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Per divertirsi Bianca Pitzorno l Ascolta il mio cuore, p. 2 Vai Emily Rodda l Le foreste del silenzio, p. 6 Vai Oscar Wilde l Il fantasma di Canterville, p. 10 Vai Luis Sepúlveda l Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, p. 13 Vai Classici da non perdere Lyman Frank Baum l Il meraviglioso mago di Oz, p. 15 Vai Eleanor Hodgman Porter l Pollyanna, p. 20 Vai Louisa May Alcott l Piccole donne, p. 24 Vai Robert Louis Stevenson l La freccia nera, p. 29 Vai Per riflettere Roald Dahl l La fabbrica di cioccolato, p. 32 Vai George Orwell l La fattoria degli animali, p. 34 Vai Konrad Lorenz l L’anello di Re Salomone, p. 36 Vai Judith Kerr l Quando Hitler rubò il coniglio rosa, p. 38 Vai Deborah Ellis l Sotto il burqa, p. 41 Vai Antoine de Saint-Exupéry l Il piccolo principe, p. 44 Vai Biblioteca on line Classe prima

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Per divertirsi

Bianca Pitzorno l Ascolta il mio cuore, p. 2 Vai ���Emily Rodda l Le foreste del silenzio, p. 6 Vai ���Oscar Wilde l Il fantasma di Canterville, p. 10 Vai ���

Luis Sepúlveda l Storia di una gabbianella e del gattoche le insegnò a volare, p. 13 Vai ���

Classici da non perdere

Lyman Frank Baum l Il meraviglioso mago di Oz, p. 15 Vai ���Eleanor Hodgman Porter l Pollyanna, p. 20 Vai ���

Louisa May Alcott l Piccole donne, p. 24 Vai ���Robert Louis Stevenson l La freccia nera, p. 29 Vai ���

Per riflettere

Roald Dahl l La fabbrica di cioccolato, p. 32 Vai ���George Orwell l La fattoria degli animali, p. 34 Vai ���Konrad Lorenz l L’anello di Re Salomone, p. 36 Vai ���

Judith Kerr l Quando Hitler rubò il coniglio rosa, p. 38 Vai ���Deborah Ellis l Sotto il burqa, p. 41 Vai ���

Antoine de Saint-Exupéry l Il piccolo principe, p. 44 Vai ���

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Ascolta il mio cuore Bianca Pitzorno

«Sei emozionata?» chiese a Elisa la nonna Mariuccia mentre varca-vano il cancello ed entravano nel cortile affollato della scuola. «Vedraiche andrà tutto bene».

«Tu adesso però vattene!» rispose la nipote, che si vergognava di arri-vare a scuola accompagnata come una piccola di prima. «Guarda! C’èPrisca! Vado a raggiungerla».

«Vengo anch’io, così saluto la signora Puntoni».Prisca, oltre a non avere il fiocco regolamentare, aveva i ricci bruni

spettinati, il colletto bianco di traverso, la martingala1 del grembiulepenzoloni su un fianco, e nel brevissimo tratto da casa a scuola avevatrovato il tempo di farsi uno sbaffo d’inchiostro sul naso.

1. martingala: cintura fis-sata posteriormente.

L’autriceBianca Pitzorno, nata nel 1942, è una scrittrice italiana. Dopo la laurea inse-gnò greco e latino in un liceo di Sassari, la sua città; poi si trasferì a Milano,dove iniziò una lunga collaborazione con la RAI nell’ambito delle trasmissioniper bambini e ragazzi; infine, è diventata scrittrice a tempo pieno e attual-mente è molto conosciuta e amata, in particolare dai giovani.La sua produzione spazia tra molti generi diversi: ha scritto infatti romanzistorici, di fantascienza, fantastici e polizieschi, guardando sempre con atten-zione, delicatezza e umorismo a bambini e ragazzi. Tra i suoi titoli più notitroviamo L’amazzone di Alessandro Magno, la saga di Lorrai, ambientata nel-la Sardegna degli anni Cinquanta, Tornatràs, Polissena del Porcello, L’incre-dibile storia di Lavinia, La bambinaia francese e, naturalmente, Ascolta il miocuore.

Il romanzoAscolta il mio cuore racconta le vicende di un anno scolastico: la quarta ele-mentare femminile di una scuola sarda, negli anni Cinquanta.La protagonista, Prisca Puntoni, è una ragazzina vivace e fantasiosa, aman-te della scrittura e dotata di uno spiccato senso della giustizia, che la portaa scontrarsi con la terribile maestra Argia Sforza, esperta di ingiustizie e favo-ritismi. Prisca non è sola nella battaglia: vicino a lei ci sono Elisa e Rosalba,le sue amiche del cuore, che non esiteranno a rischiare punizioni e castighipur di sostenere l’intrepida protagonista.Il brano che puoi leggere di seguito descrive l’inizio dell’anno scolastico emostra le dinamiche di rivalità e amicizie tra compagne e maestra che si svi-lupperanno nel corso della storia.

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Sua madre invece era elegantissima, come al solito, senza un capel-lo fuori posto, il rossetto senza sbavature, i guanti, le scarpe, la borset-ta e il cappellino di paglia intonati al tailleur2 di lino rosa.

Salutò la nonna Mariuccia e disse in tono di scusa:«Mi creda, signora Maffei, quando è uscita di casa mia figlia non era

così in disordine. Ma le bastano pochi minuti per ridursi come una monel-la di strada. Io non so più cosa fare. Mi vergogno di uscire con lei».

«Puoi sempre camminare a due passi di distanza e far finta di nonconoscermi», suggerì Prisca.

«La sente! Fa anche la spiritosa. Speriamo che questa nuova mae-stra non sia una mollacciona come la signorina Sole e riesca a metter-la in riga».

“Speriamo di no”, pensò Elisa. Prisca le piaceva esattamente cosìcom’era. Era la sua amica del cuore e non l’avrebbe cambiata con nes-sun’altra. Neppure con Rosalba, che era buona, simpatica, affettuosa efedele, tanto che lo zio Casimiro l’aveva ribattezzata “il fido Kamma-muri3”.

Prisca naturalmente era Sandokan, ed Elisa aveva esitato a lungo fraYanez e Tremal Naik, decidendosi infine per quest’ultimo solo a causadella tigre Darma. Quanto a Darma, la parte toccava a Ciccio, il gat-to della tata4, che era vecchio e grasso e aveva paura persino delle mosche.Se si fosse trovato davvero nella giungla nera, sarebbe saltato in brac-cio ad Elisa e si sarebbe rifiutato di scendere.

La folla di bambini e genitori le spingeva su per la scalinata di mar-mo, verso il grande portone.

«Su, nonna, vattene adesso!» supplicò Elisa impaziente.«Vado, vado», disse la nonna Mariuccia un po’ offesa. «Me lo rac-

conterai a pranzo com’è questa nuova maestra. E, mi raccomando, alritorno dritta a casa, senza fermarti a giocare per la strada».

La signora Puntoni seguì le due bambine nell’atrio, facendosi stra-da a fatica tra la calca. Gli scolari galoppavano per i corridoi alla ricer-ca delle proprie aule, urtandosi, ridendo e chiamandosi a gran voce.

«Guarda! C’è Marcella! Ecco Viviana e Fernanda! Ciao, Giulia!»strillava Prisca riconoscendo le compagne degli anni passati.

Era bello rivedere le compagne dopo le vacanze. Anche quelle menosimpatiche, come Sveva e Alessandra. Anzi, sembrava che l’estate aves-se cancellato tutti i litigi, i dispetti, le rivalità, tutti i difetti delle “nemi-che”.

Sì, perché fin dalla prima elementare c’era stata guerra tra la ban-cata5 centrale e quella di destra. Al centro sedevano Prisca, Elisa,Rosalba ed altre bambine loro amiche, tutte brave scolare, ma alcu-ne così vivaci e rumorose che la maestra Sole, con una sfumatura ditenerezza, le chiamava “i miei Maschiacci”, nome che poi era rima-sto a indicare tutta la bancata. A destra i banchi erano equamentedivisi fra quelle che Prisca e Rosalba avevano battezzato “Gattemor-te” e “Leccapiedi”, sempre impegnate, senza distinzione, a formare

2. tailleur: completo da don-na costituito da giacca egonna fatte con lo stessotessuto.3. Kammamuri: insieme a Yanez e a Tremal Naik, citati più avanti, è tra i per-sonaggi principali dei roman-zi di Emilio Salgari, imper-niati sulle avventure diSandokan, la Tigre dellaMalesia.4. tata: bambinaia.5. bancata: fila di banchi.

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gruppi e gruppetti rivali, a darsi delle arie, a rompere i segreti, a farela spia. Tutte, tranne la terribile Sveva Lopez del Rio, che era tropposuperba per ricorrere a questi espedienti, ma in compenso era vio-lenta e prepotente, e sedeva nel primo banco insieme a Emilia Damia-ni, che era la sua vittima e aveva sempre le braccia blu per i pizzichie le gomitate.

La bancata di sinistra, che non era così omogenea e non aveva capiriconosciuti, di solito si manteneva neutrale ed era perciò denominata“la Conigliera”. Ma nei momenti più accesi della guerra si schieravacol centro. Non bisogna credere però che questo soccorso portasse ungrande vantaggio alla bancata amica, perché quella di destra potevacontare all’occorrenza su un’alleata ancora più potente nella personadella maestra, ingannata dal comportamento subdolo delle Gattemor-te e delle Leccapiedi.

La maestra, quella vecchia s’intende, la signorina Sole, non prende-va sul serio le ostilità e le scaramucce tra le sue alunne. Pensava che fos-sero una cosa normale, e da parte sua si sforzava di essere giusta per-ché era affezionata a tutte quante.

«Sono fortunata», diceva alle colleghe. «Ho una bella classe. Tuttebambine per bene, educate, seguite dalle famiglie. Non mi danno alcunproblema».

Nonostante qualcuna delle bambine fosse di famiglia molto mode-sta, come Luisella, ch’era figlia di una sartina a ore, o come Anna, cheera figlia del bidello, a mezzogiorno andavano tutte a mangiare a casa,e nessuna frequentava la Refezione offerta agli alunni più poveri dalPatronato Scolastico. Il che per la maestra era un bel vantaggio, perchénon doveva fare alcun turno di sorveglianza nel seminterrato rimbom-bante dalle urla e maleodorante di cattiva cucina.

Non c’era da meravigliarsi se la D godeva fama di essere la miglio-re sezione femminile della scuola, e si diceva in giro che la nuova mae-stra avesse accettato il trasferimento dalla Ascensione solo a patto diavere quella e non un’altra quarta.

Oggi, tra la folla, le alunne della IV D si distinguevano fra tutti glialtri scolari per via del fiocco rosa a pallini celesti. Ma ce n’erano quat-tro o cinque che, come Prisca, avevano il collo nudo. Molte erano accom-pagnate come lei dalla madre, e alcune portavano un mazzo di fiori nel-la mano libera dalla cartella.

“Ecco le Leccapiedi che si preparano a corteggiare la nuova mae-stra”, pensò Prisca, e si rese conto che non era cambiato niente, chel’impressione di pace provata un attimo prima era apparente e illuso-ria, e che le ostilità stavano per ricominciare. Tanto valeva che fosse leiad aprire la guerra.

«Leccapiedi!» ripeté a voce alta in tono di disprezzo, guardandoostentatamente6 dalla loro parte.

Una delle madri la sentì e disse alla figlia: «Che bambina maledu-cata! Chi è?»

6. ostentatamente: in modoevidente e sfacciato.

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La signora Puntoni arrossì. «Belle figure mi fai fare! Lo sai chi è quel-la? La moglie del giudice Panaro! Tuo padre ha una causa importan-tissima con suo marito».

Prisca incassò lo scappellotto senza fiatare, perché Ursula la stavaguardando e lei non voleva dare a quella Gattamorta la soddisfazionedi vederla soffrire.

Però, nonostante la sua spavalderia, era emozionatissima. Man manoche si avvicinavano all’aula sentiva il cuore accelerare i suoi battiti. Pre-se la mano di Elisa e se la poggiò sul petto. Elisa sentì BUM BUM BUM...

«Smettila! Lo fai apposta per farmi spaventare», protestò.«Certo che per essere la nipote di un cardiologo sei proprio igno-

rante», rispose l’amica. «Non ti ricordi che la signorina Sole ci ha spie-gato che i movimenti del cuore, come quelli dei polmoni e dello sto-maco, sono involontari? Non è possibile farlo apposta».

A quel punto arrivò di corsa Rosalba, inseguita da un vecchietto incamice grigio che le teneva la cartella, e che non era suo nonno, comepensavano in molti, ma il magazziniere di suo padre e si chiamava signorPiras.

«Ha visto che sono arrivata in tempo?! Se ne vada in negozio, ades-so», disse ansimando Rosalba che, come Elisa, detestava farsi vedereaccompagnata. Il signor Piras non si fece pregare. Mollò a terra la car-tella e girò sui tacchi, perché doveva ancora spazzare il negozio con lasegatura prima di sollevare la saracinesca.

Le tre amiche si salutarono con entusiasmo, come se fosse un seco-lo che non si vedevano, e invece erano state insieme a giocare da Elisasolo due giorni prima. Svoltarono l’angolo ed ecco, in fondo al corri-doio, sulla porta della loro vecchia aula, la nuova maestra che le aspet-tava.

(B. Pitzorno, Ascolta il mio cuore, Milano, A. Mondadori, 1991)

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Le foreste del silenzioEmily Rodda

L’autriceJennifer Rowe è una scrittrice australiana nata nel 1948. Scrive romanzi poli-zieschi – non tradotti in italiano – e libri per ragazzi con lo pseudonimo di EmilyRodda. In Australia ha vinto molti premi letterari, e la sua saga imperniata sulmagico mondo di Deltora ha avuto un successo internazionale.“Deltora” è un acronimo, cioè una parola formata con alcune iniziali; in que-sto caso, si tratta di sette pietre – diamante, smeraldo (emerald in inglese),lapislazzulo, topazio, opale, rubino e ametista – che formano una cintura magi-ca il cui compito è proteggere il regno di Deltora dal malvagio Signore del-l’Ombra. La saga si compone di tre cicli: Il magico mondo di Deltora, Ritornoa Deltora e Il segreto di Deltora.

Il romanzoLe foreste del silenzio è il primo romanzo del primo ciclo: rappresenta dun-que il punto di partenza indispensabile per chi desidera entrare nel magicomondo di Deltora.Tutto ha inizio quando il re di Deltora muore improvvisamente. Gli succede ilfiglio Endon, giovanissimo. All’incoronazione assiste Jarred, amico fraternodi Endon, che rimane abbagliato, come tutti i presenti, dalla sfolgorante Cin-tura di Deltora indossata dal giovane re al momento dell’incoronazione. Jar-red non conosce la storia della cintura, ma è certo che custodisca un segre-to, ed è ben intenzionato a scoprirlo. Non sa ancora che la sua ricerca saràmolto, molto lunga, perché nel frattempo il malvagio Signore dell’Ombra siprepara a sferrare un attacco decisivo contro Deltora...Il brano che ti presentiamo rappresenta l’inizio del romanzo.

