quello che si è, dei propri limiti, dei propri difetti, ma anche di tutto quello che rappre-senta o potrebbe rivelarsi strada facendo un autentico pregio: tutto questo è un buon punto di partenza per una piccola, grande ri-voluzione. Dal micro al macro, la rivoluzione passa attraverso gesti quotidiani, sino a tra-sformarsi in irrefrenabile voglia di cambiare il mondo, per se stessi e per gli altri. Un libro, una poesia, un film, sono ancora in grado di innescare grandi rivoluzioni. A me è succes-so a sedici anni, sulla strada, in compagnia di un Kerouac debosciato; su una spiaggia, con una chitarra in mano e un falò che bruciava intorno, con tizzoni ardenti e lapilli ribelli: e con “light my fire” urlati a gran voce contro il cielo; nello spazio, a spasso con un Kubrick visionario e antico, al tempo stesso.

In questi anni avete cambiato pelle tante volte dal punto di vista sonoro, senza mai

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cambiare sangue. In questo disco tornate all’osso del vostro sound, essenziale direi. Un cd che avete fatto quasi da soli, ci raccon-ti come avete lavorato?La rivoluzione è anche un giro intorno a ciò che di se stessi non muta mai. È evolvere, crescere e trovarsi cambiati, ma fondamen-talmente identici a prima. Questo nuovo album è un po’ la sintesi di tutti i dischi pro-dotti finora. C’è l’“es-senza” di un tempo che scivola via “mentre tutto scorre”, guardando un mondo meraviglioso attraverso l’unica fi-nestra che conosci e che altro non è se non la tua nuova consapevolezza, fatta di tutto quello che hai vissuto, raccontato, scritto e condiviso finora e di tante altre piccole cose che formano un universo altrettanto nuo-vo, mai conosciuto prima. Abbiamo dovuto attingere a tutta la nostra esperienza per metterci ancora una volta alla prova. Dopo aver collaborato con grandi produttori come Corrado Rustici o David Bottrill, siamo tor-nati alla produzione artistica indipendente, lavorando come sempre, dapprima, nella no-stra casa nel Salento, poi, oltreoceano (sta-volta a Nashville), ad un nuovo disco da far mixare al grande Jaquire King (fonico e pro-duttore di artisti come David Sylvian, Tom Waits, Editors, Kings of Lion, Deus, Dream Theatre, The Smashing Pumpkins, Placebo, Muse, etc.). È stato un tuffo al cuore torna-re in sala prove subito dopo il nostro ultimo tour negli stadi (da San siro, all’Olimpico, a Via Del Mare). Nemmeno il tempo di fare un bilancio e di godere dell’affetto e della stima della gente. Ci siamo ritrovati tutti e sei di colpo con lo stesso fuoco dei primi anni tra le mani, tra lo stomaco e la gola, intorno a canzoni nuove, che avevano però il sapore e la forza del classico. Eravamo già pronti a una nuova avventura, eravamo già pronti ad iniziare la nostra rivoluzione.

La scrittura è in continua evoluzione, i riman-di poetici, l’immaginario in campo è molto denso. È una dichiarazione di indipenden-za rispetto al linguaggio ormai banalizzato della nostra canzone. Nei tuoi brani invece omaggi la bellezza della parola. La tua scrit-tura fuori dalla musica è invece ancora diver-sa, contempla corpo e sangue, si fa terrena…Solo uno scrittore come te poteva prestare

così attenzione alle parole e per questo ti ringrazio. Non capita così spesso che si parli di quest’aspetto trattando la materia “can-zoni”. Quello che scrivo è tutto quello che vivo. A volte si tratta di “appunti” presi in prima persona; in altri casi, sono storie non mie che mi attraversano, lasciando il segno al loro passaggio. Scrivere è un buon meto-do (se non addirittura l’unico, nel mio caso) per potersi conoscere un po’ meglio, canzo-ne dopo canzone, parola dopo parola, nota dopo nota.

Negramaro è anche tanto lavoro, gestire e mantenere il successo nel corso degli anni è frutto certamente della musica, ma è an-che di una visione chiara e di tanto impegno. Un concetto che spesso non è chiaro ai più giovani. Colpa anche della visibilità effimera che offrono i talent, che hanno drogato for-se il mercato. Cosa ne pensi?Il successo vissuto insieme ai tuoi compagni d’avventura di sempre, proprio grazie alla condivisione che se ne fa all’interno di una band, ha il vantaggio di ridurre l’impatto che lo stesso avrebbe sulle vite di ognuno, singo-larmente considerate. Si ha la possibilità di analizzarlo con gli altri, di comprenderlo, di accorgersi della sua eventuale comparsa, di gestirlo con consapevolezza, di alleggerirlo quando diventa pesante e infine di far finta che non esista quando si sente il bisogno di prescindere totalmente da esso. Tutto questo è possibile solo se tutto comincia e continua con i tuoi amici con cui sognavi un mondo nuovo, fatto principalmente di mu-sica, parole ed emozioni. Basta mantenere in vita un codice quasi segreto tra noi. Ad esempio, ogni tanto mi rendo conto che, quando siamo in giro, recuperiamo il nostro modo di comunicare di sempre, usando im-provvisamente vocaboli del nostro dialetto, talvolta anche arcaici, che sembrano magica-mente riaffiorare dal fondo di una memoria collettiva, che in quel momento si fa identità comune e dunque caldo nido e rassicurante corazza. Questo ci riporta d’incanto indie-tro nel tempo, a quei sei amici riunitisi, per la loro gran voglia di suonare, dai quattro angoli del Salento, per i quali, ancora oggi, nulla sembra essere cambiato e ai quali il fu-turo appare ancora un’ostrica troppo gelosa

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della sua perla. L’odore della nostra cantina/sala prove ci è rimasto ancora appiccica-to addosso. Ecco. Quell’odore è un buon antidoto contro la spersonalizzazione da successo. Come lo è anche aver conservato il nostro studio di registrazione a Lecce, ri-conoscendo alla nostra città madre il merito (ma anche il gravoso compito) di tenerci uni-ti, impegnati, amici e superconcentrati sul nostro lavoro. A tutto questo, si aggiunga uno staff/management “casereccio”, quasi a conduzione familiare: Salvatore e Luigi San-giorgi sono i miei fratelli e sono da sempre i legali del gruppo; Valerio Tasco, fratello di “DaTa”, è web engineer della società che cura la nostra immagine/comunicazione e Giuseppe Ingrosso, amico di vecchia data di tutti, è il commercialista della band.Sono persone stupende, che ci aiutano in tutto, soprattutto a restare uniti e vigili, perenne-mente attenti al mondo che gira vorticoso intorno a noi.

La prima volta che vi abbiamo dedicato la co-pertina di Coolclub.it andavate a Sanremo, quest’anno ci sei tornato da autore. Sono cambiate tantissime cose, oggi hai il privilegio di scegliere, ma forse hai anche più obblighi. Questa vita dà tantissimo, ma quanto ti pren-de?La musica è tutto ciò che io sento di più lon-tano dagli obblighi e dai doveri: è un piacere, è vita. E forse abbiamo avuto la gran fortuna di viverla così, in piena libertà e nella totale consapevolezza di quello che eravamo, sia-mo e saremo. Sicuramente ci ha dato e ci ha preso molto, ma l’ha fatto mentre facevamo il lavoro più bello del mondo, per cui non ce ne siamo accorti e soprattutto sono così tante le cose belle che riesce a darti che il rapporto con quello che ti toglie è talmente sbilanciato che tendi a dimenticare ogni aspetto negati-vo. Quelli che agli occhi di chi ti guarda da fuo-ri sembrano grandi sacrifici, per te sono inve-ce solo piccoli ostacoli da superare in corsa e di slancio. Restando comunque sempre parte del gioco. E profumando di vita anch’essi.

Parte integrante del progetto musicale dei Ne-gramaro è l’immagine che accompagna ogni album. «Ermanno, il nostro bassista, insieme a sua moglie Irene e a uno staff accuratamente selezionato, ha creato un vero e proprio la-boratorio d’arte, intento esclusivamente alla realizzazione del nostro progetto grafico», spiega Giuliano. «“La rivoluzione sta arrivando” mostra in copertina un ambiguo “Jolly Roger”, quasi alludendo alla bandiera/logo dei sei mo-derni pirati o, meglio, “rivoluzionauti”, che al-tro non sono se non le nostre trasposizioni in chiave fumettistica, venute fuori dalla matita dello stesso Ermanno, durante un viaggio in-tergalattico e metafisico, lungo rotte solo ap-parentemente oniriche. “La rivoluzione”», pro-segue «è anche il nome del “bottergibile” che conduce i nostri sei avatar a spasso per l’uni-verso in cerca di oasi felici, anche appartenenti a epoche diverse. È un “trisimbolo” in quanto contiene in una sola allegoria, tre concetti iconografici: con uno strano gioco di illusione ottica, al suo interno si possono infatti scorge-re un uovo, un teschio e una faccia che sorride beffarda. Questi tre elementi rappresentano rispettivamente l’archetipo cosmogonico e quindi la vita, sempre in bilico tra potenza e atto, la più totale assenza di effimeri orpelli o inutili sovrastrutture e dunque la nuda morte, l’accettazione con dignità dell’ineluttabile, os-sia la fiera ironia (da sempre, in fondo, il collan-te che tiene insieme l’essere e il non essere). In buona sostanza, tutto quello di cui si canta e si suona in questo nostro ultimo lavoro».

LA COPERTINA

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Siamo quasi coetanei, condividiamo molti ri-cordi di questa terra e della sua musica. Sei da sempre una persona curiosa e attenta. Cosa ti piace oggi? Come suona per te la Puglia?La Puglia, la nostra casa, ha sempre avuto il suono del tempo in cui viviamo, con latenza pari a zero tra quello che suona, scrive e vive e quello che prende dal resto del mondo. Eravamo all’Università e grazie a grandi real-tà (non solo locali) come Cesare Dell’Anna e i suoi Opa Cupa, Sud Sound System, Psycho-sun, Après la Classe, Bludinvidia (attuali Fo-nokit), Insintesi, Evagarde e tanti altri, ci sem-brava di essere a Londra o in qualsiasi altra parte del mondo, tanto si era al centro delle cose. Si respirava aria buona, elettrica e tutto era in fermento continuo. Tremava la terra per la voglia di suonare. E lo fa ancora. Lo sen-to ancora. Posti come il “Candle”, il “Triade”, il “Road66”, il “Ritual”, ci rimarranno per sem-pre nel cuore e, come radici, ci terranno at-taccati al suolo e da quelle sapremo sempre nutrirci per crescere nel migliore dei modi possibili e per portare un po’ di noi e della nostra terra, ovunque la musica ci conduca. Anche in Puglia, comunque, il panorama sta cambiando e si evolve, al passo con i tempi. È fisiologico e fondamentale che ciò accada. Accanto a solide realtà che continuano co-stantemente a misurarsi con la musica live, con le vecchie cantine adibite a sala prove, con i palchi più rumorosi ed energici, cresco-no scene che attingono da mondi più lontani come il rap o la dance music. A tal proposito, sono molto felice per il successo che riscuo-tono nel mondo deejay pugliesi come Congo-rock o Jollymare. È un altro genere rispetto a quello che emergeva dieci anni fa, ma ha fatto passi da gigante, grazie alla grande ca-pacità e bravura dei nostri beniamini. Per non parlare, poi, dell’ambito jazz, in cui facciamo saper della nostra grande preparazione at-traverso musicisti come Raffaele Casarano, qualche settimana fa, non a caso, impegna-to a Parigi in un concerto con artisti di fama internazionale del calibro di Sting. Insomma, che altro dire?! Puglia rules!

Sono firmate da Daniele Coricciati le foto del calendario 2016 dei Negramaro. Una selezione di scatti realizzati durante la la-vorazione del disco “La rivoluzione sta arri-vando”. Foto di prove, pause, chiacchierate, partite a biliardino. Non foto posate o scat-tate durante qualche live in giro per l’Italia o l’Europa. «La fiducia che i Negramaro hanno riposto in me ho provato a ricambiarla deci-dendo di realizzare il calendario in una delle Aziende Grafiche più importanti al mondo. Alla EBS - Editoriale Bortolazzi Stei di Vero-na», sottolinea il fotografo salentino. «Una settimana tra libri di Fotografia e d’Arte tra i più famosi e ricercati da esperti, appassio-nati e non. Una settimana passata tra carte e inchiostri alla ricerca del compromesso migliore. Una settimana che ricorderò per un bel po’ di tempo», prosegue. «Entrai alla EBS per la prima volta nel 2008. E parlando con i proprietari e i tecnici dell’azienda mi lasciai scappare una battuta: “Che sogno sarebbe prima dei miei quarant’anni stam-pare una “mia cosa” qui da voi...” Ecco, quel sogno è diventato realtà. Trentasei foto da quei giorni, giusto un rullino, come si faceva una volta». Il calendario diventerà anche una mostra che sarà allestita per la prima volta a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Mila-no, il 18 e 19 giugno in occasione di “Foto di Note”, il primo Festival in Italia a raccontare il legame tra fotografia e musica. Tutte le info sul sito danielecoricciati.com

IL CALENDARIO

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MOLLA“365” raccoglie un anno del cantautore barese

MUSICA

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Il mondo di Molla è a colori. È un artista pi-rotecnico e instancabile, di quelli armati di passione e sorriso. “365” è il suo nuovo al-bum: un anno di Molla, una finestra sulla sua vita che in queste canzoni emerge sincera, romantica, ironica ottimista e vagamente malinconica. Un disco – prodotto da Auand Records e realizzato con il sostegno di Pu-glia Sounds Record - suonato e arrangiato finalmente con semplicità e gusto. Pieno zeppo di cuori e pop, immerso nel sole e ba-gnato dal mare, è il disco ideale per l’estate che arriva.

365 è un album emozionante, emozionato, più confidente del precedente, ti coinvolge molto da vicino e questo arriva subito. È un disco che nasce dall’amore…In questi ultimi otto mesi ho scritto tantis-simi nuovi brani. Ho una lavagnetta a casa con più di 30 titoli, ma la scelta di “365” è molto chiara: parlare di me, entrare ancora più in confidenza con chi vuole ascoltarmi e con chi mi sta accanto. Il tema del disco sono proprio io, con le mie paure, il mio futuro incerto, la mia enorme passione nelle cose, nel viverle senza freno e senza troppi consi-gli da parte di altri. È un lavoro che parla di me e delle mie giornate.

La veste musicale è nuova, meno monolitica del cd precedente, si concede delle pause in cui basta veramente poco oltre alla tua voce. Come hai lavorato a questi brani?Sono partito dall’esigenza di scrivere musi-ca. Nel precedente “Prendi Fiato” mi sono divertito molto: ho giocato con l’elettronica e le canzoni spesso nascevano e morivano su Garage Band; in “365” tutti i brani sono partiti o da un pianoforte o da una chitarra classica, e poi sono stati arrangiati e suona-ti in studio con i miei musicisti Steel e Mau, insieme al fonico Angelo Cannarile. È stato un percorso molto diverso dal preceden-te, perché avevo voglia di portare sul disco il suono che ho dal vivo, lasciando alcune canzoni così come sono nate a casa. I testi, invece, sono il filo comune tra un disco e l’altro, visto che l’autrice Ambra Susca è la stessa che capisce benissimo il mio pensiero e attraverso una matita lo trascrive su fogli sparsi in giro.

È un album che sa di aria e di mare, un disco assolato. Ha lo sguardo rivolto al futuro…Sai, io da piccolo e fino a qualche anno fa non avrei mai pensato che la Puglia, nel mio caso Bari, sarebbe stata la città dove avrei vissuto per tutta la vita, per sempre. Poi, qualcosa è cambiato. Non mi sento un rivoluzionario che cambierà le sorti di questo sud, ancora un po’ indietro rispetto a tutto, però ho de-ciso che è qui che voglio stare e vivere come Luca; invece, come Molla, la mia città, fatta di aria buona e mare, è solo una base opera-tiva per poi partire a suonare in giro. Penso spesso al futuro, ma il mio futuro al massimo è tra una settimana e non riesco mai a pro-grammare cose a lungo termine… “lo scopri-remo solo vivendo“, diceva qualcuno.

Parli di te, come uomo ma anche come musi-cista, è un disco confessionale…Sì, racconto molte cose di me, sia come uomo, che come Molla. Forse qualcuno non troverà interessanti le cose che dico, mentre altri addirittura si rivedranno nelle mie sto-rie, nelle mie canzoni. Io voglio fare questo, voglio trovare in Italia il mio pubblico, andan-do porta a porta come il rappresentante del Bimbi; voglio anno dopo anno prendermi la mia fetta di torta e trovare gente vera a cui piace il mio mondo.

Continuano le tue radicate collaborazioni, ci parli della famiglia di Molla?Molti mi dicono che per arrivare a degli otti-mi risultati bisogna fare una cosa e bene, e impegnarsi solo in quella. Io rifiuto questa vi-sione, non è per me! E vado avanti in “diago-nale”. Sarà anche per via del mio nome d’ar-te! Mi piace suonare con altri artisti, come Erica Mou, Una, Mai Personal Mood, Pasqua-le Delle Foglie e tanti altri o duettare e fare featuring interessanti anche di altro genere, come nel caso di K-Ant o di Mc Nill. Nel disco hanno suonato anche il trombettista Donny Balice e la violinista Anna Maria Losignore. Inoltre mi piace montare e fare video, sia per me che per altri artisti. Ho anche un canale come youtuber che si chiama L.U.C.A con Luca Catalano. La famiglia di Molla è molto allargata, come una buona vecchia famiglia di Barivecchia e tra l’altro tra qualche mese ci sarà anche un nuovo arrivo. (O.P.)

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CHOP CHOP BAND “Rialimenta” segna il ritorno del gruppo reggae

A sei anni dall’ultima uscita discografica, la Chop Chop Band ritorna sulle scene con “Rialimenta”, pubblicato da Goodfellas e Fridge Records con il sostegno di Puglia Sounds Records. La band di Barletta, gui-data da Pino Pepsee, ha trascorso gli ultimi due anni a scrivere, provare e registrare. Un lungo lavoro confluito in questi nove inediti e in un omaggio ad Adriano Celentano.

Chop Chop Band, quasi 25 anni di carriera musicale alle spalle e ancora una voglia mat-ta di suonare, esprimersi, comunicare attra-verso la forza della musica Reggae.Si, è una voglia molto forte che abbiamo sentito soprattutto in questo periodo di “si-lenzio discografico”. Proprio dalla volontà di rialimentare la nostra attività musicale è partita l’idea di Rialimenta, che trae spunto da una canzone del nostro primo album in-titolata per l’appunto “Alimenta”. E così ri-

eccoci qua, con la nostra voglia di stare sul palco, insieme al pubblico, per comunicare qualcosa che, in questo particolare momen-to storico, possa colpire e far riflettere.

