Convegno su guerra e rivoluzione in Catalogna · ta endogena della guerra civile, se si può ......

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Note e discussioni Convegno su guerra e rivoluzione in Catalogna di Vittorio De Tassis Quattro giornate dense di relazioni corpose e documentate, comunicazioni sovente sti- molanti e dibattiti animatissimi hanno carat- terizzato lo svolgimento del Secondo conve- gno internazionale sulla guerra civile spa- gnola (1936-1939), tenutosi nella capitale ca- talana dal 4 al 7 novembre 1986 per iniziati- va del Centro di studi storici internazionali delPUniversità di Barcellona. Il tema, “La guerra e la rivoluzione in Catalogna”, era in effetti abbastanza vasto e in pari tempo ben definito, tale da investire direttamente i nodi cruciali dell’intera vicenda della guerra di Spagna, sia pure sotto l’angolazione regio- nale proposta per l’occasione. Basti pensare agli argomenti ai quali sono state dedicate le diverse sessioni di lavoro: economia e rivo- luzione; trasformazioni rivoluzionarie e vita politica; esercito, guerra e rivoluzione; vita quotidiana; cultura, insegnamento e rivolu- zione; proiezione internazionale. Ne è uscita un’ampia gamma di contributi che, per va- rietà e complessità di contenuti, ricchezza di motivi, diversità di orientamenti storiografi- ci, difficilmente si possono ricondurre ad un comune denominatore che non sia quello, del resto importante più di ogni altro, della vitalità e fecondità del confronto. Né si vuol dire con questo che il convegno non abbia assunto una sua riconoscibile fisionomia: al contrario, fin dal primo giorno si sono visti emergere i due tratti di fondo che ne hanno costantemente accompagnato lo svolgimen- to, a conferma del resto di una situazione più generale dell’odierna storiografia sulla guerra civile spagnola: da un lato, lo sforzo compiuto dalla nuova generazione di studio- si e ricercatori, specie iberici, per andare ól- tre le rappresentazioni tradizionali, larga- mente ideologiche, della vicenda storica, at- traverso la puntigliosa applicazione di nuovi strumenti e criteri d’indagine a singoli aspet- ti, spesso locali e settoriali, onde tornare a rischiarare di luce nuova il quadro d’assie- me; dall’altro lato, il richiamo spesso pole- mico della vecchia generazione ai motivi eti- ci e politici di cui fu pur sempre intessuta un’esperienza storica che si configura anco- ra largamente come vita vissuta, e che tende perciò a venir riproposta in chiave di memo- ria e testimonianza paradigmatica, con tutti i pregi e i difetti di tale punto di vista. Per- corso da questa interna tensione dialettica, il convegno è venuto rivisitando molti dei motivi topici del dibattito tradizionale sul- la guerra di Spagna — i dilemmi spontanei- tà/organizzazione, dittatura/democrazia, centralismo/autonomismo, autogestione/ pianificazione, guerra/rivoluzione — cer- cando di scioglierne la rigidità dicotomica in una più fluida e articolata visione dei pro- blemi e degli avvenimenti quali emergono dall’esame sempre più ravvicinato di quel grande laboratorio politico che fu la Catalo- gna durante la guerra civile. In questa luce, meritano di essere qui menzionati quelli che a mio avviso sono stati gli apporti più originali e stimolanti, a co-

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N o te e discussioni

Convegno su guerra e rivoluzione in Catalognadi Vittorio De Tassis

Quattro giornate dense di relazioni corpose e documentate, comunicazioni sovente sti­molanti e dibattiti animatissimi hanno carat­terizzato lo svolgimento del Secondo conve­gno internazionale sulla guerra civile spa­gnola (1936-1939), tenutosi nella capitale ca­talana dal 4 al 7 novembre 1986 per iniziati­va del Centro di studi storici internazionali delPUniversità di Barcellona. Il tema, “La guerra e la rivoluzione in Catalogna” , era in effetti abbastanza vasto e in pari tempo ben definito, tale da investire direttamente i nodi cruciali dell’intera vicenda della guerra di Spagna, sia pure sotto l’angolazione regio­nale proposta per l’occasione. Basti pensare agli argomenti ai quali sono state dedicate le diverse sessioni di lavoro: economia e rivo­luzione; trasformazioni rivoluzionarie e vita politica; esercito, guerra e rivoluzione; vita quotidiana; cultura, insegnamento e rivolu­zione; proiezione internazionale. Ne è uscita un’ampia gamma di contributi che, per va­rietà e complessità di contenuti, ricchezza di motivi, diversità di orientamenti storiografi­ci, difficilmente si possono ricondurre ad un comune denominatore che non sia quello, del resto importante più di ogni altro, della vitalità e fecondità del confronto. Né si vuol dire con questo che il convegno non abbia assunto una sua riconoscibile fisionomia: al contrario, fin dal primo giorno si sono visti emergere i due tratti di fondo che ne hanno costantemente accompagnato lo svolgimen­to, a conferma del resto di una situazione

più generale dell’odierna storiografia sulla guerra civile spagnola: da un lato, lo sforzo compiuto dalla nuova generazione di studio­si e ricercatori, specie iberici, per andare ól­tre le rappresentazioni tradizionali, larga­mente ideologiche, della vicenda storica, at­traverso la puntigliosa applicazione di nuovi strumenti e criteri d’indagine a singoli aspet­ti, spesso locali e settoriali, onde tornare a rischiarare di luce nuova il quadro d’assie­me; dall’altro lato, il richiamo spesso pole­mico della vecchia generazione ai motivi eti­ci e politici di cui fu pur sempre intessuta un’esperienza storica che si configura anco­ra largamente come vita vissuta, e che tende perciò a venir riproposta in chiave di memo­ria e testimonianza paradigmatica, con tutti i pregi e i difetti di tale punto di vista. Per­corso da questa interna tensione dialettica, il convegno è venuto rivisitando molti dei

motivi topici del dibattito tradizionale sul­la guerra di Spagna — i dilemmi spontanei- tà/organizzazione, dittatura/democrazia,centralismo/autonomismo, autogestione/pianificazione, guerra/rivoluzione — cer­cando di scioglierne la rigidità dicotomica in una più fluida e articolata visione dei pro­blemi e degli avvenimenti quali emergono dall’esame sempre più ravvicinato di quel grande laboratorio politico che fu la Catalo­gna durante la guerra civile.

In questa luce, meritano di essere qui menzionati quelli che a mio avviso sono stati gli apporti più originali e stimolanti, a co­

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minciare dalla relazione di Pelai Pagés su “Le trasformazioni rivoluzionarie e la vita politica”, un’acuta e circostanziata analisi delle contraddizioni e dei limiti intrinseci al processo rivoluzionario sviluppatosi in Cata­logna, esaminato per la prima volta al livello dei concreti rapporti tra organismi di massa e istituzioni repubblicane, e in una prospettiva non più solo metropolitana ma più larga­mente catalana. Una lucida e brillante disa­mina delle ambiguità della storiografia della « vita quotidiana » è stata poi fatta, in aper­tura della terza giornata, da Enric Ucelay da Cai, giovane docente dell’Università autono­ma di Barcellona, secondo il quale l’esigenza in sé legittima di superare le tradizionali in­terpretazioni ideologiche della guerra civile (in particolare quella democratico-frontista della difesa della repubblica e quella rivolu­zionario-libertaria della costruzione del con­tropotere proletario) corre sovente il rischio di insabbiarsi nel miraggio retrospettivo del­la “felice oasi catalana”, sconvolta da forze estranee alla sua autentica anima nazionale. Non meno interessanti, ancorché per taluni aspetti assai più discutibili, le relazioni di Francesco Roca sui problemi economici po­stisi sotto la spinta della rivoluzione e rincal­zare della guerra, di Jesüs Rodés sullo sfon­do internazionale del conflitto, e di Gabriel Cardona su “Le operazioni militari nella sto­ria della guerra in Catalogna”. Il primo ha particolarmente insistito sul carattere antici­patone che avrebbe avuto in campo econo­mico l’esperienza catalana del 1936-1937 ri­spetto alla situazione dell’Europa occidenta­le nell’immediato secondo dopoguerra: eco­nomia mista, programmazione, pluralismo della partecipazione politica e sociale (un “modello” ipotetico suggestivo, ma non sa­prei quanto euristicamente significativo, da­ta l’estrema diversità dei contesti). Jesüs Ro­dés ha invece esaminato il quadro internazio­nale del conflitto, mettendo opportunamente in luce taluni difetti e debolezze dell’azione diplomatica repubblicana, a partire dalla

mancanza di una conduzione unitaria e coe­rente. La sua rivendicazione della natura tut­ta endogena della guerra civile, se si può spiegare con la sentita esigenza di fare i conti fino in fondo con la propria storia nazionale, non giustifica peraltro né la sua sottovaluta­zione del ruolo del fascismo internazionale quale elemento propiziante lo stesso “alza- miento”, né ancor meno il suo troppo fretto­loso accantonamento della tesi della guerra spagnola come prologo della seconda guerra mondiale. Certo, appoggiandosi a simili con­clusioni si potrà anche sostenere, come ha fatto da parte sua Gabriel Cardonas secondo un’ottica asetticamente militare, che la bat­taglia dell’Ebro fu un’operazione “militar­mente assurda”, voluta da Negrin e dai co­munisti per mero calcolo politico; resta da vedere però quale sia il senso di un discorso che, risalendo via via a ritroso le svolte della guerra, potrebbe portare a ridiscutere — sta­volta magari in chiave tutta politica — l’op­portunità della stessa difesa di Madrid. Il pregio della relazione di Cardonas mi sembra stare in realtà altrove, e precisamente negli interrogativi puntuali e serrati che egli pro­pone circa il ruolo effettivo svolto dalla Ca­talogna nella conduzione della guerra, inter­rogativi rispondendo ai quali soltanto si po­trebbe finalmente uscire dall’ormai stucche­vole gioco a scaricabarile tra le contrapposte famiglie politico-ideologiche per il lungo ri­stagno delle operazioni sul fronte aragonese.

Accanto all’ampia e documentata relazio­ne di Pere Sola Gussinyer sui rapporti tra mondo della cultura ed esperienza rivoluzio­naria, tra gli altri contributi di fonte iberica mi preme ricordare gli interventi di Josep M. Bricall, rettore dell’Università di Barcellona, e del giovane studioso Albert Girona alla ta­vola rotonda su “La guerra civile nei paesi catalani”, entrambi incentrati sull’evoluzio­ne economica e politico-sociale rispettiva­mente della Catalogna e della regione valen- ziana. E ancora, le comunicazioni di J.M. Santacreu Soler (“Analisi delle emissioni di

Attualità della guerra di Spagna nella cultura inglese 113

moneta frazionaria della circoscrizione di Barcellona”), di J.M. Caporrós Lera (“La politica cinematografica della Generalitat de Catalunya negli anni trenta”), di Monserrat Carreras i Garda e Nüria Vali i Sera (“La donna catalana nelle milizie”), di M. Duch, M.A. Ferrer e M.J. Muinos (“Guerra e rivo­luzione nella memoria popolare”), per nomi­nare solo alcuni dei molti contributi signifi­cativi. Tra gli apporti stranieri, di particolare rilievo quelli di Pierre Broué (sul non-inter- vento iniziale delPUrss, peraltro non esente da semplificazioni tendenziose) e soprattutto di Enzo Collotti (sulla posizione dell’Inter­nazionale socialista e sulla tanto generosa quanto sfortunata battaglia condotta da Nenni nel suo seno a favore della Repubblica spagnola). Da segnalare anche le comunica­zioni di Luciano Casali sull’immagine della Catalogna nella memorialistica italiana, e di

Nanda Torcellan sulla bibliografia italiana sulla guerra civile da lei preparata per l’occa­sione.

Un bilancio più completo e meditato del convegno sarà naturalmente possibile quan­do disporremo dei testi scritti delle relazioni e degli interventi nei dibattiti (durante il con­vegno è stato distribuito solo il fascicolo con­tenente la maggior parte delle comunica­zioni).

Per ora, come conclusione, ci si può limi­tare a sottolineare l’indubbio valore scientifi­co del materiale presentato nel corso delle quattro giornate, l’appassionato impegno nella discussione di storici e studiosi giovani e meno giovani, le numerose preziose indica­zioni che ne sono uscite per lo sviluppo di una ricerca per molti aspetti ancora alle bat­tute iniziali.

Vittorio De Tassis

QUADERNI DI STORIAluglio/dicembre 1986 - n. 24

Saggi

Fernand Braudel, UAntiquité et l'Histoire ancienne, intervista a cura di Jean Andreau e Roland Etienne, in presenza di Maurice Aymard; Oddone Longo, Idrografia erodotea: Geneviève Hoffmann, Pandora, la jarre et l'espoir, Luciano Canfora, Wilamowitz in Macedonia.

Miscellanea

Luciano Canfora, "Il punto non è questo"-, Bertrand Hemmerdinger, "Les Soviets partout!"-, José Carlos Bermejo Barrera, Né in Grecia né a Roma: ancora su Foucault e il mondo antico', William M, Calder Ili, ed., Schwester Hildegard von Wilamowitz-Moellendorff: meine Erinnerungen beim Le- sen der Erinnerungen meines Vaters\ Alexander Demandt, Wilamowitz 1918 an die Deutschem, Mariella Cagnetta, Gli agoni di Filisto-, Annalisa Paradiso, Osservazioni sulla cerimonia nuziale spartana.

D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice (Luciano Canfora); L. Gernet, I Greci senza miracolo, a cura di R. Di Donato (Luciano Canfora); R. Cappelletto, Recuperi ammia- nei da Biondo Flavio (Gian Franco Gianotti); Scribonii Largi, Compositiones, edidit S. Sconocchia (Giovanni Polara).

Rassegna bibliografica

EditorialeI fronti popolari dalla politica alla storia, di Agosti.

DiscussioniA cinquant’anni dalla guerra civile spagnola, interventi di: Bonamusa, Fontana, Fraser, Tunón de Lara.

SaggiLa grande proprietà terriera nel Terzo Reich, di Corni; L'Encyclopedie Française e la cultura france­se degli anni Trenta, di Gemelli.

Storici contemporaneiRichard Cobb, di Luzzatto.

Mass mediaStoria illustrata, di Isola.

InterventiNobiltà europee nell'Ottocento, di Romanelli.

SchedeRivoluzione francese: Paesi socialisti.

Recensioni

Rivista di storia contemporanea maggio-agosto 1986

PASSATO E PRESENTE

La storia contemporanea attraverso le riviste degli Istituti associati

“Italia contemporanea” conclude, con gli interventi di seguito ospitati, la pubblicazione (cfr. fascicoli n. 163 e 165) di contributi intesi a verificare la condizione attuale delle riviste di storia contemporanea in Italia. A facilitare la lettura compiuta delle risposte di periodici degli Istituti di cui si pubblica una scelta condotta secondo il criterio della maggiore aderen­za al questionario, si riporta la formulazione delle domande sottoposte a ciascuna rivista: 1. L ’ultimo quindicennio ha registrato il moltiplicarsi delle riviste di storia e soprattutto di sto­ria contemporanea. Lo stesso fenomeno ha investito anche i nostri Istituti (come si è avuto modo di constatare nel seminario di Giulianova del febbraio 1986). Ciò è stato messo in re­lazione con l ’allargamento dello spazio scientifico della disciplina, ma anche con tutta un’al­tra serie di fattori (immagine esterna e/o legami con la base associativa, politica culturale degli enti locali, aggregazione di studiosi). Nel caso specifico della tua rivista quali sono stati i motivi preminenti che hanno determinato la nascita del periodico e le sue eventuali succes­sive trasformazioni? E come tutto questo si è riflesso sulla articolazione per rubriche e tipi di contributi, nonché sulle scelte editoriali complessive?; 2. Come la tua rivista si è posta il problema del mercato? Considerandolo a priori limitato agli utenti professionali o cercando di provocarne un allargamento, e in quali direzioni?; 3. L ’attuale panorama delle riviste dei nostri Istituti offre una immagine distintamente percepibile ed esauriente degli orientamenti prevalenti nella contemporaneistica italiana? E in particolare della storia locale?

“Documenti e studi”Semestrale dell’Istituto storico della Resi­

stenza in provincia di Lucca

1 “Documenti e studi” nasce nel 1984 come strumento ritenuto indispensabile da parte del Consiglio direttivo dell’Istituto per con­cretizzare i lavori di ricerca relativi soprat­tutto alla storia locale.

L’Istituto aveva a lungo dibattuto al suo interno sulla necessità di fornirsi di una pub­blicazione periodica capace di supplire gra­dualmente alla mancanza quasi totale nella

nostra provincia di studi sulla storia politica ed economica del Novecento e di dare ordi­ne a quelli sull’antifascismo e sulla Resisten­za. Infatti alcuni testi già pubblicati da sin­goli ricercatori apparivano iniziative episo­diche e frammentarie, al di fuori di una pro­grammazione sistematica della ricerca e la­sciavano grossi vuoti relativi alla storia dei partiti, del fascismo, del movimento operaio e contadino, dell’economia fra le due guer­re; anche alcuni avvenimenti importanti del­la Resistenza e dell’antifascismo a Lucca e provincia rimanevano sconosciuti o defor­

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mati dal ricordo o dalle memorie di protago­nisti e testimoni.

Inoltre si era pervenuti alla certezza che, ricostruendo e riscoprendo avvenimenti e aspetti di storia locale, il lavoro di ricerca at­traverso la rivista avrebbe contributo a veri­ficare ipotesi interpretative generali e co­munque a portare un contributo ad alcuni problemi storiografici posti a livello nazio­nale.

