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Civiltà e letteratura latina medievale Prof. Gian Carlo Alessio III. La cultura nell’età delle cattedrali (secc. XI-XII) III.1 Il contesto storico Simbolicamente, la data dell'anno mille viene utilizzata per indicare il passaggio dall'«alto» al «basso» medioevo, prendendo a pretesto la fine della millenaristica che aveva attanagliato l'Occidente col timore della fine del mondo allo scadere della fatidica data. Ma, da un punto di vista storiografico, i secoli XI e XII rappresentano un periodo di cambiamento radicale nella storia delle istituzioni europee. Il secolo XI è quello in cui l’azione solidale delle due potenze universali, il papato e l’impero, legati da strettissimi rapporti nel IX e X secolo, venne progressivamente meno, sino a trasformarsi in uno scontro frontale, la cosiddetta ‘lotta delle investiture’, di cui furono protagonisti Ildebrando da Soana, divenuto papa col nome di Gregorio VII ed Enrico IV divenuto imperatore nel 1056. A rappresentare nell’XI secolo il fulcro della «svolta» è l'Italia centro-settentrionale: in essa si crea l'humus in cui si sviluppano quelle trasformazioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano poi il «nuovo» secolo XII in tutt'Europa; l'Italia del nord rappresenta il teatro più direttamente - e più precocemente - interessato dalle varie fenomenologie socioculturali (ma anche politiche) che vanno, nel complesso, sotto il nome di riforma gregoriana. In Francia dei primissimi decenni del secolo si accentua sempre più una crisi per il potere regio e l'autonomia dei principi territoriali, e la nascita, soprattutto nel sud del Paese, di una società curtense che avrà influenze enormi nello sviluppo culturale e religioso dell'Europa medievale (cultura trobadorica, movimenti ereticali, ecc.). Anche la Germania vive un momento decisivo nel secolo XI: al tempo di Enrico II essa raggiunge una vera e propria autocoscienza di «popolo» tedesco, avente la sua specifica espressione politica nel regno di Germania. La ‘lotta per le investiture’ ebbe dunque come argomento del contendere l’ingerenza imperiale in questioni di stretta pertinenza della Chiesa, come l’investitura laicale di vescovi ed abati che rafforzava il potere dell’imperatore consentendogli di disporre di chiese ed abbazie ma indeboliva, allo steso tempo, quello della Chiesa, per il diffondersi della simonia e del concubinato. È questo il quadro all'interno del quale si sviluppa il movimento che nel suo complesso va sotto il nome di riforma gregoriana: che interessa tutti gli aspetti della vita religiosa e consiste in una rifondazione dei costumi del clero, in una riorganizzazione istituzionale della Chiesa, puntando su una strutturazione territoriale, gerarchizzata, burocratizzata, analogamente a quanto avveniva nel quadro delle istituzioni civili. In quest'ottica viene delineandosi con sempre maggior forza l'idea del primato papale e della libertas Ecclesiae, uno dei punti nodali della storia socio-politica non solo dell'XI secolo ma di tutto il basso medioevo. La conclusione della lotta, dopoché l’imperatore Enrico IV venne scomunicato dal papa e, conseguentemente, sospeso dal potere ad opera dei principi sassoni che si ribellarono a lui, avvenne a Canossa nel 1077, anche se la lotta proseguì poi sino agli inizi del XII secolo e si risolse definitivamente col concordato di Worms del 1122. Elemento di estrema importanza fu, a seguito della fine della lotta per le investiture, il risveglio del senso religioso. Che corrispondeva ad una aspirazione profonda del popolo cristiano e contribuì a promuovere una cristianizzazione più completa dei costumi e delle mentalità. Gli obiettivi di riforma della vita e della organizzazione ecclsiastica vengono perseguiti da tutte le componenti a societas christiana: da un rinvigorito monachesimo ‘riformato’ , che porta avanti le iniziative di Cluny; da pressioni del cosiddetto riformismo imperiale, volto soprattutto a svincolare la sede romana dalla stretta soffocante e avvilente delle fazioni aristocratiche romane; da un movimento eremitico di vasta risonanza popolare; da un movimento canonicale, che propugna un'aderenza più stretta agli ideali evangelici; dalla stessa società laica, in più zone e momenti impegnata a premere in vari modi (talvolta anche violenti) sulle istituzioni ecclesiastiche, per una loro riforma.

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Civiltà e letteratura latina medievale Prof. Gian Carlo Alessio III. La cultura nell’età delle cattedrali (secc. XI-XII) III.1 Il contesto storico Simbolicamente, la data dell'anno mille viene utilizzata per indicare il passaggio dall'«alto» al «basso» medioevo, prendendo a pretesto la fine della millenaristica che aveva attanagliato l'Occidente col timore della fine del mondo allo scadere della fatidica data. Ma, da un punto di vista storiografico, i secoli XI e XII rappresentano un periodo di cambiamento radicale nella storia delle istituzioni europee. Il secolo XI è quello in cui l’azione solidale delle due potenze universali, il papato e l’impero, legati da strettissimi rapporti nel IX e X secolo, venne progressivamente meno, sino a trasformarsi in uno scontro frontale, la cosiddetta ‘lotta delle investiture’, di cui furono protagonisti Ildebrando da Soana, divenuto papa col nome di Gregorio VII ed Enrico IV divenuto imperatore nel 1056. A rappresentare nell’XI secolo il fulcro della «svolta» è l'Italia centro-settentrionale: in essa si crea l'humus in cui si sviluppano quelle trasformazioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano poi il «nuovo» secolo XII in tutt'Europa; l'Italia del nord rappresenta il teatro più direttamente - e più precocemente - interessato dalle varie fenomenologie socioculturali (ma anche politiche) che vanno, nel complesso, sotto il nome di riforma gregoriana. In Francia dei primissimi decenni del secolo si accentua sempre più una crisi per il potere regio e l'autonomia dei principi territoriali, e la nascita, soprattutto nel sud del Paese, di una società curtense che avrà influenze enormi nello sviluppo culturale e religioso dell'Europa medievale (cultura trobadorica, movimenti ereticali, ecc.). Anche la Germania vive un momento decisivo nel secolo XI: al tempo di Enrico II essa raggiunge una vera e propria autocoscienza di «popolo» tedesco, avente la sua specifica espressione politica nel regno di Germania. La ‘lotta per le investiture’ ebbe dunque come argomento del contendere l’ingerenza imperiale in questioni di stretta pertinenza della Chiesa, come l’investitura laicale di vescovi ed abati che rafforzava il potere dell’imperatore consentendogli di disporre di chiese ed abbazie ma indeboliva, allo steso tempo, quello della Chiesa, per il diffondersi della simonia e del concubinato. È questo il quadro all'interno del quale si sviluppa il movimento che nel suo complesso va sotto il nome di riforma gregoriana: che interessa tutti gli aspetti della vita religiosa e consiste in una rifondazione dei costumi del clero, in una riorganizzazione istituzionale della Chiesa, puntando su una strutturazione territoriale, gerarchizzata, burocratizzata, analogamente a quanto avveniva nel quadro delle istituzioni civili. In quest'ottica viene delineandosi con sempre maggior forza l'idea del primato papale e della libertas Ecclesiae, uno dei punti nodali della storia socio-politica non solo dell'XI secolo ma di tutto il basso medioevo. La conclusione della lotta, dopoché l’imperatore Enrico IV venne scomunicato dal papa e, conseguentemente, sospeso dal potere ad opera dei principi sassoni che si ribellarono a lui, avvenne a Canossa nel 1077, anche se la lotta proseguì poi sino agli inizi del XII secolo e si risolse definitivamente col concordato di Worms del 1122. Elemento di estrema importanza fu, a seguito della fine della lotta per le investiture, il risveglio del senso religioso. Che corrispondeva ad una aspirazione profonda del popolo cristiano e contribuì a promuovere una cristianizzazione più completa dei costumi e delle mentalità. Gli obiettivi di riforma della vita e della organizzazione ecclsiastica vengono perseguiti da tutte le componenti a societas christiana: da un rinvigorito monachesimo ‘riformato’ , che porta avanti le iniziative di Cluny; da pressioni del cosiddetto riformismo imperiale, volto soprattutto a svincolare la sede romana dalla stretta soffocante e avvilente delle fazioni aristocratiche romane; da un movimento eremitico di vasta risonanza popolare; da un movimento canonicale, che propugna un'aderenza più stretta agli ideali evangelici; dalla stessa società laica, in più zone e momenti impegnata a premere in vari modi (talvolta anche violenti) sulle istituzioni ecclesiastiche, per una loro riforma.

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Anche sotto il profilo più strettamente politico i secoli XI e XII vedono cambiamenti notevoli. Sul trono imperiale, alla dinastia degli Ottoni, spentasi nel 1002 con la morte di Ottone III, succede prima quella di Franconia, poi quella sveva. Il secolo XI è speso dagli imperatori franconi nel duello mortale con la Chiesa riformatrice, trova alleati decisivi in Matilde di Canossa, (miniatura raffigurante Matilde di Canossa che riceve la supplica di Enrico IV http://www.giovannipasetti.it/scrigno/matilde.jpg) marchesa di Toscana. Enrico IV si scontra duramente con Gregorio VII, ma il suo successore, Enrico V, giunge a compromesso con Callisto II sulla questione delle investiture vescovi: 1122, concordato di Worms, che sancisce una sorta di “pareggio” tra i due contendenti. Nel corso del secolo XII si acuisce politica ghibellina degli imperatori tedeschi ma il Papato trova un nuovo, potente alleato: i Comuni dell'Italia del nord, che, uniti in una lega, infliggono una pesante sconfitta militare a Federico I di Hohenstaufen (il Barbarossa) a Legnano, nel 1176, vedendo quindi riconosciuta gran parte dei loro diritti nella pace di Costanza (1183). In Italia meridionale, Ruggero il d'Altavilla unifica i preesistenti Stati normanni e fonda, nel 1130, il regno di Sicilia, che, sul finire del secolo, verrà conquistato dal figlio del Barbarossa, Federico II, marito di una figlia di Ruggero II, Costanza. Il regno di Francia va assestandosi e centralizzandosi, ma è con un processo lungo e lento, che troverà realizzazione solo alla fine del XIII secolo. L'XI e il XII secolo, invece, vedono ancora il sovrano debole di fronte a una grande feudalità potentissima e praticamente autonoma. Il ducato di Normandia, per parte sua, organizza con Guglielmo il Conquistatore la conquista dell'Inghilterra, strappata ai Sassoni (battaglia di Hastings, 1066). Nella penisola iberica, i regni cristiani del nord (Castiglia, Aragona, Navarra) cominciano un lento e faticoso processo di riconquista del territorio, strappandolo agli Arabi; anche questo fenomeno è comunque lentissimo, e si concluderà solo alla fine del XV secolo, sotto il regno di Ferdinando e Isabella. L’espansione verso est e verso sud della cristianità trova un momento di enorme portata nel fenomeno che va sotto il nome di crociate, cioè delle spedizioni miliari che, partendo dall’Occidente, erano dirette a contrastare il potere musulmano e a liberare i luoghi santi. (la prima fu bandita agli estremi del secolo XI, nel 1096 da papa Urbano II). Queste portano, politicamente, a una riconquista, sia pure effimera, di Gerusalemme e alla creazione di una serie di “Stati latini” nel Vicino Oriente (regno di Gerusalemme, contea di Edessa, contea di Tripoli, principato d'Antiochia); la IV crociata, 1204, conquistato l'impero bizantino, crea, fino al 1261, l'Impero Latino d'Oriente, che verrà definitivamente cancellato solo alla fine del secolo XIII (1291). Dal punto di vista demografico e climatico, coll’XI secolo s’inizia un’accelerazione di numerosi processi socioeconomici, che continueranno e si svilupperanno pienamente nel XII secolo. La società diviene complessivamente più ricca: si riducono le immense distese boschive, si prosciugano le paludi per farne terra coltivabile e v’era dovunque di che nutrire uomini più numerosi. I benefici si estendono non solo a quelli che per primi ne poterono godere, cioè l’aristocrazia terriera; la possibilità di arricchimento si ampliò sin a raggiungere, sebbene in misura più ridotta, anche i contadini e, soprattutto, gli artigiani e i mercanti. Il XII secolo fa registrare anche una maggiore mobilità sociale, soprattutto con una rapida comparsa di fortune urbane e, parimenti, una mobilità geografica, che messa in moto dall’anno 1000, era divenuta imponente: gli scambi diventano il motore dell’economia e, conseguentemente, anche degli uomini e delle notizie: essa, nelle grandi linee, s’è detto, si dirige verso il nord (Paesi scandinavi), verso est (Paesi baltici, Ungheria, ecc.) e, soprattutto, verso sud (Spagna, Sicilia), creando dunque nuovi e molteplici punti di contatto (che saranno anche punti di contatto culturale) tra l’Occidente di cultura latina e l’Oriente di cultura Bizantina (anche se in seguito allo scisma d'Occidente (1054), la Chiesa greca (e per conseguenza tutta quella «orientale») esce definitivamente dalla sfera d'influenza di Roma) o araba Un analogo processo evolutivo conduce al passaggio graduale dell'artigianato dallo stadio curtense a quello urbano: sono le premesse per la nascita del Comune cittadino: che s’afferma nell’Italia settentrionale e centrale. Esso, attraverso lo spirito di indipendenza manifestato dall’autogoverno cittadino, contribuì a minare il potere imperiale a sfaldare il mondo feudale. Sul piano culturale, i due secoli danno vita a quel fenomeno che, accogliendone il momento di maggiore sviluppo e piena maturazione, siamo soliti chiamare «rinascita del XII secolo». Conseguenza dello sviluppo economico e sociale su, a partire dal tardo XI secolo, sino agli inizi del XIII, fu quella di innescare, come vedremo, in tutti i campi intellettuali e creativi uno sviluppo senza

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precedenti, che si estende all’intera Europa ma ha il suo centro di elaborazione culturale in Francia. Di questo variegato e vastissimo scenario di cultura potremo ricordare, per la straordinaria importanza che ebbero sulle successive vicende dell’Europa medievale e moderna, sia l’opera dei traduttori, che inseriscono nell’Occidente latino, tutta il corpus delle opere aristoteliche, sia l’attività dei maestri, per cui nel XII secolo può parlarsi di una vera e propria rivoluzione della scuola, che diviene urbana e caccia nell’oscurità le scuole monastiche che sino a quel momento avevano avuto l’indiscusso predominio nella formazione culturale dell’individuo. Si aggiunga l'intera parabola del romanico e l'inizio del gotico, il fiorire delle letterature nelle lingue nazionali, dinanzi all’assoluta precedente egemonia della lingua latina. Il secolo XII s'apre con la fiorente stagione delle scuole annesse alle cattedrali e si chiude con le prime e già famose università di Salerno, Bologna, Parigi, Montpellier e Oxford: attraverso le quali il pieno possesso del diritto romano e canonico, lo studio di Aristotele, di Euclide e di Tolomeo, la scoperta della medicina greca ed araba, rendono possibile la nascita di una nuova filosofia e di una nuova scienza Sul XII secolo: (alcune righe da C.H. HASKINS, La rinascita del XII secolo) … Si vanno riscoprendo i classici latini, la prosa e la poesia latine sono rinnovate nello stile nutrito di classici e nei nuovi ritmi goliardici, ha vita il dramma liturgico. Il nuovo fervore storiografico è indice della varietà d'interessi e dell'apertura mentale di un'età nuova e ricca di fermenti: biografie, memorie, annali di corte, la storia in volgare e la cronaca cittadina. Ancora nel 1100 una biblioteca poteva essere dotata della Bibbia e di pochi testi dei Padri della Chiesa, di qualche libro di servizio divino e di molte vite dei santi, delle opere di Boezio (immancabili testi di studio), di qualche frammento di storia locale e forse di qualche classico latino ma coperto di uno spesso strato di polvere. Nel 1200 circa, o pochi anni più tardi, possiamo già aspettarci di trovare non solo più copie delle stesse opere, qualitativamente migliori ma anche il Corpus iuris civilis e i classici in parte sottratti all'oblio, le raccolte di diritto canonico di Graziano e degli ultimi papi, la teologia di Pietro Lombardo► e d'altri, primi documenti della scolastica, le opere di san Bernardo► e di altri grandi protagonisti del mondo monastico, opere di storia, di poesia, epistolari, la filosofia, le scienze matematiche e l'astronomia, sconosciute alla prima tradizione medievale e assorbite nel corso del secolo XII dal mondo greco e da quello arabo. Per non parlare della grande produzione epica francese e del fior fiore della lirica provenzale, delle prime opere in medio alto tedesco. E poi l'arte romanica, che ha già toccato e superato il culmine della sua fioritura, mentre il nuovo stile gotico dà prova di essersi solidamente affermato a Parigi, a Chartres e in alcuni centri minori dell'Ile de France. È difficile stabilire dei limiti cronologici. I secoli non sono che delle convenzioni cui non si deve permettere di ostacolare o di deformare il pensiero storico: la storia non è più storia, se noi la riduciamo a segmenti uguali di cento anni ciascuno. Sono del tardo secolo XI i primi segni di una nuova vita politica, economica, religiosa, ma è poi pressoché impossibile stabilire delle date precise. Ancor meno definita è l'ultima fase del periodo. La vita intellettuale infatti, una volta rianimata, non subì rallentamenti o deviazioni: il Trecento nasce dal Duecento, come il Duecento deriva dal Millecento, come, ancora, non esiste soluzione di continuità tra la rinascita medievale e il Quattrocento. Possiamo dire soltanto che, sul finire del secolo, la caduta dell'impero

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bizantino, l'irrompere del nuovo aristotelismo, il prevalere della logica sulle arti liberali, il venir meno del momento creativo della produzione poetica latina e del francese segnano un punto di svolta che non possiamo trascurare, mentre nelle due generazioni successive la nuova scienza e la nuova filosofia riceveranno la sistemazione di Alberto Magno► e di Tommaso d’Aquino►. Con il Duecento, la rinascita medievale è già avanzata, e, a partire dalla seconda metà dello stesso secolo, la sua parabola può dirsi compiuta. Quando diciamo «rinascita del XII secolo», la parola «secolo» deve essere intesa in senso lato: essa comprende non soltanto il XII secolo propriamente detto, ma anche gli anni che lo precedono e lo seguono immediatamente, con un'insistenza maggiore, però, sul periodo di mezzo, come quello che assomma in sé tutte le caratteristiche di questa civiltà. Ma i primi indizi del rinnovamento sono, come abbiamo già detto, nel cinquantennio che lo precedette e le ultime appendici si spingono quasi altrettanto nel secolo successivo. Inoltre, le varie fasi del movimento non sono esattamente sincrone. Certamente, lo studio dei classici latini comincia nell'XI secolo e tende ad esaurirsi prima della fine del XII secolo. La nuova scienza, per converso, non inizia prima del secondo quarto del secolo XII, e, una volta iniziata, confluisce nel XIII con una ininterrotta continuità, almeno fino a quando non ha completamente assorbito i dati della cultura greca ed araba. Gli studi filosofici, iniziati nel XII secolo, toccano il culmine nel XIII. A questo proposito quindi, come sempre nella storia, non è possibile indicare una data unica, capace di assommare in sé tutte le diverse direzioni in cui un movimento storico si è andato configurando nella sua evoluzione. Quello che contraddistingue la rinascita del XII secolo è che questa, a differenza della carolingia, non fu accentrata intorno a una corte o a un asse dinastico, e, a differenza del rinascimento italiano, gli inizi non furono fenomeno esclusivo di un paese. Se l'Italia vi ebbe parte fu per lo studio del diritto romano e del diritto canonico e per le traduzioni dal greco: non fu però una parte determinante, tranne appunto nel campo giuridico. La Francia fu nel complesso la massima protagonista della rinascita del XII secolo, con i suoi monaci e i suoi filosofi, con le scuole delle sue cattedrali che possono essere considerate l'immediato precedente delle strutture autonome dell'Università di Parigi, con i suoi rimatori goliardici e in volgare, con il suo assoluto primato nell'arte gotica. L'Inghilterra e la Germania vi hanno pure una parte notevole, se pure più in virtù della diffusione della cultura francese ed italiana, che non per un moto proprio, anzi questo periodo è per la Germania sotto molti aspetti un periodo di decadenza, specialmente a mano a mano che ci avviciniamo al XIII secolo; in Inghilterra poi, il rinnovamento si attua solo in virtù del suo stretto rapporto con la Francia, tanto per la cultura classica quanto per quella volgare. Il ruolo della Spagna fu soprattutto quello di intermediaria con il mondo arabo. Un altro aspetto notevole del XII secolo è la sopravvivenza nella cultura italiana di una cultura laica. E da questa classe di laici sarebbero germogliate le nuove professioni laiche della medicina e del diritto, che per la prima volta, in Italia appunto, acquistavano prestigio e una chiara determinazione sociale. Particolarmente importante il gruppo dei notai, che si trasmettevano di padre in figlio un tipo di ufficio che aveva contribuito a mantenere in vita, salvandolo dall'oblio dei secoli oscuri: l'istituto romano dei tabelliones. Ci resta ancora da considerare un aspetto caratteristico degli interessi culturali del secolo: lo sviluppo delle biblioteche e la ricerca appassionata dei codici

