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Pagina99 Apprendere e fare musica a partire dalla percezione: idee e progetti didattici Alberto Odone Conservatorio di Como Il mondo musicale, nei recenti decenni, è molto cambiato. Il musicista tendenzialmente anche, insieme ad esso o dopo di esso. La musica si diffonde con un'ampiezza, una semplicità, e anche dei giri d'affari un tempo impensabili. Il musicista sente inevitabilmente liquefarsi la sua identità, sciolta in tanti ignoti rivoli, dai quali il profilo delle abilità faticosamente acquisite stenta a ricomporsi. L'opera musicale nell'epoca della sua riproducibilità tecnica Il musicista è in crisi? Certamente la musica non lo è. È in crisi probabilmente un certo musicista, quello il cui profilo professionale, il cui ruolo sociale si formano e procedono noncuranti dell'orizzonte in cui si collocano. Questa noncuranza, in particolar modo nel mondo musicale accademico, ufficiale, è parte di un vero e proprio paradigma, una forma di pensiero compatta e impenetrabile, la cornice entro la quale singoli e istituzioni musicali plasmano i loro comportamenti e prendono le loro decisioni, comportamenti e decisioni sempre discendenti dallo stesso modo di vedere il mondo, o forse meglio di allontanarne la minaccia. A questa minaccia si potrebbe riconoscere una data-simbolo, in realtà preceduta da decenni di trasformazioni epocali: nel 1966 Pierre Schaeffer pubblica il Traité des objets musicaux. Le pratiche musicali e le riflessioni che trovano espressione nel Traité costituiscono un punto di discontinuità storica, una sorta di nuova "seconda pratica" che dopo lungo tempo riconosce ufficialmente al rapporto degli occidentali con la musica una condizione radicalmente mutata. Ciò che qui ci interessa di questa nuova condizione non è tanto il presunto inesorabile affermarsi di linguaggi post-

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Apprendere e fare musica a partire dalla percezione: idee e progetti didattici

Alberto Odone

Conservatorio di Como Il mondo musicale, nei recenti decenni, è molto cambiato. Il musicista

tendenzialmente anche, insieme ad esso o dopo di esso. La musica si

diffonde con un'ampiezza, una semplicità, e anche dei giri d'affari un

tempo impensabili. Il musicista sente inevitabilmente liquefarsi la sua

identità, sciolta in tanti ignoti rivoli, dai quali il profilo delle abilità

faticosamente acquisite stenta a ricomporsi.

L'opera musicale nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

Il musicista è in crisi? Certamente la musica non lo è. È in crisi

probabilmente un certo musicista, quello il cui profilo professionale, il cui

ruolo sociale si formano e procedono noncuranti dell'orizzonte in cui si

collocano. Questa noncuranza, in particolar modo nel mondo musicale

accademico, ufficiale, è parte di un vero e proprio paradigma, una forma di

pensiero compatta e impenetrabile, la cornice entro la quale singoli e

istituzioni musicali plasmano i loro comportamenti e prendono le loro

decisioni, comportamenti e decisioni sempre discendenti dallo stesso

modo di vedere il mondo, o forse meglio di allontanarne la minaccia.

A questa minaccia si potrebbe riconoscere una data-simbolo, in realtà

preceduta da decenni di trasformazioni epocali: nel 1966 Pierre Schaeffer

pubblica il Traité des objets musicaux. Le pratiche musicali e le riflessioni che

trovano espressione nel Traité costituiscono un punto di discontinuità

storica, una sorta di nuova "seconda pratica" che dopo lungo tempo

riconosce ufficialmente al rapporto degli occidentali con la musica una

condizione radicalmente mutata. Ciò che qui ci interessa di questa nuova

condizione non è tanto il presunto inesorabile affermarsi di linguaggi post-

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tonali né la curiosità protosperimentale della musica concreta, bensì il

fenomeno onnipresente della riproducibilità musicale per mezzo della

registrazione. Così come l'uomo postcopernicano si sente privato della sua

posizione al centro dell'universo, il moderno musicista-esecutore si trova

spiazzato dal gigantesco ammontare delle possibilità di riproduzione

musicale della nostra epoca. Gli ottantotto tasti bianchi e neri del

pianoforte si fondono in quell'unico, onnipresente tasto con la scritta play.

L'opera musicale viaggia solitaria nell'iperspazio della percezione diffusa:

già separata dall'intenzione insufflatavi dal suo autore, essa è resa ora

autonoma anche dalla sua fonte sonora, dallo strumento musicale, e al di là

di esso dal palpito umano dell'esecutore. Dov'è finito il soggetto

performante? Che cosa resta dell'opera musicale live, nell'unicità del suo

risuonare qui ed ora?

Dobbiamo certamente riconoscere all'esecuzione dal vivo uno statuto

proprio, insostituibile, uno spessore esistenziale unico. Ciò non ci esime

però dall'affrontare il problema: l'età della riproducibilità tecnica dell'opera

musicale vanifica l'aura (Benjamin 2014) che circonda l'evento

performativo, non diversamente da come il programma televisivo diffonde

potentemente ma perciò stesso riduce, in parte svuota il mondo degli

affetti umani che intende rappresentare.

Il problema che ci riguarda in tutto ciò consiste nel fatto che l'ufficialità

musicale, la Scuola di Musica, indicando con quest'ultima espressione

l'insieme dei luoghi che si propongono di trasmettere il sapere e il saper

fare musicale in modo esplicito, prevalentemente in riferimento al genere

che chiamiamo "classico" ma non solo, questo mondo di grandi talenti e

tradizioni non mostra di avere elaborato questo strappo: il paradigma

tuttora vigente, se ci riferiamo alla trasmissione formale del sapere

musicale, gode di buona salute nell'ambiente in cui vige, ma è fermo a

un'epoca precedente, a un mondo che non esiste più, e mostra

drasticamente e da lungo tempo i segni dell'età. Le evidenti istanze per il

suo superamento sono ostinatamente ignorate, combattute, e la ricetta che

vi si cucina ogni giorno di nuovo è quella, non già antica ma solo vecchia,

del musicista esecutore puro. Eppure dall'antichità come dalle situazioni

odierne giunge l'immagine di un musicista dalle mille sfaccettature, tra le

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quali è forse possibile rintracciare i lineamenti che ne possano vivificare

nuovamente la personalità.

Musicisti notai

Vi è poi un corollario, non meno rilevante, attorno al teorema del

musicista esecutore: l'insegnamento strumentale centrato sulla "nota"

(Bartolini 2002). "Dare la nota" (cioè il suono per l'intonazione),

"conoscere le note" (cioè le sillabe do, re, mi...): è significativo che gli aspetti

sonori, così come quelli linguistici (sillabe) legati alla musica vengano tutti

ugualmente indicati (e confusi) con l'unico termine "nota". Il termine, il cui

significato proprio è piuttosto di ordine grafico ("segno scritto"), nella sua

omnicomprensività invade campi semantici che non gli competono.