Era mezzanotte.Jarred aspettava, appoggiato a una colonna di marmo, fra la folla

che gremiva1 il salone.Quando le urla e le campane l’avevano svegliato, si era vestito in fret-

ta per unirsi ai nobili che affluivano verso la sala principale della reggia.«Il re è morto», mormorava la gente. «E ora incoroneranno il prin-

cipino».Alton, il sovrano di Deltora, era morto per la febbre misteriosa che

già da qualche settimana lo costringeva a letto. Era morto, come suamoglie prima di lui. E adesso...

“Adesso sarà Endon il nuovo re”, pensò Jarred, scrollando incredu-lo il capo.

Era amico del principe fin da bambino, nonostante Endon fosse ilprincipe ereditario di Deltora, e lui solo il figlio di un servo, morto quan-do Jarred aveva appena quattro anni.

Era stato assegnato a Endon come compagno di giochi perché il pic-colo principe non soffrisse di solitudine, e così erano cresciuti insieme,come fratelli.1. gremiva: riempiva.

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Studiavano insieme e insieme giocavamo tutti i giorni nell’immensoparco.

Gli altri bambini della reggia avevano alloggi e porzioni di giardinoseparate. Era usanza di palazzo che Endon e Jarred non li incontrasse-ro mai, tranne che nel salone durante le feste.

Ciò nonostante, i due ragazzi ce la mettevano tutta per divertirsi.Avevano un rifugio segreto, un enorme albero cavo accanto al can-

cello. Vi si nascondevano per sfuggire al controllo di Min, la governante,esigente e pignola, e per evitare Prandius, il primo consigliere del re, untipo alto, magro e acido che entrambi i ragazzi detestavano.

Si esercitavano al tiro con l’arco, e giocavano a “mira alto”, in cuivinceva chi riusciva a infilare una freccia nella biforcazione più alta del-l’albero cavo.

Inoltre avevano inventato un codice segreto per passarsi messaggisenza che nessuno se ne accorgesse.

Per esempio, quando Jarred si nascondeva nell’albero cavo perchéMin voleva fargli bere una buona dose di olio di fegato di merluzzo,Endon passava di là e lasciava cadere un biglietto in un punto che l’a-mico potesse facilmente raggiungere.

Sembravano parole insensate, del tutto incomprensibili agli estraneia cui capitasse in mano il foglietto. Eppure era un codice banale. Perdecifrare il messaggio bastava scrivere le lettere tutte in fila, tralascian-do gli “el”:

NEL ONEL AN ELDAREEL INELCU CIEL NAEL CEMEL INEL.Infine raggruppare le lettere in parole che avessero un senso:NON ANDARE IN CUCINA. C’È MIN.Crescendo, però, Endon e Jarred ebbero sempre meno occasioni per

giocare.Le loro giornate erano occupate da compiti più seri. Passavano qua-

si tutto il tempo a imparare la Regola, cioè le migliaia di leggi e usan-ze che la famiglia reale doveva rispettare. La Regola governava le lorovite.

Endon, paziente e accomodante, e Jarred, più recalcitrante, accet-tavano che i loro lunghi capelli fossero intrecciati con fili d’oro, e pas-savano ore a imparare come si forgia2 il metallo in spade e scudi. Il pri-mo re di Deltora era stato fabbro, e la Regola imponeva il rispetto dellatradizione.

Nel pomeriggio potevano godere di un’ora di ricreazione, durantela quale gli unici divieti erano scalare il muraglione che circondava ilparco e uscire dal cancello che dava sulla città. Il principe di Deltoranon poteva mischiarsi alla gente comune, come non potevano farlo ilre e la regina.

Era uno degli articoli più importanti della Regola, un obbligo cheogni tanto Jarred era tentato di infrangere. E ogni volta Endon lo implo-rava di non scavalcare il muro.

«È proibito», ripeteva. «Jarred, lo sai... già Prandius sospetta che tu2. si forgia: si modella, siplasma.

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abbia un’influenza negativa su di me. L’ha detto anche a mio padre. Seinfrangi la Regola ti manderanno via. E io non voglio».

Jarred non voleva andarsene. Endon gli sarebbe mancato tantissi-mo. E poi, dove avrebbe potuto andare, fuori dal palazzo?

Lo squillo delle trombe di cristallo interruppe il filo dei suoi pensie-ri. Si girò, come tutti, verso il fondo del salone.

Endon stava entrando tra due file di guardie che indossavano le clas-siche uniformi azzurre bordate d’oro.

“Endon”, pensò Jarred, “quanto deve soffrire per la morte del padre”.Avrebbe voluto stare al fianco dell’amico per consolarlo, ma non l’a-

vevano nemmeno convocato. Al suo posto, alla destra di Endon, c’erail primo consigliere Prandius. Jarred lo guardò disgustato. Sembravaancora più alto e magro del solito. Portava una lunga tunica viola e reg-geva una scatola coperta da un drappo dorato, la testa protesa in avan-ti, come un rapace a caccia di prede.

Lo sguardo di Endon era velato di tristezza. Era così piccolo e pal-lido, con quella giacca d’argento e quello scomodo colletto tempestatodi pietre preziose...

Era tutta la vita che si preparava a quel momento. «Quando io morirò,tu diventerai re, figlio mio», gli aveva ripetuto tante volte suo padre.«Dovrai dimostrarti all’altezza».

«Lo farò, padre», gli aveva sempre risposto Endon, ubbidiente erispettoso. «Farò quel che devo, quando verrà il momento».

Nessuno immaginava che quel momento sarebbe giunto tanto pre-sto.

Il re era così forte e sano che sembrava poter vivere in eterno.Endon stava salendo i gradini del palco. Una volta arrivato, si girò

verso il mare di occhi che lo scrutava.«Com’è giovane», sussurrò alla vicina una donna in piedi accanto a

Jarred.Le trombe di cristallo squillarono di nuovo e un brusio eccitato si dif-

fuse fra la folla.Prandius posò la scatola accanto al trono, tolse il drappo3 dorato che

copriva la teca4 di vetro e ne estrasse un oggetto splendente.Era la magica Cintura di Deltora. Dalla folla si levò un oooh di stu-

pore, e Jarred rimase senza fiato. Sapeva da sempre dell’esistenza del-la Cintura, ma non l’aveva mai vista.

Eccolo lì, in tutta la sua misteriosa bellezza, l’antico talismano cheda migliaia di anni proteggeva Deltora dall’invasione del malvagio Signo-re dell’Ombra, che regnava al di là delle Montagne.

Appesa alle dita scheletriche di Prandius, la Cintura appariva deli-cata come un merletto, e le Sette Pietre scintillavano sotto la luce.

Jarred sapeva che era fatta con l’acciaio più robusto e che ogni pie-tra aveva un ruolo speciale nel proteggere Deltora.

C’erano il topazio, simbolo della fedeltà, dorato come il sole al tra-monto, e l’ametista, simbolo della verità, color delle viole che cresce-

3. drappo: tessuto pregiato.4. teca: contenitore, custo-dia.

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vano sulle sponde del fiume Del. Per la purezza e la forza c’era il dia-mante, limpido e lucente come il ghiaccio, per l’onore lo smeraldo, ver-de come l’erba alta, poi il lapislazzuli, pietra celestiale, blu come il cie-lo notturno con punti luminosi come le stelle, il rubino, rosso come ilsangue, per la felicità, e l’opale, simbolo della speranza, luminescentedi tutti i colori dell’arcobaleno.

La folla parve trattenere il respiro mentre Prandius si chinava percingere la vita di Endon con la Cintura. Sembrava impaurito. Jarred sichiese il motivo di quel timore.

La fibbia si chiuse di scatto, e la sua domanda trovò risposta. Pran-dius spiccò un balzo all’indietro. Si udì un rumore secco, poi la Cintu-ra parve esplodere di luce. Le gemme brillavano come tanti fuochi, illu-minando il salone. Dalla folla si levò un grido e tutti distolsero lo sguardo,schermandosi gli occhi. Endon rimase con le braccia in alto, nascostodal lampo accecante che scaturiva dal magico gioiello. Non era più ilragazzetto gli occhi tristi. La Cintura l’aveva riconosciuto come il veroerede del trono di Deltora.

I fuochi delle gemme si estinsero lentamente. Il giovane re restituì laCintura a Prandius, che la ripose nella teca di vetro, con il sorriso sot-tile.

Jarred sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco. La Regola stabilivache la Cintura fosse riportata nella stanza più alta della torre, la cui por-ta sarebbe stata chiusa con tre lucchetti d’oro e presidiata da tre guar-die in uniforme.

E poi... poi la vita sarebbe ricominciata come prima. Prandius e glialtri funzionari avrebbero preso ogni decisione. Il re avrebbe presen-ziato alle cerimonie e ai banchetti e si sarebbe esercitato nel tiro conl’arco. Sarebbe rimasto seduto immobile per ore mentre gli intreccia-vano i capelli, e un giorno anche la barba. Avrebbe firmato infiniti docu-menti imprimendo il sigillo reale con il suo anello. Avrebbe seguito laRegola, in tutto e per tutto. Nel giro di qualche anno avrebbe sposatouna fanciulla scelta per lui da Prandius. Avrebbero avuto un bambinodestinato a prendere il posto di Endon alla sua morte. E quel bambinoavrebbe indossato la Cintura una volta soltanto, prima che venisse dinuovo riposta sotto chiave.

Per la prima volta in vita sua Jarred si chiese se tutto ciò fosse giusto,per la prima volta si domandò perché fosse stata realizzata la Cinturae dubitò che fosse sensato tenerla rinchiusa in una torre, mentre il regnoche doveva proteggere restava fuori, irraggiungibile.

Inosservato, scivolò fuori dal salone e salì di corsa le scale che por-tavano alla biblioteca. Era la prima volta che ci andava. Studiare nongli era mai piaciuto. Ma aveva bisogno di informazioni e quello era l’u-nico posto dove poteva trovarle.

(Emily Rodda, Le foreste del silenzio, trad. it. G. Carlotti, Casale Monferrato, Piemme, 2001)

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Il fantasma di CantervilleOscar Wilde

L’autoreOscar Wilde (1854-1900), irlandese nato a Dublino, fu uno dei protagonistidella vita culturale e mondana dell’Inghilterra del suo tempo. Elogiato e ammi-rato per i suoi scritti, per le sue brillanti commedie e per il suo stile di vitaraffinato, venne poi abbandonato da ammiratori e amici quando la sua rela-zione con il giovane aristocratico Alfred Douglas diventò di pubblico domi-nio. Processato e condannato per omosessualità, Wilde scontò due anni dilavori forzati e morì di lì a poco, solo e in miseria.

Il romanzoIl fantasma di Canterville è una parodia, cioè una presa in giro delle classi-che storie del terrore. La vicenda è ambientata in un antico castello ingleseabitato da un fantasma spaventoso, vecchio di parecchi secoli. Il castello vie-ne acquistato dal signor Otis, un ricco americano che vi si trasferisce contutta la famiglia: moglie e quattro figli, tra i quali due terribili gemelli espertidi scherzi e tranelli. Così, il tranquillo tran tran del fantasma, fatto di terrifi-canti apparizioni e rumore di catene, viene sconvolto per sempre.Il brano che ti presentiamo è un divertente esempio di come i nuovi arrivaticomincino sin dalla loro prima notte nel castello a tormentare il povero fan-tasma.

Il giorno era stato caldo e soleggiato e quando, verso sera, l’aria rin-frescò, la famiglia Otis uscì in massa per una scarrozzata. Non rinca-sarono che alle nove, e consumarono un pasto leggero. Durante la con-versazione non fu fatto il benché minimo accenno a spettri e fantasmi,di modo che mancavano anche quelle condizioni primarie di attesaricettiva che spesso precedono il verificarsi di fenomeni psichici. Comemi narrò in seguito il signor Otis, il discorso cadde su quegli argomen-ti che formano di solito il nocciolo della conversazione tra gli america-ni colti delle classi superiori, come ad esempio l’enorme superiorità,quale attrice, della signorina Fanny Davenport1 al confronto di SarahBernhardt2; la difficoltà di trovare granturco acerbo, focacce di sorgo3

e pannocchie bollite nel latte anche nelle migliori case inglesi; l’impor-tanza di Boston sullo sviluppo dell’anima universale; i vantaggi del baga-glio assicurato nei viaggi per ferrovia, e la dolcezza dell’accento di NewYork in paragone alla pronuncia strascicata dei londinesi. Non si parlòneppur lontanamente di cose soprannaturali e tanto meno fu fatta alcu-na allusione a sir Simon de Canterville. Alle undici la famiglia si ritiròe alle undici e mezzo tutte le luci erano già spente. Poco tempo dopo ilsignor Otis venne però risvegliato da un curioso rumore che provenivadal corridoio, proprio davanti all’uscio di camera sua. Risuonava comeuno stridor di metallo che pareva farsi sempre più vicino a ogni istan-te. Il ministro si alzò senza indugi, accese un fiammifero e guardò l’o-

1. Fanny Davenport: cele-bre attrice statunitense diorigini inglesi (1850-98).2. Sarah Bernhardt: attriceteatrale francese (1844-1923), considerata una dellepiù grandi attrici del l’Ot -tocento.3. sorgo: un cereale.

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rologio. Era l’una esatta. Si sentiva calmissimo, e si tastò il polso peraccertarsi di non essere febbricitante. Lo strano rumore continuava,accompagnato ora da un distinto strascicare di passi. Il ministro s’infilòle pantofole, tolse dal cassetto del tavolino da notte una minuscola fia-la di forma oblunga, e aprì la porta. Diritto dinnanzi a sé vide ergersi,nell’esangue4 luce lunare, un uomo dall’aspetto spaventoso. Aveva gliocchi rossi come due carboni ardenti, lunghi capelli grigi gli ricadeva-no per le spalle in ciocche incolte, e le vesti, di foggia5 antica, erano tut-te lacere e imbrattate; dai polsi e dalle caviglie, infine, gli pendevanopesanti manette e rugginosi ceppi.

«Egregio signore», incominciò il signor Otis, «sono costretto a pre-garla di oliare un po’ come si deve quelle sue catene, e le ho portato aquesto scopo una bottiglietta di Lubrificante Solare Tammany. Me lohanno garantito efficacissimo sin dalla prima applicazione, e potrà leg-gere parecchie testimonianze ad hoc6, riportate sul foglietto di propa-ganda, da parte di alcuni tra i nostri più eminenti teologi. Glielo lascioqui per suo uso accanto alle candele della camera da letto, e sarò feli-cissimo di fornirgliene dell’altro, qualora ne avesse bisogno». Con que-ste parole il ministro degli Stati Uniti posò la bottiglietta su un tavolodi marmo, chiuse la porta e si ritirò a riposare.