Infine si faceva sempre più pressante l’ur­genza di aggregare insegnanti e ricercatori su un’iniziativa continua: si sarebbe così evita­ta la dispersione dei lavori o l’abbandono degli stessi in mancanza di uno sbocco edito­riale. Si voleva anche evitare l’emorragia di giovani studiosi orientati a collaborare con riviste di storia contemporanea solo su pro­blemi esterni a quella locale.

2 La relazione di “Documenti e studi” ave­va perfettamente coscienza dei ritardi e dei limiti con cui iniziava la propria esperienza, non solo naturalmente in confronto alle rivi­ste specializzate di storia e alla stessa “Italia contemporanea”, ma anche in confronto ad alcuni periodici più “vecchi” editi dagli Isti­tuti storici della Resistenza, che avevano già affrontato molti problemi storiografici, su­perato la fase documentaristica e cronachi­stica della Resistenza e acquisito nuove co­noscenze nel campo della metodologia. Così il seminario di Giulianova confermava, con le sue relazioni e i vari interventi, la nostra analisi e quanto avevamo discusso all’inter­no della redazione.

Tuttavia il nostro sforzo è stato quello di non ripetere tutte le fasi percorse dalle altre riviste.

Se è ancora necessario per noi pubblicare una serie di ricerche di impianto cronachisti- co oppure documenti inediti e spesso poco noti sulla Resistenza in campo locale, l’im­pegno primario rimane quello di indagare gli aspetti più generali socio-economici e cultu­rali delle nostre zone, di studiare la compo­

sizione di classe e le trasformazioni econo­miche dal fascismo ai giorni nostri in rap­porto alla vita nazionale (lasciando piena li­bertà di giudizio politico agli autori e ai col- laboratori che provengono sia dall’area cat­tolica sia da quella marxista), con l’attenzio­ne anche alle “cause” economiche e sociali del fascismo rintracciabili nel primo Nove­cento. In base a tale impostazione “Docu­menti e studi” è strutturata in due sezioni portanti: gli studi e i documenti; segue una sezione di testimonianze (contenenti elemen­ti nuovi della memoria di alcuni protagonisti e integrative dei documenti veri e propri); un’altra sezione dedicata alla vita d’istituto, che riporta notizie anche delle iniziative del­l’Istituto nazionale; e infine una sezione re­lativa alle recensioni (realizzate sotto forma di schede di tipo divulgativo, arricchite di raffronti storiografici, per tentare di non ri­petere i luoghi comuni frequenti in questo ti­po di rassegne bibliografiche).

Prendendo atto delle sollecitazioni del se­minario di Giulianova, la nostra rivista si proporrà di offrire in quest’ultima sezione, oppure anche all’interno della sezione-studi, sempre maggiori resoconti delle riviste di storia contemporanea, dei periodici, degli Istituti della Resistenza e di “Italia contem­poranea”, cogliendo l’occasione (per quanto ci sarà possibile) di aprire o tener vivo in queste rubriche il dibattito storiografico sui problemi della contemporaneistica italiana, affrontati e proposti da tutti gli altri istituti.

3 Fin dall’inizio la rivista ha escluso articoli o resoconti celebrativi, reducistici o memo- rialistici, cercando di offrire un’impostazio­ne scientifica ma nello stesso tempo divulga­tiva degli argomenti affrontati, dal momen­to che molti lettori del nostro periodico sono presumibilmente estranei all’associazione (su una vendita media di trecento copie, cir­ca il cinquanta per cento avviene attraverso librerie e grosse edicole). Se si pensa che de­ve essere ancora definita e concordata la dif­

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fusione di “Documenti e studi” con gli enti locali perché possa essere estesa in maniera organica presso le biblioteche pubbliche cir­coscrizionali o presso le scuole, i risultati delle vendite possono considerarsi abbastan­za soddisfacenti in quanto ricoprono (con due sole pubblicità di banche) la metà dei costi di tipografia.

Per quanto riguarda la collaborazione con le università (sia di Pisa che di Firenze), i rapporti sono da ritenersi insufficienti anche a causa della scarsa sensibilità dei docenti universitari (ad eccezione del prof. Pavone, a Pisa, e del prof. Maselli, a Firenze) a indi­rizzare gli studenti verso tesi di studio locale e di storia contemporanea, che naturalmente potrebbero alimentare e arricchire, diretta- mente o indirettamente, il lavoro della ri­vista.

La prospettiva della redazione di allargare gli interessi della rivista in campo regionale (ma questo punto è appena agli inizi della discussione per i problemi che comporta) potrebbe tuttavia stimolare docenti e studen­ti verso i temi di storia contemporanea e, nello stesso tempo, favorire una più ampia diffusione di “Documenti e studi” nelle altre province.

Lilio Giannecchini Renzo Papini

Andrea Polcri

“L’impegno”Rivista dell’Istituto per la storia della Resi­stenza di Vercelli “Cino Moscatelli”, Borgo-

sesia

1 II periodico “L’impegno” è nato nel 1980 per rispondere ad una serie di esigenze-moti­vazioni, alcune delle quali (almeno nella fase iniziale) più evidenti di altre che, sebbene presenti sin dall’avvio, hanno però trovato un loro sviluppo negli anni successivi, paral­lelamente all’articolazione stessa dell’attività dell’Istituto.

L’aspetto sicuramente più evidente era connesso all’esistenza di una ricca storia del movimento di liberazione e di una vasta gamma di tematiche sociali, politiche ed economiche sottese allo sviluppo della Resi­stenza in provincia di Vercelli. Esisteva già, comunque, un discreto numero di ricerche di storia contemporanea non legate alla Re­sistenza. Fondato nel 1974, l’Istituto trova­va quindi nella rivista lo strumento ritenuto più consono alla divulgazione della propria attività globale, delle ricerche concluse e in corso. La scelta sembrava inoltre confortata dall’esistenza di un pubblico potenziale per­centualmente “sicuro”, composto da ex partigiani o da persone comunque legate al mondo e al sistema dei valori espressi dal movimento partigiano. Si pensava anche, come si dirà più avanti, ad un pubblico di­verso, ma la risposta non era affatto sconta­ta e prevedeva comunque tempi più lunghi.

Si può quindi affermare che la nascita della rivista abbia in un certo senso rappre­sentato il coronamento di una “presenza” significativa della componente resistenziale nell’ambito socio-culturale della provincia, anche se fin dal suo sorgere le istanze per un interesse globale sull’intera storia con­temporanea locale furono ben presenti, e nonostante, soprattutto nei primi due, tre anni di vita, il livello qualitativo degli inter­venti sulla Resistenza non ponesse ancora il problema, come negli anni successivi (parti­colarmente dopo il quarantesimo), come centrale per la vita stessa della rivista.

La coincidenza dell’inizio del quarantenna­le della Resistenza con il quarto anno di vita de “L’impegno”, vale a dire con un anno che ha segnato una prima serie di cambiamenti nell’impostazione redazionale, ha comunque di fatto procrastinato, per i notevoli impegni complessivi dell’Istituto, al dopo anniversario una riflessione seria e globale sulla rivista, an­che in riferimento al rapporto con i lettori (sia con quelli già acquisiti, sia con quelli, e sono molti, potenzialmente raggiungibili).

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Non si tratta ovviamente di una semplice riflessione su questioni di mercato se è vero, e per una rivista come la nostra, strettamen­te collegata all’ambito provinciale, sembra esserlo, che il tipo di utenza incide profon­damente sul tipo di scelta degli argomenti e viceversa. Quanto meno, i primi anni di vita della rivista hanno visto una corrispondenza quasi automatica fra argomenti trattati e ti­po di abbonati (sebbene con alcune signifi­cative eccezioni rappresentate da insegnanti e operatori culturali), conseguenza diretta dell’impostazione originaria, che ha poi pro­dotto un meccanismo in base al quale l’of­ferta, non esclusiva ma consistente, di temi resistenziali ha così solidamente determinato il lettore-tipo (soprattutto l’abbonato) fino al punto da esserne poi pesantemente in­fluenzata.

Ciononostante, negli ultimi anni, paralle­lamente allo sviluppo dei rapporti di colla­borazione fra Istituto, enti locali, associa­zioni culturali e mondo della scuola, sono stati via via introdotti contributi di tipo di­verso, anche se non rispondono comunque ancora a sufficienza alle esigenze di un pro­getto organico di intervento nel campo della storia contemporanea. Il 1986 ha segnato per la rivista l’avvio di una fase che potrem­mo definire di transizione, caratterizzata da una riflessione globale che, a partire dai buoni risultati conseguiti in provincia negli anni precedenti, ha comunque riguardato l’evoluzione futura e necessaria de “L’impe­gno”, intesa sia come potenziamento di al­cuni settori, sia come maggiore articolazione degli interventi sulla storia contemporanea, sia come introduzione di contributi nuovi, sia, infine, come ulteriore, graduale adegua­mento di alcune rubriche ai caratteri e agli orientamenti della disciplina storica contem­poranea.

Alle riflessioni, negli ultimi mesi del 1986, ha fatto seguito un intenso lavoro destinato ad aumentare le collaborazioni, a garantire la continuità nel tempo degli interventi su

temi e argomenti specifici, a verificare la praticabilità (anche economica) di alcune ipotesi come, ad esempio, l’introduzione di rubriche che accrescano il rapporto diretto con i lettori e, più in generale, che siano in grado di fornire un panorama soddisfacente della produzione di “cultura storica” in pro­vincia.

Il processo è tutt’ora in atto e dovrebbe dare i primi frutti nel secondo semestre del 1987. Sarà comunque necessario tener conto di un aspetto che per molte riviste, pensiamo particolarmente per quelle che fanno capo ad Istituti provinciali, finisce col rivelarsi spesso fondamentale: vale a dire il significa­to, le modalità, le difficoltà connesse alla di­vulgazione della storia contemporanea in ambiti decentrati, con peculiarità culturali, ma anche socio-politiche, ben determinate e determinanti (non immodificabili, ma con tempi e modi spesso abbondantemente di­versi rispetto a contesti oggettivamente più inclini a recepire l’innovazione).

Sebbene mai direttamente, il problema è emerso tra le righe con costanza significativa a Giulianova e si è combinato, più o meno esplicitamente, con altri problemi di grande rilievo, come il rapporto fra locale e nazio­nale, l’utilità o meno di “accorpare” i perio­dici secondo criteri tematico-territoriali, i motivi del proliferare delle riviste degli Isti­tuti e, non ultimo, lo stesso fondamento eti­co dell’esistenza e dell’attività degli Istituti richiamato dal presidente Quazza nelle con­clusioni.

2 Anche il problema del mercato, posto al punto due della traccia, vi è direttamente collegato. Ponendo come punto fermo che la ricerca e la divulgazione della stessa in ambito locale non possono e non devono de­rogare dai criteri di correttezza scientifica, sia teorica che metodologica, e che lo studio del locale non è (come giustamente stigma­tizzato a Giulianova) un ripiego dettato dal­l’impossibilità di cimentarsi in ricerche più

“In/formazione” 119

estese, sembrerebbe comunque importan­te riflettere sulle riviste degli Istituti non solo in base alla qualità dei contenuti, ma anche, fatti salvi alcuni requisiti irrinun­ciabili, in base al rapporto Istituto-terri­torio.

La scelta che “L’impegno” ha fatto ri­spetto all’utenza fin dal suo sorgere, e che resta invariata pur nella citata volontà di cambiamento, è stata infatti conseguenza diretta di una serie di valutazioni che ri­guardano proprio il significato e le modalità di presenza della rivista in provincia. Ne è scaturita la decisione di rivolgersi ad un pubblico non strettamente professionale (operazione che, in ambito provinciale, avrebbe suscitato alcune perplessità anche dal punto di vista strettamente economico), puntando invece all’allargamento degli inte­ressi sui temi della storia contemporanea a categorie potenzialmente motivate a farlo ma mai, o molto scarsamente, sollecitate da iniziative che partissero da istituzioni e or­ganismi locali: insegnanti, operatori cultu­rali, studenti universitari ma anche, più in generale la categoria piuttosto estesa di per­sone che, pur svolgendo la propria attività lavorativa in settori molto diversi (industria, commercio, pubblica amministrazione) se­guono o desiderano seguire la vita culturale della propria comunità.

3 La risposta alla terza domanda pone in­vece un ordine di problemi che se da un lato sono riconducibili in parte alle considerazio­ni già fatte precedentemente, dall’altro ri­mandano al seminario di Giulianova e alle esigenze che quel primo incontro ha manife­stato con evidenza. È difficile pensare che dall’esterno e in generale un’analisi anche attenta e minuziosa del panorama dei perio­dici degli Istituti possa sostanzialmente ag­giungere qualcosa a quanto è stato fatto con le relazioni dal seminario, specialmente se l’obiettivo non è, come siamo convinti non sia, quello di giungere ad una classifica

ma piuttosto quello di riflettere seriamente all’interno della rete associativa sulla reale possibilità e capacità degli Istituti (singolar­mente e collettivamente) di rappresentare una realtà viva e qualificata, in grado di ga­rantire un futuro a se stessa e al sistema di valori che la regge.

In questo senso, la domanda condensa quello che Giulianova, fra le altre cose, sembra aver indicato piuttosto come un obiettivo da perseguire con coraggio. È pro­babile però che la risposta capace di garan­tire successivi momenti di confronto sereno su temi concreti possa venire soltanto dalla sintesi dei contributi che ogni singolo Istitu­to sarà in grado di fornire valutando il pro­prio periodico in base alle esigenze che gli vengono dal territorio e a quelle, ugualmen­te fondamentali, che sono insite alla disci­plina storica contemporanea.

È indubbiamente un terreno rischioso, per l’opinabilità e la dispersione a cui si pre­sta e che richiede innanzitutto un grosso sforzo di autocritica da parte degli Istituti stessi, ma che potrebbe, inoltre, sgombrare il campo da alcuni equivoci di fondo emersi anche al seminario: utile premessa a muta­menti e crescite, magari conflittuali, anche al proprio interno, ma non necessariamente sfociami in necessità di “rifondazione”.

La redazione

“In/formazione”Notiziario dell’Istituto storico della Resi­

stenza in Toscana

1 “In/formazione” appartiene alla numero­sa famiglia dei periodici degli Istituti della Resistenza e, naturalmente, ne condivide al­cune caratteristiche: in primo luogo la fun­zione di proiettare all’esterno l’immagine di una operosità costante e quella di strumento di aggregazione di un manipolo di giovani studiosi professionali e non (l’età media dei

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collaboratori si aggira sui trent’anni), con in più, però, una peculiare accentuazione della natura di servizio rivolto a un largo pubbli­co esterno, che appartiene ad una consolida­ta tradizione dell’Istituto toscano. Quest’ul- tima peculiarità ha improntato l’articolazio­ne del periodico in tre sezioni e la loro tito­lazione: “rassegne” ( e non saggi o studi) la prima, “schede” (e non recensioni) la secon­da, e, infine, “notizie” la terza, dedicata al­la descrizione sommaria di beni culturali anche non canonici e a una sempre più nu­trita documentazione su iniziative di aggior­namento e sperimentazione didattica raccol­ta attraverso le segnalazioni fornite dagli Istituti storici della Resistenza federati. L’o­biettivo del periodico è, insomma, quello di privilegiare le esigenze d’informazione del destinatario della comunicazione, non ne­cessariamente specializzato, rispetto alle abitudini e alle preoccupazioni strettamente accademiche dei collaboratori delle riviste storiche.

L’insieme delle rassegne pubblicate nei primi undici numeri configura una certa continuità nella scelta dei temi: attenzione ai metodi d’insegnamento della storia contem­poranea estesa anche ad altri paesi europei, alla formazione degli insegnanti della mate­ria, all’uso di nuove fonti, al problema della presentazione del fascismo e del nazismo nelle varie storiografie nazionali e, in gene­rale, agli aspetti della socializzazione del sa­pere storico.

2 Se è abbastanza facile definire l’area di re­clutamento dei collaboratori di “In/forma- zione” (in genere, giovani docenti universi­tari italiani e stranieri per le rassegne e un gruppo formato in prevalenza da insegnanti e neo-laureati per la compilazione delle sche­de), più complicato si fa, invece, il discorso relativo ai lettori. Il pubblico a cui si rivolge il periodico dipende infatti da una scelta aprioristica, perché la maggior parte della ti­ratura (2.500 copie) viene spedita alle scuole

e alle biblioteche della Toscana. Trattandosi di una rivista fuori commercio, manca per­ciò il riscontro delle vendite e l’accoglienza riservata all’iniziativa non è agevolmente ve­rificabile. I tentativi di sondaggio effettuati con l’inserimento negli ultimi numeri di un questionario, allo scopo, appunto, di accer­tare la risposta delle scuole e delle bibliote­che toscane, stanno dando risultati ancora molto parziali e con grande lentezza; ma re­sta da vedere quanto, soprattutto nel caso della scuola, influisca sul rapporto con l’u­tenza il diaframma burocratico frapposto da una struttura scolastica priva di reali spazi d’incontro, di lavoro e di lettura al di fuori delle aule. Molto più pronti, invece, sono stati i segnali d’interesse provenienti dall’a­rea degli addetti ai lavori. Indizio di una qualche sfasatura nella formula? Difficoltà effettive d’intermediazione fra ricerca scien­tifica e attività didattica, aggravate ulterior­mente dalla limitazione dell’ambito cronolo­gico e geografico circoscritto alla storia ita­liana postunitaria e dalla indefinitezza della formazione e della figura professionale del­l’insegnante della materia. Probabilmente c’è un po’ di tutto questo, ma una certa pi­grizia nella risposta non infirma, penso, la sensazione che la strada imboccata da “In/formazione” proceda in una direzione destinata ad essere sempre più frequentata.