Uguale invadenza si verifica già dalla prima lezione di strumento, la quale

consiste nell'individuare sulla tastiera la nota indicata sul pentagramma. Le

note sono poche, i valori sono lunghi, quindi - apparentemente - facili; ma

è fuori discussione che apprendere a suonare significhi tradurre le note in

gesti strumentali, e questo lo studente di musica farà fino all'ultimo giorno

della sua carriera di studente.

Sul versante della "teoria", se immaginiamo un percorso colorato e

brulicante di personaggi fantasiosi per avvicinare il fanciullo alla musica, lo

facciamo con l'unico intento di fargli apprendere a distinguere e

denominare le note sul pentagramma, ovvio prerequisito dello studio

strumentale. Se nel Conservatorio ha diritto di esistere qualcosa al di fuori

dell'insegnamento esecutivo strumentale, ciò consiste nell'insegnare lettura

delle note e ritmi: è il vademecum unico e indispensabile del musicista

esecutore puro.

Tutto ciò ha un prezzo: "Una volta interiorizzate, le convenzioni agiscono

come potenti occhiali da lettura. Le convenzioni notazionali, come le lenti

attraverso le quali guardiamo, sono trasparenti: se in qualche maniera non

risultano di ostacolo, noi non le notiamo. Allo stesso tempo, però, esse

focalizzano e plasmano così profondamente le nostre percezioni (...) che

ben difficilmente possiamo sfuggire alla loro influenza" (Bamberger 1991,

pp. 90-91).

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fissità, dell'impossibilità di riconsiderare il programma acquisito per

modificarlo70. È il classico caso dell'errore esecutivo reiterato o della "nota

sbagliata" di una melodia che ritorna sempre uguale a se stessa nella

memoria.

"La sfida principale per chi aspiri ad essere un esecutore esperto sta

nell'evitare l'arresto del processo di apprendimento legato all'automatismo

che si può osservare nella quotidiana reiterazione delle attività, procedendo

invece verso l'acquisizione di abilità cognitive a supporto di

apprendimento e miglioramento continui". "Gli studi empirici mostrano

come soggetti effettivamente esperti acquisiscano rappresentazioni mentali

che permettono loro di monitorare e confrontare in progress la loro

performance con gli obiettivi da loro desiderati (...) continuando così a

migliorare il loro controllo sull'esecuzione" (Ericsson 2003, pp. 113 e 109).

L'automatismo è necessario ma l'esecutore esperto deve imparare, dopo

averlo faticosamente costruito, in qualche modo a difendersene; il compito

è arduo e il successo non garantito.

Lo studio mnemonico da supporto grafico non implica per forza il

pericolo dell'automatismo "cieco"; tuttavia indirizzare l'attività di studio in

questa unica direzione rende questo pericolo molto concreto. Nascono da

questa rilevazione le differenti proposte di training mentale applicate alla

musica (Kloeppel 2006), ancora però poco diffuse e praticate in Italia.

Un'ulteriore debolezza rilevabile nelle situazioni di sviluppo

dell'automatismo è costituita dal fenomeno dell'interferenza che si manifesta

nei classici episodi di vuoto di memoria, sempre in agguato, insieme con le

diverse forme di blocco dovute alla paura derivante dall'esposizione al

pubblico. Le situazioni avvertite in qualsiasi modo come pericolose fanno

scattare meccanismi di difesa che ebbero origine in fasi dello sviluppo

filogenetico molto primitive, quando alle minacce naturali aveva senso

rispondere con un aumento della sudorazione o del battito cardiaco, in

concomitanza con un tendenziale blocco delle facoltà superiori, ritenute

meno utili nell'affrontare la minaccia (Covington 1995, pp. 27s.). Queste

70 "I processi psicologici rapidissimi sono obbligati (...) le risposte automatiche sono profondamente inintelligenti; dell'intera gamma delle opzioni (...) comportamentali che l'organismo ha a disposizione ne viene messo in gioco solo un sottoinsieme stereotipato. Ma quel che si risparmia indulgendo a questa sorta di stupidità, è non dover mettere in funzione la mente, e mettere in funzione la mente richiede tempo" (Fodor 1988, pp. 105-106).

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reazioni automatiche del nostro cervello creano situazioni di disagio

durante l'esecuzione, mentre l'insorgere nel pensiero consapevole di

sensazioni negative o di incertezze interferisce con i programmi motori

automatici mettendone in pericolo il fluire regolare, precedentemente

sperimentato senza problemi, invece, nella situazione più rassicurante dello

studio personale. Abilità strutturate "ad albero", cioè derivanti da

competenze superiori dalle quali discendono poi i comandi esecutivi, come

nel caso dell'improvvisazione, sarebbero sensibilmente meno sottoposte

all'interferenza. Nella produzione musicale di tipo estemporaneo il suono

non è generato da un rapporto 1:1 con i segni notazionali ma scaturisce dal

possesso profondo delle strutture e si genera ad albero a partire da queste.

L'estemporaneità esce in questo modo dallo schema stimolo-risposta che

minaccia quel tipo di esecuzione musicale.

Seconda incognita:

effetti della notazione sul gesto strumentale

"Nella prassi didattica attuale, l'esplorazione del gesto strumentale è

mediata dalla scrittura (...) condizionando pesantemente tutto il percorso di

apprendimento sonoro. (...) Si finisce per suonare ciò che è più facile da

scrivere: la gradualità grafica delimita, impone e deforma la gradualità

motoria." "La scrittura esercita sul movimento anche un'interferenza di

tipo temporale. Il tempo della lettura, nel principiante e in parte anche

nell'esecutore esperto, è radicalmente diverso dal tempo del gesto

esecutivo. (...) La notazione musicale rallenta il gesto, lo trattiene, lo frena"

(Bartolini pp. 49 e 51).

Se la proposta di Schaeffer sulla percezione raggruppante in oggetti sonori

evidenzia l'esigenza di elaborazione del contributo gestaltico e le rilevazioni

sull'importanza di accompagnare lo studio strumentale con il training

mentale e la consapevolezza dei processi della mente implicati nel fare

musica spingono per l'assimilazione degli apporti della psicologia cognitiva,

sono ora le neuroscienze a evidenziare il limite dell'approccio al gesto

strumentale procedente dalla notazione. In particolare, questa ulteriore

debolezza di impianto non raccoglie l'evidenza sperimentale per cui il

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gesto umano è plasmato al suo insorgere dall'obiettivo che lo suscita,

dall'intenzione finale complessiva che lo informa.