Per un attimo il fantasma di Canterville rimase letteralmente para-lizzato dallo sdegno; quindi, dopo aver gettato con violenza la fiala sullucido pavimento, svolazzò per il corridoio gemendo cupamente edemanando una verde luce spettrale. Ma proprio nel momento in cuigiungeva al sommo della grande scalinata di quercia, ecco che un usciosi spalancò lasciando intravvedere sulla soglia due figurette biancove-stite, e un grosso guanciale passò sibilando a un pelo della sua testa.Non c’era evidentemente tempo da perdere; perciò adottando in tuttafretta la quarta dimensione come unica via di scampo, lo spettro svanìattraverso il rivestimento di legno della parete, restituendo alla casa quie-te e silenzio.

Come ebbe raggiunta una piccola stanza segreta, nell’ala sinistra delcastello, si appoggiò a un raggio di luna onde riprender fiato e inco-minciò a riflettere sulla propria situazione. Mai, mai, nella sua brillan-te e ininterrotta carriera tricentenaria, egli era stato così grossolana-mente insultato. Ripensò alla vecchia duchessa da lui spaventata al puntodi farla cadere in un attacco isterico, mentre si ammirava davanti allospecchio nei suoi pizzi e nei suoi diamanti; pensò alle quattro camerie-re che egli aveva fatto uscire di senno, semplicemente sghignazzandoalle loro spalle da dietro alle tendine del guardaroba; ripensò al Retto-re della parrocchia al quale aveva spento la candela una notte che usci-va tardi dalla biblioteca, e che da quella volta aveva dovuto essere affi-dato alle cure di sir William Gull, divenuto com’era un misero essere,sempre in preda a turbe nervose gravissime. E che dire della vecchiasignora de Trémouillac la quale, essendosi svegliata presto un mattinoe avendo veduto uno scheletro seduto in poltrona accanto al caminet-

4. esangue: pallida.5. foggia: stile.6. ad hoc: apposite, adatteall’argomento.

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to, intento a leggere il suo diario, era stata costretta a letto per ben seisettimane da un attacco di febbre cerebrale, e non appena ristabilita siera riconciliata con la Chiesa e aveva rotto ogni rapporto con quel notoscettico che era il signor de Voltaire. Ripensò alla notte da tregenda7 incui il malvagio lord Canterville fu trovato rantolante nel proprio spo-gliatoio, con il fante di quadri mezzo infilato nella gola, e confessò sulpunto di morire di aver sottratto a Charles James Fox 50.000 sterline alCasinò di Crockford, precisamente grazie a quella carta, e giurò cheera stato il fantasma a fargliela ingoiare. Tutte le sue grandi imprese glitornarono alla mente, dal maggiordomo che si era ucciso nella dispen-sa con un colpo di pistola per aver veduto una mano verde battere con-tro i vetri della finestra, alla bellissima lady Stutfield, costretta a porta-re sempre annodato al collo un nastro di velluto nero per nascondervil’impronta che cinque dita di fuoco le avevano lasciato sulla pelle can-dida, e che alla fine si era annegata nello stagno delle carpe, in fondoal Viale del Re. Con l’egotismo8 entusiastico dell’artista nato, riandò colpensiero alle sue trasformazioni più famose e sorrise amaramente trasé, rammentando la sua ultima apparizione sotto le spoglie di “Rubenil Rosso”, ovvero “L’Infante Strangolato”, il suo debut nella personifica-zione di “Gibeone l’allampanato”, e il furore che aveva suscitato in unalanguida sera di giugno limitandosi a giocare a birilli con le proprie ossasul terreno del campo di tennis. Ebbene, dopo tutte queste gesta, dove-vano venire quattro miserabili americani moderni a offrirgli del Lubri-ficante Solare e a buttargli dei cuscini in testa! Era una situazione asso-lutamente insopportabile. D’altronde nessun fantasma mai, nel corsodella storia, era stato trattato a quel modo. Decise pertanto di vendi-carsi adeguatamente, e rimase immerso sino allo spuntare del giornoin un atteggiamento di profonda meditazione.

(O. Wilde, Il fantasma di Canterville, in Racconti, trad. it. M. Gallone, Milano, Rizzoli, 1982)

7. da tregenda: allucinante,spaventosa.8. egotismo: tendenza aparlare molto di sé e asopravvalutarsi.

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Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnòa volare

Luis Sepúlveda

L’autoreLuis Sepúlveda, nato nel 1949, è uno scrittore cileno. Fin da giovanissimo haunito la passione per la letteratura e per la scrittura a un impegno politicopagato a caro prezzo: durante la dittatura militare del generale Pinochet,infatti, è stato imprigionato, torturato e condannato a morte, condanna poicommutata in esilio. Trasferitosi in Europa, ha unito l’attività di giornalista aquella di sostenitore dell’organizzazione ambientalista Greenpeace.Tra i suoi romanzi, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Incontro d’amo-re in un paese in guerra, Il potere dei sogni, La lampada di Aladino e altri rac-conti per vincere l’oblio.

Il romanzoStoria di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare è una fiabamoderna ambientata ad Amburgo. Protagonisti sono alcuni animali, tra cuiuna gabbianella che deve imparare a volare, un gatto che dovrebbe farle damaestro, e un poeta sognatore.Durante un volo sull’oceano la gabbiana Kengah finisce su una grande mac-chia di petrolio, da cui riesce a liberarsi a stento. Appesantita dalla sostanza,compie un ultimo disperato volo alla ricerca di un approdo e finisce su un bal-cone, dove Zorba, un grosso gatto nero, sta prendendo il sole. Il gatto com-prende subito che la gabbiana ha poche speranze, e tuttavia non immaginaancora quale promessa stravagante lei stia per strappargli...

Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo lefusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all’aria sotto queiraggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa.

Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare laschiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che nonseppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò inpiedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare lagabbiana che cadde sul balcone.

Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di unasostanza scura e puzzolente.

Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.«Non è stato un atterraggio molto elegante», miagolò.«Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo», ammise la gabbiana.«Senti, sembri ridotta malissimo. Cos’è quella roba che hai addos-

so? E come puzzi!» miagolò Zorba.«Sono stata raggiunta da un’onda nera. Dalla peste nera. La male-

dizione dei mari. Morirò», stridette accorata la gabbiana.

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«Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perchénon voli fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potran-no aiutarti», miagolò Zorba.

«Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo», stridette la gab-biana con voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.

«Non morire! Riposati un po’ e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Tiporterò un po’ del mio cibo, ma non morire», pregò Zorba avvicinan-dosi alla gabbiana esausta.

Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cuiera coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lin-gua sul collo notò che la respirazione dell’uccello si faceva sempre piùdebole.

«Senti, amica, io voglio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposarementre vado a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato», mia-golò Zorba prima di arrampicarsi sul tetto.

Si stava allontanando in direzione dell’ippocastano quando sentì chela gabbiana lo chiamava.

«Vuoi che ti lasci un po’ del mio cibo?» suggerì, leggermente solle-vato.

«Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano vogliodeporre un uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e dinobili sentimenti. Per questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accon-tenterai?» stridette agitando goffamente le zampe nel vano tentativo dialzarsi in piedi.

Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con unuccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi.

«Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa», miagolò impie-tosito.

«Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l’uo-vo», stridette aprendo gli occhi.

«Prometto che non mi mangerò l’uovo», ripeté Zorba.«Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo», stri-

dette sollevando il capo.«Prometto che avrò cura dell’uovo finché non sarà nato il piccolo».«E promettimi che gli insegnerai a volare», stridette guardando fis-

so negli occhi il gatto.Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo

delirava, ma era completamente pazza.«Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca

di aiuto», miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l’avevano

accompagnata e, proprio mentre esalava l’ultimo respiro, un ovetto bian-co con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impre-gnato di petrolio.

(L. Sepúlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, trad. it. I. Carmignani, Milano, Salani, 1996)

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Classici da non perdere

Il meraviglioso mago di OzLyman Frank Baum

Dorothy si svegliò per un colpo così forte e improvviso che, se nonfosse stata sdraiata sul suo lettino morbido, avrebbe potuto farsi male.Per fortuna, invece, non fece altro che trattenere il respiro per la paurae si chiese cosa mai fosse accaduto, mentre Toto le strofinava sul viso ilsuo musetto umido lamentandosi penosamente. Dorothy si alzò e si

L’autoreLyman Frank Baum (1856-1919) nacque nello stato di New York. Dopo un’in-fanzia dorata passata nella grande villa di famiglia, frequentò per due anniun’accademia militare, dimostrando di non avere alcuna propensione per learmi e per la rigida disciplina di quegli ambienti.Tornato a casa, si dedicò alle sue grandi passioni: la scrittura e il teatro. Dal-la prima ebbe notevoli soddisfazioni, legate soprattutto all’enorme successodel romanzo Il meraviglioso mago di Oz (1900), cui seguirono altre storieambientate nello stesso fantastico mondo. Con il teatro fu meno fortunato,tanto che più volte, nel corso della vita, si trovò sull’orlo della bancarotta peraver finanziato spettacoli fallimentari; dovette perfino vendere i diritti delMago di Oz per poter pagare tutti i debiti.

Il romanzoIl meraviglioso mago di Oz ottenne da subito grande successo, diventandoin breve un vero bestseller tradotto in 50 lingue. Fu lo stesso autore, nel 1902,a curarne una prima riduzione per il teatro, cui ne seguirono molte altre. Nel1939 Il mago di Oz divenne un musical cinematografico, con la diva Judy Gar-land nella parte della protagonista.La storia inizia in una povera fattoria del Kansas, dove la piccola Dorothyvive insieme con gli zii. Un giorno si scatena una violenta tempesta. Dorothye il cagnolino Toto non fanno in tempo a rifugiarsi in cantina, sicché restanoin casa proprio nel momento in cui un ciclone la solleva dal suolo, traspor-tandola sempre più in alto. Mentre Toto, impazzito dalla paura, abbaia furio-samente, Dorothy resta stranamente tranquilla, sentendosi cullata dal ventocome da una mano gentile: infine si addormenta nel suo lettino, finché un sob-balzo improvviso la avverte che, finalmente, il volo è terminato. La casa èatterrata da qualche parte, ma dove? Ben presto, Dorothy scopre di esserearrivata nel posto più strano del mondo... già, ma quale mondo? È l’inizio di un’avventura che porterà Dorothy a percorrere in lungo e in lar-go il mondo incantato di Oz, dove sono in agguato molti pericoli, ma doveesistono anche amici sinceri.

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accorse che la casa non si muoveva più e non era neanche più buio per-ché il sole brillava attraverso la finestra inondando la stanza di luce.Dorothy balzò dal letto e, con Toto alle calcagna, corse ad aprire la por-ta.

Allora la bambina diede un grido di stupore e si guardò attorno, congli occhi spalancati alla vista di tante meraviglie.

L’uragano aveva deposto la casetta – che pensiero gentile per un ura-gano! – in mezzo a un paese di straordinaria bellezza. C’erano dellebelle aiuole verdi con alberi giganteschi carichi di frutti deliziosamen-te profumati. Da ogni parte spiccavano macchie di fiori rigogliosi, euccelli rari dalle penne variopinte cantavano e svolazzavano sugli albe-ri e sui cespugli. Poco più in là un ruscelletto scorreva scintillando trale sue verdi sponde con un gorgoglio armonioso che giungeva moltogradito all’orecchio della piccola Dorothy, vissuta tanto tempo sulle ari-de e grigie praterie del Kansas.

Mentre fissava intenta queste cose strane e meravigliose, vide veni-re alla sua volta un gruppo delle più strambe1 persone che avesse maiimmaginato. Quella gente non era alta come tutte le altre persone gran-di, ma non era nemmeno molto piccola. Insomma aveva press’a pocola statura di Dorothy, benché, a giudicare dall’aspetto, dimostrasse mol-ti anni più di lei.

Erano tre uomini e una donna, tutti bizzarramente2 vestiti. Porta-vano cappelli a pan di zucchero, alti due spanne più della testa, con tan-ti campanellini appesi tutt’attorno alla falda3 che tintinnavano dolce-mente quando si muovevano. I cappelli degli uomini erano azzurri equello della donnina era bianco; bianco era pure il manto che le rica-deva a piegoni giù dalle spalle, e tutto cosparso di stelle che rilucevanoal sole come brillanti. Gli ometti erano vestiti di azzurro, lo stesso colo-re dei cappelli, e portavano stivali lucidissimi con le punte rivolte all’in-sù. Dorothy pensò che dovevano avere press’a poco la stessa età dellozio Enrico, dato che due di loro avevano la barba. Ma senza dubbio ladonnina era molto più vecchia: aveva il viso coperto di rughe, i capellibianchi come l’argento e l’andatura piuttosto rigida.

Avvicinandosi alla soglia della casa di Dorothy, si fermarono bisbi-gliando fra loro qualcosa, quasi avessero paura di farsi avanti. Soltantola vecchietta si accostò alla bambina inchinandosi profondamente dinan-zi a lei.

«Sii benvenuta, fata nobilissima», disse con voce dolce, «nel paesedei Succhialimoni. Noi ti siamo infinitamente grati per aver ucciso laPerfida Strega dell’Est e per aver liberato il nostro popolo dalla schia-vitù».

Dorothy ascoltava a bocca aperta questo discorso. Che diavolo vole-va intendere la donnina chiamandola fata e dicendole che aveva ucci-so la Perfida Strega dell’Est? Dorothy era una bambina ingenua e inno-cente che un ciclone aveva portato molte miglia lontano da casa, e chenon aveva mai ucciso nessuno in vita sua.

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1. strambe: strane.2. bizzarramente: in modostravagante, originale.3. falda: la parte sporgentedel cappello.

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17Classici da non perdere

Ma era evidente che la donnina aspettava da lei una risposta, e allo-ra Dorothy disse esitando:

«Tu sei molto gentile, ma temo che sia un errore. Io non ho uccisonessuno».

«Ma la tua casa sì», ribatté la donnina ridendo, «che è poi lo stesso.Guarda!» continuò, indicando l’angolo della casa. «Non vedi che i pie-di le spuntano ancora sotto quel pezzo di legno?»

Dorothy guardò e diede in un piccolo grido di spavento. In realtà,sotto l’angolo del grosso trave su cui poggiava la casa, spuntavano duepiedi calzati di scarpe d’argento appuntite.

«Oh poveri noi!» esclamò Dorothy giungendo le mani con fare dispe-rato. «Ma allora la casa le è caduta sopra! Cosa facciamo adesso?»

«Non c’è nulla da fare», rispose calma la donnina.«Ma chi era?» tornò a chiedere Dorothy.«Ti ho già detto che era la Perfida Strega dell’Est», rispose la don-

nina. «È lei che ha tenuto i Succhialimoni sotto il suo potere per moltianni, obbligandoli a lavorare come schiavi per lei, notte e giorno. Orail popolo è liberato, e ti è grato per la grazia che gli hai concesso».

«Ma chi sono i Succhialimoni?» domandò Dorothy.«La gente che vive in questo paese dell’Est, dove regnava la Perfida

Strega».«E tu, sei una Succhialimoni anche tu?» chiese la bimba.«No, ma sono loro amica, benché io abiti nel paese del Nord. Quan-

do videro che la Strega dell’Est era morta, i Succhialimoni mi inviaro-no un messaggero volante, e io accorsi subito. Io sono la Strega delNord».