3 II notiziario bibliografico pubblicato dal­l’Istituto toscano, benché a diffusione pre­valentemente regionale (ed è questa una con­traddizione con il contenuto del periodico imposta da ragioni esclusivamente pratiche) non è un periodico di storia locale. A diffe­renza della scelta fatta dalla maggior parte delle riviste pubblicate dagli Istituti confra­telli, ha preferito, dopo l’esaurimento della precedente esperienza del bollettino “Atti e studi” e un silenzio di circa sei anni, muo­versi su un terreno meno condizionato e condizionante in una sede impegnativa cul­turalmente come Firenze, lasciando agli

“Mezzosecolo” 121

Istituti provinciali che stanno costituendosi anche in Toscana l’opportunità di mobilita­re giovani energie intellettuali intorno a un progetto di rinnovamento degli studi di sto­ria locale. L’osservatorio fiorentino non è, perciò, il più attrezzato per un colpo d’oc­chio sugli orizzonti della storia locale e sul ruolo esercitato al suo interno dal complesso delle riviste degli Istituti storici della Resi­stenza. Certo, una costellazione ricca di una trentina di periodici di storia contempora­nea, che copre pressoché tutto il territorio nazionale, seppure con una forte prevalenza del Nord nella distribuzione geografica, rap­presenta di per sé, se non altro quantitativa­mente, un fenomeno unico nel panorama della storiografia mondiale. A questa consi­derazione va subito aggiunto che ciascuna rivista cerca di aderire alla realtà ambientale in cui nasce, cosicché l’insieme è tutt’altro che monocorde. In alcuni casi è avvertibile la tendenza alla specializzazione ed è comu­ne a tutte la spinta ad evolversi verso i livelli più avanzati come risposta alle sollecitazioni provenienti da un ricambio di forze che te­stimonia la vitalità e l’aderenza degli Istituti alle trasformazioni della società, pur nella fedeltà di fondo all’ispirazione civile origi­naria.

La varietà e talvolta la originalità delle proposte non offrono, dunque, un’immagi­ne univoca, ma rispecchiano fedelmente la tormentata problematicità della storiografia odierna, soprattutto l’effervescenza e la con­sapevolezza al di fuori della cerchia degli ad­detti ai lavori e dei dibattiti iniziatici, senza perdere di vista la funzione sociale della sto­ria. Non tutto, in un programma del genere, naturalmente è semplice e il cammino è tut­t’altro che un rettilineo in vista del tra­guardo.

Ritornando al caso particolare di “In/for- mazione” , ad esempio, non è stata taciuta la difficoltà di far combaciare i propositi con i risultati, di creare la sintonia non solo all’in­terno di un folto gruppo di collaboratori e

redattori ma soprattutto fra il progetto e l’ampiezza dell’area di diffusione prevista. Ma è proprio su questo difficile terreno che si gioca la partita per abbattere i rigidi confi­ni fra ricerca e divulgazione, per l’uscita del­la storia dal “salotto buono”, come ha scrit­to argutamente — e molto seriamente — Si­monetta Soldani nel n. 10 di “In/forma- zione” .

La redazione

“Mezzosecolo”Annali dell’Istituto storico della Resistenza

in Piemonte

1 “Mezzosecolo” nacque nel 1975 come an­nale di tre Istituti che lavoravano in stretto collegamento, con ambiti di competenza complementari: il Centro studi Piero Gobet­ti, l’Istituto storico della Resistenza in Pie­monte (che hanno avuto dal 1961 al 1983 lo stesso direttore) e l’Archivio nazionale cine­matografico della Resistenza, sorto nel 1966.

La rivista ha rispecchiato tali ambiti defi­niti e reso conto delle ricerche svolte all’in­terno di essi: fascismo, antifascismo, movi­mento operaio per il Centro (oltre a una se­zione fissa di studi gobettiani); seconda guerra mondiale, Resistenza, ricostruzione per l’Isti­tuto; ambedue i campi, ma dal punto di vista della raccolta di testimonianze orali, per l’Ar­chivio. Quest’ultimo ha poi sviluppato in una rivista propria, “Il nuovo Spettatore”, gli aspetti metodologici e tecnici della propria specializzazione, riservando a “Mezzosecolo” i testi fruibili come documenti.

Annali di nome, ma di periodicità irrego­lare — per motivi di finanziamento, ma an­che delle forze da rivolgere alla redazione — “Mezzosecolo” ha avuto in dieci anni cinque uscite, offrendo regolarmente, tuttavia, no­tiziari accurati e continuativi dell’attività dei tre Istituti e studi di largo respiro, frutto in genere di ricerche pluriennali.

122 La storia contemporanea attraverso le riviste

La corrispondenza fra pubblicazioni e ri­cerche promosse rispecchia infatti le scelte di attività interna, soprattutto per l’Istituto, che ha sempre avuto un programma artico­lato e ampio, legato alla sistemazione, all’in­cremento e allo studio dell’archivio, alla sua funzione di Istituto regionale (depositario di tutto l’archivio storico del Clnrp e, fino alla metà degli anni sessanta, unico Istituto della Resistenza in Piemonte), e sorretto da un rapporto di stretta e non subalterna collabo- razione con l’Università.

2 Agli inizi degli anni settanta i collegamen­ti col Cnr e poi il finanziamento regionale consolidarono i programmi di ricerca, men­tre l’estendersi della rete provinciale degli Istituti allegeriva il regionale dal compito degli studi locali (fino ad allora realizzato nella collana di monografie “Studi e docu­menti”). Si rafforzava così la tendenza a im­postare ricerche di carattere più generale sul­la posizione internazionale del Piemonte nel­la seconda guerra mondiale (che portò alla raccolta delle fonti anglo-americane), sui cattolici nella guerra e nella Resistenza, sulla magistratura piemontese nel dopo-liberazio- ne, di cui “Mezzosecolo” ha pubblicato via via i risultati definitivi o parziali (nel caso di studi destinati alla pubblicazione in volume).

Il ruolo stesso che il Piemonte aveva avu­to rispetto a questi temi faceva sì che gli stu­di assumessero una valenza più nazionale che locale, e questa caratteristica, saldandosi al tipo di contributi pubblicati dal Centro (studi su Gobetti di Bobbio, Bergami, Fo­gliano, Dreyfus, Meaglia e interventi di Ca- prioglio, Revelli, Ortaggi, Sapelli sul movi­mento operaio) ha prodotto un livello di in­tervento organico.

Altrettanto ancorati al lavoro degli Istituti editori (ricerca storico-semiologica sulle bandiere del movimento operaio italiano, realizzata, nel biennio 1979-80), sono gli ul­timi due numeri (4 e 5), praticamente mono­grafici, avendo raccolto gli atti del semi­

nario “Aspetti della cultura operaia nella so­cietà industrializzata” (1982) organizzati a Torino dal Centro e dall’Istituto. La proble­matica affrontata in questi numeri è, per la natura del tema e per l’impostazione data ai lavori, ampiamente interdisciplinare, e ri­spetto alla trattazione di livello che si può de­finire decisamente alto: la collaborazione di storici sociali, semiologi, antropologi euro­pei e americani, che hanno esaminato la que­stione da vari punti di vista, ha consentito di cogliere la profonda trasformazione di meto­di e linee interpretative generali, nonché la vitalità di un dibattito pienamente consape­vole, nei suoi livelli più problematici, delle implicazioni ideologiche di tali mutamenti.

3 “Mezzosecolo” rispecchia dunque fedel­mente l’attività svolta all’interno degli Istitu­ti editori; questo dato ha insieme il pregio di assicurare la novità e l’originalità degli inter­venti e il limite di consentire poca flessibilità e tempestività in altri settori.

La difficoltà, che ora si cerca di superare, di destinare agli annali uno staff, sia pure contenuto, ha reso praticamente impossibili interventi sistematici di altro tipo (recensio­ni, rubriche bibliografiche, interventi in di­battiti, e persino una sezione dedicata all’at­tività didattica, che pure è cresciuta notevol­mente, all’interno dell’Istituto piemontese e dell’Archivio cinematografico).

Il mercato, limitato agli addetti ai lavori per la stessa natura della pubblicazione, sta registrando un allargamento qualitativamen­te interessante (richieste dirette da bibliote­che italiane e straniere, da librerie con distri­buzione internazionale). Il recente accordo con l’editore Franco Angeli per la pubblica­zione dei prossimi numeri (il sesto è in corso di stampa) e la ricerca di soluzioni tecnologi­che più economiche comporteranno, proba­bilmente, un potenziamento della sua diffu­sione presso un pubblico più vasto.

Ersilia Alessandrone Perona

“Notiziario 123

“Notiziario”Rassegna dell’Istituto storico della Resisten­

za in Cuneo e provincia

1 II “Notiziario” dell’Istituto storico della Resistenza nato nel 1972 come notiziario nel senso più elementare del termine, come stru­mento di comunicazione delle decisioni adottate dagli organi dirigenti del consorzio per l’Istituto stesso e di divulgazione delle attività man mano promosse e realizzate, si è via via trasformato cercando di qualificar­si quale rivista di storia: i passaggi intermedi sono stati molti, dall’avvio della pubblica­zione di estratti delle tesi di laurea più signi­ficative che si realizzano sulla base della do­cumentazione conservata nell’archivio del­l’Istituto, alla collaborazione su singoli aspetti di docenti dell’Università di Torino, alla pubblicazione dei risultati — anche par­ziali — del lavoro di giovani ricercatori in qualche modo legati all’Istituto. Sicuramen­te anche gli avvicendamenti a livello di diret­tore della rivista hanno inciso sulla sua storia, segnando momenti di nuovo impulso, e dan­do vita, più recentemente, anche ad una ri­strutturazione interna della organizzazione della rivista, con la creazione di più rubriche.

Le esigenze originarie di informazione delle attività dell’ente sono state conservate, se pur ridotte in termini di spazio e concepi­te in modo più articolato; la attuale “Vita d’istituto” , infatti, è un tentativo più artico­lato di esposizione delle iniziative assunte dall’ente nell’ambito della politica generale degli Istituti piemontesi (attraverso l’impor­tante strumento di raccordo costituito dal coordinamento degli Istituti piemontesi) e con l’attenzione rivolta anche alla attività degli altri Istituti della Resistenza esistenti sul territorio nazionale, oltre che natural­mente delle istituzioni culturali e degli enti locali esistenti sul nostro territorio; una “vi­ta d’istituto” concepita insomma come tra­ma di rapporti al cui interno si inseriscono singole iniziative.

L’attuale struttura della rivista prevede al­cune rubriche fisse: studi e documenti (saggi di carattere locale, ma anche generale; pub­blicazione di “documenti” nel senso più am­pio del termine); cultura e società (informa­zione e discussione sul dibattito politico-cul­turale a livello locale e a livello nazionale con resoconti di iniziative e convegni); sche­de (informazioni su libri e riviste). Possono affiancarsi a queste altre rubriche, di cui si avverta di volta in volta l’esigenza: fonti (descrizione di nuove acquisizioni di mate­riale bibliografico ed archivistico presso l’I­stituto, nel tentativo di proporre nuove stra­de di ricerca; più in generale segnalazione e descrizione di fonti recentemente individua­te); didattica (esposizione della attività di­dattica dell’Istituto; elaborazione di propo­ste per la scuola; risultati di iniziative realiz­zate dalle scuole o con le scuole).

La articolazione descritta non è altro che lo specchio di una concezione della rivista quale: strumento di diffusione dei risultati della ricerca attinente essenzialmente aspetti di storia locale (siano essi frutto di ricerche interne all’Istituto o del lavoro di ricercatori cui si offre la possibilità di pubblicazione); strumento di diffusione dei risultati di ini­ziative assunte dall’Istituto quali convegni, seminari, momenti di dibattito più o meno pubblico su singoli temi; strumento di aggre­gazione di forze giovani e nuove; strumento per una ricognizione non occasionale sulle fonti della storia contemporanea, con parti­colare attenzione alle fonti locali, bibliogra­fiche e archivistiche (archivi cartacei, foto­grafici, sonori); strumento di informazione, divulgazione e discussione dei temi del di­battito culturale in corso; strumento di ela­borazione e di diffusione dei risultati di ini­ziative nel settore della didattica.

Indubbiamente esiste uno scarto tra la concezione della rivista quale dovrebbe e vorrebbe essere e quale in realtà riesce ad es­sere. C’è purtroppo una certa dose di occa- sionalità nella impostazione della rivista

124 La storia contemporanea attraverso le riviste

(anche se rispetto ad alcuni anni fa la pro­grammazione è sicuramente maggiore), de­terminata da alcuni fattori: la carenza di ri­cerche di ampia portata promosse dall’Isti­tuto e in grado di coinvolgere forze nuove; il decentramento dell’Istituto di Cuneo rispet­to alle strutture universitarie, e la carenza quindi di regolari rapporti e contatti sia con1 docenti che con neo-laureati o laureandi; la esiguità delle forze presenti nell’Istituto, che non sono in grado di seguire con continuità — tra l’altro — né un discorso sulle fonti concepito anche come strumento di salva- guardia di particolari “beni culturali” esi­stenti sul territorio, né un discorso serio e continuativo nel settore della didattica.

I punti deboli della rivista finiscono per coincidere con i punti deboli dell’Istituto, che toccano i nodi della ricerca, dei rapporti con l’Università, dell’aggregazione di forze giovani. Con ciò non si intende affatto che la rivista dovrebbe essere il riflesso preciso delle attività dell’Istituto; la rivista deve go­dere di autonomia giornalistica e scientifica e saper cogliere, a livello locale e non, stimo­li e suggerimenti, oltre a saper individuare risultati di lavoro cui offrire ospitalità. Cer­to però le carenze sopra descritte finiscono per condizionare la rivista e per accentuare il carattere di occasionalità nelle scelte (questo è evidente attraverso l’analisi di tutte le ru­briche e anche — o forse in particolare — in quella riservata alle schede).

Un problema importante, che mai si è riu­sciti a risolvere, indubbiamente legato ai problemi di fondo più sopra esposti è, non a caso, quello della mancanza di una redazio­ne vera e propria.

2 Ciò detto, e tenuto conto che il “Notizia­rio” dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia ha origine dalla necessità di mantenere i legami tra gli enti aderenti al consorzio, non ci si è posto un problema di mercato se non a partire dal 1982. Fino a questa data il “Notiziario” veniva distribui­

to in gran quantità (1.500 copie circa) e gra­tuitamente a tutti. E anche negli anni più re­centi la maggior parte della tiratura è stata destinata a enti e privati non abbonati, mal­grado il “Notiziario” abbia definitivamente assunto veste di rivista.

La consapevolezza del mercato in quanto problema finanziario e in quanto identifica­zione di destinatari della rassegna si pone con pressante necessità in tempi più recenti, anche in conseguenza degli enormi costi ti­pografici. Sempre più l’articolazione interna del “Notiziario” (che d’altronde non ha an­cora potuto assumere un titolo adeguato ai rinnovati contenuti) va nella direzione di coinvolgere i moltiplicatori della conoscenza storica, insegnanti in primo luogo.

3 L’insieme delle pubblicazioni periodiche degli Istituti storici federati all’Insmli è cer­tamente uno specchio anche puntuale degli orientamenti storiografici della contempora- neistica. L’immagine che ne emerge, tutta­via, è più quella riflessa da una superficie accentuatamente ondulata che da una super­ficie perfettamente piana. In sostanza le rivi­ste degli Istituti svettano e si inabissano in un altalenante succedersi di spunti-intuizioni seguito da lunghi momenti d’ombra. Non tutte le riviste seguono questo andamento a corrente alternata, ma sono assai poche quelle che riescono ad avere una “tenuta ” costante. Potrebbe dirsi la stessa cosa sul ruolo delle riviste quali espressioni della sto­ria locale nel rapporto con la storia naziona­le e quali espressioni della storia sociale. Peggio per l’uso assai modesto delle fonti orali.

Qual’è la causa di quella che abbiamo chiamato scarsa “tenuta”? Certamente della situazione interna agli Istituti-editori che non riescono ad impostare ricerca e attività culturale in modo tale da averne risultati co­stanti. E questo in sicura relazione anche al­l’origine degli Istituti, al dilaniante processo di trasformazione degli stessi da organismi

“Quaderno 125

governati dai partigiani-fondatori ad organi­smi scientifici di storia contemporanea.

A causa di tutto ciò non è facile per un lettore men che avvertito avere una visione della galassia delle riviste in questione, di una produzione — cioè — che trova diffi­coltà perfino a circolare all’interno di tutti gli Istituti associati all’Insmli.

La redazione

“Quaderno”Rassegna dell’Istituto per la storia della Re­

sistenza in provincia di Alessandria

1 L’Istituto di Alessandria, operante dal 1977, ha immediatamente dato vita alla sua rivista “Quaderno” . Due numeri all’anno, a cominciare dal 1978.