L’album è stato anticipato dal singolo “Un po’ di volume”, uscito anche in videoclip quasi un anno fa. Come mai tutta questa attesa?Non è stata una scelta di marketing, bensì la naturale evoluzione di un progetto. Ave-vamo deciso di pubblicare Un po’ di volume indipendentemente dall’uscita di un album, idea che è maturata successivamente visto che avevamo già i brani composti e pre-pro-dotti. Le tempistiche, poi, sono quelle delle produzioni indipendenti: sempre un po’ più lunghe rispetto ad una major.

Un po’ come la differenza tra fast food e slow food: “Rialimenta” è un album a “cottu-

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ra lenta”, denso di ingredienti musicali ben selezionati – dagli archi ai fiati – e con un am-pio sguardo alla tradizione del reggae e non solo, come dimostra la cover di “Una carezza in un pugno” di Adriano Celentano.Tutto nasce dalla volontà della band di fare un disco tutto suonato, che avesse l’impron-ta di un sound acustico: tieni presente che a questo album hanno lavorato ben sedici mu-sicisti differenti! La cover, poi, è un omaggio a quel movimento musicale italiano che oggi viene tanto rivalutato, inserito all’interno della storica produzione della Chop che da sempre spazia su tutto l’arcobaleno del reg-gae, dal rocksteady al roots fino al dub.

La nostra trasmissione si è spesso sofferma-ta sulla dialettica tra band e sound system, tra musicisti e dj producers, cantanti e toa-sters, affermando come la storia di questa musica non possa prescindere né dagli uni né dagli altri, rendendoli complementari…E anche nel nostro caso le due cose vanno perfettamente a braccetto, tant’è che Clau-dio Kougla è al tempo stesso tastierista e dub master della band. In molti pezzi consi-deriamo il dub vera e propria partitura mu-sicale, parte integrante dell’arrangiamen-to, senza il quale la composizione sarebbe “monca”. Per noi il dub master è un musici-sta nel senso stretto della parola.

La Chop Chop è una band longeva ma, rispet-to all’esperienza maturata sui palchi, possia-mo dire che la produzione discografica non sia stata enorme. Al contrario, oggi l’indu-stria musicale ci propone una sovrapprodu-zione di musica da parte di artisti che ancora non hanno fatto in tempo a farsi le ossa…Effettivamente è così. Noi veniamo dalla vec-chia scuola delle band, il cui obiettivo princi-pale è suonare, avere un impatto col pubbli-co. La produzione musicale non è lo scopo ultimo ma un mezzo per far conoscere quello che fai: se ci dovessero proporre l’alternativa tra fare un album e dieci concerti non avrem-mo dubbi. L’ideale sarebbe fare un disco live, non a caso è ciò che abbiamo in agenda per il prossimo futuro: si può dire che Rialimenta di fatto anticipi questo approccio dal vivo, visto che i pezzi sono stati registrati praticamente tutti insieme, eccetto la voce.

La Chop Chop Band si inserisce nel solco della grande tradizione del reggae pu-gliese, dai Different Stylee ai Sud Sound System, passando per i Suoni Mudù e tan-ti altri artisti. Come vi spiegate un humus così favorevole in questo territorio per lo stile in levare?È difficile rispondere a questa domanda. Bisogna ringraziare innanzitutto i pionieri: i gruppi che hai nominato tu li seguivamo da fan nei concerti e hanno fatto germo-gliare in noi la voglia di esprimerci con questo genere. Probabilmente questo meccanismo semina-germoglio si è svi-luppato sempre di più, generando crew, sound system, situazioni che, in un conte-sto favorevole con il mare e tutti gli ste-reotipi sulla “Giamaica d’Europa”, hanno favorito l’avvicinarsi al reggae di molte persone. C’è del talento in Puglia, ma resta quella magia particolare che non si spiega facilmente.

A proposito di mare, si avvicina l’estate con i grandi appuntamenti come live e festival. Voi siete stati protagonisti di tante edizio-ni del Rototom Sunsplash: com’è possibile che l’Italia se lo sia fatto sfuggire?È possibile perché abbiamo una classe politica completamente ottusa, che non si rende conto che la cultura per l’Italia è la ricchezza più grande. Solo così si può spiegare la scelta di cacciare il più gran-de festival mondiale sul reggae con l’alibi delle canne: e infatti adesso la Spagna se lo tiene stretto perché fa turismo, fa lavo-rare la gente, offre un’alternativa. Questo è ciò che fa la cultura e forse in questo la nostra Puglia è una regione leggermente privilegiata rispetto al resto del Paese.

Dove incroceremo la Chop Chop Band prossimamente?Innanzitutto il 20 maggio ci sarà la pre-sentazione ufficiale dell’album all’Eremo Club di Molfetta. Dopodiché continuate a seguirci poiché abbiamo in programmazio-ne una serie di concerti su e giù per l’Italia.

a cura di R&D VIBESReggae Radio Show since 2008 (Radio Popolare Salento)

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I MISTERI DEL SONNO L’album d’esordio della band leccese

Carlo Adamo, Dario Ancona, Carlo Cazzato e Ilario Surano sono “I Misteri del Sonno”. Quattro musicisti salentini, già apprezzati in diversi progetti, che nel 2013 si metto-no insieme per formare questa band con due obiettivi principali: suonare rock e cantare in italiano. Dopo qualche singolo e l’Ep “L’uomo dell’anno”, arriva il primo cd. “Il Nome dell’album è I Misteri del Sonno” - prodotto da Paolo Del Vitto per la Rivol-ta Records - è stato anticipato dal singolo “Resto in casa”, il cui videoclip - firmato da Pierfrancesco Marinelli e Francesca Mele per MorkVideo - ruota tutto attorno a un divano.

Sono già passati tre anni dai primi lavori. Quanto vi sentite cambiati come band? Ci sentiamo molto cresciuti, ogni anno ha avuto un suo peso. L’EP è stato più un ban-co di prova, un lavoro fatto di getto, per-ché volevamo subito buttar fuori qualcosa. Non c’era affiatamento, coerenza o dire-

zione: era un esperimento per capire cosa il gruppo potesse fare. Oggi siamo più uni-ti, più maturi. Abbiamo condotto uno stu-dio sull’identità della band e sul suono da realizzare. Dopo un lavoro complesso, di ri-cerca, abbiamo ottenuto la consapevolez-za giusta per fare quello che desideravamo fare da sempre.

Eppure l’EP vi ha già portato a suonare un po’ ovunque per l’Italia, e ad aprire concer-ti di musicisti come Skunk Anansie, Stef Burns, The Zen Circus, Fast Animals & Slow Kids, Lo Stato Sociale, Roberto Dell’Era e Afterhours. Dopo un percorso già così ric-co, cosa vi aspettate dall’album?Di più. Gli EP sono belli perché sono diretti e “semplici”. Ma abbiamo fatto una scelta, quella di registrare un intero album, che comporta un alto rischio considerando l’at-tuale situazione dell’industria discografica in Italia. Quindi speriamo che venga pre-miata.

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“Il Nome dell’album è i Misteri del Sonno” è il vostro modo di dire “Questo siamo noi”?Si, esatto. Dopo un lungo processo di elabo-razione, in cui ci siamo divertiti ma abbiamo anche lavorato sodo, ci siamo messi in gioco. Il risultato è un album che rappresenta a pie-no la band, per cui nessun titolo ci sembrava più adeguato. Ci abbiamo messo il nome e, come si evince dalla copertina, la faccia.

Nel disco riprendete un brano già proposto nell’EP, “L’Uomo dell’anno”. Come mai?Perché questo pezzo, che dava il nome all’EP e che in realtà avevamo intitolato “Oggi”, è stato l’unico brano dell’EP che, secondo noi, non ha avuto molta risonan-za, a differenza degli altri che sono sta-ti spinti con video e promozioni. Quindi ci è sembrato giusto dargli una seconda opportunità, in una veste un po’ più ele-gante, lenta, quasi orchestrale a tratti. È la concreta dimostrazione della crescita di questi tre anni. Inoltre, si ritrova benis-simo nella linea concettuale dell’album. Nell’album sono presenti anche due ri-ar-rangiamenti, “Sugar Man”di Sixto Rodriguez e “I Am Happy” dei Soerba. Perché avete scelto proprio questi due brani?Sono entrambe canzoni che abbiamo co-minciato a suonare in sala prove per puro divertimento. Ci sono piaciute e hanno trovato posto nella scaletta per i live. Poi abbiamo deciso di aggiungerle all’album perché sono coerenti con il contenuto, musicale e testuale. Anche se ci piace dire che “siamo un gruppo che non si prende sul serio”, l’album ha dei temi centrali: la società di massa e l’estraniamento dell’in-dividuo. Temi che entrambe le canzoni in-carnano perfettamente. “I Am Happy” è un pezzo elettropop degli anni novanta, molto divertente, che con noi è diventato quasi new wave, ed è un’estremizzazione sarcastica del consumismo. “Sugar Man” parla di questo operaio che, per allontanar-si dalla banalità del quotidiano, si droga. Il brano originale era molto poco conosciuto quando abbiamo cominciato a suonarlo, fino a quando il documentario “Searching for Sugar Man” non ha vinto l’Oscar. Ci ha colpito la storia di questo musicista, Sixto

Rodriguez, che per vent’anni è stato quasi completamente ignorato, tanto da esser costretto a continuare a fare l’operaio. Poi improvvisamente scopre di essere famosis-simo in Sud Africa, dove le sue canzoni sono diventate un simbolo della lotta contro l’apartheid, grazie ai loro testi contro l’op-pressione e il pregiudizio sociale. È molto bello suonarle live, perché sono sempre ben accolte dal pubblico. È meno bello do-ver dire che non le abbiamo scritte noi.

A proposito dell’argomento dell’album, ci sono altri due pezzi che sono particolar-mente rappresentativi: “Perdente” sembra essere un critica al mondo dei social: “Se-guo le band ma non vado a un concerto, ascolto Dente se sono depresso […] Non ho mai letto Bukowski ma il mondo non lo sa”.Sì, “Perdente” potrebbe esser definito la versione contemporanea di “I Am Happy”. Parla del nuovo condizionamento mora-le, che non è più lo spot in tv ma il like su facebook. Ci siamo divertiti a creare delle immagini esemplificative, fatte di contrad-dizioni, perché non volevamo essere espli-citi, ma non è difficile capire di cosa si par-la: rappresenta la nostra visione sull’abuso dei social, sul crearsi un’immagine perfetta solo per nascondersi dalla realtà.

“Tu non vuoi morire” invece sembra essere un dialogo con voi stessi.Si, più o meno è così. È un testo un po’ più ermetico, il nostro obiettivo non era creare un messaggio altrettanto fruibile come in “Perdente”. È una specie di esortazione a non lasciarsi andare. Ciò che non vuole mo-rire, e si spera che non muoia, è la voglia di fare e di continuare in questo mestiere.

Cinque persone che volete ringraziare per la realizzazione di questo album.Enrica Ciurli, che ha curato tutta la veste grafica dell’album e la copertina di “Resto in Casa”; Sandro Fazzi, il nostro ingegnere del suono, che ci ha sopportato per molte ore consecutive (e non è facile); la Mamma di Paolo Del Vitto, per le lasagne e le altre cibarie portateci in studio di registrazione; le birre… e le Dr Martens di Dario.Francesca Santoro

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LARSSENDue nuovi progetti in uscita per il compositore Gabriele Panico

Ogni volta che Larssen sta per presentare un disco, un EP, o anche solo un singolo, la do-manda che subito mi faccio è: che titolo avrà dato alla sua nuova produzione. Larssen (al secolo Gabriele Panico) non si limita a spiaz-zarci con la sua musica; gli piace molto gio-care con i titoli che, spesso, in comune con la sua musica hanno nulla. O forse tutto. Insom-ma, fantasia. Con una certezza: tutto passa da suoni e assonanze che creano equilibrio. E curiosità. “Arveladze” è la sua ultima fatica come Larssen, un EP fatto da tre tracce che ci raccontano l’essenza di uno degli artisti più talentuosi di casa nostra. “Orsobruto”, un di-sco che lo vede alle prese con un devastante jazz elettrico in uscita a maggio e con il so-stegno di Puglia Sounds Record, è il nuovo al-bum come Gabriele Panico, firma con la qua-le licenzia musica contemporanea e colonne sonore per il cinema. Entrambi escono per la fedele Pocket Panther Records di Roma.

Dopo aver visto copertina e titolo del tuo EP, la domanda che tutti ti farebbero è: sei un appassionato di calcio?Lo seguo e tifo. Seguo quello che posso ma ho toccato vette, con il calcio e il tifo bri-tannico, da vero esperto. A calcio giocavo per strada come molti, per ore, per anni. Da quando sono nato cerco di non perdere nemmeno una puntata della Domenica Spor-tiva: tutto quell’impianto estetico-statistico dedicato a una o più palle mi fa stare bene. Quando posso la guardo ancora con mio pa-dre: tempo un paio di servizi e siamo già ko sul divano.

C’è un denominatore comune nelle tre trac-ce che compongono il tuo ultimo EP? Insom-ma, è un concept EP?“Arveladze” è nato velocemente. In realtà ero impegnato a chiudere un EP dedicato al Sudamerica, ultimo capitolo di un trittico di ep iniziato con “Maputo Hifi” sulla musica africana e “Karzali” sul Medioriente. Mentre terminavo alcune sessioni “argentine” che comunque vedranno la luce, saltavano fuo-ri due song: “Crowns”, una cosa nera legata all’hip hop e al jazz, “Orbital Housewives” legata al kraut rock e alla new wave. Per chiudere il cerchio, ho rispolverato un vec-chio pezzo, “Two lone cowboys”, che avevo registrato nella speranza di divenire un’icona del country. Un concept involontario, forse, ruota attorno al formato song.

Il tuo percorso di sperimentazione è inizia-to diversi anni fa. Già in radio “manipolavi” i suoni e proponevi le avanguardie di quella che sarebbe stata la tua musica. Poi è iniziato

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un tracciato ricco di esperienze, produzioni e successi… In radio iniziai a lavorarci dopo alcune espe-rienze compositive subito andate a segno all’estero (BBC, Sonig e l’Ircam). Mi diedero coraggio e organizzai una mia piattaforma redazionale. Fu un momento importante, fondai in quel momento la piccola bottega con cui lavoro ancora oggi: Larssen. For-malmente era una trasmissione radiofoni-ca. In realtà uno studio radiofonico mi dava la possibilità di produrre, anche in diretta. In solitaria o con ospiti, testavo tecniche di missaggio e i primi processi in tempo reale. Spingevo nell’etere pionieri e rivoluzionari del suono elettronico, dell’improvvisazione e di tutte le varie declinazioni della musica di ricerca. Sebbene ancora oggi, assieme al ter-mine “indipendente”, non abbia capito bene cosa significhi.

La cosiddetta “scena musicale pugliese” con-temporanea è quanto mai ricca. C’è un abisso rispetto a ciò che accadeva qualche anno fa. Cosa c’è di più e cosa invece manca rispetto alla Puglia musicale allo stato “brado”?Lo stato brado era disegnato perlopiù da molti amministratori delinquenti e social-mente depressivi. Tuttavia molte cose pio-nieristiche sono nate proprio in quei mo-menti. Adesso temo ci tocchino valanghe di incapaci boriosi. Parallelamente però, Puglia Sounds e Apulia Film Commission (nel cine-ma), per citare due esperienze con cui ho il piacere di collaborare, hanno costruito dei circuiti autonomi e - in proporzione tempo-rale - numericamente più stimolanti di qual-siasi altro indotto mai esistito in regione. L’offerta mi sembra molto robusta, di sicuro lo è il sistema attraverso il quale centinaia di autori si giocano le proprie carte.

Dopo aver girato per l’Europa sei tornato alla “base”. Sono nate collaborazioni importanti come ad esempio quella con la Fondazione “Fòcara di Novoli”. Tradizione e sacralità che abbracciano la musica. Tutta la musica. Che storia (bella) è mai questa?Con la Fòcara è iniziato tutto dal film “Alta-mente” di Gianni De Blasi per cui ho scritto la colonna sonora originale, prodotto dalla Fondazione e messo in piedi da Passo Uno. Con Loris Romano (direttore artistico del

FF) è subito iniziata una collaborazione. Nel 2015 con la mia esibizione al festival inaugu-rando il reparto elettronico della già enorme offerta artistica di quella fantastica 3 giorni. Nel 2016 con una speciale commissione per sonorizzare la cerimonia di accensione del grande falò: “Phoco” è stata prodotta uti-lizzando field recordings che campionano tutto il lungo ciclo del fuoco. Dai suoni del taglio e composizione delle fascine a quelli dei mezzi, degli attrezzi e delle braccia che edificano la pira. Fino al fuoco finale.

Sei un Robin Hood dei suoni. Li rubi a chi ne ha in abbondanza e li doni a tutti. Sotto for-ma di musica. L’esperienza di “ConCreta”, la tua produzione per il Festival Esco di Radio LIVE 2015, è un esempio pratico di come ce-selli i suoni. Tutto sommato sei un artigiano anche tu?Io sono solo un mostro, in realtà. Cerco di sottomettere tutto a delle formalizzazio-ni musicali. Per “ConCreta” sono andato a caccia di suoni. Ospite per intere giornate in alcune botteghe storiche di Lucugnano. Con microfoni e cuffie sono stato ospite dei forni, delle presse, dei magazzini, dei torni di Giuseppe Indino e Dario Ferrari. Quei suoni sono stati rielaborati e messi in griglie ritmi-che e hanno formato campi armonici. I rac-conti dei maestri di cui ero ospite, sono dive-nuti melodie, cori e forme “concrete” di rap.

