Commenti a Schopenhauer - I

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1 Giovanni Piana Commenti a Schopenhauer I Indicazioni di lettura per la “Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente” 1990

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Giovanni Piana

Commenti a SchopenhauerI

Indicazioni di letturaper la “Quadruplice radice del principio di ragionesufficiente”

1990

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Questo testo è tratto dalle lezioni del corso di Filosofia Teoretica sul te-ma “Epistemologia e metafisica della natura in Schopenhauer” tenutoall’Università degli Studi di Milano nel 1990. Le traduzioni italiane citatesono le seguenti: La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Iediz. 1813, a cura di A. Vigorelli, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano1990 (Abbrev.: Quad_1), II ediz. 1847, a cura di Eva Amendola Kuhn,Boringhieri, Torino 1959 (Abbrev.: Quad_2); Il mondo come volontà erappresentazione, trad. di N. Palanga, Mursia, Milano 1969 (Abbrev. :M.). Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, voll. I – II, acura di G. De Lorenzo, Laterza, Bari 1986 (Abbrev.: Supp.). Inoltre ven-gono citate le Lezioni berlinesi (1820), parte prima, da Theorie des ge-sammtenVorstellens, Denkens und Erkennens – Philosophische Vorlesungen,Teil I, aus dem handschriftlichen Nachlass, hrsg. von Volker Spierling,München, 1986 (Abbrev.: Lez. I); La libertà del volere umano, trad. it. diE. Pocar, Laterza, Bari 1970 (Abbrev.: Lib.) Nel caso che il luogo dellacitazione sia del tutto chiaro dal testo, viene indicato solo il numero dipagina. Nell’impiego delle traduzioni ci siamo riservati la possibilità diintrodurre le modifiche ritenute necessarie senza esplicita segnalazione.

L’immagine di copertina deriva da una fotografia di Marina Pianadel tempio di Segesta.

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Indice

1. Premessa

2. Osservazioni sulla prima e sulla seconda edizione dellaQuadruplice radice del principio di ragione sufficiente

3. I molti modi in cui si può parlare di fondamento

4. La tesi dell’identità di oggetto e rappresentazione

5. La tesi della relazionalità delle rappresentazioni

6. La prima classe di oggetti e il principio di ragione suffi-ciente del divenire

7. Gli oggetti della seconda classe: i concetti

8. Il principio di ragione sufficiente in rapporto ai concetti

9. Gli oggetti della terza classe e la ratio essendi

10. Serie dei numeri, successione temporale e ratio essendi

11. La critica del metodo deduttivo nella geometria. Cognitioe convictio

12. La ratio essendi in rapporto alle posizioni spaziali

13. Tre esempi per illustrare della ratio essendi

14. La quarta forma del principio di ragione sufficiente. Latematica della motivazione

15. L’affiorare della tematica dell’inconscio

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1. Premessa

Nella prefazione alla prima edizione del Mondo come volontà erappresentazione Schopenhauer rivolge al lettore tre raccoman-dazioni che sono quasi tre veri e propri ammonimenti.

La prima è quella di leggere il libro due volte, ed essanon viene proposta in termini generici quasi una sorta di ov-vietà – almeno due volte, avrebbe forse potuto dire! – macon particolare attinenza alla natura ed alla struttura del libro.

Esso, dice Schopenhauer, deriva da un unico pensierofondamentale, non comunica propriamente null’altro che quel-l’unico pensiero che in realtà è esplicitamente formulato neltitolo: il mondo è, ad un tempo, volontà e rappresentazione: eproprio per questo motivo non è costruito come un sistema dipensieri (System von Gedanken) che richiederebbe in via diprincipio la forma dunque di un edificio che ha le propriefondamenta a partire dalle quali esso viene innalzato. In unasimile forma architettonica vi è un primo anello, le fonda-menta, ed un ultimo anello, la sommità: le fondamenta so-stengono tutto e la sommità non sostiene nulla, mentre ciòche è compreso tra le fondamenta e la sommità sono anelliintermedi ognuno dei quali sostiene ed è ad un tempo soste-nuto. Non è affatto improbabile che facendo riferimento aduna simile struttura architettonica Schopenhauer pensi, e conuna certa inclinazione critica, a Kant, di cui talora rammentanon favorevolmente come una caratteristica negativa della suadottrina, l’eccessiva passione per l’elemento sistematico-co-struttivo, ed in particolare per la simmetrie che induconoKant a cercare corrispondenze concettuali là dove non ve nesono oppure a realizzare partizioni e suddivisioni artificiose al-l’interno della propria esposizione. Di fronte a ciò si fa valereinvece un modo di proporre la problematica filosofica chepuò suggerire piuttosto l’immagine di una sfera che ha il suocentro in quell’unico pensiero fondamentale – tutti i puntidella superficie della sfera riconducono a questo centro, cosic-

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ché in quell’immagine vi è l’idea di una forte unità, di unaforte coesione, ma anche, nello stesso, quella della differenza edella varietà del punti, del loro divergere l’uno dall’altro comedivergono i raggi che promanano da questo centro. In parti-colare, una sfera non ha né un inizio né una fine, mentre unlibro, lamenta Schopenhauer, deve avere una riga iniziale eduna finale, ed in ciò non somiglia affatto ad un organismo,nel quale ciascuna parte deve reggere il tutto ed anche essereretta dal tutto “sicché anche la sua più piccola parte non puòappieno comprendersi se già non è stato in precedenza com-preso il pensiero nel suo insieme” (M, p.19).

Di questa sfericità, che forse manderebbe in visibilio ipiù o meno recenti fautori dell’ermeneutica, si viene sempli-cemente a capo – suggerisce saggiamente Schopenhauer –leggendo il libro due volte.

Kant è oggetto di un’altra raccomandazione: la cono-scenza dei “principali scritti di Kant” è indicata da Schopen-hauer come un presupposto importante per la comprensionedella propria dottrina. Si suggerisce così di dare lettura del-l’Appendice critica sulla filosofia kantiana prima di affrontarela lettura del testo come una sorta di introduzione ad esso, inmodo da aver chiarito in via preliminare in che rapporto sitrovi la problematica kantiana con la posizione elaborata neltesto, sia nei suoi aspetti ritenuti positivi sia in quelli cheSchopenhauer ritiene debbano essere respinti.

Ma non meno peso viene dato alla conoscenza delle al-tre due brevi opere che precedono il Mondo come Volontà erappresentazione, e precisamente La Quadruplice radice delprincipio di ragione sufficiente e lo scritto Sulla vista e i colori.La loro lettura rappresenta una sorta di condizione per unabuona comprensione dell’opera maggiore.

Noi aggiungeremmo: la Quadruplice radice rappresenta,in particolare, una sorta di porta di accesso proprio al pensierofondamentale che sta al centro di quella sfera. I nostri com-menti a Schopenhauer prendono le mosse di qui, e precisa-

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mente dalla prima edizione dell’opera, alla quale vanno tuttele nostre preferenze.

2. Osservazioni sulla prima e sulla seconda edizionedella Quadruplice radice del principio di ragione suf-ficiente

Va detto anzitutto che la prima versione del 1813 rappresentaun autentico piccolo capolavoro filosofico che contiene em-brionalmente, in una breve e limpidissima sintesi, le idee por-tanti del Mondo. Molto più tardi, nel 1847, Schopenhauer nerealizzò una seconda versione che rappresenta in realtà uncomplessivo rifacimento. Basti pensare che il numero dellepagine viene raddoppiato – le integrazioni riguardano dunquenon solo la forma, ma anche la sostanza, e in particolare di-ventano frequenti i richiami alle dottrine sviluppate nell’operamaggiore. Con ciò viene del tutto meno ciò che rende prezio-sa la prima edizione, e cioè il fatto che essa rappresenta l’an-tefatto teorico più rilevante del Mondo come volontà e rappre-sentazione cosicché essa risulta particolarmente utile per co-gliere l’impianto elementare dei pensieri che conducono adesso. Per lungo tempo è invece stata a disposizione del lettoreitaliano solo la seconda edizione, la cui traduzione venne rea-lizzata da A. Coiazzi nel 1880 e da E. Amendola Kuhn nel1915 (poi riproposta nel 1959). Ciò è tanto più singolare peril fatto che, a mio avviso, vi sono altri elementi che peggiora-no l’opera dal punto di vista stilistico, guastando la straordi-naria nitidezza della prima versione, la sua compattezza estringatezza, con digressioni e pesantezze polemiche che sonotipiche dell’ultimo Schopenhauer: il quale vedendo ricono-sciuti troppo tardi i propri meriti non perde occasione di la-mentarsene, talvolta con fastidiosa e senile acrimonia.

Del resto lo stesso Schopenhauer molto lucidamente co-glie il risultato di un simile rifacimento osservando nell’intro-duzione che “a molti sembrerà quasi di sentire un vecchio che

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legge il libro di un giovane, ma spesso lo fa tacere, per abban-donarsi alle sue digressioni sul tema”; notando ancora che vi èuna grande differenza tra il tono del giovane “che pieno di fi-ducia espone le sue opinioni, giacché è ancora abbastanza can-dido da credere seriamente che tutti coloro i quali si occupanodi filosofia niente abbiano più a cuore della verità” e “la voceferma, ma talvolta anche ruvida del vecchio che finalmente hadovuto scoprire in mezzo a quale nobile congrega di mestie-ranti e di servili piaggiatori è venuto a trovarsi” (p. 21).

Solo nel 1990 Amedeo Vigorelli ha egregiamente realiz-zato la prima traduzione italiana della prima versione dell’o-pera, a ben centosettantacinque anni dalla data della sua pub-blicazione.

3. I molti modi in cui si può parlare di fondamento

Il titolo di questo primo scritto di Schopenhauer – Üeber dievierfache Würzel des Satzes vom zureichenden Grunde. Einephilosophische Abhandlung – richiama certamente il nome diLeibniz, ed in particolare alla distinzione caratteristicamenteleibniziana tra principio di non contraddizione che sta alla ba-se delle verità razionali (a priori) e il principio di ragione suf-ficiente che sta invece alla base delle verità empiriche (a poste-riori). Tuttavia, benché nel corso della discussione Leibnizvenga implicato, proprio questo riferimento tende a fuorviarcirispetto al modo in cui Schopenhauer intende l’espressione diprincipio di ragione sufficiente. Credo perciò che sia opportunomettere tra parentesi questo riferimento leibniziano, affidan-doci piuttosto a qualche osservazione sull’impiego del termineragione, anzitutto nell’originale tedesco che è, in questo caso,Grund: fondamento, base, terreno. Ciò che qui chiamiamoprincipio di ragione soprattutto tenendo conto dell’espressionelatina ratio e in generale della terminologia tradizionale, po-trebbe essere detto meglio, e più chiaramente, principio delfondamento (Satz vom Grunde). Va notato, tra l’altro che nelle

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Lezioni berlinesi nelle pagine in cui si ripete la tematica diquesto saggio, l’aggettivo sufficiente viene a cadere del tutto.Parlando di ragione abbiamo dunque di mira la distinzionetra il fondato e l’infondato, tra ciò che ha un fondamento e ciòche ne è privo. La parola fondamento, ed anche naturalmentela parola ragione o ratio intesa secondo l’inclinazione qui sug-gerita mantiene l’apertura, anzi la genericità che in questo casoè esplicitamente richiesta per una corretta impostazione delproblema. Perciò, se ci venisse richiesta una formulazione delprincipio, dobbiamo scegliere, tra le diverse formulazioni pos-sibili, quella che più ci sembra lasciare impregiudicata la natu-ra degli enti tra cui sussiste la relazione di fondazione cosìcome la specificità che questa relazione riceve in dipendenzadagli enti tra cui viene posta come sussistente.

Potremmo dire ad esempio: ogni cosa ha sempre un fon-damento. E ciò significa che in rapporto all’esserci di ogni cosapossiamo interrogarci sul perché.

Schopenhauer suggerisce da parte sua di adottare in viaprovvisoria la formulazione di Wolf che all’incirca può essereresa così: “Nulla è, nel suo esserci piuttosto che non esserci,senza fondamento” (Nihil est sine ratione cur potius sit quamnon sit”).

Schopenhauer passa in rassegna diverse formulazioni chein qualche modo possono essere ricollegate al problema postoda questo principio, ma una simile rassegna ha essenzialmentelo scopo di mostrare che vi sono diverse accezioni in cui essopuò essere inteso ed ogni formulazione mostra, peraltro oscu-ramente, la propensione verso un’interpretazione piuttostoche verso un’altra. Nello stesso tempo si avverte anche unasorta di inclinazione a rendere quel principio in certo sensounilaterale. Ad esempio: parlando dell’esserci di una cosa sisarà propensi a pensare alle cose “empiriche”, e l’esserci ver-rebbe inteso nel senso in cui dell’esistenza effettiva di cose e dieventi. In tal caso, il dire “ogni cosa ha un fondamento” sem-bra voler dire che l’esistenza di qualcosa ha sempre una causa.

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Il principio del fondamento assume così la forma del princi-pio di causalità e potrebbe essere formulato in modo confor-me dicendo: “ogni evento ha una causa”. Tuttavia vi sono an-che cose come triangoli, rettangoli, figure geometriche di ognigenere, numeri e relazioni tra numeri, che non sono cose em-piriche e che non esistono nello stesso modo di tavoli e sedie.In che senso si parlerà allora in rapporto ad esse di principiodel fondamento? Inoltre le proposizioni, i giudizi, le cono-scenze in genere possono essere fondate e infondate, ad esem-pio posso dire che la proposizione “Socrate è mortale” è verasul fondamento della verità delle proposizioni “tutti gli uominisono mortali” e “Socrate è uomo”. Anche in questo caso siparla di fondamento in un senso ancora diverso dai precedenti.

