N o te e discussioni
Convegno su guerra e rivoluzione in Catalognadi Vittorio De Tassis
Quattro giornate dense di relazioni corpose e documentate, comunicazioni sovente stimolanti e dibattiti animatissimi hanno caratterizzato lo svolgimento del Secondo convegno internazionale sulla guerra civile spagnola (1936-1939), tenutosi nella capitale catalana dal 4 al 7 novembre 1986 per iniziativa del Centro di studi storici internazionali delPUniversità di Barcellona. Il tema, “La guerra e la rivoluzione in Catalogna” , era in effetti abbastanza vasto e in pari tempo ben definito, tale da investire direttamente i nodi cruciali dell’intera vicenda della guerra di Spagna, sia pure sotto l’angolazione regionale proposta per l’occasione. Basti pensare agli argomenti ai quali sono state dedicate le diverse sessioni di lavoro: economia e rivoluzione; trasformazioni rivoluzionarie e vita politica; esercito, guerra e rivoluzione; vita quotidiana; cultura, insegnamento e rivoluzione; proiezione internazionale. Ne è uscita un’ampia gamma di contributi che, per varietà e complessità di contenuti, ricchezza di motivi, diversità di orientamenti storiografici, difficilmente si possono ricondurre ad un comune denominatore che non sia quello, del resto importante più di ogni altro, della vitalità e fecondità del confronto. Né si vuol dire con questo che il convegno non abbia assunto una sua riconoscibile fisionomia: al contrario, fin dal primo giorno si sono visti emergere i due tratti di fondo che ne hanno costantemente accompagnato lo svolgimento, a conferma del resto di una situazione
più generale dell’odierna storiografia sulla guerra civile spagnola: da un lato, lo sforzo compiuto dalla nuova generazione di studiosi e ricercatori, specie iberici, per andare óltre le rappresentazioni tradizionali, largamente ideologiche, della vicenda storica, attraverso la puntigliosa applicazione di nuovi strumenti e criteri d’indagine a singoli aspetti, spesso locali e settoriali, onde tornare a rischiarare di luce nuova il quadro d’assieme; dall’altro lato, il richiamo spesso polemico della vecchia generazione ai motivi etici e politici di cui fu pur sempre intessuta un’esperienza storica che si configura ancora largamente come vita vissuta, e che tende perciò a venir riproposta in chiave di memoria e testimonianza paradigmatica, con tutti i pregi e i difetti di tale punto di vista. Percorso da questa interna tensione dialettica, il convegno è venuto rivisitando molti dei
motivi topici del dibattito tradizionale sulla guerra di Spagna — i dilemmi spontanei- tà/organizzazione, dittatura/democrazia,centralismo/autonomismo, autogestione/pianificazione, guerra/rivoluzione — cercando di scioglierne la rigidità dicotomica in una più fluida e articolata visione dei problemi e degli avvenimenti quali emergono dall’esame sempre più ravvicinato di quel grande laboratorio politico che fu la Catalogna durante la guerra civile.
In questa luce, meritano di essere qui menzionati quelli che a mio avviso sono stati gli apporti più originali e stimolanti, a co
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minciare dalla relazione di Pelai Pagés su “Le trasformazioni rivoluzionarie e la vita politica”, un’acuta e circostanziata analisi delle contraddizioni e dei limiti intrinseci al processo rivoluzionario sviluppatosi in Catalogna, esaminato per la prima volta al livello dei concreti rapporti tra organismi di massa e istituzioni repubblicane, e in una prospettiva non più solo metropolitana ma più largamente catalana. Una lucida e brillante disamina delle ambiguità della storiografia della « vita quotidiana » è stata poi fatta, in apertura della terza giornata, da Enric Ucelay da Cai, giovane docente dell’Università autonoma di Barcellona, secondo il quale l’esigenza in sé legittima di superare le tradizionali interpretazioni ideologiche della guerra civile (in particolare quella democratico-frontista della difesa della repubblica e quella rivoluzionario-libertaria della costruzione del contropotere proletario) corre sovente il rischio di insabbiarsi nel miraggio retrospettivo della “felice oasi catalana”, sconvolta da forze estranee alla sua autentica anima nazionale. Non meno interessanti, ancorché per taluni aspetti assai più discutibili, le relazioni di Francesco Roca sui problemi economici postisi sotto la spinta della rivoluzione e rincalzare della guerra, di Jesüs Rodés sullo sfondo internazionale del conflitto, e di Gabriel Cardona su “Le operazioni militari nella storia della guerra in Catalogna”. Il primo ha particolarmente insistito sul carattere anticipatone che avrebbe avuto in campo economico l’esperienza catalana del 1936-1937 rispetto alla situazione dell’Europa occidentale nell’immediato secondo dopoguerra: economia mista, programmazione, pluralismo della partecipazione politica e sociale (un “modello” ipotetico suggestivo, ma non saprei quanto euristicamente significativo, data l’estrema diversità dei contesti). Jesüs Rodés ha invece esaminato il quadro internazionale del conflitto, mettendo opportunamente in luce taluni difetti e debolezze dell’azione diplomatica repubblicana, a partire dalla
mancanza di una conduzione unitaria e coerente. La sua rivendicazione della natura tutta endogena della guerra civile, se si può spiegare con la sentita esigenza di fare i conti fino in fondo con la propria storia nazionale, non giustifica peraltro né la sua sottovalutazione del ruolo del fascismo internazionale quale elemento propiziante lo stesso “alza- miento”, né ancor meno il suo troppo frettoloso accantonamento della tesi della guerra spagnola come prologo della seconda guerra mondiale. Certo, appoggiandosi a simili conclusioni si potrà anche sostenere, come ha fatto da parte sua Gabriel Cardonas secondo un’ottica asetticamente militare, che la battaglia dell’Ebro fu un’operazione “militarmente assurda”, voluta da Negrin e dai comunisti per mero calcolo politico; resta da vedere però quale sia il senso di un discorso che, risalendo via via a ritroso le svolte della guerra, potrebbe portare a ridiscutere — stavolta magari in chiave tutta politica — l’opportunità della stessa difesa di Madrid. Il pregio della relazione di Cardonas mi sembra stare in realtà altrove, e precisamente negli interrogativi puntuali e serrati che egli propone circa il ruolo effettivo svolto dalla Catalogna nella conduzione della guerra, interrogativi rispondendo ai quali soltanto si potrebbe finalmente uscire dall’ormai stucchevole gioco a scaricabarile tra le contrapposte famiglie politico-ideologiche per il lungo ristagno delle operazioni sul fronte aragonese.
Accanto all’ampia e documentata relazione di Pere Sola Gussinyer sui rapporti tra mondo della cultura ed esperienza rivoluzionaria, tra gli altri contributi di fonte iberica mi preme ricordare gli interventi di Josep M. Bricall, rettore dell’Università di Barcellona, e del giovane studioso Albert Girona alla tavola rotonda su “La guerra civile nei paesi catalani”, entrambi incentrati sull’evoluzione economica e politico-sociale rispettivamente della Catalogna e della regione valen- ziana. E ancora, le comunicazioni di J.M. Santacreu Soler (“Analisi delle emissioni di
Attualità della guerra di Spagna nella cultura inglese 113
moneta frazionaria della circoscrizione di Barcellona”), di J.M. Caporrós Lera (“La politica cinematografica della Generalitat de Catalunya negli anni trenta”), di Monserrat Carreras i Garda e Nüria Vali i Sera (“La donna catalana nelle milizie”), di M. Duch, M.A. Ferrer e M.J. Muinos (“Guerra e rivoluzione nella memoria popolare”), per nominare solo alcuni dei molti contributi significativi. Tra gli apporti stranieri, di particolare rilievo quelli di Pierre Broué (sul non-inter- vento iniziale delPUrss, peraltro non esente da semplificazioni tendenziose) e soprattutto di Enzo Collotti (sulla posizione dell’Internazionale socialista e sulla tanto generosa quanto sfortunata battaglia condotta da Nenni nel suo seno a favore della Repubblica spagnola). Da segnalare anche le comunicazioni di Luciano Casali sull’immagine della Catalogna nella memorialistica italiana, e di
Nanda Torcellan sulla bibliografia italiana sulla guerra civile da lei preparata per l’occasione.
Un bilancio più completo e meditato del convegno sarà naturalmente possibile quando disporremo dei testi scritti delle relazioni e degli interventi nei dibattiti (durante il convegno è stato distribuito solo il fascicolo contenente la maggior parte delle comunicazioni).
Per ora, come conclusione, ci si può limitare a sottolineare l’indubbio valore scientifico del materiale presentato nel corso delle quattro giornate, l’appassionato impegno nella discussione di storici e studiosi giovani e meno giovani, le numerose preziose indicazioni che ne sono uscite per lo sviluppo di una ricerca per molti aspetti ancora alle battute iniziali.
Vittorio De Tassis
QUADERNI DI STORIAluglio/dicembre 1986 - n. 24
Saggi
Fernand Braudel, UAntiquité et l'Histoire ancienne, intervista a cura di Jean Andreau e Roland Etienne, in presenza di Maurice Aymard; Oddone Longo, Idrografia erodotea: Geneviève Hoffmann, Pandora, la jarre et l'espoir, Luciano Canfora, Wilamowitz in Macedonia.
Miscellanea
Luciano Canfora, "Il punto non è questo"-, Bertrand Hemmerdinger, "Les Soviets partout!"-, José Carlos Bermejo Barrera, Né in Grecia né a Roma: ancora su Foucault e il mondo antico', William M, Calder Ili, ed., Schwester Hildegard von Wilamowitz-Moellendorff: meine Erinnerungen beim Le- sen der Erinnerungen meines Vaters\ Alexander Demandt, Wilamowitz 1918 an die Deutschem, Mariella Cagnetta, Gli agoni di Filisto-, Annalisa Paradiso, Osservazioni sulla cerimonia nuziale spartana.
D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice (Luciano Canfora); L. Gernet, I Greci senza miracolo, a cura di R. Di Donato (Luciano Canfora); R. Cappelletto, Recuperi ammia- nei da Biondo Flavio (Gian Franco Gianotti); Scribonii Largi, Compositiones, edidit S. Sconocchia (Giovanni Polara).
Rassegna bibliografica
EditorialeI fronti popolari dalla politica alla storia, di Agosti.
DiscussioniA cinquant’anni dalla guerra civile spagnola, interventi di: Bonamusa, Fontana, Fraser, Tunón de Lara.
SaggiLa grande proprietà terriera nel Terzo Reich, di Corni; L'Encyclopedie Française e la cultura francese degli anni Trenta, di Gemelli.
Storici contemporaneiRichard Cobb, di Luzzatto.
Mass mediaStoria illustrata, di Isola.
InterventiNobiltà europee nell'Ottocento, di Romanelli.
SchedeRivoluzione francese: Paesi socialisti.
Recensioni
Rivista di storia contemporanea maggio-agosto 1986
PASSATO E PRESENTE
La storia contemporanea attraverso le riviste degli Istituti associati
“Italia contemporanea” conclude, con gli interventi di seguito ospitati, la pubblicazione (cfr. fascicoli n. 163 e 165) di contributi intesi a verificare la condizione attuale delle riviste di storia contemporanea in Italia. A facilitare la lettura compiuta delle risposte di periodici degli Istituti di cui si pubblica una scelta condotta secondo il criterio della maggiore aderenza al questionario, si riporta la formulazione delle domande sottoposte a ciascuna rivista: 1. L ’ultimo quindicennio ha registrato il moltiplicarsi delle riviste di storia e soprattutto di storia contemporanea. Lo stesso fenomeno ha investito anche i nostri Istituti (come si è avuto modo di constatare nel seminario di Giulianova del febbraio 1986). Ciò è stato messo in relazione con l ’allargamento dello spazio scientifico della disciplina, ma anche con tutta un’altra serie di fattori (immagine esterna e/o legami con la base associativa, politica culturale degli enti locali, aggregazione di studiosi). Nel caso specifico della tua rivista quali sono stati i motivi preminenti che hanno determinato la nascita del periodico e le sue eventuali successive trasformazioni? E come tutto questo si è riflesso sulla articolazione per rubriche e tipi di contributi, nonché sulle scelte editoriali complessive?; 2. Come la tua rivista si è posta il problema del mercato? Considerandolo a priori limitato agli utenti professionali o cercando di provocarne un allargamento, e in quali direzioni?; 3. L ’attuale panorama delle riviste dei nostri Istituti offre una immagine distintamente percepibile ed esauriente degli orientamenti prevalenti nella contemporaneistica italiana? E in particolare della storia locale?
“Documenti e studi”Semestrale dell’Istituto storico della Resi
stenza in provincia di Lucca
1 “Documenti e studi” nasce nel 1984 come strumento ritenuto indispensabile da parte del Consiglio direttivo dell’Istituto per concretizzare i lavori di ricerca relativi soprattutto alla storia locale.
L’Istituto aveva a lungo dibattuto al suo interno sulla necessità di fornirsi di una pubblicazione periodica capace di supplire gradualmente alla mancanza quasi totale nella
nostra provincia di studi sulla storia politica ed economica del Novecento e di dare ordine a quelli sull’antifascismo e sulla Resistenza. Infatti alcuni testi già pubblicati da singoli ricercatori apparivano iniziative episodiche e frammentarie, al di fuori di una programmazione sistematica della ricerca e lasciavano grossi vuoti relativi alla storia dei partiti, del fascismo, del movimento operaio e contadino, dell’economia fra le due guerre; anche alcuni avvenimenti importanti della Resistenza e dell’antifascismo a Lucca e provincia rimanevano sconosciuti o defor
116 La storia contemporanea attraverso le riviste
mati dal ricordo o dalle memorie di protagonisti e testimoni.
Inoltre si era pervenuti alla certezza che, ricostruendo e riscoprendo avvenimenti e aspetti di storia locale, il lavoro di ricerca attraverso la rivista avrebbe contributo a verificare ipotesi interpretative generali e comunque a portare un contributo ad alcuni problemi storiografici posti a livello nazionale.
Infine si faceva sempre più pressante l’urgenza di aggregare insegnanti e ricercatori su un’iniziativa continua: si sarebbe così evitata la dispersione dei lavori o l’abbandono degli stessi in mancanza di uno sbocco editoriale. Si voleva anche evitare l’emorragia di giovani studiosi orientati a collaborare con riviste di storia contemporanea solo su problemi esterni a quella locale.
2 La relazione di “Documenti e studi” aveva perfettamente coscienza dei ritardi e dei limiti con cui iniziava la propria esperienza, non solo naturalmente in confronto alle riviste specializzate di storia e alla stessa “Italia contemporanea”, ma anche in confronto ad alcuni periodici più “vecchi” editi dagli Istituti storici della Resistenza, che avevano già affrontato molti problemi storiografici, superato la fase documentaristica e cronachistica della Resistenza e acquisito nuove conoscenze nel campo della metodologia. Così il seminario di Giulianova confermava, con le sue relazioni e i vari interventi, la nostra analisi e quanto avevamo discusso all’interno della redazione.
Tuttavia il nostro sforzo è stato quello di non ripetere tutte le fasi percorse dalle altre riviste.
Se è ancora necessario per noi pubblicare una serie di ricerche di impianto cronachisti- co oppure documenti inediti e spesso poco noti sulla Resistenza in campo locale, l’impegno primario rimane quello di indagare gli aspetti più generali socio-economici e culturali delle nostre zone, di studiare la compo
sizione di classe e le trasformazioni economiche dal fascismo ai giorni nostri in rapporto alla vita nazionale (lasciando piena libertà di giudizio politico agli autori e ai col- laboratori che provengono sia dall’area cattolica sia da quella marxista), con l’attenzione anche alle “cause” economiche e sociali del fascismo rintracciabili nel primo Novecento. In base a tale impostazione “Documenti e studi” è strutturata in due sezioni portanti: gli studi e i documenti; segue una sezione di testimonianze (contenenti elementi nuovi della memoria di alcuni protagonisti e integrative dei documenti veri e propri); un’altra sezione dedicata alla vita d’istituto, che riporta notizie anche delle iniziative dell’Istituto nazionale; e infine una sezione relativa alle recensioni (realizzate sotto forma di schede di tipo divulgativo, arricchite di raffronti storiografici, per tentare di non ripetere i luoghi comuni frequenti in questo tipo di rassegne bibliografiche).