«Oh, mio Dio!» esclamò Dorothy spaventata. «Sei una vera Strega?»«Ma certo», rispose la donnina. «Ma io sono una strega buona e tut-

ti mi vogliono bene. Però io non sono potente come la Perfida Stregache governava questo paese, altrimenti avrei liberato io questa gente».

«Ma io credevo che tutte le Streghe fossero cattive», disse Dorothyun po’ atterrita all’idea di trovarsi faccia a faccia con una vera e pro-pria strega.

«Ah, no, questo è un grande errore. C’erano soltanto quattro stre-ghe in tutto il regno di Oz e due di loro, quelle che vivono nel Nord enel Sud, sono streghe buone, cioè fate. E questo è certamente vero, per-ché io sono proprio una di loro e non posso sbagliarmi. Invece quelleche vivevano nell’Est e nell’Ovest erano, è vero, streghe cattive; ma ades-so che tu ne hai uccisa una, in tutto il regno di Oz non resta più cheun’unica strega malvagia, la Strega dell’Ovest».

«Ma», obiettò Dorothy dopo un momento di riflessione, «la zia Emmami ha detto che le Streghe sono morte tutte, tanti e tanti anni fa».

«Chi è la zia Emma?» domandò la donnina.«È la mia zia che vive nel Kansas, il mio paese».La Strega del Nord sembrò riflettere un momento col capo chino e

gli occhi fissi al suolo. Ma poi sollevò lo sguardo e disse: «Io non so dove Qu

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sia il Kansas, perché mai prima di adesso ne ho sentito parlare. Ma dim-mi, è un paese civile?»

«Certo!» rispose Dorothy.«Allora mi spiego. Credo infatti che nei paesi civili non ci siano più

streghe, né stregoni, né maghi, né fate. Ma, vedi, il regno di Oz non hamai potuto diventar civile, perché noi siamo tagliati fuori da tutto il restodel mondo. Per questo ci sono ancora streghe e maghi qui da noi».

«Quali sono i maghi?» chiese Dorothy.«Oz in persona è il Grande Mago», rispose la strega, abbassando il

tono della sua voce a un bisbiglio. «È più potente di tutte noi altre mes-se insieme. E abita nella Città degli Smeraldi».

Dorothy stava per fare un’altra domanda, quando i Succhialimoni,rimasti zitti ad ascoltare fino a quel momento, emisero un altro gridoindicando l’angolo della casa dove giaceva prima la strega.

«Che c’è?» domandò la vecchietta. Poi guardò anche lei e si mise aridere. I piedi della strega morta erano scomparsi completamente e nonerano rimaste che le scarpette d’argento.

«Era così vecchia», spiegò la Strega del Nord, «che il sole ha impie-gato poco tempo a disseccarla completamente. Così è finita anche lei.Ma le scarpette d’argento sono tue, e tu dovrai portarle».

Si chinò a raccattare le scarpe che porse a Dorothy, dopo averne scos-so la polvere.

«La Strega dell’Est era orgogliosa di quelle pantofoline d’argento»,disse uno dei Succhialimoni, «e si tratta certo di pantofoline incantate,ma quale sia il loro incantesimo non siamo mai riusciti a saperlo».

Dorothy portò le scarpette in casa e le mise sul tavolo. Poi tornò fuo-ri dai Succhialimoni e disse loro: «Io voglio tornare dai miei zii perchésono sicura che stanno in pena per me. Potete aiutarmi a trovare la stra-da?»

I Succhialimoni e la Strega si guardarono dapprima fra di loro, poiguardarono la bimba e infine scossero tutti il capo.

«Nell’Est, non molto lontano da qui», disse uno di loro, «c’è un gran-de deserto e nessuno al mondo sarebbe in grado di attraversarlo».

«Lo stesso è al Sud», disse un altro. «Io ci sono stato e l’ho veduto.Il Sud è il Paese dei Gingillini».

«Mi risulta», intervenne il terzo omino, «che lo stesso è all’Ovest. Equel paese, abitato dai Martufi, è governato dalla perfida Strega del-l’Ovest che ti farebbe sua schiava se tu mettessi piede nel suo territo-rio».

«Quanto al Nord, è il mio paese», disse la vecchietta, «ed esso con-fina con lo stesso sterminato deserto che circonda il regno di Oz. Temo,cara, che dovrai restare con noi per sempre».

Dorothy a quelle parole si mise a singhiozzare, perché si sentiva solain mezzo a tutte quelle strane persone. Forse le sue lacrime inteneriro-no i cuori dei bravi Succhialimoni, perché anche loro estrassero i lorofazzolettini e cominciarono a piangere. La donnina, invece, si tolse il

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cappello a cono e ne tenne in equilibrio la punta sul suo naso, mentrecon voce solenne contava: «Uno, due, tre». D’un tratto il cappello si tra-sformò in un pezzo d’ardesia che portava scritto a grandi caratteri bian-chi, tracciati col gesso:

«CHE DOROTHY VADA ALLA CITTÀ DEGLI SMERALDI».La vecchietta si tolse il cappello dal naso e, dopo averne lette le paro-

le, chiese:«Ti chiami Dorothy, cara?»«Sì», rispose la bambina levando lo sguardo verso di lei e asciugan-

dosi gli occhi.«Allora devi andare nella Città degli Smeraldi. Forse il mago di Oz

ti aiuterà».«Dove si trova questa città?» domandò la bimba.«Esattamente nel centro del regno, ed è governata da Oz, il Gran-

de Mago di cui ti ho parlato».«È buono?» interrogò ansiosa Dorothy.«Sì, è un buon mago; ma non posso dirti se sia un uomo o no per-

ché non l’ho mai veduto».«Come posso arrivare fin là?» chiese nuovamente la bambina.«Devi andare a piedi. È un viaggio molto lungo, attraverso un pae-

se a volte bellissimo, a volte oscuro e terribile. Ma io farò uso di tutte lemagie che conosco per tenerti lontana dai pericoli».

«Non vuoi venire con me?» supplicò Dorothy, che cominciava a con-siderare la vecchietta la sua unica amica.

«No, non posso», rispose quella. «Ma ti darò un bacio, e nessunooserà far del male a chi è stato baciato dalla Strega del Nord».

Si avvicinò a Dorothy e la baciò delicatamente sulla fronte: nel pun-to in cui le sue labbra l’avevano sfiorata rimase un’impronta rotonda esplendente, e presto anche Dorothy se ne accorse.

«La strada per giungere alla Città degli Smeraldi è pavimentata dimattoni gialli», disse la Strega, «così non puoi sbagliare. Quando arri-verai dal Mago, non avere paura di lui, ma raccontagli la tua storia echiedigli di aiutarti. Addio, cara».

I tre Succhialimoni le fecero un profondo inchino augurandole buonviaggio; dopo di che si incamminarono nel bosco. La Strega fece un’af-fettuosa carezza alla piccola Dorothy, girò tre volte sul tallone sinistroe sparì improvvisamente, con grande sorpresa del piccolo Toto che leabbaiò dietro furiosamente vedendola dileguare.

Ma Dorothy, che sapeva con chi aveva a che fare, non si sorpreseaffatto di quella sparizione.

(L. F. Baum, Il mago di Oz, trad. it. N. Agosti Castellani, Milano, RCS, 1978)

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PollyannaEleanor Hodgman Porter

L’autriceEleanor Hodgman Porter fu una scrittrice statunitense (1868-1920). Nata nelNew Hampshire (nel nord-est degli USA), da ragazza studiò canto, ma in segui-to decise di dedicarsi alla letteratura per ragazzi. Scrisse numerosi romanzi,tra cui i celebri Pollyanna e Pollyanna cresce.

Il romanzoPollyanna, romanzo uscito nel 1913, narra la storia di una ragazzina di undi-ci anni, Pollyanna, che dopo essere rimasta orfana viene accolta dalla ziamaterna, l’inflessibile Miss Polly Harrington, assai poco lieta di dover rive-stire i panni della tutrice. L’arrivo di Pollyanna porta un discreto scompiglionell’ordinato tran-tran di casa Harrington e, più in generale, in tutto il villag-gio. Pollyanna, infatti, è vivace e chiacchierona, ama conoscere le persone e,se può, rendersi utile agli altri. Così, senza volerlo, la ragazzina viene a cono-scenza di antichi segreti che tutti, e in particolare Miss Polly, avrebbero volu-to seppellire per sempre...Il romanzo comincia così.

Quella mattina di giugno, quando entrò in cucina Miss Polly Har-rington dava l’impressione d’avere fretta. Di solito i suoi movimenti nonerano mai precipitosi; anzi, il suo vanto maggiore era di conservare inogni occasione la calma. Oggi, invece, Miss Polly aveva davvero fretta.

Nancy, che in quel momento era all’acquaio, la guardò sorpresa;anche se era al suo servizio soltanto da due mesi aveva già capito cheMiss Polly non era solita affrettarsi.

«Nancy!»«Sì, signora», rispose Nancy di buon umore, sempre continuando ad

asciugare la brocca che aveva in mano.«Nancy», la voce di Miss Polly si era fatta dura. «Quando ti rivolgo

la parola, desidero che tu smetta quel che stai facendo e che presti atten-zione a quanto ti dico».

Nancy arrossì; posò immediatamente la brocca e l’asciugapiatti accan-to ad essa, e per poco non la rovesciava: ciò che la mise ancora più adisagio.

«Sì, signora; ho capito, signora», farfugliò, riprendendo in mano labrocca e girandosi in fretta. «Cercavo di sbrigarmi perché stamattinami aveva detto di non metter troppo tempo a riordinare la cucina».

Miss Polly si fece ancora più severa.«Basta, Nancy. Non ti ho chiesto spiegazioni; voglio solo che tu stia

ad ascoltarmi».«Sì, signora». Nancy represse un sospiro, chiedendosi se sarebbe mai

riuscita ad accontentarla in qualche modo. Nancy non era mai stata a

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servizio, ma la malattia della madre, che era rimasta vedova da un gior-no all’altro, con tre figli da allevare ancora più giovani di lei, l’avevaobbligata – lei, la maggiore – a cercarsi un lavoro per dare un aiuto incasa. Era stata veramente contenta quando aveva trovato il posto nel-la cucina della grande casa sulla collina: Nancy veniva dalla contrada“The Corners” a sei miglia da lì, e conosceva Miss Polly Harringtonsoltanto come proprietaria della vecchia tenuta Harrington, che appar-teneva a una delle più ricche famiglie della zona. Questo era quantosapeva due mesi prima. Adesso apprendeva anche che Miss Polly erauna donna rigida dallo sguardo duro che si accigliava se una posatacadeva per terra, o se una porta sbatteva, né mai sorrideva per alcunaragione.

«Quando avrai finito il tuo solito lavoro, questa mattina», Miss Pol-ly ora le diceva, «dovrai sgomberare la stanzetta del sottotetto e fare illetto della brandina. Naturalmente farai pulizia nella stanza, dopo aver-la liberata dai bauli e dagli scatoloni».

«Sì, signora. E dove devo mettere tutta la roba che devo sgombera-re?»

«Nel sottotetto che dà verso il giardino». Un attimo di esitazione,quindi Miss Polly proseguì: «Tanto vale che te lo dica subito, Nancy.Mia nipote, Miss Pollyanna Whittier, verrà a stare con me. Ha undicianni e dormirà nella stanza che ti ho detto».

«Una bambina verrà qui, Miss Harrington? Che bello!» esclamòNancy, ricordando le sue sorelline e l’allegria che suscitavano in casa.

«Bello? Non mi sembra la parola adatta», disse Miss Polly asciutta.«In ogni modo ho intenzione di fare il possibile perché tutto vada peril meglio. Sono una persona come si deve, voglio credere, e conosco imiei doveri». Nancy si fece rossa di fuoco.

«Certo, signora. Pensavo che una ragazzina in questa casa... avreb-be portato un po’ d’allegria», farfugliò.

«Grazie», disse Miss Polly con durezza. «Non posso dire, però, chece ne sia proprio bisogno urgente».

«Ma», azzardò Nancy, «certo che lei la vuole, la bambina di sua sorel-la».

Vagamente sentiva che in qualche modo doveva preparare a quellapiccola sconosciuta un’atmosfera più accogliente. Miss Polly s’irrigidìancor più.

«Veramente, Nancy, per il fatto di avere avuto una sorella tanto scioc-ca da finire per sposarsi e mettere al mondo altri bambini quando giàce ne sono tanti, non vedo perché dovrei desiderare in modo partico-lare di allevarne io stessa e di prendermene cura. Ad ogni modo, comeho detto, spero di sapere qual è il mio dovere. Mi raccomando di puli-re bene negli angoli, Nancy», concluse poi con la solita durezza nellasciare la stanza.

«Sì, signora», disse Nancy, tornando alla brocca che nel frattemposi era asciugata da sola. Q

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Rientrata in camera sua, Miss Polly riprese in mano la lettera che ave-va ricevuto due giorni prima da una lontana città del West e che era sta-ta per lei una sorpresa tanto sgradita. La lettera era indirizzata a “MissPolly Harrington, Beldingsville, Vermont”, e diceva testualmente:

“Gentile signora,ho il dolore di informarla che il Reverendo Jokn Whittier è morto due settimane

fa, lasciando una figlia, una ragazzina di undici anni. A parte alcuni libri non halasciato altro, in quanto, come lei certamente saprà, egli era il Pastore di questa pic-cola parrocchia e viveva di un ben misero stipendio. Se non sbaglio, aveva sposato lasua defunta sorella, ma mi aveva lasciato capire che i rapporti fra le due famiglie nonerano troppo cordiali. Egli riteneva, tuttavia, che per amore di sua sorella lei avreb-be desiderato la bambina presso di sé per allevarla tra i suoi nell’Est, ed è per que-sto motivo che le scrivo. Quando riceverà questa lettera, la bambina sarà già prontaa partire e, se lei accetta di accoglierla, le sarò molto grato se me lo farà sapere inmodo che possa farla partire immediatamente, dal momento che qui c’è una certa per-sona che con la moglie verrà tra breve nell’Est. Prenderebbero con loro la bambinafino a Boston, dove la farebbero salire sul treno per Beldingsville. Naturalmente saràinformata in quale giorno e su quale treno viaggerà la piccola Pollyanna. Con la spe-ranza di avere presto una sua risposta affermativa, le invio i migliori saluti.

Rev. Jeremiah O. White»

Con la fronte sempre aggrottata, Miss Polly ripiegò la lettera e lainfilò di nuovo nella busta. Aveva già risposto il giorno prima, scriven-do che avrebbe accolto la bambina, naturalmente. Per quanto le riu-scisse poco gradito, sapeva bene qual era il suo dovere!