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antichi. Già il X era stato un secolo straordinariamente attivo in questo campo, come possiamo vedere dai numerosi cataloghi di manoscritti di quest'epoca conservati in più d'una biblioteca europea e soprattutto dagli importanti codici dei classici latini. L'XI secolo continuò, estendendola, l'opera iniziata. Nell'anno mille circa, Ottone III raccolse in Italia copie di Orosio, Persio, Livio, Fulgenzio, Isidoro e Boezio. Il suo successore Enrico II portò con sé alla cattedrale di Bamberga altri manoscritti. I vescovi Bernward (993-1022) e Gottardo (1022-38) collezionarono classici per la cattedrale di Hildesheim, lo stesso fece l'abate Fromundo per Tegernsee. A Montecassino, grazie all’iniziativa dell’abate Desiderio (ILL.59: l’abate Desiderio dona un codice a s. Benedetto) furono copiati moltissimi codici, come possiamo constatare dai cataloghi che ci sono rimasti. La grande biblioteca di Fleury fu completata nell'XI secolo. … III.2 I centri della rinascita culturale III.2.1 Il monastero, la cattedrale, la corte Caratteristica comune a tutto il medioevo, almeno dopo l’inizio del IX secolo, era che, restando pochi e per lo più ecclesiastici coloro che sapevano leggere, gli uomini istruiti costituivano in genere dei gruppi ben distinti dalle masse rurali, illetterate. Tuttavia, soprattutto nel mondo ecclesiastico, la comunicazione era necessaria e sviluppata; cosicché si assiste al fenomeno di un provincialismo estremo in alcune zone e di una aperta, comune civiltà europea in altre. Lo scambio culturale quindi esisteva più tra centri intellettuali affini per sistema di vita, anche se lontanissimi, che non tra centri dissimili della stessa regione. Quanto ai centri che s’erano affermati nel secoli precedenti, i monasteri benedettini, il XII secolo è infatti per essi un secolo di notevole declino. Solo nella prima metà del secolo troviamo dei centri benedettini di un certo rilievo culturale. Il più antico, Montecassino, ebbe il suo periodo più fiorente nell'XI secolo e nei primi decenni del XII. Casa madre di quella particolare scrittura beneventana (Ill. 60) che fu tipica dell'Italia meridionale, Montecassino creò una grande biblioteca di manoscritti, di cui il cronista cita con orgoglio ben settanta titoli. Nell'elenco occupano un posto preminente le opere teologiche e liturgiche ma vi compaiono parecchie storie ed anche molti classici: il De natura deorum di Cicerone, le Institutiones e le Novelle di Giustiniano, i Fasti di Ovidio, le Ecloghe di Virgilio, Terenzio, Orazio, Seneca, le opere di grammatica di Teodoro e Donato. Molti di questi codici sono giunti sino a noi e senza l'opera dei monaci benedettini la storia della cultura avrebbe perduto molti testi classici, insieme a molti altri testi e a varie storie locali del medioevo. Nelle regioni d'Oltralpe il più famoso centro di cultura del tardo sec. XI fu il monastero di Bec. Fondato nel 1034, dovette il suo prestigio a Lanfranco di Pavia, che vi entrò nel 1042 diventandone nel giro di poco tempo abate, e al successore di lui Anselmo, abate dal 1079 al 1092. Già ai primi del XII secolo la scuola di Bec è famosa in Europa. Gli immediati successori di Anselmo, benché dotati di una personalità molto meno spiccata, tennero fede alla tradizione, tanto che Orderico Vitale poteva scrivere che al suo tempo «non v'era monaco di Bec che non sembrasse un filosofo, e anche i meno istruiti avevano qualcosa da insegnare ai verbosi grammatici». Agli inizi del XII secolo Bec contava ormai di una biblioteca di 164 volumi, cui si aggiunsero i

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130 donati dal vescovo di Bayeux nel 11645. Tuttavia già nella seconda metà del secolo il prestigio culturale di Bec è decaduto. In Inghilterra nessuna abbazia inglese si distinse in modo particolare. La conquista normanna fu seguita da una ondata di riforme religiose ma l'attività letteraria dei Benedettini inglesi del XII secolo è deludente, se si fa eccezione per la storiografia. La ripresa intellettuale tende inoltre ad affievolirsi a mano a mano che entriamo nel secolo: la stessa grande produzione storiografica del regno di Enrico II fu più connessa con la corte e con le cattedrali che con i monasteri. Anche in Germania questo periodo fu caratterizzato dalla decadenza dei monasteri. Antiche abbazie di fondazione imperiale come quelle di Fulda, di Corvey, di Lorsch, erano ormai in uno stato di disfacimento quasi totale. Diverso discorso va invece fatto per le fondazioni cluniacensi. Case dell’ordine di Cluny sorsero rapidamente lungo le strade di pellegrinaggio che conducevano in Spagna e si diffusero poi nella penisola di pari passo con la Riconquista, tanto che l'Ordine giunse ad aprire ben ventisei case riformate oltre i Pirenei, alcune delle quali influirono sensibilmente sulla ripresa della cultura spagnola. Nelle fondazioni cluniacensi, tuttavia, mentre da un lato l'attività degli amanuensi era fortemente caldeggiata, dall'altra non si vedeva di buon occhio la cultura classica. Quando un monaco desiderava leggere durante le ore del silenzio, faceva segno di voltare le pagine, ma se desiderava un libro classico si grattava dietro un orecchio come i cani. I classici tuttavia erano letti, specialmente Virgilio, Orazio e persino Ovidio e Marziale; anzi, tra i 570 volumi del catalogo di Cluny del XII secolo figurano molti autori classici. Tuttavoa, quest’Ordine ebbe poche scuole famose e gli scrittori furono dediti ad argomenti devozionali e a biografie ecclesiastiche. La storia ad esempio era generalmente trascurata. Il secolo XII e gli anni immediatamente precedenti furono invece fruttuosi per gli ordini di nuova fondazione: Certosini, Premonstratensi, i canonici gli ordini di Grammont, o di Camaldoli. Ma essi si proponevano l'ascesi spirituale, più che il progresso intellettuale, e l'influsso che esercitarono fu quindi più nell'impulso dato alla osservanza dei principi ascetici, che al progresso della cultura. Il migliore esempio di questa tendenza ascetica è dato dai Cistercensi e dal loro grande capo spirituale san Bernardo; la loro popolarità è dimostrata dalla diffusione dell'Ordine. I Cistercensi cercarono di ripristinare la regola di san Benedetto nella sua forma più austera. II lavoro di copiatura dei codici era ammesso ma le miniature e le decorazioni erano vietate, giacché il solo scopo era principalmente quello di fornire al coro dei testi corretti. Tutti i monasteri cistercensi dovevano essere dotati degli stessi libri: il Messale, l'Epistolario, la Bibbia, il Collectarium, il Graduale, l'Antifonario, la Regola, l'Innario, il Salterio, il Lezionario e il Calendario. La ricostruzione della biblioteca di Chiaravalle, condotta sulla base di quello che ci è pervenuto, ha messo in luce che i codici del XII secolo sono quasi tutti scritturali, patristici e liturgici, con qualche libro di storia, qualche testo scolastico e pochi classici. Il diritto, la medicina, la filosofia, la scolastica non figurano minimamente. Cîteaux non fu una scuola di cultura, neppure di cultura teologica». E' del resto sintomatico che l'ingresso nell'Ordine fosse aperto anche a chi non sapeva leggere. Non sono poi da sottovalutare i rapporti intellettuali tra i monasteri e il mondo laico, come ha rilevato Joseph Bédier nel suo studio sulla genesi dell'epica francese. Una diffusione di cultura che, se operò con estrema lentezza

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nell'immediato circondario del monastero - occupato solitamente da campi e foreste - non tardò a dare i suoi frutti nelle città e lungo le grandi vie di comunicazione, specialmente sugli itinerari di pellegrinaggio per Roma e Compostella (Spagna). Stazioni di raccolta e di ristoro per i viaggiatori, santuari di devozione e a volte di miracoli, questi luoghi religiosi raccoglievano per le cronache locali notizie e voci di avvenimenti lontani e diffondevano le narrazioni dei miracoli operati dai santi e dalle reliquie del luogo, fornendo ricco materiale all'epica popolare, che nacque appunto lungo le grandi strade di pellegrinaggio e attorno ai santuari. Con il declino dei monasteri come centri di vita intellettuale, sono le cattedrali ad emergere per qualche tempo in questa stessa funzione. Il clero delle cattedrali fu sottoposto a un regime di vita comunitaria, quasi monastica, e all'osservanza di una regola o canone, da cui derivò il nome di canonico. Col passare del tempo, i canonici ebbero la funzione di scegliere il vescovo, dal quale poi pretesero stabilmente una partecipazione ai redditi della cattedrale. In ogni caso anche i canonici avevano bisogno di libri, di scuole, di registri, senza contare, poi, coloro che assistevano più da vicino il vescovo nell'amministrazione della diocesi. Ci sembra pertanto che i canonici ed il vescovo insieme costituissero nel XII secolo un vero e proprio nucleo di vita intellettuale, ricco, potente, spesso notevolmente colto ed operante in seno ad una comunità cittadina, a differenza dell'isolamento rurale in cui viveva la maggior parte dei monasteri. La vita intellettuale del XII secolo ebbe i suoi centri più illustri nelle scuole delle cattedrali nella Francia . Così anche in Inghilterra (Canterbury è l'esempio più cospicuo di questa vigorosa vita delle cattedrali), dove l'arcivescovo Teobaldo (1138-61) riunì intorno a sé tutti gli uomini di cultura del tempo. A lui seguì Tommaso Becket, educato alla sua scuola. Tuttavia nessuna delle scuole delle cattedrali inglesi diede vita a una università. In Spagna la cattedrale di Toledo fu la più importante, ma non si possono trascurare biblioteca di Barcellona, le traduzioni dall'arabo di astrologia del vescovo Michele di Tarragona (1119-51) e il Codex Calixtinus del grande santuario di Santiago di Compostella che ebbe tanta importanza nella genesi del romanzo carolingio. Restituita al suo antico prestigio dopo la riconquista cristiana del 1085, Toledo fu il naturale punto di convergenza e di fusione della cultura cristiana con quella islamica. In questo antico centro di cultura scientifica erano raccolti numerosissimi testi arabi e vi si potevano trovare anche degli insegnanti nelle due lingue; pertanto era naturale che con l'aiuto di questi Mozarabi e degli Ebrei residenti nella città di Toledo sorgesse una regolare scuola di traduzione dei testi arabo-latini e vi venisse impartito l'insegnamento delle materie scientifiche. In Germania e in Italia le cose stanno diversamente. La lotta per le investiture aveva soffocato sul sorgere centri culturali come Liegi e il XII secolo è un periodo di accentuata decadenza intellettuale in Germania, sia tra il clero secolare che tra quello regolare. Gli alti dignitari della chiesa erano assorbiti, alcuni in modo esclusivo, dalla politica, com'è il caso degli arcivescovi renani. Anche in Italia l'alto clero era coinvolto nelle vicende politiche, cittadine e imperiali, e lo fu in maniera ancora più determinante con l'acuirsi delle lotte fra guelfi e ghibellini. Mancano i grandi protagonisti della vita intellettuale come nell'epoca precedente. La corte, feudale o regia, come centro di vita intellettuale, ha una diversa importanza a seconda dei luoghi e dei tempi. Sono del 1155 circa le parole di un poeta di Samarcanda di nome Nizami, il quale

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dichiara che una corte, per essere completa in tutte le sue parti, deve essere composta di quattro specie di dotti: i segretari di stato, i poeti, gli astrologi e i medici, giacché «gli affari dei re non potrebbero esser regolati senza segretari competenti; le loro vittorie, i loro trionfi, non sarebbero immortalati senza l'eloquenza dei poeti; le loro gesta fallirebbero se non fossero intraprese nel tempo ritenuto propizio da esperti astrologi; mentre la salute, fondamento d'ogni felicità e d'ogni opera, può essere garantita solo da medici capaci e degni di fiducia». Nelle piccole corti feudali si svolgeva una vita intellettuale ancora molto rudimentale, specialmente in quelle dove il signore non sapeva né leggere né scrivere. Però anche lì c'era in genere almeno un cappellano che celebrava la messa e scriveva le lettere; una figura che evolverà nel corso del tempo in quella del cancelliere o segretario. Si può anzi dire che non appena compare una cancelleria regolare, la corte è ormai sviluppata amministrativamente. Le feste, poi, che si facevano in occasione di un’incoronazione, di un matrimonio, dell'investitura a cavaliere di qualche principe, o anche le tre grandi giornate annuali di corte presso i re anglo-normanni, radunavano quella che i cronisti chiamano «una moltitudine strabocchevole di giullari e di attori»: nel romanzo provenzale di Flamenca (1234) sono enumerate le storie che formavano l'argomento delle loro rappresentazioni: le leggende di Troia e di Tebe, Alessandro Magno e Golia, re Artù, Carlo Magno, Il vecchio della Montagna. La corte fu dunque sempre un centro di mecenatismo letterario, sia in maniera permanente sia occasionale: in effetti nel campo della letteratura, si può dire che il mecenatismo di corte, in assenza di un mercato librario, svolgeva una funzione vitale per quanti mancavano di sicuri proventi ecclesiastici. Il processo di consolidamento feudale che si andava frattanto determinando contribuì a dare a molte di queste corti poteri anche più larghi come centri amministrativi ed intellettuali. Si pensi alle varie scuole di poesia provenzale nel Sud della Francia e la presenza di principi-poeti come Guglielmo IX d'Aquitania e di protettori delle lettere come sua nipote Eleonora: attorno ai conti della Champagne si formò un animato centro intellettuale che contò tra i suoi membri anche quel Thibaut IV che fu poeta di valore. Ancora più accentuatamente burocratico l'assetto della corte siciliana, la quale risente di una forte impronta orientale, bizantina ed araba insieme; qui le categorie dei medici arabi e dei segretari poliglotti riproducono molto da vicino l'entourage descrittoci dal poeta di Samarcanda. Gli atti amministrativi del Regno, redatti in latino, in greco e in arabo, richiedono la presenza di chierici specializzati e una sede permanente a Palermo. L'influsso che questa corte poté esercitare sulla vita intellettuale è strettamente connesso con la sua posizione geografica, particolarmente felice e agevole per tutti. Il suo primo re, Ruggiero, era appassionato di geografia e sotto il suo successore Guglielmo I, i più grandi traduttori del tempo, Aristippo ed Eugenio di Palermo, furono tra i funzionari dell'amministrazione regia. Il regno di Federico II (1198-1250) ci porta fuori da questo periodo e può considerarsi il coronamento di tutte le esperienze culturali precedenti. La corte di Federico, culla della poesia italiana, continua anche le tradizioni arabe dei suoi predecessori e i vasti interessi scientifici e filosofici di Federico sono siciliani a un tempo e personalissimi Se il mecenate del XII secolo è rappresentato ancora dal principe, laico o ecclesiastico, l’Europa settentrionale nel XII secolo vide una rivoluzione economica e sociale che segnò l'inizio di una profonda trasformazione

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intellettuale. S’afferma il mercante che nei suoi continui spostamenti portava il movimento fra gente attaccata alla terra, rivelava a un mondo fedele alla tradizione e rispettoso di una gerarchia che fissava le funzioni e il rango di ciascuna delle classi, un'attività calcolatrice e razionalista, nella quale la fortuna, invece di misurarsi alla condizione dell'uomo, dipendeva solamente dalla sua intelligenza e dalla sua energia. APPROFONDIMENTO 1 I classici Sono così definiti, per convenzione, gli scrittori greci e latini dell'antichità pagana. La lettura delle loro opere pone fin dal principio un problema cruciale ai letterati cristiani per il fatto che, necessaria all'apprendimento della lingua e alla trasmissione del sapere scientifico, essa veicola anche delle affermazioni considerate menzognere o scandalose. Il dilemma è magistralmente risolto da Agostino che, nel suo De doctrina christiana, mostra come le risorse della retorica classica possono e devono essere messe al servizio della diffusione del messaggio cristiano. Ricordiamo anche la forte immagine di Girolamo (ep. 70 Ad Magnum) che compara la letteratura pagana alla prigioniera del Deuteronomio (21, 1013), alla quale è necessario tagliare unghie e capelli prima di ammetterla nel proprio letto. In Oriente i Padri cappadoci, in particolare Basilio di Cesarea, professano gli stessi principi. Sono essi che regolano, con alcune sfumature, l'atteggiamento dei letterati del Medioevo rispetto ai classici, sia nell'Occidente latino sia nel mondo bizantino. La scarsa conoscenza dei classici, con individuate eccezioni, nei secoli dopo il V muta con la rinascita carolingia: è allo zelo degli scribi del IX secolo che dobbiamo la conservazione della stragrande maggioranza dei classici latini. Gli autori più popolari sono allora i poeti: Virgilio, lo studio del quale non era mai stato del tutto abbandonato, Orazio, le epopee di Lucano e di Stazio, le satire di Persio e di Giovenale, le commedie di Terenzio, con le quali la badessa Hrosvitha di Gandersheim◄ (sec. X) compone delle imitazioni moraleggianti per le sue monache. I soli prosatori a beneficiare della stessa fortuna sono Cicerone, per i suoi manuali di retorica, e lo storico Sallustio. Tutti questi testi sono studiati a scuola, come provano il grande numero di manoscritti glossati e la fioritura di commenti di tenore essenzialmente grammaticale. Questi fatti indicano la portata, ma anche i limiti, della rinascita carolingia: se si leggono ormai dei classici, peraltro con uno peso molto ridotto nel canone scolastíco rispetto agli scrittori cristiani del IV e del V secolo, ciò avviene prima di tutto per trovarvi dei modelli di scrittura e di bello stile. Lo scopo di questo studio è garantire la correttezza linguistica; il piacere estetico resta sospetto. Ancora alla metà dell'XI secolo, l'ascetico cardinale Pier Damiani (†1072), peraltro egli stesso notevole stilista, scaglia contro gli auctores le stesse condanne di Girolamo e Gregorio Magno. È forse allora che i classici, anche perché ormai pienamente assimilati dalla cultura cristiana, si pongono in qualche modo come alternativi ad essa, costituendo un pericolo per la morale e la fede cristiana. La relativa secolarizzazione dell'insegnamento, che esce dal monastero, dove era completamente orientato alla lode di Dio, per svilupparsi nei centri urbani (Reims, Chartres, Angers, Orléans), accesso di un pubblico sempre crescente alla cultura scritta fanno sì che la visione sui classici comincia a modificarsi. Così si riscopre con entusiasmo Ovidio, lo scandaloso autore di poesie libertine, e soprattutto di quell'enciclopedia del paganesimo che sono le Metamorfosi. L'ottimismo conquistatore del XII secolo, preso dalla bellezza e pronto a tutte le arditezze speculative, si incarna nell'opera dei maestri della scuola della cattedrale di Chartres, fiorente verso il 1150: Bernardo e Teodorico di Chartres,