Prendendo atto delle sollecitazioni del seminario di Giulianova, la nostra rivista si proporrà di offrire in quest’ultima sezione, oppure anche all’interno della sezione-studi, sempre maggiori resoconti delle riviste di storia contemporanea, dei periodici, degli Istituti della Resistenza e di “Italia contemporanea”, cogliendo l’occasione (per quanto ci sarà possibile) di aprire o tener vivo in queste rubriche il dibattito storiografico sui problemi della contemporaneistica italiana, affrontati e proposti da tutti gli altri istituti.
3 Fin dall’inizio la rivista ha escluso articoli o resoconti celebrativi, reducistici o memo- rialistici, cercando di offrire un’impostazione scientifica ma nello stesso tempo divulgativa degli argomenti affrontati, dal momento che molti lettori del nostro periodico sono presumibilmente estranei all’associazione (su una vendita media di trecento copie, circa il cinquanta per cento avviene attraverso librerie e grosse edicole). Se si pensa che deve essere ancora definita e concordata la dif
117“L’impegno”
fusione di “Documenti e studi” con gli enti locali perché possa essere estesa in maniera organica presso le biblioteche pubbliche circoscrizionali o presso le scuole, i risultati delle vendite possono considerarsi abbastanza soddisfacenti in quanto ricoprono (con due sole pubblicità di banche) la metà dei costi di tipografia.
Per quanto riguarda la collaborazione con le università (sia di Pisa che di Firenze), i rapporti sono da ritenersi insufficienti anche a causa della scarsa sensibilità dei docenti universitari (ad eccezione del prof. Pavone, a Pisa, e del prof. Maselli, a Firenze) a indirizzare gli studenti verso tesi di studio locale e di storia contemporanea, che naturalmente potrebbero alimentare e arricchire, diretta- mente o indirettamente, il lavoro della rivista.
La prospettiva della redazione di allargare gli interessi della rivista in campo regionale (ma questo punto è appena agli inizi della discussione per i problemi che comporta) potrebbe tuttavia stimolare docenti e studenti verso i temi di storia contemporanea e, nello stesso tempo, favorire una più ampia diffusione di “Documenti e studi” nelle altre province.
Lilio Giannecchini Renzo Papini
Andrea Polcri
“L’impegno”Rivista dell’Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli “Cino Moscatelli”, Borgo-
sesia
1 II periodico “L’impegno” è nato nel 1980 per rispondere ad una serie di esigenze-motivazioni, alcune delle quali (almeno nella fase iniziale) più evidenti di altre che, sebbene presenti sin dall’avvio, hanno però trovato un loro sviluppo negli anni successivi, parallelamente all’articolazione stessa dell’attività dell’Istituto.
L’aspetto sicuramente più evidente era connesso all’esistenza di una ricca storia del movimento di liberazione e di una vasta gamma di tematiche sociali, politiche ed economiche sottese allo sviluppo della Resistenza in provincia di Vercelli. Esisteva già, comunque, un discreto numero di ricerche di storia contemporanea non legate alla Resistenza. Fondato nel 1974, l’Istituto trovava quindi nella rivista lo strumento ritenuto più consono alla divulgazione della propria attività globale, delle ricerche concluse e in corso. La scelta sembrava inoltre confortata dall’esistenza di un pubblico potenziale percentualmente “sicuro”, composto da ex partigiani o da persone comunque legate al mondo e al sistema dei valori espressi dal movimento partigiano. Si pensava anche, come si dirà più avanti, ad un pubblico diverso, ma la risposta non era affatto scontata e prevedeva comunque tempi più lunghi.
Si può quindi affermare che la nascita della rivista abbia in un certo senso rappresentato il coronamento di una “presenza” significativa della componente resistenziale nell’ambito socio-culturale della provincia, anche se fin dal suo sorgere le istanze per un interesse globale sull’intera storia contemporanea locale furono ben presenti, e nonostante, soprattutto nei primi due, tre anni di vita, il livello qualitativo degli interventi sulla Resistenza non ponesse ancora il problema, come negli anni successivi (particolarmente dopo il quarantesimo), come centrale per la vita stessa della rivista.
La coincidenza dell’inizio del quarantennale della Resistenza con il quarto anno di vita de “L’impegno”, vale a dire con un anno che ha segnato una prima serie di cambiamenti nell’impostazione redazionale, ha comunque di fatto procrastinato, per i notevoli impegni complessivi dell’Istituto, al dopo anniversario una riflessione seria e globale sulla rivista, anche in riferimento al rapporto con i lettori (sia con quelli già acquisiti, sia con quelli, e sono molti, potenzialmente raggiungibili).
118 La storia contemporanea attraverso le riviste
Non si tratta ovviamente di una semplice riflessione su questioni di mercato se è vero, e per una rivista come la nostra, strettamente collegata all’ambito provinciale, sembra esserlo, che il tipo di utenza incide profondamente sul tipo di scelta degli argomenti e viceversa. Quanto meno, i primi anni di vita della rivista hanno visto una corrispondenza quasi automatica fra argomenti trattati e tipo di abbonati (sebbene con alcune significative eccezioni rappresentate da insegnanti e operatori culturali), conseguenza diretta dell’impostazione originaria, che ha poi prodotto un meccanismo in base al quale l’offerta, non esclusiva ma consistente, di temi resistenziali ha così solidamente determinato il lettore-tipo (soprattutto l’abbonato) fino al punto da esserne poi pesantemente influenzata.
Ciononostante, negli ultimi anni, parallelamente allo sviluppo dei rapporti di collaborazione fra Istituto, enti locali, associazioni culturali e mondo della scuola, sono stati via via introdotti contributi di tipo diverso, anche se non rispondono comunque ancora a sufficienza alle esigenze di un progetto organico di intervento nel campo della storia contemporanea. Il 1986 ha segnato per la rivista l’avvio di una fase che potremmo definire di transizione, caratterizzata da una riflessione globale che, a partire dai buoni risultati conseguiti in provincia negli anni precedenti, ha comunque riguardato l’evoluzione futura e necessaria de “L’impegno”, intesa sia come potenziamento di alcuni settori, sia come maggiore articolazione degli interventi sulla storia contemporanea, sia come introduzione di contributi nuovi, sia, infine, come ulteriore, graduale adeguamento di alcune rubriche ai caratteri e agli orientamenti della disciplina storica contemporanea.
Alle riflessioni, negli ultimi mesi del 1986, ha fatto seguito un intenso lavoro destinato ad aumentare le collaborazioni, a garantire la continuità nel tempo degli interventi su
temi e argomenti specifici, a verificare la praticabilità (anche economica) di alcune ipotesi come, ad esempio, l’introduzione di rubriche che accrescano il rapporto diretto con i lettori e, più in generale, che siano in grado di fornire un panorama soddisfacente della produzione di “cultura storica” in provincia.
Il processo è tutt’ora in atto e dovrebbe dare i primi frutti nel secondo semestre del 1987. Sarà comunque necessario tener conto di un aspetto che per molte riviste, pensiamo particolarmente per quelle che fanno capo ad Istituti provinciali, finisce col rivelarsi spesso fondamentale: vale a dire il significato, le modalità, le difficoltà connesse alla divulgazione della storia contemporanea in ambiti decentrati, con peculiarità culturali, ma anche socio-politiche, ben determinate e determinanti (non immodificabili, ma con tempi e modi spesso abbondantemente diversi rispetto a contesti oggettivamente più inclini a recepire l’innovazione).
Sebbene mai direttamente, il problema è emerso tra le righe con costanza significativa a Giulianova e si è combinato, più o meno esplicitamente, con altri problemi di grande rilievo, come il rapporto fra locale e nazionale, l’utilità o meno di “accorpare” i periodici secondo criteri tematico-territoriali, i motivi del proliferare delle riviste degli Istituti e, non ultimo, lo stesso fondamento etico dell’esistenza e dell’attività degli Istituti richiamato dal presidente Quazza nelle conclusioni.
2 Anche il problema del mercato, posto al punto due della traccia, vi è direttamente collegato. Ponendo come punto fermo che la ricerca e la divulgazione della stessa in ambito locale non possono e non devono derogare dai criteri di correttezza scientifica, sia teorica che metodologica, e che lo studio del locale non è (come giustamente stigmatizzato a Giulianova) un ripiego dettato dall’impossibilità di cimentarsi in ricerche più
“In/formazione” 119
estese, sembrerebbe comunque importante riflettere sulle riviste degli Istituti non solo in base alla qualità dei contenuti, ma anche, fatti salvi alcuni requisiti irrinunciabili, in base al rapporto Istituto-territorio.
La scelta che “L’impegno” ha fatto rispetto all’utenza fin dal suo sorgere, e che resta invariata pur nella citata volontà di cambiamento, è stata infatti conseguenza diretta di una serie di valutazioni che riguardano proprio il significato e le modalità di presenza della rivista in provincia. Ne è scaturita la decisione di rivolgersi ad un pubblico non strettamente professionale (operazione che, in ambito provinciale, avrebbe suscitato alcune perplessità anche dal punto di vista strettamente economico), puntando invece all’allargamento degli interessi sui temi della storia contemporanea a categorie potenzialmente motivate a farlo ma mai, o molto scarsamente, sollecitate da iniziative che partissero da istituzioni e organismi locali: insegnanti, operatori culturali, studenti universitari ma anche, più in generale la categoria piuttosto estesa di persone che, pur svolgendo la propria attività lavorativa in settori molto diversi (industria, commercio, pubblica amministrazione) seguono o desiderano seguire la vita culturale della propria comunità.
3 La risposta alla terza domanda pone invece un ordine di problemi che se da un lato sono riconducibili in parte alle considerazioni già fatte precedentemente, dall’altro rimandano al seminario di Giulianova e alle esigenze che quel primo incontro ha manifestato con evidenza. È difficile pensare che dall’esterno e in generale un’analisi anche attenta e minuziosa del panorama dei periodici degli Istituti possa sostanzialmente aggiungere qualcosa a quanto è stato fatto con le relazioni dal seminario, specialmente se l’obiettivo non è, come siamo convinti non sia, quello di giungere ad una classifica
ma piuttosto quello di riflettere seriamente all’interno della rete associativa sulla reale possibilità e capacità degli Istituti (singolarmente e collettivamente) di rappresentare una realtà viva e qualificata, in grado di garantire un futuro a se stessa e al sistema di valori che la regge.
In questo senso, la domanda condensa quello che Giulianova, fra le altre cose, sembra aver indicato piuttosto come un obiettivo da perseguire con coraggio. È probabile però che la risposta capace di garantire successivi momenti di confronto sereno su temi concreti possa venire soltanto dalla sintesi dei contributi che ogni singolo Istituto sarà in grado di fornire valutando il proprio periodico in base alle esigenze che gli vengono dal territorio e a quelle, ugualmente fondamentali, che sono insite alla disciplina storica contemporanea.
È indubbiamente un terreno rischioso, per l’opinabilità e la dispersione a cui si presta e che richiede innanzitutto un grosso sforzo di autocritica da parte degli Istituti stessi, ma che potrebbe, inoltre, sgombrare il campo da alcuni equivoci di fondo emersi anche al seminario: utile premessa a mutamenti e crescite, magari conflittuali, anche al proprio interno, ma non necessariamente sfociami in necessità di “rifondazione”.
La redazione
“In/formazione”Notiziario dell’Istituto storico della Resi
stenza in Toscana
1 “In/formazione” appartiene alla numerosa famiglia dei periodici degli Istituti della Resistenza e, naturalmente, ne condivide alcune caratteristiche: in primo luogo la funzione di proiettare all’esterno l’immagine di una operosità costante e quella di strumento di aggregazione di un manipolo di giovani studiosi professionali e non (l’età media dei
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collaboratori si aggira sui trent’anni), con in più, però, una peculiare accentuazione della natura di servizio rivolto a un largo pubblico esterno, che appartiene ad una consolidata tradizione dell’Istituto toscano. Quest’ul- tima peculiarità ha improntato l’articolazione del periodico in tre sezioni e la loro titolazione: “rassegne” ( e non saggi o studi) la prima, “schede” (e non recensioni) la seconda, e, infine, “notizie” la terza, dedicata alla descrizione sommaria di beni culturali anche non canonici e a una sempre più nutrita documentazione su iniziative di aggiornamento e sperimentazione didattica raccolta attraverso le segnalazioni fornite dagli Istituti storici della Resistenza federati. L’obiettivo del periodico è, insomma, quello di privilegiare le esigenze d’informazione del destinatario della comunicazione, non necessariamente specializzato, rispetto alle abitudini e alle preoccupazioni strettamente accademiche dei collaboratori delle riviste storiche.
L’insieme delle rassegne pubblicate nei primi undici numeri configura una certa continuità nella scelta dei temi: attenzione ai metodi d’insegnamento della storia contemporanea estesa anche ad altri paesi europei, alla formazione degli insegnanti della materia, all’uso di nuove fonti, al problema della presentazione del fascismo e del nazismo nelle varie storiografie nazionali e, in generale, agli aspetti della socializzazione del sapere storico.
2 Se è abbastanza facile definire l’area di reclutamento dei collaboratori di “In/forma- zione” (in genere, giovani docenti universitari italiani e stranieri per le rassegne e un gruppo formato in prevalenza da insegnanti e neo-laureati per la compilazione delle schede), più complicato si fa, invece, il discorso relativo ai lettori. Il pubblico a cui si rivolge il periodico dipende infatti da una scelta aprioristica, perché la maggior parte della tiratura (2.500 copie) viene spedita alle scuole
e alle biblioteche della Toscana. Trattandosi di una rivista fuori commercio, manca perciò il riscontro delle vendite e l’accoglienza riservata all’iniziativa non è agevolmente verificabile. I tentativi di sondaggio effettuati con l’inserimento negli ultimi numeri di un questionario, allo scopo, appunto, di accertare la risposta delle scuole e delle biblioteche toscane, stanno dando risultati ancora molto parziali e con grande lentezza; ma resta da vedere quanto, soprattutto nel caso della scuola, influisca sul rapporto con l’utenza il diaframma burocratico frapposto da una struttura scolastica priva di reali spazi d’incontro, di lavoro e di lettura al di fuori delle aule. Molto più pronti, invece, sono stati i segnali d’interesse provenienti dall’area degli addetti ai lavori. Indizio di una qualche sfasatura nella formula? Difficoltà effettive d’intermediazione fra ricerca scientifica e attività didattica, aggravate ulteriormente dalla limitazione dell’ambito cronologico e geografico circoscritto alla storia italiana postunitaria e dalla indefinitezza della formazione e della figura professionale dell’insegnante della materia. Probabilmente c’è un po’ di tutto questo, ma una certa pigrizia nella risposta non infirma, penso, la sensazione che la strada imboccata da “In/formazione” proceda in una direzione destinata ad essere sempre più frequentata.
3 II notiziario bibliografico pubblicato dall’Istituto toscano, benché a diffusione prevalentemente regionale (ed è questa una contraddizione con il contenuto del periodico imposta da ragioni esclusivamente pratiche) non è un periodico di storia locale. A differenza della scelta fatta dalla maggior parte delle riviste pubblicate dagli Istituti confratelli, ha preferito, dopo l’esaurimento della precedente esperienza del bollettino “Atti e studi” e un silenzio di circa sei anni, muoversi su un terreno meno condizionato e condizionante in una sede impegnativa culturalmente come Firenze, lasciando agli
“Mezzosecolo” 121
Istituti provinciali che stanno costituendosi anche in Toscana l’opportunità di mobilitare giovani energie intellettuali intorno a un progetto di rinnovamento degli studi di storia locale. L’osservatorio fiorentino non è, perciò, il più attrezzato per un colpo d’occhio sugli orizzonti della storia locale e sul ruolo esercitato al suo interno dal complesso delle riviste degli Istituti storici della Resistenza. Certo, una costellazione ricca di una trentina di periodici di storia contemporanea, che copre pressoché tutto il territorio nazionale, seppure con una forte prevalenza del Nord nella distribuzione geografica, rappresenta di per sé, se non altro quantitativamente, un fenomeno unico nel panorama della storiografia mondiale. A questa considerazione va subito aggiunto che ciascuna rivista cerca di aderire alla realtà ambientale in cui nasce, cosicché l’insieme è tutt’altro che monocorde. In alcuni casi è avvertibile la tendenza alla specializzazione ed è comune a tutte la spinta ad evolversi verso i livelli più avanzati come risposta alle sollecitazioni provenienti da un ricambio di forze che testimonia la vitalità e l’aderenza degli Istituti alle trasformazioni della società, pur nella fedeltà di fondo all’ispirazione civile originaria.