Come Gabriele Panico, invece, è in uscita “Or-sobruto”. Cosa ci riserva questo nuovo lavoro?“Orsobruto” è un disco dalla gestazione dura, selvaggia e tecnicamente difficile. Una decina di strumenti imbracciati, quattro studi di registrazione coinvolti e un’odissea tecnologica in postproduzione. L’ho suonato tutto, l’ho rielaborato tutto e ho anche mas-sacrato i cervelli di Giovanni Gentilucci (chi-tarrista e boss di Pocket Panther Records) e Dario Longo (chitarrista e supporto onnipre-sente). L’idea centrale era fare un disco come quelli elettrici di Miles Davis, Prime Directi-ve, Weather Report, senza poter contare su quegli organici! Aggiungici la mia passione per la chitarra jazz moderna - che non ho mai praticato - e per Gyorgy Ligeti... Simone Coluccia – Esco di RadioMondoradio Tuttifrutti

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La cantante foggiana Mara De Mutiis esordisce con “The men I love”. Il proget-to discografico (prodotto dall’etichetta Dodicilune) è arricchito dalla presenza di un interessante quintetto guidato da Antonio Ciac-ca, pianista, compositore, direttore artistico nato in Germania, cresciuto in Italia e formatosi negli Stati Uniti. Un disco ideato e registrato durante una vacanza negli Stati Uniti con Mike Karn (contrabbasso), Jerry Wel-don (sax), Aaron Kimmel (batteria) e con Lucio Ferra-ra, chitarrista pugliese che da anni vive tra Bologna e New York. La scaletta com-prende, oltre al brano che dà il titolo al disco firmato da George e Ira Gershwin, “Joy Spring” di Clifford Brown e Jeira Kaine, “Blue Monk” di Thelonius Monk e Abbey Lincoln, “Misty” di Erroll Garner e Johnny Bur-ke, “Come Sunday” di Duke Ellington, due brani di Cole Porter (“So In Love” e “You’d Be So Nice To Come Home To”) e “Passè”, composi-zione originale di Antonio Ciacca.

MARA DE MUTIIS The men I loveDodicilune

Non è propriamente un con-cept album, ma i brani hanno una cornice di riferimento e un tema comune. “Soqqua-dro” è l’esordio della band La13. “Danza Ipnotica” intro-duce l’ascoltatore in questo viaggio hard-rock di dieci tracce. Il gruppo sembra es-sere ben assortito, ognuno dei componenti porta all’in-terno influenze e stili diversi, ma compatibili. La voce crea un piacevole contrasto con il suono, scuro e diretto, e narra interiorità e pensieri, di figu-re femminili e maschili che si confondono in un’altra epoca, quella del Dandy e della Fem-me Fatale. Dai testi emerge anche molta critica sociale, diretta al potere, all’attualità e all’ipocrisia. In particolare, “Scena pop” descrive l’odier-no ambito musicale, con “un giudice che ha danneggiato un’intera generazione” e un’originalità indipendente “spazzata via slealmente“. Una band chiaramente da live, ma che in questo album, molto ben riuscito, invita ad abbandonare la rassegnazio-ne e fare davvero qualcosa per cambiare la realtà. Magari tra un pogo e l’altro.Francesca Santoro

LA13SoqquadroIllSun Records

Classe 1977, barese, una lunga esperienza tra musi-ca, teatro e arte circense, Giuseppe “Dely” De Marzo dopo alcuni premi e varie partecipazioni a contest, rassegne e festival propo-ne il suo album dal titolo semplice e sintetico quanto complesso. “Uomo”, uscito poche settimane fa per l’e-tichetta romana GoodFel-las, contiene dodici brani inediti che musicalmente si muovono tra sonorità lati-ne, funky, ballad e pop. «Il disco nasce dalla necessità di toccare tematiche attuali come fragilità, forza, spe-ranze e difficoltà che deve affrontare quello che vie-ne definito il trentenne del nuovo millennio. Le canzoni sono al tempo stesso un sussurro verso l’ anima e un urlo contro la società che separa piuttosto che unire», sottolinea. Un pizzi-co di ironia (l’Uomo del tito-lo è una marca di mutande) per affrontare i temi cari ad una generazione come la nostra sempre in sospeso tra aspirazioni e realtà. Una bella scoperta (per me) nel ricco panorama della musica d’autore pugliese. (pila))

DELY DE MARZO UomoGoodfellas

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Solo, in duo, in trio o in quartetto. Mirko Si-gnorile propone la sua musica in varie for-mule, proseguendo le sue collaborazioni e sperimentando tra jazz e dintorni. Dopo “Waiting for you” e “Soundtrack Cinema”, è appena uscito (sempre per l’etichetta Auand) “Banaba”, nuovo progetto che vede il piani-sta barese affiancato da Marco Messina dei 99 Posse. Il disco - realizzato con il sostegno di Puglia Sounds Record 2016 - è una miscela di suoni e voci per 11 tracce, realizzate con la collaborazione di artisti importanti come Ursula Rucker, Black Cracker, Erica Mou, Ju-liana Maruggi, Paolo Fresu e Vertere String Quartet. «Nel 2007 Barbara De Dominicis organizzò un concerto alla galleria Toledo di Napoli invitando me e Marco», sottolinea Signorile. «Improvvisammo tutto il tempo e fu evidente che c’era una bella affinità. Da allora abbiamo firmato le musiche per il film di Pietro Marcello “Il passaggio della linea”. Marco ha anche fatto il mix dei miei dischi “Clessidra”, “Soundtrack Cinema”, ed è stato ospite in “Magnolia”», prosegue. «Nel 2013 c’è stata l’occasione di proporre un progetto live al Locus Festival. Alcuni brani del nostro album sono proprio tratti dai due giorni in cui preparammo il live registrando alle Officine Musicali di Castellana Grotte. La musica che vogliamo esprimere percorre l’idea del free style; più che essere un genere è un’attitudi-ne. Ci sono jazz, classica, tecno, dub... insom-ma per noi si tratta di “visioni” in musica». Nel precedente “Waiting for you”, il pianista pro-pone, invece, grandi classici e standard in trio con Marco Bardoscia al contrabbasso e Fabio

Accardi alla batteria (protagonisti anche del progetto Puglia Jazz Factory completato da Gaetano Partipilo e Raffaele Casarano). «L’i-dea è stata in qualche modo suggerita dal progetto che Auand ha per il mercato giap-ponese. Cinque cd di piano-trio in collabora-zione con Albore (il distributore in Giappone) in stile mainstream. Ho trovato molto stimo-lante tutto ciò; da tempo lavoro su progetti di musica originale in cui il mio lato compo-sitivo è a tratti anche più importante di quel-lo improvvisativo. “Waiting for you” mi ha permesso di risuonare senza troppi pensieri lasciando fluire in modo naturale tutto ciò che sento». In “Soundtrack cinema” Signorile si cimenta per la prima volta nel piano solo, con un repertorio di inediti e quattro “omag-gi” a Piovani, Ryuichi Sakamoto, Björk, Yann Tiersen. «Il disco in solo nasce dal bisogno di dare continuità ad un progetto live partito nell’estate del 2014 nei castelli di Puglia. Tro-vo inoltre che Soundtrack sia un mio modo di mettermi più a nudo. Lo trovo intimo e la maggior parte della musica che è contenuta nell’album è prima take». E se il 2015 è sta-to un anno intenso, il 2016 si preannuncia altrettanto ricco. «Oltre a Banaba a settem-bre è prevista l’uscita di “The Sky is Open“, il nuovo album del quartetto (lo stesso di “Clessidra” e “Magnolia”) che sarà pubblica-to da Parco della Musica. Inoltre quest’anno Claudio Filippini, Giovanni Guidi ed io abbia-mo creato il progetto “Un pianoforte per l’Aquila” sulla scia emozionale dell’evento “Jazz per l’Aquila”. Faremo diversi concerti quest’estate in Italia».

MIRKO SIGNORILEIl pianista tra progetti in solo, duo, trio e quartetto

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Ci sono alchimie speciali, incontri capaci di dare a vita a cose bellissime. Succede anche in musica. Quello tra Alex Tuner e Miles Kane è un sodalizio artistico tra i più interessanti degli ultimi anni. Dopo il folgorante esordio del 2008 con “The age of the understatement” abbiamo aspettato quasi otto anni ma ne è valsa decisamente la pena. Tra elementi orchestrali, i rimandi a Paul Weller, le finezze melodiche alla Ray Davies, e accenni britpop anche questo nuovo episodio brilla di luce propria.

ThE LAST ShADOw PUPPETSEverything You’ve Come to ExpectDomino Records

Il rock può avere ancora oggi un valore politico? Ha senso rivendicare un ruolo attivo nella società? Può essere l’arte in genere ancora un veicolo di denuncia? A tutte queste do-mande risponde il nuovo album di Pj Harvey che dopo 5 anni ritorna a parlare di conflitto, allargando la prospettiva sia tematica che musicale, analizzando le macerie, quello che resta di una guerra o quello che cambia traumaticamente in una città. Il disco è il frutto di una lunga performance arti-stica, una session di arte live che produce arte per sempre.

Pj hARvEYThe Hope six demolition projectIsland records

Dai God Machine in poi è uno dei migliori interpreti delle mie malinconie, delle ossessioni, è il mio autore dell’amor perduto. Le atmosfere rarefatte, il brusio continuo, rumo-re sotteso, il canto come una preghiera fragile, la tensione emotiva costante traghettano l’ascoltatore per tutto il di-sco, e il navigar è triste in questo mare. Un disco come un viaggio solitario, un cammino a cercare un porto tranquillo, qualcosa o qualcuno. Non siamo ai livelli dei precedenti al-bum ma è sempre bello ritrovare un vecchio amico.

SOPhIAAs we make our way (Unknow Harbours)The Flower Shop / Pias

KEEP COOL - Dall’Italia e dal mondo a cura di OSVALDO PILIEGO

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Qualcuno ricorderà Sofia Galotti impegnata nel progetto Lori’s Eyes, interessante due elettroacustico con una man-ciata di album all’attivo. Con questa nuova creatura la dire-zione musicale si addentra in nuovi paesaggi più sintetici e psichedelici, in cui la flebile grazia della sua voce acquista luce, si libra leggera. Realizzato in collaborazione con Riva, Federico Dragogna e parte degli Aucan, “Comet 12” è una bella sorpresa. Lim sarà ospite del Sud Est Indipendente il 17 Luglio a San Cataldo di Lecce.

LIMComet 12La Tempesta dischi

Classe 1948, arriva al successo nel 2011 dopo una vita di strada e di stenti. Per la serie: c’è sempre tempo e delle cose belle prima o poi qualcuno se ne accorge. Mentre il mondo si affanna dietro le novità e le sperimentazioni ci si dimen-tica a volte dell’anima, del “soul” appunto. Un classico con-temporaneo capace di omaggiare i Black Sabbath conser-vando lo stile dei padri fondatori della Black music. Merito del suo ruggito (a James Brown sarebbe piaciuto) e di una super band vibrante e pulsante.

ChARLES BRADLEYChangesDaptone

Prendete la tradizione della musica per film, il concetto più ampio di colonna sonora e spingetelo oltre il confine. Da quella parti si aggirano i Fuzz Orchestra. La collaborazione con Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e Nicola Manzan di Bo-logna Violenta chiude in qualche modo il cerchio intorno a queste musiche per film impossibili. Se prima il loro suono e il loro messaggio era politico adesso diventa apocalittico, come dominare un tempesta di rumore e uscirne vincitori.

FUZZ ORChESTRAUccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoiWoodworn

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Nata nel 2008 come associazione culturale e poi evolutasi nel 2012 in etichetta disco-grafica, Digressione Music è una delle re-altà più interessanti della scena musicale pugliese, tanto per il suo progetto culturale che mira a valorizzare i talenti del territorio della scena jazz, rock e cantautorale, quan-to per l’importante opera volta al recupero dall’oblio di repertori e composizioni clas-siche. Fondatore ed animatore di questa label indipendente è Don Gino Samarelli, prete ed insegnante di religione nei licei, da sempre innamorato dell’arte e della musica. Dividendosi tra la sua attività di parroco del-la Chiesa Madonna della Rosa di Molfetta, quella didattica e le produzioni discografi-che, il sacerdote molfettese è un esempio

di come si possa rendere possibili i sogni perseguendoli con passione e dedizione. Abbiamo intervistato Don Gino Samarelli per ripercorrere insieme a lui la storia di Di-gressione Music, soffermandoci sulle carat-teristiche peculiari di questa etichetta e le produzioni più recenti.

Partiamo dagli inizi, com’è nata l’idea di dare vita ad una casa discografica? Tutto comincia con l’idea di raccontare il desiderio di bellezza e di arte attraverso un’associazione culturale, “Digressione Con-templattiva”, un desiderio che ho coltivato da ragazzo attraverso la pittura e l’interes-se per l’arte. I primi anni dell’associazione, fondata nel 2007, sono stati caratterizzati

DIGRESSIONE MUSIC Don Gino Samarelli è il fondatore e animatore dell’interessante etichetta indipendente

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OS ARGONAUTASSamba delle stregheDigressione Music

A quattro anni dal loro debutto discografico con “Navegar è Preci-so”, gli Os Argonautas proseguono il viaggio intrapreso, coniugando atmosfere e sonorità della musica brasiliana con la produzione mu-sicale italiana. “Sam-

ba delle Streghe” è, infatti, il secondo disco dell’ensemble barese (Digressione Music con il sostegno di Puglia Sounds Record). Il racconto dell’album si snoda attraverso dieci brani origi-nali nei quali influenze diverse e un mix di stili danno vita ad un “Tropicalismo Mediterraneo”. Ad impreziosire il nuovo progetto discografi-co anche due interpretazioni di “Sporca Esta-te” di Piero Ciampi e “Disseram Que Eu Voltei Americanizada” di Luís Peixoto e Vicente Paiva, brano composto per Carmen Miranda. La for-mazione - composta da Federica D’Agostino, Giovanni Chiapparino, Domenico Lopez, Ales-sandro Mazzacane, Giulio Vinci - è completata nel disco dal violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum e da Daniele Di Bonaventura al bandoneón. (C.M.)

da cinque rassegne intitolate “Sulle ali della bellezza” e qualche produzione discografica di documentazione. La svolta è avvenuta con l’invito al Festival MiTo di uno dei pro-getti pubblicati, “Le Variazioni Goldberg” di Bach eseguite a clavicembalo da Ono-frio Della Rosa. In quel momento ho capito di essere chiamato ad una scelta: profes-sionalizzare quell’impegno o godermi con leggerezza hobbistica quell’associazione. Ho scelto la prima, costituendo una società discografica, editore musicale e produttore cinematografico.

Perché far nascere un’attività di questo tipo non a Milano ma in Puglia, a Molfetta?Perché a Molfetta? Perché è la mia città, per-ché è una città col DNA della musica, perché è periferia nella geografia mediatica e per questo vocata alle sfide, garanzia spesso di successo e qualità. Tutto questo è reso pos-sibile anche dalle opportunità che la dema-terializzazione dei processi produttivi oggi offre.

Qual è stato il filo conduttore che ha carat-terizzato le vostre produzioni artistiche sin dagli inizi?La passione. Il sentimento che ti fa dire che è bello ascoltare quella musica. La gioia di vedere come l’entusiasmo di un giovane si trasforma in emozione. Il dovere di far co-noscere a molti la bravura di un musicista. Il diritto di dare vita ad opere “sepolte vive”.

Vi siete sempre mossi in un ambito che spa-zia dalla canzone d’autore al jazz, passando per la World music, con qualche piccola de-viazione verso il rock. Con quali criteri sele-zionate i dischi da produrre?Siamo cresciuti anche nei criteri di selezio-ne. Dall’iniziale istinto passionale legato all’emozione dell’ascolto, siamo passati ad un’attenta verifica dei progetti che ci ven-gono proposti, guidati però sempre dal quel sentimento, gioia, diritto e dovere, di cui sopra.

Gli ultimi anni hanno visto l’inizio di un lento declino del cd come supporto fonografico, a vantaggio della riscoperta del vinile ed

ovviamente dell’escalation continua della musica liquida e dello streaming. In questo senso quali sono le sfide che si trova ad af-frontare un discografico oggi?Sono sfide totali. La trasformazione digitale sta lentamente mutando in trasformazione semantica: nuovi linguaggi, nuove sintassi, nuove dinamiche di comunicazione, nuovi mezzi. Perché abbia un senso, il disco oggi non può che essere un progetto globale, legato all’evoluzione di un artista, sia per-sonale che musicale. Un progetto che guidi il musicista ed il suo pubblico alla condivi-sione di un linguaggio, di una filosofia, di una ricerca; di qui la cura del booklet come strumento di comprensione ed approfon-dimento. Forse solo così, ha ancora senso comprare un CD ed ascoltarlo come si deve

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leggere un libro o risolvere un problema di matematica. Fare della musica un tappetino sonoro che accompagna le pulizie di casa o fa compagnia nel viaggio in macchina, è una riduzione semplicistica che lentamente por-terà la musica ed i suoi accoliti a diventare macchine sonore senza anima né storia.

Da realtà particolarmente attenta alla sce-na artistica pugliese, vi state aprendo verso l’intera scena musicale italiana. Come si indi-rizzerà il vostro lavoro in questo senso?L’apertura alla scena artistica nazionale, e con due progetti anche internazionale, è stata una tappa di un cammino costante, puntuale e meritato. Una pubblicità recita ti piace vincere facile e lo è per chi ha ade-renze potenti, notorietà, soldi pubblici; nel nostro caso, invece, tutto pesa su di noi, so-prattutto nel doverci guadagnare la fiducia e meritare la credibilità da parte degli ad-detti ai lavori, siano essi musicisti, operatori culturali o pubblico. Vorremmo continuare a camminare su due binari, il primo quello della valorizzazione di giovani musicisti e di progetti primi, il secondo quello della ri-cerca di repertori sconosciuti o dimenticati, senza tralasciare qualche incursione in zone sperimentali e di nicchia.

Quali sono le difficoltà che incontrate nel vo-stro cammino?Dal punto di vista artistico, le difficoltà non possono che essere esaltanti; mentre le difficoltà legate agli aspetti burocratici e fi-scali, note a tutti coloro che si avventurano nella convinzione che si debba credere nel proprio Paese e nella onestà amministrativa, quelle sono faticose.

In questo senso quanto è stato importante in questi anni il supporto di Puglia Sounds per la vostra etichetta e più in generale per la scena musicale pugliese?Puglia Sounds ha rappresentato uno straor-dinario strumento di valorizzazione del terri-torio e dei musicisti. Ha saputo incidere nella scena musicale nazionale ed internazionale in modo significativo, cambiando in alcuni casi, le sorti di musicisti e repertori. Per la nostra etichetta, il supporto è stato minimo ma utile: minimo, perché non siamo riusciti a far com-prendere la qualità del nostro impegno; utile, per aver supportato alcuni dei nostri progetti nella comunicazione. In questo momento, Pu-glia Sounds vive una situazione di sospensio-ne che tutti speriamo diventi al più presto un rilancio ed una più diffusa opportunità. Salvatore Esposito

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Partendo dal filo conduttore che sintetizza lo spirito del Talos festival di Ruvo di Pu-glia, ovvero “la melodia, la ri-cerca e la follia”, il docu-film di Giuseppe Magrone offre una riflessione profonda sull’importanza della tradi-zione musicale delle bande per la cultura meridionale e i suoi riflessi nel cinema con le colonne sonore di Nino Rota, per giungere al jazz che sposta sempre più avanti il confine della sperimenta-zione. Realizzato nel corso dell’edizione 2014 del festi-val diretto dal trombettista e compositore Pino Minafra, “Close To.. Gente di Talos” - attraverso interviste, testi-monianze e riflessioni di mu-sicisti, giornalisti e addetti ai lavori - mira a far emergere la visione socio-culturale, politica ed artistica che è alla base di questa rassegna, ed in parallelo pone in rilievo il lavoro, gli sforzi, le mani, i volti, le emozioni e le storie degli organizzatori e dei tan-ti giovani che concorrono alla sua realizzazione, cogliendo-ne il dietro le quinte, proprio come quel momento esatto in cui il trombettista prende fiato prima di suonare. (S.E.)