Proprio il numero 1 riflette la ragione fondamentale: l’impostazione programmati­ca dell’Istituto richiedeva — accanto a una serie di volumi che iniziò subito a pubblicare — lo strumento rivista, per affrontare il nes­so storia nazionale-storia locale, l’analisi delle fonti e delle dotazioni archivistiche pubbliche e private, le bibliografie e il patri­monio delle tesi di laurea, le ipotesi di ricer­ca sulla scorta della Resistenza come nodo cruciale di applicazioni storiografiche di lun­go periodo e di una nozione di storia con­temporanea secondo le sue più vaste acce­zioni, i problemi metodologici, i rapporti con il territorio e con la scuola.

Premeva, inoltre, un fatto specifico: il confluire nell’Istituto dei materiali e delle esperienze del Centro di cultura popolare “G. Ferraro” , e quindi la proposta di una precisa vocazione per i problemi relativi alle fonti orali e ai soggetti di storia implicati.

Un’ulteriore ragione era poi rappresentata dall’esistenza, in provincia, di gruppi e pub­blicazioni dediti a esercizi storiografici di ambito medievale e moderno, e per contro dall’assenza di tradizioni e di pratiche di stu­di di storia contemporanea.

Il “Quaderno” ha così espresso, nelle loro acquisizioni più solide e naturalmente nei lo­ro limiti, i processi di sviluppo delle attività e delle direzioni di ricerca dell’Istituto: la crescita degli elementi lungo l’arco Ottocen­to-Novecento fino ai decenni più recenti, l’ampliarsi degli ambiti disciplinari, l’artico­larsi delle competenze. Ha potuto contare su autorevoli collaborazioni esterne e sul fatto che, divenendo l’Istituto un punto essenziale di riferimento per operatori e ricercatori gio­vani e meno giovani, cui ha offerto l’oppor­tunità di intraprendere, oppure di riprende­re, studi specialistici, o di concretizzare di­sponibilità, attitudini e aspirazioni, il nume­ro dei collaboratori ha raggiunto una note­volissima consistenza. Ciò ha anche consen­tito, a partire dal n. 15, di esplicitare in se­zioni organizzate (articoli e saggi, note e di­scussioni, problemi e materiali didattici, fonti archivi e documenti, incontri e conve­gni, recensioni, notiziario) un complesso di contributi che in parte si era già delineato. Qualcuna di queste sezioni potrà risultare mobile, e alternarsi con altre in progetto, ma è indubbio che quelle finora prodotte corrispondono a esigenze reali e a punti per­manenti di applicazione del lavoro dell’Isti­tuto.

2 Circa il mercato, il “Quaderno” si trova oggi ad affrontare le ipotesi di una profonda riorganizzazione editoriale. La natura speci­fica del consorzio di enti locali e territoriali su cui si fonda l’Istituto ha condizionato la prima individuazione del mercato nel senso degli enti e del personale politico-ammini­strativo, sindacale e categoriale. La struttura editoriale, a dire molto, artigianale, ha ap­pena consentito di orientare la distribuzione verso la rete nazionale dei nostri Istituti, ol­tre che verso sedi universitarie, enti e biblio­teche, pubblicazioni in cambio, singoli stu­diosi. Risultano sicuramente al di sotto delle loro potenzialità — e perciò costituiscono il motivo della ristrutturazione editoriale in

126 La storia contemporanea attraverso le riviste

progetto — ampi spazi locali, individuali e collettivi, e in misura particolarmente acuta la scuola, nonché la distribuzione nazionale. Di estrema importanza, per quest’ultimo aspetto, l’iniziativa dell’Istituto nazionale suH’allestimento degli indirizzari compositi su cui coordinare l’offerta e la distribu­zione.

3 Per rispondere anche alla terza domanda, va innanzi tutto rilevata l’importanza di questa iniziativa di “Italia contemporanea”; altrettanto si deve fare per il proposito del­l’Istituto nazionale di allestire l’anagrafe delle ricerche (Conferenza dei direttori e Consiglio generale del 24-25 ottobre scorsi) così da ottenere mappe complessive e offer­te di collegamenti in verticale e in orizzonta­le, di organizzazione nelle ricerche e nelle scelte editoriali. L’Istituto di Alessandria di­spone di molte porte aperte, grazie all’im­postazione originaria prima ricordata e al suo dispiegarsi attraverso significative arti- colazioni disciplinari e interdisciplinari. Per il “Quaderno” è lecito attendersi stimoli e sollecitazioni di marcata utilità specialmente nei confronti di un problema tuttora irrisol­to — quello del raccordo fra storia locale e storia nazionale — giacché l’assenza di tra­dizioni di studi contemporaneistici induce spesso a dover recuperare pure e semplici ri- costruzioni degli avvenimenti come condi­zione di operazioni più organiche e mature.

La redazione

“Qualestoria”Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Ve­

nezia Giulia

1 Quando nell’ottobre del 1973 apparve nel­la semplice veste di Bollettino, e con poco più di una ventina di pagine, questa piccola rivista di ricerca e dibattito (limitatamente

di informazione), sorta al “confine orienta­le” (non è pleonastica sottolineatura geogra­fica come dicono le premesse e il percorso editoriale del successivo quindicennio), essa chiariva subito le ragioni di una presenza: “Solo verificando la validità di nuovi tenta­tivi di ricerca e di ricostruzione storica anche tra i “non addetti ai lavori” , lo studio della storia potrà recuperare quella funzione di propulsione e di crescita civile che ci si af­fanna di attribuirle astrattamente a parole” .

Era il corsivo d’apertura del direttore Giovanni Miccoli, ripreso e ampliato nel nu­mero successivo: “nella persuasione che un effettivo rinnovamento culturale non può nascere solo da nuovi contenuti, ma anche da un diverso tipo di rapporti umani di col­laborazione, di intervento, vorremmo ... che [il bollettino] divenisse anche uno strumento per insegnanti e studenti, che da questi par­tissero richieste e sollecitazioni ad affrontare determinati problemi della nostra storia re­cente. Superare le mistificazioni della propa­ganda interessata non è impresa facile; ope­rare una saldatura reale, e non di pura stru­mentalizzazione, tra l’impegno culturale e l’azione politica è un punto d’arrivo non fa­cilmente raggiungibile” .

Natura e funzione del periodico quadri­mestrale (è rimasto sempre tale) apparivano, poi, esplicitamente, dai contenuti e dalle col­laborazioni che raccoglieva. Ne uscivano rappresentati il tipo di radicamento e gli svi­luppi dell’Istituto editore e, in parte, i limiti della memoria storica collettiva, la comples­sità delle radici culturali di una città, Trie­ste, e di una regione multinazionale e mul- tidimensionale per la stratificazione econo­mica e sociale, per le mentalità sedimenta­te e sussistenti, per le divaricazioni prevalen­ti sulla differenziazione delle sue compo­nenti.

Di qui il richiamo al confine orientale. Si trattava di contribuire, con la modestia dei propri mezzi, al superamento del lungo do­poguerra giuliano (l’amministrazione an-

“Qualestoria” 127

glo-americana termina a Trieste e territorio nel 1954, ma le ripercussioni indotte dal lungo contenzioso italo-jugoslavo vanno ol­tre gli accordi stessi di Osimo a metà degli anni settanta).

Il restringimento degli spazi fisici ammi­nistrativi — ma sono anche spazi umani — nell’area giuliana corrispondeva quasi geo­metricamente all’arroccamento dei munici­palismi, ad una sempre più asfittica ripro­posizione dei vecchi miti “nazionali” . Capa­ci sempre, però, di aggregare consensi, di indurre comportamenti: sotto l’urto del ridimensionamento territoriale, con l’on­da degli esodi di massa dall’Istria, con l’in­stabilità e il decadimento delle obsolete strutture economiche, nell’idoleggiamento vittimistico di un passato stravolto o mal conosciuto dalle consapevolezze socializ­zate.

Lo specifico lavoro di scavo storiografico doveva, da un parte, recuperare il respiro del lungo periodo (le radici ottocentesche e novecentesche), dall’altra creare l’abito del confronto, quanto a contenuti e metodi, con l’intreccio delle complessive vicende eu­ropee e italiane, mantenere l’attenzione alle affinità-distinzioni delle componenti giu­liana e friulana. Nella reciproca sollecitazio­ne e nelle molte comunanze d’impresa ri­spetto all’Istituto di Udine, in una piena in­tegrazione con i programmi e le attività del­l’Istituto nazionale e della nostra rete fede­rale.

La presenza nella rivista delle collabora­zioni — valgono pochi nomi — di Miccoli (dirige la rivista fino all’inizio del 1985; gli subentra Galliano Fogar), di Enzo Collotti, di Elio Apih, testimoniano una permanente stabilità di rapporto-integrazione con i filo­ni di storia contemporanea coltivati nell’U­niversità triestina.

L’assunzione della nuova testata “Quale- storia” (dall’aprile 1978, VI, 1) ha significa­to una più precisa delimitazione di campo sul versante della ricerca storica, di rifles­

sione più meditata quando ad impegno civi­le (forse meno velleitario ma indubbiamente meno incisivo nell’immediatezza del con­fronto politico): c’è indubbiamente un calo di rilevanza dalla ricerca-battaglia attorno al processo per la Risiera di San Saba, dagli studi su nazionalismo e neofascismo al con­fine orientale, dalla promozione delle prime iniziative di divulgazione storiografica sul­la storia del Novecento italiano e regionale (si coprono gli anni settanta), alla minore eco suscitata dai lavori sull’esodo istria­no, sull’emigrazione, sulle realtà regionali tra le due guerre (una attenzione relativa­mente più larga e qualificata viene dai la­vori proposti sulle tematiche internaziona­li: si vedano gli studi di Giampaolo Valde- vit). Per arrivare così ai più recenti anni ot­tanta.

Interessi di più distaccata riflessione sto­riografica tra leve recenti di lettori e studio­si suscitano i temi di storia sociale, le ricer­che sulla prima guerra mondiale. Sempre, o quasi sempre, gli interventi di “Qualesto­ria” (e prima del vecchio Bolletino) vanno letti in consonanza coll’attività editoriale promossa dall’Istituto.

Soprattuto di fronte all’insorgere — que­sta volta istituzionale e politico — del feno­meno municipalista a Trieste è possibile co­gliere i limiti di incidenza dell’impegno di socializzazione del sapere storico voluto dal­l’Istituto, preconizzata dalla piccola rivista nel “deserto dei Tartari” .

È cresciuta però, indubbiamente, attorno all’Istituto regionale, attorno a “Qualesto­ria”, una leva non piccola di operatori, di insegnanti, di giovani lettori, che ha alcuni caratteri di omogeneità e stabilità di riferi­mento, sia per la formazione di base, sia per l’uso delle categorie storiografiche, ca­pace di per sé di moltiplicarsi, se le speranze non sono infondate, di affrontare con altra consapevolezza lo stesso impegno civile.

Teodoro Sala

128 La storia contemporanea attraverso le riviste

“Storie e storia”Quaderni dell’Istituto storico della Resisten­za e della guerra di liberazione del circonda­

rio di Rimini

1 Ad un dibattito più approfondito il com­pito di determinare se la proliferazione delle riviste di storia, e soprattutto di storia con­temporanea, in quest’ultimo quindicennio sia, in tutto o in parte, da attribuirsi a quel­l’accelerato metabolismo dei tempi presenti che nel senso comune e nella collettività de­gli storici avrebbe determinato una sorta di ansia e di psicosi per l’accumulazione e la conservazione delle tracce del passato. Pari- menti sarebbe quantomeno curioso capire fi­no a che punto la fortuna della storia locale, e dunque anche delle riviste degli Istituti sto­rici della Resistenza, vada correlata a quel clima che alcuni storici sintetizzano nel “tra­monto della politica e dei grandi orizzonti di trasformazione” nonché ad una diffusa sen­sibilità in cui “il privato sembra prevalere sul pubblico nelle sfere più diverse” (France­sco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubbli­cana, in “Studi storici” , 1985, n. 4, p. 831).

Certo è che, per ciò che attiene il clima in cui nascono le riviste degli Istituti, occorre quantomeno rilevare un dato almeno in ap­parenza contraddittorio: esse, in quanto di­retta emanazione di organismi che traggono le loro motivazioni ideali da una esperienza in cui la politica ha occupato un posto cen­trale, proliferano proprio nel momento in cui nella storiografia nazionale vien meno, o quantomeno si affievolisce, il vincolo più caratteristico della cultura storica nazionale dal 1945 in poi: ossia il legame fra storiogra­fia e politica.

Non è in effetti cosa nuova constatare che in quella di “democratizzazione” dei sogget­ti storici, su cui poggia gran parte, dalle re­cente fortuna della storia locale, ha coinciso con una sorta di azzeramento di precedenti gerarchie determinate, da una parte, dalle en­

tità assolute dello storicismo liberale e, dal­l’altra, di quelle di matrice marxista.

Pur in questo clima, i cui esiti e i cui inter­rogativi dovranno in sede più appropriata essere svolti, è ovvio che la proliferazione delle riviste degli Istituti è anche debitrice di altri specifici fattori, alcuni di carattere lo­cale altri di carattere più generale.

La nascita di “Storie e storia” , nel 1979, avviene proprio nel momento in cui il blocco degli accessi dei giovani laureati alla ricerca universitaria tocca il culmine. La rivista, co­me strumento di dibattito, di confronto e di ricerca risponde dunque anche ad una solle­citazione volta a soddisfare richieste latenti (quelle della ricerca e della pubblicazione dei risultati della medesima) che l’Università, un tempo unico luogo deputato alla ricerca, non riesce a soddisfare. A ciò si aggiunge che, almeno nel caso di “Storie e storia” (ma suppongo che l’osservazione sia estensi­bile ad una più ampia campionatura) alla fi­ne degli anni settanta iniziano ad avvertirsi i risultati come quelli, ad esempio, dei casi di laurea in storia di recente istituzione.

A questo clima di diffuso interesse per la storia, soprattutto contemporanea, viene a sovrapporsi un ulteriore elemento: ossia il “dinamismo” che proprio fra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta connota l’azione degli assessorati della cul­tura fino a farne uno dei punti più caratteri­stici della politica degli enti locali. Non c’è dubbio che tale condizione abbia finito per favorire e influenzare anche la nascita di “Storie e storia” che proprio a tale “dinami­smo” deve, in buona parte, la propria so­pravvivenza.

2 Occorre per altro precisare che questa sor­ta di benevolenza con la quale l’ente locale ha incoraggiato la rivista ha costituito il li­mite più evidente per ciò che riguarda la ri­cerca di un “mercato” . La rivista, e credo che l’osservazione potrebbe essere estesa a gran parte delle riviste degli Istituti, ha fi­

“Studi e ricerche di storia contemporanea” 129

nito per orbitare nella cerchia di quella edi­toria “garantita” che una volta assicurate le ragioni della propria sopravvivenza rifugge dalla ricerca di nuove porzioni di lettori.

Vi è poi un ulteriore motivo che, anche in base ai dati prodotti al seminario di Giulia- nova, spiega a mio avviso la ristrettezza del mercato. Ossia quella sorta di eccessiva frammentazione per cui le riviste degli Isti­tuti giungono a coprire un territorio geogra­ficamente limitato — solitamente su scala provinciale — che, in definitiva diviene il principale — quando non l’unico — referen­te di mercato. Da questo punto di vista cre­do occorra superare una fase iniziale in cui le riviste degli Istituti sono servite a confer­mare una presenza e una vitalità (e — perché no? — un latente orgoglio di campanile) per giungere all’accorpamento di varie testate (su base regionale o per aree geografiche omogenee). Il problema non è ovviamente solo di mercato e collegato ad un potenziale allargamento dell’area dei lettori ma, più la­tamente, ad un più ampio peso specifico del­le riviste nel dibattito storico nazionale.

L’impressione è che nell’attuale panora­ma del dibattito storiografico l’immagine delle riviste degli Istituti risulti “spuria” . Ciò dipende, ad avviso di chi scrive, almeno da due ordini di motivi.

Il primo rinvia alla composizione dei co­mitati scientifici nei quali, spesso, accanto a figure di storici di “mestiere” si trovano sto­rici “scalzi” o storici occasionali, o rappre­sentanze partigiane.

Laddove il comitato scientifico risulta composto da figure professionali omogenee la linea culturale della rivista è più chiara­mente percepibile e non fatica a confrontarsi col dibattito storiografico in corso, sia sul piano locale che su quello nazionale. Laddo­ve invece il comitato scientifico, come nel caso di “Storie e storia”, è il risultato di un “compromesso” fra gli organismi politici presenti nei vari direttivi e leve di giovani storici è più difficilmente individuabile un

percorso storiografico lineare e, di conse­guenza, un confronto col dibattito in corso.

3 Si ha tuttavia ragione di ritenere che, al di là delle necessarie distinzioni caso per caso, il merito principale delle riviste degli Istituti consista nell’aver sviluppato, incoraggiato e promosso settori di indagine che spesso (an­che per motivi accademici o di potere) nelle sedi universitarie hanno subito una sorta di ostracismo. Penso, in proposito, soprattutto alla storia sociale e a quei settori, come la storia orale, che in sede accademica ancora oggi non vengono considerati come aventi “quarti di nobiltà” sufficienti per assurgere a dignità storiografica.

Da un punto di vista “sperimentalista” (se ne condividano o no gli esiti) le riviste degli Istituti hanno dunque costituito un ottimo laboratorio del “mestiere di storico” nel di­battito storiografico di queti ultimi anni.