Mentre era lì seduta con la lettera in mano, tornava con il pensieroa sua sorella Jennie, che era stata la madre di questa bambina, quandoJennie appena ventenne aveva superato l’opposizione della famiglia edera riuscita a sposare il Reverendo. Anche un altro uomo molto bene-stante l’avrebbe sposata, e la famiglia l’avrebbe senz’altro preferito alPastore; ma non Jennie. L’uomo ricco disposto a sposarla aveva a suofavore qualche anno in più e più denaro, mentre il giovane ministro ave-va soltanto la testa piena di ideali giovanili, tanto entusiasmo, e un cuo-re molto grande. Jennie aveva preferito queste qualità, con molta inge-nuità, forse, così aveva sposato il Pastore, e se ne era andata con lui alSud, come moglie di ministro di una casa missionaria. Fu allora che siera verificata la rottura. Miss Polly se lo ricordava bene, anche se all’e-poca aveva solo quindici anni, essendo la più giovane. La famiglia ave-va avuto sempre più rari contatti con la moglie del missionario. Jennieaveva scritto per un certo tempo e aveva informato di aver chiamato lasua ultima bambina Pollyanna, dal nome delle sue due sorelle, Polly eAnna; gli altri bambini le erano tutti morti. Fu l’ultima volta che Jen-nie aveva dato sue notizie. Poi, qualche anno più tardi, si era saputo del-la sua morte, annunciata in una breve ma straziante lettera del mini-stro stesso e inviata da un piccolo centro del West.

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Nel frattempo la vita non si era fermata nella grande casa in cimaalla collina. Fissando lo sguardo sulla valle, Miss Polly pensava ai cam-biamenti che quei venticinque anni avevano portato.

Adesso era giunta ai quarant’anni ed era sola al mondo. Papà, mam-ma e le sorelle erano tutti morti. Da vari anni era unica padrona dellacasa e di quanto il padre le aveva lasciato.

C’era gente che l’aveva compatita per quella sua vita di solitudine,mentre la spingeva a trovarsi chi stesse con lei, ma lei non aveva gradi-to né la loro preoccupazione, né i loro consigli. Non si sentiva sola, dice-va. Le piaceva vivere così. Preferiva la tranquillità. Ma ora...

Miss Polly si alzò con un’espressione pensierosa e le labbra strette.Era contenta, naturalmente, di essere una persona per bene che nonsoltanto conosceva il suo dovere, ma che era anche dotata di caratteresufficiente per dimostrarlo. Però... “Pollyanna”, che nome ridicolo!

(E. H. Porter, Pollyanna, trad. it. O. Bonato, Novara, De Agostini, 1994)

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Piccole donneLouisa May Alcott

L’autriceLouisa May Alcott (1832-1888) ebbe un’infanzia fuori dall’ordinario. Il padreera un filosofo che contava tra le proprie amicizie intellettuali e scrittori, alcu-ni dei quali, come il famoso Nathaniel Hawthorne, furono anche insegnantiprivati di Louisa e delle sue tre sorelle. La famiglia trascorse alcuni anni inuna comunità chiamata Fruitlands, dove si praticava uno stile di vita impron-tato alla condivisione dei beni e alla solidarietà; l’esperimento però fallì, e gliAlcott si trovarono in precarie condizioni economiche finché, grazie a un’e-redità della madre, riuscirono ad acquistare una casa nel Massachusetts.Louisa iniziò a lavorare presto per contribuire al magro bilancio familiare: fecela sarta, la governante, l’insegnante e l’infermiera. Più tardi riuscì a venderealcuni suoi racconti, che vennero pubblicati da varie riviste. Il vero successocome scrittrice arrivò nel 1868 con il romanzo Piccole donne, cui seguironoaltri tre titoli della stessa serie: Piccole donne crescono, Piccoli uomini e I figlidi Jo. In ognuno di questi romanzi vi sono molti riferimenti autobiografici:le quattro sorelle di Piccole donne, infatti, sono ispirate alla stessa Louisa ealle sue sorelle, mentre per le vicende di Piccoli uomini e I figli di Jo la scrit-trice prese spunto dai numerosi nipoti che vivevano con lei nella casa di fami-glia.

Il romanzoLa storia di Piccole donne è ambientata durante la guerra di secessioneamericana, tra il 1861 e il 1865. La famiglia March vive in ristrettezze econo-miche, a causa di un passato rovescio di fortuna, ma serenamente, finché ilsignor March è richiamato alle armi e mandato a combattere a Sud. Le suequattro figlie – Meg, Jo, Beth e Amy, rispettivamente di sedici, quindici, tre-dici e dodici anni – promettono al papà lontano di essere laboriose, gentili esempre pronte ad aiutare il prossimo: insomma, a diventare delle “piccole don-ne”, come dice il titolo del romanzo.I buoni propositi, però, si scontrano spesso con la realtà dei fatti, e come tut-te le ragazze di questo mondo anche alle quattro ragazze March capita di liti-gare, di invidiare le ricchezze altrui e di desiderare di vivere nell’ozio: il roman-zo si snoda dunque raccontando le loro piccole storie di formazione, le amicizie,i primi corteggiamenti, la felicità e i dolori che accompagnano la vita delleadolescenti, ieri come oggi.Ecco come comincia la storia.

«Un Natale senza regali non è un vero Natale», borbottò Jo, stesasul tappeto.

«Che disgrazia essere poveri!» sospirò Meg, guardando sconsolata ilvecchio vestito che indossava.

«È una vera ingiustizia che ci siano delle ragazze che hanno un sac-co di belle cose, mentre altre non hanno proprio niente!» aggiunse lapiccola Amy, tirando su col naso con aria indispettita1.

«In fondo, però, siamo insieme, e abbiamo il papà e la mamma»,disse Beth in tono tranquillo, dal suo angolino.1. indispettita: irritata.

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Rasserenati da quell’osservazione, i quattro visetti apparvero d’im-provviso più splendenti, alla luce del focolare, ma subito tornarono arabbuiarsi quando Jo disse in tono triste:

«Veramente il papà non è con noi, e non lo sarà per molto tempo».Non aggiunse «forse mai più», ma ognuna di loro, in cuor suo, lo pen-sò, volando con la mente al padre lontano, impegnato sul fronte.

Per qualche minuto, rimasero in silenzio. Poi, improvvisamente ecci-tata, Meg disse:

«Sapete anche voi che la mamma ha proposto di non comprare nes-sun regalo per Natale perché l’inverno sarà duro per tutti, e secondo leinon è giusto spendere dei soldi per cose superflue2 quando i nostri uomi-ni stanno soffrendo in guerra. Non possiamo fare molto, ma quei pochisacrifici che ci vengono richiesti dovremmo farli con piacere. Però...però io non credo di essere così brava».

Meg scosse la testa, pensando dispiaciuta a tutte le belle cose chedesiderava.

«Comunque, non credo che quel poco che abbiamo possa servire aqualcuno. Ci tocca un dollaro a testa, e se anche lo regalassimo all’e-sercito, non se ne farebbe molto. Mi va benissimo non farmi regalareniente da voi e dalla mamma, però mi piacerebbe tanto comprarmiOndina e Sintram. È tanto di quel tempo che lo desidero!» esclamò Jo, cheera una lettrice appassionata.

«Io avevo pensato di spendere il mio dollaro per acquistare dei nuovispartiti di musica», disse Beth lasciandosi scappare un sospiro così legge-ro che lo udirono solo lo scopino del caminetto e il gancio del bollitore.

«Io mi comprerò una bella scatola di matite colorate Faber. Mi ser-vono davvero», disse Amy, decisa.

«La mamma non ha parlato dei nostri soldi, e di sicuro non vuoleche rinunciamo proprio a tutto. Facciamo così: ognuna di noi si com-pra quello che vuole, almeno avrà una piccola consolazione, no? Vistoche sgobbiamo parecchio, direi che ce lo meritiamo proprio!» esclamòJo, fissandosi i tacchi delle scarpe con fare maschile.

«Be’, questo è poco ma sicuro!» concordò Meg riprendendo il tonolamentoso di poco prima. «Con tutte le ore che mi tocca passare a farlezione a quei mocciosi quando avrei voglia di starmene a casa a diver-tirmi!»

«Guarda che in confronto a me tu te la passi proprio bene», le fecenotare Jo. «Cosa ne diresti di startene tappata in casa per delle ore insie-me a una vecchietta pignola e irritabile che ti fa trottare su e giù in con-tinuazione, non è mai contenta e ti tortura a tal punto che ti viene vogliadi buttarti dalla finestra o di metterti a urlare?»

«Lo so, è brutto essere tormentati così, ma ti dirò che per me lavarei piatti e tenere in ordine la casa è il lavoro peggiore del mondo. Diven-to di cattivo umore, e in più mi si irrigidiscono le mani, tanto che nonriesco a suonare come vorrei», disse Beth guardandosi le mani ruvidecon un sospiro che, questa volta, risultò udibile a tutte. Q

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2. superflue: non necessa-rie.

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«Nessuna di voi soffre quanto me!» esclamò Amy. «Non siete micacostrette ad andare a scuola con delle ragazze impertinenti3, che se nonsai la lezione ti mettono in croce, ti prendono in giro per i vestiti che timetti e in più sfamano tuo padre perché non è ricco e ti offendono per-ché non hai un bel naso».

«Veramente sarebbe meglio dire diffamano, se è questo che intendi:mica danno da mangiare a papà, le tue amate compagne!» osservò Jo,ridendo.

«So benissimo cosa intendo dire, e non c’è nessun bisogno di esserecosì istrionica. È giusto usare parole ricercate e migliorare il proprio voca-bulario», ribatté Amy con aria offesa.

«Smettetela di beccarvi, ragazze. Non ti piacerebbe che avessimoancora i soldi che il papà ha perso quando eravamo piccole, eh, Jo? Oh,come sarebbe bello non avere tutte queste preoccupazioni!» disse Meg,che ricordava tempi migliori.

«Veramente l’altro giorno hai detto che secondo te eravamo ben piùfelici noi dei figli della signora King, che nonostante tutti i loro soldinon fanno altro che litigare e tormentarsi a vicenda».

«È vero, Beth, hai ragione. In effetti, anche se dobbiamo lavorare, cidivertiamo, e tutto sommato siamo una cricca4 abbastanza allegra, comedirebbe Jo».

«Jo usa delle parole terribilmente poco fini», osservò Amy, gettan-do un’occhiata di riprovazione5 all’alta figura stesa sul tappeto. Jo sialzò immediatamente a sedere, infilò le mani in tasca e si mise a fischiet-tare.

«Smettila, Jo! È da maschiacci!»«È proprio per questo che lo faccio».«Non sopporto le ragazze sgarbate e poco fini!»«E io odio le mocciose tutte moine e smancerie6!»«Nei loro nidi gli uccellini van d’accordo...», canterellò Beth la pacificatri-

ce, con un’espressione talmente buffa sul faccino che le voci concitate7

delle due sorelle si trasformarono in una risata, e per quella volta il liti-gio finì lì.

«Veramente, ragazze, avete torto tutte e due», sentenziò Meg, ini-ziando la ramanzina8 con il suo tono da sorella più grande. «Tu, Josephi-ne, sei grande abbastanza da smetterla con quei modi da maschiaccioe iniziare a comportarti meglio. Quando eri piccola, si poteva chiude-re un occhio, ma adesso che sei così alta e ti tiri su i capelli dovresti ricor-darti che sei una signorina».

«Non è vero! E se tirarmi su i capelli significa che devo comportar-mi da signorina, mi farò le trecce fino a vent’anni!» gridò Jo, strappan-dosi dalla testa la retina che reggeva lo chignon9 e scuotendo la crinie-ra castana. «Non voglio essere costretta a crescere e a diventare lasignorina March, portare gonne lunghe ed essere delicata come un fio-re raro! È già un tormento sufficiente essere nata femmina, quando inve-ce mi piacciono i giochi da maschi, i mestieri da maschi e i modi da

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3. impertinenti: sfacciate,maleducate.4. cricca: compagnia.5. riprovazione: critica, con-danna.6. moine e smancerie: com-portamenti sdolcinati eaffettuosi.7. concitate: agitate per l’e-mozione.8. ramanzina: rimprovero.9. chignon: capelli raccoltisulla nuca.

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maschi! Non riesco proprio a mandar giù il fatto di non essere un ragaz-zo, e adesso più che mai, dato che muoio dalla voglia di essere al fron-te con il papà, invece di starmene a casa a lavorare a maglia come unavecchietta ingobbita!» concluse Jo scuotendo il calzettone blu a cui sta-va lavorando finché i ferri da calza non si misero a tintinnare come nac-chere e il gomitolo di lana non rotolò in mezzo alla stanza.

«Povera Jo! È triste, lo so, ma non c’è niente da fare. E dunque deviaccontentarti di usare il tuo diminutivo, che assomiglia a un nomemaschile, e far finta di essere una specie di fratello con noi sorelle», dis-se Beth, accarezzando la testa spettinata accanto al suo ginocchio conuna mano che niente al mondo, nemmeno ore e ore di fatiche dome-stiche, avrebbe potuto rendere meno dolce e affettuosa.

«Quanto a te, Amy», continuò Meg, «sei davvero troppo schizzino-sa e affettata10. Per adesso sei soltanto buffa, ma stai attenta: se conti-nuerai così, tra poco diventerai un’oca piena di smancerie. A me piac-ciono i tuoi modi gentili e raffinati, quando non ti sforzi di essere elegante,però: le parole assurde che inventi ogni tanto sono quasi peggio delleespressioni che usa Jo».

«Se Jo è un ragazzaccio e Amy un’oca, mi dici cosa sono io?» chie-se Beth, pronta a sorbirsi la sua parte di ramanzina.

«Tu sei un tesoro e nient’altro», rispose Meg affettuosamente, e nes-suno la contraddisse, poiché “Topolino” era la beniamina di tutta lafamiglia.

Dato che ai giovani lettori interessa sempre conoscere l’aspetto deipersonaggi, approfitteremo del quadretto familiare per tracciare un pic-colo schizzo delle quattro sorelle, sedute a lavorare a maglia nella lucedel crepuscolo, mentre fuori cadeva silenziosa la neve di dicembre e incasa il fuoco crepitava allegro nel camino.

La stanza era vecchia ma confortevole, sebbene il tappeto fosse piut-tosto scolorito e il mobilio molto semplice. Alle pareti erano appesi unpaio di bei quadri, e sui numerosi scaffali che riempivano le nicchie era-no allineati molti libri. Sui davanzali fiorivano crisantemi e stelle diNatale, e tutta la sala era pervasa da una piacevole atmosfera di pacedomestica.

Margaret, la maggiore delle quattro sorelle, aveva sedici anni ed eramolto graziosa: paffuta e chiara di carnagione, occhi grandi, folti capel-li morbidi e castani, la bocca graziosa e mani bianchissime, di cui anda-va piuttosto fiera.

Jo, quindici anni, era molto alta e slanciata, e scura di carnagione;somigliava un po’ a una puledra, perché dava sempre l’impressione dinon sapere che cosa fare delle sue lunghe gambe, che la impacciavanodi continuo. Aveva la bocca decisa, un naso piuttosto buffo e gli occhigrigi e penetranti, che sembravano vedere tutto ed erano ora fieri, oradivertiti e ora assorti. I capelli, lunghi e folti, erano la sua unica bellez-za, ma di solito li portava raccolti in una retina, in modo che non le fos-sero d’impaccio. Jo aveva le spalle larghe e mani e piedi grandi, non si Q

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10. affettata: poco natura-le.