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Bernardo Silvestre, Guglielmo di Conches, le cui lezioni sono state conservate dall'allievo Giovanni di Salisbury (†1180), il modello perfetto dell'umanista medievale, iniziano così ad applicare ai classici il metodo di lettura fino ad allora riservato al testo sacro, l’esegesi allegorica. Essi insegnano che sotto il velo (integumentum, involucrum) della lettera frivola o impressionante si cela un senso che non è in contraddizione con la Verità rivelata; grazie a questi principi Ovidio stesso può essere cristianizzato. Per altri autori lo sforzo esegetico è meno forte: Seneca, la cui etica stoica e il gusto per l'introspezione hanno delle risonanze così cristiane, gratificato da lungo tempo da una corrispondenza apocrifa con san Paolo, nutre la riflessione dei moralisti. L'altra grande scoperta del XII secolo è quella dei classici della filosofia e della scienza greche, singolarmente quelle di Aristotele. II Medioevo occidentale ha largamente ignorato il greco: Giovanni Scoto († verso l'877), traduttore dello pseudo Dionigi, è l'eccezione che conferma la regola. Le cose non cominciano a cambiare che nel XIII secolo. E ancora tutte le opere dello Stagirita non sono tradotte direttamente: certe transitano per l'intermediazione araba in quella zona di frontiera che è la Spagna e la Sicilia. Il loro ricevimento da parte dell'Occidente è presto trionfale: il ruolo che esse hanno svolto nella storia dello sviluppo del pensiero scolastico non ha bisogno di commenti. Il XIII secolo é ugualmente l'epoca d'oro dei florilegi, delle Summae enciclopediche che seguono l'esempio di quella di Isidoro. Essi costituiscono, come lo Speculum majus di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), dei veri patchwork di «autorità». APPROFONDIMENTO 2 La città Il posto occupato dalla città medievale nella storia della società e della civiltà occidentali è ancora argomento di dibattito. Max Weber vedeva in questa pura creazione dell'Occidente la culla della classe borghese, creatrice di una visione del mondo fondata, in politica e in economia, sulla sola ragione formale; Henri Pirenne, sul presupposto che ogni forma di vita urbana era scomparsa in Occidente prima del X secolo, attribuiva la rinascita della città dopo l'anno Mille esclusivamente ai mercanti, i cui metodi, ideali e procedure erano agli antipodi di quelli della classe feudale dominante. Gli studi recenti e lo sviluppo dell'archeologia urbana hanno rimesso in discussione queste tesi ma si può salvare l'idea di una scansione in tre tempi, caratterizzata prima dall'eclissi della città antica nel corso dell'Alto Medioevo, poi da una ripresa dell'urbanizzazione di un tipo del tutto diverso dall'XI al XIII secolo, e infine dalla trasformazione di questo stesso modello a partire dal sec. XIV, in connessione con la genesi dello Stato moderno. La rete delle città, così come esisteva ancora nel IV secolo, era l'«armatura» dell'Impero romano, pur se non totalmente chiusa, fatta eccezione per l'Italia e per la Gallia meridionale. Tale rete, resistendo benissimo all'usura del tempo, costituì la base dell'urbanizzazione medievale. Ciò che venne meno abbastanza presto fu la funzione ordinatrice dominante della città nella vita sociale e culturale; soltanto la Chiesa, essendo un'istituzione con una visione globale della vita, ne assicurava la debole sopravvivenza. In realtà, quale residenza del vescovo e dei suoi chierici, ancora dopo il VI secolo la città restò, sia pure in misura ridotta, un centro d'impulso culturale e di consumo di prodotti rari, se non di produzione dei medesimi; essa si circondò di oratori e di monasteri suburbani che animavano un paesaggio di

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cui, in generale, non si può dire di più; inoltre conservò una funzione militare grazie agli spazi recintati con fortificazioni, costruite soprattutto nel IV secolo, di dimensioni molto variabili (10 ettari a Parigi, ma 400 a Milano), la cui interpretazione funzionale è attualmente rimessa in discussione; lo stesso discorso vale per le piazzeforti create più tardi ex novo in Inghilterra o in Germania. Nell'epoca carolingia le mura delle città, spesso restaurate, ospitavano piccole guarnigioni permanenti, a riprova dell'interesse sempre vivo dei nuovi detentori del potere, anche se erano di origine rurale. Il moto di urbanizzazione che cominciò alla fine del X secolo, oggi non viene più messo in rapporto con il grande commercio, malgrado il caso isolato rappresentato da alcune città quali punti d'incontro di mercanti frisoni e scandinavi; fu lo sviluppo agricolo a determinare una sovrabbondanza di uomini da impiegare nei campi e un eccesso di derrate da scambiare. La vicinanza dei luoghi sacri (abbazie o monasteri) o dei castelli, novelle sedi del potere, attirò i nuovi mercati, che furono all'origine di agglomerati denominati generalmente «borghi» o, latinamente, «villae» (villes in Francia), anche se non si trattava ancora di aree urbane occupate da artigiani liberi e da mercanti. Nella grande maggioranza dei casi tale urbanizzazione, che non può certo definirsi selvaggia, fu dovuta all'iniziativa del signore feudale del luogo, in una prospettiva sia di organizzazione del paese conquistato (in Spagna o in Germania al di là dell'Elba) sia di colonizzazione interna. Spesso le città erano invece vere e proprie fondazioni ex novo (c. e borghi nuovi, villaggi e terre nuove, castelli nuovi, ecc.). Spesso vi fu anche la concessione di franchigie e di diritti speciali ai nuovi abitanti, detti «borghesi» per distinguerli dai villani e dai rurali. Ma, naturalmente, nell'immediata periferia delle antiche c. episcopali si formarono anche borghi o sobborghi al di là delle mura. Così, nel XIII secolo, si vide costituita una nuova geografia urbana, caratterizzata dalla rete chiusa delle piccole città-mercato e dal rafforzamento delle città antiche; ma per queste ultime non vi fu fusione, o al limite vi fu una fusione difficile e parziale, tra il vecchio nucleo urbano e i nuovi borghi sorti e organizzati sotto il patrocinio dei rispettivi signori feudali. I fenomeni di conurbazione si moltiplicarono, arrivando a creare città doppie o meglio bipolari, come a Tolosa, Tours, Arras o anche ad Amburgo (l'Altstadt e la Neustadt). Ma ben presto una nuova cinta muraria venne a riunire tali «membra disperse», e numerose città acquistarono un certo grado di libertà che permise ai loro abitanti di prendere coscienza del fatto di far parte di un corpo unico. APPROFONDIMENTO 3 La cattedrale Ai nostri giorni ogni chiesa di una certa importanza viene facilmente chiamata «cattedrale»: ciò avviene perché oggi una cattedrale non si distingue più da una chiesa parrocchiale; del resto, di quest'ultima assolve spesso le funzioni e per tale ragione è retta da un sacerdote, anche se di tanto in tanto il vescovo vi celebra un ufficio solenne. Sul piano giuridico, tuttavia, la cattedrale non può essere confusa con altri edifici religiosi che hanno una posizione canonica diversa. Nella fase della cristianizzazione furono creati vescovadi a capo dei quali furono designati i vescovi, i quali avevano il compito fondamentale di amministrare i sacramenti e di predicare la fede. Furono quindi erette costruzioni «cattedrali» (termine che deriva dalla «cathedra», il trono episcopale) nei punti centrali delle città storiche, entro le mura fortificate. Tali edifici comprendevano la domus del vescovo e dei chierici a lui legati e spesso tre chiese assai vicine: una, dedicata alla Vergine, era riservata al vescovo, la seconda al clero cattedrale; la terza, che portava il nome del

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Battista, era il luogo in cui il vescovo amministrava il battesimo. Alcuni edifici annessi, in rapporto con le funzioni caritative del vescovo, completavano il complesso. Nei centri storici si svilupparono così delle vere e proprie città sante. Al tempo dei Carolingi si rese necessaria una riorganizzazione. Sotto Carlo Magno e Ludovico il Pio la funzione di arcivescovo metropolitano ritrovò il lustro perduto e al vescovo furono affidati in alcuni casi nuovi compiti, specialmente quello dell'amministrazione civile della città in cui risiedeva. Furono così intrapresi numerosi lavori di ricostruzione o di ammodernamento delle chiese cattedrali esistenti. Dalla fine del sec. XI in poi si registrò una rinascita delle città; nel contempo la riforma gregoriana restituì prestigio e dignità al clero. L'arte romanica fu l'espressione artistica di questo nuovo clima. Ebbe così origine un grande movimento che raggiunse il culmine nell'epoca gotica: il numero degli edifici fu ridotto per mezzo della loro fusione, anche se poi, all'interno dell'opera nuova sorta in questa maniera, pareti divisorie imponevano a ciascuno il posto che gli era riservato, come l'ambone e le recinzioni del coro che separavano il clero officiante dai fedeli. La preoccupazione di isolarsi dai laici per celebrare in tutta tranquillità i molteplici uffici religiosi della vita giornaliera era particolarmente forte nel caso in cui la cattedrale doveva anche accogliere numerosi pellegrini ivi giunti a venerare le reliquie che vi erano custodite; fu per facilitare la loro circolazione che venne elaborata la formula del deambulatorio a cappelle radiali, caratteristica tipica delle chiese di pellegrinaggio. Fin dall'XI secolo, le cattedrali di Rouen, di Chartres e di Auxerre, le cui dimensioni erano già considerevoli, figurarono tra gli edifici religiosi che presentavano questo tipo di pianta. Da una parte e dall'altra della chiesa si svilupparono costruzioni destinate al vescovo e ai canonici. Il palazzo vescovile comprendeva una cappella, mentre i canonici potevano avere un chiostro, ma dato che la maggioranza dei capitoli cattedrali aveva ricusato la norma del dormitorio comune, ai canonici furono assegnati alloggi singoli. La fama raggiunta da alcune scuole vescovili, come ad esempio quella di Chartres, fa supporre l'esistenza di edifici particolari appositi, dei quali peraltro non si ha alcuna notizia. Al 1140 circa si fa risalire l'inizio del periodo gotico; nel giro di qualche decennio la maggior parte delle cattedrali furono rinnovate e assunsero dimensioni considerevoli. I formidabili cantieri sorti non mancarono di porre gravi problemi urbanistici, anche se gran parte dei terreni occupati dalle nuove costruzioni appartenevano già alla zona sacra recintata. La realizzazione di tali giganteschi edifici comportò la demolizione e il trasferimento di numerosi fabbricati. Conosciamo ben poco delle soluzioni adottate per risolvere i problemi pratici posti dagli enormi cantieri: la decisione di costruire un nuovo edificio veniva presa probabilmente dal vescovo insieme con il capitolo; quest'ultimo si occupava della direzione dei lavori e del relativo finanziamento. All'inizio dei lavori erano le rendite del vescovo e dei canonici (anche se la parte di questi ultimi diventava sempre più importante col passare del tempo, come risulta anche dal ruolo che essi svolsero nell'amministrazione delle fabbricerie) a procurare i fondi necessari; in seguito si dovette ricorrere ad altre fonti di finanziamento, come la vendita di beni immobili o di spazi di sepoltura all'interno delle chiese, le questue in occasione delle processioni di reliquie o le indulgenze. In alcuni casi i prelievi fiscali cagionati da tali costruzioni furono motivo di malcontento e persino di ribellione, come accadde a Reims e ad Amiens. Sono per lo più andati smarriti i libri contabili corrispondenti alle annate di costruzione. Spesso i cantieri avevano un avvio entusiastico e brillante, ma poi si rendeva necessario rallentare l'attività, perché le risorse si assottigliavano proprio nel momento in cui si arrivava ai lavori più costosi (impalcature, taglio delle pietre più delicate nelle parti alte). Generalmente il cantiere si apriva nella parte orientale, dove un nuovo deambulatorio veniva a circondare quello antico dell'edificio sacro preesistente. La necessità di assicurare lo svolgimento del culto quotidiano obbligava a tenere in piedi per decenni l'edificio antico, che veniva poi demolito pezzo per pezzo a mano a mano che la nuova opera andava

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avanti. Non si può non essere sorpresi dalla rapidità con cui questi edifici furono realizzati, tenuto conto dei mezzi tecnici disponibili a quel tempo; bisogna ricordare, ad esempio, che per assicurare alle cattedrali una buona stabilità era necessario eseguire fondamenta che scendevano molto profondamente fino alla roccia solida (in alcuni casi fino a -10 metri dal piano di calpestio). Per accelerare il lavoro vennero messe a punto tecniche nuove, come il taglio in serie delle pietre. Alla fine del sec. XIII, l'attività architettonica subì un rallentamento via via che la congiuntura economica e demografica andava peggiorando; la Guerra dei Cento Anni e le sue conseguenze finanziarie (esazione forzata di imposte in varie forme da parte dei sovrani, mancata riscossione dei canoni fondiari dovuti dai contadini) aggravarono ulteriormente la situazione; fu dunque necessario limitarsi ai lavori di minore impegno, come l'abbellimento degli interni con arredi e arazzi. Ma il lavoro di «abbellimento» su interni ed esterni, anche con sculture, pitture e vetrate, incarnava nel contempo una simbologia cosmica, facendo della cattedrale l'immagine del mondo cristiano. La c. rappresentava l'edificio di massima importanza della città: non solo, attraverso la sua magnificenza, le municipalità gareggiavano tra loro in splendore e in supremazia ma in essa si discutevano affari e talvolta si tenevano riunioni municipali; vi erano ammessi cittadini di, ogni estrazione sociale e persino animali. Essa rappresentava pertanto l'intera cittadinanza ed era il fulcro urbanistico del quartiere che sorgeva intorno ad essa, dominato dalla sua mole imponente. Con il Rinascimento si affermò la cattedrale come elemento centrale di una composizione edilizia armoniosa ed equilibrata, inserita logicamente nel tessuto urbano, mentre la monumentale ricchezza caratteristica del Medioevo gotico conobbe un progressivo, deciso declino. III.2.2 La scuola e le origini delle università (da C.H. HASKINS, La rinascita del XII secolo) Il secolo XII non fu soltanto caratterizzato da una rinascita culturale, ma fu anche un'età innovatrice delle istituzioni, soprattutto riguardo a quelle che hanno riferimento all'istruzione superiore: una storia che comincia con le scuole monastiche e delle cattedrali e che termina con le prime università. Si può dire che il secolo XII abbia istituzionalizzato l'istruzione superiore, o che per lo meno ne abbia avviato il processo. Non solo, ma gli anni intermedi avevano anche creato un tipo più evoluto di scuola, in rapporto naturalmente alla rinascita culturale. Ancora alla fine dell'XI secolo, la cultura negli schemi tradizionali s'identificava quasi esclusivamente con le sette arti liberali; il XII secolo la dilatò facendole comprendere anche la nuova logica, la nuova matematica, la nuova astronomia, e dando al contempo vita alle facoltà di diritto, di medicina, di teologia. Le università non erano esistite prima perché l'Europa occidentale non possedeva ancora una cultura tale da giustificarne l'esistenza ed emersero con l'espansione culturale di questo periodo. Il secolo XII non soltanto produsse le università ma anche ne fissò il sistema ordinatore per le età successive. Non si trattò qui di rifarsi a un preesistente modello antico, giacché il mondo greco-romano non ebbe università nel senso proprio: ebbe un'istruzione superiore, superiore anche come livello, soprattutto nel campo della scienza giuridica, della retorica e della filosofia, ma questa istruzione non fu organizzata in facoltà e istituti aventi un piano di studi prefissato e un titolo di laurea al termine di un corso accademico. Anche quando lo stato volle addossarsi la responsabilità dell'istruzione superiore creando nel basso impero le scuole pubbliche di diritto, ancora non si trattò di

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università. La quale nacque nel XII secolo ed ha in questo secolo gli archetipi cui si è improntata fino ai nostri giorni: Salerno, Bologna, Parigi, Montpellier e Oxford. L'università è uno dei contributi del medioevo alla storia della civiltà, ed è un contributo specifico del XII secolo. Per università si intese agli inizi una corporazione in senso generico, non diversa dalle tante che il dominante spirito associativo del medioevo aveva creato. Solo col tempo la universitas venne specificandosi e restringendosi nel senso esclusivo di società corporativa di maestri e di studenti. In senso generico, si può dire che alla base del rinnovamento dell'Europa meridionale sta la corporazione degli studenti ma in entrambi i casi il perno intorno al quale ruota tutta la successiva evoluzione del sistema è l'ammissione alla corporazione dei maestri e professori. Senza tale ammissione non si aveva la licenza per insegnare: ed essa costituì la prima forma di titolo accademico. Storicamente, i titoli accademici furono in origine delle licenze d'insegnamento, come dimostra ancor oggi il titolo di dottore e di maestro: un maestro delle Arti letterali era pertanto un maestro qualificato per l'insegnamento letterario, un dottore in legge o in medicina era un insegnante di queste discipline. L'ordine di studio, gli esami, la laurea rientrano ancor oggi in un sistema che è ereditato dal medioevo, e che per molti aspetti ci viene dal secolo XII. Delle più importanti scuole delle cattedrali settentrionale alcune, come Reims (ILL. 60a) e Chartres (ILL.61), erano entrate già da prima in una fase di evoluzione che in questo periodo è al culmine; altre, come Laon e Tours, ebbero un'importanza temporanea; altre ancora, come Parigi (ILL.62) e forse Orléans (ILL.63) sfociarono nelle università. In tutte domina la persona individuale del maestro che agli inizi conta assai più della sede universitaria, all'infuori di Parigi che è il solo centro dotato di una sua forza intrinseca, capace di attirare gli studenti indipendentemente da questa o quella figura di maestro. Parigi rapidamente sta diventando la capitale della monarchia francese. In essa fiorivano tre scuole: quella della cattedrale di Notre Dame, quella dei canonici regolari di San Vittore e quella della collegiata di Sainte Geneviève. Cosí Abelardo ► iniziò i suoi studi e l'insegnamento a Notre Dame, di cui fu forse fatto canonico, mentre più tardi andò ad ascoltare le lezioni di Guglielmo di Champeaux nella scuola di San Vittore e negli anni della maturità ritornò a Sainte-Geneviève, dove lo ascoltò Giovanni di Salisbury ►. La fama di Abelardo come maestro originale e di largo seguito ebbe non poca parte nell’afflusso degli studenti a Parigi, sebbene lui stesso per un motivo o per l'altro ne fosse assente anche per lunghi periodi. Al tempo suo, comunque, Parigi divenne un grande centro di dialettica ed è indubbio che Abelardo contribuì in misura determinante al prestigio di Parigi come centro di studi superiori. Nella seconda metà del secolo Parigi si allarga e consolida ulteriormente la sua posizione. Quando Giovanni di Salisbury vi ritorna nel 1164, lo splendore della sua nuova cattedrale, « le occupazioni varie dei suoi filosofi » che gli ricordano la visione degli angeli che salgono e scendono la scala di Giacobbe. Fu dunque come scuola teologica che Parigi divenne la prima scuola della chiesa. Ma il nome di università non compare fino al XIII secolo, quando lo incontriamo incidentalmente in una serie di lettere scritte tra il 1208 e il 1209 da quello che ne era stato uno studente, il papa Innocenzo III. In una storia delle università dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come pure delle scuole delle cattedrali e dei monasteri, non si può non tenere conto della sopravvivenza delle tradizioni dell'istruzione laica, soprattutto per quanto