Stefano Pivato

“Studi e ricerche di storia contemporanea”

Rassegna dell’Istituto bergamasco per la sto­ria del movimento di liberazione

1 L’esperienza locale, nella fattispecie quel­la di un periodo di storia contemporanea, non fornisce soltanto un osservatorio per certi versi privilegiato (ce lo ripetiamo abba­stanza spesso nelle occasioni di incontro in­terne ai nostri Istituti), qualche volta, oltre a essere abbastanza scomoda, rende più diffi­coltoso l’approccio ai problemi interpretati­vi. Specie quando il grado di coinvolgimento nel dibattito e nell’intervento sul territorio è stato particolarmente intenso — come avvie­ne per tanti Istituti e per i loro periodici — si può rischiare di perdere di vista non solo e non tanto la dimensione generale dei proble­mi, quanto piuttosto di esasperarne la lettu­ra attraverso appunto la specificità partico­lare in cui si opera.

130 La storia contemporanea attraverso le riviste

Con questa consapevolezza, e cercando quindi di vincere la tentazione (e la presun­zione) di reinterpretare il vasto pelago delle questioni inerenti allo “stato” della contem- poraneistica italiana e delle sue alterne for­tune attraverso l’angolo prospettico del pur necessario “piccolo cabotaggio” , vorremmo richiamare l’attenzione su alcuni degli altri fattori — altri rispetto all’allargamento scientifico dell’ambito disciplinare — che hanno contribuito alla moltiplicazione delle riviste di storia contemporanea, fenomeno a cui non sono certamente estranee né le solle­citazioni dei media, né le scelte della politica editoriale o di quelle delle istituzioni e degli ambienti accademici.

I limiti di spazio e le finalità stesse di que­sta rassegna non ci consentirebbero, proba­bilmente, di andare molto oltre rispetto al sommario delle questioni (per altro già enunciate, più che discusse nel merito, al se­minario di Giulianova). Vorremmo piutto­sto, sulla base di un’esperienza più che de­cennale, affrontare la questione della do­manda “dal basso” di storia contempora­nea, certamente a sua volta influenzata, ma non determinata dagli orientamenti istitu­zionali, accademici, editoriali e dai “media” .

Collegare la “scoperta” della storia con­temporanea come bisogno sociale di massa — manifestato in ambiti extra e antiaccade­mici, fortemente intriso di ideologismo e al­trettanto fortemente subordinato a tempi e finalità di “militanza” politica, assai distanti dalla sfera della ricerca scientifica — ai mo­vimenti sessantotteschi e postsessantotteschi è diventato ormai un riferimento obbligato, quasi un luogo comune. Meno frequente in­vece la riflessione sul percorso e sugli esiti di questo “bisogno di storia” , che è stato spes­so frettolosamente etichettato come “nuova domanda”, tutta polarizzata e appiattita sul presente. Eppure il tentativo di dare ad essa nuove risposte è entrato nella genesi di pa­recchie riviste, non tutte destinate a rapida

scomparsa: alcune sono vissute — e non so­lo sopravvissute — oltre la prima metà degli anni settanta. E allora non è inutile uno sguardo ravvicinato a queste pagine.

I noti limiti di ideologismo, di schema­tismo riduttivo, di semplificatorie certezze nelle magnifiche sorti delle trasformazioni della società in senso rivoluzionario, tendo­no a esasperarsi proprio nelle realtà locali caratterizzate da ambienti culturalmente e politicamente opachi e sordi: la “nuova committenza” cerca infatti di improvvisare da sé, autarchicamente, le proprie risposte, in una sorta di circolo vizioso che accelera alla periferia certi processi involutivi, gene­rando nuove chiusure, nuovi rifiuti, precoci ripiegamenti e fughe anticipate verso i più tranquilli approdi del privato, del quotidia­no, del microcosmo protettivo proiettato nostalgicamente nel passato, recente o re­moto, delle piccole comunità o delle società contadine. È quanto si è potuto osservare ad esempio — nel caso specifico di Berga­mo — nell’esperienza delle 150 ore, letta e interpretata proprio attraverso l’angolatu­ra della domanda e della didattica della storia.

Riflettendo su questi problemi — sui quali si cercava di provocare un dibattito appro­fondito e di promuovere uno sforzo di ela­borazione collettiva, proprio anche attraver­so la rivista “Studi e ricerche di storia con­temporanea” — già qualche anno fa si av­vertiva con preoccupazione come l’assoluta inadeguatezza della riflessione da parte degli stessi soggetti, corsisti e operatori, studenti e docenti, e di molti settori della cultura stori­ca, anche progressista, finisse per alimentare velleità, improvvisazioni, autolegittimazione di sé ai livelli più bassi, con risultati assai di­versi e persino divergenti dal punto di vista ideologico, ma con esiti e “metodologie” (ti­pico lo stravolgimento delle fonti orali, fil­trate attraverso forzature precostituite) so­vrapponibili, che si riscontravano in espe­rienze provenienti, ad esempio, da ambienti

“Studi e ricerche di storia contemporanea” 131

di rigido integralismo cattolico e da altri del­la sinistra “rivoluzionaria” .

In presenza di una risposta istituzionale e accademica tanto improvvisata e strumenta­le quanto gattopardesca — come ricordava Massimo Legnani a Giulianova — andreb­be, a nostro giudizio, attentamente esamina­ta la posizione assunta dalle riviste locali di storia, per valutare quale contributo critico esse hanno offerto — se l’hanno offerto — all’elaborazione di strumenti atti a cogliere realizzazioni, istanze, limiti, problemi della domanda e della produzione di storia alla base. L’editoriale di presentazione di “Pas­sato e presente” , nel giugno 1982, accingen­dosi a delineare il ruolo specifico che la rivi­sta fiorentina si apprestava a assumere, trac­ciava un panorama poco lusinghiero della miriade delle pubblicazioni di storia contem­poranea: in esso i periodici locali e regionali venivano sommariamente catalogati come dilettanteschi o, nei casi migliori (vale a dire quelli di carattere accademico), arroccati at­torno a “contenuti di cultura storica a volte scoraggianti” . A nostro giudizio c’è stato — e c’è — anche altro (e anche dentro l’espe­rienza degli Istituti) da recuperare alla rifles­sione e non certo per cercare nuove forme di autolegittimazione, così come occorre guar­dare dentro quell’accademismo e quel dilet­tantismo — entrambi innegabili — per inda­gare quale funzione abbiamo esplicato e continuiamo ad esplicare nella formazione, nel mantenimento, nella trasformazione del “senso comune storiografico”.

Occorre, in altre parole, cercare di “misu­rare” i processi attraverso i quali si è passati dalla fase impetuosa e farraginosa del biso­gno di “storia militante”, immediatamente spendibile nell’impegno sociale e politico del momento, al ripiegamento verso le dimen­sioni depurate dalle lunghissime persistenze e via via verso gli approdi della nuova storia e delle sue non sempre limpide fortune. Le tappe del percorso sono anche interne alle logiche di quella domanda: la scoperta della

politicità del quotidiano e del vissuto — co­me si evidenzia ad esempio con chiarezza paradigmatica in certi itinerari di storia delle donne — o anche il bisogno di rivisitare in termini “nuovi” , di ricerca di identità, la di­mensione locale, del “municipio”, vengono svolte in senso sempre più evasivo rispetto ai nodi lunga durata/evento, sfera politica e sociale/sfera individuale. Su questa trasfor­mazione certamente agiscono gli altri fattori cui si accennava all’inizio e che sono a loro volta da porre in stretta relazione con il radi­cale mutamento del quadro politico e socia­le, ma taluni esiti attuali (tenendo conto an­che di un’area importante della domanda di storia, quella dei docenti) fanno percepire l’affacciarsi di un nuovo senso comune sto­riografico, capace di cogliere e di richiedere certe raffinatezze metodologiche e attrezza­to a compiere determinate operazioni di analisi, ma sempre più lontano dalla tensio­ne del “conoscere per trasformare” e sempre più subalterno alle mode culturali più o me­no postmoderne. Il modo con cui si è avvia­to il dibattito sui nuovi programmi di storia per il biennio della scuola secondaria supe­riore, con l’improvvisa vocazione contem- poraneistica ministeriale, non preoccupa tanto per la resistenza dei nostalgici e degli orfani della storia antica, quanto per la scar­sa attenzione con cui sembra essere percepi­to sia il segno politico complessivo dell’ope­razione, elusiva rispetto ai nodi della rifor­ma, sia il problema della formalizzazione di questa riproposizione del senso comune sto­riografico, ammantato di impreviste apertu­re verso le esigenze più avanzate del rinno­vamento disciplinare, ma in sostanza pronto a ribadire orizzonti evasivi, a far scomparire rotture, conflitti, scontri di classe.

Naturalmente non è un destino irrimedia­bile o uno sbocco già stabilito: la posta in gioco ci sembra alta e crediamo debba impe­gnare direttamente e intensamente tutte le ri­viste di storia in un dibattito approfondito e tempestivo.

132 La storia contemporanea attraverso le riviste

2 La genesi di “Studi e ricerche di storia contemporanea. Rassegna dell’Istituto ber­gamasco per la storia del movimento di libe­razione” (o almeno della sua nuova serie, quella che continua ancora oggi) si colloca nel vivo dei rapporti con la domanda di sto­ria e dei suoi sviluppi, non certo perché na­sca adulta e armata di tutto punto (anzi la sua vicenda conosce raggiustamenti e tra­sformazioni che sarebbe pretestuoso ricon­durre a una linea di sviluppo sempre organi­ca e coerente), ma perché quei rapporti sono stati riferimento costante per il nostro perio­dico.

Dopo un’interruzione di qualche anno (erano usciti tre fascicoli tra il 1970 e il 1972, con incertezze nelle soluzioni contenutistiche oltre che in quelle grafiche), la rivista ripren­de le pubblicazioni con il numero 5 nel mar­zo del 1975, nel clima del trentennale, ma con un’intonazione marcatamente anticele­brativa, legandosi piuttosto ai temi del rap­porto fascismo/antifascismo. Il carattere sperimentale del periodico è rispecchiato dalle variazioni della testata, dallo scambio tra il titolo e il sottotitolo rispetto ai numeri precedenti (“Ricerche di storia contempora­nea bergamasca. Rassegna dell’Isml Bg) in questo numero 5, fino alla nuova intitola­zione del numero 6 (novembre 1975) che, la­sciando cadere la specificazione locale, indi­cava una volontà di intervento ampio, sui grandi temi del dibattito in corso, senza li­mitazioni di ambito geografico e che si ri­specchiava non tanto nei Saggi (anche se su questo stesso numero ne appare uno assai pregevole di Luigi Cortesi sulla svolta di Sa­lerno), quanto nell’impostazione delle recen­sioni e delle schede.

A ben vedere, anche questa ventata un po’ velleitaria di invasione di campo nasceva non da particolari ambizioni dei collabora­tori, ma piuttosto dal rapporto diretto con un’utenza (studenti, insegnanti, corsisti, operatori delle 150 ore) alla quale si intende­va fornire strumenti e stimoli per un primo

aggancio al dibattito storiografico naziona­le, nel tentativo di far circolare conoscenze più articolate e puntuali, quasi fossero indi­spensabile antidoto all’autarchico soddisfa­cimento di bisogni conoscitivi e critici; ma non era estranea neppure la volontà di diffe­renziarsi anche in ciò dal localismo asfittico e chiuso dominante in tanti ambienti cultu­rali bergamaschi. Questo indirizzo — che correva il rischio di gerarchizzare, banaliz­zandolo, il rapporto tra locale e nazionale — è stato però presto abbandonato, per im­boccare il cammino — crediamo da allora percorso con coerenza — dell’indagine di storia locale.

Abbastanza presto, già dal numero 7 (aprile 1976), compaiono rubriche archivisti- che e rassegne bibliografiche, che pure sono rimaste un asse portante dell’impostazione della rivista, ancora una volta pensate come strumento anche per i non addetti e in que­sto senso riflesso di un più generale impegno esplicato dall’Istituto nella sua attività. È evidente, e talora persino scoperto, lo sforzo di indurre i lettori a “fare i conti” con le fonti e i documenti, come reazione da un la­to alle forzature ideologiche, e dall’altro a quei fenomeni di sottovalutazione, privatiz­zazione e dispersione del documento con­temporaneo, che avevano favorito il pro­gressivo assottigliarsi della memoria storica, specie attorno alle vicende del movimento operaio, e contadino, fino all’instaurarsi dell’impropria equazione tra mancanza di fonti e scarsezza di spessore della storia del­la sinistra locale.

Questo filone di interesse, che non si esplica soltanto nelle rubriche specifiche, ma attraversa altri contributi e altre voci, tra cui le più recenti Discussioni e Documenti, ha avuto un ulteriore tratto distintivo: l’analisi diretta degli esiti delle ricerche di base e delle sperimentazioni e proposte didattiche; un contributo concreto alla lettura critica di esperienze che venivano così offerte alla ri­flessione collettiva. Su tale analisi si è fon­

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data l’elaborazione di strumenti per la rac­colta e l’uso di questi materiali, come l’A- chivio delle 150 ore e dell’educazione degli adulti o l’Archivio del movimento degli stu­denti.

L’attenzione verso la didattica, i problemi dell’organizzazione della cultura, le questio­ni metodologiche e interpretative (le fonti orali e iconiche, ad esempio, di cui la rivista si è occupata abbastanza precocemente, pri­ma che l’interesse fosse generalizzato e solle­citato dalla ricchezza del dibattito) è quindi da inserire nell’orizzonte di questi rapporti con svariate figure e realtà del territorio; in questo senso il sottotitolo della rivista è ve­ramente specchio fedele, nelle realizzazioni, nei problemi e nelle stesse difficoltà, della realtà dell’Istituto.

3 “Studi e ricerche di storia contempora­nea” ha puntato assai più su una diffusione mirata a soggetti ben identificati o identifi­cabili, piuttosto che all’occupazione di una fetta di mercato vero e proprio, e ciò è avve­nuto in costante intreccio con l’utenza del­l’Istituto cui prima si accennava. Pe quanto riguarda la diffusione locale, si è puntato soprattutto su due settori, le scuole e le bi­blioteche, mentre è rimasto alquanto circo- scritto il rapporto con altre figure (e con gli enti che le aggregano o rappresentano), in particolare i curiosi e i cultori di storia pa­tria, municipale e parrocchiale, per altro po­co sensibili, in genere, alla storia contempo­ranea è poco propensi ad avventurarsi oltre le colonne d’Èrcole del primo Novecento. Indubbiamente, soprattutto per ciò che ri­guarda la scuola, la diffusione non è soddi­sfacente e va incrementata. Le difficoltà non sono soltanto di ordine organizzativo e isti­tuzionale, nonostante il buon numero di in­segnanti che vedono nell’Istituto un punto di riferimento per il loro lavoro, quanto di scelte e indirizzi culturali di buona parte del corpo docente, più sensibile che nel passato all’offerta di aggiornamento, ma restio nel

suo complesso a prestare attenzione a stru­menti di lavoro e occasioni conoscitive che non siano immediatamente spendibili nell’o­peratività didattica quotidiana.

Per quanto riguarda il problema della congruenza tra il panorama delle riviste di storia contemporanea e gli orientamenti del­la contemporaneistica, possiamo solo pro­porre un itinerario di lavoro che, riprenden­do quanto si è avviato al seminario di Giu- lianova, cominci a guardare con molta auto­critica franchezza dentro le riviste degli Isti­tuti (che di quel panorama sono parte note­vole), non lasciando cadere almeno due ipo­tesi emerse nell’occasione: l’impegno comu­ne per l’aggiornamento delle metodologie e degli indirizzi generali della ricerca — quella sorta di minimo comun denominatore che appare più che necessario — e lo sforzo di produzione “simultanea” di contributi origi­nali su temi di interesse centrale, utili anche al dibattito e alla ridefinizione dell’area con­temporaneistica e/o alla ripresa di interventi e approfondimenti di largo respiro sul nodo ineludibile storia — politica.

In questa prospettiva — molto generale, ma non generica — ci sembra si possa avvia­re anche un confronto con le problematiche e gli apporti delle storiografie straniere, al­l’interno quindi di un duplice asse di ridefi­nizione contenutistica e metodologica, e di produzione coordinata di contributi in sede locale su nodi tematici di rilievo. È un pro­blema che non ci si può illudere di affronta­re con qualche omaggio d’obbligo alle mode culturali emergenti o con la pubblicazione di sintesi in lingua straniera, come si nota da qualche tempo anche su talune delle più mu­nicipalistiche riviste di “storia patria” . Il ruolo specifico dei periodici di storia locale (almeno per quanto riguarda le riviste dei nostri Istituti) ci pare continui a essere quel­lo di tramite tra esiti di ricerche — ancorate però a quelle prospettive “alte” — e l’im­missione di nuove conoscenze e di elementi di dibattito in zone meno raggiungibili da al­

134 La storia contemporanea attraverso le riviste

tre forme di comunicazione (anche più co­stose o che richiedono maggior impegno edi­toriale). I contributi di ricerca e di discussio­ne sui temi della scuola, dell’organizzazione della cultura, dell’interpretazione dei nodi tematici di volta in volta affrontati dalle in­dagini, possono essere sviluppati e intreccia­ti in tempi medi, che non rispondono alle esigenze di urgenza dell’intervento imme­diato, ma che lo possono alimentare e ar­ricchire con un sostrato di riflessione non

estemporanea o improvvisata. Le potenziali­tà di collegamento esterno, oltre che in am­bito nazionale, offerte dalla rete degli Istitu­ti sono un’occasione particolarmente favo­revole nonostante la complessità dei proble­mi e delle difficoltà attuali che spesso indu­cono — a torto — a non uscire dal piccolo porto delle singole esperienze locali, già tan­te o troppe volte percorso.