La varietà e talvolta la originalità delle proposte non offrono, dunque, un’immagine univoca, ma rispecchiano fedelmente la tormentata problematicità della storiografia odierna, soprattutto l’effervescenza e la consapevolezza al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori e dei dibattiti iniziatici, senza perdere di vista la funzione sociale della storia. Non tutto, in un programma del genere, naturalmente è semplice e il cammino è tutt’altro che un rettilineo in vista del traguardo.
Ritornando al caso particolare di “In/for- mazione” , ad esempio, non è stata taciuta la difficoltà di far combaciare i propositi con i risultati, di creare la sintonia non solo all’interno di un folto gruppo di collaboratori e
redattori ma soprattutto fra il progetto e l’ampiezza dell’area di diffusione prevista. Ma è proprio su questo difficile terreno che si gioca la partita per abbattere i rigidi confini fra ricerca e divulgazione, per l’uscita della storia dal “salotto buono”, come ha scritto argutamente — e molto seriamente — Simonetta Soldani nel n. 10 di “In/forma- zione” .
La redazione
“Mezzosecolo”Annali dell’Istituto storico della Resistenza
in Piemonte
1 “Mezzosecolo” nacque nel 1975 come annale di tre Istituti che lavoravano in stretto collegamento, con ambiti di competenza complementari: il Centro studi Piero Gobetti, l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte (che hanno avuto dal 1961 al 1983 lo stesso direttore) e l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, sorto nel 1966.
La rivista ha rispecchiato tali ambiti definiti e reso conto delle ricerche svolte all’interno di essi: fascismo, antifascismo, movimento operaio per il Centro (oltre a una sezione fissa di studi gobettiani); seconda guerra mondiale, Resistenza, ricostruzione per l’Istituto; ambedue i campi, ma dal punto di vista della raccolta di testimonianze orali, per l’Archivio. Quest’ultimo ha poi sviluppato in una rivista propria, “Il nuovo Spettatore”, gli aspetti metodologici e tecnici della propria specializzazione, riservando a “Mezzosecolo” i testi fruibili come documenti.
Annali di nome, ma di periodicità irregolare — per motivi di finanziamento, ma anche delle forze da rivolgere alla redazione — “Mezzosecolo” ha avuto in dieci anni cinque uscite, offrendo regolarmente, tuttavia, notiziari accurati e continuativi dell’attività dei tre Istituti e studi di largo respiro, frutto in genere di ricerche pluriennali.
122 La storia contemporanea attraverso le riviste
La corrispondenza fra pubblicazioni e ricerche promosse rispecchia infatti le scelte di attività interna, soprattutto per l’Istituto, che ha sempre avuto un programma articolato e ampio, legato alla sistemazione, all’incremento e allo studio dell’archivio, alla sua funzione di Istituto regionale (depositario di tutto l’archivio storico del Clnrp e, fino alla metà degli anni sessanta, unico Istituto della Resistenza in Piemonte), e sorretto da un rapporto di stretta e non subalterna collabo- razione con l’Università.
2 Agli inizi degli anni settanta i collegamenti col Cnr e poi il finanziamento regionale consolidarono i programmi di ricerca, mentre l’estendersi della rete provinciale degli Istituti allegeriva il regionale dal compito degli studi locali (fino ad allora realizzato nella collana di monografie “Studi e documenti”). Si rafforzava così la tendenza a impostare ricerche di carattere più generale sulla posizione internazionale del Piemonte nella seconda guerra mondiale (che portò alla raccolta delle fonti anglo-americane), sui cattolici nella guerra e nella Resistenza, sulla magistratura piemontese nel dopo-liberazio- ne, di cui “Mezzosecolo” ha pubblicato via via i risultati definitivi o parziali (nel caso di studi destinati alla pubblicazione in volume).
Il ruolo stesso che il Piemonte aveva avuto rispetto a questi temi faceva sì che gli studi assumessero una valenza più nazionale che locale, e questa caratteristica, saldandosi al tipo di contributi pubblicati dal Centro (studi su Gobetti di Bobbio, Bergami, Fogliano, Dreyfus, Meaglia e interventi di Ca- prioglio, Revelli, Ortaggi, Sapelli sul movimento operaio) ha prodotto un livello di intervento organico.
Altrettanto ancorati al lavoro degli Istituti editori (ricerca storico-semiologica sulle bandiere del movimento operaio italiano, realizzata, nel biennio 1979-80), sono gli ultimi due numeri (4 e 5), praticamente monografici, avendo raccolto gli atti del semi
nario “Aspetti della cultura operaia nella società industrializzata” (1982) organizzati a Torino dal Centro e dall’Istituto. La problematica affrontata in questi numeri è, per la natura del tema e per l’impostazione data ai lavori, ampiamente interdisciplinare, e rispetto alla trattazione di livello che si può definire decisamente alto: la collaborazione di storici sociali, semiologi, antropologi europei e americani, che hanno esaminato la questione da vari punti di vista, ha consentito di cogliere la profonda trasformazione di metodi e linee interpretative generali, nonché la vitalità di un dibattito pienamente consapevole, nei suoi livelli più problematici, delle implicazioni ideologiche di tali mutamenti.
3 “Mezzosecolo” rispecchia dunque fedelmente l’attività svolta all’interno degli Istituti editori; questo dato ha insieme il pregio di assicurare la novità e l’originalità degli interventi e il limite di consentire poca flessibilità e tempestività in altri settori.
La difficoltà, che ora si cerca di superare, di destinare agli annali uno staff, sia pure contenuto, ha reso praticamente impossibili interventi sistematici di altro tipo (recensioni, rubriche bibliografiche, interventi in dibattiti, e persino una sezione dedicata all’attività didattica, che pure è cresciuta notevolmente, all’interno dell’Istituto piemontese e dell’Archivio cinematografico).
Il mercato, limitato agli addetti ai lavori per la stessa natura della pubblicazione, sta registrando un allargamento qualitativamente interessante (richieste dirette da biblioteche italiane e straniere, da librerie con distribuzione internazionale). Il recente accordo con l’editore Franco Angeli per la pubblicazione dei prossimi numeri (il sesto è in corso di stampa) e la ricerca di soluzioni tecnologiche più economiche comporteranno, probabilmente, un potenziamento della sua diffusione presso un pubblico più vasto.
Ersilia Alessandrone Perona
“Notiziario 123
“Notiziario”Rassegna dell’Istituto storico della Resisten
za in Cuneo e provincia
1 II “Notiziario” dell’Istituto storico della Resistenza nato nel 1972 come notiziario nel senso più elementare del termine, come strumento di comunicazione delle decisioni adottate dagli organi dirigenti del consorzio per l’Istituto stesso e di divulgazione delle attività man mano promosse e realizzate, si è via via trasformato cercando di qualificarsi quale rivista di storia: i passaggi intermedi sono stati molti, dall’avvio della pubblicazione di estratti delle tesi di laurea più significative che si realizzano sulla base della documentazione conservata nell’archivio dell’Istituto, alla collaborazione su singoli aspetti di docenti dell’Università di Torino, alla pubblicazione dei risultati — anche parziali — del lavoro di giovani ricercatori in qualche modo legati all’Istituto. Sicuramente anche gli avvicendamenti a livello di direttore della rivista hanno inciso sulla sua storia, segnando momenti di nuovo impulso, e dando vita, più recentemente, anche ad una ristrutturazione interna della organizzazione della rivista, con la creazione di più rubriche.
Le esigenze originarie di informazione delle attività dell’ente sono state conservate, se pur ridotte in termini di spazio e concepite in modo più articolato; la attuale “Vita d’istituto” , infatti, è un tentativo più articolato di esposizione delle iniziative assunte dall’ente nell’ambito della politica generale degli Istituti piemontesi (attraverso l’importante strumento di raccordo costituito dal coordinamento degli Istituti piemontesi) e con l’attenzione rivolta anche alla attività degli altri Istituti della Resistenza esistenti sul territorio nazionale, oltre che naturalmente delle istituzioni culturali e degli enti locali esistenti sul nostro territorio; una “vita d’istituto” concepita insomma come trama di rapporti al cui interno si inseriscono singole iniziative.
L’attuale struttura della rivista prevede alcune rubriche fisse: studi e documenti (saggi di carattere locale, ma anche generale; pubblicazione di “documenti” nel senso più ampio del termine); cultura e società (informazione e discussione sul dibattito politico-culturale a livello locale e a livello nazionale con resoconti di iniziative e convegni); schede (informazioni su libri e riviste). Possono affiancarsi a queste altre rubriche, di cui si avverta di volta in volta l’esigenza: fonti (descrizione di nuove acquisizioni di materiale bibliografico ed archivistico presso l’Istituto, nel tentativo di proporre nuove strade di ricerca; più in generale segnalazione e descrizione di fonti recentemente individuate); didattica (esposizione della attività didattica dell’Istituto; elaborazione di proposte per la scuola; risultati di iniziative realizzate dalle scuole o con le scuole).
La articolazione descritta non è altro che lo specchio di una concezione della rivista quale: strumento di diffusione dei risultati della ricerca attinente essenzialmente aspetti di storia locale (siano essi frutto di ricerche interne all’Istituto o del lavoro di ricercatori cui si offre la possibilità di pubblicazione); strumento di diffusione dei risultati di iniziative assunte dall’Istituto quali convegni, seminari, momenti di dibattito più o meno pubblico su singoli temi; strumento di aggregazione di forze giovani e nuove; strumento per una ricognizione non occasionale sulle fonti della storia contemporanea, con particolare attenzione alle fonti locali, bibliografiche e archivistiche (archivi cartacei, fotografici, sonori); strumento di informazione, divulgazione e discussione dei temi del dibattito culturale in corso; strumento di elaborazione e di diffusione dei risultati di iniziative nel settore della didattica.
Indubbiamente esiste uno scarto tra la concezione della rivista quale dovrebbe e vorrebbe essere e quale in realtà riesce ad essere. C’è purtroppo una certa dose di occa- sionalità nella impostazione della rivista
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(anche se rispetto ad alcuni anni fa la programmazione è sicuramente maggiore), determinata da alcuni fattori: la carenza di ricerche di ampia portata promosse dall’Istituto e in grado di coinvolgere forze nuove; il decentramento dell’Istituto di Cuneo rispetto alle strutture universitarie, e la carenza quindi di regolari rapporti e contatti sia con1 docenti che con neo-laureati o laureandi; la esiguità delle forze presenti nell’Istituto, che non sono in grado di seguire con continuità — tra l’altro — né un discorso sulle fonti concepito anche come strumento di salva- guardia di particolari “beni culturali” esistenti sul territorio, né un discorso serio e continuativo nel settore della didattica.
I punti deboli della rivista finiscono per coincidere con i punti deboli dell’Istituto, che toccano i nodi della ricerca, dei rapporti con l’Università, dell’aggregazione di forze giovani. Con ciò non si intende affatto che la rivista dovrebbe essere il riflesso preciso delle attività dell’Istituto; la rivista deve godere di autonomia giornalistica e scientifica e saper cogliere, a livello locale e non, stimoli e suggerimenti, oltre a saper individuare risultati di lavoro cui offrire ospitalità. Certo però le carenze sopra descritte finiscono per condizionare la rivista e per accentuare il carattere di occasionalità nelle scelte (questo è evidente attraverso l’analisi di tutte le rubriche e anche — o forse in particolare — in quella riservata alle schede).
Un problema importante, che mai si è riusciti a risolvere, indubbiamente legato ai problemi di fondo più sopra esposti è, non a caso, quello della mancanza di una redazione vera e propria.
2 Ciò detto, e tenuto conto che il “Notiziario” dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia ha origine dalla necessità di mantenere i legami tra gli enti aderenti al consorzio, non ci si è posto un problema di mercato se non a partire dal 1982. Fino a questa data il “Notiziario” veniva distribui
to in gran quantità (1.500 copie circa) e gratuitamente a tutti. E anche negli anni più recenti la maggior parte della tiratura è stata destinata a enti e privati non abbonati, malgrado il “Notiziario” abbia definitivamente assunto veste di rivista.
La consapevolezza del mercato in quanto problema finanziario e in quanto identificazione di destinatari della rassegna si pone con pressante necessità in tempi più recenti, anche in conseguenza degli enormi costi tipografici. Sempre più l’articolazione interna del “Notiziario” (che d’altronde non ha ancora potuto assumere un titolo adeguato ai rinnovati contenuti) va nella direzione di coinvolgere i moltiplicatori della conoscenza storica, insegnanti in primo luogo.
3 L’insieme delle pubblicazioni periodiche degli Istituti storici federati all’Insmli è certamente uno specchio anche puntuale degli orientamenti storiografici della contempora- neistica. L’immagine che ne emerge, tuttavia, è più quella riflessa da una superficie accentuatamente ondulata che da una superficie perfettamente piana. In sostanza le riviste degli Istituti svettano e si inabissano in un altalenante succedersi di spunti-intuizioni seguito da lunghi momenti d’ombra. Non tutte le riviste seguono questo andamento a corrente alternata, ma sono assai poche quelle che riescono ad avere una “tenuta ” costante. Potrebbe dirsi la stessa cosa sul ruolo delle riviste quali espressioni della storia locale nel rapporto con la storia nazionale e quali espressioni della storia sociale. Peggio per l’uso assai modesto delle fonti orali.
Qual’è la causa di quella che abbiamo chiamato scarsa “tenuta”? Certamente della situazione interna agli Istituti-editori che non riescono ad impostare ricerca e attività culturale in modo tale da averne risultati costanti. E questo in sicura relazione anche all’origine degli Istituti, al dilaniante processo di trasformazione degli stessi da organismi
“Quaderno 125
governati dai partigiani-fondatori ad organismi scientifici di storia contemporanea.
A causa di tutto ciò non è facile per un lettore men che avvertito avere una visione della galassia delle riviste in questione, di una produzione — cioè — che trova difficoltà perfino a circolare all’interno di tutti gli Istituti associati all’Insmli.
La redazione
“Quaderno”Rassegna dell’Istituto per la storia della Re
sistenza in provincia di Alessandria
1 L’Istituto di Alessandria, operante dal 1977, ha immediatamente dato vita alla sua rivista “Quaderno” . Due numeri all’anno, a cominciare dal 1978.
Proprio il numero 1 riflette la ragione fondamentale: l’impostazione programmatica dell’Istituto richiedeva — accanto a una serie di volumi che iniziò subito a pubblicare — lo strumento rivista, per affrontare il nesso storia nazionale-storia locale, l’analisi delle fonti e delle dotazioni archivistiche pubbliche e private, le bibliografie e il patrimonio delle tesi di laurea, le ipotesi di ricerca sulla scorta della Resistenza come nodo cruciale di applicazioni storiografiche di lungo periodo e di una nozione di storia contemporanea secondo le sue più vaste accezioni, i problemi metodologici, i rapporti con il territorio e con la scuola.
Premeva, inoltre, un fatto specifico: il confluire nell’Istituto dei materiali e delle esperienze del Centro di cultura popolare “G. Ferraro” , e quindi la proposta di una precisa vocazione per i problemi relativi alle fonti orali e ai soggetti di storia implicati.
Un’ulteriore ragione era poi rappresentata dall’esistenza, in provincia, di gruppi e pubblicazioni dediti a esercizi storiografici di ambito medievale e moderno, e per contro dall’assenza di tradizioni e di pratiche di studi di storia contemporanea.
Il “Quaderno” ha così espresso, nelle loro acquisizioni più solide e naturalmente nei loro limiti, i processi di sviluppo delle attività e delle direzioni di ricerca dell’Istituto: la crescita degli elementi lungo l’arco Ottocento-Novecento fino ai decenni più recenti, l’ampliarsi degli ambiti disciplinari, l’articolarsi delle competenze. Ha potuto contare su autorevoli collaborazioni esterne e sul fatto che, divenendo l’Istituto un punto essenziale di riferimento per operatori e ricercatori giovani e meno giovani, cui ha offerto l’opportunità di intraprendere, oppure di riprendere, studi specialistici, o di concretizzare disponibilità, attitudini e aspirazioni, il numero dei collaboratori ha raggiunto una notevolissima consistenza. Ciò ha anche consentito, a partire dal n. 15, di esplicitare in sezioni organizzate (articoli e saggi, note e discussioni, problemi e materiali didattici, fonti archivi e documenti, incontri e convegni, recensioni, notiziario) un complesso di contributi che in parte si era già delineato. Qualcuna di queste sezioni potrà risultare mobile, e alternarsi con altre in progetto, ma è indubbio che quelle finora prodotte corrispondono a esigenze reali e a punti permanenti di applicazione del lavoro dell’Istituto.