Infine vi sono le nostre azioni, i nostri comportamenti.Qui la distinzione tra il fondato e l’infondato si propone co-me distinzione tra azione motivata e immotivata: il Grund dicui si parla è semplicemente il motivo, e questa parola ha pre-sumibilmente un senso che va tenuto distinto quello di causa;e quelle ragioni che rendono conto delle mie azioni sono certodi diversa natura dalle ragioni che venivano riferite al rapportoai premessa e conseguenza.

Da queste prime sommarie considerazioni si fa avanti lanecessità di una riflessione che risponda a due domande fon-damentali:

1. quale è il senso del principio di ragione sufficienteconsiderato nella sua generalità?

2. in quanti e quali forme il principio di ragione suffi-ciente arriva a specificarsi e quali formulazioni potremmo pro-porre per caratterizzare queste forme?

In questa impostazione del problema si esemplificaquella che secondo Schopenhauer è una vera e propria regoladel “metodo di ogni filosofare, anzi di ogni sapere in genera-le”. Questa regola è in realtà duplice. Da un lato essa invita atener conto dell’omogeneità tra i concetti, cioè a cogliere gli a-spetti comuni, le affinità tra concetti procedendo alla loro

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unificazione, in modo da evitare l’inutile moltiplicazione diconcetti affini. Di fronte a questo problema dell’omogeneità,vi è il problema opposto della specificazione. Questa consistenell’operare le distinzioni necessarie all’interno di un certoconcetto che, se impiegato in una generalità che ignori le suedifferenze interne, condurrebbe ad equivoci di ogni sorta. Èquesta la considerazione metodologica con cui si apre l’interosaggio.

4. La tesi dell’ identità di oggetto e rappresentazione

Una volta esposti i termini del problema e fornite le indica-zioni storiche e terminologiche strettamente necessarie, Scho-penhauer avvia la propria analisi con l’enunciazione di due tesiche ci offrono da un lato la risposta alla prima domanda, dal-l’altro il filo conduttore per l’impostazione della risposta allaseconda domanda.

La prima tesi può essere presentata come una considera-zione sull’impiego del termine oggetto. Anche in questo caso èbene attirare l’attenzione sulla terminologia tedesca. In rap-porto ad “oggetto”, in tedesco abbiamo a disposizione duetermini: Objekt e Gegenstand. Fra essi vi è una significativadifferenza nel modo d’impiego: Gegenstand risulta da unacomposizione tra l’avverbio gegen che significa di fronte, con-tro, e il verbo stehen, stare. Vi è dunque un rimando allo staredi fronte ed all’essere contrapposto. In questa accezione si diran-no oggetti, in particolare, le cose materiali che ci stanno difronte e da cui siamo circondati. Si tratta dunque di un’ac-cezione ristretta rispetto al termine di radice latina Objekt cheindica invece qualunque cosa sia data, ed in qualunque modo,ad un soggetto. In certo senso si caratterizza con il termine diObjekt la pura relazione formale con il soggetto, cosicché itermini soggetto–oggetto vengono assunti come strettamentecorrelativi.

Ciò premesso la prima tesi afferma che essere un oggetto

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ed essere una nostra rappresentazione fanno tutt’uno. Potrem-mo chiamare questa tesi come tesi dell’identità di oggetto e rap-presentazione.

Secondo la formulazione di Schopenhauer: “essere og-getto per il soggetto ed essere una nostra rappresentazione è lastessa cosa. Tutte le nostre rappresentazioni sono oggetti delsoggetto, e tutti gli oggetti del soggetto sono nostre rappre-sentazioni” (Quad_1, p. 18)

Aderendo allo spirito dello scritto che stiamo commen-tando vogliamo evitare di accompagnare queste grandi enun-ciazioni di principio con discussioni esplicative ed estensioniproblematiche che ci prenderebbero ben presto la mano. Cibasta invece far valere l’assunzione che il termine di rappre-sentazione verrà da noi impiegato per qualunque oggettività, edunque per qualunque cosa sia data ad un soggetto ed in unaqualunque modalità dell’essere dato. Ad esempio ci sono datepercettivamente, attraverso la vista, il tatto e gli organi di sen-so in genere, le cose materiali del nostro mondo circostante –esse verranno dunque dette rappresentazioni; ma verrannodette rappresentazioni anche numeri, concetti astratti, eventidi ogni genere, non meno delle nostre fantasticherie o dei no-stri ricordi, perché in tutto ciò si dànno per noi delle oggetti-vità in genere.

5. La tesi della relazionalità delle rappresentazioni

Possiamo ora effettuare il passaggio che ci conduce alla secon-da tesi. Tutte le rappresentazioni che hanno certamente, comeè già mostrato dai nostri esempi, delle forme profondamentedifferenti, sono in ogni caso caratterizzate da una proprietàcomune: nessuna rappresentazione può presentarsi interamen-te isolata, in un’assoluta singolarità. Si parla così di un colle-gamento (Verbindung) o di una connessione tra tutte le rap-presentazioni.

Questa tesi della relazionalità delle rappresentazioni –

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come vogliamo chiamarla – può essere formulata così: “Nonesiste alcuna rappresentazione assolutamente indipendente”.

La negazione dell’indipendenza assoluta implica natu-ralmente l’affermazione della relatività e dipendenza di ognirappresentazione. Ed è naturalmente riflettendo su questa re-latività e dipendenza che ritroviamo il problema del principiodel fondamento nella sua accezione generale. La connessione trale rappresentazioni è “quella specie di relazione che esprime ilprincipio di ragione sufficiente assunto in generale” (Quad_1,p. 18). Nelle Lezioni berlinesi si spiega più accuratamente che“ogni oggetto del soggetto, di qualunque specie, si tratti diuna rappresentazione astratta o intuitiva, si trova relativa-mente ad un altro oggetto, e quindi ad un’altra rappresenta-zione, in un rapporto di dipendenza, cioè esso non potrebbeessere come è se non ci fosse un altro oggetto che è come è: equesto altro oggetto si chiama il fondamento (Grund), il pri-mo conseguenza (Folge)” (Lez. I, p. 443).

Ogni rappresentazione è dunque in relazione con un’al-tra, ma questa parola non indica un puro e semplice rapportoestrinseco, un puro e semplice accostamento. Dovremmo direinvece che ogni rappresentazione è relativa ad un’altra, e lo ènel senso che ne dipende nel suo essere. Se la rappresentazioneche fa da fondamento fosse diversa, sarebbe diversa anche larappresentazione che consegue da quel fondamento. L’espres-sione conseguenza così come anche il verbo seguire sono peral-tro espressioni che potrebbero indurre in equivoco: essere ri-mandano al rapporto premessa e conseguenza inteso comerapporto logico – deduttivo, mentre ora abbiamo di miraun’accezione più generale. In luogo di conseguenza, dovrem-mo parlare piuttosto di rappresentazione fondata.

La tesi della relazionalità delle rappresentazioni potrebbedunque essere formulata dicendo: “Ogni rappresentazione èuna rappresentazione fondata”, e questa è manifestamenteuna formulazione del principio di ragione sufficiente nella suaaccezione generale.

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In base ad essa dunque nessun oggetto “può mai esserequalcosa che sta assolutamente per se stesso, qualcosa di indi-pendente o anche di singolo o di separato… tutti gli oggettistanno essenzialmente come tali in un collegamento conformea legge e determinabile a priori secondo la loro forma. Questocollegamento è quella relazione che esprime il principio del fon-damento preso nella sua generalità” (Lez.I, p. 444).

6. La prima classe di oggetti e il principio di ragionesufficiente del divenire

Dobbiamo ora rispondere alla nostra seconda domanda cheriguardava le specificazioni del principio di ragione sufficien-te, dunque i modi diversi in cui possiamo parlare di dipen-denza di una rappresentazione dall’altra, i tipi di relazione trale rappresentazioni che si possono contraddistinguere in gene-rale.

Come abbiamo già sottolineato fin dall’inizio, vi sonovarie forme del principio di ragione sufficiente, e precisamen-te vi sono quattro forme che possono essere considerate comesue specificazioni. La radice del principio di ragione suffi-ciente è quadruplice – si dice nel titolo dell’opera: cosa chenon significa che vi sono di esso quattro radici, come se que-ste fossero, in certo senso, prima di principio, ma che esso as-sume quattro “aspetti” – Gestalten, come si dice nelle Lezioniberlinesi.

In che modo tuttavia possiamo procedere per una ordi-nata identificazione di queste forme? In realtà, le nostre som-marie considerazioni con le quali abbiamo introdotto l’argo-mento ed in particolare i riferimenti esemplificativi di cui cisiamo già avvalsi, ci offrono un orientamento abbastanza pre-ciso sulla procedura da mettere in atto. Di qui appariva giàchiaro che vi è una correlazione tra i tipi di relazioni fonda-mentali e i tipi differenti di oggetti (rappresentazioni). Ilcompito di identificare le varie forme del principio di ragione

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sufficiente si può allora tradurre in un compito essenzial-mente classificatorio che tenda ad operare una distinzione inclassi degli oggetti in genere così che, dato un oggetto qua-lunque, lo si possa annoverare all’una o all’altra classe.

A dire il vero, Schopenhauer non si mostra affatto pre-occupato (come si sarebbe certamente preoccupato Kant) digiustificare a fondo la propria classificazione, magari con unaqualche complessa deduzione filosofico–trascendentale, limi-tandosi ad enunciare una suddivisione in quattro classi di og-getti e ad assumerla come valida a meno di controesempi ingrado di invalidarla: si rimanda dunque ad altri il compito diproporre esempi di oggetti che non rientrano in nessuna dellequattro classi – nel quale caso la classificazione si dimostre-rebbe incompleta – oppure che possono rientrare all’internodi due classi, nel qual caso la classificazione si dimostrerebbesovrabbondante o comunque difettosa.

Nella prima classe di oggetti debbono essere annoveratetutte le rappresentazioni complete (vollständig) che costituisconol’intero di un’esperienza (Quad_1, p. 21). Si tratta di una for-mulazione un po’ astratta che richiede certamente qualchespiegazione per essere correttamente compresa.

Anzitutto si parla di completezza delle rappresentazioni.Questa nozione contiene un rimando a Kant. Questi aveva di-stinto in un’esperienza, ad esempio nella percezione di unacosa materiale, un elemento formale ed un elemento materia-le. L’elemento materiale è costituito dal contenuto sensorialecome tale, dalle sensazioni come stati della soggettività per-cettiva, che non si sono ancora organizzati in una formazioneoggettiva unitaria. L’unità e l’oggettività è opera invece del-l’elemento formale, che è costituito dalle forme dello spazio etempo così come dalle categorie. Ora Schopenhauer parla dicompletezza proprio per sottolineare che nel caso degli oggettidi questa prima classe sono presenti sia l’elemento formale chel’elemento materiale. Non si tratta dunque di semplici sensa-zioni, che sarebbero dette incomplete in quanto da esse man-

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ca l’elemento formale, ma nemmeno, ad esempio, di oggetti-vità geometriche ideali in rapporto alle quali l’esempio intui-tivo è inessenziale, e che sarebbero perciò dette incomplete,inversamente, per la mancanza (o l’inessenzialità), dell’ele-mento materiale.

Il fatto che poi che si aggiunga che tali rappresentazionicomplete “costituiscono l’intero di un’esperienza (Das Ganzeeiner Erfahrung) significa semplicemente che esse fanno partedi quella totalità di rappresentazioni nella quale consiste l’e-sperienza stessa del mondo. Nella seconda edizione dell’operasi dice più semplicemente che “la prima classe dei possibilioggetti della nostra facoltà rappresentativa è quella delle rap-presentazioni intuitive, complete ed empiriche”(p. 59). L’in-tuitività si contrapppone alle “rappresentazioni solamentepensate”, mentre si parla di empiricità per indicare che le rap-presentazioni empiriche sono suscitate da sensazioni che neattestano la realtà e appartengono infine “a quel complessosenza fine e senza principio in cui consiste tutta la nostrarealtà empirica”.

La condizione dell’appartenenza degli oggetti della pri-ma classe all’intero di una esperienza intende escludere da essale rappresentazioni fantastiche, ad esempio gli oggetti checompaiono nei nostri sogni, dal momento che anch’essi pos-sono presentarsi con le caratteristiche di concretezza con cui ciappaiono nella vita quotidiana, ma non possono essere com-piutamente integrati in quella totalità che è il mondo esperito.Le rappresentazioni della fantasia “sono indubbiamente com-plete… ma non appartengono all’intero dell’esperienza, per-ciò esse non si trovano sotto la legge qui dominante della cau-salità ma, come azioni di puro arbitrio, sotto la legge dellamotivazione che domina nella classe che verrà in seguito men-zionata degli oggetti della facoltà rappresentativa” (Quad_1, p.27).

Si tratta dunque, detto semplicemente, ma anche in unmodo più povero e insignificante, delle cose materiali, delle

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cose che costituiscono la natura: nella formulazione più pre-gnante di Schopenhauer comincia invece ad affiorare una verafolla di problemi, alcuni dei quali trovano anche un primo, siapure minimo, abbozzo. Ad esempio, la tematica della tempo-ralità e della spazialità messa in questione dalla completezzadella percezione viene sottoposta ad una discussione rapida,ma già estremamente significativa; e così anche il tema delladistinzione tra cose reali e cose puramente sognate, che ha unraggio di azione molto più ampio di quello che può apparirefin d’ora. Inoltre, un’importante riflessione che verrà ripresanel Mondo viene dedicata alla posizione peculiare che detieneil corpo soggettivo nell’ambito degli oggetti di questa classe,un problema che si impone a partire dalla considerazionedella tematica delle sensazioni e del fatto che ogni rappresen-tazione appartenente a questa classe, proprio in quanto ha ca-rattere intuitivo, può esser realizzata solo attraverso la sensa-zione.

La forma del principio di ragione sufficiente corrispon-dente a questa prima classe di oggetti non è altro che la leggedi causalità.

Fondamento significa allora semplicemente causa. E ciòche viene fondato da questo fondamento da esso si dice effetto.