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curava molto dei suoi vestiti e aveva in generale l’aspetto sgraziato diuna ragazza che sta rapidamente sbocciando in una donna ma non saaccettare la trasformazione.

Elizabeth – o Beth, come la chiamavano tutti – era una ragazzina ditredici anni dalla pelle rosea, i capelli morbidi e gli occhi scintillanti.Era piuttosto riservata e aveva una vocina timida e un’espressione sere-na che ben poche cose potevano turbare. Suo padre la chiamava “Pic-cola Tranquillità” e il soprannome le stava a pennello: sembrava infat-ti che vivesse in un mondo felice e tutto suo, avventurandosi all’esternosolo per incontrare quelle poche persone che amava e in cui riponevala sua fiducia.

Amy, pur essendo la più giovane, era una persona molto importan-te, per lo meno a suo avviso. Pareva fatta di neve, con gli occhi azzurrie i capelli biondissimi che le si arricciavano sulle spalle, pallida e minu-ta, sempre attenta a muoversi con la grazia propria di una damigelladalle buone maniere. Quanto al carattere delle quattro sorelle, lascere-mo ai lettori il compito di scoprirlo strada facendo.

(M. L. Alcott, Piccole donne, trad. it. L. Cangemi, Casale Monferrato, Piemme, 1997)

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La freccia neraRobert Louis Stevenson

L’autoreRobert Louis Stevenson (1850-94) nacque a Edimburgo, in Inghilterra. Fu unadolescente ribelle e inquieto, in aperta polemica con il padre che l’aveva desti-nato alla professione di avvocato. In effetti, si laureò in giurisprudenza manon esercitò mai, preferendo scrivere e viaggiare. Per Stevenson viaggiareera una passione, legata al suo temperamento curioso e avventuroso, maanche una necessità, dal momento che era malato di tubercolosi e aveva biso-gno di soggiornare a lungo in luoghi dove il clima fosse mite. A partire dal1891, infatti, si stabilì definitivamente nelle isole Samoa, dove visse circon-dato dall’affetto e dal rispetto degli indigeni fino alla morte.Stevenson scrisse numerosi romanzi e racconti, molti dei quali di genere fan-tastico e avventuroso: tra i più famosi vi sono La freccia nera, L’isola del teso-ro, Il signore di Ballantrae e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hide;scrisse anche numerosi diari di viaggio, tra cui I mari del Sud.

Il romanzoLa freccia nera (scritto nel 1883) è ambientato in Inghilterra nel XV secolo,all’epoca della Guerra delle Due Rose, quando le casate degli York e dei Lan-caster, rispettivamente simboleggiate da una rosa bianca e da una rosa ros-sa, si contesero a lungo il trono, dissanguandosi a vicenda.Protagonisti sono due giovani: Richard Shelton (detto Dick) e Joanna Sed-ley, coinvolti loro malgrado in una girandola di intrighi, rapimenti e fughe,secondo la migliore tradizione del romanzo d’avventura.Il romanzo comincia così.

In un pomeriggio di tarda primavera, ad ora inconsueta, la campa-na del castello di Tunstall prese a suonare. Dappertutto, vicino e lon-tano, nella foresta e nei campi lungo il fiume, la gente, lasciato il lavo-ro, si affrettò verso la sorgente del suono, e nel villaggio di Tunstall siformò un gruppetto di contadini che si chiedevano il perché dell’ap-pello.

Il villaggio di Tunstall non era a quell’epoca, sotto il vecchio re Enri-co VI, molto diverso da oggi: una ventina di case o poco più, con mas-sicce strutture di quercia, sparse in una valle lunga e verde che scende-va al fiume. Qui c’era un ponte, superato il quale la strada risaliva lasponda opposta, fino a scomparire nella foresta, in direzione del Castel-lo e dell’Abbazia di Holywood. A mezzo del villaggio sorgeva la chie-sa, circondata da tassi1. Gli alberi della foresta incorniciavano da amboi lati la valle.

Proprio vicino al ponte, su di un monticello, sorgeva una croce dipietra, e qui si raccolse il gruppetto di gente del villaggio – che poi siriduceva a una mezza dozzina di donne e a un uomo d’alta statura incamiciotto di tela grezza – a discutere su ciò che la campana potevasignificare. Mezz’ora prima un corriere era passato per il villaggio, fer-

1. tassi: grandi alberi dallachioma verde scuro che pro-ducono bacche rosse.

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mandosi a bere un boccale di birra senza neppure scendere di sella,tanta era la fretta; ma non aveva da raccontare alcuna novità; avevasoltanto delle lettere sigillate di Sir Daniel Brackley da consegnare aSir Oliver Oates, il parroco che occupava il castello in assenza delsignore.

Ed ecco, all’improvviso, il suono di un cavallo al galoppo che sbucadalla foresta e attraversa rombando il ponte: in sella c’è Master RichardShelton, il giovane pupillo di Sir Daniel. Dick qualcosa doveva pur sape-re! Lo salutarono, dunque, e gli andarono incontro per chiedergli del-le spiegazioni. Dick fu abbastanza pronto a tirare le redini. Era un ragaz-zo di neppure diciott’anni, abbronzato dal sole, occhi grigi, giubbottodi pelle di daino con collo di velluto nero, cappuccio verde in testa ebalestra d’acciaio a tracolla. Il corriere, a quanto pareva, aveva porta-to delle grosse novità. C’era puzza di battaglia. Sir Daniel ordinava chechiunque sapesse tirar d’arco o portare alabarda2 si recasse in gran fret-ta a Kettley se non voleva incorrere nella sua severità; ma per chi o checosa si dovesse combattere, e dove, questo Dick non lo sapeva. Fra pocosarebbe arrivato Sir Oliver in persona; proprio in quel momento, infi-ne, Bennet Hatch si stava armando, poiché era lui la persona che dove-va comandare il drappello.

«È la rovina di questa dolce terra!» disse una donna. «Quando i signo-ri si fanno la guerra, i contadini sono costretti a mangiare radici».

«Macché», disse Dick, «tutti quelli che ci seguiranno riceveranno seipence al giorno, dodici gli arcieri».

«Se salvano la pelle», ribatté la donna, «sarà come dite voi; ma semuoiono, padron mio?»

«Cosa c’è di meglio che morire per il proprio signore naturale?» dis-se Dick.

«Signore naturale per voi, non per me», intervenne l’uomo in cami-ciotto. «Io ho seguito i Walsingham; tutti lo abbiamo fatto da Brierly ingiù, finché non è venuta la Candelora3. E adesso dovrei mettermi dal-la parte di Brackley! Quello è mio signore per legge, non per natura.Io, con tutto il rispetto per Sir Daniel e per Sir Oliver, il quale conoscemeglio la legge che l’onestà, non ho altro signore naturale che il pove-ro re Enrico Sesto, Dio lo benedica quell’innocente che non sa distin-guere la sua mano destra dalla sinistra!»

«Non è una buona lingua la tua, amico», rispose Dick, «se metti nel-lo stesso mazzo il tuo buon padrone e il signore mio Re. Intanto, però,re Enrico è guarito, siano lodati tutti i Santi, e metterà a posto pacifi-camente ogni cosa. Quanto a Sir Daniel, ti senti un leone quando par-li dietro le sue spalle, eh! Ma io non sono uno che va a riferire i pette-golezzi, e tanto basti».

«Di voi non dico alcun male, Master Richard», ribatté il contadino.«Voi siete un ragazzo; ma quando sarete un uomo vi troverete le taschevuote. Non aggiungo altro: che i Santi aiutino chi sta vicino a Sir Daniele che la Santa Vergine protegga i suoi scudieri».

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2. alabarda: lunga lanciacon una lama a forma di scu-re.3. Candelora: festa che cadeil 2 febbraio, durante la qua-le vengono benedette le can-dele.

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31Classici da non perdere

«Clipsby», lo interruppe Richard, «dici cose che per me non è ono-revole ascoltare. Sir Daniel è il mio buon padrone e protettore».

«Lasciamo andare», ribatté Clipsby. «Volete piuttosto sciogliermi unindovinello? Da quale parte tiene Sir Daniel?»

«Non lo so», rispose Dick arrossendo lievemente; il suo protettore,infatti, non aveva fatto che passare da una parte all’altra, in quel perio-do turbato, traendo da ogni cambiamento qualche beneficio.

«Non lo sapete, no», disse Clipsby, «né voi né altri, perché costui èdavvero uno che va a letto Lancaster e si alza York».

In quel momento il ponte rimbombò sotto i ferri d’un cavallo; il grup-petto di gente si volse e vide Bennet Hatch che arrivava al galoppo, arsala faccia, brizzolati4 i capelli, pesante la mano, arcigno5 l’aspetto, arma-to di spada e di lancia, la testa protetta da un casco d’acciaio e il corpoda un giaco6 di cuoio. Era un grand’uomo, da quelle parti, bracciodestro di Sir Daniel in pace e in guerra e, per volere di costui, balivo7

dei cento.«Clipsby», gridò Bennet, «svelto, al castello, e fai andare su tutti gli

altri poltroni, tutti alla pusterla8, che Bowyer gli darà giaco e casco. Siparte prima del coprifuoco. Bada: l’ultimo a presentarsi alla pusterlaavrà da Sir Daniel il premio che merita! Su, datti da fare subito! Chesei un buono a nulla lo so. Ehi, Nance!» riprese, volgendosi a una del-le donne, «è in paese il vecchio Appleyard?»

«Ve lo garantisco», rispose la donna, «è certamente nel suo campo».Così il gruppetto si sciolse e, mentre Clipsby attraversava il ponte

senza fretta, Bennet e il giovane Shelton ripresero insieme il camminosu per la strada del villaggio oltre la chiesa.

(R. L. Stevenson, La freccia nera, trad. it. Q. Maffi, Milano, A. Mondadori, 1972)

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4. brizzolati: che comin-ciano a diventare bianchi.5. arcigno: severo e duro.6. giaco: maglia, di ferro odi cuoio, che si usava in bat-taglia per proteggere il cor-po.7. balivo: governatore conampi poteri.8. pusterla: piccola porta,a volte segreta, che nelleantiche fortificazioni fun-geva da passaggio di emer-genza.

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La fabbrica di cioccolatoRoald Dahl

Ogni mattina, quando andava a scuola, Charlie scorgeva le grandipile di tavolette di cioccolato accatastate nelle vetrine dei negozi, si fer-mava e le fissava col naso schiacciato contro il vetro e l’acquolina in boc-ca. Molte volte al giorno vedeva altri bambini sfilarsi di tasca delle bel-le stecche di cioccolato cremoso e sgranocchiarsele avidamente e questo,per lui, era un vero e proprio tormento.

Solo una volta all’anno, in occasione del suo compleanno, a Char-lie Bucket era dato assaggiare un po’ di cioccolato. Tutta la famigliametteva da parte i soldi per quella speciale occasione e quando il gran-de giorno finalmente arrivava, gli regalavano sempre una tavoletta dicioccolato che Charlie poteva mangiare tutto da solo. Ogni volta chene riceveva una, nel meraviglioso giorno del suo compleanno, la ripo-neva con cura in una scatolina di legno e ne faceva tesoro come se sitrattasse di un lingotto di oro fino; nei giorni seguenti si permetteva sol-tanto di guardarla, senza neanche sfiorarla. Infine, quando proprio non

L’autoreLo scrittore britannico Roald Dahl (1916-90) è stato uno dei più popolari auto-ri per ragazzi, genere che ha saputo rinnovare profondamente con trovate epersonaggi fantastici, grotteschi o addirittura ripugnanti.Tra i suoi romanzi ricordiamo, oltre a La fabbrica di cioccolato, Matilde, Glisporcelli, Il grande ascensore di cristallo, La pesca gigante.

Il romanzoNella periferia di una imprecisata città inglese c’è la grande e misteriosa fab-brica di cioccolato di Willy Wonka, un signore che da anni nessuno ha piùvisto, come a nessuno è stato concesso di visitare l’interno della fabbrica, dacui emanano fumo, ronzii, rumori e, soprattutto, un meraviglioso profumo dicioccolato. Finalmente l’occasione per svelare il mistero è offerta da un con-corso indetto da Willy Wonka: i cinque ragazzi che troveranno un Biglietto d’o-ro in una delle tavolette di cioccolato potranno entrare nella fabbrica e visi-tarla per un giorno.Le avventure dei cinque vincitori all’interno della fabbrica rappresentanoun’occasione di divertimento, ma anche di riflessione, perché i ragazzini ripro-ducono dei prototipi di comportamento, dal protagonista Charlie Bucket, unragazzino timido e riflessivo, ad Augustus Gloop, interessato solo a mangia-re, alla viziata e capricciosa Veruca Salt, alla masticatrice di gomma Violet-ta Beauregarde e al teledipendente Mike Tivú.

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ce la faceva più, ne scartava un angolino, scopriva una porzione picco-la piccola di cioccolato e ne addentava un minuscolo pezzetto – appe-na appena abbastanza da permettere al dolce sapore del cioccolato dispandersi deliziosamente su tutta la lingua. Il giorno dopo dava un altropiccolo morso e così via, giorno dopo giorno. E così Charlie faceva inmodo che una tavoletta di cioccolato da pochi soldi gli durasse più diun mese.

Ma ancora non vi ho detto qual era la tortura tremenda che tor-mentava il povero Charlie, così amante del cioccolato, più di qualsiasialtra cosa al mondo. Molto, ma molto peggiore che vedere mucchi ditavolette di cioccolato nelle vetrine dei negozi o guardare gli altri bam-bini sgranocchiarsi le loro belle stecche proprio davanti a lui. Insom-ma, era la più terribile tortura che si possa immaginare.

Si trattava di questo: nella sua stessa città, addirittura in vista dellacasa in cui abitava Charlie, c’era... pensate un po’... un’ENORME FAB-BRICA DI CIOCCOLATO!

Provate a immaginare una cosa del genere!E non si trattava nemmeno di un’enorme fabbrica di cioccolato qual-

siasi. Era la più grande e la più famosa fabbrica di cioccolato del mon-do! Era la FABBRICA WONKA, di proprietà del signor Willy Wonka,il più grande inventore e fabbricante di dolciumi e cioccolatini che siamai esistito. E che formidabile e meravigliosa fabbrica era quella! L’in-gresso era sbarrato da enormi cancelli di ferro e tutta la fabbrica eracircondata da un altissimo muro di cinta; dalle ciminiere sgorgava fumoe dalle profondità della fabbrica provenivano strani sibili e ronzii. Etutt’intorno, nel raggio di almeno mezzo miglio, l’aria era intrisa delforte e ricco aroma del cioccolato fondente!

Due volte al giorno, quando andava e quando tornava da scuola, ilpiccolo Charlie Bucket doveva passare proprio davanti ai cancelli del-la fabbrica. E ogni volta che passava di lì cominciava a camminare sem-pre più piano e, volgendo il naso in alto, inspirava profondamente ilprofumo di cioccolato che lo circondava.