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concerne le professioni del diritto e della medicina. Si tratta di istituzioni strettamente connesse con l'insegnamento di queste discipline professionali, che le rese appunto illustri per tutto il medioevo. Anch'esse partecipano della rinascita culturale ma secondo una storia che è forse più antica e certamente più oscura. Del tutto ignote sono, ad esempio, le origini di Salerno, la più antica scuola medica d'Europa, centro di medicina nel X secolo, ma della cui istituzione non sappiamo nulla. Montpellier, con le sue due università di diritto e di medicina, è certamente più giovane, ma le sue origini sono parimenti oscure e possiamo soltanto supporre che sia stata legata per la medicina a Salerno e che abbia attinto alla scienza della Spagna, mentre è certo che la sua scuola di diritto si modellò su quella. Dopo Irnerio la grande fama di Bologna è legata alla sua scuola di diritto, ai suoi grandi maestri e al loro metodo innovatore, per cui essa diventa un polo d'attrazione per gli studenti. Lo Studio di Bologna sorse in diretta conseguenza del movimento di rinascita del diritto romano, ma non fu la più antica scuola giuridica italiana. Altre la precedettero: Roma, Pavia e la vicina Ravenna ma nessuna di queste assurse allo stato di università. Benché non sia stata forse la prima, Bologna godeva di una posizione che naturalmente la favoriva rispetto alle altre città, situata com'era all'incrocio delle grandi strade dell'Italia settentrionale, dove la strada di Firenze s'incontra con la via Emilia che corre lungo la costa settentrionale degli Appennini. Una città, ricca e soprattutto agevole per lo studio. Bologna nell'XI secolo ha almeno una figura eminente di giurista, Pepone, ma è da tempo, come diremo, una scuola famosa di retorica. Bologna fu poi madre di altre università minori XIII secolo: Padova, la vicina rivale sorta nel 1222 a causa di una secessione di maestri da Bologna, per non citare gli esempi meno importanti, degli Studi di Modena, Reggio e Vicenza; e l'Università di Napoli del 1224, creata per volere di Federico II con maestri bolognesi al fine di tenere gli studenti entro il regno di Sicilia Per quello che riguarda l'insegnamento, ci dobbiamo accontentare dell'informazione generica che l'attività universitaria consisteva in una serie di lezioni basate essenzialmente sul commento ai testi, su un elaborato sistema glossatorio, sulla discussione e il dibattito. Le esercitazioni si svolgevano nella casa del maestro o in una sala da lui affittata, poiché non esistevano gli edifici e le aule universitarie. Del piano di studi, sappiamo invece qualcosa di più in quanto conosciamo i principali testi di studio del tempo e perché verso il 1200 venne redatto, forse da Alessandro Neckam, un elenco sistematico delle opere studiate in ogni disciplina universitaria. Nel diritto canonico troviamo il Decretum di Graziano e le decretali dei papi successivi. La medicina è ancora fondata su Galeno e Ippocrate nelle primitive traduzioni dall'arabo. I testi fondamentali di teologia sono la Bibbia e le Sentenze di Pietro Lombardo. Questa massa studentesca è straordinariamente mobile e ‘internazionale’. Bologna ha arcidiaconi inglesi e civilisti tedeschi, tra i chierici di Parigi ve ne sono di svedesi e d'ungheresi, e molti anche vengono dall'Inghilterra, dalla Germania, dall'Italia. Persino nelle scuole delle cattedrali sono presenti molti elementi d'Oltralpe, o dei paesi situati al di là dei mari più piccoli. Inoltre era consentito frequentare più di una università: Adalberto di Mainz agli inizi del secolo e Guido di Bazoches verso la fine sono tanto a Parigi quanto nella meridionale Montpellier. III.3 I generi letterari

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III.3.1 La storiografia Tra i secoli XI e XII la produzione è rilevantissima, soprattutto per la scrittura di tipo locale e molto diversificata: si può dire che ogni diocesi, ogni monastero, disponga la scrittura di una propria cronaca (storiografia monastica), e così anche le realtà più importanti, come i nascenti regni nazionali e i comuni (storiografia urbana); né mancano testi che provano ad abbracciare avvenimenti monografici, com'è per le crociate (storiografia delle crociate). La storiografia monastica è dovuta a monaci, noti o anonimi, espressione della congregazione monastica: come il Chronicon Casauriense (di Casauria, in provincia di Pescara), del monaco Giovanni di Berardo, che arriva fino al 1192; il Liber chronicorum monasterii Sancti Bartholomaei de Carpineto (in provincia di Pescara), del monaco Alessandro (fino al 1195); il Chronicon Vulturnense (dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno, Isernia), del monaco Giovanni (ci resta la stesura che narra i fatti fino al 1076); il Chronicon Farfense (del monastero di Farfa - Rieti), scritto dal monaco Gregorio da Catino († dopo il 1132), e l’anonimo Chronicon Novaliciense (del monastero della Novalesa, in val di Susa), dove, come si può leggere nel celebre racconto delle “brache di Waltario”, è invece assai alta la presenza di un sostrato leggendario, probabilmente inteso a fondare, come era avvenuto per altri celebri eroi delle leggende carolinge, il mito dell’eroe epico legato al monastero e quindi a promuovere il suo culto: II.11 . L'abate allora fece immediatamente riunire i monaci ed espose loro quanto era successo. Padre della congregazione di quel monastero era, in quel tempo, un gran santo di nome Asinario, Franco di stirpe, celebre e venerato per le molte virtù. E poiché uno d'essi, Valtario, le cui gesta abbiamo ricordato prima, suggerí che il predetto padre scegliesse alcuni saggi monaci le cui preghiere sapessero convincere i predoni a restituire il cospicuo bottino, l'abate senza esitazione gli rispose: «Proprio non sapremmo chi mandare piú di te prudente e saggio. Ti prego, dunque, e ti comando, fratello, di non indugiare a scendere da loro: li esorterai a restituirci con sollecitudine le provviste che ci hanno strappato con la violenza, se non vorranno incorrere fulmineamente nella grave ira di Dio». Ma Valtario, presentendo che non gli sarebbe stato facile tollerare la loro prepotenza, obiettò all'abate di dare per certo che lo avrebbero spogliato della tunica che indossava. Il padre predetto, pio qual era, disse allora: “Se ti porteranno via la tunica da' loro anche la cocolla”, dicendo che cosí ti è stato ordinato dai monaci ». E Valtarío di rimando: «E se vorranno anche la pelliccia e la camicia? Che cosa dovrò fare?» II venerando padre replicò: «Anche per quelle dirai che parimenti ti è stato comandato dai monaci». Allora Valtario: «Mio signore, non spazientirti se ancora insisto: come dovrò comportarmi se anche con le brache vorranno fare quello che prima avranno fatto col resto?» E l'abate: «Ti basti la precedente dimostrazione di umiltà. Trattandosi delle brache nulla ti ordino, poiché a noi sembra già prova di grande umiltà lasciarsi spogliare delle altre vesti » Dopo avere ascoltato le parole di un signore tanto venerabile, Valtario uscí e cominciò a chiedere in giro ai servi del monastero se ci fosse lì un cavallo col quale ci si potesse fidare a combattere, qualora la necessità si presentasse. I servi gli risposero che c'erano cavalli da tiro abili e vigorosi. Egli comandò che gli venissero mostrati e, come li ebbe dinanzi, li cavalcò, dando di sprone, ad uno ad uno per saggiarli. Provò il primo, il secondo, ma non gli piacquero e subito li rifiutò facendo notare i loro difetti. Si ricordò allora che qualche tempo prima aveva condotto nel monastero il suo cavallo, una bestia eccellente, e disse: « E quel cavallo che portai con me quando venni qui, vive ancora o è morto? » I servi gli risposero: «È vivo, signore, ma è piuttosto vecchio; ormai del resto è stato concesso in uso ai mugnai e va e viene ogni giorno dal mulino col grano e la farina». Valtario allora: «Misi conduca e vediamo in che condizioni è». Gli fu condotto, lo montò, lo fece muovere; poi disse: «Il mio cavallo ha davvero una buona memoria: nulla ha dimenticato di quello che gli insegnai nei miei anni giovanili»'. Valtario andò quindi a ricevere la benedizione dell'abate e di tutti i monaci, li salutò, prese seco due o tre servi e raggiunse in breve tempo i predoni. Dopo averli umilmente salutati, cominciò

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ad ammonirli di non voler recare piú oltre ai servi di Dio un'offesa quale poco prima avevano fatto. Per tutta risposta quelli lo investirono con lazzi e ingiurie, ma Valtario non fu da meno e seppe trovare parole anche più dure'. Al che, furenti, e per di più incitati dalla loro stessa arroganza, costrinsero Valtario a spogliarsi delle vesti che indossava. A tutto obbediva Valtario, umilmente, in conformità ai precetti del suo abate, dicendo che cosí gli era stato comandato dai monaci. Dopo averlo spogliato, cominciarono anche a togliergli le calze e i sandali. Giunti alle brache, Valtario fece a lungo resistenza, dicendo che i monaci non gli avevano affatto comandato di togliersi le brache: ma quelli ribattevano che a loro nulla importava degli ordini dei monaci. Valtario continuava però a sottrarsi ed andava ripetendo che proprio in nessun modo era per lui conveniente lasciarle nelle loro mani. E poiché cercarono di costringerlo con estrema violenza, Valtario, senza farsi notare, staccò dalla sella una staffa in cui prima poggiava il suo piede e percosse in testa uno di loro, che piombò a terra come morto. Afferrate quindi le armi di costui, si diede a colpire a destra e a manca, finché, guardandosi attorno, adocchiò un vitello che pascolava, lo abbrancò, gli divelse una spalla con cui si mise a percuotere i nemici, inseguendoli e disperdendoli per la campagna'. Alcuni vogliono inoltre che ad uno dei predoni, che piú degli altri aveva importunato Valtario, questi abbia appioppato sul collo, mentre si era chinato per togliergli i sandali, un pugno cosí poderoso da rompergli l'osso e da mandarglielo in gola. Parecchi furono uccisi, gli altri fuggirono ed abbandonarono ogni cosa. Valtario vittorioso raccolse allora le cose sue e quelle altrui e subito si rimise in cammino verso il monastero, carico di ricchissima preda. La storiografia urbana dell'Italia settentrionale s'identifica soprattutto con Genova e con Caffaro di Caschifellone († 1166), militare, diplomatico e politico, della Genova della prima metà del secolo XII. Egli comincia ad annotare, proprio dall'inizio del secolo, gli avvenimenti più importanti della sua città, cui si trova a partecipare in maniera più o meno diretta. Nascono così gli Annales Ianuenses, prima grande cronaca laica di una città del medioevo italiano; una storiografia in cui non compaiono soltanto imperatori, pontefici, nobili, vescovi e abati, ma anche mercanti, artigiani, marinai. I suoi annali furono in seguito assunti come storiografia ufficiale da parte del Comune di Genova, che li fece ricopiare e conservare nei suoi archivi. Essi furono continuati dopo la morte del loro ideatore sino al 1293. Per storiografia normanna s'intende l'insieme di testi che narrano della conquista del potere da parte dei normanni in Normandia, in Inghilterra e in Italia meridionale. La produzione normanna si presenta molto omogenea tipologicamente e ideologicamente, soprattutto per gli stretti legami con la committenza politica (i duchi di Normandia), al punto che alcuni testi sono collegati tra loro anche da connessioni genetiche, risultando la continuazione o il completamento di narrazioni precedenti (come s'è visto per la cronaca di Càffaro). La storia dell’impero impegna una delle menti più importanti, per l'ampiezza delle riflessioni ideologiche e filosofiche, è Ottone di Frisinga († 1158), parente dell'imperatore Federico Barbarossa e suo ideologo. Egli studia a Parigi sotto Ugo di San Vittore, forse a Reims e a Chartres. È abate a Morimond dal 1138, poi vescovo di Frisinga. La portata profonda della concezione ideologica fa di Ottone uno dei più grandi storici «per problemi» che abbiano attraversato il panorama europeo, non soltanto medievale. Scrive una Chronica (o anche Historia de duabus civitatibus), in cui è evidente l'impronta agostiniana negli schemi temporali delle sei età e delle quattro monarchie. Ma la marca agostiniana s'individua nella concezione stessa della storia: il problema della mutabilità delle cose umane viene spiegato col fatto che proprio quel variare è voluto e regolato dalla Provvidenza divina. Il vescovo di Frisinga individua nell'evolversi della storia, e in particolare di tre grandi fenomeni, l'Impero, gli

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studi e la religione, un percorso (fatto di nascita, crescita e declino) che va da est a ovest. Per quanto riguarda il primo elemento, i centri del potere nell'antichità nascono in Medio Oriente e man mano si spostano in Europa, fino ad arrivare, nel XII secolo, nelle mani della dinastia tedesca degli Hohenstaufen. Risistemando la teoria orosiana, franchi e tedeschi hanno ereditato l’impero dai bizantini, che lo avevano ereditato dai romani; la translatio è stata ininterrotta. La teoria del «pendolo» oriente-occidente e quella del ciclo eterno di nascita, crescita e morte sono applicate poi agli studi e alla religione. Così, anche per la religione l'interpretazione di Ottone pare accettabile: gli ordini religiosi nascono in Oriente coi primi fenomeni di monachesimo, e poi si affermano in Occidente, soprattutto con la fondazione dei benedettini. Attivo nel secolo XI è, per il regno di Francia, Rodolfo il Glabro († 1047). Nato in Borgogna intorno al 985, entra in monastero forse a Saint-Germain d'Auxerre e si trasferisce poi in varie abbazie (tra cui San Benigno di Digione e Cluny), per le sopraggiunte incomprensioni coi confratelli a causa del carattere arrogante e superbo. Di lui possediamo il codice idiografo (idiografo: si indica in questo modo un codice non autografo ma scritto da un copista sotto la stretta sorveglianza del suo autore) degli Historiarum libri (Par. lat. 10912). L'opera parte dal 900 e arriva alla metà dell'XI secolo. Cupamente pessimistica la visione del mondo di Rodolfo, che vede nella storia un luogo di orrori e violenze, descritti con dovizia di particolari. Dio sembra essere assente nella sua Francia delle carestie e delle rivolte contadine e feudali, in un mondo in magmatico assestamento, durante le conquiste normanne e il faticoso, lento riorganizzarsi della corona. Di buon rilievo, sia qualitativo sia quantitativo, la storiografia che si occupa del fenomeno delle crociate, e in particolare di quella più importante, e l'unica veramente liberatoria di Gerusalemme: la I crociata (1096-99). Si tratta di una scrittura prevalentemente autoptica: chi la redige è un testimone oculare dei fatti. Questo fa sì che spesso la narrazione e l'interpretazione dei fatti offerte da ogni singola fonte vadano inquadrate e comprese alla luce delle dialettiche tra i diversi contingenti che componevano la spedizione (franchi, normanni, lorenesi, normanni italiani, provenzali). Inoltre, sotto il profilo letterario, la storiografia crociata è maggiormente libera, rispetto a tutta la precedente, dalla dipendenza da modelli antichi, o comunque standardizzati: il fenomeno storico-politico-militare-culturale delle crociate, infatti, è talmente eccezionale da non trovare nulla di paragonabile in precedenza. Le Crociate stimola non non solo la cronachistica ma anche la produzione epica: in francese è scritta l’opera forse più celebre, La canzone di Antiochia che commemora la conquista di Antiochia, che creava ostacolo al cammino dei crociati, diretti alla conquista di Gerusalemme (I crociata) (un brano che narra della fuga dei Saraceni dopo la caduta di Antiochia) Garsiòn di Antiochia è appoggiato alle mura E vede morti i suoi, uccisi e fatti a pezzi; li avevano inseguiti i nobili cristiani con le lance levate sui cavalli spossati - fossero stati frechi li avrebbero acciuffati. Vede la loro insegna che è ridotta a brandelli, l’impugnatura d’oro scaraventata a terra. Ne prova un tal dolore che quasi esce di senno

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E più e più volte sviene sul marmo lavorato. Secondo il mio parere avrebbe perso il senno Se i baroni suoi non l’avesser rialzato: “Eh!, signor Garsiòn, non perdetevi d’animo. Andate in Khorasan a chiedere rinforzi. “Baroni”, fa Garsiòn, “Statemi ad ascoltare. Da me avete il feudo e siete miei vassalli. Conquistai questa terra, tenetelo per certo, che or mi tolgono i Franchi, del che sono infuriato. Sorvegliate il castello al meglio che potete. In armi. Questa notte, filerò a briglia sciolta Senza portarmi appresso né servi né scudieri Ed andrò in Khorasan a chiedere rinforzi. Se riuscirò a trovare il pregiato Soldano In pochisssimo tempo li concerò a dovere. Vennero a lor danno, quelle vili canaglie.” Rispondono i i baroni:; “Sia come voi volete”. Fanno passare il giorno e al calar della sera Monta il re tutto armato in sella al suoi destriero. Lo scortano i suoi uomini, che degni son di lode, poi esce dalle mura passando una postierla. Al vederlo andar via, sgomenti, i suoi vassalli Si torcono le mani, si strappano i capelli. E Garsiòn cavalca con fare corrucciato E la notte rimugina sul collo del cavallo. Arriva a una sorgente ai piedi di un olivo E là si volge al re per far bere il cavallo. Ora racconterò cosa fece il Signore: mentre il re era sul punto di tornare a cavallo andando a briglia sciolta gli fu addosso un soiriano che gli mozzò la testa con un grosso falcione. Quello poi l’afferrò per la barba e i capelli E a tamburo battente ritornò ad Antiochia. Si recò in una piazza piena di cavalieri Ma non volle mostrare la testa del gran re Prima di saper bene qual compendo ne avrebbe. Si avvicinò ai Greci e disse con gran calma: “Certo voi non sapete cosa ha fatto il Signore. E’ morto Garsiòn, non so se oggi o ieri: ne mostrerei la testa dietro giusto compenso”. Resero grazie a Dio, re glorioso dei cieli. Alcuni cavalieri del duca Boemondo Son giunti della piazza a spartire il bottino E sentono gli Armeni parlottare coi Greci. Non devono pregare chi ha la testa del re; lo afferran per le braccia tenendolo ben stretto e a Boemondo lo portano, che è il loro signore: “Dicono questi uomini che non conoscono le lingue, che Garsiòn è morto, non so se oggi o ieri”. E Boemondo risponde: “Stanno certo mentendo”. Il siriano risponde: “Certo che no, sappiatelo. Ma che guadagno avrebbe chi mostrasse la testa?”. Il buon duca risponde: “Non intendo negarlo: darei cento bisanti del mio oro più prezioso e oltre a tutto questo la mia amicizia avrebbe”. Come l’ode il villano, ne gioisce e s’allieta: va subito nel luogo in cui la tien nascosta, la afferra per la barba e poi ritorna indietro. La barba misurava un braccio o forse più.