GIUSEPPE MAGRONEClose to... Gente di TalosMagrone Produzioni

Curato da Flavia Gervasi, “Le Dimensioni della Voce” è una preziosa raccolta di saggi che compongono un articolato quanto inedito percorso di indagine. Il suo pregio principale è quello di ridiscutere le posizioni adottate dalla musicolo-gia storica, analizzando la voce come come fatto pri-mariamente verbale, e pre-sentando da prospettive diverse una serie di rifles-sioni sulle sue proprietà intersoggettive, affettive e simboliche. Studi e ricerche di alto profilo scientifico che propongono una serie di approcci complementa-ri allo studio della voce. I ricercatori chiamati ad in-tervenire in questo volume hanno formazioni diverse, seppur in alcuni casi affini ed operano in ambiti dif-ferenti. Gli studi di filosofi del linguaggio, semiotici, antropologi, musicologi, sociologi, etnomusicologi si basano su un approccio metodologico e sul co-stante dialogo tra ricerca-tore ed attori “osservati” nell’ambito delle esperien-ze etnografiche. (S.E.)

FLAvIA GERvASI (a cura di)Le Dimensioni della VoceBesa Editrice

“Bestiario Marino” del sasso-fonista Francesco Massaro, nato all’interno del collet-tivo Desuonatori - factory guidata dal produttore sa-lentino Valerio Daniele - è un album denso di fascino dall’atmosfera evocativa ed allo stesso tempo visionaria. Il cd raccoglie dieci brani di taglio avant-garde jazz incisi con il contributo di Mariaso-le De Pascali (flauti), Gianni Lenoci (piano) e Michele Ciccimarra (batteria e per-cussioni). Se al primo ascolto può sembrare un lavoro dal sound bizzarro e a tratti crip-tico, soffermandosi con più attenzione si scoprono una serie di brani dalla bellezza cristallina, caratterizzati da una ricerca sonora densa di sfaccettature e da un eccel-lente lavoro in fase compo-sitiva. Brano dopo brano, si viene letteralmente cattura-ti da una sorta di vortice che ci conduce in fondo al mare, alla scoperta di creature quasi mitologiche che com-pongono un mondo alto, nel quale il tempo sembra fer-marsi, schiudendoci i misteri della natura, tra silenzi e ba-gliori, fasi concitate e tenui spaccati riflessivi. (S.E.)

FRANCESCO MASSARO Bestiario MarinoDesuonatori

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LIBRI

È sempre bello scoprire una penna giova-ne e ritrovarla dopo anni con la stessa fre-schezza e una nuova profondità frutto della maturità e del mestiere. È passato un po’ di tempo da “Adesso Tienimi” (Fazi, 2007) e Flavia Piccinni, trentenne tarantina, già vin-citrice del Premio Campiello Giovani, è una donna capace di confrontarsi con i grandi temi. In quest’ultimo lavoro la morte aleg-gia tra le pagine, la sopravvivenza a un lutto, la scelta di non concedere la vita. Si parla di aborto da una prospettiva inedita: “Quel fiu-me è la notte”, appena uscito per Fandango, è un viaggio alla scoperta di se stessi davve-ro commovente.

Questo libro affronta un tema doloroso, scomodo in qualche modo soprattutto in un Paese come il nostro. Si parla di aborto, o meglio delle conseguenze di un aborto.L’aborto fa parte della vita delle donne e

della nostra società. È tema doloroso e forse proprio per questo è ancora più necessario parlarne. Le conseguenze dell’aborto sono spesso nascoste, tenute in un cassetto del-la memoria, invece riportare questo tema al centro della discussione non solo rende meno sole le donne e gli uomini che stanno affrontando il post-aborto, ma ci aiuta forse a comprendere la difficoltà di questa scelta e ad annullare la vergogna, la paura, il tabù che spesso circonda l’interruzione volonta-ria di gravidanza.

Il senso di colpa, l’incapacità di superare i traumi, il passato che ci attanaglia, che stringe la gola. Le pagine sono intrise di queste sensazioni.Ma anche la gioia della scoperta, la sorpre-sa dei luoghi, il lato comico di un incredibi-le viaggio indiano, la consapevolezza di se stessi che ti arriva addosso all’improvviso, e

FLAVIA PICCINNIIl nuovo romanzo della scrittrice tarantina è un viaggio alla scoperta di se stessi davvero commovente.

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come un fiume ti porta via. Quella lavatrice di sentimenti, di pensieri, di sensazioni che è la quotidianità. Pensare che la vita sia solo gioia, così come solo dolore, è limitante. La storia di Lea è la storia di una donna che ha attraversato un periodo buio, denso di sof-ferenze, ma che si riaffaccia alla vita.

Covacich scrive ne “La sposa” che “sia-mo uomini fertili in un mondo sterile”. Si parla molto oggi del diritto a non essere genitori. Per scrivere questo libro ti sei molto documentata. Che idea ti sei fatta su questi temi?Generalizzare è sempre mol-to pericoloso, ma il diritto a non avere figli è forse la più preziosa conquista degli anni Duemila. Lea non vuole di-ventare madre, anche se una parte di lei, una parte che cer-ca di prendere il sopravvento e che appartiene alla sua for-mazione borghese e cattoli-ca, le dice che non funziona così. Che, una volta rimasta incinta, devi essere pronta a essere madre.

Il viaggio come inizio di una nuova vita, come fuga, un percorso a ritro-var se stessi, nel libro la protagonista va in’India, il suo sembra piuttosto però un viaggio interiore. Cosa ne pensi?Lea cerca le risposte fuori da se stessa, nel mondo, eppure le troverà dentro i suoi pen-sieri. Siamo ossessionati da noi stessi, da come gli altri ci percepiscono, eppure nel momento in cui dobbiamo fare i conti con la parte più oscura di noi ci rifugiamo negli altri, scappiamo altrove credendo che siano i luoghi a fare la differenza. Invece spesso siamo noi, e solo noi, a poter suggerire una soluzione.

L’India però ha un ruolo, la galleria di per-sonaggi, la scoperta, le grandi differenze culturali e paesaggistiche creano uno sce-nario limbico in cui ci si muove…L’India è il fiume che travolge Lea. E la co-stringe a scattare con se stessa. È l’India che Lea ha conosciuto con le letture, e che ha im-

maginato. In parte è anche l’India che io ho vissuto, un’India percepita volontariamente in modo provinciale, perché noi italiani sia-mo provinciali e amiamo confrontarci con il mondo paragonandolo a casa nostra. Lei va a Varanasi, ma ritrova i Quartieri Spagnoli. Ho amato l’India in cui ho viaggiato, e che ha lasciato in me una dolcezza disperata, da ultima carezza.

Difficile affrontare un libro come questo per un lettore, immagino lo sia stato an-che scriverlo…

Non so se sia difficile legge-re Quel Fiume è la notte, di certo scriverlo è stato per me un bivio. Per anni ho pensato a questa storia, ho pensato a Lea e a chi, come è capitato anche a me, si trova a soprav-vivere a un lutto ed è del tut-to impreparato a farlo.

Scrittrice e anche editrice, ci racconti questa nuova esperienza?Atlantide è nata da un so-gno di quattro amici, con esperienze diverse nel mon-do dell’editoria. Volevamo

dare voce a quei libri, bellissimi, che spesso sono trascurati dal mercato perché ritenuti troppo poco commerciali o poco vendibili. Pubblichiamo solo libri in tiratura limitata e numerata, che distribuiamo esclusivamente attraverso una rete di librerie fiduciarie: non vogliamo essere ovunque, ma solo nelle li-brerie che leggono e, se gradiscono, consi-gliano i nostri libri. Abbiamo iniziato con due saggi di filosofia e due romanzi. Il nostro ultimo libro è “Leonida” di Nada Malanima, un romanzo bellissimo ambientato fra la To-scana e la Scozia. Qualche settimana fa poi sono nati anche gli Alberi di Atlantide: dei poster che raccontano attraverso un albero gli ultimi cento anni di narrativa italiana e americana.

Da tarantina come vedi la nuova narrativa pugliese?Incredibile e in eterno fermento. Esatta-mente come la nostra regione. (O.P.)

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Il colore della copertina è quell’inconfondi-bile bianco e rosso delle sigarette Marlboro. Il titolo, poi, non lascia spazio a fraintendi-menti. “Di Contrabbando” è il primo roman-zo breve (o racconto lungo) del giornalista brindisino Ennio Ciotta in uscita per la casa editrice indipendente Bepress.

Nel libro racconti la storia di un contrabbandiere e dei suoi “colleghi”. Una figura, come spieghi anche nell’introdu-zione, strana. Amati e odiati, forse considerati non dei de-linquenti come tutti gli altri. “Il contrabbando, complice l’ignoranza e soprattutto la mai celata visione distorta della giustizia dell’italiano medio, ha sempre mantenuto un ascendente forte nel mi-croclima cittadino”. Come mai secondo te? Qual era la diffe-renza tra i contrabbandieri e i “malavitosi”? I contrabbandieri di sigarette erano e sono dei malavitosi. Le loro attività sono illecite e come tali vanno trattate. Il loro universo era affascinante perché rompeva tutti gli schemi: una sorta di città nella città che ri-scattava la marginalità dei quartieri perife-rici creando una nuova mitologia urbana. Gli scafi in mare, le colonne delle auto cariche di casse di sigarette, i nascondigli, i vendi-tori agli angoli delle strade, l’abbigliamento

appariscente, gli atteggiamenti spavaldi, la presunta ricchezza economica della città. Il tutto per strappare profitti alla casse del Monopolio di Stato. Fino a quando “il gioco non si è fatto duro”, cioè prima che queste attività iniziassero a lasciare troppo sangue

sull’asfalto, sembrava di vivere in un film con una non precisata distinzione fra eroi ed antieroi. E poi, come facevi a considerare malavitoso chi ti faceva rispar-miare sull’acquisto delle siga-rette?

Si intrecciano storie private e rocamboleschi traffici. Mi hanno molto colpito i dettagli con i quali riesci a raccontare le traversate, le barche, i paesi dall’altra parte dell’Adriatico che aiutavano il contrabban-do. Come ti sei preparato per questo libro? Sono nato e cresciuto in un quartiere periferico della cit-

tà di Brindisi. Quando ero bambino le loro gesta erano per noi come l’Odissea di Ome-ro. Accanto alla memoria ho affiancato un processo di ricerca lungo circa un anno. Ho accumulato una montagna di materiale per poi scremare al minimo la narrazione. Trat-tandosi del mio primo romanzo (prima di questo ho pubblicato solo un saggio sulla scena della street art italiana) ad un certo punto ho pensato al prodotto finale: un li-

ENNIO CIOTTA Di Contrabbando è il romanzo d’esordio del giornalista brindisino

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bro breve, tre ore di lettura al massimo, con un prezzo basso. L’ideale per un esordiente che ha davvero voglia di farsi leggere. Inol-tre non dimentichiamoci mai che si tratta di un romanzo dove la realtà si intreccia con la finzione.

Rivendichi una scelta linguistica “italia-na”. Forse il dialetto o lo “slang” avrebbe dato maggior vigore ad alcune scene. Un po’ come avviene nelle serie come “Go-morra” o “Romanzo Criminale” avresti potuto osare da quel punto di vista. Come mai la scelta di mantenere, anche nei dia-loghi, un italiano standard con rare scivo-late? Il dialetto brindisino è una variazione socio-linguistica al momento sconosciuta all’orec-chio di molti. Se fosse già stato sdoganato in passato al cinema, in tv o nella musica come il napoletano, il romano, il siciliano o il barese probabilmente non mi sarei posto il problema e lo avrei usato molto volentieri. Da Roma in su c’è l’idea che in Puglia si parli in barese e un pò in leccese. Con la sola scrit-tura, ammesso che ne fossi stato capace, avrei combinato solo un casino. Ci penserò io durante le presentazioni in giro per l’Italia a snocciolare qualche perla in dialetto. Inol-tre ho pensato fin da subito ad un libro de-stinato anche ad un pubblico di non lettori. Linguaggio chiaro e semplice con costrutti schematici ed intuitivi. Certo poi, alcuni dia-loghi dovevano assolutamente avere una forma strana e divertente...

Ogni volta che si narrano personaggi ne-gativi è dietro l’angolo la polemica sulla “umanizzazione” del delinquente. Hai sentito questo rischio? Credi di averlo dribblato?Di Contrabbando è un libro scritto nel pre-sente. La storia parte negli anni novanta ma in realtà è la nostra epoca che si specchia in un recente passato del quale probabilmen-te conserviamo ancora gli abiti, gli utensili ma soprattutto le abitudini. Credo nelle evoluzioni solo quando le vivo realmente ed ultimamente ne ho viste ben poche. Il

mio libro punta dritto a quell’architettura di atteggiamenti che negli ultimi vent’anni abbiamo costruito intorno alle nostre vite, ormai trasformate in profili lontanissimi dalla realtà. Eravamo bambini euforici al passaggio delle colonne di Alfa Romeo ca-riche di sigarette mentre gli adulti compra-vano volentieri le sigarette agli angoli delle strade. Negli anni sono un po’ cambiate le forme di questa complicità, ma la sostanza rimane la stessa. A questo punto mi chiedo realmente chi siano i personaggi negativi in questa storia. Nel finale - che non sveliamo per non fare un fastidioso spoiler - hai voluto dare un segno di speranza e di cambiamento. Una sorta di riscatto per il protagonista… A prima vista può sembrare un riscatto, ma in realtà è un chiaro segnale di come il pre-sente sia figlio dei recenti giorni passati. Non si può comprendere la cronaca se non si conosce la storia. Da buon agnostico non ho mai creduto nella redenzione. Giù da noi ogni cosa prende la forma di un segnale di speranza, ma il cambiamento ha una misura che, per il momento, non fa testo. Un tempo bastava non credere alle parole, adesso sarà meglio diffidare anche dei fatti

Spesso in racconti e romanzi come il tuo la città diventa un elemento fondamentale, quasi centrale, non solo scenario ma an-che protagonista. Come mai la tua scelta, invece, di lasciarla un po’ sullo sfondo? Brindisi merita di diventare la scenario di racconti migliori che non siano solo legati alla malavita o all’inquinamento. Ci sto già lavorando, questa volta con la macchina da presa. In ogni caso la mia città è molto pre-sente e riconoscibile nel racconto, ma ho preferito dare la giusta importanza all’am-bientazione un po’ per alimentare la curio-sità dei lettori ma anche per non pagare un tributo volontario e scontato al luogo nel quale sono nato e cresciuto. La mia è una sorta di idea universale, perché la periferia è l’unico orizzonte in grado di farmi emozio-nare davvero. (pila)

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Cuochi, contadini, pescatori, distributori, reti solidali, migranti, consumatori, ristoranti, osterie, spazi occupati: “Kitchen social club” a cura di Daniele De Michele, alias Donpa-sta, disegna e racconta una rete ampia di resistenze legate al mondo dell’enogastro-nomia. Da oltre dieci anni l’economista, dj, “gastrofilosofo” otrantino, nelle sue peregri-nazioni geografiche, artistiche e culinarie, si occupa di cibo. Nel senso più ampio del ter-mine. Partito con “Food Sound System”, negli ultimi anni Daniele ha avviato un censimento delle cucine regionali, delle storie che ruota-no attorno ad un tema che rischia di essere eccessivamente inflazionato. La Mondadori l’ha voluto per riscrivere e aggiornare l’Artusi (la bibbia della cucina del ‘900) e con la colla-borazione di Treccani e Corriere della Sera ha fatto un lungo viaggio confluito in un docu-mentario. «Il cibo è morto. Almeno nell’acce-zione che si è tenuta per buona per millenni e sino al ‘900: quella nozione di cibo non esi-ste più», sottolinea nell’introduzione al libro pubblicato da Altreconomie. «Non esiste più il cibo di sussistenza, non esiste il rapporto simbiotico uomo-natura e non esiste più il patrimonio culinario popolare all’origine del-

la cucina italiana, intesa come sapere diffuso.Esiste un cibo che si contrappone al primo e precedente figlio del capitalismo, delle mode e delle regole. Scompaiono nei fatti i contadini e i pescatori sostituiti da “produt-tori” che forniscono la Grande Distribuzione Organizzata. Il mutamento è sostanziale e fa paura. Perché la mutazione di un modello in-dustriale può essere socialmente iniqua, ma non incide direttamente sul corpo umano. La trasformazione del cibo ha viceversa degli ef-fetti istantanei sulla nostra percezione, sulla nostra salute, sulle nostre economie, nel suo passaggio da prodotto umano - per la propria famiglia e comunità - a prodotto protagoni-sta di un business in cui viene disintegrato completamente il rapporto tra produttore e consumatore». Il libro ospita un primo, «in-completo e approssimativo censimento di progetti e persone che rispondessero a que-sto intimo quesito: sei quel che produci? Sei quel che mangi? E infine, chi sei, dunque?». Un libro che - girando l’Italia - cerca di spie-gare che mangiar e dar da mangiar bene è «un atto di militanza quotidiana, con pochi giri di parole, fatta di gesti spicci e di tanta integrità».

KITCHEN SOCIAL CLUBDonpasta cura una raccolta che mette insieme cuori, cibo e cucine sociali, popolari e “resistenti”

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Pubblicato in formato digita-le nei primi giorni di marzo è rimasto per un mese tra i primi dieci posti nella top 100 tra gli ebook più scaricati da Amazon. “Se gli uomini sa-pessero” è il nuovo racconto di Elisabetta Liguori. “Si può scrivere un romanzo fatto solo di desiderio?”. Se lo chie-de Nina, una delle protagoni-ste di questa storia, con Por-zia, la scrittrice impegnata in cerca del romanzo definitivo, Anna - appassionata di moda - e Emma, “la lieve”. Amiche creative e non ancora gra-tificate, che attraverso loro legame metteranno da parte le difficoltà del presente e gli screzi del passato, per creare una start-up di beachwear e abbigliamento artigianale, un laboratorio che strizza lʼocc-hio alla sartoria delle “nonne” ma desidera calcare le pas-serelle di Milano. Elisabetta Liguori fa muovere questo “quartetto dʼuteri” sullo sce-nario di una città dagli spazi angusti, troppo sottili per i desideri di queste comuni amiche, i cui giorni sono per-corsi da una corrente, una elettricità che tiene vivo il loro desiderio di realizzarsi.