Oh, quanto gli piaceva quel profumo!E, oh, come desiderava poter entrare in quella fabbrica e vedere

com’era fatta!(R. Dahl, La fabbrica di cioccolato, trad. it. R. Duranti, Milano, Salani, 1994)

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La fattoria degli animaliGeorge Orwell

L’autoreGeorge Orwell è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair (1903-50), scrittore egiornalista inglese.Nato in India da una famiglia di origini scozzesi, dopo gli studi svolse lavori divario genere e partecipò come volontario alla guerra di Spagna. Il suo impe-gno civile si riversò anche nella letteratura e ne La fattoria degli animali scris-se una satira pungente del comunismo e della dittatura staliniana. La sua cri-tica al totalitarismo ispirò il romanzo 1984.

Il romanzoChe cosa succederebbe se un giorno gli animali si ribellassero e decides-sero di non servire più gli uomini? Riuscirebbero a costruire una società piùgiusta e rispettosa dei diritti di tutti? A questi interrogativi offre una possibi-le risposta La fattoria degli animali, scritto nel 1945; in questo celebre roman-zo Orwell immagina che gli animali prendano il potere, dopo aver cacciato ilproprietario della fattoria in cui vivono.Ecco un “assaggio” della prima parte del romanzo.

Il signor Jones, della Fattoria padronale, serrò a chiave il pollaio perla notte, ma, ubriaco com’era, scordò di chiudere le finestrelle. Nel cer-chio di luce della sua lanterna che danzava da una parte all’altra attra-versò barcollando il cortile, diede un calcio alla porta retrostante la casa,da un bariletto nel retrocucina spillò un ultimo bicchiere di birra, poisi avviò su, verso il letto, dove la signora Jones già stava russando.

Non appena la luce nella stanza da letto si spense, tutta la fattoria fuun brusio, un’agitazione, uno sbatter d’ali. Durante il giorno era corsavoce che il Vecchio Maggiore, il maiale maschio Biancocostato premiatoa tutte le esposizioni, aveva fatto la notte precedente un sogno stranoche desiderava riferire agli altri animali. Era stato convenuto che si sareb-bero riuniti nel grande granaio, non appena il signor Jones se ne fosseandato sicuramente a dormire. Il Vecchio Maggiore (così era chiama-to, benché fosse stato esposto con il nome di Orgoglio di Willingdon)godeva di così alta considerazione nella fattoria che ognuno era pron-to a perdere un’ora di sonno per sentire quello che egli aveva da dire.[...]

Tutti gli animali erano ora presenti, eccetto Mosè, il corvo domesti-co, che dormiva su un trespolo dietro la porta d’entrata. Quando videche tutti si erano bene accomodati e aspettavano attenti, il Vecchio Mag-giore si rischiarò la gola le cominciò:

«Compagni, già sapete dello strano sogno che ho fatto la notte scor-sa, ma di ciò parlerò più tardi. Ho avuto una vita lunga, ho avuto mol-to tempo per pensare mentre me ne stavo solo, sdraiato nel mio stallo1,1. stallo: scomparto di una

stalla.

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e credo di poter dire d’aver compreso, meglio di ogni animale vivente,la natura della vita su questa terra. Di questo desidero parlarvi.

«Ora, compagni, di qual natura è la nostra vita? Guardiamola: lanostra vita è misera, faticosa e breve. Si nasce e ci vien dato quel ciboappena sufficiente per tenerci in piedi, e quelli di noi che ne sono capa-ci sono forzati a lavorare fino all’estremo delle loro forze; e, nello stes-so istante in cui ciò che si può trarre da noi ha un termine, siamo scan-nati con orrenda crudeltà. Non vi è animale di Inghilterra che, dopo ilprimo anno di vita, sappia che cosa siano la felicità e il riposo. Non viè animale in Inghilterra che sia libero. La vita di un animale è miseriae schiavitù: questa è la cruda verità.

«Fa forse ciò parte dell’ordine della natura? Forse questa nostra ter-ra è tanto povera da non poter dare una vita passabile a chi l’abita? No,compagni, mille volte no! Il suolo dell’Inghilterra è fertile, il suo climaè buono, e può dar cibo in abbondanza a un numero d’animali enor-memente superiore a quello che ora l’abita. Solo questa nostra fattoriapotrebbe sostentare una dozzina di cavalli, venti mucche, centinaia dipecore, e a tutti potrebbe assicurare un agio e una dignità di vita chevanno oltre ogni immaginazione. Perché allora dobbiamo continuarein questa misera condizione? Perché quasi tutto il prodotto del nostrolavoro ci viene rubato dall’uomo. Questa, compagni, è la risposta a tut-ti i nostri problemi. Essa si assomma in una sola parola: uomo. L’uomoè il solo, vero nemico che abbiamo. Si tolga l’uomo dalla scena e saràtolta per sempre la causa della fame e della fatica».

(G. Orwell, La fattoria degli animali, trad. it. B. Tasso, Milano, A. Mondadori, 1980)

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L’anello di Re SalomoneKonrad Lorenz

L’autoreIl viennese Konrad Lorenz (1903-89) è considerato il fondatore dell’etologiascientifica, scienza da lui definita “ricerca comparata” sul comportamentoanimale e umano.Nel 1973 ricevette il premio Nobel per la medicina e la fisiologia per gli stu-di sulle componenti innate del comportamento delle oche selvatiche e in par-ticolare sul fenomeno dell’imprinting, ossia l’apprendimento per imitazioneche avviene nei nuovi nati a partire dal contatto con i genitori. Dai suoi studiLorenz ha tratto diverse opere di divulgazione scientifica, che gli hanno datonotevole popolarità.

Il testoLa scelta del titolo L’Anello di Re Salomone si richiama alla leggenda secon-do la quale il re biblico Salomone avrebbe avuto un anello che gli permette-va di capire il linguaggio degli animali e di parlare con loro. Convinto che glianimali comunicassero attraverso il loro comportamento, Lorenz si dedicòallo studio di uccelli, pesci e mammiferi, dedicando particolare attenzione alleoche selvatiche, che divennero le protagoniste del libro in cui sono riporta-te le sue osservazioni.

Perché incomincio proprio dal lato più sgradevole della nostra con-vivenza con gli animali? Perché il nostro amore per loro si misura pro-prio dai sacrifici che siamo disposti a sobbarcarci. Sarò eternamentegrato ai miei pazienti genitori che si limitavano a scuotere il capo o asospirare rassegnati quando, scolaretto o giovane studente, portavo acasa un ennesimo coabitante, prevedibilmente turbolento. E che cosanon ha sopportato mia moglie nel corso degli anni! Chi mai oserebbeinfatti imporre alla consorte di lasciar circolare liberamente per casa unratto domestico, che coi denti strappa tanti bei pezzettini dalle lenzuo-la per tappezzare la tana; o di permettere a un cacatua1 di beccar viatutti i bottoni dalla biancheria stesa in giardino; o di accogliere, per lanotte, in camera da letto, un’oca selvatica addomesticata, per lasciarlapoi volar via dalla finestra al mattino? (Sia detto qui per inciso che leoche selvatiche non sono minimamente educabili per quanto riguardala pulizia!) [...]

Ad Altenberg2 le gabbie e le reti avevano una funzione opposta aquella che hanno di solito: dovevano cioè impedire che gli animali entras-sero in casa o in giardino. Ad essi era inoltre severamente vietato di trat-tenersi all’interno del reticolato che circondava le nostre belle aiuole.Ma, come avviene coi bambini, così anche gli animali più intelligentisono magicamente affascinati da tutte le cose proibite. E per di più leoche selvatiche, con il loro splendido attaccamento all’uomo, anelano3

sempre alla sua compagnia. Così ogni momento, in men che non si dica,

1. cacatua: pappagallo dimedia grandezza, con unciuffo eretto sulla testa.2. Altenberg: cittadinaaustriaca in cui Lorenz hatrascorso parte della suavita.3. anelano: aspirano a, ricer-cano.

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ci trovavamo circondati da venti o trenta oche selvatiche che venivanoa pascolare sulle aiuole, o, ancor peggio, che facevano irruzione sullaveranda salutandoci con forti schiamazzi. E purtroppo è estremamen-te difficile tener lontano da un dato luogo un uccello capace di volare,ma privo di qualsiasi timore nei confronti dell’uomo; a nulla servono legrida più selvagge, i più energici movimenti con le braccia. L’unico mez-zo intimidatorio4 di una certa efficacia era un enorme ombrellone ros-so scarlatto: simile a un cavaliere con lancia in resta, mia moglie, l’om-brello chiuso sotto il braccio, piombava sulle oche che avevano ripresoa pascolare sull’aiuola appena seminata e, gettando un grido bellicoso,l’apriva con mossa repentina. Questo era troppo perfino per le nostreoche, che si levavano in aria starnazzando.

(K. Lorenz, L’anello di Re Salomone, trad. it. L. Schwarz, Milano, Adelphi, 2006)

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4. intimidatorio: che ha loscopo di spaventare.

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Quando Hitler rubò il coniglio rosa

Judith Kerr

L’autriceJudith Kerr è una scrittrice di origine tedesca, naturalizzata inglese. Nata aBerlino nel 1923, visse in Germania fino al 1933, quando in seguito all’ascesaal potere di Hitler la sua famiglia, di origine ebree, fu costretta a fuggire, sta-bilendosi infine in Inghilterra.È conosciuta per i suoi libri per bambini, alcuni dei quali illustrati da lei stes-sa, e per il romanzo autobiografico Quando Hitler rubò il coniglio rosa.

Il romanzoBerlino, 1933. Anna è una bambina felice: vive in una bella casa con i geni-tori e il fratello maggiore; va a scuola, ha molte amiche e adora disegnare.La vita, però, sta per cambiare: i suoi genitori sono ebrei, e per giunta il padreè un oppositore del nazismo. Quando Adolf Hitler prende il potere, non restache scappare, di notte, con il cuore in gola e con il timore di essere scoperti...quando finirà la fuga? Quando Anna potrà sentirsi di nuovo al sicuro?

Anna tornava da scuola e camminava verso casa con Elsbeth, unasua compagna di classe. Quell’inverno a Berlino era caduta un sacco dineve. Non si scioglieva e così gli spazzini l’avevano ammucchiata sulbordo della strada e lì era rimasta per settimane, triste e grigia. Ades-so, in febbraio, la neve si era trasformata in fanghiglia e c’erano poz-zanghere dappertutto. Anna ed Elsbeth le saltavano, con gli stivali benallacciati ai piedi.

Indossavano tutte e due cappotti pesanti e berretti di lana per tene-re calde le orecchie e Anna aveva anche una sciarpa. Aveva nove anni,ma era piccola per la sua età e le code della sciarpa le pendevano qua-si fino alle ginocchia. La sciarpa le copriva anche la bocca e il naso, ecosì le si vedevano soltanto gli occhi che erano verdi e una ciocca dicapelli neri. Camminava in fretta perché voleva comprare delle matitedal cartolaio ed era quasi l’ora di pranzo. Ma era senza fiato e fu con-tenta quando Elsbeth si fermò davanti a un grande manifesto rosso.«Un’altra foto di quell’uomo», commentò Elsbeth. «La mia sorellinane ha vista un’altra ieri e credeva che fosse Charlie Chaplin». Annaosservò gli occhi che la fissavano minacciosi. «Non assomiglia per nien-te a Charlie Chaplin, se non per i baffi», notò.

Lessero lentamente il nome sotto la foto. Adolf Hitler.«Vuole che tutti gli diano il voto alle elezioni e poi arresterà tutti gli

ebrei», aggiunse Elsbeth. «Credi che arresterà Rachel Lowenstein?»«Nessuno può arrestare Rachel Lowenstein», rispose Anna. «È capo

squadra. Forse arresterà me. Anch’io sono ebrea».

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«Ma va’!»«Sì, davvero! Mio padre ce lo diceva proprio la settimana scorsa. Ha

detto che noi siamo ebrei e, qualsiasi cosa succeda, non dobbiamo maidimenticarlo».

«Ma tu al sabato non vai in una chiesa speciale come Rachel Lowen-stein».

«Perché non siamo religiosi. Non andiamo per niente in chiesa».«Vorrei che neanche mio padre fosse religioso», sospirò Elsbeth.

«Dobbiamo andarci tutte le domeniche e mi vengono i crampi al sede-re».

Gettò un’occhiata curiosa ad Anna. «Mi pareva che gli ebrei aves-sero tutti il naso con la gobba, ma il tuo non ce l’ha. E tuo fratello cel’ha?»

«No», rispose Anna. «L’unica persona in casa nostra con una gob-ba sul naso è Bertha, la cameriera, ma se l’è fatta cadendo dal tram».

Elsbeth si spazientì. «Be’, se sei come tutti gli altri e non vai in unachiesa speciale, come fai a sapere che sei ebrea? Come fai a esserne sicu-ra?»

Ci fu una pausa.«Forse... forse perché mia madre e mio padre sono ebrei, e mi pare

che anche i loro genitori fossero ebrei. Io non ci avevo mai pensato finoalla settimana scorsa, quando il babbo ha cominciato a parlarne».

«Be’, è una stupidaggine!» esclamò Elsbeth. «Tutta questa storia diAdolf Hitler, degli ebrei e il resto!» E si mise a correre, seguita da Anna.

Non si fermarono, finché non arrivarono dal cartolaio. Qualcunostava parlando all’uomo dietro il bancone e Anna trasalì, riconoscendola vecchia signorina Lambeck, che abitava nei dintorni. La signorinaLambeck aveva proprio una faccia da pesce morto, mentre diceva: «Ah,che tempi terribili!» e scuoteva la testa, agitando all’impazzata gli orec-chini. Il cartolaio aggiunse: «Il 1931 è stato brutto, il 1932 ancor peg-gio, ma si ricordi quel che le dico, il 1933 sarà il peggiore di tutti». Poi,vedendo Anna ed Elsbeth, domandò: «Cosa volete, piccole?»

Anna stava rispondendo che voleva delle matite, quando la signori-na Lambeck la scorse.

«Ma è la piccola Anna!» gridò. «Come stai, carina? E come sta il tuocaro papà? Che uomo meraviglioso! Io leggo tutto quello che scrive. Hotutti i suoi libri e l’ascolto sempre quando parla alla radio. Ma questasettimana non ha scritto niente sul giornale... Spero stia bene. Forse èvia per qualche conferenza. Oh, abbiamo proprio bisogno di lui in que-sti tempi terribili, terribili!»

Anna aspettò che la signorina finisse e quindi rispose: «Ha l’in-fluenza».

La frase provocò una nuova esplosione. Pareva che qualche vicinoparente della Lambeck fosse sul letto di morte. La donna scuoteva con-tinuamente la testa, finché gli orecchini presero a tintinnare furiosa-mente. Suggeriva medicine, raccomandava dottori. Non si fermò fin- Q

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ché Anna non le promise di portare al babbo i migliori auguri per unapronta guarigione da parte sua.