Lo strumento funge da "polo d'atto virtuale, che per la sua natura relazionale

definisce ed è insieme definito dal pattern motorio che viene ad attivare"

(Rizzolatti, Sinigaglia 2006, p. 47); lo spazio popolato di oggetti non è che

un campo potenziale di azione. Il movimento si origina e si plasma in

relazione ai progetti di azione che il soggetto concepisce all'interno del suo

spazio. Il gesto dipende dunque fortemente da questi progetti. Il gesto

strumentale si crea e si modifica fondamentalmente in relazione all'effetto

sonoro musicale inteso dall'esecutore, in relazione non solo alla qualità del

suono, ma prima ancora alla frase musicale intesa, prevista, progettata e

messa in atto dal sistema motorio. La possibilità di anticipare il risultato

sonoro del gesto strumentale è ciò che all'origine plasma questo gesto,

mentre tutt'altra situazione è quella in cui il gesto è diretto dallo scritto e il

suono giunge come risultato successivo.

Troppo a lungo abbiamo pensato al sistema motorio come a un

dispositivo esecutore di gesti concepiti altrove, da un pensiero separato,

disincarnato, direttivo. Che ne è dell'idea didattica tradizionale di "postura"

e di "tecnica"a fronte del fatto che "la maggior parte dei neuroni [dell'area

motoria del cervello] non codifica singoli movimenti, bensì atti motori, cioè

movimenti coordinati da un fine specifico" (ibid. p. 25), rispetto ai quali, in

certi contesti, risulta addirittura indifferente la parte del corpo attraverso la

quale l'azione concretamente si compie.

Il rapporto con lo strumento si ridefinisce, su questa base, attraverso il

concetto di affordance (ibid. p. 35), la relazione con l'oggetto costituita dalle

potenzialità d'azione per le quali l'oggetto si presenta a noi. L'oggetto post-

gestaltico non si configura semplicemente quindi come costellazione di

tratti percettivi ben compaginati tra loro ma come l'insieme delle

potenzialità di azione che si dischiudono nel nostro "andare incontro"

(afford) all'oggetto stesso. La mente concepisce un obiettivo sonoro, ed è

questo obiettivo anticipato dalla mente a decidere le qualità del gesto,

reagendo nel contempo all'insieme delle possibilità motorie che

scaturiscono dall'andare incontro allo strumento musicale. I meccanismi di

feedback, poi, selezionano i gesti e le posizioni rivelatesi più efficaci rispetto

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all'evento sonoro inteso dal soggetto, creando il nostro "vocabolario

gestuale".

Terza incognita: caducità dei programmi motori

Pochi giorni dopo l'esame di diploma strumentale, complici forse anche la

meritata vacanza, la tanto attesa distensione, il prevedibile calo di una

tensione non più sostenibile... i pezzi del programma già non funzionano

più, incespicano, non reggono gli andamenti che la serietà dello studio era

riuscita ad ottenere. Mantenere un programma d'esame o di concerto al

livello di performance richiesto da quel tipo di esecuzione richiede studio

costante, quotidiano, prolungato. Non vi sono evidenze a favore del ruolo

che, nella "riuscita" di un musicista esecutore, giocano le caratteristiche

innate, il talento (Ericsson p. 104). È invece fuori discussione la rilevanza

centrale delle decine di migliaia di ore spese allo strumento durante il

percorso di formazione strumentale e di fronte all'obiettivo della

perfomance pubblica (Ibid. p. 114). Un tale livello di impegno fisico e

psichico non è però sempre sostenibile, per varie ragioni: temperamento,

attività musicali di altro genere, impegni familiari, la semplice

constatazione che il sostegno costante di una tensione di questo tipo per

anni, anche dopo il raggiungimento del titolo di studio musicale, non si

addice a una persona, a molte, alla maggior parte delle persone che si

dedicano pure con serietà alla pratica strumentale. La conseguenza di ciò,

per l'individuo, è lo sgretolamento di un castello costruito con grande

fatica e dedizione. Molte volte giunge persino ad essere una sorta di

"analfabetismo di ritorno": non più sostenuta da un'estesa pratica

quotidiana, l'abilità strumentale di tipo esecutivo-mnemonico-per-lettura

svanisce, lasciando il soggetto in una triste condizione di estraneità nei

confronti dello strumento. Ciò perché, al venir meno di questo tipo di

abilità, nessun'altra resta in sua vece a mantenere vivo e concreto il

rapporto con lo strumento. L'abilità strumentale, si potrebbe dire, è ciò

che resta quando si è dimenticato tutto.

La domanda allora si ripresenta: vale la pena dedicare un simile capitale di

energie ad abilità che, salvo casi particolari, sono destinate a decadere,

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mettendo allo scoperto un approccio strumentale troppo unilaterale e

poco realistico?

Non tutte le abilità però si caratterizzano per lo stesso grado di caducità.

Ancora una volta, quelle costruite ad albero, a partire dalle competenze più

profonde, restano nel tempo, consentendo al professionista di adattarsi alle

diverse esigenze del lavoro musicale e all'amatore di continuare a trovare il

gusto della musica agìta in prima persona rientrando a casa stanco la sera.

Quarta incognita:

scarsa rilevanza del feedback auditivo

I fattori in gioco nelle diverse situazioni in cui si fa musica non sono

sempre gli stessi; i processi, le facoltà, le dimensioni dell'attività umana

coinvolte cambiano da un contesto all'altro. Gli strumentisti hanno un

profilo musicale - se non addirittura psicologico - diverso a seconda dello

strumento che suonano. Il pianista si forma più facilmente una percezione

"sinfonica" della musica; tuttavia si trova, almeno in una certa misura, il

suono già fatto. Un violinista deve ottenere ogni suono senza poterlo dare

in nessun modo per scontato. Un cantante, almeno per la recente

tradizione europea, deve addirittura passare anni a crearsi lo strumento. Il

fare musica, anche sul versante dei processi coinvolti, non è uguale in ogni

situazione, per ogni repertorio. Ciò significa che alcuni contesti, alcuni tipi

di attività stimolano il soggetto sotto alcuni profili, lasciandone altri in

ombra.

L'improvvisazione jazzistica può certamente essere il risultato anche

dell'acquisizione di cliché stereotipati, di una certa facilità digitale sullo

strumento, di aleatorietà; sul versante dei processi in atto però, chi

improvvisa difficilmente potrà escludere dal suo orizzonte attentivo gli

eventi sonori che lo circondano, gli stimoli sonori che derivano dalla sua

produzione sonora come da quella di chi sta suonando con lui, la necessità

di anticipare nell'immaginazione il seguito del discorso sonoro in atto in

quel momento. Così come in una lettura a prima vista efficace non posso

suonare ciò che sto leggendo ma devo leggere in anticipo ciò che sto per

suonare, devo prevedere, preparare il cammino, così nell'improvvisazione

non posso non modellare la frase in base a ciò che il momento attuale

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implica come immediato futuro, al passo successivo del percorso, insieme

a ciò che coloro che stanno suonando con me mi inviano come

riferimento sonoro imprescindibile. Tutto ciò significa inevitabilmente

ascolto, interazione, attivazione di contesti sonori nell'immaginazione.