2 Circa il mercato, il “Quaderno” si trova oggi ad affrontare le ipotesi di una profonda riorganizzazione editoriale. La natura specifica del consorzio di enti locali e territoriali su cui si fonda l’Istituto ha condizionato la prima individuazione del mercato nel senso degli enti e del personale politico-amministrativo, sindacale e categoriale. La struttura editoriale, a dire molto, artigianale, ha appena consentito di orientare la distribuzione verso la rete nazionale dei nostri Istituti, oltre che verso sedi universitarie, enti e biblioteche, pubblicazioni in cambio, singoli studiosi. Risultano sicuramente al di sotto delle loro potenzialità — e perciò costituiscono il motivo della ristrutturazione editoriale in
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progetto — ampi spazi locali, individuali e collettivi, e in misura particolarmente acuta la scuola, nonché la distribuzione nazionale. Di estrema importanza, per quest’ultimo aspetto, l’iniziativa dell’Istituto nazionale suH’allestimento degli indirizzari compositi su cui coordinare l’offerta e la distribuzione.
3 Per rispondere anche alla terza domanda, va innanzi tutto rilevata l’importanza di questa iniziativa di “Italia contemporanea”; altrettanto si deve fare per il proposito dell’Istituto nazionale di allestire l’anagrafe delle ricerche (Conferenza dei direttori e Consiglio generale del 24-25 ottobre scorsi) così da ottenere mappe complessive e offerte di collegamenti in verticale e in orizzontale, di organizzazione nelle ricerche e nelle scelte editoriali. L’Istituto di Alessandria dispone di molte porte aperte, grazie all’impostazione originaria prima ricordata e al suo dispiegarsi attraverso significative arti- colazioni disciplinari e interdisciplinari. Per il “Quaderno” è lecito attendersi stimoli e sollecitazioni di marcata utilità specialmente nei confronti di un problema tuttora irrisolto — quello del raccordo fra storia locale e storia nazionale — giacché l’assenza di tradizioni di studi contemporaneistici induce spesso a dover recuperare pure e semplici ri- costruzioni degli avvenimenti come condizione di operazioni più organiche e mature.
La redazione
“Qualestoria”Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Ve
nezia Giulia
1 Quando nell’ottobre del 1973 apparve nella semplice veste di Bollettino, e con poco più di una ventina di pagine, questa piccola rivista di ricerca e dibattito (limitatamente
di informazione), sorta al “confine orientale” (non è pleonastica sottolineatura geografica come dicono le premesse e il percorso editoriale del successivo quindicennio), essa chiariva subito le ragioni di una presenza: “Solo verificando la validità di nuovi tentativi di ricerca e di ricostruzione storica anche tra i “non addetti ai lavori” , lo studio della storia potrà recuperare quella funzione di propulsione e di crescita civile che ci si affanna di attribuirle astrattamente a parole” .
Era il corsivo d’apertura del direttore Giovanni Miccoli, ripreso e ampliato nel numero successivo: “nella persuasione che un effettivo rinnovamento culturale non può nascere solo da nuovi contenuti, ma anche da un diverso tipo di rapporti umani di collaborazione, di intervento, vorremmo ... che [il bollettino] divenisse anche uno strumento per insegnanti e studenti, che da questi partissero richieste e sollecitazioni ad affrontare determinati problemi della nostra storia recente. Superare le mistificazioni della propaganda interessata non è impresa facile; operare una saldatura reale, e non di pura strumentalizzazione, tra l’impegno culturale e l’azione politica è un punto d’arrivo non facilmente raggiungibile” .
Natura e funzione del periodico quadrimestrale (è rimasto sempre tale) apparivano, poi, esplicitamente, dai contenuti e dalle collaborazioni che raccoglieva. Ne uscivano rappresentati il tipo di radicamento e gli sviluppi dell’Istituto editore e, in parte, i limiti della memoria storica collettiva, la complessità delle radici culturali di una città, Trieste, e di una regione multinazionale e mul- tidimensionale per la stratificazione economica e sociale, per le mentalità sedimentate e sussistenti, per le divaricazioni prevalenti sulla differenziazione delle sue componenti.
Di qui il richiamo al confine orientale. Si trattava di contribuire, con la modestia dei propri mezzi, al superamento del lungo dopoguerra giuliano (l’amministrazione an-
“Qualestoria” 127
glo-americana termina a Trieste e territorio nel 1954, ma le ripercussioni indotte dal lungo contenzioso italo-jugoslavo vanno oltre gli accordi stessi di Osimo a metà degli anni settanta).
Il restringimento degli spazi fisici amministrativi — ma sono anche spazi umani — nell’area giuliana corrispondeva quasi geometricamente all’arroccamento dei municipalismi, ad una sempre più asfittica riproposizione dei vecchi miti “nazionali” . Capaci sempre, però, di aggregare consensi, di indurre comportamenti: sotto l’urto del ridimensionamento territoriale, con l’onda degli esodi di massa dall’Istria, con l’instabilità e il decadimento delle obsolete strutture economiche, nell’idoleggiamento vittimistico di un passato stravolto o mal conosciuto dalle consapevolezze socializzate.
Lo specifico lavoro di scavo storiografico doveva, da un parte, recuperare il respiro del lungo periodo (le radici ottocentesche e novecentesche), dall’altra creare l’abito del confronto, quanto a contenuti e metodi, con l’intreccio delle complessive vicende europee e italiane, mantenere l’attenzione alle affinità-distinzioni delle componenti giuliana e friulana. Nella reciproca sollecitazione e nelle molte comunanze d’impresa rispetto all’Istituto di Udine, in una piena integrazione con i programmi e le attività dell’Istituto nazionale e della nostra rete federale.
La presenza nella rivista delle collaborazioni — valgono pochi nomi — di Miccoli (dirige la rivista fino all’inizio del 1985; gli subentra Galliano Fogar), di Enzo Collotti, di Elio Apih, testimoniano una permanente stabilità di rapporto-integrazione con i filoni di storia contemporanea coltivati nell’Università triestina.
L’assunzione della nuova testata “Quale- storia” (dall’aprile 1978, VI, 1) ha significato una più precisa delimitazione di campo sul versante della ricerca storica, di rifles
sione più meditata quando ad impegno civile (forse meno velleitario ma indubbiamente meno incisivo nell’immediatezza del confronto politico): c’è indubbiamente un calo di rilevanza dalla ricerca-battaglia attorno al processo per la Risiera di San Saba, dagli studi su nazionalismo e neofascismo al confine orientale, dalla promozione delle prime iniziative di divulgazione storiografica sulla storia del Novecento italiano e regionale (si coprono gli anni settanta), alla minore eco suscitata dai lavori sull’esodo istriano, sull’emigrazione, sulle realtà regionali tra le due guerre (una attenzione relativamente più larga e qualificata viene dai lavori proposti sulle tematiche internazionali: si vedano gli studi di Giampaolo Valde- vit). Per arrivare così ai più recenti anni ottanta.
Interessi di più distaccata riflessione storiografica tra leve recenti di lettori e studiosi suscitano i temi di storia sociale, le ricerche sulla prima guerra mondiale. Sempre, o quasi sempre, gli interventi di “Qualestoria” (e prima del vecchio Bolletino) vanno letti in consonanza coll’attività editoriale promossa dall’Istituto.
Soprattuto di fronte all’insorgere — questa volta istituzionale e politico — del fenomeno municipalista a Trieste è possibile cogliere i limiti di incidenza dell’impegno di socializzazione del sapere storico voluto dall’Istituto, preconizzata dalla piccola rivista nel “deserto dei Tartari” .
È cresciuta però, indubbiamente, attorno all’Istituto regionale, attorno a “Qualestoria”, una leva non piccola di operatori, di insegnanti, di giovani lettori, che ha alcuni caratteri di omogeneità e stabilità di riferimento, sia per la formazione di base, sia per l’uso delle categorie storiografiche, capace di per sé di moltiplicarsi, se le speranze non sono infondate, di affrontare con altra consapevolezza lo stesso impegno civile.
Teodoro Sala
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“Storie e storia”Quaderni dell’Istituto storico della Resistenza e della guerra di liberazione del circonda
rio di Rimini
1 Ad un dibattito più approfondito il compito di determinare se la proliferazione delle riviste di storia, e soprattutto di storia contemporanea, in quest’ultimo quindicennio sia, in tutto o in parte, da attribuirsi a quell’accelerato metabolismo dei tempi presenti che nel senso comune e nella collettività degli storici avrebbe determinato una sorta di ansia e di psicosi per l’accumulazione e la conservazione delle tracce del passato. Pari- menti sarebbe quantomeno curioso capire fino a che punto la fortuna della storia locale, e dunque anche delle riviste degli Istituti storici della Resistenza, vada correlata a quel clima che alcuni storici sintetizzano nel “tramonto della politica e dei grandi orizzonti di trasformazione” nonché ad una diffusa sensibilità in cui “il privato sembra prevalere sul pubblico nelle sfere più diverse” (Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubblicana, in “Studi storici” , 1985, n. 4, p. 831).
Certo è che, per ciò che attiene il clima in cui nascono le riviste degli Istituti, occorre quantomeno rilevare un dato almeno in apparenza contraddittorio: esse, in quanto diretta emanazione di organismi che traggono le loro motivazioni ideali da una esperienza in cui la politica ha occupato un posto centrale, proliferano proprio nel momento in cui nella storiografia nazionale vien meno, o quantomeno si affievolisce, il vincolo più caratteristico della cultura storica nazionale dal 1945 in poi: ossia il legame fra storiografia e politica.
Non è in effetti cosa nuova constatare che in quella di “democratizzazione” dei soggetti storici, su cui poggia gran parte, dalle recente fortuna della storia locale, ha coinciso con una sorta di azzeramento di precedenti gerarchie determinate, da una parte, dalle en
tità assolute dello storicismo liberale e, dall’altra, di quelle di matrice marxista.
Pur in questo clima, i cui esiti e i cui interrogativi dovranno in sede più appropriata essere svolti, è ovvio che la proliferazione delle riviste degli Istituti è anche debitrice di altri specifici fattori, alcuni di carattere locale altri di carattere più generale.
La nascita di “Storie e storia” , nel 1979, avviene proprio nel momento in cui il blocco degli accessi dei giovani laureati alla ricerca universitaria tocca il culmine. La rivista, come strumento di dibattito, di confronto e di ricerca risponde dunque anche ad una sollecitazione volta a soddisfare richieste latenti (quelle della ricerca e della pubblicazione dei risultati della medesima) che l’Università, un tempo unico luogo deputato alla ricerca, non riesce a soddisfare. A ciò si aggiunge che, almeno nel caso di “Storie e storia” (ma suppongo che l’osservazione sia estensibile ad una più ampia campionatura) alla fine degli anni settanta iniziano ad avvertirsi i risultati come quelli, ad esempio, dei casi di laurea in storia di recente istituzione.
A questo clima di diffuso interesse per la storia, soprattutto contemporanea, viene a sovrapporsi un ulteriore elemento: ossia il “dinamismo” che proprio fra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta connota l’azione degli assessorati della cultura fino a farne uno dei punti più caratteristici della politica degli enti locali. Non c’è dubbio che tale condizione abbia finito per favorire e influenzare anche la nascita di “Storie e storia” che proprio a tale “dinamismo” deve, in buona parte, la propria sopravvivenza.
2 Occorre per altro precisare che questa sorta di benevolenza con la quale l’ente locale ha incoraggiato la rivista ha costituito il limite più evidente per ciò che riguarda la ricerca di un “mercato” . La rivista, e credo che l’osservazione potrebbe essere estesa a gran parte delle riviste degli Istituti, ha fi
“Studi e ricerche di storia contemporanea” 129
nito per orbitare nella cerchia di quella editoria “garantita” che una volta assicurate le ragioni della propria sopravvivenza rifugge dalla ricerca di nuove porzioni di lettori.
Vi è poi un ulteriore motivo che, anche in base ai dati prodotti al seminario di Giulia- nova, spiega a mio avviso la ristrettezza del mercato. Ossia quella sorta di eccessiva frammentazione per cui le riviste degli Istituti giungono a coprire un territorio geograficamente limitato — solitamente su scala provinciale — che, in definitiva diviene il principale — quando non l’unico — referente di mercato. Da questo punto di vista credo occorra superare una fase iniziale in cui le riviste degli Istituti sono servite a confermare una presenza e una vitalità (e — perché no? — un latente orgoglio di campanile) per giungere all’accorpamento di varie testate (su base regionale o per aree geografiche omogenee). Il problema non è ovviamente solo di mercato e collegato ad un potenziale allargamento dell’area dei lettori ma, più latamente, ad un più ampio peso specifico delle riviste nel dibattito storico nazionale.
L’impressione è che nell’attuale panorama del dibattito storiografico l’immagine delle riviste degli Istituti risulti “spuria” . Ciò dipende, ad avviso di chi scrive, almeno da due ordini di motivi.
Il primo rinvia alla composizione dei comitati scientifici nei quali, spesso, accanto a figure di storici di “mestiere” si trovano storici “scalzi” o storici occasionali, o rappresentanze partigiane.
Laddove il comitato scientifico risulta composto da figure professionali omogenee la linea culturale della rivista è più chiaramente percepibile e non fatica a confrontarsi col dibattito storiografico in corso, sia sul piano locale che su quello nazionale. Laddove invece il comitato scientifico, come nel caso di “Storie e storia”, è il risultato di un “compromesso” fra gli organismi politici presenti nei vari direttivi e leve di giovani storici è più difficilmente individuabile un
percorso storiografico lineare e, di conseguenza, un confronto col dibattito in corso.
3 Si ha tuttavia ragione di ritenere che, al di là delle necessarie distinzioni caso per caso, il merito principale delle riviste degli Istituti consista nell’aver sviluppato, incoraggiato e promosso settori di indagine che spesso (anche per motivi accademici o di potere) nelle sedi universitarie hanno subito una sorta di ostracismo. Penso, in proposito, soprattutto alla storia sociale e a quei settori, come la storia orale, che in sede accademica ancora oggi non vengono considerati come aventi “quarti di nobiltà” sufficienti per assurgere a dignità storiografica.
Da un punto di vista “sperimentalista” (se ne condividano o no gli esiti) le riviste degli Istituti hanno dunque costituito un ottimo laboratorio del “mestiere di storico” nel dibattito storiografico di queti ultimi anni.
Stefano Pivato
“Studi e ricerche di storia contemporanea”
Rassegna dell’Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione
1 L’esperienza locale, nella fattispecie quella di un periodo di storia contemporanea, non fornisce soltanto un osservatorio per certi versi privilegiato (ce lo ripetiamo abbastanza spesso nelle occasioni di incontro interne ai nostri Istituti), qualche volta, oltre a essere abbastanza scomoda, rende più difficoltoso l’approccio ai problemi interpretativi. Specie quando il grado di coinvolgimento nel dibattito e nell’intervento sul territorio è stato particolarmente intenso — come avviene per tanti Istituti e per i loro periodici — si può rischiare di perdere di vista non solo e non tanto la dimensione generale dei problemi, quanto piuttosto di esasperarne la lettura attraverso appunto la specificità particolare in cui si opera.
130 La storia contemporanea attraverso le riviste
Con questa consapevolezza, e cercando quindi di vincere la tentazione (e la presunzione) di reinterpretare il vasto pelago delle questioni inerenti allo “stato” della contem- poraneistica italiana e delle sue alterne fortune attraverso l’angolo prospettico del pur necessario “piccolo cabotaggio” , vorremmo richiamare l’attenzione su alcuni degli altri fattori — altri rispetto all’allargamento scientifico dell’ambito disciplinare — che hanno contribuito alla moltiplicazione delle riviste di storia contemporanea, fenomeno a cui non sono certamente estranee né le sollecitazioni dei media, né le scelte della politica editoriale o di quelle delle istituzioni e degli ambienti accademici.