ELISABETTA LIGUORISe gli uomini sapesseroMusiCaos Editore (Ebook)

Da alcuni anni incrocio a presentazioni, incontri, ap-puntamenti politici, Gianni Ferraris, un gentile uomo dall’accento chiaramente non locale. Piemontese, antiquario di professione, si è trasferito nel Salento da un po’ di tempo. Commenta sui social, scrive articoli su periodici locali ma nel suo libro “Elio” racconta una storia a me sconosciuta che ha segnato la sua vita. La storia del fratello che, dopo la militanza in Lotta Conti-nua, aveva deciso di lasciare l’Italia per trasferirsi in Sud America. Brasile, Cile, Boli-via, Argentina, Nicaragua, El Salvador. Una scelta politica e non turistica per andare a “spaccare in pezzi il mon-do per vedere come è fatto dentro e cambiare le parti marce”. Ferraris, attraverso ricordi sparsi nel corso de-gli anni, racconta il suo rap-porto con il fratello, morto dall’altra parte dell’Oceano. Restano di lui le azioni, i ri-cordi, le lettere (alcune mai spedite) e i documenti tor-nati in Italia nel 1992 con un piccolo biglietto di accompa-gnamento.

GIANNI FERRARISElioSpagine

Abbandonata la carriera di magistrato, archiviata la pa-gina politica (con una espe-rienza in Parlamento), at-tualmente presidente della Fondazione che gestisce il Petruzzelli di Bari, Gianrico Carofiglio prosegue il suo lungo percorso nella scrit-tura tra romanzi, racconti e piccoli saggi che ruotano at-torno all’uso e all’abuso della parole. “Passeggeri Nottur-ni” contiene trenta racconti brevi (3 pagine) che racchiu-dono storie molto diverse. Drammi, riflessioni, ironia, ci-tazioni, comicità. Carofiglio si muove tra realtà e finzione, raccontando aneddoti che hanno come sfondo la nostra società, le piccole manie e i soprusi dei potenti e della classe politica (i “Pezzi Gros-si”), la sua esperienza come magistrato e come deputato. Un breve spaccato degli anni che viviamo attraverso le pic-cole storie di personaggi in-contrati casualmente. Il tutto con la solita scrittura secca e garbata di Carofiglio. Poche ore per un volume agile da consumare guardandosi in-torno alla ricerca di nuove storie.

GIANRICO CAROFIGLIOPasseggeri NotturniEinaudi

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Era il maggio 2002, le Torri Gemelle erano collassate da poco su loro stesse e in Ita-lia venne dato alle stampe un libro edito da Feltrinelli, dal titolo “Scrivere sul fronte occidentale”, che raccoglieva gli atti di un convegno tenutosi a Milano nel novembre 2001 dallo stesso titolo. A quel convegno parteciparono molti scrittori di punta della scena letteraria italiana contemporanea, tra cui Antonio Moresco, Giuseppe Genna, Giulio Mozzi, Christian Raimo, Paolo Nori e Tiziano Scarpa. Nessun pugliese, tra questi. Eppure, se si vuole avere una seppur parziale idea di ciò che hanno raccontato gli scrittori pugliesi (in questa sede mi limito a parlare di narra-tori che hanno raccontato storie ambientate in Puglia) in questo inizio di millennio, è pro-prio da lì che è necessario partire. Il tragico attentato newyorkese ebbe delle ricadute sull’immaginario collettivo globale, italiano incluso, tanto da condurre ad una riflessione i nostri migliori autori. In particolare, l’ele-mento comune che sorse da quello scambio di idee fu che, dopo anni di postmodernismo, di sperimentazione di linguaggi, di “gioventù cannibali” e di disimpegno, forse era giunto il momento che gli scrittori si sporcassero le mani intingendole nella merda della realtà. E in questi tre lustri che ci separano da quel momento i nostri autori pugliesi di merda

tanta ne hanno portata a galla, raccontan-do, attraverso gli strumenti della narrativa, le contraddizioni di questa nostra terra così sgradita da doverla amare. Pensate ancora a Nicola Dezio e al suo “Ni-cola Rubino è entrato in fabbrica” (Feltrinelli, 2004), romanzo in cui l’autore di Altamura racconta la vita alienante di un trentenne operaio, il Nicola del titolo, assunto con un contratto di formazione di sei mesi. Un viag-gio tra ritmi di produzione pazzeschi, sotto il ricatto continuo del licenziamento, le vessa-zioni dei capi, le incomprensioni dei colleghi. O pensate ai romanzi di Cosimo Argentina, tarantino doc, da oltre vent’anni trapiantato in Lombardia. Pensate, in particolare, a “Ma-schio adulto solitario” (Manni, 2008), al suo Danilo Colombia, che a 18 anni sa già che la sua vita sarà una discesa agli inferi, una scon-fitta sotto ogni punto di vista (famiglia, lavo-ro, amore), tutto condito da una voragine au-todistruttiva che conduce ad una lacerante perdita di sé, in una Taranto che trova nel suo protagonista vinto e dannato una perfetta rappresentazione del proprio smarrimento: «Mi voltai verso la città e in prospettiva vidi quest’ammasso di cemento e acqua e im-mondizia e mi venne voglia di scomparire, ma in quello stesso istante mi resi conto che era proprio là che volevo vivere».

FOTOGRAFIE IN PROSA DAL NOSTRO DRAMMATICO REALE Breve viaggio nella narrativa pugliese del nuovo millennio

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O cercate ancora tra le pagine di Omar Di Monopoli e della sua trilogia western puglie-se, “Uomini e cani” (Isbn, 2007), “Ferro e fuo-co” (Isbn, 2008) e “La legge di Fonzie” (Isbn, 2010), in cui si viene trasportati nell’inferno di un territorio dove domina l’idea fissa che niente cambia, o se cambia peggiora: «Stat-tene tu, coi tuoi sogni, bellu mia, gli blaterò la donna da dietro, continuando a parlare con tono severo sino a quando il figlio non scom-parve tra le mura. Prima ti rassegni a capire ca non ci stanno altri posti che questo, per te, meglio sarà per tutti…». Disillusione, pessimismo, crisi esistenziali, tormenti interiori, famiglie alla deriva, temi presenti anche nei due romanzi “baresi” di Nicola Lagoia, “Riportando tutto a casa” (Ei-naudi, 2009) e “La ferocia” (Einaudi, 2014). Che si parli delle dinamiche relazionali della periferia o delle inquietudini esplose in seno ad una facoltosa famiglia, Lagioia zooma con il piglio della sua prosa mai doma sui dettagli di corpi e menti in crisi, perdute, asfissiate.A voler irrobustire questa parziale lista, me-ritevole è “La città verticale” (Lupo editore, 2015) di Osvaldo Piliego, un romanzo che racconta una città, Lecce, la sua periferia, un suo condominio, la sua gente. Un testo che ci proietta senza fronzoli nel dramma di vite umane fatte di nulla, esistenze senza futuro che crollano nel centro di un presente ciclico e pressurizzato.Una lista ristretta, a cui è lecito aggiungere autori come Mario Desiati, Carlo D’Amicis, Alessandro Leogrande, Andrea Piva, Livio Romano, Marco Montanaro, Elisabetta Li-guori, Francesca Malerba, che attraverso l’u-tilizzo del loro estro narrativo - con tecniche e voci differenti - hanno dato corpo a storie ambientate nella nostra terra in cui domina una sorta di darwinismo sociale, un senso di smarrimento dei protagonisti impegnati in una lotta per la sopravvivenza che molto spesso li vede soccombere, una visione pes-simistica della condizione esistenziale che fa da controcanto all’immagine spacciataci del-la “Puglia Migliore” di vendoliana memoria. Se si vuole avere una visione chiara di cosa sia stato negli ultimi anni e cosa sia oggi vivere in Puglia ancora una volta è alla letteratura che bisogna guardare.Rossano Astremo

Gianrico Carofiglio, Diego De Silva, Edoar-do Nesi, Fabio Genovesi, Mauro Ermanno Giovanardi, Federica Bosco, Giovanni Im-pastato, Tiziana Sgrena, Gabriella Geni-si, Walter Veltroni sono solo alcuni degli ospiti della seconda ricchissima edizione di “Armonia. Narrazioni in terra d’Otranto”. La rassegna - organizzata dall’associazione Diotimart e dalla Libreria Idrusa con la di-rezione artistica di Mario Desiati - dal 20 al 29 maggio coinvolgerà il centro di Tricase, in provincia di Lecce. Dopo la buona rispo-sta del pubblico della prima edizione - che ospitò anche Roberto Saviano - si ripartirà con una succosa anteprima. Domenica 15 maggio spazio a Jeffery Deaver - uno degli scrittori di thriller più importanti a livello internazionale - che presenterà in ante-prima nazionale il suo ultimo romanzo “Il Bacio d’Acciaio” affiancato dallo scrittore Francesco Caringella. Venerdì 20 alle 19.30 il via alla vera e propria rassegna sarà inve-ce dato da Walter Veltroni. L’ex sindaco di Roma presenterà in Piazza Codacci Pisa-nelli il suo ultimo romanzo “Ciao” (Rizzoli). Protagonista della chiusura sarà, invece, Gianrico Carofiglio con il suo recente “Pas-seggeri Notturni”. In programma anche at-tività per i lettori più piccoli e una mostra dedicata a Maria Corti, ospitata da Palazzo Girolamo Comi a Lucugnano, frazione di Tricase. Info 0833781747 facebook.com/armoniafestival

A TRICASE TORNA “ARMONIA. NARRAZIONI IN TERRA D’OTRANTO”

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COOLIBRì - altre letture a cura di DARIO GOFFREDO

Un libro duro, profondo, che scava nel dolore e nelle sue conseguenze sul corpo e sulla mente di una donna. Un ro-manzo che non fa sconti. Si parla di amore tradito, di pro-fondo dolore e delle aberrazioni a cui un essere umano può arrivare quando si trasforma in un animale ferito, quando l’amore diventa ossessione, quando ci si ammala nel corpo e nella mente, e si attraversa l’incubo, per poi venirne fuori e rinascere a vita nuova, non necessariamente migliore o peg-giore della precedente, sicuramente diversa.

ELENA STANCANELLILa femmina nudaLa nave di Teseo

Un altro titolo della casa editrice fondata da Umberto Eco ed Elisabbetta Sgarbi insieme ad altri transfughi di lusso da Bompiani. Nel libro, che riprende uno dei romanzi culto degli anni ’90 a vent’anni dalla sua uscita saranno presenti i contributi di Nicolò Ammaniti, Nanni Balestrini, Giuseppe Culicchia, Raul Montanari, Carmen Pellegrino e Gilda Polica-stro. Sicuramente l’attesa sarà premiata.

ALDO NOvEAnteprima mondiale. Woobinda 2016La nave di Teseo

Dopo 25 anni arriva finalmente in Italia il primo romanzo di Don Winslow, uno degli imperatori indiscussi del noir oltreoceano. La storia si svolge in un milieu che ci piace senz’altro: la Londra degli anni ’70. Neal Carey è un ragazzo di strada del West Side di New York affiliato da una agenzia “investigativa” del New England, gli Amici di Famiglia. La figlia adolescente e ribelle di un potente senatore è sparita a Londra e Neal ha l’incarico di riportarla a casa. Per riuscirci dovrà infiltrarsi nella comunità punk della capitale inglese, tra alcool, droga e musica dei Clash.

DON wINSLOwLondon UndergroundEinaudi

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Dramma e thriller, amore e spionaggio web, squat e anar-chia. Questi sono solo alcuni dei temi che tratta Franzen nel suo nuovo romanzo, La storia è quella di Purity Tyler, detta Pip, che non conosce la sua vera identità non sa chi è il padre. Pip vive in una casa occupata a Oakland, frequen-tata da un gruppo di anarchici. Ed è proprio lì che incontra Andreas Wolf, un rivale di Julian Assange. Pip parte per la Bolivia, con la speranza di poter usare la tecnologia degli hacker per svelare il segreto dell’identità di suo padre.

jONAThAN FRANZENPurityEinaudi

Ha senso parlare di poesia nel 2016? Ha senso scriverla, legger-la? La mia risposta è sì, decisamente sì. La poesia oggi è l’unica e l’ultima forma di resistenza della mente. È il modo in cui di-mostro ogni giorno a me stesso di essere un essere umano pen-sante. Cesare Viviani è senza dubbio uno dei più grandi poesti contremporanei italiani e in questa ultima raccolta sancisce una rinnovata fiducia nella poesia e, sempre di più, nella voce uma-na, luminosa e fragile; e anche nella percezione di ciò che dura più dell’uomo, purché si proceda col necessario rispetto.

CESARE vIvIANIOsare direEinaudi

Il cibo e le storie vanno da sempre a braccetto, nella tradi-zione italiana e nella mia testa. Sono due passioni alle qua-li se rinuncio vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Slow Food ha lanciato la sua Piccola biblioteca di cucina letteraria per la quale scrittori, poeti e accademici italiani usano la loro penna per celebrare la nostra cucina. Questi autori onorano un piatto con una narrazione, un resoconto, un aneddoto, una storia o novella, o anche una manciata di versi. Buon appettito, pardon, buona lettura.

GIUSEPPE CULICChIAAgnolotti alla piemonteseSlow food Editore

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CINEMA -TEATRO

Foto di Giulio Oska

Danzatrice, coreografa, anima della Com-pagnia Tarantarte – Nuova Danza Popolare, la salentina Maristella Martella sarà tra le protagoniste dello spettacolo inaugurale della ventiduesima edizione del “Festival de Fès des musiques sacrées du monde” in Ma-rocco. Il 6 maggio rappresenterà, infatti, la Puglia con la cantante Cinzia Marzo dopo al-cuni giorni di residenza in compagnia del di-rettore del festival e regista Alain Weber. Il 9 maggio Maristella accompagnerà con le sue danze il concerto dell’Officina Zoè mentre il 24 maggio proporrà a Il Cairo, sempre con lo storico gruppo di tradizione, e affiancata dalle altre danzatrici di Tarantarte, lo spet-tacolo “Passo a Sud” all’interno dello “Spring Programme 2016” del Falaki Theatre anche grazie al sostegno di Puglia Sounds Export.

“Passo a Sud” è uno spettacolo che vive dell’incontro tra la danza della tua compa-gnia e la musica dell’Officina Zoè. Credo che la vostra conoscenza personale e artistica sia lunga e duratura. Ma come nasce l’idea di questo nuovo progetto teatrale?Avevamo bisogno di indagare il mistero del Tarantismo e della transe, di raccontarlo at-traverso le nostre danze corali e personali. La musica degli Officina Zoè è sempre stata

per noi la strada giusta, per fare un viaggio al centro della terra, al centro della nostra anima. Ciò che ci unisce a loro, oltre ad una grande amicizia (Cinzia Marzo è di Corsano e condividiamo lo stesso mare e le stesse cam-pagne) è il modo di costruire i pezzi, le pause e i tempi, estremamente teatrali, nell’attesa di qualcosa che accadrà, forse. Il ritmo cresce lentamente e ti sorprende, tanto da coglierti impreparato, quando già ti ritrovi dentro e non puoi fare a meno di danzare.

Da quasi venti anni sei un punto di riferimen-to per la danza “popolare”. Sei partita da Bologna con la tua scuola e adesso con Ta-rantarte ti muovi in tutta Italia e all’estero. Corsi, spettacoli, collaborazioni varie. Cosa spinge secondo te tanti appassionati ad ap-prendere la danza che ruota attorno alla piz-zica e ai ritmi popolari in genere?La danza popolare è una danza aperta a tutti, agli uomini e alle donne, ai danzatori esperti e ai neofiti, agli anziani e ai bambini. Sono tanti i motivi che spingono gli appas-sionati ad avvicinarsi a queste danze, qua-si sempre sono personali. La ricerca delle proprie radici, la necessità di liberarsi dallo stress metropolitano, di trovare una danza semplice e spontanea, che nasce in una ter-

MARISTELLA MARTELLALa danza popolare in viaggio nel Mediterraneo

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ROra poi non così lontana, sono alcune delle motivazioni che riempiono i corsi e i labo-ratori soprattutto nelle città, dove in fondo è nato il movimento di riproposta della mu-sica e della danza popolare. Nei laboratori di danza che tengo a Bologna, a Milano, a Rovereto, a Roma, a Parigi la richiesta è so-prattutto quella di danzare la Pizzica Pizzica. Probabilmente è sentita dal pubblico e dagli appassionati come una danza libera, anche se in realtà ha dei codici specifici che vanno rispettati. Il legame, l’ambiguità e la vicinan-za al Tarantismo affascinano e attraggono gli appassionati, soprattutto le donne, che trovano in questa danza una grande possibi-lità di espressione e di libertà. Per evitare lo stravolgimento dei codici stessi e degli stili, ai miei allievi dico sempre che bisogna dan-zarla con passi piccoli e contenuti, con piccoli salti che sollevano il corpo ritmicamente da terra. La Pizzica-pizzica è per me una danza di resistenza, nell’eseguirla è importante resistere alla stanchezza e alla tentazione di esagerare. Il suo segreto e la sua bellezza sono nell’oscillazione continua del corpo che segue il ritmo dei sonagli, un movimento in-cessante che è vita.