Indipendentemente dal livello artistico di una performance, che avvenga

nei templi del jazz mondiale come nella cantina di casa, questa attività

genera nella struttura del mio orizzonte attentivo, in fase di esecuzione

musicale, l'abitudine a rispondere adattivamente al contesto, processo

fondamentale, alla base di ciò che chiamiamo comunemente "orecchio

musicale". Quest'ultimo, si capirà, va molto al di là della semplice

ricognizione di suoni, intervalli o scale; "Il movimento intenzionale che

l'improvvisatore o l'improvvisatrice compiono - sia mentalmente che

fisicamente - quando 'scelgono un suono', è la componente principale

dell'improvvisazione come attività. Il modo con cui un suono funziona e

acquisisce senso attraverso molteplici relazioni musicali e motorie, deve

essere parte della conoscenza, interiorizzata e assimilata, dell'improvvisatore"

(Gustavsen 2010, p. 13). Deve esserlo, non può non esserlo, e questo

costituisce un valore non già "aggiunto" ma intrinseco al profilo del

musicista, che sceglie il suono in base a un'idea e a un obiettivo (che può

essere anche suggerito da una partitura) e il gesto strumentale in relazione

al suono inteso e scelto.

Che succede allora? "Tutti quanti devon fare il jazz"? Evidentemente, al di là

della augurabile presenza di un pluralismo di generi all'interno di ogni

percorso formativo musicale, la risposta non è questa.

Ciò che dobbiamo rilevare, piuttosto, è che il paradigma "esecuzione-

mnemonica-per-lettura", modello unico dei percorsi formativi "classici",

evidenzia un'altra grave incognita. Il suo effettuarsi, in origine ed

esclusivamente, a partire dalla notazione non significa obbligatoriamente

l'esclusione dell'ascolto dal processo esecutivo ma, proprio perché modello

di apprendimento applicato all'origine, comporta il fortissimo rischio, la

cui effettività conosciamo bene nei fatti, di un cortocircuito occhio-dito

che esclude l'ascolto reattivo dal quadro delle abilità in gioco nell'atto

esecutivo. La rilevanza del feedback acustico può essere certamente un

raccomandabile consiglio all'esecutore, ma non è implicata strutturalmente in

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quel processo, se non, in benevola ipotesi, nel momento in cui debba

controllare la correttezza materiale dell'esecuzione. La "esecuzione-

mnemonica-per-lettura" esclude per ciò stesso l'ascolto? No. La sua

esclusività crea però di fatto un percorso formativo incompleto, nel quale la

rilevanza del feedback è solo un'eventualità, e il musicista si struttura a

prescindere da quella.

L'improvvisazione jazzistica è una risposta a questa incognita esattamente

come possono esserlo, in modi diversi ma convergenti, la pratica

dell'accompagnamento, il contesto esecutivo cameristico ("uno per parte"),

l'improvvisazione non jazzistica anche senza fini di performance pubblica,

come nel caso del fecondissimo filone, tornato recentemente in auge nel

mondo musicologico ma non altrettanto in quello didattico strumentale,

della pratica del partimento avente origine nella scuola napoletana del '700

(Gjerdingen 2007, Sanguinetti 2012). Lo sono due ulteriori istanze,

avanzate in questo caso particolarmente dal mondo musicale popular: il

suonare a orecchio e l'apprendere brani musicali non dalla lettura ma

attraverso ascolto e imitazione (Green 2002)71.

Quinta incognita:

giovani che vanno all'estero

Gli aspetti sociopsicologici che potrebbero entrare a far parte di questo

elenco di incognite sono molteplici. Basterebbe accennare al tema della

motivazione, grande sconosciuto dei percorsi didattici legati al paradigma

musicale vigente, alla povertà antropologica della esecuzione solitaria,

71 Più volte ci siamo soffermati su nuclei concettuali e pratiche propri di generi diversi da quello che chiamiamo "classico". Come già accennato, ciò non costituisce in nessun modo un invito a cambiare casacca né stabilisce alcun tipo di supremazia o presunta maggiore attualità di un genere sugli altri. Tali riferimenti sono piuttosto parte dell'idea di una "lunga via dei generi musicali": ciascuno di essi rappresenta, in modo non unico ma emblematico, una delle diverse dimensioni antropologiche del fare musica. È opportuno quindi, in questo "paragone dei generi", non già stabilire un vincitore ma fare in modo che anche nella specificità di un singolo genere musicale, e in misura diversa, siano presenti tendenzialmente tutte le dimensioni che l'insieme dei generi indica come antropologicamente rilevanti.

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tuttora modello unico dello studio e della lezione strumentale "classici"

(Sawyer 2010).

È tuttavia inevitabile almeno un accenno al tema della employability, delle

prospettive non già di occupazione tout-court ma di orientamento e

adattamento dei percorsi formativi ai profili professionali reali.

Giovani che vanno all'estero (Lattes, Di Cecca 2013) è l'interessante collezione

di 32 interviste raccolte presso giovani musicisti italiani neodiplomati,

aderenti all'iniziativa "Working With Music" che grazie al Progetto

Europeo Leonardo da Vinci offre l'opportunità di periodi di lavoro

musicale all'estero.

Alle prese con un vero lavoro musicale, nasce ovviamente negli interessati

la questione dell'adeguatezza della propria preparazione. La questione vera,

fraintesa in qualche caso anche dagli stessi esperti che commentano le

interviste nella sezione "Focus" dello stesso volume, non riguarda tanto il

grado generale di abilità strumentale o vocale raggiunto dallo studente che

conclude un itinerario di studi in un Conservatorio italiano ma quanto

questa formazione l'abbia messo in grado di affrontare le esigenze reali

della professione reale. Possiamo anche rinunciare all'idea che un percorso

formativo postsecondario sia tagliato su misura per la professione;

sappiamo che anche per le Università ciò avviene raramente. Ciò che

emerge molto lucidamente da numerosi interventi è però l'esigenza almeno

di una formazione diversificata, radicata in una conoscenza sufficientemente

profonda da consentire la "gestione" dei vari aspetti del fare musica nei più

diversi contesti. "Ho notato che la loro formazione è 'a tutto tondo'" (p.

57); "In Francia ho notato che le basi della formazione di un pianista sono

più solide e ampie, curano la preparazione in modo che il pianista sia in

grado di spaziare su qualsiasi repertorio, sappia improvvisare, abbia una

conoscenza approfondita dell'armonia" (p. 67). Tutti i pianisti partecipanti

all'iniziativa hanno lavorato in realtà come accompagnatori, attività per la

quale non avevano ricevuto formazione: "Ho conosciuto molti pianisti che

(...) hanno iniziato a dedicarsi all'accompagnamento (...) ma hanno

incontrato molte difficoltà, come se alcune aree del loro cervello fossero

rimaste 'atrofizzate'" (p. 21. Si vedano anche le pp. 40, 52, 63, 76).