Giuliana Bertacchi

STORIA IN LOMBARDIASommario a. IV, n. 1, 1987

Caserme ed apprestamenti m ilitari a Milano tra l ’età napoleonica e la fine de ll’Ottocen­to, di Eduardo Grottanelli; Treni e potere politico in periferia: progressisti, moderati e cattolici bresciani di fronte alla questione ferroviaria, di G iovanni Spinelli; La Cucirini Cantoni Coats e l ’industria dei cucirini in Italia, di Francesca Bova.

Testimonianze e documentiLa questione penitenziaria nel Risorgimento nel carteggio di Giuseppe Saleri, a cura di Anna Capelli.

Strumenti di ricerca e informazioni

Archivi e biblioteche

Beni culturali da salvare: g li archivi delle acque, di Ugo Fiorina; / fondi archivistici di due case per corrigendi alla metà dell'800: l'Istituto Macchiondi e il Patronato per i car­cerati e per i liberati dal carcere, di Daniela Capuzzo; L ’archivio della Pia casa di rico­vero di Vertova, di G iancarlo Perani.

Insegnamento della storia e riforma del “biennio”

Il balletto delle rimozioni

In anni in cui ricorrono frequenti le accu­se alla stampa di produrre “carte false” , di invischiarsi in silenzi graditi a questo o quel centro di potere, l’accoglienza riserva­ta al progetto ministeriale di riforma dei programmi di storia per il “biennio” del­la scuola secondaria superiore sembra ac­creditare — in chi si ostini a coltivarla — qualche speranza nella formazione di un’o­pinione ispirata al confronto esplicito dei giudizi. Il tono prevalente nei commenti è stato infatti improntato ad una felice assen­za di eufemismi. Una breve silloge: “scrittu­ra sgangherata e burocratica con effetti quasi comici” (Aldo Schiavone ne “La Re­pubblica” del 14 novembre 1986), “ciarpa­me di parole truffaldine” (Luciano Canfora ne “Il Manifesto” del 15 novembre), “sciat­teria e pressapochismo ideologico” (Rober­to Maragliano ne “Il Manifesto” dello stes­so giorno), “arroganza dell’incultura” (Lui­gi Firpo ne “La Stampa” del 16 novembre), “manifesto dell’università popolare” (Nico­la d’Amico nel “Corriere della sera” del 17 novembre), “sventagliata di coriandoli” (Renzo De Felice in una dichiarazione a d’Amico nell’articolo citato), “guazzabuglio di superficialità e di confusione” (Francesco Barone ne “La Stampa” del 21 novembre). Come non compiacersi che un provvedi­mento relativo all’insegnamento della storia susciti reazioni a tal punto attente e ansio­

se da spingere un commentatore (Livio Za­netti, ne “La Stampa” del 14 novembre) a prefigurare, dinanzi al proposito di togliere dal “biennio” la storia antica, una possibile crisi di governo? E però sarebbe un compia­cimento destinato a seminare più dubbi di quanti non ne sciolga. Il documento mini­steriale contiene per certo concettualizzazio­ni grossolanamente approssimative; ed è in­fiorettato di espressioni gergali (a mezza via tra il sottocodice burocratico e quello dei manierismi di certe elucubrazioni didatti­che) che gettano ombre lunghe sulle sue ca­pacità di comunicazione. E questa del lin­guaggio (anche senza spingersi all’equiva­lenza tra “disastro ecologico” e “disastro del linguaggio”, come fa Raffaele La Ca- pria nel “Corriere della Sera” del 5 novem­bre) non è sicuramente una variabile margi­nale. Tuttavia, la ventilata riforma solleva quesiti (e qualche commentatore, come ve­dremo, non ha mancato di formularli) che vanno ben oltre il registro del sarcasmo o della sufficienza. Elencarne alcuni sarà allo­ra non inutile, anche a conferma delle im­plicazioni che il problema proietta fuori del campo specialistico e professionale e dell’in­teresse che esso riveste per “Italia contem­poranea”, espressione, oltre a tutto, di un Istituto che sin dagli anni sessanta ha impe­gnato cospicue energie e iniziative sulla te­matica dell’insegnamento della storia.

Un primo quesito investe la procedura, amministrativa, prescelta per l’iter del prov­

136 Insegnamento della storia e riforma del “biennio”

vedimento. Su questo punto le reazioni ne­gative sono state, credo, prossime all’unani­mità. E se è vero che l’impotenza parlamen­tare in materia di politica scolastica (fat­tore davvero inquietante) sembra ormai ac­quisita, il ricorso al decreto appare come un espediente di gran lunga peggiore della paralisi cui vuol porre rimedio. Scavalcare con un gesto di volontarismo burocratico la sede legislativa — e dunque della responsa­bilità politica — produce conseguenze ben più negative della mancata consultazione, anche su ciò la protesta è stata molto am­pia, degli “addetti ai lavori” . Tanto più che il provvedimento acquista significato so­prattutto nella prospettiva di una riforma complessiva del “biennio” . E qui si innesta, in posizione centrale, un secondo quesito relativo appunto al metro di giudizio impo­sto dalla trasformazione dell’attuale “bien­nio” nel segmento conclusivo di un obbligo scolastico prolungato. Lamentando la man­cata assunzione prioritaria di tale ottica, Pietro Scoppola (“La Repubblica” del 20 novembre) ha stigmatizzato il carattere pu­ramente protestatario di troppe reazioni e conseguentemente negato l’esistenza a sini­stra di “una cultura di governo alternativa” alle indicazioni ministeriali. Pur senza ad­dentrarci nei risvolti politici del dibattito, la considerazione di Scoppola non può certo essere confusa con una semplice ritorsione polemica. E si può osservare, nei termini più generali, che le angustie di questa come di precedenti occasioni di dibattito, stanno anzitutto nella incapacità delle forze politi­che — ma non di esse soltanto — di avan­zare progetti complessivi e facilmente rico­noscibili. La paralisi non nasce dunque dal­la presenza di progetti in conflitto, ma dal­l’assenza di questi e dal vuoto che tale as­senza determina.

Molte delle critiche all’abbandono, nel “biennio”, della storia antica a favore della moderna e contemporanea — terzo quesito che vorremmo adombrare — sono una spia

utile a chiarire volontà, propositi, scelte più generali? Francamente non lo crediamo. Perché delle due l’una: o si contrasta l’ipo­tesi di un biennio comune ed allora la pre- senza/assenza della storia antica rappresen­ta un falso bersaglio; oppure si auspica — e sarebbe per tanti versi una scelta ottimale — un percorso storico “totale” ed allora si tratta di renderlo concretamente possibile, senza ostracismi verso i greci ed i romani, ma anche senza l’ipocrisia di far coincidere la storia contemporanea con i “brevi cenni sui giorni nostri” riservati, quando pure av­venga, alle lezioni di fine d’anno. Non è del resto mancato chi, come Nicola Tranfaglia (ne “La Repubblica” del 18 novembre), ha opportunamente richiamato procedure di apprendimento che “partendo anche dal­l’oggi, vada[no] a cogliere le radici del pre­sente in un passato necessariamente sempre più lontano”. Ben più rilevante appare inve­ce un apprezzamento complessivo dei “con­tenuti” espressi dalla proposta ministeriale. Le oscillazioni, le vaghezze, le incongruenze di troppe formulazioni hanno infatti accre­ditato i giudizi più diversi: dalla “mortifica­zione” della storia politica lamentata da Rosario Romeo (dichiarazione nell’articolo citato di d’Amico), agli ibridismi tra storia sociale e scienze sociali denunciati da Fran­co Pitocco (intervista ne “L’Unità” del 14 novembre), al rilievo di aver voluto “ri­spondere all’effettivo abuso, fatto in passa­to, dell’‘histoire bataille’, con il voler na­scondere quasi del tutto il problema della guerra e della violenza” (dichiarazione di Renzo De Felice nell’articolo citato di d’A­mico). Come ha scritto Enzo Collotti (ne “L’Unità” del 27 novembre), “si è fatta una scelta apparentemente coraggiosa, come quella di buttare a mare la storia antica, senza saper operare scelte realmente corag­giose nella prefigurazione di un programma di storia moderna e contemporanea”. Non sembra tuttavia che il nodo debba essere ta­gliato da un referendum che contrapponga

Insegnamento della storia e riforma del “biennio” 137

la storia antica alla moderna e contempora­nea — sul piano metodologico e delle cate­gorie interpretative — “vecchia” e “nuova” storiografia.

Inclusioni ed esclusioni aprioristiche — quasi si trattasse di porre i programmi sco­lastici sotto la protezione di questo o quel catechismo storiografico — sortirebbero il risultato di occultare il problema centrale: quello del ruolo della storia nell’ordinamen­to scolastico che si intende far nascere. Tra le “finalità” indicate del progetto ministe­riale ve n’è, ad esempio, almeno una che pone un tema di enorme rilevanza, quella relativa alla “capacità di pensare e di imma­ginare storicamente e di percepire lo spesso­re storico di problemi afferenti le diverse aree culturali” .

A iniziare da quell’insegnamento di “edu­cazione civica, giuridico-economica” di cui si prospetta l’inserimento affermando che “l’introduzione delle discipline giuridiche ed economiche nel biennio della scuola secon­daria superiore risponde ad esigenze indero­gabili di completamento di un curricolo cul­turale e formativo, carente di alcune disci­pline specifiche, essenziali ai fini della for­mazione civile, sociale, economica dei gio­vani” .

Può spiacere l’afflatto retorico (esso sì davvero “inderogabile”), ma non v’è dub­bio che si tratti di una scelta significati­va, alle spalle della quale sta un ventennio di discussioni ed elaborazioni ai piu diversi livelli.

E qui vorremmo affacciare, tra i molti possibili, un quarto ed ultimo interrogativo, concernente gli insegnanti, la loro formazio­ne e qualificazione (su cui ha richiamato energicamente l’attenzione Collotti nell’arti­colo citato). Dopo aver prefigurato il pro­gramma della nuova “educazione civica, giuridico-economica” il testo ministeriale precisa che “l’insegnamento di queste disci­pline sarà affidato a docenti di estrazione giuridico-economico-sociale” ovvero ad una

figura professionale non solo oggi inesisten­te, ma nemmeno immaginabile secondo gli attuali ordinamenti degli studi universi­tari.

Un’ulteriore conferma dunque della lati­tudine del problema e della necessità di col­tivarlo.

Anche per far sì che il dibattito giornali­stico da cui abbiamo preso le mosse non re­sti, pur nei limitati spunti che offre, un epi­sodio isolato.

Un ulteriore punto di riferimento è del re­sto offerto dal recentissimo parere, consulti­vo, espresso dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione, il quale, stando alle an­ticipazione giornalistiche (si veda la stampa quotidiana del 7 ed 8 febbraio), avrebbe convenuto sulla opportunità di procedere alla modifica dei programmi per via ammi­nistrativa e bocciato invece, a maggioranza, l’abolizione della storia antica nel “bien­nio” , concedendo al più di annettere all’an­tichità parte del medioevo, così da riserva­re, nell’ultimo anno della secondaria, mag­gior spazio dalla storia contemporanea. Po­nendomi tra coloro che ritengono mortifi­cante il ricorso all’atto amministrativo in luogo della sede parlamentare (e particolar­mente negativo il connubio che così si rea­lizza tra burocrazia ministeriale e rappresen­tanze di categoria dei docenti), il sostegno del Cnpi alla procedura prescelta appare davvero preoccupante e francamente depri­mente la ribadita presenza della storia anti­ca in un contesto puramente conservativo, al di fuori di ogni reale presa di posizione sul ruolo del “biennio” nella prospettiva, pure accolta, di un prolungamento dell’obbli- go scolastico. L’ininterrotta querelle tra anti­chi e moderni ha pur conosciuto momenti più gratificanti. La discussione non è dunque pri­va di interesse, e ad essa “Italia contempo­ranea” intende partecipare, ad iniziare dai due contributi che seguono questa nota.

Massimo Legnani

138 Insegnamento della storia e riforma del “biennio”

Quale storia per il biennio?

La recente presentazione ministeriale di nuo­vi programmi per il biennio della scuola se­condaria superiore — quali ne siano gli esiti a tempi più o meno ravvicinati — solleva su di essi diversi ordini di questioni su cui la Commissione didattica dell’Istituto naziona­le per la storia del movimento di liberazione in Italia ritiene doveroso e urgente pronun­ziarsi, pur consapevole della necessità che a queste prime riflessioni a caldo seguano in­terventi più articolati e propositivi, ed impe­gnandosi sin da ora in tal senso.

Una procedura inaccettabile. Come è già accaduto per le scuole elementari, l’iniziati­va di modificare programmi relativi al bien­nio si è presentata del tutto indipendente da qualsiasi ipotesi di riforma delle strutture scolastiche. Un simile modo di intervenire sui programmi genera perplessità e dissenso: che quand’anche risultassero formulati in maniera eccellente e seguendo le migliori teorizzazioni didattiche oggi esistenti, e riu­scissero ad esprimere la più alta cultura sto­riografica e pedagogica di cui si disponga, è difficile negare che, a queste condizioni, essi resterebbero poco più che una dichiarazione di intenti.

La procedura stessa fa poi sorgere il dub­bio che il ministero della Pubblica istruzione abbia semplicemente tratto le debite conclu­sioni dalla situazione di stallo completo cui è giunto nella presente legislatura il tentativo di riformare l’intero ciclo superiore degli studi, e che cerchi di scavalcarla operando nel settore che, secondo la prassi prima an­cora che secondo gli ordinamenti e secondo l’opportunità, è di sua competenza, appunto la formulazione dei programmi. Nel far que­

sto intende altresì mostrare che essi rappre­sentano ciò che al massimo si può ottenere oggi in fatto di riforma, per cui attraverso i programmi passano anche modifiche che toccano abbastanza profondamente gli as­setti della scuola. Si vede così l’introduzione di una nuova materia con la promozione della marginale educazione civica a insegna­mento delle scienze sociali, con un orario di tutto rispetto, distaccato dall’insegnamento della storia e affidato a insegnanti tutti da inventarsi); si vede la sostituzione della sto­ria contemporanea alla storia antica, tradi­zionale nei licei (con problemi connessi di aggiornamento culturale e professionale de­gli insegnanti); si vede ancora una modifica degli orari scolastici, con la sostituzione del­l’ora di 50 minuti a quella di 60.

Evidentemente, però, per quel tanto che sono programmi, i testi dello scorso mese di ottobre hanno bisogno di essere inseriti in una organica proposta di riforme: per quel tanto che sono riforma, o pretendono di es­serlo, hanno invece bisogno di una pubblici­tà e di un dibattito'che in questo caso, a dif­ferenza di quel che è stato per i programmi elementari del 1985 e quelli delle medie del 1979, sono risultati del tutto assenti.

Il tutto è avvenuto in un clima di segretez­za non solo inusitata per occasioni analo­ghe, ma tale da costringere la discussione a svolgersi spesso senza che ci fosse l’esatta conoscenza della proposta ministeriale. È ol­tremodo indicativo del metodo adottato il fatto che i primi ad avere sotto gli occhi il progetto di programma siano stati gli editori scolastici, cui era stato inviato per tempo. È quindi presumibile che proprio a partire da ciò che era finito in mano agli editori sia na­ta tutta la discussione che ha tenute impe­gnate per parecchi giorni, fra ottobre e no-

La nota è stata elaborata in seno alla Commissione per la didattica e l’aggiornamento dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e redatta da Guido D’Agostino, Aurora Delmonaco Lombardi, Sci­pione Guarracino, Ivo Mattozzi.

Insegnamento della storia e riforma del “biennio” 139

vembre, le pagine dei quotidiani, incentran­dosi per lo più sulla questione della storia. Si aggiunga a ciò il sospetto che per il ministero l’introduzione di nuovi programmi ponesse essenzialmente un problema di nuovi manua­li e che l’intera operazione sarebbe andata in porto se gli editori avessero dichiarato di es­sere in grado di preparare i nuovi testi entro il lasso di tempo abbastanza breve preventi­vato (febbraio 1987-primavera 1988).

Perché tutta questa fretta? Perché, so­prattutto, non comprendere e riconoscere che i veri ed i primi destinatari dei program­mi sono gli insegnanti ai quali compete at­tuarli? È qui il nocciolo della questione! Ammettere tale punto fondalmentale impli­ca conseguenze altrettanto basilari. Significa ammettere che una buona riforma deve esse­re accompagnata dalla messa in opera di un piano nazionale di aggiornamento, che da un lato ha costi non indifferenti, dall’altro obbliga a fare chiarezza sulla implicita logi­ca degli assetti scolastici che regge la propo­sta di programmi. Ne deriva la necessità del­l’azione di un governo dotato di una mag­gioranza autentica, mentre la riduzione del­l’operazione a intervento amministrativo dà la sgradevolissima impressione di un mini­stero che vuole apparire produttivo e attivi­sta ad ogni costo, per coprire l’assenza di un chiaro disegno culturale, di sicuri indirizzi politico-pedagogici e, per la storia, di quali­ficanti opzioni storiografiche.

Perché la storia contemporanea. Il testo ministeriale giustifica la polarizzazione sulla storia moderna e contemporanea con due motivi: essa corrisponderebbe “agli interessi più immediati dei giovani” ; contribuirebbe “a maturare l’esigenza di uno studio siste­matico della storia da affrontare nel succes­sivo triennio” .