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Guiberto di Nogent († 1121) dal 1104 è abate a Nogent. Scrive i Gesta Dei per Francos senza gli elementi eccessivamente miracolistici che caratterizzano altre fonti. Egli scrive anche un De pignoribus sanctorum, nel quale mette in guardia dall'eccessiva credulità nelle reliquie (e dalla Terrasanta ne erano arrivate tante!), che necessitano viceversa di certificazioni autorevoli e severe. Tale vena critica si rivela anche nel De vita sua, una delle rare autobiografie medievali (insieme a quella di Otlone di Sant'Emmerano e a poche altre). Guiberto riesce a darci interessanti spaccati della sua vita privata (soprattutto l'affetto per la mamma, che ha dato luogo a stravaganti interpretazioni psicanalitiche; e poi l'entusiasmo per gli studi, la devozione alla Vergine, ecc.), ma anche importanti notizie sulla vita ecclesiastica della Francia della fine del secolo XI. Della II crociata (1147: bandita da san Bernardo di Chiaravalle e guidata dall'imperatore Corrado III e dal re di Francia Luigi VI) si occupa l'Historia rerum in partibus transmarinis gestarum (o Chronica) di Guglielmo di Tiro († dopo il 1184), forse d'origine italiana, mandato in Siria intorno al 1130. La differenza più rilevante tra la storia di Guglielmo (basata su fonti di prim’ordine) e la restante storiografia crociata è che Guglielmo tratta di tutta la storia di tutto l'Outremer, dalla conquista araba nel secolo VII ai suoi tempi, e non di una sola crociata. Guglielmo sa, e se ne lamenta, di dover raccontare le sconfitte e il declino dell'Outremer franco; e, accanto alla solita spiegazione moralistica (il declino politico è dovuto al declino morale e alla corruzione), l'arcivescovo di Tiro comprende che ci sono altre motivazioni: prima fra tutte la discordia che impera tra i principi franchi e tra gli occidentali in generale. III.3.2 L’epica mitologica Dieci libri, per circa 5500 esametri, compongono l'Alexandreis, opera di Gualtiero di Chatillon († 1203 circa), nato nei pressi di Lilla verso il 1135. L'autore è probabilmente in contatto col circolo d'intellettuali anglonormanni attivi verso la fine del secolo XII (Pietro di Blois, Giovanni di Salisbury, Tommaso Becket, ecc.). Lavora poi a lungo come notaio nella cancelleria del vescovo Guglielmo di Reims. Muore di lebbra. Gualtiero è uno degli autori più interessanti del secolo XII: poeta epico e lirico, d'amore e di satira. Sarcastica e feroce quest'ultima, contro la corruzione morale e materiale della Chiesa (come nel carme che segue) (Carmen Buranum 8) Malato tra i malati, ignoto tra gli ignoti, voglio esser pietra per affilare usurpando il diritto del sacerdote. O figlie di Sion, piangete! I capi della Chiesa oggi imitano Cristo da lontano! Se un sacerdote o un diacono che vivono una vita senza incarichi vogliono ciò che chiedono, su questa ben nota strada debbono avviarsi: prima si fa un patto, come fece Simone,

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poi segue il denaro, come fece appunto Giezi. Il clero non gode di rispettò veruno tra i laici, si può far mercato della sposa di Cristo, da gentildonna a prostituta; si vende 1'altare, si vende l'eucarestia, anche la grazia, priva ormai di valore, può essere venduta. Il dono di Dio non viene dato, se non gratuitamente; sarà colpito dalla lebbra come il Siro chi lo vende o ne fa mercato. Chi si agita in tal modo degli idoli è schiavo, e non viene ammesso al tempio dello Spirito Santo. Se qualcuno cosi vive, non può dirsi pastore, non si comporta da guida chi è preda della lussuria. È questa appunto l'altra figlia della sanguisuga che l'avida curia ha preso come sposa. Nei giorni della giovinezza temono gli anni della vecchiaia, temono che la fortuna li abbandoni che si appanni lo splendore della pelle E mentre cercano la via di mezzo cadono nel contrario; infatti li inganna il vizio sotto le sembianze della virtù. Infine per dire l'amara verità: il sacro crisma viene dato in vendita, si comportano come giovani i vecchi né rinunciano ai giochi dei reni. Vecchi e decrepiti come fossero appena nati succhiano il veleno di un nettare proibito. Dunque nessuno vive puro, crolla il muro della castità, si venera Epicuro non si pensa che si morirà. A tutti piace far festa; il futuro pontefice risolve tutti i problemi con l'oro, con l'argento. ma anche contro i grandi personaggi laici, come Federico Barbarossa, paragonato all'Anticristo, e il re d'Inghilterra Enrico II, per il quale Gualtiero scrive una feroce lirica per esprimere l'orrore per l’assassinio di Thomas Becket. La sua opera più imponente resta, come si è detto, il poema epico-mitologico Alexandreis, uno dei monumenti della poesia epica del medioevo latino. Esso riprende e riplasma molteplici tradizioni sulla figura di

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Alessandro Magno. Rilevante il sostrato ideologico: il testo non è un'acritica esaltazione dell'antico condottiero, ma una cupa riflessione sul potere del destino nella storia umana e sull'inutilità della superbia bellica: Alessandro continua a conquistare terre su terre, e non si accorge delle congiure intorno a lui, e della morte imminente. Non a caso l'opera fu uno dei testi più letti nel medioevo, nella scuola e fuori. Gualtiero è profondo conoscitore della poesia antica, di cui fruisce con eccezionale originalità, pur all'interno di un rispetto rigoroso della tradizione. Tra i poeti antichi, Lucano occupa un posto di prima linea. La giovinezza di Alessandro Magno (dall'Alessandreide, vv. 27-82) Ancora non si era proposta la tenera lanugine, un segno della natura, né indicava alla madre il mutamento sulle guance, che Alessandro, pur essendo un fanciullo, arso dalla brama di possedere le armi, viene a sapere che Dario impone ai greci la sua legge e che occupa le terre del padre con il giogo del comando, sdegnato da queste notizie, irato, dice: «Davvero troppo lunga è l'attesa per i giovinetti! Non mi sarà mai lecito con la mia spada balenante, tra le schiere portatrici di morte, distruggere il giogo dei Persiani, e con rapida corsa travolgere il lento cavallo del tiranno che fugge, disorientare e confondere i suoi capi? Non sarà mai lecito a un nobile fanciullo, con un leone dipinto sullo stendardo, il capo coperto dall'elmo, imitare almeno una volta l'adulto che fa la guerra? Non è forse vero che Ercole ancora nella culla schiacciò due serpenti dopo averne recise le fauci? Se dunque il nome del grande Aristotele non spaventasse la mia giovane età, non esiterei a iniziare simili imprese. Aggiungi che a dodici anni in un corpo non ancora sviluppato c'è solitamente maggior coraggio e che la forza ardimentosa della verde giovinezza supera gli indugi. O sarò sempre considerato come figlio di Nectanabis? Sarò dunque considerato indegno del mio vero padre?». Egli dice questo, ed è appunto il cuore che cosi lo consiglia. Come quando nei campi ircani, per caso, un piccolo leone vede dei cerbiatti dalle lunghe corna recarsi a pascolo, quel piccolo leone che non è ancora convinto delle sue forze, e che è ancora insicuro sulle zampe e non certo feroce nell'azzannare, si agita, mentre la sua lingua malvagia colpisce il vuoto palato, e sparge sangue prima con il desiderio, che con i denti, e soltanto un'adulta volontà supplisce alla lentezza dei piedi: cosi l'incontenibile ragazzo vuol scatenarsi tutto con le armi, e se è insicuro nell'azione, un leone, è vero, si sente nel profondo del cuore, e l'audacia del desiderio va assai oltre la tenera età. Invece l'emaciato, pallido maestro, mal pettinato (e l'aspetto ben corrispondeva a uno studio ininterrotto) era uscito dalle stanze attraverso la porta aperta, dove, dopo aver composto l'intero corpo della logica aveva armato gli elenchi come difensori. O quanto è difficile nascondere sul volto la fatica dello studio! La faccia illividita sapeva di lucerna, la pelle si attaccava alle ossa del viso lasciandole ben visibili e una macerata magrezza dovuta al digiuno e dappertutto diffusa segnava le articolazioni delle mani. Non vi era intervallo tra pelle e ossa. La grande fatica dello studio affligge gli arti e riduce la massa della carne, e ciò che il cibo produce, l'uomo lo assume dentro, come sollievo alla fatica. Quando dunque vide il figlio di Filippo sconvolto,,

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- la rossa faccia denunciava infatti un'ira nascosta - chiese insistentemente perché il suo animosi riscaldasse così, quale fosse il motivo di tanto dolore, di simile furia. Rispettoso della presenza del maestro, il ragazzo, supplice, abbassò gli occhi e chino, prostrato davanti ad Aristotele si lamenta con le lacrime agli occhi di addolorarsi per , il vecchio padre oppresso dalla violenza di Dario, e per la patria schiacciata e le lacrime ne esasperano l'ira, e infine egli beve, l'orecchio ben teso, le parole del maestro: «O ragazzo macedone, sia adulta la tua mente, imbraccia le armi». III.3.3 La poesia lirica e religiosa Uno dei fenomeni maggiormente caratterizzanti la letteratura dell’XI e, soprattutto, del XII secolo è il fiorire eccezionale del genere lirico: esso tra XI e XII secolo vive un'età di autentico splendore, in virtù della produzione di una poesia sicuramente nuova, più libera, più varia nei temi e nelle forme espressive. In questo senso, appare determinante la spinta propulsiva conferita dall'influsso della produzione in volgare: l'osmosi di forme e contenuti tra le liriche in lingua madre e quelle in latino è totale. Gli argomenti sono i più diversi: narrazioni agiografiche, celebrazioni liturgiche, esaltazioni teologiche, polemica morale e politica, novelle popolari, spunti comico-realistici, lirica erotica, spunti d'occasione, panegiristica, epitafi, descriptiones picturarum, ecc. I testi normalmente s'ispirano a Ovidio quando esaltano la componente sensuale e fisica della passione, o presentano una visione idealizzata dell'amore. Notevole poi la produzione di poesia religiosa che è soprattutto francese e si concretizza prevalentemente in inni, in tropi e sequenze. Le tematiche sono spesso tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Molteplici i centri di produzione. Da segnalare l'abbazia di Saint-Martial di Limoges e Notre-Dame a Parigi, dove vengono composti importanti canzonieri, che contengono testi dei poeti maggiori dell'epoca: Abelardo, Ildegarda di Bingen, Pietro di Blois, Gualtiero di Châtillon, Filippo il Cancelliere (alcuni sono tramandati anche dal codex Buranus). La grande poesia del XII secolo è particolarmente rappresentata da alcune raccolte di testi, canzonieri che prendono il nome dalla sede dei manoscritti che li conservano: si parla così di Carmina Burana (Benedektbeuern), Cantabrigensia (Cambridge), Ripollensia (Ripoll), ecc. Si tratta di una produzione prevalentemente anonima, opera dei cosiddetti clerici vagantes o goliardi. I Carmina Cantabrigiensia sono detti così dalla sede attuale (Cambridge) del codice che li attesta. Risalgono alla metà del secolo XI, e sono dovuti a poeti attivi in maggior parte nella Renania (zona della Germania molto latinizzata). I testi sono ritmici, di vari argomenti, tra cui molto rilevante è quello amoroso: notissimo O admirabile Veneris idolum forse del X secolo, O ammirevole immagine di Venere O di Venere mirabile immagine la cui sostanza nulla ha di imperfetto, ti protegga il Signore che ha fatto le stelle e i cieli e ha creato i mari e la terra. Ti sia remota l'astuzia del ladro,

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te ami Cloto, che regge la conocchia. «Salva il fanciullo», non lo dico per gioco, ma con fermezza scongiuro Lachesi, la sorella di Atropo, che non abbia a ghermirlo. Quando navigherai il fiume Adige, Nettuno e Teti ti siano compagni. Dove fuggi, di grazia, mentre io ti ho tanto amato? Misero che farò, senza vederti? La dura sostanza tratta dalle materne ossa, ha creato gli uomini con un lancio di sassi, uno di questi è il mio fanciullo, che non ha cuore per i miei lamenti lacrimevoli. Quando io sarò triste, godrà il rivale, grido di dolore come una cerva, quando fugge il cerbiatto.

Dovremo ricordare anche Iam dulcis amica venito, fortemente influenzato dal Cantico dei cantici, dove l'idea dell'amore tra uomo è donna è inserita all'interno di una descrizione naturalistica della campagna rifiorente a primavera.

Invito all'amica

«Vieni dunque tenera amica che amo come il mio cuore, entra nella mia stanza arricchita di ogni ornamento.

Vi sono pronti i sedili e la casa è adorna di tendaggi, fiori sono sparsi all'intorno e vi si mescolano aromi fragranti. È pronta una tavola imbandita, colma delle vivande più diverse; vi abbonda il limpido vino e tutto ciò che ti piace, o cara. Vengono eseguite musiche gradevoli,

e il suono del flauto si fa più brillante; un fanciullo e una ragazza colta

per te compongono carmi stupendi. Questi tocca la cetra con il plettro,

quella compone melodie sulla lira; i servitori portano vassoi colmi

di tazze colorate. Non amo tanto il convito

quanto il dolce colloquio che segue, non l'abbondanza straordinaria dei cibi ma la gradevole intimità.

Vieni dunque, sorella eletta fra tutti a me diletta, chiara luce delle mie pupille e parte maggiore dell'anima mia.»

«Sola fui nella selva,

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e preferii i luoghi segreti; spesso fuggii il tumulto ed evitai la folla.»

«Il ghiaccio e la neve si sciolgono ormai, le foglie e l'erba diventano verdi; l'usignolo canta nell'alto cielo: 1'amore arde nel profondo del cuore.

Perché tardare, carissima?

affrettiamoci ad amarci adesso; senza di te io non posso vivere: questo atto d'amore va compiuto.

A che giova rimandare, mia eletta, quello che alla fine si deve pur fare? Fai presto ciò che devi fare, da parte mia non v'è alcun indugio.» I Carmina Burana vengono così chiamati dal nome del monastero di Benediktbeuern, dove furono scoperti (il manoscritto che li attesta è oggi a Monaco di Baviera, clm 4660). Il codice fu approntato in Germania meridionale, nella prima metà del secolo XIII. La raccolta, nel suo complesso, presenta un livello letterario molto elevato: gli autori mostrano una padronanza linguistica e metrica e un sostrato di letture, classiche e medievali, del tutto rilevante. Vari i temi, espressi, per la maggior parte, con strutturazione ritmica: i più famosi sono i componimenti satirici (soprattutto quelli antiecclesiastici, contro la simonia e la corruzione del clero, regolare e secolare e contro la curia romana; ma non mancano i carmi di satira politica contro i principi laici); i temi satirici sfociano spesso in posizioni, oltre che licenziose, irriverenti se non addirittura blasfeme, com'è nel caso delle parodie liturgiche o testamentarie (Missa potatorum, Officium ribaldorum, Evangelium secundum marcas argenti, ecc.). Importanti anche i carmi di soggetto amoroso (Carmen Buranum 79) Nello splendore del sole dell'estate, quando ogni cosa è in fiore, ardevo tutto. Sotto un ulivo meraviglioso, stremato dalla calura e dal sudore, mi concedevo una tregua. Sorgeva l'albero in un prato dipinto di ogni specie di fiori; v'erano l'erba, una fonte, un ridente angolino, ma anche ombra e brezza. Nemmeno Platone avrebbe potuto descrivere luoghi più graziosi. Vi è una fonte d'acqua perenne, si aggiunge il canto dell'usignolo e i cori delle Naiadi; è un paradiso, quasi; non vi sono luoghi, io so, più dolci di questi. Mentre mi delizio gioendo di sentirmi così a mio agio di trovare sollievo alla calura,

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ecco splendere nella sua bellezza una pastorella senza rivali che raccoglie le more. La vedo e subito me ne innamoro; questa è opera di Venere, almeno credo. Le dico: «Vieni, non sono un masnadiero, nulla sottraggo, non ferisco, ti do me stesso e tutto ciò che possiedo, o fanciulla più bella di Flora!». Risponde con poche parole: «Non sono abituata ai giochi del maschio. Ho genitori severi; la madre è assai vecchia e si arrabbia per un nonnulla. Adesso lasciami andare!. e comico-realistico. Vi s'inneggia al godimento della vita e la vita è l'amore, inteso come attrazione sia spirituale sia puramente fisica, e la tavola (numerosi e molto famosi i carmi di lode del vino). L’io narrante di molti testi s'identifica col ‘clericus vagans’, lo studente universitario itinerante. Lo studente-poeta rivaleggia, ormai, e vince, sul cavaliere, nella corsa al cuore della donna amata: è frequente il tema, tipico della letteratura cortese in volgare, della donna sposata infelice che s'innamora di un terzo. Tra i clerici vagantes, alcuni nomi di rilievo: Gualtiero di Châtillon◄, Pietro Abelardo► e Pietro di Blois►. Male due figure maggiormente famose e importanti sono senz'altro quelle di Ugo d'Orléans e del cosiddetto Archipoeta. Ugo d'Orléans († 1160 circa), detto ‘il primate’ probabilmente perché considerato, per dottrina e capacità poetica, il «primo» rappresentante della poesia goliardica, lavora in diverse scuole cattedrali francesi (tra cui Orléans). Nei suoi testi (circa venticinque) riesce a delineare una figura precisa e caratterizzata di poeta e di uomo: un ribaldo malizioso, attaccabrighe, scontento, giocatore d'azzardo e gran questuante; si tratta però con buona probabilità di tòpoi letterari e la componente autobiografica è prevalentemente retorica. I suoi componimenti sono ricchi di arguzia e d'acutezza e vi si cantano spesso le donne e il vino; ma l'autore non è insensibile alla satira antiecclesiastica, come per esempio nel Pontificum spuma, contro un vescovo avaro che gli ha regalato un mantello assai frusto: Dialogo con il mantello «Schiuma dei vescovi, feccia del clero, sordida piaga, che d'inverno mi ha dato un mantello senza pelo.» «Chi ti ha dato questo indumento? O fu comperato? È forse tuo?» «È mio; ma chi melo ha dato, ha tolto la porpora.» «Chi ti fece questo dono?» «Lo fece un vescovo.» «Chi ti fece questo dono, con il dono ti diede il funerale. A che serve col freddo un mantello senza lana, senza pelo? Vedi che le nevi sono già qui; tu morirai nel gelo, non vivrai.» «Povero, consunto mantello, privo di pelo, senza pelle, allontana, se puoi, il vento di settentrione e la rabbia della tempesta; sii per me uno scudo, il freddo acuto non mi tramortisca. Penso di resistere ai venti, senza pericolo, grazie a te.» Dice allora il mantello: «Non ho pelo né lana, e senza pelo sono leggero, di trama sottile, senza alcuna protezione. Fosse per me il mordace Aquilone ti infilzerà come un giavellotto.