L'obiettivo della specializzazione potrà forse spostarsi dal primo al

secondo ciclo accademico, da questo a futuri eventuali "Master", ma lo

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sviluppo di quella rosa di attitudini necessaria per far fronte all'attività

musicale secondo quella multiformità che si incontra nella vita reale deve

essere la scelta qualificante di un percorso formativo che voglia avere un

domani.

Emerge anche, insospettabilmente, la domanda per una solida formazione

musicale generale e teoricomusicale (interviste 13, 22, 25, 30, 32), la cui carenza è

vissuta come una decurtazione delle possibilità di applicare le abilità

musicali in contesti diversi. La pratica scopre un estremo bisogno di teoria,

in contraddizione con un altro dei taciti assunti del nostro paradigma: la

rigida separazione tra teoria e prassi che vede la prima come una

sovrastruttura culturale, un lusso intellettuale che minaccia e sottrae spazi

alla presunta esclusiva utilità del fare esecutivo.

Si potrebbe pensare a questi limiti come retaggi dei vecchi programmi regi,

ma ancora, nella riforma degli studi musicali, si propone di studiare

genericamente e monoliticamente il flauto, il clarinetto, il pianoforte ecc. senza

specifiche, senza nessun tentativo di immaginare, se non un profilo

professionale preciso, almeno una formazione polivalente, un tipo di

competenza in grado di declinarsi in una molteplicità di situazioni, salvo

specializzazioni successive. La formazione offerta dagli attuali trienni

accademici non è generale, premessa per una specializzazione offerta poi

dai bienni; è piuttosto una formazione specifica ma disegnata secondo il

profilo di un professionista della musica che, come tale, in solido, non

esiste più.

Considerate le incognite che il paradigma presenta, torna insistente

l'interrogativo: vale la pena di indirizzare le energie di anni di lavoro e di

intere istituzioni in questa unica direzione?

La svolta percettiva

Che cosa ha a che fare il complesso delle incognite presentate dal

paradigma "esecuzione-mnemonica-per-lettura" con l'annunciato tema

della centralità della percezione?

Molti aspetti di questa relazione problematica già sono emersi: qualità e

forma del gesto musicale dipendono da ciò che immagino di voler

produrre, cioè riesco ad anticipare nella mia audizione interiore. Quelle che

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lo studente in modo colorito chiama "parti atrofizzate del cervello"

derivano probabilmente proprio dalla segnalata scarsa rilevanza del

feedback auditivo nelle operazioni messe in atto dal paradigma esecutivo

vigente: "La vista tende a dominare e a inibire l'elaborazione di segnali

provenienti da altre fonti (...). A un bambino rimangono dunque poche

risorse cognitive da dedicare alla manipolazione dello strumento e

all'ascolto di ciò che viene suonato" (Tafuri, McPherson 2007, pp. 22-23).

Si nasce come musicisti dipendenti dalla notazione e quando, anche molti

anni dopo l'avvio degli studi, ci si affaccia alle necessità di una pratica

strumentale più completa e multiforme, è già troppo tardi.

L'educazione dell'orecchio o Ear Training, gode ultimamente di qualche

interesse, forse dovuto all'inserimento, sia pur sostanzialmente opzionale,

nei percorsi accademici dei Conservatori, forse all'aura di modernità e di

nordeuropeismo che lo circonda (la tradizione che lo riguarda proviene

soprattutto da Svezia e Germania), forse al senso di liberazione che può

cogliere una certa parte dei docenti nell'uscire almeno formalmente dalle

secche della misera tradizione didattica italiana del '900 in tema di

formazione auditiva. Più spesso, in realtà, l'Ear Training è visto, dai suoi

detrattori come dai suoi promotori, come un masso erratico all'interno del

curriculum musicale, una sorta di disciplina iniziatica, praticata da soggetti

che si impongono di usare l'ascolto puro quasi come una forma di

ascetismo, quando sarebbe molto più semplice aprire la partitura e...

Se si trattasse di rivendicare spazi per una disciplina, la battaglia sarebbe

priva di senso in partenza; tanto più, come si è osservato, che nel

momento in cui questa disciplina si applica in modo estrinseco a un

curriculum già completamente strutturato in base alla relazione esclusiva

segno-gesto strumentale, senza che l'audizione sia stata facilitata e

stimolata da un diverso modo di strutturare la pratica musicale pregressa,

per di più ad una età dove le possibilità di mutare i processi mentali sono

drasticamente ridotte, il tutto lascia il tempo che trova. "Le lezioni di

pianoforte (...) molto spesso nuocciono alle facoltà uditive e ritmiche; il

senso tattile si sviluppa a scapito di quello uditivo. (...). Si dia loro pure

l’occasione di strimpellare sulla tastiera, di cercare melodie, di improvvisare

successioni di accordi, ma non si faccia loro studiare dei pezzi!" (Jaques-

Dalcroze 2008, p. 46)‏.

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porte di accesso sono molteplici, ciascuna incardinandosi su una

dimensione fondamentale della persona, rappresentando così, nel loro

complesso, un disegno tridimensionale dell'uomo musicale, da differenti

prospettive.

Così Dalcroze, con il coinvolgimento dell'essere complessivo della

persona: il corpo nel suo sbilanciarsi e riequilibrarsi attraverso lo spazio fa

propri i dinamismi della musica, di modo che, come auspicava l'allora

Direttore del Conservatorio di Milano, Giorgio Federico Ghedini, nel

1951, "la musica entri nel sangue e non si limiti a circolare all'esterno" (Sità

2002, p. 244). Il canto popolare, in Kodàly, come espressione antropologica

fondamentale, come lingua madre musicale (nel contesto di allora) per un

fare musica in grado di attingere a ciò che ci già profondamente ci

appartiene; così le melodie prototipiche che Bamberger (1991) chiama

Simple, vicine nella loro struttura alla nostra fondamentale intuizione della

"buona forma" (p. 192). Il linguaggio verbale, in Gordon, come modello per

un apprendimento musicale che abbia dinamismi simili a quelli della lingua

madre, mettendo in condizione l'espressione musicale di fluire liberamente

e non come frutto di costruzione artificiosa.

Una nuova carta delle abilità musicali

"Quante persone conosciamo che sanno suonare una melodia allo

strumento ma non sono in grado di cantare quello che hanno suonato; di

suonare una variazione della melodia originale; di suonare la melodia in

un'altra tonalità, utilizzando un modo diverso, un metro diverso; di

suonare la melodia con una diteggiatura differente; o di esemplificare frasi

della melodia attraverso i movimenti del corpo?" (Gordon 2007, p.11).

Sono solo esempi, questi, di ciò che possiamo chiamare competenza musicale,

cioè possesso profondo, e quindi variamente applicabile, delle strutture

della musica. L'idea di abilità musicale si trasforma radicalmente: quanto

sono lontane le abilità appena citate dal funambolismo della tecnica

trascendentale... eppure in quelle abilità si mostra quanto la musica è scesa

nel profondo, quanto è diventata qualcosa di tanto naturale quanto è per

noi il linguaggio, quanto a fondo possediamo la musica da poterla

ritradurre in contesti operativi vari e secondo finalità diverse.