I limiti di spazio e le finalità stesse di questa rassegna non ci consentirebbero, probabilmente, di andare molto oltre rispetto al sommario delle questioni (per altro già enunciate, più che discusse nel merito, al seminario di Giulianova). Vorremmo piuttosto, sulla base di un’esperienza più che decennale, affrontare la questione della domanda “dal basso” di storia contemporanea, certamente a sua volta influenzata, ma non determinata dagli orientamenti istituzionali, accademici, editoriali e dai “media” .
Collegare la “scoperta” della storia contemporanea come bisogno sociale di massa — manifestato in ambiti extra e antiaccademici, fortemente intriso di ideologismo e altrettanto fortemente subordinato a tempi e finalità di “militanza” politica, assai distanti dalla sfera della ricerca scientifica — ai movimenti sessantotteschi e postsessantotteschi è diventato ormai un riferimento obbligato, quasi un luogo comune. Meno frequente invece la riflessione sul percorso e sugli esiti di questo “bisogno di storia” , che è stato spesso frettolosamente etichettato come “nuova domanda”, tutta polarizzata e appiattita sul presente. Eppure il tentativo di dare ad essa nuove risposte è entrato nella genesi di parecchie riviste, non tutte destinate a rapida
scomparsa: alcune sono vissute — e non solo sopravvissute — oltre la prima metà degli anni settanta. E allora non è inutile uno sguardo ravvicinato a queste pagine.
I noti limiti di ideologismo, di schematismo riduttivo, di semplificatorie certezze nelle magnifiche sorti delle trasformazioni della società in senso rivoluzionario, tendono a esasperarsi proprio nelle realtà locali caratterizzate da ambienti culturalmente e politicamente opachi e sordi: la “nuova committenza” cerca infatti di improvvisare da sé, autarchicamente, le proprie risposte, in una sorta di circolo vizioso che accelera alla periferia certi processi involutivi, generando nuove chiusure, nuovi rifiuti, precoci ripiegamenti e fughe anticipate verso i più tranquilli approdi del privato, del quotidiano, del microcosmo protettivo proiettato nostalgicamente nel passato, recente o remoto, delle piccole comunità o delle società contadine. È quanto si è potuto osservare ad esempio — nel caso specifico di Bergamo — nell’esperienza delle 150 ore, letta e interpretata proprio attraverso l’angolatura della domanda e della didattica della storia.
Riflettendo su questi problemi — sui quali si cercava di provocare un dibattito approfondito e di promuovere uno sforzo di elaborazione collettiva, proprio anche attraverso la rivista “Studi e ricerche di storia contemporanea” — già qualche anno fa si avvertiva con preoccupazione come l’assoluta inadeguatezza della riflessione da parte degli stessi soggetti, corsisti e operatori, studenti e docenti, e di molti settori della cultura storica, anche progressista, finisse per alimentare velleità, improvvisazioni, autolegittimazione di sé ai livelli più bassi, con risultati assai diversi e persino divergenti dal punto di vista ideologico, ma con esiti e “metodologie” (tipico lo stravolgimento delle fonti orali, filtrate attraverso forzature precostituite) sovrapponibili, che si riscontravano in esperienze provenienti, ad esempio, da ambienti
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di rigido integralismo cattolico e da altri della sinistra “rivoluzionaria” .
In presenza di una risposta istituzionale e accademica tanto improvvisata e strumentale quanto gattopardesca — come ricordava Massimo Legnani a Giulianova — andrebbe, a nostro giudizio, attentamente esaminata la posizione assunta dalle riviste locali di storia, per valutare quale contributo critico esse hanno offerto — se l’hanno offerto — all’elaborazione di strumenti atti a cogliere realizzazioni, istanze, limiti, problemi della domanda e della produzione di storia alla base. L’editoriale di presentazione di “Passato e presente” , nel giugno 1982, accingendosi a delineare il ruolo specifico che la rivista fiorentina si apprestava a assumere, tracciava un panorama poco lusinghiero della miriade delle pubblicazioni di storia contemporanea: in esso i periodici locali e regionali venivano sommariamente catalogati come dilettanteschi o, nei casi migliori (vale a dire quelli di carattere accademico), arroccati attorno a “contenuti di cultura storica a volte scoraggianti” . A nostro giudizio c’è stato — e c’è — anche altro (e anche dentro l’esperienza degli Istituti) da recuperare alla riflessione e non certo per cercare nuove forme di autolegittimazione, così come occorre guardare dentro quell’accademismo e quel dilettantismo — entrambi innegabili — per indagare quale funzione abbiamo esplicato e continuiamo ad esplicare nella formazione, nel mantenimento, nella trasformazione del “senso comune storiografico”.
Occorre, in altre parole, cercare di “misurare” i processi attraverso i quali si è passati dalla fase impetuosa e farraginosa del bisogno di “storia militante”, immediatamente spendibile nell’impegno sociale e politico del momento, al ripiegamento verso le dimensioni depurate dalle lunghissime persistenze e via via verso gli approdi della nuova storia e delle sue non sempre limpide fortune. Le tappe del percorso sono anche interne alle logiche di quella domanda: la scoperta della
politicità del quotidiano e del vissuto — come si evidenzia ad esempio con chiarezza paradigmatica in certi itinerari di storia delle donne — o anche il bisogno di rivisitare in termini “nuovi” , di ricerca di identità, la dimensione locale, del “municipio”, vengono svolte in senso sempre più evasivo rispetto ai nodi lunga durata/evento, sfera politica e sociale/sfera individuale. Su questa trasformazione certamente agiscono gli altri fattori cui si accennava all’inizio e che sono a loro volta da porre in stretta relazione con il radicale mutamento del quadro politico e sociale, ma taluni esiti attuali (tenendo conto anche di un’area importante della domanda di storia, quella dei docenti) fanno percepire l’affacciarsi di un nuovo senso comune storiografico, capace di cogliere e di richiedere certe raffinatezze metodologiche e attrezzato a compiere determinate operazioni di analisi, ma sempre più lontano dalla tensione del “conoscere per trasformare” e sempre più subalterno alle mode culturali più o meno postmoderne. Il modo con cui si è avviato il dibattito sui nuovi programmi di storia per il biennio della scuola secondaria superiore, con l’improvvisa vocazione contem- poraneistica ministeriale, non preoccupa tanto per la resistenza dei nostalgici e degli orfani della storia antica, quanto per la scarsa attenzione con cui sembra essere percepito sia il segno politico complessivo dell’operazione, elusiva rispetto ai nodi della riforma, sia il problema della formalizzazione di questa riproposizione del senso comune storiografico, ammantato di impreviste aperture verso le esigenze più avanzate del rinnovamento disciplinare, ma in sostanza pronto a ribadire orizzonti evasivi, a far scomparire rotture, conflitti, scontri di classe.
Naturalmente non è un destino irrimediabile o uno sbocco già stabilito: la posta in gioco ci sembra alta e crediamo debba impegnare direttamente e intensamente tutte le riviste di storia in un dibattito approfondito e tempestivo.
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2 La genesi di “Studi e ricerche di storia contemporanea. Rassegna dell’Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione” (o almeno della sua nuova serie, quella che continua ancora oggi) si colloca nel vivo dei rapporti con la domanda di storia e dei suoi sviluppi, non certo perché nasca adulta e armata di tutto punto (anzi la sua vicenda conosce raggiustamenti e trasformazioni che sarebbe pretestuoso ricondurre a una linea di sviluppo sempre organica e coerente), ma perché quei rapporti sono stati riferimento costante per il nostro periodico.
Dopo un’interruzione di qualche anno (erano usciti tre fascicoli tra il 1970 e il 1972, con incertezze nelle soluzioni contenutistiche oltre che in quelle grafiche), la rivista riprende le pubblicazioni con il numero 5 nel marzo del 1975, nel clima del trentennale, ma con un’intonazione marcatamente anticelebrativa, legandosi piuttosto ai temi del rapporto fascismo/antifascismo. Il carattere sperimentale del periodico è rispecchiato dalle variazioni della testata, dallo scambio tra il titolo e il sottotitolo rispetto ai numeri precedenti (“Ricerche di storia contemporanea bergamasca. Rassegna dell’Isml Bg) in questo numero 5, fino alla nuova intitolazione del numero 6 (novembre 1975) che, lasciando cadere la specificazione locale, indicava una volontà di intervento ampio, sui grandi temi del dibattito in corso, senza limitazioni di ambito geografico e che si rispecchiava non tanto nei Saggi (anche se su questo stesso numero ne appare uno assai pregevole di Luigi Cortesi sulla svolta di Salerno), quanto nell’impostazione delle recensioni e delle schede.
A ben vedere, anche questa ventata un po’ velleitaria di invasione di campo nasceva non da particolari ambizioni dei collaboratori, ma piuttosto dal rapporto diretto con un’utenza (studenti, insegnanti, corsisti, operatori delle 150 ore) alla quale si intendeva fornire strumenti e stimoli per un primo
aggancio al dibattito storiografico nazionale, nel tentativo di far circolare conoscenze più articolate e puntuali, quasi fossero indispensabile antidoto all’autarchico soddisfacimento di bisogni conoscitivi e critici; ma non era estranea neppure la volontà di differenziarsi anche in ciò dal localismo asfittico e chiuso dominante in tanti ambienti culturali bergamaschi. Questo indirizzo — che correva il rischio di gerarchizzare, banalizzandolo, il rapporto tra locale e nazionale — è stato però presto abbandonato, per imboccare il cammino — crediamo da allora percorso con coerenza — dell’indagine di storia locale.
Abbastanza presto, già dal numero 7 (aprile 1976), compaiono rubriche archivisti- che e rassegne bibliografiche, che pure sono rimaste un asse portante dell’impostazione della rivista, ancora una volta pensate come strumento anche per i non addetti e in questo senso riflesso di un più generale impegno esplicato dall’Istituto nella sua attività. È evidente, e talora persino scoperto, lo sforzo di indurre i lettori a “fare i conti” con le fonti e i documenti, come reazione da un lato alle forzature ideologiche, e dall’altro a quei fenomeni di sottovalutazione, privatizzazione e dispersione del documento contemporaneo, che avevano favorito il progressivo assottigliarsi della memoria storica, specie attorno alle vicende del movimento operaio, e contadino, fino all’instaurarsi dell’impropria equazione tra mancanza di fonti e scarsezza di spessore della storia della sinistra locale.
Questo filone di interesse, che non si esplica soltanto nelle rubriche specifiche, ma attraversa altri contributi e altre voci, tra cui le più recenti Discussioni e Documenti, ha avuto un ulteriore tratto distintivo: l’analisi diretta degli esiti delle ricerche di base e delle sperimentazioni e proposte didattiche; un contributo concreto alla lettura critica di esperienze che venivano così offerte alla riflessione collettiva. Su tale analisi si è fon
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data l’elaborazione di strumenti per la raccolta e l’uso di questi materiali, come l’A- chivio delle 150 ore e dell’educazione degli adulti o l’Archivio del movimento degli studenti.
L’attenzione verso la didattica, i problemi dell’organizzazione della cultura, le questioni metodologiche e interpretative (le fonti orali e iconiche, ad esempio, di cui la rivista si è occupata abbastanza precocemente, prima che l’interesse fosse generalizzato e sollecitato dalla ricchezza del dibattito) è quindi da inserire nell’orizzonte di questi rapporti con svariate figure e realtà del territorio; in questo senso il sottotitolo della rivista è veramente specchio fedele, nelle realizzazioni, nei problemi e nelle stesse difficoltà, della realtà dell’Istituto.
3 “Studi e ricerche di storia contemporanea” ha puntato assai più su una diffusione mirata a soggetti ben identificati o identificabili, piuttosto che all’occupazione di una fetta di mercato vero e proprio, e ciò è avvenuto in costante intreccio con l’utenza dell’Istituto cui prima si accennava. Pe quanto riguarda la diffusione locale, si è puntato soprattutto su due settori, le scuole e le biblioteche, mentre è rimasto alquanto circo- scritto il rapporto con altre figure (e con gli enti che le aggregano o rappresentano), in particolare i curiosi e i cultori di storia patria, municipale e parrocchiale, per altro poco sensibili, in genere, alla storia contemporanea è poco propensi ad avventurarsi oltre le colonne d’Èrcole del primo Novecento. Indubbiamente, soprattutto per ciò che riguarda la scuola, la diffusione non è soddisfacente e va incrementata. Le difficoltà non sono soltanto di ordine organizzativo e istituzionale, nonostante il buon numero di insegnanti che vedono nell’Istituto un punto di riferimento per il loro lavoro, quanto di scelte e indirizzi culturali di buona parte del corpo docente, più sensibile che nel passato all’offerta di aggiornamento, ma restio nel
suo complesso a prestare attenzione a strumenti di lavoro e occasioni conoscitive che non siano immediatamente spendibili nell’operatività didattica quotidiana.
Per quanto riguarda il problema della congruenza tra il panorama delle riviste di storia contemporanea e gli orientamenti della contemporaneistica, possiamo solo proporre un itinerario di lavoro che, riprendendo quanto si è avviato al seminario di Giu- lianova, cominci a guardare con molta autocritica franchezza dentro le riviste degli Istituti (che di quel panorama sono parte notevole), non lasciando cadere almeno due ipotesi emerse nell’occasione: l’impegno comune per l’aggiornamento delle metodologie e degli indirizzi generali della ricerca — quella sorta di minimo comun denominatore che appare più che necessario — e lo sforzo di produzione “simultanea” di contributi originali su temi di interesse centrale, utili anche al dibattito e alla ridefinizione dell’area contemporaneistica e/o alla ripresa di interventi e approfondimenti di largo respiro sul nodo ineludibile storia — politica.
In questa prospettiva — molto generale, ma non generica — ci sembra si possa avviare anche un confronto con le problematiche e gli apporti delle storiografie straniere, all’interno quindi di un duplice asse di ridefinizione contenutistica e metodologica, e di produzione coordinata di contributi in sede locale su nodi tematici di rilievo. È un problema che non ci si può illudere di affrontare con qualche omaggio d’obbligo alle mode culturali emergenti o con la pubblicazione di sintesi in lingua straniera, come si nota da qualche tempo anche su talune delle più municipalistiche riviste di “storia patria” . Il ruolo specifico dei periodici di storia locale (almeno per quanto riguarda le riviste dei nostri Istituti) ci pare continui a essere quello di tramite tra esiti di ricerche — ancorate però a quelle prospettive “alte” — e l’immissione di nuove conoscenze e di elementi di dibattito in zone meno raggiungibili da al
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tre forme di comunicazione (anche più costose o che richiedono maggior impegno editoriale). I contributi di ricerca e di discussione sui temi della scuola, dell’organizzazione della cultura, dell’interpretazione dei nodi tematici di volta in volta affrontati dalle indagini, possono essere sviluppati e intrecciati in tempi medi, che non rispondono alle esigenze di urgenza dell’intervento immediato, ma che lo possono alimentare e arricchire con un sostrato di riflessione non
estemporanea o improvvisata. Le potenzialità di collegamento esterno, oltre che in ambito nazionale, offerte dalla rete degli Istituti sono un’occasione particolarmente favorevole nonostante la complessità dei problemi e delle difficoltà attuali che spesso inducono — a torto — a non uscire dal piccolo porto delle singole esperienze locali, già tante o troppe volte percorso.
Giuliana Bertacchi
STORIA IN LOMBARDIASommario a. IV, n. 1, 1987
Caserme ed apprestamenti m ilitari a Milano tra l ’età napoleonica e la fine de ll’Ottocento, di Eduardo Grottanelli; Treni e potere politico in periferia: progressisti, moderati e cattolici bresciani di fronte alla questione ferroviaria, di G iovanni Spinelli; La Cucirini Cantoni Coats e l ’industria dei cucirini in Italia, di Francesca Bova.
Testimonianze e documentiLa questione penitenziaria nel Risorgimento nel carteggio di Giuseppe Saleri, a cura di Anna Capelli.
Strumenti di ricerca e informazioni
Archivi e biblioteche
Beni culturali da salvare: g li archivi delle acque, di Ugo Fiorina; / fondi archivistici di due case per corrigendi alla metà dell'800: l'Istituto Macchiondi e il Patronato per i carcerati e per i liberati dal carcere, di Daniela Capuzzo; L ’archivio della Pia casa di ricovero di Vertova, di G iancarlo Perani.