Si tratta di motivi deboli che proprio per­ché deboli e non argomentati favoriscono il timore, largamente espresso, che la scompar­sa della storia greca e romana si risolva in

un depotenziamento della educazione stori­ca nel biennio. Al contrario, l’opzione per la storia contemporanea può fondarsi su argo­menti assai più forti e più qualificanti o per la stessa formazione storica degli studenti: 1) attualmente la storia contemporanea è la cenerentola dei periodi storici sia nei pro­grammi ufficiali, sia nelle programmazioni degli insegnanti, sia nei manuali, in tutti gli ordini di scuola. Ciò provoca il paradosso che per i licenziati dalla scuola media è mol­to più nota la serie delle guerre puniche che non quella delle guerre mondiali, l’imperiali- smo romano piuttosto che l’imperialismo e il colonialismo contemporanei, Nerone piut­tosto che Mussolini e Hitler, la strage degli innocenti piuttosto che l’olocausto; 2) il rap­porto passato/presente e la tensione cono­scitiva verso il passato si giustificano se si conosce il mondo contemporaneo. Infatti l’itinerario mentale muove nella direzione presente/passato/presente. È la conoscenza e l’esperienza del mondo contemporaneo che provvede a fornire chi si volge al passato delle preconoscenze necessarie (criteri di se­lezione e di rilevanza, modelli interpretativi, concettualizzazioni, strumenti, interessi co­gnitivi) per una attività di ricostruzione del passato che non sia gratuita rievocazione, ma risposta ai bisogni conoscitivi emergenti. Ed è in questo modo che l’attività di rico­struzione del passato e i suoi risultati contri­buiscono a potenziare la conoscenza del pre­sente; 3) la storia contemporanea non ha mi­nore portata scientifica rispetto alla storia antica. Il suo statuto storiografico ha speci­ficità proprie, ma non è deformato dagli usi ideologici più di quanto non lo possano es­sere gli statuti della storia antica, medievale, moderna; 4) la storia contemporanea può essere perfettamente idonea a risolvere alcu­ni problemi formativi e didattici nell’età adolescenziale, perché offre: possibilità di un coinvolgimento personale e diretto dei giovani che vivono comunque la storia con­temporanea; ne recepiscono alcune tensioni

140 Insegnamento della storia e riforma del “biennio”

profonde, avvertendo subito, però, il distac­co della scuola da esse; molteplicità, accessi­bilità e varietà delle fonti disponibili; minore specializzazione filologica e minore necessità di mediazione del corredo semantico; più larghe possibilità di sperimentazione delle procedure del lavoro storico in condizioni meno artificiose; 5) la storia contemporanea è idonea a formare cittadini capaci di servir­si del punto di vista della conoscenza storica nell’osservazione del reale. Infatti il campo di applicazione dell’analisi storica che più interessa il cittadino è quello degli eventi, degli intrecci, dei problemi contemporanei sia della vita pubblica sia della vita privata. Lo studio della storia contemporanea può rendere più incisivi i procedimenti che ognu­no applica a vari livelli nella vita quotidiana;6) la storia contemporanea ha un rapporto più intimo con le scienze sociali e dunque se si deve definire un’area storico-sociale, la storia contemporanea è quella che meglio può contribuire alla costituzione dell’area;7) la storia contemporanea rappresenta il più idoneo terreno d’attacco per le indispen­sabili procedure di ricerca didattica collegate all’analisi del presente.

Per questi motivi, sia che il biennio con­cluda la scuola dell’obbligo, sia che faccia da cerniera tra scuola dell’obbligo e scuola secondaria superiore, dove sia collocabile una nuova fase di studio della storia (dalla preistoria alla contemporaneità), la storia contemporanea può essere considerata come il punto di snodo più efficace.

Oscurità e contraddizioni di un dibattito ‘chiarificatore’. I programmi di storia han­no un futuro incerto. Eppure ciò che già ri­sulta acquisito è l’emergere di voci discor­danti, segnali contraddittori, del precipitoso affermarsi di un “senso comune storiografi- co” sconcertante, nutrito di viscerali affetti e di consolidate e mai discusse certezze, spesso stranamente affiancate da raffina­

tissime elaborazioni concettuali. Se ne po­trebbe quasi ricavare l’impressione che l’Ita­lia sia il paese in cui il culto degli antichi pa­dri è ancora vivo e fresco nelle coscienze, in cui il senso delle radici è tuttora forte e im­pregnato di cultura classica e capace di solle­vare ondate di sdegno al minimo accenno iconoclasta. Ciò sarebbe confortante, rispet­to allo scempio che si fa quotidianamente del patrimonio che quel passato rappresenta e vivifica nella memoria.

In realtà, tutto si ridimensiona drastica­mente di fronte a una considerazione delle più banali: chi ha mai detto che, se la storia antica non la si studia a 14-15 anni, non si avrà mai modo di venirne a conoscenza? In effetti non si è trattato tanto della difesa della storia antica, quanto di quella di una concezione unilineare, ciclica e cumulativa della storia, che ha capisaldi ormai lontani nel tempo, sconfessati dalla storiografia scientifica, e che si perpetuano solo nelle scuole. Una sorta di ‘idea fissa’, che fa as­somigliare la storia allo sviluppo organico della vita, o a un gomitolo di Arianna in cui ogni cosa ha un prima o un dopo in stretta relazione causale, di discendenza obbligata per cui gli effetti si sommino indefinitamen­te nel tempo. Eppure, e lo si sa, l’albero stesso delle nostre radici (quali, poi?) ha soffocato altre piante, ha messo a sua volta radici avventizie e aeree per sopravvivere. Le cose stanno in maniera ben più comples­sa di quanto suggerisce la ‘favola’ del come eravamo, così cara a chi non deve più stu­diarla a scuola.

Ma una realtà divenuta tanto complessa, va evidentemente affrontata ad un livello storiografico più alto, come sanno bene i molti che pure si sono espressi in senso con­trario. C’è da credere che si sia implicita­mente sostenuto che ciò che la ricerca scien­tifica ha ormai acquisito non vada assoluta- mente bene per la scuola, la quale va invece lasciata a ‘pascersi’ di certezze del tutto osbsolete.

Insegnamento della storia e riforma del “biennio” 141

Rafforza quest’idea l’allineamento gene­rale sul problema dei contenuti, a partire dai presupposti della premessa ai program­mi, che considera già acquisita una infor­mazione generale sul profilo complessivo della storia nel percorso della scuola media. C’è dell’altro, già ora, nei programmi del- l’obbligo e nel dibattito suH’insegnamento superiore. C’è l’attenzione alle dinamiche secondo cui si acquisisce un orientamento nel tempo e nello spazio a partire dai primi livelli di cognitività; c’è l’esame delle proce­dure di ricerca didattica secondo sequenze di sviluppo cognitivo; e c’è la messa a punto di strumenti e di metodologie che facciano della storia uno strumento di conoscenza, più che un oggetto. Tutto questo è stato ampiamente ignorato con strane afferma­zioni, bifronti, sul tema della ricerca, per un verso mistificando circa 1 ’ attingibilità dei livelli di quella ‘vera’ al fine di deprezzare quella didattica, tacendo sui risultati delu­denti dello studio della storia secondo i ca­noni della ‘serietà’ tradizionale; per l’altro, quando si è messa a fuoco la reale portata della proposta di ricerca didattica — che è scienza, professionalità, gusto della crescita personale e interpersonale — lamentando l’inadeguatezza, o la totale inesistenza degli insegnanti capaci di promuoverla e guidarla (gli “insegnanti-ricercatori”). E poiché l’i­dea che l’insegnante possa essere formato prima, e sostenuto poi con adeguate linee di intervento, appare da noi particolarmente peregrina (salvo che per l’informatica), ciò basta, evidentemente, per liquidare ogni progetto innovativo e riparare nel grembo di antiche, rassicuranti certezze.

È certo, in ogni caso, che la stesura stessa dei programmi, al di là di ogni giudizio di merito, appare così composita, eclettica e contraddittoria da rappresentare una pre­ziosa esca per gli esercizi di logomachia. Lo dimostra, tra l’altro, quanto viene detto cir­ca la ‘sistematicità’, da un lato raccoman­data caratteristica dell’approccio da seguire

e praticare, dall’altro fatta balenare — e lo si è già accennato — come prospettiva del­l’insegnamento impartito nel successivo triennio. La sistematicità, come il tempo e come le radici, non ha un solo paradigma, e se ciò fosse stato evidenziato nei program­mi, sarebbe stato tanto meglio per la chia­rezza complessiva.

Infine, un’ultima osservazione. La que­stione irrisolta del termine della scuola del- l’obbligo sembra fondamentale per la chiara definizione delle posizioni da assumere. In­vero, pronunciarsi per l’estensione della sto­ria antica, in un biennio unificato, anche a quelle scuole dove attualmente si studia la contemporanea, pur di salvarla nei licei, si­gnifica pronunciarsi chiaramente per la de­finitiva fissazione dell’obbligo alla terza me­dia, risolvendo contemporaneamente anche il problema di una scuola superiore attual­mente “troppo affollata” .

I punti appena toccati, pur se emersi con particolare evidenza in questa occasione, appartengono interamente al campo più profondo, più lungo e meno contingente delle riflessioni e dei convincimenti maturati in seno all’Istituto nazionale e alla rete degli Istituti associati in ordine alla scuola e alla didattica della storia. Il lavoro capillare nel­le scuole e nel settore delPaggiornamento e della formazione in servizio dei docenti in questi ultimi decenni, svolto dagli operatori scolastici legati agli Istituti e variamente in­corporati nelle relative ‘sezioni didattiche’, promosso e coordinato dalla Commissione stessa e dal Laboratorio nazionale di didat­tica della storia (Bologna), ci ha messo nelle condizioni di conoscere dal di dentro realtà complesse e di operarvi, spesso in situazioni di paurose carenze istituzionali. Questo ci abilita oggi a intervenire, ricordando le no­stre opzioni ancora di recente approfondite e affinate — ne è testimonianza il volume La storia insegnata appena uscito — per una nuova professionalità docente e per un

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insegnamento ‘forte’ della storia in grado di riorientare il rapporto con altri saperi e di­scipline. In questa direzione ci siamo mossi propugnando la pratica del ‘laboratorio di storia’, aperto a esperienze di studio e inse­gnamento multiple e intrecciate, ideative e/o ricompositive, individuando in essa il senso e la possibilità del raccordo ineludibi­le tra storia-scienza e storia-materia, cultura storiografica e progettualità didattica. Al tempo stesso, abbiamo ragionato di analisi stratigrafica del presente come storia e di centralità della storia contemporanea, di ri­cerca e di storia locale, così come abbiamo indicato nella sperimentazione, nella proget­tazione e nell’articolazione curricolare e nel­la “modularità riproducibile” del lavoro di­dattico e dei suoi ‘prodotti’, gli schemi di una possibile alternativa alla rigidità dei programmi e alla sclerosi degli attuali statu­ti e assetti disciplinari.

Di queste importanti tradizioni di lavoro e di impegno politico e culturale occorrerà pur tener conto.

Gli Istituti della Resistenza e l'insegnamento della storia

All’inizio dello scorso novembre si è tenuto a Bologna un seminario degli Istituti storici della Resistenza sull’insegnamento della sto­ria. Proposto dalla Commissione per la di­dattica e l’aggiornamento e dal Laboratorio nazionale per la didattica della storia, esso mirava, da un lato, a coordinare secondo li­nee di intervento e opzioni ben definite le molteplici attività condotte dalla rete degli Istituti sul terreno della ricerca didattica e della divulgazione storica e, dall’altro, a ve­rificare quel ruolo di agenzia formativa che le sezioni didattiche assieme alle strutture centrali (la Commissione e il Laboratorio

già nominati) sono venute sempre più assu­mendo nell’intero paese.

Un seminario diverso, quindi, dai molti promossi in precedenza dagli Istituti perché volto più a consolidare una struttura di la­voro che a presentare all’esterno gli itinerari didattici e le sperimentazioni numerose già prodotte da quella stessa struttura.

Se si può dare infatti per scontata, presso un pubblico motivato, la conoscenza dei convegni e delle pubblicazioni ad essi conse­guiti, vale invece la pena di sottolineare co­me negli ultimi anni, presso gli oltre cin­quanta Istituti della Resistenza, siano venu­te aggregandosi realtà nuove, spesso di no­tevole consistenza, costituite da gruppi di insegnanti che, ancor più dell’elemento par­tigiano e degli storici di professione già pre­senti in essi, hanno avvertito l’urgenza di raccordare l’attività di ricerca e di docu­mentazione al mondo della scuola. Nel pro­porre un momento di autoriflessione da parte di tutti gli operatori didattici degli Istituti, la Commissione didattica e il Labo­ratorio tuttavia non si limitavano a prende­re atto di una crescita intervenuta, ma in­tendevano farvi corrispondere un’ulteriore assunzione di responsabilità verso l’istitu­zione scolastica.

I compiti statutari stessi degli Istituti e la peculiare concentrazione di risorse umane in essi operanti — si tratti di storici o di- dattologi, di archivisti o bibliotecari, di in­segnanti comandati o di insegnanti nella scuola — consentono infatti un’autonoma capacità di proposta e di confronto con le strutture statuali dell’istruzione, senza la quale ogni intervento assume i caratteri del­la supplenza di un’istituzione scolastica ca­rente.

Nelle sale della Provincia di Bologna i re­sponsabili delle sezioni didattiche o dei gruppi di lavoro di una quarantina di Istitu­ti e i dirigenti nazionali hanno discusso del sistema scuola e della figura dell’insegnante oggi, del rapporto tra la ricerca storiografi­

Insegnamento della storia e riforma del “biennio” 143

ca e la storia insegnata, dell’ipotesi del la­boratorio di storia e scienze sociali come modello di innovazione didattica propugna­to dagli Istituti, della promozione ad ogni livello di collaborazioni con altre agenzie di formazione pubbliche e private (ferma re­stando l’autonomia e la peculiarità degli Istituti), dei caratteri e delle tipologie di in­tervento proprie di una sezione didattica e del radicamento di questa nella realtà locale che la circonda, del raccordo da promuove­re tra i settori diversi di attività degli Istitu­ti, primi tra tutti la ricerca e la documenta­zione.

Sul dibattito recente intorno alla qualità dell’istruzione e sulle modificazioni interve­nute nel corpo docente negli ultimi dieci an­ni verteva la relazione di Raffaella Lamber­ti: “Gli insegnanti a scuola: riflessioni su politica e professionalità” . Sembrava infatti necessario ai promotori del seminario, come aveva detto in apertura Rino Sala, presiden­te della Commissione didattica, riprendere la riflessione sui grandi temi della riforma e sui modi nuovi di presentarsi delle politiche scolastiche dopo un periodo di attività mi­rata essenzialmente alla elaborazione di strumenti e sequenze didattiche da offrire alla “scuola militante” . Non sembra infatti scorretto, per quanto sia schematico, affer­mare che nei primi anni ottanta l’interesse prevalente, anche all’interno degli Istituti, veniva rivolto agli aspetti metodologici ed epistemologici della storia insegnata.

Con quali indirizzi di politica scolastica trova a misurarsi chi si pone obiettivi di for­mazione e divulgazione storica? Quale con­cezione delle funzioni dell’istituzione scola­stica intende promuovere? Quale conoscen­za deve possedere delle scelte pedagogiche e dei processi formativi che hanno effettiva­mente luogo nelle aule scolastiche? Le con­siderazioni avanzate circa l’andamento del sistema scuola sottolineavano, anche sulla scorta della recente letteratura in proposito, alcuni dei mutamenti più evidenti. Si è par­

lato ad esempio di come i governi dei paesi della Comunità economica europea e del- l’Ocse, abbandonati nel corso degli anni settanta tutti i progetti di innovazione glo­bale, abbiano agito con modalità sostanzial­mente omogenee privilegiando i medesimi interventi settoriali quali l’istituzione di or­gani collegiali di gestione, la stesura di nuo­vi programmi per ogni ordine e grado scola­re, la predisposizione di piani generali di ag­giornamento e la fondazione di nuove strut­ture di sostegno. Ed ancora: si è rilevato, come, nei medesimi paesi, a partire dal 1983-84 il dibattito si sia spostato dai temi delle riforme di struttura al problema della qualità dell’istruzione, come presa d’atto e insieme reazione allo scacco subito dalla scuola, divenuta di massa, in materia di in­nalzamento degli standards formativi e di abbattimento dei meccanismi sociali di sele­zione.

D’altra parte, se per il progressivo dila­tarsi delle occasioni formative extrascolasti­che, ivi concluse le esperienze lavorative at­tuate da un numero crescente di studenti già durante l’iter scolare, la scuola appare de­stinata a divenire solo un elemento di un più vasto sistema formativo in continuum, si è ritenuto urgente interrogarsi su quelli che sono i suoi compiti imprescindibili e non sostituibili.

Questioni come quelle appena nominate sono particolarmente pertinenti per gli Istituti che da anni promuovono l’avvicinamento della storia insegnata alla ricerca storiogra­fica e si prefiggono l’obiettivo di una for­mazione storica rigorosa, con particolare ri­ferimento all’educazione al presente come storia. Né, sotto questo rispetto, è secondario il punto di vista secondo il quale considerare il ruolo e la funzione dell’insegnante. In bre­ve: non è secondario, riconoscere o meno agli insegnanti una potenzialità di innova­zione rispetto ad una rappresentazione che li vuole meri riproduttori dell’insegnamento tradizionale. In questo senso pare importan­

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te superare l’ottica di numerose ricerche che da un decennio rilevano la disaffezione degli insegnanti o ne misurano le motivazioni pro­fessionali e politiche sulla base di indicatori quali la sindacalizzazione, la militanza parti­tica, la partecipazione agli organi collegiali.