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È significativo che certi aspetti della conoscenza musicale siano

tradizionalmente trascurati perché ridotti al loro aspetto semiografico: per

riconoscere una tonalità si guarda alle alterazioni; per capire un metro è

sufficiente la segnatura in chiave. Tonalità e metro, considerati come il

contesto percettivo musicale nel quale mi trovo a operare, sono esempi

significativi della natura della conoscenza musicale: a ben poco vale nei

loro confronti una definizione tecnica, una "regola pratica" come quelle

che popolano i nostri "sunti di teoria". Ambientarsi consapevolmente,

improvvisare, o anche solo riconoscere una tonalità o un metro significa

aver elaborato - non per forza ancora consapevolmente - un vissuto

musicale già relativamente esteso, attraverso esperienze adeguate, per

mezzo delle strutture fondamentali del proprio essere, innanzitutto

attraverso il movimento del corpo.

Dobbiamo di conseguenza ridisegnare la carta delle abilità musicali che sta alla

base della nostra idea di musica e di apprendimento, all'interno di uno slow-

learning dove la qualità dell’esperienza musicale venga prima di

un’imprecisata tensione al superamento di difficoltà. “Ci fu un tempo nel

quale era cosa ammirevole essere poeti amateur o scienziati dilettanti, in

quanto ciò stava a significare che la qualità della vita poteva essere

migliorata dall’intraprendere tali attività. Progressivamente, invece, la

considerazione del comportamento esterno ha prevalso sulla

valorizzazione degli stati soggettivi; ciò che si ammira è il successo, il

risultato, la qualità della performance piuttosto che quella dell’esperienza”

(Csikszentmihalyi 1990, p. 140). Una carta riscritta a partire dalla

irrinunciabile positività del vissuto esperienziale, fondata sulla riscoperta di

requisiti di abilità realmente centrali e genuini (il già citato senso del

contesto musicale, l’intonazione, la coordinazione alla pulsazione

esterna...), sicuri che una carta così fatta farà sicuramente bene anche alla

stessa performance.

A questi processi fondamentali, espressione dell'essere musicale della

persona, va riservato uno spazio apposito nei percorsi di apprendimento,

prima e durante la pratica strumentale; va evitato che questa pratica li

ostacoli attraverso il cortocircuito occhio-dito. In questo quadro,

l'esecuzione con finalità spettacolari, concertistiche, può avere certamente

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senso, ma deve essere l'eccezione, non l'obiettivo normale, e illusorio, di

un intero sistema formativo musicale.

Un'esperienza

A fronte di un compito che appare epocale, ciò che viene riportato di

seguito non può certo proporsi tout-court come una soluzione; è piuttosto

un'esperienza, un momento di riflessione tendenzialmente sistematica, con

la possibilità di attuazione di un percorso formativo musicale caratterizzato

dal recupero di valori da molto tempo sopiti. È sicuramente il risultato di

un periodo felice di progettazione ed elaborazione collettiva, una sorta di

piccola costituente dal profilo locale e limitato, ma le cui linee di pensiero

non escludono riferimenti di respiro più ampio. Si tratta del progetto di

strutturazione dei Corsi Preaccademici del Conservatorio "G. Verdi" di

Como72. L'esperienza ha conosciuto una fase progettuale vera e propria, a

cura di una commissione di docenti interni73 , una fase di discussione,

modifica e approvazione da parte degli organi preposti e una fase, ancora

in atto, di realizzazione. Linee generali di riferimento del progetto possono

essere rinvenute nel documento appositamente elaborato dall'Associazione

Europea dei Conservatori per la fascia di formazione musicale

preaccademica (AEC 2007).

La struttura generale dei corsi74 prevede inizialmente che la formazione si

svolga a partire dalla distinzione tra "Discipline della produzione musicale"

72 Sullo sfondo di questo lavoro di progettazione resta la questione della pertinenza ad un'istituzione postsecondaria come il Conservatorio, di corsi che si collocano in un grado di studi precedente, proprio delle Scuole Medie a Indirizzo Musicale, del Liceo Musicale o delle Scuole Musicali Civiche o private sul territorio. In realtà il progetto è nato dall'esigenza di strutturare un percorso formativo che potesse sì realizzarsi all'interno del Conservatorio ma anche progressivamente costituire un punto di riferimento per organismi esterni, con la possibilità per chiunque di accedere a certificazioni di abilità, una "base di dialogo" dunque con chi si occupa di formazione musicale, e una indicazione di percorso per l'ingresso alla formazione accademica del Conservatorio. 73 La Commissione, istituita dal Direttore M° Bruno Foti durante l'A.A. 2010-2011, era costituita dai colleghi Fulvio Brambilla, Antonio Grande e Luca Marconi, oltre che dal sottoscritto. 74 Del progetto ufficialmente approvato sono visionabili la struttura generale dei corsi e i programmi di esame dei diversi livelli sul sito www.conservatoriocomo.it/didattica, oppure, per la parte di Formazione Musicale di Base, su www.albertoodone.it. Il corso si struttura in tre periodi, conclusi ciascuno da un esame di certificazione, al quale possono iscriversi

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strumentale e vocale e "Discipline per lo sviluppo della musicalità". Sotto

quest'ultima dizione si sono volute radunare alcune delle discipline un

tempo identificate come "complementari" (Solfeggio e Pianoforte

Complementare, ora "Formazione Musicale alla Tastiera") di cui si è

voluto sottolineare il contributo allo sviluppo complessivo delle

competenze musicali della persona, accanto al semplice supporto tecnico

alla formazione strumentale. Il corso di Solfeggio, distribuito elasticamente

su tutti e tre i periodi e profondamente rinnovato nei contenuti, dopo una

prima proposta che lo individuava come "Musicalità" (erede

dell'anglosassone corso di "Musicianship") ha assunto la denominazione

"Formazione Musicale di Base" (di seguito: FMB). A queste discipline si

aggiunge il corso opzionale di "Creatività musicale". Il secondo periodo dà

impulso alle attività di insieme vocali e strumentali, mentre il terzo prevede

anche l'ingresso di discipline dall'indole più marcatamente cognitiva

(Teoria Musicale e Analisi, Storia della Musica, Informatica Musicale).

Riporto di seguito alcuni punti qualificanti che hanno orientato il lavoro di

progettazione75.