Insegnamento della storia e riforma del “biennio”
Il balletto delle rimozioni
In anni in cui ricorrono frequenti le accuse alla stampa di produrre “carte false” , di invischiarsi in silenzi graditi a questo o quel centro di potere, l’accoglienza riservata al progetto ministeriale di riforma dei programmi di storia per il “biennio” della scuola secondaria superiore sembra accreditare — in chi si ostini a coltivarla — qualche speranza nella formazione di un’opinione ispirata al confronto esplicito dei giudizi. Il tono prevalente nei commenti è stato infatti improntato ad una felice assenza di eufemismi. Una breve silloge: “scrittura sgangherata e burocratica con effetti quasi comici” (Aldo Schiavone ne “La Repubblica” del 14 novembre 1986), “ciarpame di parole truffaldine” (Luciano Canfora ne “Il Manifesto” del 15 novembre), “sciatteria e pressapochismo ideologico” (Roberto Maragliano ne “Il Manifesto” dello stesso giorno), “arroganza dell’incultura” (Luigi Firpo ne “La Stampa” del 16 novembre), “manifesto dell’università popolare” (Nicola d’Amico nel “Corriere della sera” del 17 novembre), “sventagliata di coriandoli” (Renzo De Felice in una dichiarazione a d’Amico nell’articolo citato), “guazzabuglio di superficialità e di confusione” (Francesco Barone ne “La Stampa” del 21 novembre). Come non compiacersi che un provvedimento relativo all’insegnamento della storia susciti reazioni a tal punto attente e ansio
se da spingere un commentatore (Livio Zanetti, ne “La Stampa” del 14 novembre) a prefigurare, dinanzi al proposito di togliere dal “biennio” la storia antica, una possibile crisi di governo? E però sarebbe un compiacimento destinato a seminare più dubbi di quanti non ne sciolga. Il documento ministeriale contiene per certo concettualizzazioni grossolanamente approssimative; ed è infiorettato di espressioni gergali (a mezza via tra il sottocodice burocratico e quello dei manierismi di certe elucubrazioni didattiche) che gettano ombre lunghe sulle sue capacità di comunicazione. E questa del linguaggio (anche senza spingersi all’equivalenza tra “disastro ecologico” e “disastro del linguaggio”, come fa Raffaele La Ca- pria nel “Corriere della Sera” del 5 novembre) non è sicuramente una variabile marginale. Tuttavia, la ventilata riforma solleva quesiti (e qualche commentatore, come vedremo, non ha mancato di formularli) che vanno ben oltre il registro del sarcasmo o della sufficienza. Elencarne alcuni sarà allora non inutile, anche a conferma delle implicazioni che il problema proietta fuori del campo specialistico e professionale e dell’interesse che esso riveste per “Italia contemporanea”, espressione, oltre a tutto, di un Istituto che sin dagli anni sessanta ha impegnato cospicue energie e iniziative sulla tematica dell’insegnamento della storia.
Un primo quesito investe la procedura, amministrativa, prescelta per l’iter del prov
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vedimento. Su questo punto le reazioni negative sono state, credo, prossime all’unanimità. E se è vero che l’impotenza parlamentare in materia di politica scolastica (fattore davvero inquietante) sembra ormai acquisita, il ricorso al decreto appare come un espediente di gran lunga peggiore della paralisi cui vuol porre rimedio. Scavalcare con un gesto di volontarismo burocratico la sede legislativa — e dunque della responsabilità politica — produce conseguenze ben più negative della mancata consultazione, anche su ciò la protesta è stata molto ampia, degli “addetti ai lavori” . Tanto più che il provvedimento acquista significato soprattutto nella prospettiva di una riforma complessiva del “biennio” . E qui si innesta, in posizione centrale, un secondo quesito relativo appunto al metro di giudizio imposto dalla trasformazione dell’attuale “biennio” nel segmento conclusivo di un obbligo scolastico prolungato. Lamentando la mancata assunzione prioritaria di tale ottica, Pietro Scoppola (“La Repubblica” del 20 novembre) ha stigmatizzato il carattere puramente protestatario di troppe reazioni e conseguentemente negato l’esistenza a sinistra di “una cultura di governo alternativa” alle indicazioni ministeriali. Pur senza addentrarci nei risvolti politici del dibattito, la considerazione di Scoppola non può certo essere confusa con una semplice ritorsione polemica. E si può osservare, nei termini più generali, che le angustie di questa come di precedenti occasioni di dibattito, stanno anzitutto nella incapacità delle forze politiche — ma non di esse soltanto — di avanzare progetti complessivi e facilmente riconoscibili. La paralisi non nasce dunque dalla presenza di progetti in conflitto, ma dall’assenza di questi e dal vuoto che tale assenza determina.
Molte delle critiche all’abbandono, nel “biennio”, della storia antica a favore della moderna e contemporanea — terzo quesito che vorremmo adombrare — sono una spia
utile a chiarire volontà, propositi, scelte più generali? Francamente non lo crediamo. Perché delle due l’una: o si contrasta l’ipotesi di un biennio comune ed allora la pre- senza/assenza della storia antica rappresenta un falso bersaglio; oppure si auspica — e sarebbe per tanti versi una scelta ottimale — un percorso storico “totale” ed allora si tratta di renderlo concretamente possibile, senza ostracismi verso i greci ed i romani, ma anche senza l’ipocrisia di far coincidere la storia contemporanea con i “brevi cenni sui giorni nostri” riservati, quando pure avvenga, alle lezioni di fine d’anno. Non è del resto mancato chi, come Nicola Tranfaglia (ne “La Repubblica” del 18 novembre), ha opportunamente richiamato procedure di apprendimento che “partendo anche dall’oggi, vada[no] a cogliere le radici del presente in un passato necessariamente sempre più lontano”. Ben più rilevante appare invece un apprezzamento complessivo dei “contenuti” espressi dalla proposta ministeriale. Le oscillazioni, le vaghezze, le incongruenze di troppe formulazioni hanno infatti accreditato i giudizi più diversi: dalla “mortificazione” della storia politica lamentata da Rosario Romeo (dichiarazione nell’articolo citato di d’Amico), agli ibridismi tra storia sociale e scienze sociali denunciati da Franco Pitocco (intervista ne “L’Unità” del 14 novembre), al rilievo di aver voluto “rispondere all’effettivo abuso, fatto in passato, dell’‘histoire bataille’, con il voler nascondere quasi del tutto il problema della guerra e della violenza” (dichiarazione di Renzo De Felice nell’articolo citato di d’Amico). Come ha scritto Enzo Collotti (ne “L’Unità” del 27 novembre), “si è fatta una scelta apparentemente coraggiosa, come quella di buttare a mare la storia antica, senza saper operare scelte realmente coraggiose nella prefigurazione di un programma di storia moderna e contemporanea”. Non sembra tuttavia che il nodo debba essere tagliato da un referendum che contrapponga
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la storia antica alla moderna e contemporanea — sul piano metodologico e delle categorie interpretative — “vecchia” e “nuova” storiografia.
Inclusioni ed esclusioni aprioristiche — quasi si trattasse di porre i programmi scolastici sotto la protezione di questo o quel catechismo storiografico — sortirebbero il risultato di occultare il problema centrale: quello del ruolo della storia nell’ordinamento scolastico che si intende far nascere. Tra le “finalità” indicate del progetto ministeriale ve n’è, ad esempio, almeno una che pone un tema di enorme rilevanza, quella relativa alla “capacità di pensare e di immaginare storicamente e di percepire lo spessore storico di problemi afferenti le diverse aree culturali” .
A iniziare da quell’insegnamento di “educazione civica, giuridico-economica” di cui si prospetta l’inserimento affermando che “l’introduzione delle discipline giuridiche ed economiche nel biennio della scuola secondaria superiore risponde ad esigenze inderogabili di completamento di un curricolo culturale e formativo, carente di alcune discipline specifiche, essenziali ai fini della formazione civile, sociale, economica dei giovani” .
Può spiacere l’afflatto retorico (esso sì davvero “inderogabile”), ma non v’è dubbio che si tratti di una scelta significativa, alle spalle della quale sta un ventennio di discussioni ed elaborazioni ai piu diversi livelli.
E qui vorremmo affacciare, tra i molti possibili, un quarto ed ultimo interrogativo, concernente gli insegnanti, la loro formazione e qualificazione (su cui ha richiamato energicamente l’attenzione Collotti nell’articolo citato). Dopo aver prefigurato il programma della nuova “educazione civica, giuridico-economica” il testo ministeriale precisa che “l’insegnamento di queste discipline sarà affidato a docenti di estrazione giuridico-economico-sociale” ovvero ad una
figura professionale non solo oggi inesistente, ma nemmeno immaginabile secondo gli attuali ordinamenti degli studi universitari.
Un’ulteriore conferma dunque della latitudine del problema e della necessità di coltivarlo.
Anche per far sì che il dibattito giornalistico da cui abbiamo preso le mosse non resti, pur nei limitati spunti che offre, un episodio isolato.
Un ulteriore punto di riferimento è del resto offerto dal recentissimo parere, consultivo, espresso dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione, il quale, stando alle anticipazione giornalistiche (si veda la stampa quotidiana del 7 ed 8 febbraio), avrebbe convenuto sulla opportunità di procedere alla modifica dei programmi per via amministrativa e bocciato invece, a maggioranza, l’abolizione della storia antica nel “biennio” , concedendo al più di annettere all’antichità parte del medioevo, così da riservare, nell’ultimo anno della secondaria, maggior spazio dalla storia contemporanea. Ponendomi tra coloro che ritengono mortificante il ricorso all’atto amministrativo in luogo della sede parlamentare (e particolarmente negativo il connubio che così si realizza tra burocrazia ministeriale e rappresentanze di categoria dei docenti), il sostegno del Cnpi alla procedura prescelta appare davvero preoccupante e francamente deprimente la ribadita presenza della storia antica in un contesto puramente conservativo, al di fuori di ogni reale presa di posizione sul ruolo del “biennio” nella prospettiva, pure accolta, di un prolungamento dell’obbli- go scolastico. L’ininterrotta querelle tra antichi e moderni ha pur conosciuto momenti più gratificanti. La discussione non è dunque priva di interesse, e ad essa “Italia contemporanea” intende partecipare, ad iniziare dai due contributi che seguono questa nota.
Massimo Legnani
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Quale storia per il biennio?
La recente presentazione ministeriale di nuovi programmi per il biennio della scuola secondaria superiore — quali ne siano gli esiti a tempi più o meno ravvicinati — solleva su di essi diversi ordini di questioni su cui la Commissione didattica dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia ritiene doveroso e urgente pronunziarsi, pur consapevole della necessità che a queste prime riflessioni a caldo seguano interventi più articolati e propositivi, ed impegnandosi sin da ora in tal senso.
Una procedura inaccettabile. Come è già accaduto per le scuole elementari, l’iniziativa di modificare programmi relativi al biennio si è presentata del tutto indipendente da qualsiasi ipotesi di riforma delle strutture scolastiche. Un simile modo di intervenire sui programmi genera perplessità e dissenso: che quand’anche risultassero formulati in maniera eccellente e seguendo le migliori teorizzazioni didattiche oggi esistenti, e riuscissero ad esprimere la più alta cultura storiografica e pedagogica di cui si disponga, è difficile negare che, a queste condizioni, essi resterebbero poco più che una dichiarazione di intenti.
La procedura stessa fa poi sorgere il dubbio che il ministero della Pubblica istruzione abbia semplicemente tratto le debite conclusioni dalla situazione di stallo completo cui è giunto nella presente legislatura il tentativo di riformare l’intero ciclo superiore degli studi, e che cerchi di scavalcarla operando nel settore che, secondo la prassi prima ancora che secondo gli ordinamenti e secondo l’opportunità, è di sua competenza, appunto la formulazione dei programmi. Nel far que
sto intende altresì mostrare che essi rappresentano ciò che al massimo si può ottenere oggi in fatto di riforma, per cui attraverso i programmi passano anche modifiche che toccano abbastanza profondamente gli assetti della scuola. Si vede così l’introduzione di una nuova materia con la promozione della marginale educazione civica a insegnamento delle scienze sociali, con un orario di tutto rispetto, distaccato dall’insegnamento della storia e affidato a insegnanti tutti da inventarsi); si vede la sostituzione della storia contemporanea alla storia antica, tradizionale nei licei (con problemi connessi di aggiornamento culturale e professionale degli insegnanti); si vede ancora una modifica degli orari scolastici, con la sostituzione dell’ora di 50 minuti a quella di 60.
Evidentemente, però, per quel tanto che sono programmi, i testi dello scorso mese di ottobre hanno bisogno di essere inseriti in una organica proposta di riforme: per quel tanto che sono riforma, o pretendono di esserlo, hanno invece bisogno di una pubblicità e di un dibattito'che in questo caso, a differenza di quel che è stato per i programmi elementari del 1985 e quelli delle medie del 1979, sono risultati del tutto assenti.
Il tutto è avvenuto in un clima di segretezza non solo inusitata per occasioni analoghe, ma tale da costringere la discussione a svolgersi spesso senza che ci fosse l’esatta conoscenza della proposta ministeriale. È oltremodo indicativo del metodo adottato il fatto che i primi ad avere sotto gli occhi il progetto di programma siano stati gli editori scolastici, cui era stato inviato per tempo. È quindi presumibile che proprio a partire da ciò che era finito in mano agli editori sia nata tutta la discussione che ha tenute impegnate per parecchi giorni, fra ottobre e no-
La nota è stata elaborata in seno alla Commissione per la didattica e l’aggiornamento dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e redatta da Guido D’Agostino, Aurora Delmonaco Lombardi, Scipione Guarracino, Ivo Mattozzi.
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vembre, le pagine dei quotidiani, incentrandosi per lo più sulla questione della storia. Si aggiunga a ciò il sospetto che per il ministero l’introduzione di nuovi programmi ponesse essenzialmente un problema di nuovi manuali e che l’intera operazione sarebbe andata in porto se gli editori avessero dichiarato di essere in grado di preparare i nuovi testi entro il lasso di tempo abbastanza breve preventivato (febbraio 1987-primavera 1988).
Perché tutta questa fretta? Perché, soprattutto, non comprendere e riconoscere che i veri ed i primi destinatari dei programmi sono gli insegnanti ai quali compete attuarli? È qui il nocciolo della questione! Ammettere tale punto fondalmentale implica conseguenze altrettanto basilari. Significa ammettere che una buona riforma deve essere accompagnata dalla messa in opera di un piano nazionale di aggiornamento, che da un lato ha costi non indifferenti, dall’altro obbliga a fare chiarezza sulla implicita logica degli assetti scolastici che regge la proposta di programmi. Ne deriva la necessità dell’azione di un governo dotato di una maggioranza autentica, mentre la riduzione dell’operazione a intervento amministrativo dà la sgradevolissima impressione di un ministero che vuole apparire produttivo e attivista ad ogni costo, per coprire l’assenza di un chiaro disegno culturale, di sicuri indirizzi politico-pedagogici e, per la storia, di qualificanti opzioni storiografiche.
Perché la storia contemporanea. Il testo ministeriale giustifica la polarizzazione sulla storia moderna e contemporanea con due motivi: essa corrisponderebbe “agli interessi più immediati dei giovani” ; contribuirebbe “a maturare l’esigenza di uno studio sistematico della storia da affrontare nel successivo triennio” .