Naturalmente non diremo che il rapporto causale sussi-ste tra cose, ma tra stati–di–cose (Zustand): da una certa con-figurazione delle cose ne consegue un’altra e da questa un’al-tra ancora in una catena infinita, sul cui primo anello è privodi senso interrogarsi. Un modo appropriato di formulare que-sto rapporto è il parlare di divenire: uno stato di cose divienesempre da un altro. Perciò Schopenhauer parla di questa for-ma del principio di ragione sufficiente come principio di ra-gione sufficiente del divenire (principium rationis sufficientisfiendi). In questo caso la ratio potrà essere detta ratio fiendi.

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7. La seconda classe di oggetti: i concetti

Alla seconda classe di oggetti (rappresentazioni) appartengonotutti i concetti e naturalmente tutte le loro forme di connes-sione.

Ma che cosa intendiamo con concetti?Prestiamo attenzione a questo punto. Parlando della

prima classe di oggetti in realtà parliamo del mondo stesso,anzi dell’esperienza del mondo e quindi delle cose e delle rela-zioni concretamente sperimentate. In questa esperienza delmondo sono implicate 1. le sensazioni; 2. la forma del tempoe dello spazio; 3. la relazione causale.

È ora opportuno sottolineare che l’apprensione del sus-sistere di una relazione causale è, secondo Schopenhauer, al-trettanto diretta e immediata quanto lo è l’apprensione dellaforma spaziale di una cosa e della forma temporale di unevento. Ciò significa che noi cogliamo senz’altro l’urto tra dueoggetti e il movimento causato da questo urto nella visionecomplessiva che abbiamo della situazione, anche se in questa vi-sione distinguiamo un elemento materiale ed un elementoformale. Seguendo la posizione di Kant, questo elementoformale, ed in particolare la relazione causale, verrà riferito adun’attività intellettuale: tuttavia, secondo Schopenhauer, unsimile richiamo all’intelletto ha solo il senso di differenziareuna forma di organizzazione soggettiva, la causa, appunto, daciò che si impone ai nostri sensi, e non ha invece il senso diimplicare la mediazione di qualche rappresentazione astratta.Non dobbiamo in altri termini concepire la relazione causale,che pure possiamo annoverare tra le relazioni intellettuali nonderivabili dall’esperienza, come un vero e proprio pensiero dellarelazione causale che viene applicato ai contenuti dell’esperienzasensoriale. La connessione causale è invece immediatamenteoperante nella stessa esperienza intuitiva del mondo. Detto inaltro modo: anche gli animali hanno un’esperienza intuitivadel mondo, della quale fa parte l’apprensione della connessio-

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ne causale tra gli eventi. Per questo gli animali possono anda-re a caccia delle proprie prede oppure fuggire di fronte adun’aggressione, evitare i pericoli, ripararsi dal freddo, ecc.Nessuno di questi comportamenti sarebbe possibile se essinon sapessero connettere causalmente gli eventi, se non sapes-sero cogliere lo stile causale che caratterizza la realtà stessa.

Ora, se decidiamo di impiegare la parola intelletto perindicare l’attività di afferramento di questo stile causale, nonc’è dubbio che possiamo senz’altro affermare che gli animalihanno un intelletto. Ma non per questo diremo che essi hannopensieri, che essi pensano.

Che cosa significa allora pensare ed avere dei pensieri?Appare chiaro che pur avendo preso le mosse da uno

spunto kantiano – e in particolare dalla nozione di relazionecausale come relazione intellettuale – da Kant ci siamo rapi-damente e irrimediabilmente allontanando ed in maniera piùradicale di quanto potrebbe apparire ad uno primo sguardo.Ciò appare chiaro proprio in rapporto alla domanda intorno ache cosa significa pensare.

La risposta di Schopenhauer è questa: pensare significaprodurre concetti, connettere i concetti in giudizi (proposi-zioni); connettere le proposizioni in strutture argomentative,in ragionamenti. Concetti sono allora semplicemente rappre-sentazioni astratte e la facoltà di produrre concetti giudizi einferenze è ciò che si chiama ragione. Le caratterizzazionikantiane dei termini “intelletto” e “ragione” debbono dunqueessere messe interamente da parte.

Per caratterizzare il concetto, Schopenhauer risale allatradizione prekantiana, alla tradizione empiristica. Egli parlainfatti dei concetti come di rappresentazioni di rappresentazio-ni, una dizione che rammenta molto da vicino la concezioneempirista secondo la quale le rappresentazioni astratte sono daconsiderare come copie delle rappresentazioni intuitive, ben-ché egli distingua poi nettamente fra fantasma (rappresenta-zione mentale) e concetto evitando l’errore empiristico.

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Ad esempio, il concetto di cavallo, che possiamo iden-tificare con alcune poche caratteristiche definitorie, è unarappresentazione generale che presuppone rappresentazioniintuitive di cavalli effettivamente dati nella nostra esperienza:il questo senso esso può essere detto “rappresentazione di rap-presentazioni”. Va da sé che la generalità del concetto va ascapito della ricchezza di determinazioni concrete che sonoproprie del caso singolo dato nell’intuizione e che dunque iconcetti sono intrinsecamente più poveri delle rappresenta-zioni intuitive. Ma proprio questa loro maggiore povertà è ciòche li rende utili, anzi indispensabili per lo sviluppo dei pro-cessi conoscitivi e in generale per i processi della scienza.

Seguendo un simile corso di idee, Schopenhauer arriva– contro Kant – ad una vera e propria rivalutazione della lo-gica generale, un’espressione con cui Schopenhauer come delresto Kant non intende altro che la logica formale, la logica“scolastica”. Questa rivalutazione – è bene sottolinearlo –urta non soltanto contro la posizione di Kant, ma control’intero sviluppo idealistico che ha sempre manifestato controla sillogistica del passato un vero e proprio disprezzo.

I concetti di cui parla Schopenhauer non si situanodunque ambiguamente, come accadeva in Kant, all’interno diquella logica trascendentale che aveva come compito di indi-viduare le forme fondamentali di unificazione dell’esperienza.In rapporto a questa problema kantiana, Schopenhauer realiz-za una drastica semplificazione che è, a mio avviso, profon-damente giustificata. Di tutta la complessa problematica dellecategorie, Schopenhauer lascia vivere unicamente quella dellacausalità, e naturalmente quella della sostanza, ma consideratain un nesso inscindibile con la causalità; nello stesso tempo,come abbiamo visto, essa viene attribuita ad una facoltà in-tellettuale che è qualcosa di interamente diverso dalla facoltàdi produrre concetti, dalla facoltà di pensare. Questa si esplicaattraverso concetti e connessioni tra concetti, ma ora con que-sta parola dobbiamo intendere proprio ciò che intendevano i

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cultori della logica formale. Essi sono fondamentalmente i si-gnificati generali delle parole, dal momento che – è Schopen-hauer stesso a sottolinearlo – il linguaggio è lo strumento effetti-vo del pensiero concettuale, i concetti possono essere fissati econservati solo attraverso il linguaggio e indipendentementedal linguaggio essi si dissolvono.

8. Il principio di ragione sufficiente in rapporto ai con-cetti

Da tutto ciò non è difficile intravvedere in quale direzione siorienteranno le nostre considerazioni successive. Il problemadel principio di ragione sufficiente non andrà evidentementeproposto in rapporto ai concetti come tali, ma alle loro con-nessioni, quindi ai giudizi, alle proposizioni che possono esse-re concepite come operazioni di unificazione tra concetti. Ri-portare il problema del principio di ragione sufficiente alleproposizioni significherà poi evidentemente interrogarsi sulfondamento di ciò che esse dicono. “Un giudizio vero signifi-ca: esso ha una ragione sufficiente” (Quad_2, p. 52). E subitoSchopenhauer precisa: “la ragione sufficiente” ovvero il fon-damento deve “essere qualcosa di diverso dal giudizio a cui siriferisce. La verità è dunque la relazione di un giudizio a qual-cosa che sta fuori di esso” (ivi, p. 52).

Così, in rapporto ad una verità empirica come “questocavallo è nero” il fondamento starà nell’atto percettivo a cui laproposizione implicitamente rimanda, atto che sta fuori dellaproposizione.

Non ogni verità è tuttavia senz’altro una verità empiricasecondo un modello così semplice. Il fondamento di una pro-posizione può anche essere un’altra proposizione. Così io soche Socrate è mortale non già perché lo ho visto morire, masulla base delle due ben note premesse. Le premesse sono orail Grund, mentre la proposizione fondata può essere dettaconseguenza nel senso usuale del termine che rimanda al rap-

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porto deduttivo. Si parlerà in tal caso di verità logiche, che sa-ranno definite dal fatto che la loro verità è fondata su altreproposizioni, assunte come vere. La verità di queste premessesarà a sua volta fondata empiricamente (nell’esperienza) oppu-re logicamente (in altre proposizioni).

In realtà anche nel caso delle verità ottenute consequen-zialmente vale la formulazione generale secondo cui “la veritàè la relazione di un giudizio a qualcosa che sta fuori di esso”,dal momento che questa formulazione, piuttosto forte, va in-tesa nel senso della formulazione più debole secondo cui ilfondamento “deve essere qualcosa di diverso dal giudizio a cuisi riferisce” e non vi è dubbio che le premesse siano proposi-zioni diverse rispetto alla conseguenza che da esse si trae.

Ciò vale anche per il terzo tipo di verità che Schopen-hauer segnala e che chiama verità metafisiche nella prima edi-zione dell’opera e, forse meno equivocamente, verità trascen-dentali nella seconda edizione. Con queste espressioni eglinon intende altro che le proposizioni sintetiche a priori di cuiparlava Kant, con particolare riguardo alle proposizioni arit-metiche e geometriche.

L’ultimo tipo di verità che dobbiamo rammentare sonole verità che Schopenhauer chiama metalogiche: con questaespressione si intendono in generale quelle proposizioni cheformulano le condizioni dello stesso pensiero logico, sonodunque verità che le stesse regole della deduzione presuppon-gono. Esse dunque stanno alla base delle argomentazioni –come il principio di non contraddizione, il principio di iden-tità, il terzo escluso ecc. In rapporto alle verità metalogichenon può valere il requisito dell’esteriorità del fondamento ri-spetto alla proposizione fondata. Ad esempio, la verità delprincipio di non contraddizione non può consistere in un’al-tra proposizione né in qualche intuizione ad essa esterna. Ciònon significa che sia priva di fondamento, ma piuttosto chenon ha senso, in rapporto ad essa, porre il problema del fon-damento. Il principio di non contraddizione vale in quanto

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condizione del pensare in genere, e proprio per questo si sot-trae ad una domanda sulle sue condizioni. In realtà non man-ca nel testo un cenno ad un’interpretazione psicologizzante,secondo la quale la verità di una proposizione metalogica sa-rebbe riconosciuta “per mezzo di una riflessione” nella qualetentiamo invano di pensare in modo contrario a verità di que-sto tipo, ma su questa interpretazione introspettiva prevaleindubbiamente l’idea di considerare queste “leggi” come con-dizioni di possibilità del pensare in rapporto alle quali non hasenso porre il problema del fondamento. Tra esse andrà alloraannoverato lo stesso principio di ragione sufficiente e proprionella formulazione secondo la quale “la verità è la relazione diun giudizio con qualche cosa fuori di esso, che è la sua ragio-ne sufficiente” (Quad_2, p. 174). Del resto fin dall’inizio(Quad_1, § 13) si era affermato che il principio di ragionesufficiente deve essere assunto come indimostrabile in quantoè esso stesso principio di dimostrazione.

In quanto in tutte queste considerazioni ciò che è in di-scussione è il problema del verità di un giudizio, quindi delsuo valore conoscitivo, Schopenhauer parla di questa formaanche come principium rationis sufficientis cognoscendi. Si noticome corollario che, potendo un fatto essere formulato in unaproposizione, una proposizione che enuncia il sussistere di unacondizione causale può essere assunta come ratio cognoscendiper la verità della proposizione che enuncia l’effetto conse-guente.

9. Gli oggetti della terza classe e la ratio essendi

A dire il vero parlando di fondamento del divenire (ratio fien-di) e di fondamento del conoscere (ratio cognoscendi) ci im-battiamo in una distinzione ben nota e più volte ribadita nellatradizione filosofica – nonostante una certa novità dell’impo-stazione di principio.

Diversamente stanno le cose per la terza e la quarta clas-

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se di oggetti – ed intanto per la terza classe di cui vogliamoora occuparci. Certo, anche in questo caso si tratta di proble-mi non nuovi e variamente proposti in precedenza. In parti-colare vi è una netta e per certi aspetti piuttosto fedele ripresadi alcuni momenti fondamentali dell’estetica trascendentalekantiana. Realmente nuova è tuttavia l’integrazione di questitemi nell’orizzonte del problema del fondamento; inoltre ilmodo del loro sviluppo contrassegna l’originalità di uno stile edi un atteggiamento filosofico.

La terza classe di oggetti è costituita “dalla parte formaledelle rappresentazioni complete” – una formulazione che do-vrebbe apparirci abbastanza chiara se rammentiamo che cosaintendevamo con completezza delle rappresentazioni.

Illustrando quella nozione ci eravamo richiamati alla po-sizione kantiana ed all’idea che nella percezione di una cosa sideve distinguere il puro contenuto sensoriale dalle determina-zioni spaziali e temporali che costituiscono la parte formaledella percezione stessa. Il problema kantiano dello spazio e deltempo come forme a priori dell’intuizione ed il modo in cui siconfigurano in rapporto ad esso l’aritmetica e la geometriarappresenta per Schopenhauer uno dei punti fermi acquisitida Kant, ed a partire dall’impostazione kantiana Schopen-hauer ritiene di poter individuare nei numeri e negli entigeometrici e nelle loro relazioni una vera e propria nuova clas-se di oggetti accanto a quelle dei prodotti delle intuizioni con-crete e dei concetti. Il motivo di ciò sta anzitutto nel fatto cheuna forma geometrica non va confusa con la figura che pos-siamo disegnare sulla lavagna ed alla quale possiamo fareeventualmente riferimento nel corso delle dimostrazioni. Lafigura concretamente disegnata, con tutte le sue imprecisioni,è oggetto di un’intuizione empirica, come ogni altra cosa delnostro mondo circostante. Una figura geometrica è invecequalcosa di interamente diverso dall’oggetto di un’intuizioneempirica. Tuttavia ciò non significa – questo è il passaggiogravido di conseguenze – che essa sia da considerare come

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una pura rappresentazione astratta, come un concetto sulquale sia lecito intervenire solo con gli strumenti della costru-zione e della deduzione logica.