Diversificazione delle abilità

Immaginare, da un giorno all'altro, una rivoluzione copernicana

nell'impostazione della formazione strumentale sarebbe stato utopico e

controproducente. Si è piuttosto pensato di ampliare lo spazio di possibilità

a disposizione del docente, delineando proposte didattiche molteplici, non

obbligatorie bensì elettive. Il docente trova così la possibilità - non

l'obbligo - di diversificare l'offerta formativa, indirizzandola non nella

prospettiva di una prematura specializzazione ma verso un quadro di

anche studenti esterni, necessario per passare alla fase successiva di ciascun periodo. È prevista la possibilità di frequentare corsi o sostenere certificazioni di livello diverso tra discipline strumentali e non strumentali (è possibile, ad esempio, frequentare il secondo periodo di strumento e contemporaneamente il primo di Formazione Musicale di Base, oppure viceversa, con la sfasatura massima di un periodo). Corsi e certificazioni sono propedeutici alla Prova di Ammissione ai Trienni Accademici che tuttavia può essere sostenuta senza che sia richiesto alcun titolo previo, a parte ovviamente il Diploma di Maturità. 75 La presente relazione sui lavori della Commissione è frutto dell'elaborazione personale e delle opinioni dello scrivente, e non è stata rivista o approvata né dai colleghi componenti la Commissione, né da alcun organo ufficiale del Conservatorio di Como.

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competenze ragionevolmente diversificato, così da venire incontro prima

di tutto alle inclinazioni del singolo studente e costituire eventualmente la

base per un futuro reimpiego delle abilità in prospettiva professionale. Il

programma d'esame, coerentemente con l'itinerario corsuale, prevede

quindi due settori di lavoro e di verifica che alla fine del secondo periodo

di studio preaccademico risultano così articolati:

Settore 1: Competenze relative a:

→ Prova esecutiva, secondo quanto definito nelle distinte tabelle di

ciascuno strumento o (canto).

Settore 2: Competenze relative ad almeno due di questi ambiti:

• Esecuzione d’insieme

• Improvvisazione

• Conoscenza e Pratica del repertorio scelto

• Pratica di repertori relativi ad altri generi musicali

• Arrangiamento e composizione per lo strumento

• Lettura a prima vista

• Strategie di studio dello strumento

• Accompagnamento per lettura e/o estemporaneo

Non è questo il luogo per scendere nel dettaglio di ciascun sottosettore. È

evidente, inoltre, che l'enunciazione di aree di abilità non dice ancora nulla

sui percorsi didattici e sulle metodologie che ne possono sostanziare

l'itinerario. Si tratta tuttavia di una prima apertura di spazi didattici concreti

nella direzione dello scioglimento della concezione monolitica della

formazione musicale.

È altrettanto evidente come tale prospettiva richieda l'avvio di percorsi di

aggiornamento e sperimentazione da parte dei docenti che se ne assumono

l'onere. Altrettanto probabile è la necessità di rinunciare all'idea del Maestro

Unico, così cara alla tradizione conservatoriale, nella direzione anche di

un'auspicabile scambio di competenze e professionalità con il territorio.

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Interplay

Altra idea portante è la considerazione del fare musica insieme come

connaturale all'attività musicale stessa e quindi alla formazione musicale

(Sawyer 2010). La novità non è assoluta, ovviamente. Tuttavia il

conservatorio regio riserva alla musica d'insieme uno spazio eventuale ed

accessorio: gli ensemble erano in origine a discrezione del Direttore e si

sono strutturati in seguito come corsi privi di una valutazione finale: corsi

di pratica strumentale, cioè, tendenzialmente privi di un apprezzabile

apporto di conoscenza.

L'idea originaria della commissione comasca, attenta anche a non

sovradimensionare le richieste nei confronti degli studenti specialmente

nelle prime fasi del percorso, prevedeva l'iniziale integrazione del momento

esecutivo di insieme nella lezione di strumento (il progetto originario

parlava di "Strumento con Musica d'Insieme", senza escludere in seguito

gli ensemble), esplicitando così da una parte la possibilità estremamente

pratica dell'interazione tra allievo e docente o tra allievi frequentanti lezioni

contigue, in piccoli gruppi ecc. Constatando nel contempo, d'altra parte,

l'esistenza di una differenza radicale tra la situazione di ensemble (a

"sezioni") ed invece l'esecuzione "uno per parte" (letta, eseguita per

imitazione o improvvisata che sia...), anche a partire dalle primissime fasi

della formazione. "Strumento con musica d'insieme" non passò il vaglio

del Collegio Docenti (nella struttura dei corsi è rimasto semplicemente

"Strumento") che richiese con forza la separazione tra la lezione

strumentale, intesa come strettamente individuale, e il momento d'insieme,

previsto ufficialmente solo a partire dal secondo periodo.

La grande fecondità musicale del contesto "uno per voce", specialmente

nella tradizione del duo, vocale o strumentale che sia, è confluita invece nel

percorso di "Formazione Musicale di Base" (Lettura intonata, prova b).

Estemporaneità

Sottrarre il paradigma "esecuzione-mnemonica-per-lettura" alla sua

intangibile unicità significa sicuramente anche introdurre, tra le modalità di

esecuzione musicale e nell'approccio complessivo alla musica,

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l'estemporaneità. Oltre al già citato corso di Creatività Musicale,

l'improvvisazione fa il suo ingresso ufficiale nel secondo settore delle

competenze strumentali (vedi sopra) e nel programma di FMB. Essa non

intende ereditare la qualità essenzialmente performativa e spettacolare

propria dell'esecuzione tradizionale ma applicarsi alla pratica dello

strumento, studio tecnico incluso, e alle varie forme di accompagnamento.

Didattica esplicita della percezione

La percezione musicale riceve un'attenzione specifica nel già citato corso di

FMB e in quello di Ear Training previsto in due annualità all'interno del

Triennio Accademico.

Per quanto riguarda la Formazione Musicale di Base, si tratta del settore

che attualmente vede la piena attuazione dei suoi programmi e un afflusso

già molto consistente di candidati esterni alle prove di certificazione,

nonostante la differenza con i percorsi tradizionali sia molto evidente,

segno che il lavoro di formazione secondo le linee del progetto

preaccademico si diffonde anche all'interno delle Scuole di Musica, e che,

al di là del presunto fattore "difficoltà", è effettivo l'interesse per una

proposta formativa qualificata dalla novità, in ambito italiano, delle sue

linee metodologiche e dal suo contenuto musicale. Ciò è stato preceduto,

sul versante interno, da oltre un decennio di sperimentazione su

programmi, metodologie e materiali nel quadro del previgente corso di

"Solfeggio Sperimentale"; sul versante del rapporto con le Scuole, sembra

anche dare i suoi frutti il lavoro di aggiornamento e confronto con i

docenti di materie teoriche mediante corsi sia all'interno che all'esterno del

Conservatorio, anche nel quadro delle Convenzioni di collaborazione

didattica stipulate con le Scuole stesse.

Invito il lettore a prendere visione direttamente della struttura delle

certificazioni, della bibliografia (in fase di costruzione) e degli esempi

presenti sul sito web del Conservatorio.