Si tratta di motivi deboli che proprio perché deboli e non argomentati favoriscono il timore, largamente espresso, che la scomparsa della storia greca e romana si risolva in
un depotenziamento della educazione storica nel biennio. Al contrario, l’opzione per la storia contemporanea può fondarsi su argomenti assai più forti e più qualificanti o per la stessa formazione storica degli studenti: 1) attualmente la storia contemporanea è la cenerentola dei periodi storici sia nei programmi ufficiali, sia nelle programmazioni degli insegnanti, sia nei manuali, in tutti gli ordini di scuola. Ciò provoca il paradosso che per i licenziati dalla scuola media è molto più nota la serie delle guerre puniche che non quella delle guerre mondiali, l’imperiali- smo romano piuttosto che l’imperialismo e il colonialismo contemporanei, Nerone piuttosto che Mussolini e Hitler, la strage degli innocenti piuttosto che l’olocausto; 2) il rapporto passato/presente e la tensione conoscitiva verso il passato si giustificano se si conosce il mondo contemporaneo. Infatti l’itinerario mentale muove nella direzione presente/passato/presente. È la conoscenza e l’esperienza del mondo contemporaneo che provvede a fornire chi si volge al passato delle preconoscenze necessarie (criteri di selezione e di rilevanza, modelli interpretativi, concettualizzazioni, strumenti, interessi cognitivi) per una attività di ricostruzione del passato che non sia gratuita rievocazione, ma risposta ai bisogni conoscitivi emergenti. Ed è in questo modo che l’attività di ricostruzione del passato e i suoi risultati contribuiscono a potenziare la conoscenza del presente; 3) la storia contemporanea non ha minore portata scientifica rispetto alla storia antica. Il suo statuto storiografico ha specificità proprie, ma non è deformato dagli usi ideologici più di quanto non lo possano essere gli statuti della storia antica, medievale, moderna; 4) la storia contemporanea può essere perfettamente idonea a risolvere alcuni problemi formativi e didattici nell’età adolescenziale, perché offre: possibilità di un coinvolgimento personale e diretto dei giovani che vivono comunque la storia contemporanea; ne recepiscono alcune tensioni
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profonde, avvertendo subito, però, il distacco della scuola da esse; molteplicità, accessibilità e varietà delle fonti disponibili; minore specializzazione filologica e minore necessità di mediazione del corredo semantico; più larghe possibilità di sperimentazione delle procedure del lavoro storico in condizioni meno artificiose; 5) la storia contemporanea è idonea a formare cittadini capaci di servirsi del punto di vista della conoscenza storica nell’osservazione del reale. Infatti il campo di applicazione dell’analisi storica che più interessa il cittadino è quello degli eventi, degli intrecci, dei problemi contemporanei sia della vita pubblica sia della vita privata. Lo studio della storia contemporanea può rendere più incisivi i procedimenti che ognuno applica a vari livelli nella vita quotidiana;6) la storia contemporanea ha un rapporto più intimo con le scienze sociali e dunque se si deve definire un’area storico-sociale, la storia contemporanea è quella che meglio può contribuire alla costituzione dell’area;7) la storia contemporanea rappresenta il più idoneo terreno d’attacco per le indispensabili procedure di ricerca didattica collegate all’analisi del presente.
Per questi motivi, sia che il biennio concluda la scuola dell’obbligo, sia che faccia da cerniera tra scuola dell’obbligo e scuola secondaria superiore, dove sia collocabile una nuova fase di studio della storia (dalla preistoria alla contemporaneità), la storia contemporanea può essere considerata come il punto di snodo più efficace.
Oscurità e contraddizioni di un dibattito ‘chiarificatore’. I programmi di storia hanno un futuro incerto. Eppure ciò che già risulta acquisito è l’emergere di voci discordanti, segnali contraddittori, del precipitoso affermarsi di un “senso comune storiografi- co” sconcertante, nutrito di viscerali affetti e di consolidate e mai discusse certezze, spesso stranamente affiancate da raffina
tissime elaborazioni concettuali. Se ne potrebbe quasi ricavare l’impressione che l’Italia sia il paese in cui il culto degli antichi padri è ancora vivo e fresco nelle coscienze, in cui il senso delle radici è tuttora forte e impregnato di cultura classica e capace di sollevare ondate di sdegno al minimo accenno iconoclasta. Ciò sarebbe confortante, rispetto allo scempio che si fa quotidianamente del patrimonio che quel passato rappresenta e vivifica nella memoria.
In realtà, tutto si ridimensiona drasticamente di fronte a una considerazione delle più banali: chi ha mai detto che, se la storia antica non la si studia a 14-15 anni, non si avrà mai modo di venirne a conoscenza? In effetti non si è trattato tanto della difesa della storia antica, quanto di quella di una concezione unilineare, ciclica e cumulativa della storia, che ha capisaldi ormai lontani nel tempo, sconfessati dalla storiografia scientifica, e che si perpetuano solo nelle scuole. Una sorta di ‘idea fissa’, che fa assomigliare la storia allo sviluppo organico della vita, o a un gomitolo di Arianna in cui ogni cosa ha un prima o un dopo in stretta relazione causale, di discendenza obbligata per cui gli effetti si sommino indefinitamente nel tempo. Eppure, e lo si sa, l’albero stesso delle nostre radici (quali, poi?) ha soffocato altre piante, ha messo a sua volta radici avventizie e aeree per sopravvivere. Le cose stanno in maniera ben più complessa di quanto suggerisce la ‘favola’ del come eravamo, così cara a chi non deve più studiarla a scuola.
Ma una realtà divenuta tanto complessa, va evidentemente affrontata ad un livello storiografico più alto, come sanno bene i molti che pure si sono espressi in senso contrario. C’è da credere che si sia implicitamente sostenuto che ciò che la ricerca scientifica ha ormai acquisito non vada assoluta- mente bene per la scuola, la quale va invece lasciata a ‘pascersi’ di certezze del tutto osbsolete.
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Rafforza quest’idea l’allineamento generale sul problema dei contenuti, a partire dai presupposti della premessa ai programmi, che considera già acquisita una informazione generale sul profilo complessivo della storia nel percorso della scuola media. C’è dell’altro, già ora, nei programmi del- l’obbligo e nel dibattito suH’insegnamento superiore. C’è l’attenzione alle dinamiche secondo cui si acquisisce un orientamento nel tempo e nello spazio a partire dai primi livelli di cognitività; c’è l’esame delle procedure di ricerca didattica secondo sequenze di sviluppo cognitivo; e c’è la messa a punto di strumenti e di metodologie che facciano della storia uno strumento di conoscenza, più che un oggetto. Tutto questo è stato ampiamente ignorato con strane affermazioni, bifronti, sul tema della ricerca, per un verso mistificando circa 1 ’ attingibilità dei livelli di quella ‘vera’ al fine di deprezzare quella didattica, tacendo sui risultati deludenti dello studio della storia secondo i canoni della ‘serietà’ tradizionale; per l’altro, quando si è messa a fuoco la reale portata della proposta di ricerca didattica — che è scienza, professionalità, gusto della crescita personale e interpersonale — lamentando l’inadeguatezza, o la totale inesistenza degli insegnanti capaci di promuoverla e guidarla (gli “insegnanti-ricercatori”). E poiché l’idea che l’insegnante possa essere formato prima, e sostenuto poi con adeguate linee di intervento, appare da noi particolarmente peregrina (salvo che per l’informatica), ciò basta, evidentemente, per liquidare ogni progetto innovativo e riparare nel grembo di antiche, rassicuranti certezze.
È certo, in ogni caso, che la stesura stessa dei programmi, al di là di ogni giudizio di merito, appare così composita, eclettica e contraddittoria da rappresentare una preziosa esca per gli esercizi di logomachia. Lo dimostra, tra l’altro, quanto viene detto circa la ‘sistematicità’, da un lato raccomandata caratteristica dell’approccio da seguire
e praticare, dall’altro fatta balenare — e lo si è già accennato — come prospettiva dell’insegnamento impartito nel successivo triennio. La sistematicità, come il tempo e come le radici, non ha un solo paradigma, e se ciò fosse stato evidenziato nei programmi, sarebbe stato tanto meglio per la chiarezza complessiva.
Infine, un’ultima osservazione. La questione irrisolta del termine della scuola del- l’obbligo sembra fondamentale per la chiara definizione delle posizioni da assumere. Invero, pronunciarsi per l’estensione della storia antica, in un biennio unificato, anche a quelle scuole dove attualmente si studia la contemporanea, pur di salvarla nei licei, significa pronunciarsi chiaramente per la definitiva fissazione dell’obbligo alla terza media, risolvendo contemporaneamente anche il problema di una scuola superiore attualmente “troppo affollata” .
I punti appena toccati, pur se emersi con particolare evidenza in questa occasione, appartengono interamente al campo più profondo, più lungo e meno contingente delle riflessioni e dei convincimenti maturati in seno all’Istituto nazionale e alla rete degli Istituti associati in ordine alla scuola e alla didattica della storia. Il lavoro capillare nelle scuole e nel settore delPaggiornamento e della formazione in servizio dei docenti in questi ultimi decenni, svolto dagli operatori scolastici legati agli Istituti e variamente incorporati nelle relative ‘sezioni didattiche’, promosso e coordinato dalla Commissione stessa e dal Laboratorio nazionale di didattica della storia (Bologna), ci ha messo nelle condizioni di conoscere dal di dentro realtà complesse e di operarvi, spesso in situazioni di paurose carenze istituzionali. Questo ci abilita oggi a intervenire, ricordando le nostre opzioni ancora di recente approfondite e affinate — ne è testimonianza il volume La storia insegnata appena uscito — per una nuova professionalità docente e per un
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insegnamento ‘forte’ della storia in grado di riorientare il rapporto con altri saperi e discipline. In questa direzione ci siamo mossi propugnando la pratica del ‘laboratorio di storia’, aperto a esperienze di studio e insegnamento multiple e intrecciate, ideative e/o ricompositive, individuando in essa il senso e la possibilità del raccordo ineludibile tra storia-scienza e storia-materia, cultura storiografica e progettualità didattica. Al tempo stesso, abbiamo ragionato di analisi stratigrafica del presente come storia e di centralità della storia contemporanea, di ricerca e di storia locale, così come abbiamo indicato nella sperimentazione, nella progettazione e nell’articolazione curricolare e nella “modularità riproducibile” del lavoro didattico e dei suoi ‘prodotti’, gli schemi di una possibile alternativa alla rigidità dei programmi e alla sclerosi degli attuali statuti e assetti disciplinari.
Di queste importanti tradizioni di lavoro e di impegno politico e culturale occorrerà pur tener conto.
Gli Istituti della Resistenza e l'insegnamento della storia
All’inizio dello scorso novembre si è tenuto a Bologna un seminario degli Istituti storici della Resistenza sull’insegnamento della storia. Proposto dalla Commissione per la didattica e l’aggiornamento e dal Laboratorio nazionale per la didattica della storia, esso mirava, da un lato, a coordinare secondo linee di intervento e opzioni ben definite le molteplici attività condotte dalla rete degli Istituti sul terreno della ricerca didattica e della divulgazione storica e, dall’altro, a verificare quel ruolo di agenzia formativa che le sezioni didattiche assieme alle strutture centrali (la Commissione e il Laboratorio
già nominati) sono venute sempre più assumendo nell’intero paese.
Un seminario diverso, quindi, dai molti promossi in precedenza dagli Istituti perché volto più a consolidare una struttura di lavoro che a presentare all’esterno gli itinerari didattici e le sperimentazioni numerose già prodotte da quella stessa struttura.
Se si può dare infatti per scontata, presso un pubblico motivato, la conoscenza dei convegni e delle pubblicazioni ad essi conseguiti, vale invece la pena di sottolineare come negli ultimi anni, presso gli oltre cinquanta Istituti della Resistenza, siano venute aggregandosi realtà nuove, spesso di notevole consistenza, costituite da gruppi di insegnanti che, ancor più dell’elemento partigiano e degli storici di professione già presenti in essi, hanno avvertito l’urgenza di raccordare l’attività di ricerca e di documentazione al mondo della scuola. Nel proporre un momento di autoriflessione da parte di tutti gli operatori didattici degli Istituti, la Commissione didattica e il Laboratorio tuttavia non si limitavano a prendere atto di una crescita intervenuta, ma intendevano farvi corrispondere un’ulteriore assunzione di responsabilità verso l’istituzione scolastica.
I compiti statutari stessi degli Istituti e la peculiare concentrazione di risorse umane in essi operanti — si tratti di storici o di- dattologi, di archivisti o bibliotecari, di insegnanti comandati o di insegnanti nella scuola — consentono infatti un’autonoma capacità di proposta e di confronto con le strutture statuali dell’istruzione, senza la quale ogni intervento assume i caratteri della supplenza di un’istituzione scolastica carente.
Nelle sale della Provincia di Bologna i responsabili delle sezioni didattiche o dei gruppi di lavoro di una quarantina di Istituti e i dirigenti nazionali hanno discusso del sistema scuola e della figura dell’insegnante oggi, del rapporto tra la ricerca storiografi
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ca e la storia insegnata, dell’ipotesi del laboratorio di storia e scienze sociali come modello di innovazione didattica propugnato dagli Istituti, della promozione ad ogni livello di collaborazioni con altre agenzie di formazione pubbliche e private (ferma restando l’autonomia e la peculiarità degli Istituti), dei caratteri e delle tipologie di intervento proprie di una sezione didattica e del radicamento di questa nella realtà locale che la circonda, del raccordo da promuovere tra i settori diversi di attività degli Istituti, primi tra tutti la ricerca e la documentazione.
Sul dibattito recente intorno alla qualità dell’istruzione e sulle modificazioni intervenute nel corpo docente negli ultimi dieci anni verteva la relazione di Raffaella Lamberti: “Gli insegnanti a scuola: riflessioni su politica e professionalità” . Sembrava infatti necessario ai promotori del seminario, come aveva detto in apertura Rino Sala, presidente della Commissione didattica, riprendere la riflessione sui grandi temi della riforma e sui modi nuovi di presentarsi delle politiche scolastiche dopo un periodo di attività mirata essenzialmente alla elaborazione di strumenti e sequenze didattiche da offrire alla “scuola militante” . Non sembra infatti scorretto, per quanto sia schematico, affermare che nei primi anni ottanta l’interesse prevalente, anche all’interno degli Istituti, veniva rivolto agli aspetti metodologici ed epistemologici della storia insegnata.
Con quali indirizzi di politica scolastica trova a misurarsi chi si pone obiettivi di formazione e divulgazione storica? Quale concezione delle funzioni dell’istituzione scolastica intende promuovere? Quale conoscenza deve possedere delle scelte pedagogiche e dei processi formativi che hanno effettivamente luogo nelle aule scolastiche? Le considerazioni avanzate circa l’andamento del sistema scuola sottolineavano, anche sulla scorta della recente letteratura in proposito, alcuni dei mutamenti più evidenti. Si è par
lato ad esempio di come i governi dei paesi della Comunità economica europea e del- l’Ocse, abbandonati nel corso degli anni settanta tutti i progetti di innovazione globale, abbiano agito con modalità sostanzialmente omogenee privilegiando i medesimi interventi settoriali quali l’istituzione di organi collegiali di gestione, la stesura di nuovi programmi per ogni ordine e grado scolare, la predisposizione di piani generali di aggiornamento e la fondazione di nuove strutture di sostegno. Ed ancora: si è rilevato, come, nei medesimi paesi, a partire dal 1983-84 il dibattito si sia spostato dai temi delle riforme di struttura al problema della qualità dell’istruzione, come presa d’atto e insieme reazione allo scacco subito dalla scuola, divenuta di massa, in materia di innalzamento degli standards formativi e di abbattimento dei meccanismi sociali di selezione.
D’altra parte, se per il progressivo dilatarsi delle occasioni formative extrascolastiche, ivi concluse le esperienze lavorative attuate da un numero crescente di studenti già durante l’iter scolare, la scuola appare destinata a divenire solo un elemento di un più vasto sistema formativo in continuum, si è ritenuto urgente interrogarsi su quelli che sono i suoi compiti imprescindibili e non sostituibili.
Questioni come quelle appena nominate sono particolarmente pertinenti per gli Istituti che da anni promuovono l’avvicinamento della storia insegnata alla ricerca storiografica e si prefiggono l’obiettivo di una formazione storica rigorosa, con particolare riferimento all’educazione al presente come storia. Né, sotto questo rispetto, è secondario il punto di vista secondo il quale considerare il ruolo e la funzione dell’insegnante. In breve: non è secondario, riconoscere o meno agli insegnanti una potenzialità di innovazione rispetto ad una rappresentazione che li vuole meri riproduttori dell’insegnamento tradizionale. In questo senso pare importan
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te superare l’ottica di numerose ricerche che da un decennio rilevano la disaffezione degli insegnanti o ne misurano le motivazioni professionali e politiche sulla base di indicatori quali la sindacalizzazione, la militanza partitica, la partecipazione agli organi collegiali.