Se ammettiamo con Kant che spazio e tempo inerisconoalle oggettività dell’intuizione in quanto essi rappresentereb-bero la componente formale, dovremmo poter ammettere lapossibilità di uno sguardo esplicitamente diretto a questeforme – la possibilità, dunque, di una intuizione pura, dovel’aggettivo puro trae il suo senso, come in Kant, dalla con-trapposizione ad empirico. Questa idea di un’intuizione pura èla soluzione che Kant propone all’antica questione della fontedella certezza delle proposizioni geometriche e aritmetiche. Seda un lato va respinta in via di principio la natura empirica diquesta certezza, dall’altro sembra anche difficile ritenere cheessa possa essere giustificata per via puramente argomentativa.L’idea che lo spazio e il tempo siano forme dell’intuizione eche si dia una intuizione pura ci consente di affermare che lerelazioni geometriche possono essere colte direttamente nellaloro certezza attraverso il caso singolo nella misura in cui at-traverso di esso si colgono le determinazioni aprioriche checaratterizzano la spazialità e la temporalità.

Questa soluzione forma la premessa della tematicaschopenhaueriana. Come sappiamo ogni classificazione di og-getti è vincolata ad una forma speciale del principio di ragionesufficiente. Perciò affermare che gli oggetti in questione for-mano una classe distinta da ogni altra significa ammettere chefra essi intercorra una forma peculiare di relazione fondaziona-le. Essa viene chiamata da Schopenhauer fondamento d’essere(Seinsgrund) ovvero ratio essendi. Su di essa ci dobbiamo sof-fermare un po’ più a lungo che nei casi precedenti.

10. Serie dei numeri, successione temporale e ratio es-sendi

Chiunque rifletta anche superficialmente sulla problematica

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or ora accennata, avvertirà fin dall’inizio, pur senza entrare nelmerito della questione, che mentre è del tutto chiaral’attinenza della geometria alla spazialità, molto meno lo èl’attinenza dell’aritmetica alla temporalità. La geometria puòessere considerata come una scienza che esplora lo spazio, chene mette in luce le caratteristiche essenziali, che studia le figu-re spaziali e le loro possibili relazioni. Nulla del genere invecepossiamo affermare sul rapporto tra aritmetica e temporalità:ciò ci fa sospettare che nell’istituire questo nesso agisca qual-che mediazione filosofica pregiudiziale.

Se stiamo alla posizione kantianeggiante di Schopen-hauer possiamo stabilire questo nesso a partire da una premes-sa che egli non elabora più di tanto, ma che comunque enun-cia con particolare chiarezza nel § 15 del primo libro del Mondo.

Si dice qui che “tutto il contenuto dell’aritmetica edell’algebra non è che un semplice metodo di abbreviazionedel contare” (M, p. 114).

Vogliamo chiudere un occhio sul fatto che si fa di arit-metica ed algebra un solo fascio, assai impropriamente: te-nendo conto del solo riferimento all’aritmetica qui si sostieneche le procedure aritmetiche, anche particolarmente comples-se, e così le nozioni, talvolta molto astratte fondate su questeprocedure, sono fondamentalmente elaborazioni simbolicheche hanno lo scopo di abbreviare il conteggio, inteso elemen-tarmente come enumerazione di unità in successione.

Naturalmente il fatto che si parli di abbreviazione nondeve far pensare che si tratti di cose da poco: le “abbre-viazioni” in questione infatti sono per lo più tali da realizzareeffettivamente procedure che non potrebbero in altro modoessere eseguite. Resta invece l’assunzione della riducibilità diprincipio al conteggio. Di questa riducibilità possiamo farciun’idea pensando ad esempio al modo in cui la moltiplicazio-ne può essere considerata un’abbreviazione di addizioni e l’ad-dizione stessa come un modo di abbreviare un conteggio. Ilconteggio in effetti non deve essere inteso come una serie di

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addizioni successive come se contare significasse nient’altroche addizionare 1 ad 1. Così in luogo di realizzare l’addizione15+5 secondo le ben note regole, potrei semplicemente, im-piegando la notazione a tratti, semplicemente contare i tratti– e così nessun segno di addizione e di operazione corrispon-dente sarebbe necessaria.

15 + 5

| | | | | | | | | | | | | | | + | | | | |

| | | | | | | | | | | | | | | | | | | |

A partire da questa considerazione è possibile effettuare inqualche modo il passaggio al problema temporale. Nel conta-re, un’unità succede all’altra, il contare sembra essere nientealtro che un seguire l’ordine di unità in successione. È questaparola “successione” che dovrebbe suggerire senz’altro unarelazione intrinseca tra il contare e la temporalità, e dunquetra il numero e il tempo. D’altronde il tempo, obbiettiva-mente considerato, non è altro che una successione di istanti.Il contare sembra così in certo senso presupporre la successio-ne temporale.

Forse potremmo affermare che la configurazione ditratti considerata non già come una configurazione compiuta,ma come una successione che percorriamo dall’uno all’altrotratto, può rappresentare un buon simbolo sia della successio-ne temporale, sia della successione numerica: cosa che potreb-be rappresentare un buon indizio per l’esistenza di una rela-zione.

Io credo peraltro che il condizionale debba essere d’ob-bligo. Un simile indizio non ci sembra affatto buono, ma sa-remmo disposti a sostenere che si tratta invece di una relazio-ne discutibile e forzata, per quanto ricorrente nella filosofiadella matematica dopo Kant. Ma naturalmente questa nostra

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opinione, in un contesto in cui siamo impegnati a renderecomprensibile la posizione di Schopenhauer, è del tutto se-condaria. In effetti proprio quell’indizio ci fornisce un primoesempio che ci fa capire che cosa Schopenhauer intenda conratio essendi.

“Ogni numero presuppone i numeri precedenti comeragioni del suo essere: io posso giungere al numero dieci soloattraverso tutti i precedenti e solo grazie a questa conoscenzadella ratio essendi so dove sono dieci, e dunque otto, sei,quattro” (Quad_1, p. 117)

Ciò vale anche per gli istanti di tempo: ogni istante nonè semplicemente, ma è tra un determinato istante ed un altroistante altrettanto determinato, ed il pensiero di un istanteisolato, avulso dalla successione temporale complessiva è pri-vo di senso.

Si chiederà allora: che tipo di relazione sussiste in questocaso? Possiamo forse ritenere che fra un istante ed il successivosussista un nesso causale? Certamente no. Ma nemmeno sipotrebbe parlare di una relazione logica già per il fatto cheuna simile relazione sussiste tra proposizione e né gli istanti néi numeri sono proposizioni. Di qui la necessità di individuareuna diversa forma del principio di ragione sufficiente.

Sorge tuttavia subito il dubbio che questo esempio siatroppo debole, che esso non sia in grado di esibire una rela-zione in qualche modo intrinseca tra elemento fondante edelemento fondato. Si prospetta invece l’idea di una forma re-lazionale generale, elementarissima e particolarmente strin-gente. Tanto che una successione come quella dei numerinaturali o di quella degli istanti di tempo sembrano valere for-se meglio che come specificazione del principio di ragione,come caso esemplarmente rappresentativo del principio di ra-gione sufficiente inteso nella sua generalità. In un’aggiuntaalla seconda edizione della Quadruplice radice, lo stesso Scho-penhauer nota che “il tempo è lo schema semplice con ilcontenuto essenziale di tutte le forme della ragione sufficien-

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te” (p. 235). Lo stesso naturalmente deve dirsi per l’arit-metica. Il principio di ragione sufficiente è il principio su cuisi fonda la scienza stessa, poiché vi è scienza e indagine scien-tifica ovunque vi siano ragioni da ricercare, fondamenti daportare alla luce. “Scienza, infatti, significa un sistema di co-noscenze, cioè una somma di conoscenze collegate, in con-trapposizione al semplice aggregato delle medesime. Ma chealtro mai se non il principio di ragione sufficiente lega fra lorole membra di un sistema?” (p. 27). Ora, la serie di numeripresenta nella forma più semplice ed anche più rigorosa, pro-prio questa forma di connessione: “Grazie a questa perfettasemplicità, perché niente rimane da parte, né ci sono relazioniindefinite, tale serie non lascia niente a desiderare in precisio-ne, apoditticità e chiarezza” (p. 235).

Tuttavia proprio per questo motivo – per la sua capa-cità di illustrare la tematica generale del principio di ragionesufficiente – il riferimento all’aritmetica non è in grado difornirci una chiara via di accesso al problema della ratio essen-di. A tale scopo dobbiamo piuttosto rivolgerci sul versantedella geometria.

11. La critica del metodo deduttivo nella geometria.Cognitio e convictio

L’impresa fondamentale di Euclide fu quella di organizzare si-stematicamente il sapere geometrico acquisito nel passato inmodo tale da poter dedurre ogni proposizione geometricacome conseguenza di altre proposizioni. Ciò richiede che in-sieme alla validità delle regole inferenziali, sia assumano alcu-ne proposizioni come primitive e dunque, come si è detto persecoli, come in se stesse evidenti.

Con Schopenhauer ci chiediamo: di fronte alla geome-tria considerata nell’orizzonte del problema del principio diragione sufficiente dovremmo soltanto prendere atto di questaforma deduttiva, facendo rientrare l’intera tematica nel qua-

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dro della ratio cognoscendi? In realtà tutta la discussione svi-luppata da Schopenhauer prende le mosse dal rifiuto diorientarsi in questa direzione: le proposizioni geometrichevertono su entità geometriche e ciò a cui siamo interessati è iltipo di rapporto che sussiste tra queste entità. Questo rap-porto viene senz’altro colto ed afferrato nelle dimostrazionicorrispondenti? Schopenhauer non risponde a questa doman-da in modo senz’altro affermativo, ma sottopone la compren-sione della relazione attraverso la dimostrazione a forti limita-zioni. Ciò che viene proposto all’interno di una dimostrazionegeometrica è una conseguenza che dobbiamo riconoscere co-me vera e della cui verità possiamo dirci convinti per il fattoche abbiamo riconosciuto la coerenza logica di ogni passo cheabbiamo compiuto, ma questa convinzione non è la stessa co-sa di una comprensione autentica, non è la stessa cosa chepossedere l’evidenza della connessione che in quella dimostra-zione è stata effettuata.

Occorre qui prestare molta attenzione alla terminologiaimpiegata: per indicare la convinzione che deriva dalla dimo-strazione Schopenhauer si serve del termine latino convictioche viene indicato come termine esplicativo per il tedescoÜberführung. Ma il termine latino convictio non indica inrealtà un’opinione di cui in un modo o nell’altro abbiamo ac-quisito una certezza soggettiva (Überzeugung): esso è invecetratto dal linguaggio giuridico per indicare quel complesso diconsiderazioni, che possono diventare vere e proprie stringentiargomentazioni con il quale un giudice istruttore mette con lespalle al muro un imputato, e in questo senso lo “convince”della sua colpa. Lo convince, nel senso che gli mostra che nonvi sono per lui vie di uscita, che tutto confluisce coerente-mente, logicamente, nell’indicarlo come autore del delitto.Come sappiamo, l’imputato potrà protestare la propria inno-cenza, e del resto il giudice incorrere in un errore. Analoga-mente nelle dimostrazioni geometriche noi possiamo dire diessere convinti in questo stesso senso: le dimostrazioni ci met-

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tono con le spalle al muro, non possiamo dire di no, anche seforse non riusciamo a vedere la connessione realizzata nellaproposizione dimostrata. Di fronte alla convinzione intesa co-sì, sta invece la cognitio, ciò che Schopenhauer chiama Einsicht– un termine che rimanda al vedere (sehen). Nel linguaggioquotidiano einsehen significa in particolare vedere dentro, rico-noscere, ammettere, capire. Sarei propenso a tradurre questotermine con comprensione evidente o addirittura con cognizioneintuitiva.

Si tratta naturalmente di quella comprensione evidenteche abbiamo (o dovremmo avere) per gli assiomi.

Se vi mostro questa figura:

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a

fig. 1

voi afferrate subito da essa che in tutte le figure di questo tipole due rette a e b finiranno per incontrarsi in un solo punto (osiete forse di altra opinione?…). In questo caso, dovremmodire, vi è appunto cognitio, e non pura e semplice convictio.

Dobbiamo dunque ritenere che, per quanto importantepossa essere la messa in forma deduttiva delle proposizionigeometriche, tuttavia questa è appunto soltanto una formache riveste un contenuto di cui è responsabile in generale nonil pensiero astratto, ma appunto l’intuizione, e precisamentequell’intuizione pura di cui parlava Kant in rapporto allo spazio.

Nella discussione della ratio essendi assume così il mas-simo risalto la componente intuizionistica della filosofia diSchopenhauer, una componente che non contraddice la riva-

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lutazione della logica formale a cui abbiamo accennato in pre-cedenza. Quella rivalutazione del resto non attribuisce alla lo-gica in genere una capacità autonoma di produzione conosci-tiva. In rapporto ai contenuti geometrici si manifesta unacontrapposizione assai netta, sotto questo riguardo, tra l’ele-mento intuitivo e l’elemento deduttivo.