Anzi, sulla soglia si fermò e voltandosi aggiunse: «Cara piccola, nondire “dalla signorina Lambeck”, di’ soltanto “da un’ammiratrice”», efinalmente scomparve.

Anna comprò in fretta le matite. Uscì e si fermò al freddo con Elsbeth,davanti alla vetrina del cartolaio. Era qui che di solito si separavano,ma Elsbeth indugiava. Da tempo voleva chiedere qualcosa ad Anna, equesto pareva il momento buono.

«È bello, Anna, avere un padre famoso?»«Non proprio, quando ti capita tra i piedi qualcuno tipo la Lam-

beck», rispose Anna distrattamente, incamminandosi verso casa, segui-ta da Elsbeth, anche lei assorta.

«Ma a parte la Lambeck?»«Direi di sì. Intanto il babbo lavora a casa, e così lo vediamo spesso.

E poi qualche volta abbiamo i biglietti del teatro in omaggio. E una vol-ta un giornale ci ha intervistato, e ci hanno chiesto che libri ci piaceva-no, e mio fratello ha detto Zane Grey e il giorno dopo ci è arrivata tut-ta la collana di libri in regalo!»

«Vorrei che anche mio padre fosse famoso! Ma non ci riuscirà mai,perché lavora in un ufficio postale, e con questo tipo di lavoro uno nondiventa mai famoso».

«Se non riesce tuo padre, puoi diventare famosa tu. Vedi, il bruttodi avere un padre famoso è che quasi mai diventi famoso tu stesso».

«E perché no?»«Non so. Ma difficilmente capita di sentire di due persone famose

nella stessa famiglia. E questo a volte mi rende triste», sospirò Anna.Intanto erano arrivate al cancello bianco della casa di Anna. Elsbeth

era tutta agitata all’idea di potere un giorno diventare famosa, per chis-sà quale misterioso motivo, quand’ecco che Heimpi, avendole viste dal-la finestra, aprì la porta d’ingresso.

«Accidenti, ho fatto tardi!» gridò Elsbeth e scappò via.«Tu e quell’Elsbeth», brontolò Heimpi, mentre Anna entrava in casa,

«voi due parlereste anche con la bocca cucita!»(J. Kerr, Quando Hitler rubò il coniglio rosa, trad. it. M. Buitoni Duca, Milano, RCS, 1981)

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Sotto il burqaDeborah Ellis

L’autriceDeborah Ellis, nata in Canada nel 1960, è scrittrice e assistente sociale. Halavorato in varie parti del mondo nell’ambito di progetti umanitari e da que-ste esperienze ha tratto materiali e ispirazioni per i suoi romanzi: CercandoX, Verso il paradiso e la trilogia del burqa: Sotto il burqa, Il viaggio di Parva-na e Città di fango.

Il romanzoLa protagonista di Sotto il burqa, Parvana, ha undici anni, e da quando è natail suo Paese, l’Afghanistan, è sempre stato in guerra. La sua famiglia, un tem-po benestante, non possiede più nulla: per sopravvivere, il padre va al mer-cato a leggere e a scrivere lettere. In sua compagnia c’è sempre Parvana, cheperò deve stare nascosta dietro al chador e non può assolutamente dire cheanche lei sa leggere, attività proibita alle donne dal regime talebano. Sem-bra che non possa andare peggio di così, e invece sì: quando il padre verràarrestato, Parvana comprenderà che solo lei può aiutare la madre e i suoi trefratelli e, con grande coraggio, si trasformerà in un’altra persona...Ecco come comincia il romanzo.

«Sono capace di leggere quella lettera come il Papà», sussurrò Par-vana tra le pieghe del chador1. «O almeno quasi».

Non osò pronunciare quelle parole ad alta voce. L’uomo seduto accan-to a suo padre non voleva certo sentirla parlare. E così nessun altro almercato di Kabul. Parvana si trovava lì solo per aiutare il Papà a cam-minare fino al mercato, e poi di nuovo a casa dopo il lavoro. Sedeva unpo’ indietro sulla coperta, il capo e gran parte del viso coperti dal cha-dor.

In realtà non avrebbe neppure dovuto essere lì. I talebani2 avevanoordinato a tutte le donne e le ragazze afghane di rimanere chiuse incasa. Avevano persino proibito alle ragazze di frequentare la scuola.Parvana era stata costretta a interrompere il suo sesto anno e a sua sorel-la Nooria non era permesso di frequentare le superiori. La loro mam-ma, redattrice in una radio di Kabul, era stata licenziata. Da più di unanno, ormai, vivevano barricate in una stanza, insieme con la sorellinaMaryam di cinque anni e il fratellino Ali di due.

Parvana usciva per qualche ora quasi tutti i giorni, per aiutare suopadre a camminare. Era sempre molto contenta di uscire, anche se que-sto significava restare seduta per ore su una coperta distesa a terra nelmercato. Se non altro era qualcosa da fare. Aveva perfino imparato arestare in silenzio e a nascondere il viso.

Era piccola per i suoi undici anni: per questo di solito riusciva adandare in giro senza essere fermata.

1. chador: indumento di ori-gine iraniana simile a unmantello o a un foulardsemicircolare che ricoprecapo e spalle lasciando sco-perto il viso.2. talebani: integralisti isla-mici che governarono l’Af-ghanistan dal 1996 al 2001;essi repressero ferocemen-te ogni opposizione e cau-sarono un pesante arretra-mento della condizionefemminile.

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«Questa ragazza mi aiuta a camminare», spiegava il Papà additan-do la propria gamba a chi chiedeva spiegazioni. Aveva perso la gambaquando la scuola superiore in cui insegnava era stata bombardata. Eforse aveva subito anche qualche altro danno non visibile: spesso eracosì stanco.

«Il mio unico figlio maschio ha solo due anni», aggiungeva. Parva-na si ritraeva un po’ più indietro sulla coperta e cercava di farsi picco-la piccola. Aveva paura di guardare i soldati. Aveva visto cosa faceva-no, soprattutto alle donne, come frustavano e picchiavano chiunquesecondo loro meritasse una punizione.

Aveva visto molte cose, stando seduta al mercato, giorno dopo giorno.Quando i talebani erano nelle vicinanze, avrebbe voluto essere invisibile.

Un cliente stava chiedendo a suo padre di rileggere una lettera. «Leg-gila piano, così riesco a ricordarmela e a raccontarla alla famiglia».

A Parvana sarebbe piaciuto ricevere una lettera. Il servizio postalein Afghanistan era ripreso solo di recente, dopo anni di interruzione acausa della guerra. Molti dei suoi amici avevano lasciato il paese con leloro famiglie. Probabilmente erano in Pakistan, ma non ne era sicura equindi non poteva scrivergli. Anche la sua famiglia aveva traslocato cosìspesso a causa dei bombardamenti che i suoi amici non sapevano piùdove viveva. «Gli afghani sono sparpagliati sulla Terra come le stellenel cielo», diceva spesso il Papà.

Suo padre finì di leggere la lettera per la seconda volta. Il cliente loringraziò e pagò. «Ti cercherò quando dovrò rispondere».

La maggior parte della popolazione in Afghanistan non sapeva leg-gere né scrivere. Parvana era una delle poche fortunate. Entrambi i suoigenitori erano stati all’università, e credevano che tutti, comprese ledonne, avessero diritto a ricevere un’istruzione.

Nel viavai dei clienti, il pomeriggio passò lentamente. La maggiorparte di loro parlava Dari, la lingua che Parvana conosceva meglio.Quando un cliente parlava Pashtu, lei riusciva a capire la maggior par-te delle parole, ma non tutto. I suoi genitori sapevano anche l’inglese.Suo padre aveva frequentato l’università in Inghilterra, ma era statotanto tempo fa.

Il mercato era un luogo molto movimentato. Gli uomini facevano laspesa per le loro famiglie e i venditori ambulanti vendevano per la stra-da quello che potevano offrire. Alcuni, come il negozio del tè, avevanouna propria bancarella. Con il suo grande samovar3 e molti vassoi col-mi di tazze, doveva stare in un posto fisso. I ragazzi correvano avanti eindietro per il labirinto del mercato, portando il tè ai clienti che nonpotevano lasciare i loro negozi, e riportando indietro le tazze vuote.

«Potrei farlo anch’io», disse Parvana a bassa voce. Avrebbe volutocorrere per il mercato e conoscere le sue stradine tortuose come le quat-tro pareti di casa sua.

Suo padre si voltò a guardarla. «Preferirei vederti correre nel cortile diuna scuola». Poi si voltò di nuovo per chiamare gli uomini che passavano

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3. samovar: recipiente diorigine russa per far bollirel’acqua per il tè.

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di lì. «Qui si legge e si scrive! Pashtu e Dari! Bellissimi articoli in vendita!»Parvana s’incupì. Non era colpa sua se non poteva andare a scuola!

Avrebbe preferito essere là invece che stare seduta su questa scomodacoperta, con la schiena che le faceva male. Le mancavano i suoi amici,la sua divisa bianca e blu, fare nuove cose ogni giorno.

Storia era la sua materia preferita, soprattutto la storia afghana. Tuttierano venuti in Afghanistan. I Persiani c’erano arrivati quattromila annifa. Era arrivato anche Alessandro Magno, seguito dai Greci, dagli Arabi,dai Turchi, dagli Inglesi e alla fine dai Sovietici. Un conquistatore, Tamer-lano da Samarcanda, aveva decapitato i suoi nemici e impalato le loroteste una sopra l’altra, come meloni su una bancarella di frutta. Tutti que-sti popoli erano arrivati nel bellissimo paese di Parvana con l’intento diconquistarlo, ma gli Afghani erano sempre riusciti a scacciarli.

Adesso però il Paese era governato dai soldati talebani. Erano afgha-ni e avevano idee molto rigide su come le cose dovevano essere gestite.Quando per la prima volta occuparono la capitale Kabul e proibironoalle ragazze di frequentare la scuola, Parvana non ne fu particolarmentedispiaciuta. Aveva un compito di matematica che si avvicinava e per ilquale non si era preparata, ed era finita nei guai per aver di nuovo chiac-chierato durante la lezione. L’insegnante stava per darle una nota quan-do i talebani avevano preso il comando.

«Perché piangi?» aveva chiesto a Nooria, che non la smetteva di sin-ghiozzare. «Per me una vacanza è proprio quello che ci vuole». Parva-na era sicura che i talebani avrebbero dato a tutti il permesso di torna-re a scuola nel giro di qualche giorno; e allora il suo insegnante si sarebbedimenticato di mandare quella nota a sua madre.

«Sei solo una stupida!» aveva urlato Nooria. «Lasciami in pace!»Quando un’intera famiglia vive in una sola stanza, è davvero impos-

sibile lasciare in pace gli altri. Dovunque andasse Nooria, c’era Parva-na. E dovunque andasse Parvana, c’era Nooria.

Entrambi i genitori di Parvana venivano da antiche e rispettabilifamiglie afghane. Grazie all’istruzione che avevano ricevuto, erano sta-ti in grado di guadagnare ottimi stipendi. Avevano abitato in una gran-de casa con il cortile, e avevano due domestici, la televisione, il frigori-fero e l’automobile. Nooria aveva una camera tutta per sé e Parvanadivideva la sua con Maryam, la sorellina piccola. Maryam parlava sem-pre tanto, ma adorava Parvana. Era stato certo piacevole poter sfuggi-re a Nooria qualche volta.

La loro casa era stata distrutta da una bomba. Da allora avevano tra-slocato diverse volte. Ogni volta in un posto sempre più piccolo. Duran-te ogni bombardamento perdevano un po’ delle loro cose. A ogni bom-ba diventavano più poveri. Ora vivevano tutti insieme in una piccolastanza.

Da più di vent’anni ormai, il doppio dell’età di Parvana, in Afgha-nistan c’era sempre stata una guerra.

(D. Ellis, Sotto il burqa, trad. it. C. Manzolelli, Milano, RCS, 2003) Qu

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Il piccolo principeAntoine de Saint-Exupéry

L’autoreLo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry (1900-44) fu anche pilotain una linea commerciale; a questa esperienza si ispirarono i suoi primi libri,Corriere del Sud e Volo di notte. Nel 1939 si arruolò nell’aeronautica milita-re francese, in una squadriglia di ricognizione aerea, e scrisse Pilota di guer-ra. In piena seconda guerra mondiale, nel 1943, furono gli americani a pub-blicare, per primi e in inglese, Il piccolo principe, romanzo in forma di fiabache ebbe un successo internazionale.Saint-Exupéry morì nel cielo della Corsica, quando il suo aereo fu abbattutodalla Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca. Per molti anni, però, la sua mor-te rimase misteriosa, alimentando leggende su una scomparsa che sembra-va presentare singolari coincidenze con le avventure narrate nel Piccolo prin-cipe. Solo di recente il ritrovamento dei resti dell’aereo guidato da Saint-Exupéryha permesso di ricostruire la dinamica dell’incidente e della morte.

Il romanzoIl piccolo principe è un vero caso letterario: è stato infatti tradotto in 180 lin-gue e ha venduto 50 milioni di copie in tutto il mondo. In breve, si tratta diuno dei libri più letti e amati del XX secolo. È una fiaba moderna, che con tonidelicatamente umoristici affronta temi importanti come l’amicizia e il sensodella vita. Racconta la storia di un aviatore che, in seguito a un incidente, ècostretto a un atterraggio di fortuna nel deserto del Sahara, dove incontrauno strano personaggio, un piccolo principe originario dell’asteroide B612 desi-deroso di raccontare ciò che ha visto e scoperto visitando dapprima altri aste-roidi, e infine la terra.Il romanzo comincia così.

Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foresteprimordiali, intitolato Storie vissute della natura, vidi un magnifico disegno.Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. Ecco-vi la copia del disegno. C’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tut-ta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi edormono durante i sei mesi che la digestione richiede”.

Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii atracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno. Era così:

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se ildisegno li spaventava. Ma mi risposero: «Spaventare? Perché mai unodovrebbe essere spaventato da un cappello?» Il mio disegno non era il

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disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un ele-fante. Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’internodel boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Il mio disegnonumero due si presentava così:

Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori chedi dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all’aritmeti-ca e alla grammatica. Fu così che a sei anni io rinunziai a quella cheavrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimentodel mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi avevadisanimato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini sistancano a spiegargli tutto ogni volta. Allora scelsi un’altra professionee imparai a pilotare gli aeroplani. Ho volato un po’ sopra tutto il mon-do: e veramente la geografia mi è stata molto utile. A colpo d’occhioposso distinguere la Cina dall’Arizona, e se uno si perde nella notte,questa sapienza è di grande aiuto.

Ho incontrato molte persone importanti nella mia vita, ho vissuto alungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osserva-ti proprio da vicino. Ma l’opinione che avevo di loro non è molto miglio-rata.

Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, ten-tavo l’esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre con-servato. Cercavo di capire così se era veramente una persona com-prensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: «È uncappello».

E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbas-savo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte.E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

(A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, trad. it. N. Bompiani Bregoli, Milano, RCS, 1994)

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