La codificazione coreutica della danza della pizzica è abbastanza recente. Come nasce la tua idea di danza? La codificazione della pizzica salentina non è mai avvenuta ufficialmente. Nel testo “Il ritmo meridiano” di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Pino Gala scrive i nomi dei passi e le possibili dinamiche coreutiche. I danzatori di nuova generazione conoscono i passi di “neopizzica”, quelli che si vedono sui palchi dei concerti, eseguiti spesso con salti molto grandi, con foulard svolazzanti e gonne lunghe. Si è creata una nuova danza, piena di cliché, che poco ha a che fare con la tradizione. I passi più tradizionali sono stati individuati da alcuni ricercatori, anche se la danza ha subìto un periodo di oblio più lungo della musica, per cui ci manca ancora qualche tassello del mosaico. Ciò che mi ha sempre attratto è il rito, che si compie anche all’in-terno della ronda durante le feste popolari. I nostri primi spettacoli sono nati grazie alle residenze di danza. Amo danzare e far dan-

zare in luoghi non convenzionali, antichi e a volte abbandonati, come vecchie masserie, aie, chiostri, anfiteatri, siti archeologici, atti-vando un’interazione tra luogo, performan-ce e pubblico. Dal 2004 fino alla primavera araba sono sempre andata in Maghreb, at-traverso progetti di scambio internazionale con la Francia, il Marocco e la Tunisia e ho avuto modo di conoscere e partecipare ai riti familiari di danza e musica. Proprio par-tecipando ad un matrimonio tradizionale, le donne con gesti, canti e preghiere mi hanno iniziato al rito e alla vita. Un altro momento che ricordo con grande emozione è stato quando ho danzato nella Valle delle Pirami-di, ai piedi della Sfinge, durante il concerto di Eugenio Bennato. Le donne de Il Cairo hanno riconosciuto la mia danza, perché molto simi-le a quella che eseguono nel rituale Zar.

Cos’è per te la danza? E cosa rappresenta la tradizione?Come tutte le arti la danza trasmette e ri-specchia i gusti, lo spirito, i conflitti e le speranze del proprio tempo. La danza come forma artistica ed espressione collettiva tra-manda valori culturali e sociali. Da sempre accompagna la celebrazione degli eventi im-portanti della vita di una comunità: nascite, matrimoni, eventi naturali. Non guardiamo alla tradizione come a qualcosa di fisso ed immutabile ma come ad un linguaggio da far rivivere con le contraddizioni e le dinamiche di oggi, attraverso una visione critica. Il lin-guaggio coreutico e teatrale contempora-neo offre diverse possibilità di lettura e di interpretazione dei codici tradizionali e delle loro trasformazioni. La contemporaneità si riappropria della tradizione dandole nuovi codici, la rivisita e crea un nuovo linguaggio. Abbiamo definito la nostra danza, Nuova Danza Popolare. Il nostro obiettivo, come Compagnia Tarantar-te, è quello di tornare all’essenzialità della danza e del gesto. Non ci interessa portare in scena il virtuosismo tecnico, la comples-sità coreografica, ma l’espressione rituale teatralizzata di questa antiche danze. Rivita-lizzare, riattualizzare, rielaborare l’universo coreutico che appartiene alla tradizione sa-lentina e mediterranea. (pila)

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Cancelli che si aprono e chiudono alle spal-le, chiavistelli da spostare, serrature da girare, porte blindate, chiavi assordanti che tintinnano incessantemente, rumo-re di ferraglia, passi che rimbombano nei lunghi corridoi. Che cosa ci viene in men-te? Un carcere. Ci sono rumori, che ascol-tiamo, che ci fanno paura, aprendo nella nostra mente finestre percettive legate alla nostra memoria sensoriale, facendoci riaffiorare immagini o luoghi inconfondibi-li, senza bisogno di guardarli attraverso gli occhi. Per esempio: silenzi grevi e insoliti, come se nessuno fiatasse, voci impostate che recitano dei ruoli, grida improvvise e colpi di scena fragorosi, vite raccontate davanti alle luci dei proiettori, fruscii di abiti con movimenti a strascico, musiche invadenti, passi di legno. Che cosa ci viene in mente? Un teatro? No. Siamo sempre in un carcere. La Casa Circondariale di Borgo San Nicola di Lecce che è diventata sede di attività teatrali, grazie al progetto “Io ci provo”, portato avanti dalla regista Paola Leone nel Carcere di Lecce, diventato poi una vera e propria Compagnia Teatrale, vincendo un’importante scommessa con-tro l’accusa di violazione dei diritti umani nelle carceri con cui la Corte di Strasbur-go ha condannato l’Italia (Sentenza Tor-regiani). Una storia, questa, che ci viene raccontata, per immagini, nel documenta-

rio “Io ci provo – quando il teatro entra in carcere” dalla giornalista Lara Napoli e dal video-maker Alessandro Salvini, presen-tato recentemente al Festival del Cinema Europeo di Lecce. Nel documentario si affronta il concetto di teatro come espe-rienza totalizzante, come strumento per migliorare la qualità della vita e per acqui-sire maggiore consapevolezza di se stessi e della propria condizione esistenziale. Non si parla di rieducazione e riabilitazione dei detenuti, fine a se stessa in vista del reinserimento sociale, ma di rieducazione allo stato puro, a cui il detenuto si approc-cia fondamentalmente per ritrovare se stesso, sviluppando un senso critico della realtà. Come dice nel documentario uno degli attori, Gaetano (condannato in cel-la sino al 2025): «Io, prima del teatro, ero una persona impulsiva, ne ho combinate di tutti i colori, girando tutti gli istituti della Puglia. Sono stato fortunato. Ho trovato di fronte persone che mi hanno saputo capire e che hanno avuto fiducia in me, persone che hanno creduto in me. E questo non mi è mai successo nella mia vita». Il teatro apre la strada a percorsi di ricerca interiore che ognuno di noi dovrebbe fare, nessuno escluso, anche perché, nella vita, siamo tutti indistintamente uguali al cospetto della dea bendata: la fortuna! Jenne Marasco

IO CI PROVOQuando il teatro entra in carcere

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ARTE

LUIGI PRESICCE L’artista e performer - protagonista del documentario breve “Giuseppe che sapeva volare” - ci racconta il rapporto con la Puglia e i suoi progetti futuri

Ci sono pellicole bellissime che raccontano il connubio tra le arti figurative e il cinema e più in particolare ci sono quelle dedicate alle esperienze del documentario sull’arte. In Italia, tra i nomi che hanno fatto la storia dei documentari d’arte, non possiamo non citare due grandi storici dell’arte come Ro-berto Longhi e Carlo Ludovico Ragghianti che nel secondo dopoguerra rinnovarono completamente ed entrambi con le dovute differenze la riflessione teorica sul cinema, iniziata durante i primi anni trenta del nove-cento. Dall’arte al cinema e viceversa il pas-so è breve così, dopo il recente Festival del Cinema Europeo di Lecce che ha assegnato una menzione speciale per il documentario breve “Giuseppe che sapeva volare” di Lara Castrignanò (fotografia di Francesco G. Ra-ganato, regista Luca Cucci con la Produzione

Apulia Film Commission nell’ambito di Gene-rations), abbiamo incontrato Luigi Presicce che nel film, insieme ad Annalisa Macagni-no, rilegge in maniera intima e sentimentale un brano agiografico del santo dei voli. Luigi Presicce artista e performer, oggi tra i più importanti protagonisti nel mondo dell’arte contemporanea racconta il suo universo, la Puglia e le attuali sperimentazioni artisti-che. Per non perdere l’intervista integrale a Luigi Presicce fate un salto sul nostro sito.

Da cosa ti lasci affascinare e quale percor-so intraprendi prima di arrivare al proces-so performativo?Sono un analogista, il mio cervello accoppia le notizie che vagano indistinte nella men-te e che stanno li ferme in attesa di essere ripescate. Non è mai accaduto che mi sia

Foto Daniele Coricciati

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artemesso a scrivere qualcosa di punto in bianco

o con l’intenzione di farlo. Tutto quanto io abbia realizzato mi è stato suggerito in uno stato di dormiveglia o in condizioni analo-ghe, come per esempio la corsa, che utilizzo per immergermi in una forma meditativa. Di solito l’immagine che viene fuori è pres-soché definitiva, mi rimetto a studiare solo per verificare la fattibilità delle cose e per capire se la testa non mi stia facendo uno scherzo, ma neanche questo è mai accadu-to. Introduco notizie che hanno le più svaria-te origini e di tutti i campi del sapere. Non sono molto attratto dall’arte quanto lo sono dall’ornitologia, dai fiori, da un bel taglio di vestito o da un tweed. Se di arte bisogna parlare mi potete trovare in una chiesa, in un museo archeologico… L’arte contempo-ranea mi annoia peggio degli spettacoli con i delfini in cattività.

Come funziona la macchina organizzativa che precede i tuoi atti performativi?Dal momento in cui nasce la scrittura, tut-to si mette in moto per far si che nell’arco di mesi ogni persona che collabora con me sia in grado di realizzare quello che chie-do. Scelgo il luogo, determino il percorso che farà lo spettatore, il punto di vista che avrà della scena e l’uscita migliore per non intralciare chi attende. Seleziono gli attori in base alle esigenze specifiche di ogni sin-gola figura in scena e se non ho già avuto rapporti con questi in passato, cerco di allenarli all’immobilità. Contatto costumi-sta e attrezzista e con vari disegni cerco di spiegare in quale direzione bisogna anda-re, si scelgono le stoffe, i tagli, i materiali che spesso sono preziosi, anche se durano il tempo della performance e poi non ver-ranno mai più utilizzati né venduti. A questo punto nasce un fitto dialogo con chi foto-graferà e chi riprenderà la performance. Si stabilisce la scelta delle luci in fase di ripresa e con la presenza del pubblico, che sono due momenti differenti. Di solito lavoro sempre con le stesse persone, in modo da dover par-lare il meno possibile…non sono noto per il

dilungarmi e se posso evito di aggiungere rumore vocale che non sia estremamente indispensabile.

Secondo te chi sono gli artisti pugliesi più interessanti in questo periodo? La Puglia sta vivendo un momento di colo-nialismo intellettuale come pochi altri posti al mondo… parlare di genius loci sarebbe più giusto che andare a fare una ricerca su chi in Puglia si sta oggi occupando di arte in maniera davvero efficace. Chi è nato qui è scappato, chi è rimasto sogna un giorno di scappare e chi è scappato ed è ritornato è troppo impegnato a vivere di ricordi. Chi fa la differenza è sempre il neofita, che ar-riva con la sua ingenuità, il suo bagaglio culturale pieno anche di costumi da bagno e si lascia affascinare da quello che noi non vediamo più da secoli e che tutto il giorno ci si attorciglia addosso come il Rococò su una colonna tortile. Segnalo la nascita del-la Fondazione Lac o le Mon a San Cesario di Lecce che sarà certamente una nuova e in-coraggiante esperienza culturale in questo territorio.

Ultimante a cosa stai lavorando?Al momento sono uno scultore, mi affascina la possibilità di qualcosa che si contrappone drasticamente alla caducità della perfor-mance, la quale controllo abilmente e in ma-niera superba fino a che non entra in ballo la sua traduzione in video o fotografia per le quali mi devo affidare ad altri. Sto liberando una parte di me più metafisica che altrimen-ti non avrebbe sfogo in un tessuto di logicità a cui sottopongo il mio lavoro performativo.

Cosa consigli ad un giovane artista? Consiglierei di non andare a scuola come ho fatto io, ma alla fine anche io insegno in un’Accademia! C’è qualcosa che non torna in tutto questo, oppure torna così tanto che ha fatto il giro e ha ricominciato. Oppure si tratta solo di quell’incoerenza beniana che tanto siamo abituati a prendere sul serio…Giuseppe Amedeo Arnesano

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SIMONE FRANCOL’attore/performer e le sue pietre in “Aequilibrium”

“Aequilibrium”, la mostra di Simone Franco ospitata in aprile presso la “Galleria Fran-cesco Foresta” di Lecce, è stata l’occasione per avvicinare l’artista, attore e performer di lungo corso, e conoscere un importante risultato nel percorso che lo ha portato alla presentazione, in diversi luoghi dʼItalia, del-la “stone balancing art”, rendendo questa uno strumento capace di trasmettere istan-ze territoriali, sociali, politiche, e non solo estetiche. Date le relazioni che ha costruito negli ultimi anni a livello internazionale, con la rete dei “balancers” sparsi in tutto il globo (Canada, Israele, Stati Uniti e America Lati-na), Simone Franco è oggi un riferimento in questo campo espressivo.L’arte dello “stone balancing” si gioca sull’e-quilibrio delle pietre, che vengono disposte per creare di volta in volta composizioni e fi-gure che non rimandano necessariamente a un significato, e che trovano il loro senso nel fatto stesso di essere poste in bilico, l’una sull’altra, mantenute nella propria staticità dalla contrapposizione delle forze fisiche. A ciò si aggiunge un secondo passaggio, nel quale la forma scelta, non più casualmente, si lega al luogo che ospita le pietre. La no-vità introdotta da Simone Franco, fin dalle

prime performance in Puglia, è stata quella di scegliere “luoghi dʼemergenza” e preca-rietà dellʼequilibrio in cui operare, e quella di fare della stessa preparazione dello spa-zio, un gesto di comunicazione performativa anche musicale.Nella stanza di ingresso, come all’inizio de “Il Pendolo di Foucault” di Umberto Eco, è ospitato l’”Albero Sefirotico”, l’ideogramma dell’albero della vita della Cabala ebraica, simbolo tradizionalmente ricco di signifi-cati. «L̓ Albero Sefirotico”», ci dice Simone Franco «è qui per ricordare il legame con la terra, e lʼattuale situazione di pericolo in cui versano gli alberi salentini, e quindi la Vita. Le pietre seguono un percorso, come nella retorica classica, inventio, dispositio, elocu-tio, actio; sono frammenti di una composi-zione anche linguistica, poetica». Il livello in-feriore della Galleria Foresta, allestito come un antico ipogeo, ospita - appesi - quattro gruppi di dieci pietre ciascuno, disposte a triangolo seguendo la forma del “Tetraktys” pitagorico, è anche sul numero dieci che l’artista sta svolgendo un percorso di ricer-ca. Circondano queste pietre altri gruppi, raccolti e trasportati nella mostra da diversi luoghi della precarietà ambientale: Latroni-

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co, in Basilicata, dove un fiume è stato pro-sciugato per costruire un invaso idrico per rifornire di acqua la Puglia, San Basilio, sulla Costa Adriatica, a San Foca, possibile punto di approdo della TAP, Torre San Gennaro, adiacente alla centrale elettrica a carbone di Cerano. «Dopo aver compiuto un percor-so sulla cultura tradizionale, partendo da al-cune opere di Antonio Verri, mi sono messo in cerca dei “fabbricanti di armonie” presen-ti sul territorio, cercando chi coniugasse la tradizione dell’arte a quella della manualità, dell’operatività, del fare», continua l’artista. «Ho cercato i costruttori di idee e i costrut-tori di strumenti. Attraverso le pietre come linguaggio, ho scoperto un mondo, insieme, di arte e lavoro, ma anche un mondo ance-strale, si pensi ai siti megalitici, anche in rife-rimento a scrittori, come Furio Jesi, autore del bellissimo “Il linguaggio delle pietre”. In seguito la mia ricerca mi ha portato presso il “Centro Teosofico Steineriano” di Mon-te Verità, ad Ascona, dove ho avuto modo di consultare lʼarchivio storico di Armand Schulthess, e infine cʼè stato lʼincontro più straordinario, quello con il poeta Andrea Zanzotto, nella sua casa di Pieve di Soligo. Zanzotto ha legato la sua scrittura al paesag-gio e ai suoi segni, al territorio, proprio lui mi ha sollecitato un rapporto più stretto coi luoghi, tramite questa forma dʼarte. Le sue parole furono un invito alla ricerca e unʼes-

ortazione, vada a bilanciare le pietre, come lei dice, le pietre del Piave. Anche mutando, si è trattato per me di costruire proprio sulle macerie», prosegue. «La discontinuità è pro-prio con il teatro di convenzione, grazie al contributo di Marc Augé e del suo “Rovine e macerie”, dove scrive che “in questo nostro mondo violento le macerie non hanno più il tempo di diventare rovine”. Se il luogo tea-trale resta, resta solo dal punto di vista ar-chitettonico, come maceria, auspicando che non crolli ulteriormente. Si tratta per me di ripercorrere i sentieri di pietra, i geositi archeologici, condividendo la relazione con lʼambiente e con chi lo abita, testimoniando il passaggio di popolazioni che hanno rinun-ciato al nomadismo, per ritrovare in questi luoghi una stanzialità armonica e rispettosa. Obiettivo di queste mie ricerche è una “resi-denza diffusa” mondiale, di carattere inter-nazionale, insieme grazie anche allʼapporto di musicisti più dediti alla sperimentazione». “Aequilibrium” andrà avanti nei prossimi mesi. «Oltre al progetto di residenza diffu-sa di cui ti parlavo, sono stato già ospite, in Basilicata, di Arte Pollino, a Latronico, i rap-porti di collaborazione proseguono, anche in vista di Matera 2019, nella cui fase prepa-ratoria ho già curato diversi appuntamenti, e per cui ho già un nuovo progetto in fase di realizzazione», conclude.Luciano Pagano

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Negli anni Sessanta Antonio Massari (Lecce, 1932) comprende di dover accantonare la ricerca figurativa. Il suo lavoro “politico”, la grande Pietà comunista, i ritratti drammati-ci ispirati alle immagini tratte dai quotidiani e dai telegiornali che raccontavano il pre-sente – guerre e lotte rivoluzionarie – era quasi del tutto superato. O perlomeno lo avvertiva come superfluo, forse innocuo. Intende i limiti dell’immagine come modali-tà di analisi di una realtà sempre più incom-prensibile e frenetica e al contempo non riesce a dialogare con l’informale e le prime e integrate esperienze concettuali. Si sente

in qualche modo a margine, ma ribadisce a se stesso che l’arte è un mezzo primario di comunicazione irrinunciabile. D’altronde non poteva che essere così per chi, come lui, è cresciuto in una casa in cui l’arte era al centro della vita. Sceglie pertanto una terza via dopo aver rammentato l’effetto straniante di una macchia di benzina in una pozza d’acqua, ricordo infantile che emerge con prepotenza nel suo immaginario per lunghi anni di ricerche e tentativi. Compren-dendo che doveva esserci una modalità per riprodurre quel semplice fenomeno di stra-niamento tra materie liquide, effettua una

ANTONIO MASSARIIl “meccanico delle acque”

DIARIO CRITICO a cura di LORENZO MADARO

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lunga serie di prove che però lo deludono, fino a quando non verifica l’effetto dell’in-chiostro galleggiante su un foglio bianco. La vasca da bagno diventa così il campo d’a-zione primario di un’indagine che si muove su un doppio binario: da un lato un lento e inesorabile studio tecnico, che preventi-va azioni e reazioni degli inchiostri e delle zatterine galleggianti di carta; dall’altro il ruolo, comprimario, di quello che egli de-finisce “il caso assoluto”, che interviene modificando la gestazione dell’opera. Na-scono le Carte assorbenti, che visivamente potrebbero rientrare nell’astrazione, anche se Massari rifiuta con convinzione tale con-nessione. Ma probabilmente bisognerebbe rintracciare un aggancio con una delle visio-ni d’avanguardia della prima metà del No-vecento – per l’aspetto processuale legato alla loro realizzazione e gestazione –, un automatismo psichico di radice Surrealista. Sull’imprescindibile importanza del caso nell’arte contemporanea, Maurizio Calvesi ha suggerito una riflessione che converrà riproporre: «Il casuale si contrappone all’as-soluto, generando una contraddizione in termini nella condizione contemporanea dell’opera d’arte che, se non per intima struttura per convenzione culturale, tende all’assoluto» (Avanguardia di massa, Feltri-nelli 1978). Così anche per Massari perma-ne tale contrapposizione, che si sviluppa, procedendo per intuizioni e sperimentazio-ni, in diverse tipologie di Carte assorbenti, in bianco e nero o a colori, fino all’epilogo virtuosistico de Le carte di Mozart, quando la tecnica ha oltrepassato il senso stesso dell’operazione e Massari ha deciso – sia-mo ormai nei Novanta – di voltare pagina rispetto alla sua invenzione che indusse Pierre Restany a ribattezzarlo “meccanico delle acque”. Nascono così i dipinti figura-tivi della nuova produzione, un album dei ricordi, dove Carmelo Bene, Edoardo De Candia, Mario Marti, Salvador Allende, i propri genitori ed altri ritratti compongono una genealogia di eroi domestici, da omag-giare e ricordare con gratitudine e rispetto.