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Se Noto adirato soffierà per i buchi aperti, attraverso mille fori, da ogni parte il soffio ti investirà.» «Vedi, il freddo è già qui.» «Vedo, perché batti i denti dal freddo. Ma io non offrirò alcuna certezza, se non mi darai qualche pezzo di tessuto Sull'Archipoeta di Colonia († 1170 circa) le notizie provengono solo dai suoi stessi testi. Chierico, è molto vicino all'imperatore Federico I Barbarossa. Viaggia molto, soprattutto in Italia e in Francia. È uno dei migliori poeti del secolo XII (ma di lui ci restano solo una decina di testi). Notissima è la sua confessione di un vagabondo, Estuans intrinsecus. Confessione di un vagabondo Ardo nell'intimo d'ira furibonda e parlo con amarezza alla mia mente; fatto di materia leggera assomiglio a una foglia con la quale giocano i venti. Mentre è proprio della natura del sapiente porre le fondamenta sulla roccia, io, stolto, assomiglio a un fiume che scorre e mai indugia sotto lo stesso cielo. Vengo spinto alla deriva come nave senza timoniere, sono un uccello errante per le vie dell'aria, nessun legame mi trattiene, nessuna chiave mi vincola, cerco chi mi assomiglia e mi unisco ai malvagi. La gravezza del cuore mi sembra grave,

il gioco è amabile, più dolce del miele; qualunque cosa Venere ordini, è fatica gradevole:

mai essa dimora nei cuori indolenti. Come i giovani scelgo la strada più larga,

mi immergo nei vizi dimentico della virtù, più avido del piacere che della salvezza, morto nell'anima bado solo al mio corpo.

0 saggissimo vescovo, ti chiedo perdono;

muoio di una morte buona, sono ucciso da una fine dolce; la bellezza delle fanciulle ferisce il mio cuore e quelle che non posso toccare, le seduco con la mente.

Vincere la natura è cosa assai ardua

e avere la mente pura di fronte a una ragazza; noi giovani non possiamo osservare la dura legge e trascurare i loro teneri corpi.

Immerso nel fuoco chi di fuoco non brucerà? Chi può ritenersi casto vivendo a Pavia, dove Venere insegue i giovani con cenni, li irretisce con gli occhi, li conquista con la bellezza? Se tu oggi poni Ippolito a Pavia,

l'indomani non sarà più Ippolito; tutte le vie conducono al talamo di Venere,

tra tante torri, non v'è quella di Aletia. Poi mi si rimprovera per il gioco, eppure il gioco mi lascia nudo nel corpo,

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gelato all'esterno, sudo perché la mente è eccitata; solo allora compongo i versi e i migliori canti. Nel terzo capitolo ricordo la taverna; mai l'ho disprezzata e mai la disprezzerò, finché vedrò arrivare i santi angeli che cantano per i morti: «l'eterno riposo». Il mio proposito è di morire nella taverna perché il vino sia accanto alla bocca quando muoio. Canteranno allora lieti i cori degli angeli: «Sia Dio benevolo a questo beone!». Con le coppe si accende la luce dell'anima, il cuore ricolmo di nettare vola al cielo;

per me il vino della taverna ha un sapore più dolce di quello che, annacquato, mesce il coppiere del vescovo.

Ci sono poeti che evitano i luoghi pubblici

e scelgono sedi appartate, remote, studiano, si affaticano, non dormono, operano senza posa,

e alla fine producono a stento un'opera illustre. Digiunano e si astengono le schiere dei poeti,

evitano le pubbliche risse, i tumulti della piazza per compiere un'opera che li renda immortali

muoiono dallo studio sottomessi alla fatica. A ciascuno la natura dà un talento particolare,

io non ho mai potuto scrivere digiuno; digiuno, anche un ragazzino mi potrebbe vincere; odio la fame e la sete come un funerale.

La natura a ciascuno concede un suo dono; io scrivo versi bevendo vino buono, il vino più puro che hanno i barili degli osti; questo vino produce ricchezza di parole. I miei versi sono come il vino che bevo; nulla posso fare senza prima ingozzarmi, quando scrivo a digiuno le mie cose non valgono nulla, supero la poesia di Ovidio dopo aver bevuto. Il genio della poesia non mi accompagna se prima non ho saziato adeguatamente il ventre; quando Bacco è signore del mio cervello,

Febo in me fa irruzione e dice cose mirabili. Ecco, io stesso ho rivelato la mia malvagità, di cui mi accusano i tuoi servi; eppure nessuno di loro osa accusare se stesso sebbene anche costoro vogliano divertirsi e godere del mondo. Orsù in presenza del beato vescovo, in base alle regole del mandato divino mi scagli una pietra, non abbia pietà del poeta chi ha la coscienza immune da peccato. Contro di me ho detto quanto di me sapevo ho vomitato fino in fondo il veleno che avevo covato.

La vita passata io rifiuto, approvo i nuovi costumi; l'uomo vede l'aspetto esteriore, ma il cuore è palese a Giove.

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Amo oramai la virtù, vado in collera per i vizi; con animo rinnovato rinasco nello spirito; come fossi appena nato mi nutro di nuovo latte, perché non alberghi più a lungo la vanità nel mio cuore. Eletto vescovo di Colonia, sii pietoso con il penitente,

perdona a chi chiede pietà concedi la penitenza a chi confessa le proprie colpe;

subirò con animo lieto qualunque cosa tu mi ordini. Il re delle fiere, il leone, risparmia i sudditi

e verso i sudditi è dimentico della sua ira, agite così anche voi, o principi della terra:

è terribilmente crudele ciò che manca di dolcezza. III.3.4 La letteratura d'evasione (narrativa) Il genere narrativo, di pura fiction, è complessivamente scarso nella letteratura mediolatina, per la tendenza di questa a esser pragmatica, finalizzata, d'uso. Esso prende consistenza tra XI e XII secolo, entrando un po' in tutti i generi: succede nella letteratura agiografica, in quella storiografica, ma anche in testi come la Disciplina clericalis di Pietro d'Alfonsi (un trattato sull'istruzione dei chierici, ma in realtà un libro ironico, ricco d'aneddoti, di novelle, di favole: Esempio IX Un vendemmiatore. Un tale andò a vendemmiare. Sua moglie, vedendo questo, capì che egli sarebbe rimasto piuttosto a lungo nella vigna e, con un messaggero, convoca il suo amico e gli prepara un pranzo. Ma avvenne che il padrone di casa, colpito in un occhio da un tralcio della vite, dovette tornarsene indietro alla svelta, nulla vedendo dall’occhio offeso e, giunto dinanzi alla porta di casa sua, batté all’uscio. Capita la situazione, la moglie, assai turbata, nascose al piano di sopra l’amico che aveva fatto venire e poi corse ad aprire la porta al marito. Questi entrò, assai rattristato e dolente per la vicenda del suo occhio, e le chiese di preparargli la camera e di stendere un letto, dove potesse riposare. La donna ebbe timore che, entrato nella camera da letto, potesse vedervi l’amico suo che se ne stava nascosto. Allora gli disse: Perché tanta fretta di andare a letto? Dimmi prima che cosa ti è successo. Egli le raccontò tutto quello che gli era capitato. Permettimi, gli disse, carissimo marito, che io garantisca con l’arte della medicina e con un incantamento il tuo occhio sano per modo che anche a quello sano non succeda quanto mi è capitato a quello che è stato ferito, poiché la tua disgrazia è comune ad entrambi. E ponendo la sua bocca sull’occhio sano ristette a vezzeggiarlo sino a che l’amico poté scappar via dal luogo dove si era nascosto senza che il marito se ne potesse avvedere. Ora, disse, marito carissimo, sono sicura che a quest’occhio non capiterà nulla di simile a quello che è successo all’altro. Ora puoi, se ti aggrada, metterti a letto. Alla letteratura d'evasione può essere ascritto il De nugis curialium del gallese Gualtiero Map († 1209 circa). Chierico al servizio del re d'Inghilterra, dal 1197 è arcidiacono a Oxford. Spirito caustico, poliedrico narratore, grande intrattenitore, i suoi «passatempi degli uomini di corte» tradiscono già nel titolo l'impostazione cortese e dunque parzialmente ideologica, se non proprio politica, dello scritto. È un testo diseguale e disomogeneo, sia nello stile sia nei contenuti (alcuni non hanno attinenza col titolo): l'opera è un vero e proprio contenitore di aneddoti, ricordi, pettegolezzi, feroci invettive, e poi

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racconti fantastici, esortazioni morali (si pensi alla famosa lettera aperta sugli svantaggi del matrimonio, descrizioni di usanze locali, ecc. L'opera si apre, emblematicamente, con un'equiparazione della corte di Enrico II d'Inghilterra all'inferno, continuando con una serie di situazioni negative (la presa di Gerusalemme da parte del Saladino, l'uxoricidio perpetrato dal re del Portogallo, ecc.). Il secondo capitolo comprende storie edificanti, note etnologiche e antropologiche, spesso leggendarie. Racconti esemplari a lieto fine, cui è sottesa la morale cortese, costituiscono il terzo capitolo. Il quarto contiene l'esposizione di prodigi (tra cui quello della famosa fata Melusìna, la donna-serpente). L'ultimo capitolo comprende resoconti storici e aneddotici. Prologo del capitolo III: Quando i dignitari di corte si distolgono dagli affari di palazzo, stanchi per la vastità dei compiti assegnati dal re, si compiacciono di intrattenersi con la gente umile e di alleviare con distrazioni il peso delle cose serie. Allo stesso modo ti piaccia, quando vorrai prendere respiro dall'applicazione su un argomento filosofico o religioso, ascoltare o leggere per tua ricreazione e divertimento le mediocri ed esangui inezie di questo libro. Non affronto questioni da foro o temi seriosi; scendo sulla pista del teatro e dell'arena da pugile nudo ed inerme, quale tu hai deciso di mandarmi contro i cunei armati dei miei denigratori. Se Catone o Scipione o entrambi decidessero di visitare questo teatro e quest'arena, spero che mi vorranno perdonare e non mi giudicheranno troppo severamente. Tu mi ordini di scrivere per i posteri exempla che destino allegria o servano da edificazione morale. Benché questo incarico sia arduo per me, dato che il povero poeta non conosce gli antri delle Muse, non è difficile leggere o scrivere ciò che la bontà dei buoni fa diventare utile (ogni cosa infatti concorre al bene dei buoni) né affidare alla terra fertile dei semi che cresceranno. Ma chi può educare un animo perverso e dissoluto, quando la Scrittura insegna che “chi rivolge canti di lode ad un cuore malevolo ottiene l'effetto dell'aceto sul nitro”? Capitolo III,5 Rollone e sua moglie Rollone, uomo di grande fama e di notevoli capacità militari, esemplare per costumi e gioviale in ogni situazione, poiché non era geloso, aveva una moglie assai bella, per la quale si struggeva d'amore un giovane delle vicinanze, superiore a tutti i suoi coetanei e conterranei per aspetto fisico, lignaggio, ricchezza ed indole. Però questo giovane non aveva alcuna speranza4°; respinto con i più fermi rifiuti, cercava attentamente, tra le lacrime, di scoprire cosa gli mancasse per meritare l'amore. Infine mise a confronto Rollone, cavaliere di chiara fama, e se stesso, ragazzo ancora non uscito dalle pareti domestiche, che non aveva ancora fatto nulla, non aveva realizzato niente di egregio; pensò che era stato giustamente sprezzato e che non meritava di essere preferito all'altro, a meno che non fosse riuscito a superarlo. Riconobbe ingiusta la sua richiesta, giustissimo il rifiuto della donna. Ed ecco che si affretta, che anela a combattere, che prende parte a tutti gli scontri; impara le astuzie, le varie maniere e le possibili evenienze dei combattimenti, riceve dallo stesso Rollone il cinturone di cavaliere, per divenire più accetto a se stesso e poter conferire con maggior familiarità con la donna, o farle presente il suo tormento; ma se non gli fosse stato concesso altro che vederla, avrebbe affrontato lo stesso ogni cosa. Egli andava dovunque lo chiamasse il suo signore, l'amore, a tutti i conflitti armati e le liti, e quando ne trovava una languente e sopita, la risvegliava e la portava al culmine, e anche se non riusciva a suscitarla4l, era comunque il più capace ed il più tenace. In breve tempo, brillando su tutti, gli elogi di lui non si limitarono ai suoi vicini e, non superato da alcuno, perseguì, infervorato, più alti riconoscimenti. Abbatté schiere con corazze di ferro, muri e torri, ma lo spirito che lo aveva spinto a tutte le vittorie divenne effeminato, o meglio infeminato, poiché si trasformò in debolezza femminile; infatti egli, come una donna, correva senza criterio dietro ai suoi desideri, agnello dentro e leone fuori e, lui che diroccava i castelli degli stranieri, castrato dalle intime inquietudíni, finì col divenire rammollito, piangendo, supplicando e lamentandosi. Ella, non come una vergine o una virago, ma come un uomo, lo aborriva e lo disdegnava conducendolo alla disperazione con ogni mezzo in suo potere.

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Un giorno accadde che il giovane in questione incontrò Rollone che passeggiava con alla destra la moglie tanto desiderata da lui; fu da quello chiamato per nome, Reso, e si accompagnò per un tratto ai suoi signori e superiori, con affabili e rispettose espressioni, quindi, salutatili, se ne andò. Ella lo ignorò con insolenza. Rollone invece osservò a lungo, pensoso, Reso che si allontanava, poi distolse lo sguardo e proseguì in silenzio il cammino. La donna, sospettando e temendo che avesse capito qualcosa, gli chiese perché avesse a lungo guardato l'altro che non prestava attenzione. Rollone le fece: «Ho osservato volentieri qualcosa che vorrei sempre vedere, un nobile prodigio dei nostri tempi, uomo eccellente per stirpe, costumi e bellezza, ricchezze e fama, e per la simpatia del mondo intero, tale quale non si trova nei libri, beato sotto ogni aspetto»42. Ella, a sentire queste lodi, provando nell'animo più di quanto non potesse esprimere, osservò: «Non mi pare così bello e non ho udito nulla di buono su di lui». Tutt'altro però rimuginava tra sé e sé, e precisamente che Rollone aveva proprio ragione, e che quello che aveva udito da altri doveva essere creduto dopo l'avallo della sua testimonianza. Si pentì subito di averlo respinto, disperò immediatamente di riuscire a ri-scattare quello che era ormai accaduto, e quello stesso umilissimo uomo che ella aveva sprezzato nella sua superbia ora temeva di dover umilmente pregare subendo un trattamento arrogante. Quando, dopo la passeggiata, ella si ritirò nella sua stanza, avrebbe voluto piangere, ma si trattenne per timore di uno scandalo; in effetti i dolori provocati dal peccato cercano nascondigli e le figlie della notte abitano camere isolate e segrete. Quindi la donna si relegò nei recessi di un posto appartato e piangendo passò in rassegna le varie possibilità; alla fine optò per una decisione, abbastanza audace, che consisteva nel provare con un messaggero se egli si degnasse di venire. Il nunzio dell'innamorata volò e condusse alla donna infiammata l'uomo altrettanto ardente di desiderio, poi, al comando di lei, sparì. I due entrarono cauti in una camera recondita, allestita per loro e per Venere, per dar libero corso ai loro desideri; e mentre camminavano ella disse: «Ti chiederai forse, mio dolcissimo, qual è la causa per la quale io mi sia subito data a te dopo tanti crudeli rifiuti. La cagione è stata Rollone; io infatti. non avevo creduto a quello che si diceva su di te, ma, poiché lo so onestissimo, mi ha convinto la sua affermazione che tu eri più colto di Apollo, più dolce di Giove, più leonino di Marte, secondo la circostanza, il luogo ed i mezzi; e non c'è alcuna virtù riconosciuta agli dei, a parte l'eternità, che egli non abbia annoverato negli elogi per te. Gli ho creduto, lo confesso, e sono rimasta avvinta, ed eccomi qui ad offrirti quei piaceri che tu desideravi». E si distese, e lo attirò a sé: Reso si trasse indietro, e trattenendo la sua passione le rispose: «Giammai sia detto che Reso ricompensi con un'offesa Rollone per la sua magnanimità; non è cortese che io violi il suo talamo che il mondo intero non mi ha concesso e che lui stesso mi ha apprestato». Così desistette e se ne andò; avrebbe potuto ottenere il suo scopo, ma non volle commettere una mancanza; l'aveva piegata ad obbedirgli, e piegò se stesso a privarsi di lei; la prima vittoria fu a lungo rimandata, la seconda subito conseguita; quella di prevalere, ottenuta a prezzo di lunghe veglie, l'altra, di fuggire, conquistata con un breve ma severo autocontrollo; quella dolce ed allettante, questa amara e dolorosa, ma al tempo della messe il loro frutto avrà gusti diversi. Così, diversamente da quanto ci avrebbe ammannito Ovidio, la donna fu restituita dal giovane, benché desideroso, intatta, per quanto lo riguardava; ella però rimase nella stessa bruciante libidine, alla porta di Dione, nel precipizio di un'imminente rovina, nella disperazione della continenza. Chi non lo ammirerebbe e non lo imiterebbe se potesse? Certamente egli poté riuscire vittorioso per la grazia che lo seguiva. Fu forte o, meglio, Dio fu forte in entrambe le situazioni; lodevole, ma tutto gli veniva dal Signore. L'indolente verrà a conoscenza di ciò e starà ad aspettare la grazia; si scuserà e cadrà in colpa. Non sia ora così per noi; sappiamo - è vero – che senza di Lui non possiamo far niente ma sforziamoci come se tutto dipendesse da noi, e non ci manchi in alcuna occasione la fede o la speranza. Muoviamoci in modo da costringere Dio a stare con noi, sapendo che la nostra violenza Gli è gradita. La virtù, se ne indossiamo la veste, non ci lascia, ma ci segue spontaneamente dove la desideriamo e la conduciamo. Chi domina la carne, sfugge l'ira, e chi si pone un freno è guidato da Dio. La nostra gratitudine vada a Colui da cui ci viene la grazia. III.3.5 La letteratura politica Durante i secoli XI e XII fiorisce una notevole produzione sul potere e le tecniche del suo esercizio, con impostazione sia teorica (le sue finalità e le

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connessioni con la morale) sia pratica (relativa cioè a contingenti contrapposizioni Figura d'eccezione nel quadro della letteratura mediolatina è Pier Damiani (1007-72), un uomo che ha segnato davvero un secolo e un'età, anche dal punto di vista politico e morale. Nato a Ravenna, dopo una gioventù non esattamente irreprensibile, si «converte» improvvisamente e entra intorno al 1030 in una comunità eremitica nell'inaccessibile eremo camaldolese di Santa Croce di Fonte Avellana (sull'Appennino al confine tra Umbria e Marche). La produzione letteraria di Pier Damiani, in prosa e verso, è abbondante e diversificata. Molte delle sue lettere costituiscono veri e propri trattati su problemi centrali della Chiesa del suo tempo. Della poesia di Pier Damiani viene offerta una forte immagine della fine della vita e della meditazione sulla morte: Il giorno della morte Estremo giorno della vita, spaventoso mi atterrisci; si rattrista il cuore, i reni si spappolano, si contorcono i visceri ormai offesi, angosciata, la mente coglie la tua immagine. Chi mai potrà spiegare quel terribile spettacolo, quando l'anima, conclusa la vicenda della vita, vicina alla morte, combatte per affrancarsi dalla carne ammalata? I sensi si estinguono, la lingua si blocca, gli occhi strabuzzano, ansima il petto, la gola arrochita respira a stento, si irrigidiscono le membra, si fa pallido il viso, la bellezza abbandona il corpo. Ecco accorrere le schiere degli opposti spiriti; le virtù angeliche da una parte, le torme dei diavoli dall'altra, di più si avvicinano al morente quelli che il suo merito richiama. Rapidi si affacciano i pensieri, le parole, il tragitto compiuto, le opere è un gomitolo che ingigantisce davanti agli occhi di chi non vuole vederlo. Che si volga di qua, che guardi di là, vede tutto davanti a sé. La mordace coscienza affligge l'uomo in colpa, si lamenta che sia passato invano il tempo del riscatto. Né giova il tardo pentimento carico di pianto. Diventa amara la falsa dolcezza della carne, mentre alla breve voluttà segue l'eterna pena. Quando ciò che si credeva grande si rivela nulla. E così l'anima viene innalzata nella gloria della somma luce, disprezza il giogo della carne, dove era immersa e umiliata, e viene liberata come da una prigione. Ma, una volta uscita, l'anima esperimenta un duro cammino; infatti l'attaccano le schiere furibonde della crudele peste, e preparano diverse battaglie nei loro posti di combattimento. Infatti qui ci sono gli istigatori della gola, là dell'avarizia, in un'altra parte i sostenitori dell'ira, in un'altra quelli della superbia. La schiera di ogni vizio prepara le sue truppe. Infatti se si allontana uno squadrone, subito incalza un altro,