Questa contrapposizione assume talora una particolarevirulenza. Così nel § 15 del Primo libro del Mondo, che ri-prende il tema delle dimostrazioni geometriche si afferma re-cisamente che: “Siamo persuasi che l’intuizione è la primasorgente di ogni evidenza; che la verità assoluta consiste uni-camente in una relazione diretta o indiretta dell’intuizione;che inoltre la via più vicina all’intuizione è sempre la più sicu-ra, perché ogni intromissione di concetti è esposta ad errori”(M. p. 107).

Schopenhauer si slancia così in una spericolata criticadel metodo deduttivo di Euclide. Per quanto “il modo in cuiEuclide applica il suo processo meriti tutta l’ammirazione chei secoli gli consacrarono”, tuttavia questo metodo è singolare(seltsam), è un metodo che opera uno stravolgimento (ver-kehrt), perché tende a sostituire ad ogni evidenza intuitivaimmediata una evidenza puramente logica. Ciò ha le sue ra-gioni e le sue motivazioni nella problematica filosofica gene-rale nella quale si muove la filosofia greca fino ad Euclide.Schopenhauer rammenta in proposito le critiche di originescettica nei confronti del fenomeno – cioè nei confronti dellarealtà sensibile, quindi nei confronti dell’intuizione. Si conso-lida così sempre più, e in modo definitivo con Platone, l’ideache ogni verità debba essere cercata nel pensiero puro, in ciòche è puramente pensato, dunque nel noumeno.

Si noti come Schopenhauer tenga qui a rilevare l’opposi-zione tra fenomeno e noumeno nell’originario senso greco, cheha anche un senso tipicamente diverso da quello che Kantconferì ad essa. Qui fenomeno significa semplicemente l’intuì-to, cioè ciò che viene colto con la vista, mentre noumeno indi-

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ca il pensato, ciò che viene acquisito attraverso le vie del pen-siero puro. Ora, muovendosi all’interno di questa opposizionee misconoscendo la possibilità di un’intuizione pura, il filo-sofo che riflette sui fondamenti della geometria non può cherivolgersi al lato noumenico, espungendo nella misura delpossibile gli elementi intuitivi perché essi appaiono ai suoi oc-chi come compromessi con l’empiria. Solo entrando nell’or-dine di idee proposto da Kant si comprende come il problemadello statuto delle proposizioni geometriche debba essere inte-ramente riconsiderato ridando all’intuizione l’importanza cheessa ha in rapporto ad esse. In questo modo possiamo andareoltre quello che, secondo Schopenhauer, è il limite maggioredelle dimostrazioni geometriche, cioè quello di indicare che lecose stanno così e così, senza indicarne il perché.

Ci veniamo così a trovare nei panni di “colui al quale sifanno vedere i diversi effetti della macchina, senza permetter-gli di osservarne l’interno meccanismo e i congegni” (M, p.108). Le dimostrazioni assomigliano a “giochi di prestigio” –e più di tutte assomigliano a giochi di prestigio le dimostra-zioni “apagogiche” – cioè le dimostrazioni nelle quali la ve-rità della tesi da dimostrare verrebbe provata provando la fal-sità della sua negativa. “Qui sembra si proceda realmente apuro rigore di logica – una simile dimostrazione chiude l’unadopo l’altra tutte le porte, non lasciandone aperta che unasola, per la quale dobbiamo passare per quest’unico motivoche è la sola rimasta aperta” (ivi, 109). Si tratta di un’im-magine assai simile a quella delle spalle al muro. Entrambe leimmagini confluiscono nell’istanza di una convictio che possaessere accompagnata da una cognitio. Quella evidenza chesembra dover essere riconosciuta agli assiomi, deve poter esse-re direttamente riconosciuta anche ai teoremi: affermazioneche tende in realtà, se interpretata letteralmente e radical-mente, a sopprimere la differenza tra gli uni e gli altri, eSchopenhauer è indubbiamente molto vicino a operare questasoppressione quando rivendica che “ogni teorema di geome-

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tria esprime una relazione… al pari di ciascuno degli assiomi”e quando sottolinea che “gli assiomi non sono più immedia-tamente evidenti di qualsiasi altro teorema di geometria: sol-tanto sono più semplici, data la loro povertà di contenuto”(p.113).

Probabilmente il lettore si chiederà se ci siamo soffer-mati relativamente a lungo a sottolineare, come ci siamo e-spressi, la virulenza di questo atteggiamento intuizionisticoper poter dare maggiore risalto ad un rifiuto critico. Argo-menti in grado non solo di indebolire, ma di stroncare allaradice un simile atteggiamento sono subito a portata di mano,tanto più se per far valere quell’atteggiamento ci si appella allageometria.

Basterà notare in proposito, evitando approfondimentiche sarebbero qui fuori luogo, che proprio per quando riguar-da la Einsicht, il comprendere con evidenza che qui viene cosìduramente rivendicato, a partire dalla fine del secolo XIX nonviene più richiesto nemmeno in rapporto agli assiomi chevengono concepiti non già come verità, ma come pure assun-zioni, come proposizioni postulate nel senso letterale del ter-mine, in rapporto alle quale viene semplicemente deciso cheesse valgano come proposizioni primitive. Al tempo stesso latendenza all’esposizione assiomatica si è diffusa a tutte le di-scipline matematico–formali, a cominciare dall’aritmetica, chepoteva valere per Schopenhauer come significativo esempio didisciplina di certezza non minore della geometria e in rap-porto alla quale non si era tuttavia sentito il bisogno di daread essa forma dimostrativa. “È del resto notevole – egli scri-veva – che questo metodo di dimostrazione sia stato appli-cato soltanto alla geometria e non all’aritmetica. Qui la veritàviene fatta scaturire dalla sola intuizione…” (p. 115). Eppurequesta tendenza, che culmina sul finire del secolo XIX e chesviluppa una linea di tendenza opposta a quella di Schopen-hauer, può essere fatta risalire proprio ai tempi suoi, quandole geometrie non euclidee sono alle porte. Secondo la manua-

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listica corrente, la scoperta delle geometrie non euclidee mettea tacere la posizione kantiana sulla geometria e di conseguenzatutte quelle posizioni che ad essa si ricollegano, ed anzituttoquella di Schopenhauer.

A questo proposito vorrei notare che l’esempio che ab-biamo precedentemente addotto come esempio di figura chemanifesta una circostanza pienamente evidente

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a

non è altro che una figura con la quale potremmo dare illu-strazione al Quinto postulato di Euclide che riguarda il pro-blema del parallelismo e che dice appunto che, nelle condi-zioni date, le rette a e b prolungate a piacere verranno ad in-contrarsi da quella parte in cui vi sono gli angoli la cui sommaè minore di due retti; e che proprio dalla possibilità di invali-dare questo postulato sorgono le geometrie non euclidee.

Sull’argomento del resto Schopenhauer, nei Supplemential Mondo (cap. XIII, con riferimento al § 15 del Mondo), rin-cara la dose, chiamando in causa proprio questo postulato.Con sconcertante incoscienza del peso della questione, egli ar-riva a ridicolizzare i tentativi ricorrenti e sempre falliti di di-mostrare quel postulato osservando che simili tentativi di dareuna legittimazione logica a ciò che non ha bisogno di nessunalegittimazione, assomiglia allo “scrupolo di coscienza” di cui siparla in Schiller, quando ci si chiede se, pur avendo sempreusato il mio naso per odorare, io abbia sul mio naso un dirittodimostrabile al suo impiego.

“A me pare che il metodo logico giunga qui fino alla

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scempiaggine (Niäserie)”. Ed aggiunge che “proprio per le di-scussione su ciò, accanto ai vari tentativi di rappresentarel’immediatamente certo solo come mediatamente certo apparel’indipendenza e la chiarezza dell’evidenza intuitiva (intuitiveEvidenz) di fronte all’inutilità della convinzione (Überführ-ung) logica in un contrasto che non è meno istruttivo che di-vertente” (Supp. I, cfr, p. 134).

Simili osservazioni potrebbero essere rammentate comeesempio clamoroso non solo dell’insufficienza dell’atteggia-mento di Schopenhauer nei confronti del problema, ma an-che della sua profonda erroneità, oltre che naturalmente delfatto che il richiamo all’intuizione in questo genere di que-stioni era, già ai tempi suoi, senza speranza.

Eppure tanta spericolatezza e tanta arrischiata ostinazio-ne – così potremmo sospettare – forse nasconde, tra eccessi,errori e un po’ di presunzione, qualche problema autentico.Cosicché non vorremmo lasciarci troppo impressionare daqueste ultime considerazioni e in particolare dalle osservazionicritiche relativamente ovvie che sono immediatamente sugge-rite dall’accenno alle geometrie non euclidee. In fin dei continon abbiamo ancora portato ad effettiva chiarezza che cosa si-gnifichi propriamente sostenere che in rapporto agli oggettigeometrici deve darsi una forma autonoma di principio di ra-gione sufficiente. Ci siamo soffermati prevalentemente sullapolemica nei confronti del metodo dimostrativo nella geome-tria, ma questa stessa polemica potrà risultare più comprensi-bile una volta che si sia chiarito a fondo che cosa si intendepropriamente sostenere parlando di ratio essendi.

12. La ratio essendi in rapporto alle posizioni spaziali

Un istante non può essere sottratto alla successione, ed inquesto senso si riferisce ad ogni istante una ratio essendi: ogniistante è fondato nell’istante che lo precede. Nel caso dellaspazialità non abbiamo a che fare con una condizione tanto

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elementare, ma la sostanza del problema non muta. Si diràallora che ogni posizione (Lage) spaziale non può essere con-cepita isolatamente e che dunque essa è fondata, cioè è deter-minata nel suo essere come è dal fatto che un’altra posizione ècome è: una variazione della posizione fondante determina unavariazione nella posizione fondata. Possiamo dunque dire cheparlando di ratio essendi ci si richiama soprattutto all’esistenzadi relazionali funzionali tra le posizioni spaziali. Il termine diposizione deve essere inteso in un senso molto ampio, nonsemplicemente per indicare un luogo o addirittura un puntodello spazio, ma in generale una situazione o una configura-zione più o meno complessa.

Vorrei allora subito fornire un esempio molto sempliceche non si trova in Schopenhauer, ma che mi sembra illumi-nante.

Prendiamo in esame la seguente figura:

b

a

s

r

fig. 2

Qui abbiamo nel punto di incontro tra le due linee s ed r laformazione di due angoli α e β. Ciascuno di essi può essereindicato appunto come una posizione nel senso ampio deltermine. Nell’esempio l’angolo α è minore di β. Ora se mu-tiamo l’inclinazione della retta s su r, muta naturalmente an-

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che il rapporto tra α e β, e precisamente secondo una relazio-ne funzionale in base alla quale β decresce al crescere di α einversamente. Possiamo dire allora che l’essere di β è fondatosull’essere di α ovvero che l’essere di α – ad esempio, il suo es-sere un angolo acuto – è fondamento dell’essere di β un ango-lo ottuso.

Abbiamo cui non solo una chiara illustrazione del sensodel problema, ma anche del motivo per cui parliamo di esseree di ratio essendi. Naturalmente sarebbe sbagliato concepirequesto rapporto come se fosse un rapporto causale, e se qual-cuno non fosse convinto di ciò basterà notare che mentre nelcaso del rapporto causale la sua inversione non è consentita, alcontrario in questo caso lo è. Naturalmente come nel caso delnesso causale, anche questo rapporto può essere formulato inproposizioni, e dunque una ratio essendi può assumere il ca-rattere di una ratio cognoscendi e si apre così la via verso laproblematica della dimostrazione, senza che ciò non implichialcuna confusione tra i due tipi di fondamento.

Ammettiamo ora che la relazione funzionale indicata siasempre valida, cioè che non possa darsi il caso, ad esempio,che α sia acuto e lo sia anche il suo angolo adiacente.

Su che cosa è fondata una simile ammissione? Non suun’argomentazione logica: infatti qui non abbiamo formulatonessuna premessa da cui trarre conseguenze: sembra inveceche possiamo affermare che una simile relazione e, insieme adessa, la sua validità generale venga colta nella o sulla figura, senon addirittura vista in essa, e che dunque di quella relazionefunzionale si dia per noi un’autentica cognitio, e non solo unaconvictio.

“Spazio e tempo hanno la caratteristica (Beschaffenheit)secondo cui tutte le loro parti si trovano tra loro in un rap-porto tale che ogni parte è determinata e condizionata dal-l’altra” (Lez. I, p. 448). Sulla base di questo assunto, compitodella geometria deve essere quello di rendere visibile questo

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rapporto di determinazione e di condizionamento.A questo punto si innestano le considerazioni sulle pro-

cedure dimostrative. In certo modo Schopenhauer dà voce aquel senso di disagio che forse ciascuno di noi ha almeno unavolta nella vita provato di fronte ad una catena dimostrativache da un lato è chiara in ogni suo passaggio, dall’altra lasciacome uno strascico una sorta di sottile e inspiegabile insoddi-sfazione conoscitiva. Schopenhauer parla a sua volta di “im-pressione spiacevole” a cui contrappone l’appagamento dellacognitio, aggiungendo che proprio questa impressione spiace-vole “potrebbe essere una delle ragioni dell’avversione chehanno per la matematica teste del resto eccellenti”: una frasenella quale sembra di avvertire una vaga inflessione autobio-grafica (Quad_2, p. 218).

13. Tre esempi per illustrare la ratio essendi

a. primo esempio

Un teorema euclideo – e precisamente il VI del Primo librodegli Elementi – afferma che

“se in un triangolo due angoli sono uguali fra loro, sarannouguali fra loro anche i lati opposti agli angoli uguali”.

Schopenhauer lo discute in entrambe le edizioni dellaQuadruplice radice e nelle Lezioni berlinesi.

È bene richiamare l’attenzione sul fatto che si trattadella prima dimostrazione degli Elementi in cui viene appli-cato il procedimento per assurdo.