Per approdare ad una fenomenologia più adeguata della segmentazione intervenuta nel corpo docente, per identificare quote di insegnanti disponibili al cambiamento e per intenderne la domanda di cambiamento, sono parse indispensabili altre metodologie che, mediante la ricostruzione dei profili di carriera, entrino nel vivo delle pratiche didattiche dei singoli docenti. Vanno parimenti prese in considerazione variabili quali le differenze generazionali o la differenza sessuale. La interpretazione stessa dell’incidenza della femminilizzazione del corpo insegnante sulla disponibilità/indisponibilità all’innovazione didattica è sembrata richiedere approcci nuovi che prendano atto delle riflessioni elaborate dal femminismo sulla frequente estraneità delle donne nei confronti di modelli culturali alla cui elaborazione hanno contribuito in misura ridotta. “La costruzione etico-civile del cittadino” cui gli Istituti intendono contribuire, richiede infatti l’autonomia intellettuale e la capacità decisionale dell’insegnante che voglia prendere parte a esperienze di cooperazione educativa come quelle che essi promuovono.
L’interesse preminente dell’incontro bolognese era rivolto tuttavia, come si è già detto, a consolidare una struttura di lavoro all’interno della rete federativa e a promuoverne la visibilità crescente all’esterno. Tali interessi, già riscontrabili nella convocazione del seminario che, rivolgendosi alle sezioni didattiche, ne riconosceva l’avvenuta formalizzazione, sono pienamente esplicitati nell’ordine del giorno finale pubblicato su
“Italia contemporanea”1. È comunque nel vivo del dibattito — dall’indirizzo politico del presidente dell’Istituto nazionale ai numerosi interventi degli operatori — che se ne è verificato l’elevato grado di condivisione.
In particolare Guido Quazza nella sua introduzione, dopo aver richiamato alla memoria dei presenti il cammino non pacifico che la didattica ha dovuto percorrere per ottenere il diritto di piena cittadinanza all’interno degli Istituti, insisteva sul ruolo trainante che le sezioni didattiche possono svolgere per lo stabilirsi di quella più stretta collaborazione tra i singoli elementi della rete federativa e tra questi e le istanze nazionali che costituisce l’obiettivo politico centrale della nostra attività futura e la condizione imprescindibile dell’affermarsi delle nostre opzioni.
Sembra infatti giusto sottolineare un rilievo critico avanzato da più parti circa la non rispondenza tra la mole di lavoro didattico messa in campo dalle realtà locali e dalla Commissione didattica nazionale e la capacità di prendere iniziative a livello centrale in ordine alle politiche scolastiche, in primis in ordine ai programmi e i piani di aggiornamento degli insegnanti di storia ed educazione civica.
Pertanto le relazioni di Aurora Delmona- co (“Le sezioni didattiche: possibilità e limiti”), di Maurizio Gusso (“Ruoli e prospettive delle sezioni didattiche”) e di Scipione Guarracino (“Tipi di attività di una sezione didattica e condizioni per realizzarle”) erano dedicate alle sezioni didattiche, al potenziamento della loro autonoma capacità propositiva e della loro corrispondenza alla domanda di formazione storica proveniente dal territorio.
Poiché era inevitabile che in alcuni punti (caratteristiche di un lavoro didattico avan
1 II testo è già stato pubblicato su “Italia Contemporanea”, n. 165, dicembre 1986, p. 164, sotto il titolo Seminario delle sezioni didattiche.
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zato, condizioni per realizzarlo) tali relazioni si sovrapponessero, l’esposizione sottolineerà gli spunti più caratterizzanti di ciascuna di esse. Tuttavia, prima di entrare nel merito dei diversi ragionamenti avanzati, è bene dare un’idea dell’ordine di grandezza, del volume — per dir così — dei contatti in corso tra gli Istituti e la scuola. Due sondaggi successivi, condotti sull’intera rete associativa, realizzato il primo da Ornella Clementi per conto dell’Istituto nazionale al fine di quantificare le richieste di intervento pervenute dalla scuola in seguito alla circolare Falcucci sulla celebrazione del quarantesimo anniversario della liberazione, predisposto il secondo dal Laboratorio in vista del seminario bolognese al fine di valutare l’attività didattica ordinaria degli Istituti, convergono nel suggerire una cifra di oltre 5.000 insegnanti e classi contattate solo negli anni più recenti.
Ma una verifica qualitativa interessante veniva fornita dalle caratteristiche stesse dei partecipanti al seminario: in buona misura nuove leve per gli Istituti, provenienti spesso dalle generazioni più giovani del corpo docente e fortemente motivate alla ricerca (non esclusivamente didattica) e alla professionalità.
La relazione di Aurora Delmonaco, particolarmente attenta alle motivazioni che spingono le diverse componenti interne agli Istituti (l’elemento partigiano, lo storico di professione, l’insegnante) a rapportarsi alla scuola e parimenti rispettosa della peculiarità di ciascuna esperienza locale, ripercorreva da più punti di vista le tappe attraverso le quali si è sviluppata, nell’insieme, la funzione didattico-formativa degli Istituti. Da un punto di vista genetico, identificava “nei grandi appuntamenti nazionali” (Rimini 1979, Venezia 1981, Rimini 1983, Venezia 1985) altrettante sollecitazioni offerte dalle istanze centrali alle realtà locali per avviare l’attività didattica (nei fatti è proprio in questo scorcio di tempo che numerosi Istituti si
dotano di settori didattici), poiché in quegli incontri sono emersi inizialmente indicazioni sui temi di ricerca, successivamente riflessioni metodologiche e infine una gamma molto ampia e aperta di soluzioni didattiche capaci di connettere metodologie e tematiche secondo l’ottica operativa del Laboratorio di didattica della storia. Inoltre, al fine di ottimizzare oggi gli sforzi di ciascuna realtà locale e di identificare le caratteristiche proprie alle esperienze più compiute e per questo più idonee a sostenere una domanda complessa e articolata, la relazione suggeriva una griglia che classificava idealmente le tappe che conducono alla costituzione di una sezione didattica “matura” . Tale griglia, costruita prevalentemente a partire dai tipi di rapporto istituibili con la scuola (epi- sodicità/continuità, informazione/elabora- zione e simili) può servire ad analizzare il processo che porta da forme più semplici del rapporto — come il contatto episodico o la offerta di servizi — a forme più organiche e stabili quali la « cooperazione » e la « integrazione ». Se, per ogni tappa, la volontà politica dell’Istituto e la presenza di una domanda son condizioni indispensabili, le forme più organiche suppongono 1’esistenza, accanto alla figura del responsabile didattico, di un gruppo di lavoro stabile, capace di elaborare percorsi didattici e modelli di aggiornamento utilizzando l’intero patrimonio dell’Istituto: in breve, suppongono resistenza della sezione didattica.
Finalità analoghe informavano la classificazione dei tipi di attività didattica proposta da Scipione Guarracino, la cui gradualità era fondata sul maggiore o minore grado di formalizzazione implicato nella trasmissione delle conoscenze e sulle caratteristiche del prodotto finale conseguibile di grado in grado. Anche questa classificazione si proponeva come strumento per valutare lo “stato dei lavori” e alla sua luce Guarracino presentava i dati emersi dallo spoglio dei questionari relativi alla attività didattica ordinaria degli
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Istituti (secondo sondaggio) al fine di rilevare le tendenze in atto. Non è infatti secondario che gli Istituti si accingano in buon numero a ridurre lo spazio dato a lezioni-conferenza per promuovere invece “seminari con esercitazioni” e costituire “gruppi di produzione” . Né è secondario che s’av- viino a produrre materiali didattici, siano essi bibliografie ragionate, dossiers di fonti, unità didattiche. Il prodotto finale costituisce infatti una verifica essenziale del lavoro svolto e permette il passaggio da una situazione “artigianale” a una “industriale” , in cui è garantita la circolazione delle esperienze.
L’idea di fornire modelli fortemente strutturati e standardizzati è presente da tempo a rispondere all’esigenza di dare risposte rapide e rigorose alle moltissime richieste che pervengono al Laboratorio e alle sezioni didattiche più attive. Non si tratta di fornire istruzioni e tanto meno “compitini da fare”, ma di favorire l’avvio di pratiche comuni che devono pur essere promosse se si vuole dare vita a quell’azione concertata di cui molti interventi sottolineavano l’urgenza.
Né la circolazione di modelli d’organizzazione dell’attività didattica o di items formativi deve fare pensare a un primato di quella che Aurora Delmonaco chiamava la metodologia passe-partout. Sul fronte stesso dei temi di ricerca il dibattito ha segnalato l’esigenza di un coordinamento delle forze. In particolare nel gruppo di lavoro “Ricerca storiografica e insegnamento della storia” è stato proposto di dar luogo a gruppi di lavoro tra gli Istituti su temi di interesse comuni quali, ad esempio, i bombardamenti nella seconda guerra mondiale, l’emigrazione, e di promuovere un coordinamento generale delle ricerche in atto sulla storia delle donne. Del resto l’esperienza complessiva degli Istituti è legata ad una storiografia locale e nazionale fortemente segnata dall’impegno civile.
Non è un caso che la relazione di Guarra- cino, volendo segnalare la diversità dell’intervento didattico degli Istituti rispetto a quello di altre agenzie formative democratiche, parlava di “educazione al presente come storia” non essendo sufficiente a distinguerli le finalità della divulgazione storica e della formazione della coscienza storica. È analogamente Maurizio Gusso, per indicare la specificità delle sezioni didattiche, si riferiva agli Istituti come “istituti di storia contemporanea”, operanti sul territorio non solo come soggetti di ricerca ma anche come “soggetti politico-culturali” . La relazione di Maurizio Gusso era attenta agli aspetti della cooperazione tra i diversi settori di attività degli Istituti e alla circolazione del dibattito e delle esperienze all’interno dell’intera rete associativa. Essa individuava le condizioni indispensabili per 1’esistenza di una sezione didattica (pieno riconoscimenti formale da parte degli organi dirigenti dell’Istituto, presenza di un responsabile, autonomia di progettazione, dotazione finanziaria) e faceva dipendere l’originalità e vitalità di tale sezione anche dal grado di integrazione nel più ampio ambito d’intervento dell’istituto locale sul territorio.
Più volte nel corso del seminario (in particolare nel gruppo sulla “Committenza sul territorio”) si è sottolineata la peculiare ricchezza degli Istituti in termini di raccolte di fonti, di patrimonio librario, di ricerche accumulate, di bollettini, riviste e l’importanza che riveste per la sezione didattica poter disporre di tutte le risorse che l’Istituto può offrire. Sia su questo terreno sia su quello della circolazione del dibattito e delle elaborazioni teoriche e pratiche all’interno dell’intera rete associativa, Gusso era ricco di suggerimenti in vista dell’attività futura. Qui si riprende solo l’idea di una valorizzazione sistematica della strumentazione diversa in possesso degli Istituti e la concezione di un modello di circolazione complesso tra tutte le istanze, risultando uno scambio
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concepito sullo schema centro-periferia del tutto inadeguato alla realtà associativa degli Istituti. Peraltro, non solo esistono sezioni didattiche — basti l’esempio di Milano, Napoli, Torino — che costituiscono altrettanti centri ma numerose realtà della cosiddetta periferia hanno fornito nel tempo modelli di intervento esemplari in ordine a tutti i problemi discussi nel seminario. Basti citare i due casi, emersi anche nel dibattito bolognese, di Pesaro e Alessandria. Il sistema dei laboratori didattici proposto dall’Istituto di Pesaro è entrato nelle scuole di ogni ordine e grado della provincia col benestare delle massime autorità scolastiche. Ad Alessandria l’Istituto tiene corsi regolari di storia contemporanea per i 600 allievi della Scuola di pubblica sicurezza.
Se, come si è ribadito e come è ovvio, alle istanze centrali spettano compiti di promozione, progettazione, documentazione e informazione, ciò non toglie che un contributo prezioso potrebbe venire da tutti gli Istituti locali qualora accogliessero la proposta, emersa nel dibattito, di costruire esperienze paradigmatiche, unità di lavoro esemplari per l’uso didattico degli archivi, delle biblioteche, delle emeroteche in loro dotazione. Quanto al rapporto con altre agenzie di formazione pubbliche e private, Guido Quazza, nella sua introduzione, aveva sottolineato la necessità di un confronto aperto tra le sezioni didattiche e ogni organismo democratico di formazione; aveva poi illustrato, sulla scorta dell’esperienza torinese del Cirda (Centro inter dipartimentale per la ricerca didattica e l’aggiornamento degli insegnanti) il ruolo che le università potranno svolgere sul terreno della formazione. È quasi pleonastico ricordare come possa incidere nelle attività di un Istituto o di una sezione didattica la presenza o meno sul territorio di una sede universitaria o di un istituto culturale prestigioso.
In sede di assemblea finale, Guido D’Agostino, presidente del Laboratorio nazio
nale per la didattica della storia, riprendeva il tema delle opzioni comuni. Se in apertura dei lavori aveva indicato nel Laboratorio con sede a Bologna un punto di riferimento istituzionale delle sezioni didattiche, ora riconosceva al concetto di “laboratorio” la capacità di reggere i diversi percorsi di lavoro che si danno all’interno degli Istituti.
Di fatto, gli esiti di un dibattito ricco e vivace erano sintetizzati nelle comunicazioni dei quattro gruppi di lavoro. A conclusioni analoghe erano arrivati il gruppo “Laboratorio” (D’Agostino, Guarracino) e il gruppo “Ricerca storiografica e insegnamento della storia” (Brusa, Lamberti, Marcialis, Mat- tozzi) esprimendosi a favore di percorsi didattici aperti da riempire e contestualizzare nel vivo dei propri ambiti di competenze e attività, piuttosto che per la produzione di unità didattiche rigide e affermando che, tra le tante esperienze da proporre in una classe, deve trovare spazio la ricerca didattica nelle sue molteplici accezioni. Il gruppo “Committenza sul territorio” (Bertacchi, Clementi, Delmonaco) rilevava la necessità di promuovere indagini per meglio valutare la domanda di una committenza sempre più differenziata (studenti, insegnanti, cittadini) e di curare, per dir così, l’immagine degli Istituti al fine di renderne nota l’offerta.
Particolarmente propositivo risultava il gruppo “Agenzie di formazione e istituzioni scolastiche” (Deon, Omodeo Zorini, Pero- na, Gusso); buona parte delle sue indicazioni sono passate negli odg votati dai partecipanti al seminario e, pertanto, qui se ne segnalano soltanto alcune. L’indicazione data a Commissione e Laboratorio di organizzare seminari ricorrenti di formazione degli operatori didattici degli Istituti; la richiesta ai medesimi di organizzare il lavoro didattico per commissioni miste di operatori degli Istituti e “esperti” esterni ad essi a partire da temi specifici; la predisposizione di strut-
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ture di sostegno (albi di “esperti” utilizzabili da parte delle sezioni didattiche, istruzioni per 1’“abbordaggio” ai diversi livelli delle istituzioni scolastiche, raccolte complete della normativa scolastica); la circolazione puntuale delle informazioni riguardanti i
lavori in corso nelle istanze centrali e nelle commissioni da esse attivate; la fondazione di un cartello di forze che stringa in programmi comuni agenzie democratiche di formazione.
Raffaella Lamberti
STUDI STORICIrivista trimestrale dell’istituto Gramsci - n. 3, 1986
Giustizia e reati sessuali nel MedioevoRinaldo Comba, “Apetitus libidinis coherceatur". Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardomedievale: Pierre Dubuis, Comportamenti sessuali nelle Alpi del Basso Medioevo: l ’esempio della castellania di Susa; Maria Serena Mazzi, Cronache di periferia dello Stato fiorentino: reati contro la morale nel primo Quattrocento-, Ingeborg Walter, Infanticidio a Ponte Bocci: 2 marzo 1406. Elementi di un processo.
Opinioni e dibattitiAldo A. Settia, “Pagana", “Ungaresca", “Pelosa": strade medievali nell’Italia del Nord; Thomas Sza- bò, Strade e potere pubblico nell’Italia centro-settentrionale (secoli VI-XIV).
RicercheMarta Cristiani, Sogni privati e sogni pubblici: Macrobio e il platonismo politico: Antonello Mattone, « I sardi sono intelligenti?»: un dibattito del 1882 alla Société d ’Anthropologie di Parigi.
Note criticheLaurent Feller, Castelli dell’Italia Centrale; Cristina La Rocca Hudson, Città altomedioevali, storia e archeologia: John Day, Banca e moneta a Venezia fra Medioevo e Rinascimento: Gian Franco Gianotti, Le armi della metafora: Marchesi e il caso Gentile.
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