Per approdare ad una fenomenologia più adeguata della segmentazione intervenuta nel corpo docente, per identificare quote di insegnanti disponibili al cambiamento e per intenderne la domanda di cambiamento, so­no parse indispensabili altre metodologie che, mediante la ricostruzione dei profili di carriera, entrino nel vivo delle pratiche di­dattiche dei singoli docenti. Vanno parimen­ti prese in considerazione variabili quali le differenze generazionali o la differenza ses­suale. La interpretazione stessa dell’inciden­za della femminilizzazione del corpo inse­gnante sulla disponibilità/indisponibilità al­l’innovazione didattica è sembrata richiede­re approcci nuovi che prendano atto delle ri­flessioni elaborate dal femminismo sulla fre­quente estraneità delle donne nei confronti di modelli culturali alla cui elaborazione hanno contribuito in misura ridotta. “La co­struzione etico-civile del cittadino” cui gli Istituti intendono contribuire, richiede infat­ti l’autonomia intellettuale e la capacità de­cisionale dell’insegnante che voglia prendere parte a esperienze di cooperazione educativa come quelle che essi promuovono.

L’interesse preminente dell’incontro bolo­gnese era rivolto tuttavia, come si è già det­to, a consolidare una struttura di lavoro al­l’interno della rete federativa e a promuo­verne la visibilità crescente all’esterno. Tali interessi, già riscontrabili nella convocazio­ne del seminario che, rivolgendosi alle sezio­ni didattiche, ne riconosceva l’avvenuta for­malizzazione, sono pienamente esplicitati nell’ordine del giorno finale pubblicato su

“Italia contemporanea”1. È comunque nel vivo del dibattito — dall’indirizzo politico del presidente dell’Istituto nazionale ai nu­merosi interventi degli operatori — che se ne è verificato l’elevato grado di condivisione.

In particolare Guido Quazza nella sua in­troduzione, dopo aver richiamato alla me­moria dei presenti il cammino non pacifico che la didattica ha dovuto percorrere per ot­tenere il diritto di piena cittadinanza all’in­terno degli Istituti, insisteva sul ruolo trai­nante che le sezioni didattiche possono svol­gere per lo stabilirsi di quella più stretta col­laborazione tra i singoli elementi della rete federativa e tra questi e le istanze nazionali che costituisce l’obiettivo politico centrale della nostra attività futura e la condizione imprescindibile dell’affermarsi delle nostre opzioni.

Sembra infatti giusto sottolineare un rilie­vo critico avanzato da più parti circa la non rispondenza tra la mole di lavoro didattico messa in campo dalle realtà locali e dalla Commissione didattica nazionale e la capa­cità di prendere iniziative a livello centrale in ordine alle politiche scolastiche, in primis in ordine ai programmi e i piani di aggiorna­mento degli insegnanti di storia ed educazio­ne civica.

Pertanto le relazioni di Aurora Delmona- co (“Le sezioni didattiche: possibilità e limi­ti”), di Maurizio Gusso (“Ruoli e prospetti­ve delle sezioni didattiche”) e di Scipione Guarracino (“Tipi di attività di una sezione didattica e condizioni per realizzarle”) erano dedicate alle sezioni didattiche, al potenzia­mento della loro autonoma capacità propo­sitiva e della loro corrispondenza alla do­manda di formazione storica proveniente dal territorio.

Poiché era inevitabile che in alcuni punti (caratteristiche di un lavoro didattico avan­

1 II testo è già stato pubblicato su “Italia Contemporanea”, n. 165, dicembre 1986, p. 164, sotto il titolo Seminario delle sezioni didattiche.

Insegnamento della storia e riforma del “biennio” 145

zato, condizioni per realizzarlo) tali relazio­ni si sovrapponessero, l’esposizione sottoli­neerà gli spunti più caratterizzanti di ciascu­na di esse. Tuttavia, prima di entrare nel merito dei diversi ragionamenti avanzati, è bene dare un’idea dell’ordine di grandezza, del volume — per dir così — dei contatti in corso tra gli Istituti e la scuola. Due sondag­gi successivi, condotti sull’intera rete asso­ciativa, realizzato il primo da Ornella Cle­menti per conto dell’Istituto nazionale al fi­ne di quantificare le richieste di intervento pervenute dalla scuola in seguito alla circo­lare Falcucci sulla celebrazione del quarante­simo anniversario della liberazione, predi­sposto il secondo dal Laboratorio in vista del seminario bolognese al fine di valutare l’attività didattica ordinaria degli Istituti, convergono nel suggerire una cifra di oltre 5.000 insegnanti e classi contattate solo negli anni più recenti.

Ma una verifica qualitativa interessante veniva fornita dalle caratteristiche stesse dei partecipanti al seminario: in buona misura nuove leve per gli Istituti, provenienti spesso dalle generazioni più giovani del corpo do­cente e fortemente motivate alla ricerca (non esclusivamente didattica) e alla professiona­lità.

La relazione di Aurora Delmonaco, particolarmente attenta alle motivazioni che spingono le diverse componenti interne agli Istituti (l’elemento partigiano, lo storico di professione, l’insegnante) a rapportarsi alla scuola e parimenti rispettosa della peculiari­tà di ciascuna esperienza locale, ripercorreva da più punti di vista le tappe attraverso le quali si è sviluppata, nell’insieme, la funzio­ne didattico-formativa degli Istituti. Da un punto di vista genetico, identificava “nei grandi appuntamenti nazionali” (Rimini 1979, Venezia 1981, Rimini 1983, Venezia 1985) altrettante sollecitazioni offerte dalle istanze centrali alle realtà locali per avviare l’attività didattica (nei fatti è proprio in que­sto scorcio di tempo che numerosi Istituti si

dotano di settori didattici), poiché in quegli incontri sono emersi inizialmente indicazioni sui temi di ricerca, successivamente riflessio­ni metodologiche e infine una gamma molto ampia e aperta di soluzioni didattiche capaci di connettere metodologie e tematiche se­condo l’ottica operativa del Laboratorio di didattica della storia. Inoltre, al fine di otti­mizzare oggi gli sforzi di ciascuna realtà lo­cale e di identificare le caratteristiche pro­prie alle esperienze più compiute e per que­sto più idonee a sostenere una domanda complessa e articolata, la relazione suggeri­va una griglia che classificava idealmente le tappe che conducono alla costituzione di una sezione didattica “matura” . Tale gri­glia, costruita prevalentemente a partire dai tipi di rapporto istituibili con la scuola (epi- sodicità/continuità, informazione/elabora- zione e simili) può servire ad analizzare il processo che porta da forme più semplici del rapporto — come il contatto episodico o la offerta di servizi — a forme più organiche e stabili quali la « cooperazione » e la « inte­grazione ». Se, per ogni tappa, la volontà politica dell’Istituto e la presenza di una do­manda son condizioni indispensabili, le for­me più organiche suppongono 1’esistenza, accanto alla figura del responsabile didatti­co, di un gruppo di lavoro stabile, capace di elaborare percorsi didattici e modelli di ag­giornamento utilizzando l’intero patrimonio dell’Istituto: in breve, suppongono resisten­za della sezione didattica.

Finalità analoghe informavano la classifi­cazione dei tipi di attività didattica proposta da Scipione Guarracino, la cui gradualità era fondata sul maggiore o minore grado di formalizzazione implicato nella trasmissione delle conoscenze e sulle caratteristiche del prodotto finale conseguibile di grado in gra­do. Anche questa classificazione si propone­va come strumento per valutare lo “stato dei lavori” e alla sua luce Guarracino presenta­va i dati emersi dallo spoglio dei questionari relativi alla attività didattica ordinaria degli

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Istituti (secondo sondaggio) al fine di rileva­re le tendenze in atto. Non è infatti secon­dario che gli Istituti si accingano in buon numero a ridurre lo spazio dato a lezio­ni-conferenza per promuovere invece “semi­nari con esercitazioni” e costituire “gruppi di produzione” . Né è secondario che s’av- viino a produrre materiali didattici, siano essi bibliografie ragionate, dossiers di fonti, unità didattiche. Il prodotto finale costitui­sce infatti una verifica essenziale del lavoro svolto e permette il passaggio da una situa­zione “artigianale” a una “industriale” , in cui è garantita la circolazione delle espe­rienze.

L’idea di fornire modelli fortemente strutturati e standardizzati è presente da tempo a rispondere all’esigenza di dare ri­sposte rapide e rigorose alle moltissime ri­chieste che pervengono al Laboratorio e alle sezioni didattiche più attive. Non si tratta di fornire istruzioni e tanto meno “compitini da fare”, ma di favorire l’avvio di pratiche comuni che devono pur essere promosse se si vuole dare vita a quell’azione concertata di cui molti interventi sottolineavano l’ur­genza.

Né la circolazione di modelli d’organizza­zione dell’attività didattica o di items for­mativi deve fare pensare a un primato di quella che Aurora Delmonaco chiamava la metodologia passe-partout. Sul fronte stes­so dei temi di ricerca il dibattito ha segnala­to l’esigenza di un coordinamento delle for­ze. In particolare nel gruppo di lavoro “Ri­cerca storiografica e insegnamento della sto­ria” è stato proposto di dar luogo a gruppi di lavoro tra gli Istituti su temi di interesse comuni quali, ad esempio, i bombardamenti nella seconda guerra mondiale, l’emigrazio­ne, e di promuovere un coordinamento ge­nerale delle ricerche in atto sulla storia delle donne. Del resto l’esperienza complessiva degli Istituti è legata ad una storiografia lo­cale e nazionale fortemente segnata dall’im­pegno civile.

Non è un caso che la relazione di Guarra- cino, volendo segnalare la diversità dell’in­tervento didattico degli Istituti rispetto a quello di altre agenzie formative democrati­che, parlava di “educazione al presente co­me storia” non essendo sufficiente a distin­guerli le finalità della divulgazione storica e della formazione della coscienza storica. È analogamente Maurizio Gusso, per indicare la specificità delle sezioni didattiche, si rife­riva agli Istituti come “istituti di storia con­temporanea”, operanti sul territorio non so­lo come soggetti di ricerca ma anche come “soggetti politico-culturali” . La relazione di Maurizio Gusso era attenta agli aspetti della cooperazione tra i diversi settori di attività degli Istituti e alla circolazione del dibattito e delle esperienze all’interno dell’intera rete associativa. Essa individuava le condizioni indispensabili per 1’esistenza di una sezione didattica (pieno riconoscimenti formale da parte degli organi dirigenti dell’Istituto, pre­senza di un responsabile, autonomia di pro­gettazione, dotazione finanziaria) e faceva dipendere l’originalità e vitalità di tale se­zione anche dal grado di integrazione nel più ampio ambito d’intervento dell’istituto locale sul territorio.

Più volte nel corso del seminario (in par­ticolare nel gruppo sulla “Committenza sul territorio”) si è sottolineata la peculiare ric­chezza degli Istituti in termini di raccolte di fonti, di patrimonio librario, di ricerche ac­cumulate, di bollettini, riviste e l’importan­za che riveste per la sezione didattica poter disporre di tutte le risorse che l’Istituto può offrire. Sia su questo terreno sia su quello della circolazione del dibattito e delle elabo­razioni teoriche e pratiche all’interno del­l’intera rete associativa, Gusso era ricco di suggerimenti in vista dell’attività futura. Qui si riprende solo l’idea di una valorizza­zione sistematica della strumentazione di­versa in possesso degli Istituti e la concezio­ne di un modello di circolazione complesso tra tutte le istanze, risultando uno scambio

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concepito sullo schema centro-periferia del tutto inadeguato alla realtà associativa degli Istituti. Peraltro, non solo esistono sezioni didattiche — basti l’esempio di Milano, Na­poli, Torino — che costituiscono altrettanti centri ma numerose realtà della cosiddetta periferia hanno fornito nel tempo modelli di intervento esemplari in ordine a tutti i problemi discussi nel seminario. Basti citare i due casi, emersi anche nel dibattito bolo­gnese, di Pesaro e Alessandria. Il sistema dei laboratori didattici proposto dall’Istitu­to di Pesaro è entrato nelle scuole di ogni ordine e grado della provincia col benestare delle massime autorità scolastiche. Ad Ales­sandria l’Istituto tiene corsi regolari di sto­ria contemporanea per i 600 allievi della Scuola di pubblica sicurezza.

Se, come si è ribadito e come è ovvio, alle istanze centrali spettano compiti di promo­zione, progettazione, documentazione e in­formazione, ciò non toglie che un contribu­to prezioso potrebbe venire da tutti gli Isti­tuti locali qualora accogliessero la proposta, emersa nel dibattito, di costruire esperienze paradigmatiche, unità di lavoro esemplari per l’uso didattico degli archivi, delle bi­blioteche, delle emeroteche in loro dotazio­ne. Quanto al rapporto con altre agenzie di formazione pubbliche e private, Guido Quazza, nella sua introduzione, aveva sot­tolineato la necessità di un confronto aperto tra le sezioni didattiche e ogni organismo democratico di formazione; aveva poi illu­strato, sulla scorta dell’esperienza torinese del Cirda (Centro inter dipartimentale per la ricerca didattica e l’aggiornamento degli insegnanti) il ruolo che le università potran­no svolgere sul terreno della formazione. È quasi pleonastico ricordare come possa inci­dere nelle attività di un Istituto o di una se­zione didattica la presenza o meno sul terri­torio di una sede universitaria o di un istitu­to culturale prestigioso.

In sede di assemblea finale, Guido D’A­gostino, presidente del Laboratorio nazio­

nale per la didattica della storia, riprendeva il tema delle opzioni comuni. Se in apertu­ra dei lavori aveva indicato nel Laborato­rio con sede a Bologna un punto di riferi­mento istituzionale delle sezioni didattiche, ora riconosceva al concetto di “laborato­rio” la capacità di reggere i diversi percorsi di lavoro che si danno all’interno degli Isti­tuti.

Di fatto, gli esiti di un dibattito ricco e vivace erano sintetizzati nelle comunicazioni dei quattro gruppi di lavoro. A conclusioni analoghe erano arrivati il gruppo “Labora­torio” (D’Agostino, Guarracino) e il gruppo “Ricerca storiografica e insegnamento della storia” (Brusa, Lamberti, Marcialis, Mat- tozzi) esprimendosi a favore di percorsi di­dattici aperti da riempire e contestualizzare nel vivo dei propri ambiti di competenze e attività, piuttosto che per la produzione di unità didattiche rigide e affermando che, tra le tante esperienze da proporre in una classe, deve trovare spazio la ricerca didatti­ca nelle sue molteplici accezioni. Il gruppo “Committenza sul territorio” (Bertacchi, Clementi, Delmonaco) rilevava la necessità di promuovere indagini per meglio valutare la domanda di una committenza sempre più differenziata (studenti, insegnanti, citta­dini) e di curare, per dir così, l’immagine degli Istituti al fine di renderne nota l’of­ferta.

Particolarmente propositivo risultava il gruppo “Agenzie di formazione e istituzioni scolastiche” (Deon, Omodeo Zorini, Pero- na, Gusso); buona parte delle sue indicazio­ni sono passate negli odg votati dai parteci­panti al seminario e, pertanto, qui se ne se­gnalano soltanto alcune. L’indicazione data a Commissione e Laboratorio di organizza­re seminari ricorrenti di formazione degli operatori didattici degli Istituti; la richiesta ai medesimi di organizzare il lavoro didatti­co per commissioni miste di operatori degli Istituti e “esperti” esterni ad essi a partire da temi specifici; la predisposizione di strut-

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ture di sostegno (albi di “esperti” utilizzabi­li da parte delle sezioni didattiche, istruzio­ni per 1’“abbordaggio” ai diversi livelli del­le istituzioni scolastiche, raccolte complete della normativa scolastica); la circolazio­ne puntuale delle informazioni riguardanti i

lavori in corso nelle istanze centrali e nelle commissioni da esse attivate; la fondazione di un cartello di forze che stringa in pro­grammi comuni agenzie democratiche di formazione.

Raffaella Lamberti

STUDI STORICIrivista trimestrale dell’istituto Gramsci - n. 3, 1986

Giustizia e reati sessuali nel MedioevoRinaldo Comba, “Apetitus libidinis coherceatur". Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardomedievale: Pierre Dubuis, Comportamenti sessuali nelle Alpi del Basso Medioevo: l ’esempio della castellania di Susa; Maria Serena Mazzi, Cronache di perife­ria dello Stato fiorentino: reati contro la morale nel primo Quattrocento-, Ingeborg Walter, Infantici­dio a Ponte Bocci: 2 marzo 1406. Elementi di un processo.

Opinioni e dibattitiAldo A. Settia, “Pagana", “Ungaresca", “Pelosa": strade medievali nell’Italia del Nord; Thomas Sza- bò, Strade e potere pubblico nell’Italia centro-settentrionale (secoli VI-XIV).

RicercheMarta Cristiani, Sogni privati e sogni pubblici: Macrobio e il platonismo politico: Antonello Mattone, « I sardi sono intelligenti?»: un dibattito del 1882 alla Société d ’Anthropologie di Parigi.

Note criticheLaurent Feller, Castelli dell’Italia Centrale; Cristina La Rocca Hudson, Città altomedioevali, storia e archeologia: John Day, Banca e moneta a Venezia fra Medioevo e Rinascimento: Gian Franco Gia­notti, Le armi della metafora: Marchesi e il caso Gentile.

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