Rammentiamo la struttura di questa dimostrazione. Es-sa presuppone la quarta proposizione degli Elementi detta an-che primo criterio dell’uguaglianza dei triangoli, che stabilisce“se due triangoli hanno due lati e l’angolo tra essi compresorispettivamente eguali sono eguali” (Cfr. Gli elementi di Eu-

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clide, a cura di A. Frajese e L. Maccioni, Torino 1970, p. 82):

A

B C

A'

B' C'

fig. 3

Sia dunque nel seguente triangolo α=β:

A

B Cα β

fig. 4

La tesi da dimostrare è che saranno eguali anche i lati AB eAC. Poiché si tratta di una dimostrazione per assurdo affer-miamo: non sia così. I lati AB e AC saranno dunque diversied assumiamo che AB sia maggiore di AC. Ci sarà allora unaparte di AB che chiamiamo DB che sarà eguale ad AC. No-tiamo che il triangolo DBC essendo compreso in ABC è mi-nore di esso.

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A

B C

D

a b

fig. 5

Ora, BC è lato comune ai triangoli ABC e BDC. BD lo si èammesso eguale ad AC. Gli angoli α e β sono eguali per ipote-si e sono compresi tra lati rispettivamente eguali. Di conse-guenza i due triangoli sono eguali. Ma abbiamo già detto chel’uno è minore dell’altro perché è in esso compreso, cosicchédalla negazione della tesi da dimostrare abbiamo tratto unacontraddizione: i due triangoli dovrebbero essere ad un tempodiversi ed eguali l’uno all’altro, cosicché è vera la negazionedella negazione della tesi da dimostrare, e dunque la tesi stessa.

Osserva Schopenhauer: se noi cerchiamo una possibileratio cognoscendi della verità della tesi, questa sequenza argo-mentativa potrà essere senz’altro accettata come tale. Ma sullabase di essa possiamo dire soltanto di sapere che le cose stan-no così, ma non siamo in grado di afferrare la relazione che viè fra l’eguaglianza degli angoli e l’eguaglianza dei lati – orapossiamo ben dire: non riusciamo a cogliere la relazione funzio-nale tra queste posizioni. Questa relazione resta anzi profon-damente celata al di là della dimostrazione, cosicché il fattoche il triangolo abbia i lati eguali ci può apparire come unaconnessione misteriosa, come una vera e propria qualitas oc-culta (M, p. 111). Schopenhauer affaccia addirittura l’idea

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che, nonostante la forza della struttura argomentativa, poichénon si va oltre l’idea della coesistenza di due condizioni spa-ziali, resti l’impressione di avere a che fare con una verità difatto o che non vi sia in ogni caso una differenza profonda trauna simile verità e la stessa verità ottenuta mediante una mi-surazione.

Ma in realtà abbiamo un’altra via per renderci contodella verità di una simile proposizione. Si tratterà di andarealla ricerca di nessi funzionali, attraverso quella che potremmochiamare un’ispezione della figura – termine con il quale vor-remmo intendere non un guardare qualunque, ma un guarda-re per scoprire. Inoltre è opportuno anche cogliere dietro laterminologia che tende a diventare sempre più rarefatta, lecondizioni concrete che vengono mascherate proprio da que-sta rarefazione. Ad esempio: si parla di angoli eguali. Ma nellecondizioni descritte che cosa vuol dire questa eguaglianza senon eguaglianza di inclinazione?

a br

t s

fig. 6

Ma allora è chiaro che se l’inclinazione rispetto alla retta r èeguale, allora le due parti in cui il triangolo può essere suddi-viso sono l’una l’immagine speculare dell’altra, le due rettedunque non differiscono in nulla l’una dall’altra se non per laloro posizione. Il lato che giace sulla retta t può essere consi-

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derato come esattamente lo stesso che il lato che giace sullaretta s, con la sola differenza della “posizione opposta”.

Diversamente dal caso della dimostrazione, ora com-prendiamo direttamente il nesso che vincola l’eguaglianza de-gli angoli all’eguaglianza dei lati e ci diventa chiaro che laprima è il fondamento per l’eguaglianza dei lati opposti. Il filoconduttore del problema è qui esattamente lo stesso che nelcaso del nostro esempio elementare degli angoli adiacenti.

Un secondo ed un terzo esempio meritano di essere rife-riti. Il secondo è presente sia nelle Lezioni berlinesi sia nelledue edizioni della Quadruplice, mentre è assente dal Mondo. Ilterzo è invece presente in tutti e tre i testi, ed è l’unico espres-samente proposto nel Mondo.

b. secondo esempio

La proposizione XVI del Libro primo degli Elementi presentaun teorema di particolare importanza in quanto è connessocon la teoria delle parallele. In genere ci si riferisce ad essocome teorema dell’angolo esterno maggiore. Esso afferma infatti:

“In un triangolo, se si prolunga uno dei lati, l’angolo ester-no è maggiore di ciascuno dei due angoli interni ed opposti”

a

b

g

fig. 7

Diciamo dunque che l’angolo α è maggiore di β e γ.La dimostrazione che troviamo in Euclide si avvale di

alcuni teoremi dimostrati in precedenza e di una costruzione

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ausiliaria: si tratta di una dimostrazione relativamente com-plessa, e del resto questo caso viene citato da Schopenhaueranche per mostrare che il diverso modo di approccio da luisuggerito può avere successo anche in casi di particolare com-plessità. Essendo ormai entrati nel merito della questione, nonabbiamo bisogno di rammentare la dimostrazione passo dopopasso. Ci basterà invece accennare al tipo di considerazioneche svilupperemo intorno ad essa tenendo conto del punto divista che abbiamo ormai diffusamente illustrato.

Naturalmente sarebbe insignificante affermare di coglie-re nel disegno una simile relazione. L’intuizionismo geometri-co di Schopenhauer non equivale a sostenere banalmente cheuna certa relazione viene colta ad occhio – e ciò sarebbequanto basta. Il vedere è importante, ma è importante so-prattutto che si pensi intorno a ciò che si vede. Inoltre occorresottolineare che questi esempi intendono solo fornire un’indi-cazione per una possibile direzione di sviluppo che restatutt’altro che chiaramente determinata, e che non lo è nem-meno per Schopenhauer. Si comprende infatti assai bene dal-lo stile dell’esposizione che egli intende non più che segnalareun problema – in certo senso “gettarcelo davanti” – mache rimetterebbe volentieri ad altri il compito di delimitarlocon effettiva competenza e coscienza di causa. Sarebbe farglitorto non tenerne conto.

Si è parlato in precedenza di ispezione della figura, pro-prio per sottolineare che si tratta di un esame teso a scoprire lapresenza di nessi funzionali. Questa ispezione deve essereorientata da qualche pensiero. La stessa idea di un nesso fun-zionale suggerisce un esame in certo senso dinamico, ovveroun esame attento alle variazioni che possono intervenire in u-na certa posizione al variare di un’altra. Questo problema del-la variazione, a dire il vero, non viene esplicitamente preso inconsiderazione da Schopenhauer, ma a me sembra che essopossa efficacemente entrare nei nostri commenti perché è amio avviso implicato in questo genere di considerazioni. Del

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resto fin dall’inizio abbiamo introdotto l’idea dell’interdi-pendenza delle posizioni spaziali richiamando l’attenzione suciò che accade al variare dell’inclinazione della retta s su r perquanto riguarda il rapporto tra i due angoli adiacenti.

s

r

fig. 9

Un simile orientamento può essere fatto valere anche in rap-porto a situazioni un poco più complesse. Ad esempio, pos-siamo proporre la seguente figura:

s

r

t

A

fig. 10

Essa differisce dalla precedente solo per l’aggiunta della retta te possiamo considerare poi ciò che accade nei rapporti tra gliangoli che si vengono a formare facendo variare unicamente laretta t considerando il punto A come perno della variazione.Sembra non porre alcun problema, allora l’ammettere che vi èuna posizione in cui la retta t e la retta r hanno la “stessa dire-zione”: ruotando al di sopra di questa posizione l’angolo β di-venta sempre più grande, al sotto esso diventa sempre più pic-colo. Nella posizione della “stessa direzione”, che è natural-

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mente la posizione del parallelismo, l’angolo β è egualeall’angolo α. Questa condizione di eguaglianza può anzi essereconsiderata come una possibile caratterizzazione definitoriadel parallelismo.

s

r

t

A

ab

fig. 11

Si tratta di una caratterizzazione che non dovrebbe darci piùproblemi di quanti ce ne dia, ad esempio, il caratterizzare lacondizione di perpendicolarità

fig. 12

con una considerazione relativa all’eguaglianza degli angoliadiacenti.

Questa osservazione preliminare sul parallelismo ci con-duce subito al problema posto dal teorema dell’angolo esternomaggiore. Basterà infatti riconsiderare la figura triangolareprecedentemente proposta all’interno di una configurazionedi rette:

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a

g

t

s

l3l1

l2 r

u

fig. 13

In base a quella osservazione preliminare affinché l’angolo in-terno opposto, ad esempio β, sia almeno eguale ad α sarebbenecessario che il lato l1 giacesse sulla retta t in posizione di pa-rallelismo rispetto ad r, mentre affinché un triangolo possa es-sere costruito è necessario che β sia minore di α. Un’os-servazione perfettamente analoga può essere compiuta perl’angolo interno opposto γ, naturalmente facendo riferimentoal parallelismo con l3 e quindi con la retta s.

In questo modo il problema si è tradotto per noi nelmostrare che un triangolo può essere costruito solo alla condizio-ne, per dirla in breve, dell’angolo esterno maggiore. Questa con-dizione ci appare qui con la chiarezza con cui ci apparel’impossibilità di costruire un triangolo che abbia un lato pa-rallelo ad un altro.

Chiunque potrà considerare la dimostrazione euclidea enotare la profonda differenza, e potrà anche ritenere inappro-priato il parlare per questo percorso di dimostrazione: forse sa-rebbe più giusto dire che si tratta di una sorta di riflessione chetende a far vedere quella connessione tra l’angolo esterno e gliangoli interni opposti. In questa riflessione hanno particolareimportanza (per quanto poco questo aspetto venga messo inrilievo da Schopenhauer) considerazioni relative ai metodi dicostruzione dell’oggetto geometrico.

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c. terzo esempio

L’esempio più sorprendente, a cui Schopenhauer tiene inmodo particolare, ed è infatti l’unico esempio che egli conser-va nell’esposizione del Mondo, è quello relativo alla proposi-zione XLVII, penultima proposizione del primo libro degliElementi – il cosiddetto Teorema di Pitagora.

Della sua complessa dimostrazione Schopenhauer dice:“vengono tirate delle linee senza che se ne sappia il perché:più tardi ci accorgiamo che erano dei nodi scorsoi che si strin-gono all’improvviso per strappare l’assenso dello studioso: ilquale, tutto compreso di meraviglia, è ora costretto ad am-mettere una cosa la cui connessione intrinseca gli resta per-fettamente incomprensibile” (M, p. 108).

In luogo di ciò Schopenhauer ci mette senz’altro sottogli occhi una figura nella quale dalla cui ispezione dovremmoafferrare con evidenza la relazione affermata dal teorema, al-meno nel caso dei triangoli isoscele (benché Schopenhauer sidica certo che una esibizione analoga sia possibile anche nelcaso di cateti diseguali, non fornisce indicazioni in proposito):

fig. 14

In realtà di primo acchito di qui non si vede certo la circo-stanza secondo la quale il quadrato costruito sull’ipotenusa èeguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti di un trian-golo rettangolo – anzi forse non si vede qui nemmeno chia-

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ramente dove sia il triangolo rettangolo da prendere in consi-derazione. Ma sappiamo già che non è in un modo tanto im-mediato che deve essere inteso ciò che Schopenhauer intendesostenere.

Vogliamo allora ricostruire la figura a nostro modo pro-cedendo di passo in passo. Anzitutto disegnamo un triangolorettangolo isoscele nella disposizione che ci è più familiare:

A

BC

fig. 15

Quindi costruiamo senz’altro i due quadrati sui cateti.A

BC

fig. 16

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Tracciando le diagonali di questi quadrati nel modo in-dicato:

A

B

C

D

E

fig. 17

facciamo notare che i triangoli che ne risultano sono tuttieguali tra loro ed eguali al triangolo ABC. Infatti il quadratoACDE risulta suddiviso da due diagonali e dunque in quattrotriangoli eguali, due dei quali appartengono ai quadrati co-struiti sui cateti.

A questo punto il gioco è fatto perché il quadrato AC-DE non è altro, essendo il suo lato eguale all’ipotenusa AC,che il “quadrato costruito sull’ipotenusa”.

Questo quadrato è eguale – come è mostrato dallasuddivisione in triangoli – alla somma dei quadrati costruitisui cateti. La figura nella forma proposta da Schopenhauer de-riva semplicemente dal fatto che il triangolo rettangolo vieneproposto con l’ipotenusa come base:

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B

C<Enter<EnterA

fig. 18

Non si potrebbe forse trovare un’illustrazione più brillantedell’idea fondamentale dell’interdipendenza delle parti e dellapossibilità della sua “visibilizzazione”. E su di essa possiamoanche concludere la nostra esposizione sulla ratio essendi, conalcune poche e caute (dato il peso dell’argomento) parole dicommento.

Intanto non dovremmo farci impressionare da alcune fon-damentali incomprensioni presenti in Schopenhauer e che ri-guardano proprio il modo in cui egli considera l’impresa eu-clidea e la problematica della deduzione nel suo complesso. Intutta la discussione critica sulla dimostrazione geometrica sirisente un’ostilità cresciuta già sui banchi di scuola con un’im-postazione di insegnamento tendente a far memorizzare pro-cedure dimostrative e in genere calcolistiche piuttosto che afar comprendere le problematiche soggiacenti ad esse ed amostrare in che modo di esplichi la creatività del pensiero inquesto campo. Si avverte nel testo che sullo sfondo vi è ancheun problema “didattico”, ad esempio quando si cita un’ini-ziativa tendente a far valere le istanze metodiche “intuizioni-stiche” proprio sul terreno dei programmi scolastici (cfr. M.,p. 112). Nello stesso tempo credo che sia innegabile, nono-stante tutte le incomprensioni e le formulazioni estreme, lapresenza in tutta l’esposizione di spunti assai ricchi di interesse.