In foto Antonio Massari e Pierre Restany nel-la casa-studio di Massari a Milano. Anni Set-tanta. Courtesy l’artista

Mostre, talk, workshop e tanto altro: merita attenzione l’attività di Lo.Ft, spazio esposi-tivo nato da qualche mese a Lecce con una vocazione specifica, la fotografia contempo-ranea. È uno spazio dinamico con un’attivi-tà frenetica e di ampio respiro, che guarda altrove senza il rischio di cadere nell’osses-sione provinciale dell’esterofilia o dell’anti territorio. Ma è anche un luogo nato dall’u-nione felice di diverse professionalità: Fran-cesca Fiorella e Alice Caracciolo, entrambe fotografe e rispettivamente direttrice e re-sponsabile editoriale, Sergio De Riccardis e Roberta Fuorvia, quest’ultima con un ruolo curatoriale. Il loro spazio di via Simini, non lontano da piazza Ariosto, è un laboratorio diviso in due ambienti, da un lato mostre, dall’altro ufficio e bookshop-biblioteca. Oltre alle mostre ordinate fino a questo momento, in particolare quella di Massimo Mastrorillo, va segnalata l’attività didattica curata insieme ad Andrea Laudisa, sofistica-ta e pregnante. L.M.

A LECCE LA FOTOGRAFIA è DI CASA NEL NUOVO LO.FT

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FOOD SOUND SYSTEM Donpasta

Matilde Davoli è una donna dalle tante vite. Ha una esperienza decennale e una versatilità innata, è una veterana della scena musicale leccese eppure se la incontri, se le parli e se ascolti la sua musica ha la vitalità di una ventenne. Il suo ultimo disco è stato un trampolino di lancio per una miriade di collabo-razioni con dj e producer di caratura internazionale e per un tour nei più im-portanti festival europei. Dopo i primi lavori con gli Studio Davoli, ispirati ai suoni vintage, l’esperien-za dei Girl With The Gun, con un suono onirico e psichedelico, il suo ultimo lavoro solista “I’m Calling You From My Dreams” ha una impronta più elettro-nica. «Io mi abbinerei a un piatto con le patate essen-do la patata uno dei miei cibi preferiti in assoluto, quindi facciamo che sono un purè», attacca Matilde. «I Girl With The Gun li as-socio a qualcosa di un po’ più serio, ma non troppo, tipo i tortellini in brodo, mentre gli Studiodavoli sono sicuramente una torta pasticciotto». Credo che essere rocker per una donna sia molto bello. Mi

pare un atto meraviglioso e liberatorio. «Credo che sia liberatorio per gli uo-mini tanto quanto per le donne, sinceramente non mi reputo una rocker, ma sicuramente fare musica è una cosa che ti rende ases-suato, libero di esprimerti, libero di sfogarti, libero di pensare non solo con la mente ma anche con il cuore, insomma ti rende libero dentro». L’ultimo disco è nato anche grazie ad una campagna di crow-dfunding. «Quando ho deciso di fare il crowdfun-ding per finanziare il disco ho semplicemente cercato di muovermi con estrema cautela e di non forzare la mano con nessuno. Volevo che la donazione fosse as-solutamente spontanea e così infatti è stato. È stata una grandissima soddisfa-zione farcela, mi sono sen-tita stimata che oggi come oggi è la ricompensa più grande che si possa rice-vere, secondo me. Essere artisti non è semplice, ma non è che non è semplice oggi, secondo me non lo è mai stato», prosegue.Matilde è una “migrante” e le cose vanno molto bene. «Credo che sia un caso. Non penso che il

disco sia andato bene solo perché vivo all’estero. Sicuramente fare qualco-sa al di fuori dei confini nazionali aiuta, magari ad avere una maggiore at-tenzione da parte dei tuoi connazionali, ma credo che in questo caso questo fattore abbia contato veramente poco. Io sono dell’opinione che non im-porta dove sei, dove ti tro-vi ma importa quello che fai e come lo fai. Siamo noi a rendere speciali i luoghi e le cose, non viceversa». Concludiamo con i tre musicisti amati e con tre ricette associate. «Nomino solo band o musicisti an-cora attivi. Parto dal mio gruppo preferito i Broken Social Scene che secondo me potrebbero essere una perfetta pasta al forno che ti mangi d’estate per esempio quando torni dal mare. Continuerei con i Grizzly Bear che sono una buonissima insalata di lenticchie, gamberetti e prezzemolo, un sapore de-ciso, fresco e molto indie e concluderei con Feist che secondo me è una crema con le fragole spezzettate dentro, un dolce leggero non troppo stucchevole, delicato e goloso».

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MATILDE, IL CROWDFUNDINGE IL PURè DI PATATE

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Sono solito assumermi le mie responsabilità (e così sarà anche questa volta) ma, devo dire, in questo caso, un bel po’ di sollecita-zioni le ho avute. “Devi far-lo!” - dicevano - “non puoi non parlarne!” - aggiunge-vano (tanto mica aspettano loro sotto casa). E allora, sì, lo farò, tocca a voi... cari i miei “fotografi” (anzi, “photographer” - se no non vi sentite paraculi!). Allora, da dove partire? Forse da... maledetto Instagram e strafottuto Retrica? Sì, anche, perché queste app non hanno fatto altro che accelerare il processo dege-nerativo: tutti fotografi son diventati! Ci sono più cam-panili sotto effetto filtro sui social che nei desideri della Santa Inquisizione. E il mare? Quanto è bello fotografare il mare? Strano, sembra che nessuno si fosse accorto della sua esi-stenza dai quaranta giorni di pioggia dei tempi di Noè. Ma qui siamo sul puro di-lettantismo, i veri fotografi sono altri. E noi vi vedia-mo, eh? Ah, se vi vediamo! Come novelli frati cercatori

vi osserviamo mentre vi aggirate per i vicoli bui e sacri della città con occhio umido e commosso. Ma non siete mica soli, e no. Vi accompagnano le vostre fedeli macchine fotografi-che... enormi e costosissime macchine fotografiche. Eccovi con le vostre Nikon 5D o – meglio – DF. Oppure, come mi ha detto qualcu-no: “Praticamente dire di avere la Canon 5D Mark III ti rende fotografo, dire di avere la 1D X Mark II ti rende un hipster arricchito del cazzo e annoiato dalla vita, sempre che tu non sia Mapplethorpe versione 2.0” (Lìder, non potevo non citarti). Vogliamo aggiun-gere altro? Ma sì, dai. E vogliamo usare la parola “vintage”? Sì, sì! (che poi, sta per “cosa vecchia”, diciamocelo). Quindi, se vogliamo essere vintage, à la page, o qualche altro termine straniero sparato a minchia, non possiamo tutti non avere una meravigliosa mirrorless! (che, in tutta sincerità, non so cosa cazzo sia e nemmeno come ho fatto a vivere senza fino ad

adesso). Che poi, le sapeste almeno usare. Io lo so che, per rendere ancora più orgasmatico il momento dello scatto, vi vedete tra di voi, segretamente come una setta medioevale, per declamarvi reciprocamente le migliaia di pagine... del manuale d’uso. Ma questo non vi basta, se no non sareste artisti. Ed ecco che, per esempio, vecchi fondi di bottiglia posti in faccia agli obiettivi (che devono esse-re belli grossi, eh?) modifi-cano immagini già brutte di loro. Anche qui, solo metodi naturali, mica si fa post-pro-duzione sulle foto, son belle così perché l’arte è istinto. E istintivamente vorrei che vi rendeste conto di una cosa: siete tanti... troppi! In que-sta città sembra che ci siano solo avvocati e fotografi (al-cuni sono anche entrambi, a completare la disgrazia) e a tutti voi, così come state, vorrei che vi giunga il mio più caro e antico dagher-rotipo a immortalare un sincero e sempre vivido... MavaffanCOOL!

VAFFANCOOL Daniele De Luca

SIETE TUTTI FOTOGRAFI O AVVOCATI.O ENTRAMBE LE COSE, PURTROPPO

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Un sito d’informazione on line spesso criticato per i suoi contenuti frivoli e l’uso disinvolto del click-baiting ma parecchio seguito, motivo per il quale molti ne dicono male nell’attesa di ottenere un’intervista, una recensione o una fotogal-lery, cosa che sto facendo anche io; ha pubblicato l’articolo intitolato Nei messaggi meglio evitare il punto alla fine della frase corredato dai risultati di una ricerca della Bingham-ton University di New York secondo cui, nei sistemi di messaggistica contempo-ranea, mettere il punto al termine di una frase, per quanto grammaticalmente corretto, conferisce un sen-so di freddezza e ostilità nei confronti del destina-tario, segue la descrizione dell’esperimento alla base di questo sconfortante risultato. La ricerca non si occupa di punti interrogativi, punti e virgola, punti esclamativi o gli abusati punti sospensivi. Solo del punto. Che sia un complotto per tagliare la spesa sul punto per poter

aumentare il flusso della diarrea di punti sospensivi in cui siamo sommersi?Non mettere il punto alla fine della frase è gram-maticalmente scorretto. Perché dobbiamo cercare di non essere scorretti con la grammatica? Cercherò di spiegarlo in modo sem-plice, visto che l’Ocse Piaac ha rivelato che in Italia un adulto su quattro riesce a leggere solo frasi brevi: la grammatica è l’impalcatura della lingua, quella che ci fa mettere i pilastri sui quali si elevano i piani del pensie-ro. Siamo in Italia, non ci mancano gli esempi di cose costruite senza pilastri e delle relative conseguenze.Quando il cameriere ci porge la pizza sul tavolo e va via senza augurarci buon appetito o ponendo un semplice “Prego” come punto finale della fase pre-paratoria al piacere della tavola, non commentiamo con i nostri commensali: “Che personale acido c’è in questo locale!”? Perché non dovremmo pensare la stessa cosa di chi non si prende quel millesimo di

secondo per terminare una frase nel modo corretto? Dimostrare affetto per qualcuno significa prender-sene cura e avere cura di ciò che gli si dice e di come lo si fa. Le forme linguistiche più comuni e che non hanno bisogno del punto sono gli slogan pubblicitari o politici, i titoli di canzoni, film, libri o articoli giornal-istici. Ecco perché il rischio di estinzione del punto: ora anche per comunica-zioni affettive, quotidiane o di routine ci si parla per slogan che non soddisfano il ricevente ma lo sedu-cono, fanno intendere che c’è dell’altro, sempre. Continua illusione di una meraviglia a portata di mano ma inafferrabile e quindi anche Precarietà, il sottotitolo di tutta una vita senza mai un punto fermo. Ma ricordiamoci una cosa: se oggi siamo qui, se siamo in questo mondo, se esis-tiamo, lo dobbiamo a due persone che, in un determi-natissimo momento, hanno scelto di arrivare fino a quel punto.

BRODO DI FRUTTAAdelmo Monachese

SIAMO STATI PUNTI

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Parliamo di poesia, di poesia vera, quella che muove dalla necessità e, di soglia in soglia, traversa l’animo, traduce il sentire: lo detta, lo scrive, lo parla, “suonando” versi. “Ver-sare”, donare… far bere, chiarire ciò che si muove naturalmente verso l’altro con il dono delle parole. La poesia di Eliana Forcignanò è in questo segreto, “lei è poetessa, intera, completa, innamorata della parola e della conoscenza. Umani-sta e umanissima nel suo continuo cercare…”.Così ho scritto nella nota che introduce una delle sue ultime pubblicazioni, per I Quaderni del Bardo di Stefano Donno, significa-tivamente titolata “Guerri-gliera”. Conosco da tempo l’esercizio poetico di Eliana, la ricerca che muove le sue parole, la saggezza con cui calibra la sua conoscenza di filosofa. La poesia è alleata della filosofia, è spalla par-lante del pensiero, voce e mano, strumento dell’agire, del divulgare in “basso” ciò che l’animo muove, poesia efficace di chi conosce le parole è sa usarle, sa metterle nel suono per mutarle in “coro”. Questa è

per molti versi - e in molti versi - scrittura intima, moto svelante di attese.Impasta umori, quelli notturni e quelli che con occhi aperti chiarificano, danno la sveglia e muovono all’attacco, sollecitano chi poi, nella lettura, troverà qui alleanza: utilità per il proprio sentire. Non serve a questo far libri, rendere pubblico atto la poesia? La risposta è sì, serve l’ascolto di sé, serve la dimensione oracolare, l’essere “canale” delle parole, tra/scriverle dall’indeterminato per farle luce”. Ecco alcuni suoi versi… il titolo è “Schizofre-nico cantabile”. “Che titolo! Una sfida”, ho pensato, aprendo la mail inviata-mi da Eliana per una sua partecipazione ad un lavoro di poesia sul tema della “diversità”. Leggiamola per intero: “Dicono di me diver-so non sono/ che non sono perché diverso/ caracollan-do al mio frastuono/ sono./ Se mi rimbalza il cembalo/ mi accarezzo le clavicole/ calcando la maschera del satiro/ ballo./ Non chieder-mi se sofisticati/ tè berrò. Amo caffè e sigarette/ mi scaldo l’anima finché non smette/ il tuo sguardo

inquisitore/ di scrostarmi tutto il rancore/ di ridurmi a incauta bestia/ raminga solitaria muta restìa./ Che sia quest’obbligata norma-lità/ la mia vera malattia?”. Sorprendente graffio, oltre ogni giudizio. Vita!Eliana Forcignanò, è nata a Lecce nel 1983. La scrittura le appartiene da sempre. Giornalista pubblicista, è laureata in Storia della Filo-sofia. Nel 2008 ha conse-guito un master di II livello in “Prevenzione e cura del disagio minorile attraver-so le nuove tecnologie”. S’interessa di letteratura, psicologia, sociologia. Un suo saggio sull’antipsi-chiatria nel Sessantotto è apparso nel bollettino del Centro Italiano per la Ricerca Storico Educativa di Firenze, oggi è alle prese con lo studio dell’opera di Carl Gustav Jung.Il suo esordio editoriale nel 2007 con la raccolta “Fiabe come rondini” per Lupo edi-tore. Un altro suo titolo di poesia è “Fiato Corto” edito nel 2011 da LietoColle Libri. Nel Magazzino di Poesia di Spagine Eliana Forcignanò ha “depositato” i versi della silloge “D’abissi e rinascite” nel 2014.

AFFRESCHI&RINFRESCHIMauro Marino

LA POESIA GUERRIGLIERA DI ELIANA FORCIGNANò

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La Prima Vera delusione della stagione musicale arriva da Rimini, dall’annuncio della chiusura, fissata per fine maggio, di uno storico locale: il Velvet. Dal 1989, ad oggi, oltre mille eventi, fra cui Nirvana, Blur, Black Sabbath, Ramones, Bad Religion e tanta altra roba. Episodio iso-lato? Non credo. La stagione dei festival sta per arrivare ma la musica in Italia continua a zoppicare. In questa epoca fatta di hashtag e titolini, la nostra memoria collettiva ha l’autonomia di una batteria di un vecchio cellulare da 120 mila lire. Perdiamo pezzi di noi per strada ma andiamo avanti facendo finta di crede-re di non perderne di altri. Se il Velvet chiude, se all’estero i festival sono ben altra cosa, se i concerti dal vivo si riduco-no, se i cd non si vendono, se i contest sono stati proposti come specie protetta, se le edizioni si fermano, se i costi sono alti e le perdite altret-tanto...qualche domanda dovremo pur farcela. Anche semplicemente egoisticamen-te, per continuare ad avere un posto dove sentirci a casa. 1) Festival: in Inghilterra oltre 6 milioni di persone parte-cipano ad eventi musicali in un anno, generando un

giro di oltre di 2 miliardi di sterline. Ok, è l’Inghilterra ma all’estero ovunque i festival sono i festival, in Italia di solito hanno solo il nome. Quanti festival nostrani ci vengono in mente? Davvero pochi. Rototom Sunsplash? È il più grande festival reggae europeo. Nato in Italia, da qualche anno è emigrato in Spagna, con grandissimo suc-cesso. Quello che gira intorno ai festival dovrebbero essere una serie di attività parallele che aumentano l’offerta di servizi, i visitatori e tanta al-tra roba. I veri festival durano giorni, sono delle grandi fiere, e basterebbe un pizzico di programmazione, immagina-zione, servizi, convenzioni ed aperture in più per fare me-glio. Il Coachella (non quello pugliese, per ora) Valley Music and Arts Festival che si tiene in California è proba-bilmente il più importante al mondo. Andate su coachella.com, offre una serie di spunti a noi troppo lontani. Il mes-saggio non è ripetiamolo, ma proviamo a guardare oltre. L’inclusione delle aziende, an-che da noi, in questi contesti inizia comunque a vedersi ma probabilmente la percezione del vero impatto sul territorio è ancora lontano.

2) I cd non si vendono. Ven-dere poche centinaia di copie rappresenta già un #gran-desuccesso. Siate razionali, non viviamo più negli anni Novanta, anche se nessuno ci ha avvisato. Immaginare nuovi scenari? “Il vinile?” Dicevo nuovi scenari (ok ma...nicchia). Probabilmente, e ancora non lo capiamo, il presente è ciò che non è riproducibile visto che ormai tutto lo è. Pensiamo ai live, allo streaming, a sentire qual-cosa di esclusivo, ad offrire qualcosa in più. 3) Si suona sempre meno perché si ascolta sempre meno. Provare a dare qual-cosa sul palco non sarebbe così difficile da immaginare. Suonare per dare e poi per ricevere, potrebbe essere già un bel primo passo. Prende-re coscienza, poi, di cosa ci sia dietro un piccolo locale che organizza un concerto probabilmente renderebbe più spontaneo tutelarlo. Non criticare e non assentarsi sa-rebbe una genialata ulteriore. Sono tante le cose da dire e da migliorare, magari conti-nuiamo più in là. Intanto la primavera è arrivata, E_state a guardare che arriveranno stagioni migliori?