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viene sperimentata ogni arte bellica, ogni macchina da guerra, .perché l'anima non fugga a vergogna dei nemici. Quanto sono torvi i mostri di questi feroci combattenti! Deformi, truci, rabbiosi, emettono fiamme dalle narici, gonfiano il collo di drago, stillano veleno dalle fauci. Armano le mani esperte in battaglia con spirali di serpente attaccano con queste armi, come se fossero di ferro, quanti sopraggiungono, con queste armi affidano al fuoco quelli che riescono a trascinare. Ti chiedo, o Cristo, invincibile re, soccorri il misero, nel momento dell'ora estrema, quando su tuo comando me ne andrò. Né su di me sia concesso alcun diritto all'empio tiranno. Precipiti il principe delle tenebre, si ritragga l'inferno. Pastore conduci adesso in patria la pecora ormai redenta, dove per vivere possa io godere di te nei secoli. Amen. La produzione teorica della politica è ben rappresentata da uno dei maggiori esponenti della cultura del secolo XII, Giovanni di Salisbury (circa 11511-1180), un intellettuale «europeo»: inglese, studia a Parigi e a Chartres, dove ascolta Abelardo e Gilberto della Porretta, poi è allievo di Guglielmo di Conches e viene presentato da Bernardo di Chiaravalle all'arcivescovo di Canterbury, che lo nomina suo ambasciatore presso la corte pontificia. Diventa così in seguito segretario del «martire» arcivescovo di Canterbury Tommaso Becket (assassinato nel 1170 forse per ordine di re Enrico II), il che gli aliena le simpatie del re inglese. Ritornato in Francia, diventa arcivescovo di Chartres. Viaggiatore e lettore insaziabile, è uno degli uomini più colti del suo secolo, e conoscitore e amico dei grandi maestri della generazione precedente. Giovanni rappresenta l'esponente forse più noto dell'umanesimo del secolo XII: profonda è la sua conoscenza di auctores, sia classici sia medievali (Marziale, Svetonio, Gellio, Apuleio, Paolo Diacono, Giovanni Scoto, Aristotele). La sua produzione è vastissima. Quella teorico-politica si concretizza principalmente nel Policraticus, dove un'analisi a tutto campo, che spazia dall'antichità al secolo XII, gli consente di trattare di politica e di morale, descrivendo vivacemente anche il suo tempo. I primi sei libri scavano a fondo nelle abitudini e nei difetti dei cortigiani; poi viene proposta una serie di riforme della situazione ecclesiastica in Inghilterra, fondata su una difesa dei princìpi teocratici. Basandosi essenzialmente su Cicerone, Giovanni fornisce un'originale interpretazione del rapporto tra popolo e tiranno: è giusto abbattere il sovrano, quando questo si trasforma in tiranno. Entrambe queste posizioni sembrano avere come sfondo, naturalmente, l'affaire Becket: il comportamento di Enrico II d'Inghilterra nei confronti dell'arcivescovo di Canterbury, prevaricatore e arrogante prima, ambiguo e sospetto dopo l'uccisione del prelato. Nel Metalogicon, Giovanni affronta problemi relativi alle arti liberali e alla logica. L'opera è anche un commosso ricordo dei maestri coi quali ha studiato. Molto importante è anche l'Epistolario, ricco di riferimenti all'attualità storica e politica. E anche qui torna la «questione Becket», intorno alla quale Giovanni cerca di far luce, nella ridda di voci, di sospetti, d’impressioni che l'«assassinio nella cattedrale» suscitò nell'immediato, ma anche nei secoli successivi. Giovanni scrive anche una vita del grande arcivescovo (Vita Thomae), impegnandosi nel processo di beatificazione.

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Altro ingegno versatile, grande viaggiatore, conoscitore di molteplici realtà culturali, ecclesiastiche e politiche, è Pietro di Blois († 1212). Studia a Tours, a Orléans, a Bologna e a Parigi. Negli anni sessanta è a Palermo, precettore del re di Sicilia Guglielmo II; poi è di nuovo in Francia, infine in Inghilterra, cancelliere dell'arcivescovo di Canterbury Riccardo. Nel 1195 è nominato arcidiacono di Bath, poi va ancora al servizio di potenti signori. Autentica figura d'intellettuale itinerante, poliedrico e vivace, è autore di numerose opere ascrivibili a diversi generi letterari. Molto importante è la sua corrispondenza: una testimonianza eccezionale della vita politica, culturale e morale dell'Europa occidentale della seconda metà del secolo XII, in quanto interlocutori di Pietro sono importanti personaggi della storia del periodo. Ma l'arcidiacono di Bath è anche eccellente poeta, uno dei migliori del secolo, insieme a Gualtiero di Châtillon, come si può osservare nella lirica seguente: (Carmen Buranum 72) Venere grazie, divinità benevola tu mi hai sorriso sulla mia ragazza ho trionfato, gioia gradita gioia sperata. Compiuta avevo una lunga milizia senza ottenere il soldo patteggiato; adesso mi sento beato, sento che si rasserena il volto di Venere. Questa ragazza io potevo guardarla, parlarle, toccarla, baciarla; mancava invece la meta estrema e la più dolce dell'amore. E se non la varcherò tutte le cose già date sono soltanto ragione di furore. Mi avvicino alla meta, lei con un tenero pianto mi infiamma senza posa mentre esita a schiudere le barriere verginali del pudore. Bevo le sue dolcissime lacrime; così più mi inebrio, più brucio di passione. Di lacrime bagnati

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i baci hanno maggior sapore, ancor di più ottundono la mente con arcana dolcezza. Son così catturato sempre più, e più violenta arde la fiamma del desiderio: Ma di Coronide il dolore fra singhiozzi gonfi di pianto cresce violento né con le preghiere si addolcisce. Alle preghiere aggiungo preghiere ai baci i baci; lei aggiunge il pianto al pianto, i rimbrotti alle ingiurie, a volte mi guarda con un'occhiata di odio, a volte supplichevole. Infatti ora litiga, nemica, ora implora; e quando carezzevole dolcemente chiedo, più sorda diviene alle mie preghiere ………………..

III.3.6 La filosofia e la teologia Si tratta del comparto del sapere che maggiormente caratterizza il periodo tra XI e XII secolo. Tra filosofia e teologia, nell'alto medioevo, il rapporto era di subordinazione della prima alla seconda; tra XI e XII secolo questa dipendenza si allenta, senza tuttavia giungere alla rottura definitiva (tranne in qualche caso estremo), ma piuttosto cercando strade d'incontro, per quella conciliazione tra fede e ragione che è la grande scommessa - e forse utopia - del basso medioevo. All'interno della teologia penetrano i metodi filosofici; e questi vengono profondamente modificati dalla crescita d'importanza della logica. Nell'XI secolo, le posizioni sono ancora abbastanza rigide e si assiste a veri e propri scontri tra i «logici» e i «mistici» (Berengario contro Lanfranco, Roscellino contro Anselmo, Abelardo contro Bernardo); ma in realtà il vero tentativo è di coniugare dialettica e rivelazione, filosofia e teologia, logica e dogma. Il secolo XII è caratterizzato, in filosofia, dal «ritorno» di Aristotele in Occidente (lo Stagirita è conosciuto, per tutto l'alto medioevo, esclusivamente attraverso le traduzioni boeziane delle Categorie e del De interpretatione, la cosiddetta Logica vetus). La prima metà del secolo assiste a un massiccio arrivo di traduzioni (spesso anonime): in particolare l'Organon (Analitici primi, Analitici secondi, Topici ed Elenchi), il gruppo di opere cioè che costituivano lo «strumento» della conoscenza. Nei cent'anni successivi vengono tradotte quasi tutte le altre: quelle speculative e quelle pratiche (etica, politica, estetica, ecc.), secondo due grandi correnti di lavoro, che si distinguono sia metodologicamente sia geograficamente: traduzioni «indirette», dall'arabo, in Spagna; traduzioni direttamente dal greco, in Sicilia. Ruolo importante svolge la Sicilia, dove si operano una serie di traduzioni direttamente dal greco (l'Italia meridionale rimane sino alla fine del secolo XI

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nell'orbita politica, e ancora rimarrà, almeno fino all'età angioma, in quella culturale e linguistica, di Bisanzio). La teologia tra XI e XII secolo si organizza intorno ad alcuni poli di particolare importanza: la scuola dell'abbazia normanna di Bec, fondata dall'italiano Lanfranco da Pavia; poi le due scuole d'indirizzo platonizzante, quella di Chartres e di San Vittore di Parigi; essa è fondata sul massiccio intervento della logica e della dialettica nel procedimento di accertamento della verità. Pensatore d'eccezione, maestro accattivante e trascinatore, polemista arguto, uomo passionale e sfortunato, poeta e scrittore raffinatissimo è il filosofo medievale forse più conosciuto dopo san Tommaso, Pietro Abelardo (1079-1142), originario del Pallet (o Palais), in Bretagna. Peccatore e mondano quanto asceta e mistico, è uomo dalla vita avventurosa e travagliatissima, dove pubblico e privato s'intrecciano in maniera incredibile, dando vita a una delle figure più affascinanti del medioevo. Allievo di Roscellino, segue a Parigi le lezioni di Guglielmo di Champeaux. Apre poi, prima a Melun poi a Corbeil, una propria scuola. Tra il 1114 e il 1118 insegna teologia presso la scuola cattedrale di Notre-Dame a Parigi, dove ottiene un successo eccezionale. Intanto s'innamora della nipote di Fulberto, canonico di Notre-Dame, Eloisa, della quale funge da precettore. La ragazza resta gravida (il bambino si chiamerà Astrolabio. Abelardo allora fa fuggire Eloisa in Bretagna, presso i suoi parenti e la sposa: ma, per non bloccare la sua carriera di maestro, tiene il matrimoio segreto. Lo zio della ragazza, furibondo, organizza una spedizione punitiva, che si conclude con l'evirazione di Abelardo e uno scandalo inimmaginabile. La carriera è così repentinamente spezzata, e i due sposi decidono di rinchiudersi entrambi in monastero (1119): Pietro a Saint-Denis, Eloisa ad Argenteuil (dove morirà nel 1164). In seguito, il filosofo ottiene dal suo abate il permesso di tornare all'insegnamento, ma al concilio di Soissons (1121) egli viene condannato e incarcerato. Lasciato Saint-Denis, si dà alla vita eremitica nella Champagne; poi, nel 1123, fonda vicino a Troyes l'oratorio del Paracleto: accorrono giovani da tutta la Francia per poterne ascoltare l'insegnamento; il Paracleto si trasforma ben presto in una vera e propria scuola, seguitissima e affollatissima. Si riapre allora, ancor più violenta, l'ostilità dei suoi avversari dottrinali, guidata stavolta da Bernardo di Chiaravalle. Abelardo è costretto a lasciare il Paracleto (donandolo a Eloisa e alle sue monache) e a ritirarsi prima in Bretagna, poi al monastero di Saint-Gyldas. In seguito, sempre perseguitato dal Cisterciense, si rifugia a Cluny, presso l'abate Pietro il Venerabile († 1156. Pietro è uno degli spiriti più illuminati e tolleranti dell'Occidente cristiano, come può emergere dal fatto che fece tradurre in latino il Corano, al fine di render più agevole il compito a coloro che tentavano di convertire i musulmani). E a Cluny Abelardo muore, nel 1142. Dal punto di vista filosofico la sua azione (didattica e scientifica) è dirompente: maestro allo studio di Parigi, che anche grazie a lui sorpassa in quegli anni la fama di Chartres, viene tacciato di eresia e condannato in ben due concili: a Soissons nel 1121 e a Sens nel 1140. Le sue opere teologico-filosofiche più rilevanti sono la Theologia, il Sic et non, la Dialectica, il De unitate et trinitate divina, la Logica ingredientibus (cioè ‘per principianti’), l'Ethica. Abelardo importa massicciamente il metodo dialettico e razionale nella teologia, giungendo, o rischiando di giungere, a conclusioni che sfiorano l'eresia e che costringono i suoi avversari a chiederne la condanna. Nella Theologia infatti sostiene che le verità divine vengono raggiunte mediante la ragione, e

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mediante la ragione naturale possono esser dimostrate, non soltanto attraverso l'insegnamento cristiano. Col Sic et non mette a confronto, a due a due, tutta una serie di passi della Scrittura e dei Padri che si contraddicono clamorosamente. Nell'Ethica, la sua maggiore - e più pericolosa! - innovazione è quella dell'importanza, nella valutazione del peccato, dell'intenzione del soggetto. Tale idea, ovvia nell'odierna concezione del diritto penale, era invece impossibile nella teologia medievale: sostenendo che, perché esista colpevolezza di un peccato, è necessaria l'intenzione di compierlo da parte del suo autore, essa viene automaticamente a negare il concetto di peccato originale, alla base della teologia morale del cattolicesimo (anche quelli che mandarono a morte Cristo erano innocenti, perché pensavano di fare una cosa giusta!). Ma paradossalmente, più che come filosofo, Abelardo è famoso in quanto autore di uno dei capolavori della letteratura (amorosa) medievale: l’Historia calamitatum (cioè ‘la storia delle mie sventure’) e il carteggio con la sua donna, Eloisa. Questi testi costituiscono il suo epistolario, se e quanto fittizio ancora al vaglio di una critica laceratissima; dopo la separazione dalla sua Eloisa, i due si erano ritirati in due diversi monasteri, ed era cominciata la corrispondenza. La donna che gli ha dato un figlio, e dalla quale è stato violentemente diviso dall'intervento dello zio di lei, fa di tutto per convincerlo che il vero amore è quello libero, non quello cui si è legati da un contratto. In un latino tanto appassionato quanto elegante, una confessione profonda e una riflessione accorata sulla propria gioventù, sui propri ideali, sugli errori, sulle vanità, di lui, l'intellettuale più à la page di Francia agli inizi del secolo. La rievocazione dell'innamoramento tra i due, verificatosi tra i libri (Abelardo fungeva da maestro di Eloisa), ricorda per intensità e commozione il «libro Galeotto» che porta all'innamoramento e alla perdizione Paolo e Francesca nel canto V dell'Inferno dantesco. Abelardo vuol convincere Eloisa a un'adesione completa ed effettiva alla vita claustrale (alla quale peraltro l'ha costretta lui per gelosia, dopo gli episodi tragici del matrimonio, del parto e dell'evirazione). Uno stile di cui i classici fanno parte integrante serve ad Abelardo per rivivere quelle disgrazie che comunque l'hanno condotto a un riavvicinamento sincero e profondo a Dio e serve a Eloisa (se sono effettivamente sue - come sembra - le lettere a sua firma nell'epistolario) per autoanalizzarsi e per fissare nel tempo quell'amore che è diventato letterariamente antonomastico. Anche Eloisa riesce a effettuare uno scavo psicologico del fenomeno amoroso veramente notevole, collocando l'epistolario a pieno titolo all'interno degli scritti sulla concezione d'amore che ormai erano ben attestati nella letteratura volgare, soprattutto in quella francese e provenzale. Viene riprodotta qui la traduzione della celeberrima II epistola, diretta da Eloisa ad Abelardo: Al suo signore e padre, allo sposo e fratello; la sua ancella e figlia, la sua sposa e sorella: ad Abelardo Eloisa. Carissimo, poco fa per puro caso mi è capitata fra le mani la lettera pietosa e compassionevole che avete scritto ad un amico. Subito, dalla intestazione stessa, ho capito che era vostra, e mi son messa a leggerla con un entusiasmo pari soltanto all'affetto che porto a chi l'ha scritta: ho voluto, per così dire, ritrovare nelle sue parole l'immagine di colui che non è più con me. Ma quasi ogni riga della lettera - mi è rimasta tutta nella memoria - era piena di fiele e di assenzio, né, forse, poteva essere diversamente, dal momento che non vi si narra altro che la infelice storia che ci ha portati in monastero e le sofferenze che quotidianamente ti travagliano, mio unico bene.