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Certo, non è del tutto chiaro in che modo debba essereintesa e teorizzata la nozione di intuizione pura, e forse il suoprincipale difetto sta nel suo vincolo all’idea dello spazio co-me forma a priori nel senso dell’estetica trascendentale kan-tiana, vincolo che fa sì che i dati emergenti nella cosiddettaintuizione pura siano considerati in linea di principio comedati assolutamente validi attinenti alle legalità dello spazioreale. Ma nella discussione che si sviluppa sugli esempi si ha lasensazione che vengano sollevati problemi che non sonostrettamente dipendenti ai presupposti kantiani. Ciò vale inparticolare per la questione della cognitio, quindi per la tema-tica delle giustificazioni intuitive. È anche il caso di mettere inguardia dal ritenere che sia sufficiente un superficiale riferi-mento alle geometrie non euclidee per mettere a tacere istanzedi tipo intuizionistico.

La nostra esposizione risulterebbe tuttavia incompleta senon indicassimo la provenienza dell’ultimo esempio nel qualela contrapposizione tra la figura e la dimostrazione vengonoduramente contrapposte l’una all’altra. Questa provenienzanon è da Schopenhauer apertamente denunciata ed in certosenso quasi tenuta nascosta.

Si tratta del famoso passo del Menone platonico in cuiSocrate, per dare una prova della teoria della reminiscenza,interrogando un servo mostra che anche senza saper nulla digeometria, egli è in grado di risolvere un problema geometricopiuttosto complesso. Il problema è quello di costruire unquadrato la cui area sia doppia dell’area di un quadrato dato.L’errore in cui subito incorre lo schiavo nel ritenere che perottenere un simile quadrato basti raddoppiare il lato del qua-drato, viene corretto dalle domande di Socrate – quindi dallegiuste risposte fornite dallo schiavo; si giunge così alla costru-zione finale che presenta la figura seguente, essendo il qua-drato dato ABCD:

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A B

DC

F

E

fig. 19

L’eguaglianza tra i triangoli consente di effettuare valutazionied in particolare nella figura si mostra che il doppio del qua-drato dato è il quadrato costruito sulla diagonale del quadratodato, il quadrato dunque che ha per lato DB (dunque il qua-drato DBFE). Ora, in questa figura è nascosta quella di Scho-penhauer, e precisamene nella disposizione che io ho in pre-cedenza suggerito. Osservo in margine che nel commento allatraduzione italiana degli Elementi, (cit. p. 147) si osserva chenel passo del Menone platonico non si può ricercare “una di-mostrazione del teorema”, il che è fuori di dubbio; così comeè indubbio che “il procedimento dimostrativo ivi offerto pre-scinde completamente dal teorema di Pitagora anche nella suaimpostazione”: dopo di che il lettore è portato a chiedersi chene è allora del procedimento platonico, che in rapporto ad es-so si possa parlare di un procedimento dimostrativo, ed in talcaso se tra l’uno e l’altro esista un qualche rapporto, e quale.

In realtà con un balzo veramente geniale Schopenhauerci riporta indietro da Euclide a Platone: il che è quanto dire:da un’elaborazione che ha ormai di mira una scienza dedutti-va sistematicamente esposta alle tematiche ed alle impostazio-ni che stanno alla sua origine. Potremmo addirittura sostenereche l’intera problematica che abbiamo esposta avrebbe potuto

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prendere le mosse proprio dal quadrato di Platone. Nel dialo-go tra Socrate e lo schiavo non si deduce nel senso euclideodel termine. Si traccia con un dito un quadrato nella sabbia –la “dimostrazione” comincia così:

– Socrate: “Dimmi, ragazzo, riconosci in questo unospazio quadrato?”

– Schiavo: “Sì”

Questo riconoscimento è il primo passo della dimostrazione.Poi si procede oltre tracciando linee e pensando attraverso lafigura tracciata – ed a ogni passo occorrerà pronunciare un“sì”: ciò è quanto vedo.

Si può dunque ben chiedere: che cosa significa in gene-rale dimostrare, oppure che cosa significa in questo caso? Unafigura può essere una dimostrazione? Oppure: vi sono circo-stanze in cui può esserlo? Ed ancora: nel caso della dimostra-zione platonica, e dunque nelle riflessioni dimostrative diSchopenhauer, si tratta forse di dimostrazioni imperfette? Se ècosì, che cosa manca ad esse per raggiungere la perfezione?

Non c’è dubbio che numerosi siano qui i motivi di ri-flessione.

– A questo esempio di Schopenhauer ho accennato nel mio saggio Lafenomenologia come metodo filosofico.

14. La quarta forma del principio di ragione sufficiente.La tematica della motivazione

In rapporto alla quarta forma del principio di ragione suffi-ciente ci interessa soprattutto mostrare – sulla base della pri-ma edizione dell’opera – l’origine della discussione che, toc-cando la tematica della motivazione e della volontà, avrà unostraordinario sviluppo nelle opere successive.

La questione del fondamento, che fa tutt’uno con la pos-

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sibilità di porre la domanda intorno al perché, non può certolasciar fuori dal proprio orizzonte l’intero ambito delle azioninostre o altrui, i comportamenti in genere. Di fronte ad un’a-zione ci possiamo sempre interrogare sui motivi. Ma qui ci im-battiamo in una prima difficoltà: la classificazione che ha fattoda guida all’intera esposizione riguardava gli oggetti ovvero lerappresentazioni, mentre parlando di azioni e di comporta-menti è dubbio che si possa considerarli tali; e vi è inoltre unriferimento soggettivo ineludibile, altrimenti non si potrebbeparlare di azione, ma piuttosto di puri movimenti. Inversa-mente non parleremmo di azioni nel caso di movimenti dellecose del nostro mondo circostante. La questione ha dunqueuna sua peculiare difficoltà che si manifesta nel modo in cuiessa viene posta fin dall’inizio.

La quarta classe di oggetti, osserva Schopenhauer, com-prende in realtà “un solo oggetto, cioè l’oggetto immediatodel senso interno, il soggetto del volere, che è oggetto del sog-getto conoscitivo” (Quad_1, p. 127).

Non parleremo dunque subito delle azioni e dei loromotivi, ma del soggetto che vuole. Questo io che vuole puòperaltro essere dato alla soggettività che conosce: esso è unarappresentazione dell’io conoscente, così come è una rappre-sentazione un albero o una figura geometrica. Si precisa conespressione kantiana (e originariamente lockiana): una rappre-sentazione del senso interno, l’oggetto di un atto riflessivo –introspettivo.

L’accento viene posto insistentemente su questo puntoper il fatto che Schopenhauer intende sostenere che l’io checonosce – a differenza dell’io che vuole – non può darsi asua volta come rappresentazione, il soggetto conoscente nonpuò essere conosciuto, e dunque essere dato al senso interno.In questa singolare osservazione di Schopenhauer sono pre-senti due argomenti: uno di tipo logico ed un altro di tipopsicologico. Da un lato, l’io conoscente è appunto essenzial-mente attività rappresentativa, ed allora questa attività non

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può obbiettivarsi in una rappresentazione perché ogni rappre-sentazione la presuppone; dall’altro, e questa è la notazione ditipo psicologico, io posso ad esempio guardare qualcosa, atti-vando così il senso esterno, ma non posso nello stesso istanteattivare il senso interno, rappresentandomi mentre guardoqualcosa. Sarebbe come se pretendessi, mentre guardo qualco-sa che sta di fronte a me, di volgere al tempo stesso lo sguardoall’indietro per vedere che cosa accade alle mie spalle. Sensointerno e senso esterno non possono essere attivati simulta-neamente.

Entrambi questi motivi sono presenti nell’osservazionesecondo cui la proposizione “io conosco” sarebbe una propo-sizione analitica. Spiega Schopenhauer: “io so di conoscere”ha lo stesso senso che “io conosco”; e “io conosco” dice tantoquanto dice la semplice paroletta “io” (p. 128). Quanto allapossibile obiezione che chiede in che modo possiamo parlaredi diverse modalità di conoscere, come la sensibilità el’intelletto, e delle loro funzioni, Schopenhauer risponde chequesta possibilità è data dal fatto che tutte queste differenzesono rilevabili sugli oggetti di queste attività, cosicché possia-mo dire che “gli oggetti hanno queste e queste altre determi-nazioni inerenti e peculiari” e ciò significa: “Il soggetto cono-sce in questi e in questi altri modi” (p. 129).

Naturalmente non staremo a discutere la validità di que-ste argomentazioni. Assai più interessante e produttivo è inve-ce cercare di cogliere lo scopo di esse, ed anche l’atmosfera teo-rica nella quale sono immerse. Da un lato infatti non c’è dub-bio che, per ciò che riguarda la nozione di soggettività, un pe-so considerevole ed una particolare pregnanza venga a spettareproprio alla soggettività conoscitiva. Come abbiamo visto orora la nozione stessa di io fa tutt’uno con quella di “io cono-sco”. Questa presa di posizione avrà particolare peso nell’ope-ra maggiore.

Nello stesso tempo si sottolinea in modo particolare ladifferenza tra l’io che vuole e l’io che conosce. Ciò che rende

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possibile la rappresentazione del soggetto della volontà è pro-prio il fatto che esso è qualcosa di interamente diverso daun’attività rappresentativa, e perciò non si forma quella sortadi corto circuito che determinata la negazione della possibilitàdi conoscere il soggetto della conoscenza. Il soggetto del co-noscere ha qui a che fare con qualcosa che gli è profonda-mente eterogeneo – questo è l’io che vuole, il soggetto dellavolontà.

All’interno di questa esposizione l’attenzione deve essereportata soprattutto su questo problema dell’eterogeneità. Perquanto poco Schopenhauer vi insista, tuttavia esso resta ilpunto essenziale. Questo problema è già presente quantoSchopenhauer osserva che mentre “io conosco” può essereconsiderata una proposizione analitica, “io voglio” invece puòessere considerata come una proposizione sintetica a posterio-ri, ovvero come una proposizione empirica (p. 134). Afferma-zione assai singolare! Infatti essa significa né più né meno chel’io conoscente scopre di essere soggetto della volontà comeuna sorta di dato di fatto dell’esperienza interna. Questa ga-rantisce peraltro anche, con assoluta immediatezza, che l’ioche conosce coincide con l’io che vuole, l’uno e l’altro io sonolo stesso io. L’eterogeneità viene dunque superata, ma il modoin cui l’intero problema viene impostato spiega perché questaidentità, che è peraltro immediatamente data, è tuttavia in-comprensibile (unbegreiflich), anzi un vero e proprio miracolo(Wunder).

Inoltre, sulla base di questa impostazione della questio-ne, se da un lato si conferisce particolare importanza all’io co-noscitivo per il fatto che l’attività del conoscere diventa co-stitutiva della nozione stessa dell’io, dall’altro la coscienza chenoi abbiamo di noi stessi è soprattutto coscienza di noi stessicome soggetti della volontà.

Nello scritto del 1839 intitolato La libertà del volereumano, alla domanda “Che cosa è l’autocoscienza?” si arriva arispondere che essa è “la coscienza del proprio io, in antitesi

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alla coscienza di altre cose, la quale è la facoltà conoscitiva”(Lib., p. 50). In questa antitesi, con coscienza del proprio ionon possiamo intendere altro che coscienza di essere un sog-getto che vuole. Ed alla domanda di come faccia l’uomo arendersi direttamente conto del proprio io si deve rispondere:“certamente in quanto è uno che vuole. Osservando la propriacoscienza di sé ognuno si accorgerà subito che il suo oggetto èsempre il proprio volere” (ivi, p. 51).

Tenendo conto di ciò possiamo chiarire meglio l’affer-mazione che a suo tempo avrebbe potuto lasciarci perplessisecondo la quale la “classe di oggetti” ora in questione constadi un unico oggetto. Ciò non significa che essa sia più poveradelle altre classi. Tutt’altro. Il soggetto della volontà è infattiuna realtà straordinariamente multiforme: nella volontà nondobbiamo vedere solo l’atto esplicito del volere, e dunquesoltanto il momento della decisione all’azione e l’azione con-seguente. Dobbiamo invece considerare la volontà comeun’energia diretta ad una realizzazione, come una forza inter-na che deve esprimersi e manifestarsi esternamente, cogliendocosì la sua presenza nell’intera varietà dei suoi modi di mani-festarsi ed anche nei sentimenti che li accompagnano.

Tra le manifestazioni della volontà deve essere annove-rata anche: “ogni brama, aspirazione, desiderio, struggimento,anelito, speranza, amore, gioia, giubilo e simili, ed anche ogninon volere, ogni riluttanza, ogni aborrire, fuggire, temere, es-sere in collera, odiare, affliggersi, soffrire, insomma tutte lepassioni e i moti dell’animo, dato che queste passioni e questimoti sono soltanto più o meno deboli o forti, ora violenti etempestosi, ora calmi e lievi moti della propria volontà osta-colata o scatenata, soddisfatta o non soddisfatta; e tutti ri-guardano il raggiungimento o il fallimento del voluto, la sop-portazione o il superamento di ciò che si aborrisce, in svariateforme: essi sono dunque decise affezioni di quella stessa vo-lontà che si attiva nelle decisioni e nelle azioni” (Lib., p. 51).

Dietro quell’unico oggetto che è l’io che vuole c’è dun-

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que l’io che desidera, che teme, che viene attratto o respinto,l’io che ama e che odia, l’io che gioisce o che soffre. Il temadella volontà è in generale il tema della coscienza non rappre-sentativa. Ciò che si sostiene è allora che in rapporto al sog-getto che vuole e dunque alle azioni che sono determinate daquesto volere deve applicarsi una forma autonoma del princi-pio di ragione sufficiente, che viene chiamata principium ra-tionis sufficientis agendi.