In estrema sintesi, tra le linee qualificanti della proposta aventi riscontro

nella struttura delle certificazioni, possiamo ricordare l'importanza della

risonanza auditiva estemporanea di fronte all'evento musicale anche a

prescindere dalla notazione (FMB, prova 1a), la globalità dell'esperienza di

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ascolto e trascrizione (1b) e la sua applicazione in contesti dove sia

importante la consapevolezza del rapporto segno/suono (1c); il fare

musica in contesti semplici ma ricchi di spessore formativo, in rapporto

stretto con le pratiche musicali più comuni, come il già citato duo (2b),

l'auto-accompagnamento elementare alla tastiera (2c, periodi II e III),

l'improvvisazione melodica o dell'accompagnamento di una melodia

(prova 5). La ritmica come esperienza di movimento e coordinazione

motoria (3a) in collegamento con il mondo dei più diversi repertori (3b).

La teoria come riflessione sull'esperienza musicale (4), l'utilizzo sistematico

di materiali popolari o d'autore.

Se per il percorso di FMB si è trattato di ripensare a fondo l'offerta di

formazione rivolta allo sviluppo della musicalità, per il corso di Ear Training

Accademico è stato necessario progettare un itinerario sostanzialmente in

assenza di punti di riferimento nella tradizione italiana 76 . La proposta

accademica si presenta in parte come continuazione del percorso

precedente, approfondendo gli aspetti legati al riconoscimento auditivo e

alla trascrizione, secondo molteplici attività applicate al repertorio d'autore,

con l'intento di lavorare non su elementi astratti (generiche successioni di

accordi, scale ecc.) ma sulla base di precisi contesti e strutture rinvenibili

all'interno del repertorio stesso77.

Il versante più proprio del lavoro accademico, che a questo punto del

percorso può e deve avere una forte componente di elaborazione

cognitiva, è quello dell'analisi auditiva. Riflettendo a fondo sulla natura di

questo compito, emerge chiaramente come la visione teorica corrente che

dovrebbe offrire gli strumenti per l'analisi sia una volta di più estranea alla

percezione, e questa constatazione, anche e soprattutto in un corso di Ear

Training, richiede ovviamente un ripensamento.

Che cosa rinvenire in un brano di musica, a parte ciò che attiene

strettamente alla trascrizione delle altezze e delle durate? Forse le forme

76 Programmi e materiali sono visionabili sul forum eartraining.forumup.it, discussione "Il corso di Ear Training al Conservatorio di Como". Si veda anche Odone (2001). 77 Sono di riferimento, per fare due esempi tra loro lontani, sia i costrutti rinvenibili all'interno della già citata tradizione dei partimenti (Gjerdingen 2007), sia le strutture proprie della musica popular come appaiono in Middleton (1994) o in Tagg (2011). Un'antologia di possibili tipologie di attività è contenuta in Odone (2011).

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compositive, frasi e semifrasi, primo e secondo tema, sviluppo e ripresa,

soggetti e divertimenti di fuga? Non sono questi schemi nati con un

intento prettamente compositivo, come tracce per la scrittura? Sono,

questi, "oggetti" che riflettono genuinamente il fenomeno auditivo?

La ricerca del tempo perduto

"Il suono non è - né rivela - un oggetto, ma un qualcosa che accade, un

evento. (...) Insomma, il suono è flusso, flusso temporale (...): per

conservarlo non lo si può 'fermare', come il fotogramma di un film (Sparti

2007, pp. 74-75). "Il sonoro 'trascina via la forma' e dunque evoca già di

per sé una visione mobile, non ferma (...) delle cose, una 'transitività'

vibrante che va a cozzare con la visione ideale e 'sempre ferma' della nostra

tradizione." L'estromissione del sonoro a favore del visivo "determina (...)

lo svanire del concreto apparire-sparire delle cose, cioè della 'transitività'

appunto insita nel movimento del reale, della vita" (Lisciani 2004, p.

XVII).

Il tentativo è dunque quello di reintrodurre il tempo nella nostra

considerazione consapevole della musica, nell'immagine che di essa ci

formiamo, immagine troppo spesso ferma alla partitura, e in essa a ciò che

è maneggevole, catalogabile: il successo ottocentesco della "armonia", in

pratica sinonimo, non a caso insieme alla Storia della Musica, di

"conoscenza musicale", ne è un esempio lampante.

E dunque l'analisi auditiva, questa presunta pratica ascetica, non può

ridursi semplicemente a una "analisi portatrice di handicap", segnata dallo

svantaggio di non avere a disposizione lo scritto. È in realtà un'occasione

unica, rappresentata dalla possibilità di rileggere le nostre categorie mentali

reimmergendole nel flusso del tempo e nelle dinamiche che questo porta

con sé sposandosi con il suono.

In estrema sintesi, ecco un percorso78:

78 Materiali e suggerimenti di attività - ma non certamente ancora la redazione di un percorso comprensivo e organico - si possono trovare in Odone (2010).

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a. Visione d'insieme. L'evento sonoro considerato nelle sue componenti

generali (linee, aree sonore...) e nel rapporto che esse intrattengono tra

loro: è principalmente il tema delle testure musicali79.

b. Direzionalità e Ciclicità. In che modo il suono organizzato si pone "in

sella" al cavallo del tempo? Come riveste di suoni il flusso temporale per

assecondarne il procedere (direzionalità) o per trattenerne la fuga

(ciclicità)? Le tradizioni musicali hanno forgiato molti diversi strumenti

adatti allo scopo: quali costrutti musicali danno impulso al procedere dei

suoni, all'attesa per un "dopo", e quali invitano a ritrovarsi in una

temporalità rassicurata da elementi che ritornano80?

c. Narrazione. Lo strutturarsi della relazione con il tempo da parte del

suono organizzato crea la percezione di un "prima" e di un "poi": è questo

il fenomeno fondamentale della forma, anzi, della "formatività", dello

strutturarsi di una sintassi all'interno del divenire temporale. In quanti

diversi modi "inizia" il discorso musicale? Come sviluppa, giustappone o

semplicemente prolunga i suoi elementi? Come crea in chi percepisce il

suono l'appagamento dell'attesa per un seguito? È lo sviluppo della

consapevolezza circa momenti e mezzi della narrazione musicale.

Generi musicali diversi possono sottolineare o anche tendenzialmente

neutralizzare l'uno o l'altro di questi profili analitici, senza tuttavia - credo -

vanificarne il senso.

Con l'inclusione nella nostra indagine dell'aspetto teorico musicale non

riusciamo certo a portare a compimento la svolta precedentemente

invocata, operazione che richiede ben altri apporti e tempi di sviluppo e

realizzazione; quantomeno riusciamo però ad avere l'idea della globalità e

della complessità di un compito: quello di riportare la percezione musicale

nella posizione di origine e centro di ciascuno degli aspetti che formano la

relazione dell'uomo con la musica.

79 Tra i rari supporti bibliografici a disposizione: Berry (1976), Aguilar (2006), Belkin (1999) e (2001). 80 Un accenno a questi temi in Odone (2006), pp. 92-97.