STANZA 105Mino Pica

LA PRIMA VERA

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I quaderni del senno di poi di Francesco Cuna | facebook: quadernidelsennodipoi

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EVENTI a cura di CHIARA MELENDUGNO

MARTA SUI TUBIIl cantante Giovanni Gulino ci racconta Lostileostile, l’esperienza di MusicRaiser e le cover di Syd Barrett

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a cura di CHIARA MELENDUGNO

I Marta Sui Tubi tornano in tour per presen-tare i brani di “Lostileostile”, sesto album della loro lunga carriera. Tredici tracce di rock puro e “selvaggio” nelle quali la voce di Giovanni Gulino completa la perfetta alchi-mia con Carmelo Pipitone (chitarra) e Ivan Paolini (batteria). Sabato 21 maggio la band farà tappa all’Eremo Club di Molfetta, in pro-vincia di Bari. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con il cantante. Come siete giunti alla realizzazione del disco e in che modo si può fruire, nell’era di YouTu-be e Spotify, un concept album?Sono state le canzoni a scegliere per noi. Non siamo partiti con l’idea di realizzare un disco del genere e, in realtà, penso che il nostro album non sia un concept nel senso classico. I pezzi non sono l’uno la successione dell’altro, sono brani che vivono di vita pro-pria. L’unica cosa che hanno in comune è il riferimento ad una tematica che poi è quella dell’incontro, con qualcuno o con una situa-zione particolare.

Nel disco c’è anche il featuring con Gigliola Cinquetti nel brano “Spina Lenta”.Il pezzo racconta di un amore passato, di due strade che si dividono e di due teste che ri-mangono ancora in connessione. A volte la vita ti mette in condizione di separarti da alcune persone alle quali però non cessi di voler bene. La collaborazione con Gigliola è stato un fuori programma. L’abbiamo incon-trata in studio di registrazione mentre stava-mo mixando il disco. Lei era in un’altra sala per un suo progetto; ci siamo incontrati da-vanti alla macchina del caffè, abbiamo fatto amicizia e le abbiamo fatto sentire un po’ di pezzi nuovi, così non ho resistito e le ho chie-sto di collaborare. La sua voce ha aggiunto molta poesia alla canzone.

In questo disco tornate all’essenziale, con la formazione originaria in trio. Quale sound viene fuori?Il suono de “Lostileostile” è molto stratifi-cato, più professionale. Il primo album era decisamente lo-fi. Siamo contenti di essere di nuovo in tre, anche se non si tratta di un ritorno al passato: l’idea è quella di recupe-

rare quel suono unico che avevamo agli inizi e che era il risultato di un rock fatto con stru-menti acustici, senza basso, ma solo chitarra, batteria e voce; pochissimi elementi sparati in faccia in maniera molto aggressiva. Vole-vamo fare un disco un po’ più selvaggio ri-spetto agli ultimi.

Il cd è stato finanziato grazie a Musicraiser. Tu sei tra i fondatori di questa piattaforma di crowdfunding, nata nel 2012. La scelta di finanziare l’album attraverso il crowdfunding era nell’aria da tempo. Ho vi-sto passare oltre 800 progetti di successo su Musicraiser, quindi sapevo di poter coin-volgere i nostri fan. Siamo molto soddisfatti: abbiamo raggiunto più di 400 persone. Gen-te che ha prenotato il disco in larga parte a scatola chiusa, dandoci una fiducia incredibi-le; questo ci ha stimolato tanto in fase di pro-duzione e abbiamo deciso di offrire la possi-bilità di costruire il cd con noi. La copertina, ad esempio, è stata fatta da uno dei nostri fan, Sara Buccellato, che ci ha mandato la sua idea soltanto sulla base del titolo.

I Marta Sui Tubi hanno scelto di essere indi-pendenti nella realizzazione dei propri dischi anche prima di Musicraiser. Penso alla vostra etichetta Tamburi Usati.Sì, abbiamo sempre cercato di tenerci stretto il frutto del nostro lavoro e oggi il crowdfun-ding offre una libertà artistica simile. Una libertà che è anche contrattuale: mantieni tutti i diritti e la proprietà. In tal senso Mu-sicraiser ha l’obiettivo di diventare una casa discografica “etica”, perché non entra nel merito delle scelte artistiche dei musicisti.

Tra le ricompense del crowdfunding avete messo anche tutto l’album “The Madcap Laughs” di Syd Barrett «suonato (bene)» dai Marta. C’è stato alla fine un raiser che lo ha ricevuto?No (ride, ndr)! Syd Barret è forse la mia prin-cipale fonte d’ispirazione. Si tratta di un al-bum che conosciamo a memoria ed è uno dei miei preferiti; saremmo pronti a fare un disco cover “in chiave Marta Sui Tubi” subito!Chiara Melendugno

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Alle Officine Cantelmo di Lecce si conclude la rassegna “Make Your Noise”, dedicata alle nuove produzioni musicali salentine. Dopo La13 e I Misteri del Sonno, venerdì 13 mag-gio spazio alla presentazione ufficiale di “Le nostre guerre perdute” de La Municipàl, pro-dotto da La Rivolta Records e sostenuto da Puglia Sounds Record. L’atteso lavoro - anti-cipato da alcuni brani pubblicati su youtube e molto apprezzati (come “L’accademia delle Belle Arti” o “Lettera dalla provincia lecce-se”) - comprende le nuove canzoni composte da Carmine Tundo (chitarra e voce) e Isabella Tundo (Piano e voce) affiancati sul palco da Roberto Mangialardo (chitarra), Matteo Bassi (basso), Gianmarco Serra (batteria). “Le no-stre guerre perdute” è una raccolta di storie, tutte basate sulla conflittualtà di una rela-zione e sulla difficoltà di viversi in maniera serena, ognuna di queste storie è una piccola guerra ambientata tra le stazioni, tra le vie del centro o nei bar peggiori della provincia, dove i propri fantasmi banchettano allegri raccontandosi le storie presenti nelle dodici tracce del disco. Le nostre guerre perdute è un viaggio interiore, è un mettersi nudo e il buttare fuori i denti che ballano, per lasciare il posto a quelli nuovi, è un coming out esisten-ziale. È una battaglia interiore che racconta quell’arco di tempo che va dai 20 ai 30 anni, con tutte le insicurezze, le scelte da compiere e un futuro da costruire. Info 0832303707

13 maggio - ore 22Officine Cantelmo - LecceLA MUNICIPàL

“Il Club dell’ascolto live” ospita gli Inude, duo elettronico nato nel 2014 in provincia di Lecce, formato da Giacomo Greco e Flavio Paglialunga. Il loro stile è un mix variegato di generi, frutto di diverse esperienze musicali ed ascolti differenti, ma complementari tra loro. Un sound costituito dall’uso di tappeti sonori e loop di batterie elettroniche miste a percussioni e un utilizzo accurato di archi. Info 3277357690 - 0832303707

10 maggio - ore 21.30Ammirato Culture House - LecceINUDE

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Il tour italiano di B-Real arriva nel Salen-to. Il pioniere dei Cypress Hill, leggenda dell’Hip Hop internazionale sarà sul palco delle Manifatture Knos. Tra un mix di rag-gae, dancehall e R’n’B si alterneranno alla console prima e dopo il live di di B-Real i dj set di Mighty Bass, Dj Spike e Dj WP. Ingresso 15 euro. Info e prevendite 3403154458 - 3898823800

14 maggio - ore 21.30Manifatture Knos - LecceB-REAL

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Dopo aver emozionato l’Italia dal palco del Festival di Sanremo con “Following A Bird”, il compositore e direttore d’orchestra Ezio Bosso arriva al Teatro Petruzzelli di Bari per presentare dal vivo in piano solo il nuovo di-sco “The 12th Room” (Incipit/EGEA Music). Ingresso da 20 euro – Info 393 9639865; [email protected]

15 maggio – ore 21.30Teatro Petruzzelli – BariEZIO BOSSO

Arriva nelle sale italiane, distribuito da Mi-crocinema, il concerto Queen A night in Bohemia, performance del gruppo rock in-glese all’Hammersmith Odeon di Londra, del 24 dicembre 1975, considerato il gior-no della consacrazione ufficiale della band. Trasmesso in diretta, durante il program-ma musicale di BBC Two “Old Grey Whistle Test”, riprende il gruppo al massimo del loro splendore. Info microcinema.eu

dal 16 al 18 maggioal CinemaQUEEN A NIGhT IN BOhEMIA

Serata conclusiva per la prima edizione del Premio Civilia - Zingari Felici, riconoscimen-to destinato al miglior album originale e al miglior artista del Salento. Tra i finalisti Ban-dadriatica, Carolina Bubbico, Treble, Vincen-zo Maggiore, Raffaele Vasquez, Gianluca De Rubertis, Opa Cupa, Davide Tarantino e molti altri. Tra gli ospiti anche la graffiante ironia di Andrea Baccassino. Ingresso libro. Info 3335859921

14 maggio - ore 20.30Industrie Musicali - Maglie (Le)PREMIO CIvILIA - ZINGARI FELICI

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Il rock è nato e morto mille volte e ogni rina-scita ha visto grandi sogni prendere vita con nuovi suoni. È questo quello che è accaduto con “The Joshua Tree”, album cruciale degli U2, protagonista della nuova Lezione di Rock di Puglia Sounds. I giornalisti Assante e Castal-do racconteranno questo momento di svolta importante non solo per la band irlandese, ma per gran parte del rock degli anni Novanta. In-gresso 7 euro – Info www.pugliasounds.it

18 maggio – ore 21Cinema Showville – BariLEZIONI DI ROCK – U2

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Venerdì 13 maggio (ore 20.45 - ingresso 10/8 euro) sul palco del Teatro Paisiello di Lecce andrà in scena “Il canto del pane”, spettacolo di Arterìa - Associazione d’arte e Cultura, organizzato da Calibro Forza 10, diretto dall’attrice, autrice e regista salen-tina Angela De Gaetano. Tratto dal testo di narrative art “La favola del pane” di Dario Carmentano, prodotto nell’ambito del “Fe-stival dei Paesaggi del Grano”, lo spettacolo è inserito nel dossier di Matera Capitale Eu-ropea della Cultura 2019, lo spettacolo ha debuttato nel luglio 2015 nella Casa Cava nei Sassi del capoluogo lucano. “Il Canto de Pane” racconta le vicende di Bellina, una ra-gazza rimasta orfana di padre, il cui canto è capace di creare un mondo denso di miste-ro e magia. Sboccerà l’amore tra Bellina e un bel giovane straniero, con tutte le con-

seguenze di questo sentimento. «È partito tutto da un incontro fortuito», ci racconta Angela De Gaetano. «Una sera ero sul palco con il mio spettacolo “Bocche di dama”. Quella sera Dario era tra il pub-blico. Dopo lo spettacolo, mi ha aspettato sotto il palco insieme alla sua compagnia Grazia. Quella sera stessa è arrivata la pro-posta per quest’incarico», prosegue. «Ho letto il testo di Dario. Ho fatto un incontro con la produzione e ho conosciuto Lore-dana Paolicelli, presidente di Arterìa, che ha composto le musiche che utilizzo nello spettacolo. Mi ricordo quel pranzo. Era una Domenica di Aprile. Sono arrivata a Matera alle 12.30. Alle 19 eravamo ancora a tavola. I pranzi di lavoro che adoro, perché si ha il tempo di confrontarsi in un clima disteso. Dopo aver accettato di firmare la regia di

IL CANTO DEL PANEApproda a Lecce lo spettacolo con la regia di Angela De Gaetano prodotto da Arterìa di Matera

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questo progetto, ho deciso di fare un casting per scegliere gli attori, che ho voluto fortemente di origini lucane», sottolinea. «Nando Irene, Anna Rosa Ma-tera, Giovanna Staffieri. Professionisti di grande esperienza. Oggi posso dirmi soddisfatta del risultato raggiunto per-ché gli attori si sono messi in ascolto con grande passione sin dal primo momento e hanno assorbito tutte le mie indicazioni con grande sensibilità. Si è creata un’al-chimia incredibile. Ci siamo chiusi in sala per venti giorni. Abbiamo lavorato duro, a ritmi serratissimi, per portare a termine un lavoro di composizione scenica, che intreccia la dinamica di una narrazione a tre voci a quella del monologo. Siamo partiti dalle azioni, dai corpi, dallo spazio per cercare di popolare la scena con se-quenze e suggestioni fisiche che potes-sero sostenere, amplificare le parole. Ho creato una struttura precisa e ho “blinda-to” tecnicamente le azioni, per dare agli attori la possibilità di concentrarsi sulle emozioni una volta acquisito il disegno della costruzione scenica. Ho potuto fare questo in soli venti giorni grazie alla disci-plina scenica che mi sono data negli anni e grazie al sostegno di ognuno di loro, ar-tisti, tecnici e tutte le persone dello staff, grazie al lavoro e alla sensibilità di tutti, grazie alla fiducia che è stata riposta in me, grazie all’amore per il teatro che ha fatto andare tutto nella direzione giusta. Per questo ringrazio di cuore tutti ogni volta. Il regista, si sa, ha un ruolo delicato e difficile. Di grande responsabilità. Deve costantemente scegliere. Deve costante-mente avere in mente un progetto, che però è un progetto in movimento, dan-natamente e meravigliosamente fluido, perché non dimentichiamo che il teatro è, come dice Adolphe Appia, “opera d’ar-te vivente”». Dopo il debutto e le tappe in Basilicata, lo spettacolo è stato già rap-presentato a Parigi nel centro polifunzio-nale del Tour des Dames e dopo Lecce proseguirà il tour a Sofia. In estate An-gela De Gaetano proporrà anche alcune repliche di “Bocche di Dama”. Il 7 maggio a Molfetta, il 27 maggio a Brindisi e il 9 luglio a Mariano Comense.

sino al 6 giugnoEx Chiesetta Balsamo - LecceLE PERIFERIE. SENZA SCARTI

Un ciclo di incontri e seminari gratuiti con-dotti da docenti universitari (ogni lunedì) e di laboratori con sessioni parallele per adulti e per bambini (ogni martedì) tenuti da psicologi, counsellour e pedagogisti, per la promozione della conoscenza e l’applicazione dei modelli maieutici del-la filosofia con l’obiettivo di “valorizzare le periferie umane e geografiche”: dal 2 maggio al 6 giugno l’ex Chiesetta Balsa-mo di Lecce ospiterà la prima edizione del progetto “Le Periferie. Senza Scarti”, pro-mosso dal “Laboratorio per le congetture filosofiche” nato all’interno del Corso di Laurea in Filosofia dell’Università del Sa-lento ideato e curato dalla professoressa Nadia Bray. Il progetto è rivolto a studenti e studentesse e al pubblico dei cittadini, con il quale si intendono attivare momen-ti di confronto e di dialogo, e punta a sen-sibilizzare sul tema dello “scarto”, portare la filosofia e le scienze fuori dalle mura dell’Università e dentro la vita della città, agire in collaborazione con figure profes-sionali attive sul territorio, incontrare in modo naturale e produttivo il mondo del-le imprese. Gli incontri si terranno sempre dalle ore 17 alle ore 19. Info [email protected] - 3356324135. Facebook.com/leperiferiesenzascarti

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Dopo il grande successo della personale di Michelangelo Pistoletto che nell’estate 2015 ha coinvolto oltre 35mila visitatori, dal 28 maggio al 2 ottobre le sale del Castello di Gallipoli, in provincia di Lecce, ospiteran-no la mostra “La prima Aurora” di Simone Cerio. Il reporter ha realizzato per Emer-gency un progetto fotografico composto da venticinque storie di migranti sbarcati sulle coste siciliane. Un viaggio tra ogget-ti recuperati, portati da Paesi lontani, ab-bandonati per strada e reinterpretati che offrono al visitatore la possibilità di un’ap-profondita riflessione sulla condizione di migrante. L’inaugurazione si terrà sabato 28 maggio (ore 11) alla presenza dell’autore e di Gino Strada, presidente e fondatore di Emergency, invitato nella città jonica per ri-tirare il Premio Barocco (cerimonia prevista per venerdì 27). Il Castello, aperto al pub-

blico dall’estate 2014 dopo anni di chiusura e incuria e da poche settimane diventato di proprietà del Comune di Gallipoli grazie all’impegno dell’amministrazione comuna-le nella persona del Commissario straordi-nario Guido Aprea, è gestito dall’agenzia di comunicazione Orione con la direzione artistica dell’architetto Raffaela Zizzari e il coordinamento di Luigi Orione Amato. Info www.castellogallipoli.it

dal 28 maggio al 2 ottobreCastello - Gallipoli (Le)LA PRIMA AURORA

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Per il terzo anno consecutivo, torna la ras-segna a tinte arcobaleno dell’associazio-ne LeA - Liberamente e Apertamente, che quest’anno si trasforma da #RainbowDay a #RainbowMay: da un giorno ad un mese in-tero, una rete formata da oltre cento realtà del territorio salentino colorerà il mese di maggio con tanti appuntamenti fra mostre, spettacoli teatrali, presentazioni di libri, eventi sportivi, estemporanee, feste e proie-zioni.Le Officine Culturali Ergot ospiteranno le tavole della mostra “We Are Family”, che da mercoledì 4 a domenica 15 maggio, at-traverso le illustrazioni dei libri per l’infanzia de Lo Stampatello, racconteranno ai più pic-coli tutti i tipi di famiglie e la bellezza delle diversità, insieme alle letture arcobaleno e ai laboratori tematici condotti in collabo-razione con l’associazione Fermenti Lattici. Domenica 15 maggio ritorna l’evento car-

dine dell’intero mese organizzato da LeA: ii #RainbowDay, che in occasione della giorna-ta internazionale contro l’omo/bi/transfobia torna a raccogliere artisti e performer di tut-to il territorio, per una festa diffusa a Lecce fra Piazza Sant’Oronzo (nella mattinata) e Porta Rudiae (nel pomeriggio), che si chiu-derà alla Masseria Ospitale con la festa fina-le con il dj set a cura di Tobia Lamare. Tutto il programma su www.associazionelea.org

sino al 29 maggioLecceRAINBOwMAY

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