L’idea di base è che ogni azione abbia un motivo, che ilmovimento della volontà sia sempre avviato da qualche sti-molo, proveniente dal mondo esterno o dalla vita interiore.

“Noi abbiamo a priori la coscienza di continuo confer-mata dall’esperienza interna che non vi è atto del volere, némovimento del volere che possa emergere dalla oscurità inter-na del nostro essere presentandosi alla luce della rappresenta-zione e della conoscenza senza che la volontà sia eccitata daqualcosa di esterno” (Lez. 1, p. 468). Schopenhauer insisteparticolarmente su questo punto – e forse conviene richia-mare l’attenzione sul fatto che non si tratta affatto di unpunto del tutto ovvio. Ovvio è naturalmente che ci siano talo-ra, ed anche per lo più, dei motivi. Meno ovvio è invece che sidiano sempre dei motivi, che non vi siano azioni immotivate– e non solo azioni ma anche fantasie, ricordi, stati d’animo osituazione affettive. Questa generalizzazione corrisponde allatesi particolarmente forte secondo la quale nemmeno il piùpiccolo dettaglio della nostra vita psichica può essere conside-rato insignificante: “Anche l’azione più irrilevante non puòaccadere senza motivo” (Lez.1, p. 469. La significatività è datadalla connessione motivazionale che è in ogni caso una ratio.

Come stanno ora le cose quanto al rapporto tra il prin-cipium agendi e le altre forme del principio di ragione suffi-ciente? La differenza rispetto alla ratio essendi è del tutto chia-ra; e nemmeno pone problemi la distinzione e la relazione conla ratio cognoscendi: anche alla ratio agendi si può dare formadi ratio cognoscendi, come per ogni altra forma del principio.

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Ciò che invece resta da giustificare è la differenza tra la “leggedella motivazione” e la “legge della causalità”. Si tratta di unaquestione che, come si comprenderà, può diventare moltocomplicata e che è certamente destinata a complicarsi nellosviluppo del pensiero di Schopenhauer ed a invilupparsistrettamente nel quadro del suo sistema metafisico. Ma quipossiamo limitarci alla risposta relativamente semplicementeproposta nella prima edizione della Quadruplice radice.

Essa punta ancora una volta sull’esperienza che noi ab-biamo delle azioni che consideriamo volontarie e del rapportocon i loro motivi. Se ci disponiamo da un punto di vistaesterno (a parte posteriori, dice propriamente Schopenhauer,cioè dal punto di vista delle conseguenze) avremo a che farecon una considerazione di eventi che soggiace ad una pura le-galità causale, e la natura del problema non è nemmeno visi-bile. Se ad esempio vedo una persona che dà una spinta adun’altra e la fa cadere da un ponte, questa può essere conside-rata una pura concatenazione causale di eventi, e la spinta nonè nulla di diverso da un evento fisico che ne provoca un altro.

Diversamente stanno le cose se ci mettiamo, anziché avalle dell’azione, a monte (a parte priori), se in particolareconsideriamo la questione dall’interno, cioè in rapporto al-l’esperienza che noi abbiamo dell’azione. Osserva allora Scho-penhauer:

“Noi abbiamo in tutte le nostre azioni la coscienza vivis-sima, e spesso persino gravosa che una decisione che è statapresa non debba necessariamente conseguire dalle rappresen-tazioni delle altre tre classi, ma che essa… sia dipesa imme-diatamente dal soggetto del volere: di questo, del soggetto delvolere è percepibile solo il volere stesso, e non invece lo statoche precede il volere. Constatiamo così che per il volere lalegge di causalità non vale, dal momento che seguendo questaogni stato segue sempre e necessariamente uno stato ad essoprecedente…” (Quad_1, p. 136).

Questa osservazione si richiama dunque al fatto che pur

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essendo i motivi sempre presupposti, e siano anche determi-nanti, il soggetto avverte l’azione come un’azione che scaturi-sce da una libera decisione non preceduta da alcunché, avvertein breve la responsabilità delle proprie azioni.

Si apre così una problematica interamente diversa daquella causale.

15. L’ affiorare della tematica dell’ inconscio

Le nostre indicazioni di lettura della Quadruplice radice si pos-sono concludere con una postilla che tocca un punto di note-vole importanza.

Si ricorderà che uno dei problemi che abbiamo sfioratotrattando della prima classe di oggetti era quello di rendereconto della differenza tra essi e le pure rappresentazioni fanta-stiche, siano esse fantasticherie esplicite, effettuate durante laveglia oppure quelle fantasie che noi stessi realizziamo nei no-stri sogni, ma che si manifestano passivamente, spesso con laforza e l’evidenza di autentiche percezioni.

Un problema analogo sotto certi riguardi è rappresen-tato dalle immagini delle memoria: esse rimandano alla realtàpassata, ma certamente le cose che mi si ripresentano nellamemoria sono qualcosa di assai diverse dalle cose reali, effetti-vamente percepite.

Il criterio della differenza è stato indicato nel fatto che ifantasmi, come si esprime Schopenhauer, ed anche le imma-gini mnestiche non fanno parte di quella totalità di esperienzanella quale si costituite il mondo stesso. Affinché si dia unmondo reale, le esperienze debbono essere organicamente in-tegrate tra loro senza lacune che non possano in qualche mo-do essere superate. Invece nel sogno possiamo avere fantasmiperfettamente corrispondenti a cose reali, possiamo compiereazioni che potremmo anche compiere nella veglia, ma il con-testo di esperienza in cui tutto ciò si presenta risulta lacunosoe in ogni caso il sogno nel suo complesso non si integranell’esperienza totale del reale.

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In diversi luoghi Schopenhauer sottolinea la caratteristi-ca del sogno di turbare la continuità dell’esperienza con eventinon integrabili in essa. Spetta al ricordo l’operare al risveglioquella ricostituzione con gli avvenimenti della sera preceden-te; ma talora il ricordo stesso mostra – ad esempio quando ciassale all’improvviso nella vita desta – un analogo carattere di-sgregato, isolato, come un fantasma della fantasia o del sogno.

In quei primi cenni a questo problema, avevamo evitatodi porre l’obiezione che invece subito si fa avanti. Se le cosestanno così, a quali delle quattro classi appartengono le rap-presentazioni fantastiche in generale? Esse non appartengonocerto alle rappresentazioni della prima classe propria per viadella loro disaggregazione, ma questo loro carattere non ci faforse dubitare che per esse non sia semplicemente proponibileil problema di una ratio?

In realtà la questione può essere discussa solo a questopunto perché essa richiede che sia stato adeguatamente for-mulato il problema della motivazione. In questo contestol’argomento può essere ripreso (Quad_1, § 47). I fantasminon appartengono all’intero dell’esperienza, non sono sotto-posti dunque alla legge di causalità, bensì alla legge della mo-tivazione.

Ogni fantasia ha un motivo, lo ha ogni momento del so-gno, lo ha un ricordo improvviso – come abbiamo già notato– nessun dettaglio della vita di coscienza, per quanto appa-rentemente irrilevante, può essere considerato immotivato.

Una prima conseguenza importante è che il motivo c’èanche quando esso non viene avvertito, quando esso resta fuoridel campo della consapevolezza. L’esperienza di una fantasiaimmotivata, di un ricordo improvviso che sembra scaturire dalnulla, e persino di una frase che prorompe dalla nostra bocca eforse proprio nel momento più inopportuno è un’esperienza diogni giorno. Ma anche in questi casi la legge di motivazione èin opera – essa è in opera “anche quando non percepiamol’estrinsecazione della volontà, ma solo il suo effetto immedia-

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to, cosicché ci sembra che qualcosa sia venuta alla coscienzasenza alcun nesso con un’altra” (Quad_1, p. 146).

Vi è poi un presupposto implicito di particolare rilievo:non è possibile parlare di legge della motivazione in rapportoai fantasmi senza collegarli al soggetto del volere, alla tematicadella volontà. Non si tratta con questa affermazione di soste-nere un’insostenibile analogia tra le fantasie e le azioni volon-tarie – questo nesso allude invece ad una presa di posizioneben più ricca di significato. Siamo qui alla presenza di produ-zioni che sono autentiche produzioni rappresentative, eppureesse debbono essere ricollegate strettamente alla volontà, nel-l’accezione ampia che abbiamo conferito a questo termine,nella quale confluisce l’intera tematica della vita affettiva. Sta-bilire un nesso tra fantasmi e volontà attraverso la subordina-zione dei fantasmi alla legge della motivazione significa dun-que sostenere che i fantasmi, nonostante la loro natura rap-presentativa, hanno un senso che deve essere ricercato nell’am-bito dell’affettività. In quell’ambito va ricercata la loro ratio.

In questo contesto non può certo sorprendere che affioriil pensiero dell’associazione delle idee – cosa che avviene siapure in forma embrionale già nella prima edizione della Qua-druplice radice (§ 47). In realtà il cenno qui non manca, masia il tema della motivazione inavvertita con il suo rimando apossibili operazioni inconscie, sia quello della rilevanza delmomento dell’affettività, vengono immiseriti da considera-zioni inconsistenti. Ad esempio il fatto che un motivo nonvenga avvertito viene spiegato con la sua irrilevanza, con lasua pochezza, cosicché l’attenzione non perde tempo a sof-fermarsi su di esso; oppure si spiega il fatto che non si avvertal’origine “volitiva” della rappresentazione con la fulminea ra-pidità in cui si eserciterebbe l’azione della volontà. Quanto altema dell’associazione delle idee si prospetta la sua azione co-me rivolta ad assolvere compiti conoscitivi, piuttosto che ri-mandare ad istanze di ordine affettivo. Si accenna infatti al-l’associazione come una tendenza di ogni rappresentazione ad

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attrarre su di sé altre rappresentazioni simili, tendenza che sa-rebbe volta al “perfezionamento della nostra conoscenza” inquanto attraverso le associazioni si estende la nostra capacitàdi afferrare relazioni e connessioni.

Ma l’argomento viene ripreso più tardi, ed in particolarenel cap. XIV dei Supplementi al primo libro del Mondo e la di-scussione assume un altro peso. Dell’associazione delle idee siparla in termini che rammentano l’impostazione humeana delproblema – e così vengono subito citate le famose tre regoledella contiguità, della somiglianza e della causa. Ma l’interessedi Schopenhauer è fin dall’inizio rivolto soprattutto al temadella motivazione. Il rapporto associativo è un rapporto moti-vante–motivato: ciò che opera il richiamo associativo mette inmoto un processo: così spesso “ci affatichiamo a ricordarciqualche cosa” ed allora scrutiamo tutta la nostra provvista dipensieri per trovarne qualcuno che sia associato con quelloche si cerca… Chi vuol richiamare un ricordo cerca sempreun filo da cui quello dipende per associazione dei pensieri” (p.136). Ciò accade anche per il ricordo dei sogni. Per quantoessi siano stati vividi e vivaci, poco dopo il risveglio essi ten-dono ad essere completamente dimenticati a meno che nonriusciamo ad aggrapparci a qualche impressione residua “dacui pende il filo il quale mediante l’associazione potrebbe dinuovo riportare questo sogno alla nostra coscienza” (p. 138).Talvolta accade poi che “un pensiero o un’immagine dellafantasia ci venga in mente all’improvviso e senza un motivocosciente”: in rapporto a queste comparse improvvise si ripe-tono in parte gli argomenti già presenti nella Quadruplice ra-dice, ma essi passano ormai del tutto in secondo piano difronte alla problematica di una complessità intrinseca dei pro-cessi psichici dei quali solo una parte appartiene alla pienaconsapevolezza, mentre un’altra, e proprio quella che è pros-sima al nucleo volitivo, e dunque emotivo ed affettivo del no-stro essere, affonda in profondità oscure.

Ci sono qui molte complicazioni. In realtà la coscienza

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deve essere paragonata “ad un’acqua di una certa profondità: ipensieri chiaramente consapevoli sono solamente la superficie:la massa invece è l’indistinto, i sentimenti, gli echi delle nostreimpressioni e di ciò che in generale abbiamo esperito, e tuttociò è impregnato dall’atmosfera propria della nostra volontà,che è il nucleo del nostro essere”. Si tratta di una massa caoti-ca in continuo movimento che fa emergere alla superficie ciòche è riuscito a districarsi con chiarezza in questo amalgama,“le chiare immagini della fantasia, o i distinti consapevoli pen-sieri e decisioni della volontà”. Ma il fatto è che “raramentetutto il processo del nostro pensare e del nostro decidere affio-ra alla superficie, ossia consiste in una concatenazione di giu-dizi chiaramente pensati”. Al contrario molte decisioni sonogià prese nello strato più profondo delle acque della nostra co-scienza. Gran parte dei nostri processi mentali si svolge “nellascura profondità della ruminazione (Rumination) della mate-ria ricevuta da fuori”; ed è per questo che “spesso non possia-mo dare alcun conto del nascere dei nostri più profondi pen-sieri: essi sono il parto del nostro misterioso interno”. In con-clusione: “La coscienza è solamente la superficie del nostrospirito del quale, come del corpo della terra, noi non cono-sciamo l’interno, ma solo il guscio” (p. 140).

Ciò che rende tanto ricche di interesse queste afferma-zioni e che in particolare le renderebbe certamente degne diessere rammentate in una storia del concetto di inconscio checonduca fino a Freud non è tuttavia, a nostro avviso, soltantoil riconoscimento di questo nostro oscuro e misterioso internoe che questa oscurità riguardi proprio la dinamica degli affetti.Il punto forse più importante sta forse nel fatto che questeformulazioni possano sorgere sul terreno di una discussionesul principio di ragione sufficiente, cosicché viene implicita-mente proposta, con la posizione di una ratio, la possibilità diuna comprensione._______________________________________________