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Certo nella lettera hai conseguito lo scopo che ti eri ripromesso all'inizio: il tuo amico deve aver capito che le sue pene sono poca cosa o nulla addirittura, in confronto alle tue. Infatti, dopo aver ricordato le persecuzioni che hai sofferto da parte dei tuoi maestri e il terribile oltraggio che proditoriamente è stato inflitto al tuo corpo, hai denunciato con estremo vigore l'odioso atteggiamento di invidia dei tuoi stessi condiscepoli, Alberico di Reims e Lotulfo Lombardo. Non hai trascurato di ricordare né la sorte toccata al tuo glorioso trattato di teologia, né ciò che accadde a te, quando quasi fosti messo in prigione, in conseguenza delle calunnie di quei signori. Sei passato poi a raccontare gli imbrogli dell'abate e degli altri tuoi falsi confratelli, e le gravissime calunnie di cui sei stato fatto oggetto da parte di quei due falsi apostoli suscitati dai tuoi soliti rivali. Parli poi dello scandalo suscitato nella gente comune dal fatto che, andando contro la tradizione, hai consacrato il tuo oratorio al Paracleto; e, infine, hai concluso questo tragico quadro alludendo alle insopportabili persecuzioni che ancora adesso, come affermi, ti infliggono quel crudelissimo aguzzino e quei monaci che hai il coraggio di chiamare figli. Sono convinta che nessuno potrebbe leggere o ascoltare tutto ciò senza piangere. Quanto a me, ti confesso che ho sofferto tanto più quanto più crudi e precisi erano i particolari: ma quello che soprattutto mi preoccupa è il saperti tuttora in pericolo: qui noi' siamo tutte in ansia per la tua vita e in cuor nostro trepidiamo e palpitiamo per te, al punto che ci aspettiamo da un momento all'altro di venire a sapere che sei morto. Così, in nome di colui che ancora, in qualche modo, ti protegge, in nome di Cristo, noi, sue e tue serve, ti scongiuriamo di degnarti di tenerci informate, almeno per lettera, delle tempeste che ancora ti investono. Noi siamo tutto quello che ti rimane al mondo, e vogliamo dividere con te ogni dolore e ogni gioia: di solito, infatti, quando si soffre, fa piacere e conforta un po' il sapere che qualcuno partecipa al nostro dolore, e un fardello, se lo si porta in molti, pare meno pesante, più facile da sopportare. Se poi le acque nel frattempo si saranno calmate, affrettati ugualmente a scriverci, perché la nostra gioia sarà grande. E poi, non avrà molta importanza il tenore delle tue lettere; scrivendoci tu ci recherai sempre un non piccolo conforto, perché, se non altro, capiremo che non ci dimentichi. Quanto sia bello ricevere lettere dagli amici lontani, ce lo dimostra con un esempio personale anche Seneca, che scrivendo all'amico Lucilio a un certo punto' dice: « Mi scrivi spesso, e io te ne sono grato. Così mi vieni a trovare nell'unico modo che ti è possibile: ogni volta che ricevo una tua lettera, mi sembra di essere ancora con te. E se i ritratti degli amici lontani ci sono cari, perché ce li ricordano e ci consolano della loro lontananza, anche se è un povero conforto, quanto piacere possono farci le lettere, che ci portano la vera voce di un amico lontano! ». E, grazie a Dio, tu puoi ancora darci questa gioia: nessuno ti proibisce di scriverci, nulla te lo impedisce e, mi auguro, non sarà certo la tua pigrizia la causa di un eventuale ritardo. Hai scritto al tuo amico una lunga lettera per consolarlo delle sue sventure, è vero, ma è delle tue che gli parli. E ricordando ad una ad una le tue disgrazie per confortarlo, ci hai gettate nello sconforto: così, mentre cercavi di guarire le sue ferite, hai aperto nuove piaghe nel nostro dolore e hai allargato quelle di un tempo. Ora guarisci, ti scongiuro, il male che hai fatto tu stesso, visto che hai trovato il modo di curare quello che altri hanno fatto. Agendo come hai agito, ti sei comportato da vero amico, hai saputo pagare il tuo debito all'amicizia e al ricordo della vita che avete trascorso insieme: ma il debito che ti lega a noi è ben più grande, perché noi per te siamo più che amiche, siamo più che compagne, siamo figlie, e figlie ci puoi chiamare, se non sai trovare un nome più dolce o più santo. Del resto, se tu avessi qualche dubbio, non sarebbe proprio il caso di andare a cercare prove a testimonianza della grandezza del debito che ti lega a noi: anche se tutti tacessero parlerebbero i fatti. Tu solo, dopo Dio, tu solo hai fatto nascere questo luogo, tu hai costruito questo oratorio, tu hai dato vita a questa comunità. Qui prima non c'era nulla, e tutto quello che ora vi sorge è opera tua. Qui un giorno si aggiravano solo belve o banditi: non c'era né una capanna né una casa. E là tra le tane delle belve e i covi dei banditi, là dove di solito non si sente neppure nominare il nome di Dio, hai innalzato un divino tabernacolo e hai dedicato un tempio esclusivamente allo Spirito Santo. Per questa tua opera non hai chiesto aiuto a nessuno, né a re né a principi, anche se avresti potuto domandarne e averne in gran misura: tutto doveva essere attribuito a te solo. Chierici e discepoli allora corsero a gara qui per seguire le tue lezioni, e ti procuravano tutto quello di cui avevi bisogno; e anche coloro che vivevano di benefici ecclesiastici ed erano abituati a ricevere offerte piuttosto che a farne, anche coloro che fino ad allora non avevano avuto le mani che per prendere, per te diventavano generosi e quasi ti soffocavano con le loro offerte. Tuo, dunque, tutto tuo è il merito di questa nuova piantagione nel campo del Signore: ma, per crescere, i teneri virgulti di cui è ricca hanno bisogno di essere innaffiati. Per la natura stessa e il sesso di coloro che la abitano, questa piantagione è debole, e sarebbe debole anche se non

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fosse tanto giovane: e anche per questo deve essere curata con più amore e con maggiore assiduità, secondo le parole dell'Apostolo:' « Io l'ho piantata, Apollo l'ha irrigata, ma è Dio che l'ha fatta crescere > : e in effetti l'Apostolo con la sua predicazione aveva piantato, cioè fondato nella fede i Corinzi ai quali scriveva; il suo discepolo Apollo aveva poi provveduto a irrigarli con le sue sante esortazioni, e infine la grazia divina era intervenuta direttamente per farli crescere nella virtù. È inutile che ti metta a coltivare una vigna che non hai piantato tu,` una vigna la cui dolcezza, certo, si è trasformata per te in amarezza: le tue continue ammonizioni sono inutili, e vane sono le tue sante prediche: pensa a quel che puoi fare nella tua vigna, invece di sciupare così il tempo per la vigna di un altro. Tu ti sforzi di istruire e guidare gente che non vuole essere istruita e guidata, e così non ottieni nessun risultato: invano tu spargi davanti ai porci le perle' della parola divina. Se sprechi tanto tempo con persone che non ti stanno neppure ad ascoltare, pensa che cosa dovresti dare a chi ti segue e ti ubbidisce. Se tanto ti sacrifichi per i tuoi nemici, che cosa dovresti dare alle tue figlie? E anche a voler trascurare tutte le altre, pensa di quanto sei debitore a me: tutte le altre si sono consacrate a Dio, io invece mi sono consacrata a te. 1 santi Padri hanno indirizzato numerosi e profondi trattati alle monache, per istruirle, per esortarle e anche per consolarle: e certo tu, intelligente come sei, sai meglio di noi, povere donne, con quanto amore e con quanto zelo abbiano atteso a questo genere di lavoro. Ma io ora mi stupisco non poco vedendo che da lungo tempo ormai 8 tu hai come dimenticato gli inizi ancor fragili della nostra vita monastica: e niente, né il rispetto di Dio, né l'amore per me, né l'esempio dei santi Padri, sembra possa indurti a confortare e ad aiutare con le tue parole o anche solo con una lettera questa tua povera Eloisa che è in preda all'incertezza e che si sente quasi morire a causa del lungo dolore patito. Eppure tu sai bene che a legarci c'è anche il sacro vincolo del matrimonio, e sai bene che io ti ho amato sempre di un amore senza fine. Tu sai, mio caro - perché lo sanno tutti -, quel che ho perduto perdendo te. Tu sai quel che ha voluto dire per me la terribile vicenda, ormai nota a tutti, che mi ha strappata dal mondo insieme con te: eppure quello che mi fa più soffrire non è il dolore in sé, ma il fatto di non averti più con me. E allora, quanto maggiore è la causa del mio dolore, tanto più efficaci devono essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli, e non un altro, perché tu solo, tu che sei la causa del mio dolore, tu solo puoi aiutarmi. Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre ubbidito con fervore, ho sempre fatto quello che tu mi dicevi di fare, tant'è vero che, non potendo oppormi in alcun modo a te, non ho esitato, a un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa. Ma sono andata anche più in là. Può sembrare strano, ma ero talmente pazza d'amore che ho rinunciato perfino all'uomo che amavo, senza alcuna speranza di poterlo un giorno riavere; una tua parola è bastata perché con l'abito mutassi anche il cuore; e con questo ho voluto dimostrarti che tu eri l'unico padrone non solo del mio corpo ma anche della mia anima. In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non miravo a farmi sposare né a farmi mantenere; non volevo soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più sacro e più valido, io preferivo essere per te un'amica, una compagna, perfino una concubina, se non ti offendi, o una sgualdrina. Mi sarei annullata di fronte a te, paga soltanto del tuo amore, e sarei vissuta all'ombra della tua grandezza. Tu stesso, del resto, parlando di te nella lettera che hai scritto al tuo amico per consolarlo, dimostri di non aver dimenticato del tutto queste cose. Tuttavia, anche se gli esponi qualcuno dei motivi che io adducevo per costringerti a rinunciare a un matrimonio che consideravo dannoso, hai taciuto quasi tutte le ragioni che mi facevano preferire l'amore al matrimonio, la libertà a una catena. Chiamo Dio a testimone: se Augusto stesso, il padrone del mondo, si fosse degnato di chiedermi in sposa e mi avesse offerto il dominio perpetuo sul mondo, per me sarebbe stato più dolce e più bello essere considerata una prostituta qualsiasi e stare con te, piuttosto che essere un'imperatrice con lui. Essere ricco e potente non significa essere anche grande: la prima qualità dipende dalla fortuna, la seconda dai meriti personali. Sposare un uomo perché è ricco vuol dire vendersi, vuol dire amare il suo denaro, non lui: e colei che si sposa per interesse merita di essere pagata, non di essere amata: una donna simile vuole il denaro, non un marito, e si può stare sicuri che appena potrà andrà a vendersi a uno più ricco. Questa è la conclusione cui arriva la saggia Aspasia, secondo quanto ci riferisce Eschine, discepolo di Socrate, alla fine della sua discussione con Senofonte e sua moglie. Quella dottissima donna, che si era proposta di riconciliare i due coniugi, alla fine conclude: « Solo quando vi convincerete che non c'è sulla terra un uomo migliore né una donna più amabile,

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capirete di aver conseguito l'unica cosa veramente importante: tu ti renderai conto di essere il marito della migliore delle donne e tu di essere la moglie del migliore dei mariti ».'° Ecco un concetto più santo che filosofico: qui si tratta di saggezza, non di filosofia. Davvero fortunati gli sposi che, per una sorta di errore o per un felice inganno, grazie a un perfetto accordo conservano anche nella vita matrimoniale la loro purezza, e non praticando la continenza dei corpi, ma serbando il pudore delle anime! E quello che le altre donne capiscono solo attraverso l'errore, per me era una verità chiara ed evidente: in effetti quello che soltanto ciascuna di esse poteva pensare del proprio marito, di te non ero solo io a pensarlo ma il mondo intero, il quale non solo lo pensava, ma lo sapeva; e il mio amore per te, così, era tanto più vero quanto più lontano dall'errore. Quale re o quale filosofo, infatti, poteva vantare una fama pari alla tua? Quale regione, città o paese non era agitato dal desiderio di vederti? Chi, dimmi, non si precipitava a vederti le rare volte che apparivi in pubblico e non ti seguiva con gli occhi fissi, tendendo il collo, quando te ne andavi? Quale sposa o quale vergine non si consumava per te quando non c'eri e non diventava di fiamma quando le stavi accanto? Quale regina, quale principessa non invidiava le mie gioie e il mio letto? Tu avevi due cose in particolare che suscitavano l'interesse delle donne, il tuo modo di parlare e la dolcezza con cui cantavi, due cose che di solito i filosofi non hanno. Ed è proprio grazie a queste tue doti che, quasi per riposarti dai faticosi esercizi filosofici, hai composto tante poesie e canzoni d'amore che poi, cantate dappertutto, per la loro eccezionale dolcezza musicale e poetica, facevano di te l'oggetto delle comuni conversazioni; e la vaghezza stessa delle melodie ti aveva reso famoso anche presso coloro che altrimenti mai ti avrebbero conosciuto." Le donne sospiravano d'amore per te soprattutto per questo, e poiché la maggior parte di quelle poesie cantavano il nostro amore, ben presto anche il mio nome si diffuse in parecchi paesi, e io divenni oggetto di invidia agli occhi di molte donne. D'altra parte bisogna anche dire che eri giovane, bello e intelligente. E sono sicura che chiunque, fra le donne che allora mi invidiavano, oggi mi capirebbe e mi compatirebbe sapendomi privata di tali delizie. Chi è quell'uomo o chi è quella donna che, per ostile e nemica che sia, ora non proverebbe un senso di giusta compassione nei miei confronti? Sono colpevole, colpevole sotto ogni aspetto, ma sono anche innocente, completamente inno-cente,'2 tu lo sai bene, perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto ma nell'intenzione di chi lo compie: la giustizia valuta non l'atto in sé ma il pensiero che ha ispirato l'atto.` E a questo punto solo tu che li hai provati, puoi giudicare e valutare i sentimenti che ho nutrito per te. Rimetto tutto al tuo esame, mi rimetto completamente a te. Dimmi soltanto, se puoi, perché dopo il nostro ritiro in convento, ritiro che tu solo hai deciso, hai cominciato a trascurarmi tanto e a dimenticarti tanto di me, al punto che né mi vieni a trovare, né mi scrivi." Rispondimi, ti prego, se puoi, altrimenti sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l'affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d'affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni. E questa, amore mio, non è la mia opinione, ma l'opinione di tutti: non sono io che penso così, ma tutti; è una cosa di pubblico dominio. Volesse il cielo che fosse soltanto una mia sensazione, e che il tuo amore potesse inventare una scusa qualsiasi, per calmare un poco, non tanto, il mio dolore! Io stessa vorrei poter trovare dei buoni motivi per scusarti e giustificare in qualche modo anche la mia mancanza di fiducia. Ascolta, ti prego, quello che ti chiedo: è una cosa da nulla e per te sarà facilissimo accontentarmi. Finché mi sarà negata la gioia di vederti, non privarmi almeno del piacere di sentirti vicino grazie a una tua lettera - e una lettera a te non costa fatica. E come potrò sperare da te un aiuto materiale, se ti trovo così avaro perfino di parole? E pensare che finora avevo creduto di poter ottenere tutto da te, visto che ti ho sempre ubbidito e che anche adesso continuo a ubbidirti. Perché tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell'austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine: e ora giudica pure tu a che cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola. Sta' pur sicuro che da Dio non mi aspetto alcuna ricompensa, perché so che per amore di lui finora non ho fatto assolutamente nulla. Quando ti sei incamminato verso Dio ti ho seguito, anzi ti ho preceduto. Forse ti sei ricordato della moglie di Loth, che si voltò indietro," e hai voluto che io mi legassi a Dio, prendendo l'abito religioso e i voti monastici prima di te. E questa tua mancanza di fiducia nei miei confronti -l'unica, è vero - mi ha riempita di dolore e di vergogna, adesso posso dirtelo: io non avrei esitato un attimo a precederti o a seguirti anche all'inferno» se tu me lo avessi ordinato, Dio mi è testimone. Il mio cuore non era più con me, era con te. E anche ora, più che mai, se non è lì con te non è da nessuna parte. Senza di te non può stare, ma tu fa' in modo che con

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te stia bene, ti prego. E sai che si troverà bene con te, se ti troverà ben disposto, se gli darai amore in cambio dell'amore che ti porta, anche poco in cambio di tanto, di tantissimo, una parola di conforto in cambio di tante prove d'affetto. Se tu fossi meno sicuro del mio amore, carissimo, forse ti preoccuperesti di più e saresti più sollecito. Ma ho fatto tanto per renderti sicuro del mio amore, ed ora ti sento indifferente e lontano. Ricordati però, ti scongiuro, di tutto quello che ho fatto per te, e pensa un po' anche a quello che mi devi. Finché io godevo con te i piaceri della carne, qualcuno poteva domandarsi se io lo facessi per amore o per soddisfare la mia voglia: ma ora, il risultato ultimo di tutto dimostra quale fosse in realtà il sentimento che mi animava fin dall'inizio. Ho rinunciato a qualsiasi forma di piacere, per attenermi alla tua volontà: per me non ho serbato nulla, se non la possibilità di essere tua, solo tua. Come sei ingiusto se, nonostante quel che ho fatto per te, adesso mi trascuri, anzi quasi dimentichi che esisto! E pensare che quello che ti chiedo è ben poco, e per te facilissimo! In nome di colui al quale ti, sei consacrato, in nome di Dio, ti supplico: fammi il dono della tua presenza, nell'unico modo che ti è possibile, cioè scrivendomi qualche parola di conforto; fallo almeno perché io possa trovare nelle tue lettere la forza di dedicarmi con più zelo al servizio del Signore. Un tempo, quando mi cercavi per soddisfare il tuo piacere, mi venivi a trovare spessissimo con i tuoi scritti e grazie alle tue poesie il nome della tua Eloisa era sulle labbra di tutti: in ogni piazza e in ogni casa risuonava il mio nome. E non sarebbe più giusto che tu oggi incitassi all'amore di Dio colei che un giorno spingevi al piacere? Ricorda, ti prego, quello che mi devi, considera quello che ti chiedo. Termino questa lunga lettera con poche parole: addio, mio unico bene. Abelardo è autore anche di pregevoli poesie, tra cui il carme gnomico dedicato al figlio (Carmen ad Astrolabium): Al figlio Astrolabio (vv. 1-28) Astrolabio, figlio mio, dolcezza della vita di un padre, ti lascio poche regole per il tuo insegnamento. La tua attenzione sia maggiormente rivolta all'apprendere che all'insegnare per un verso gioverai agli altri, per un altro a te. Quando non avrai più nulla da imparare, smetti; ma non dire che avresti dovuto smettere prima. Fai attenzione a che cosa è stato detto, non a chi l'ha detto le cose ben dette danno al loro autore un nome. Non credere ciecamente alle parole di un maestro a te caro non lasciarti incatenare dal maestro che ti ama. Ci si nutre dei frutti non delle foglie del melo, e il senso è da anteporre alle parole. Con parole ornate la persuasione cattura gli animi, è più necessaria nell'insegnamento la semplicità. Dove mancano i concetti vi è una fiumana di parole, è anche noto che chi sbaglia moltiplica i percorsi. Quando ti accorgerai che la dottrina di un uomo si contraddice renditi conto ch'essa per te non ha valore alcuno. Come l'instabile luna, lo stolto muta; come il sole, il saggio rimane uguale a se stesso. Ora qua, ora là vaga la mente cieca dello stolto, la mente dell'avveduto imprime ovunque la sua orma; riflette a lungo su ciò che può dire correttamente per non vergognarsi nel giudicare se stessa. Fai attenzione alle parole dei dotti e alle opere dei buoni; arda sempre il tuo cuore in questo sforzo. Impara lungamente, rinsalda te stesso, esita prima di insegnare, e non buttarti a scrivere precipitosamente. Mistico per antonomasia, e grande avversario dei dialettici, è san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), uno dei padri dell'ordine cisterciense. Nato in Borgogna,

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entra nel 1112 a Citeaux, finché viene inviato dall'abate a fondare Chiaravalle (Clairvaux), di cui resta abate fino alla morte. Spessissimo in viaggio, Bernardo è personaggio al centro dei principali problemi politici ed ecclesiastici della prima metà del secolo. Il suo parere è autorevole, la sua oratoria infiammante e decisiva: nell'impulso dato alla creazione dell'ordine dei templari, nello scontro dottrinale con Abelardo, nella questione di Arnaldo da Brescia, nello scisma pontificio tra Innocenzo II e Anacleto, nella predicazione a favore della II crociata, nella guerra ai normanni di Sicilia, ascoltato da pontefici e principi, così da risultare uno degli uomini più potenti della sua età. Bernardo è il nemico giurato della dialettica e di tutta la cultura profana, che attacca con parole di fuoco (egli è il grande nemico di Pietro Abelardo, di cui ottiene la condanna al concilio di Sens del 1140). Bernardo è il cantore della povertà, della semplicità, della fuga dai lussi e dagli agi che ormai hanno contaminato il monachesimo benedettino. Oltre alla straordinaria spiritualità mistica, che si esprime soprattutto nei Sermones, è temperamento organizzativo e politico. Scrive la regola del neonato ordine monastico-militare dei templari (1119) ed importanti trattati ascetici. Una menzione a parte, fra i trattati didascalici, merita il De amore, scritto da Andrea, cappellano della corte reale», e, probabilmente per ciò (un'altra ipotesi lo vuole funzionario alla corte del re di Francia Filippo II Augusto; ma su Andrea le conoscenze biografiche sono praticamente nulle), detto Andrea Cappellano. Gli aneddoti presenti nel testo relativi a Maria di Champagne han fatto pensare a una stesura, alla corte di Champagne, intorno al 1180; ma studi più recenti tendono a datarlo a non prima del 1240. Sulla scia dell'Ovidio dell'Ars amandi, il testo è un dettagliato manuale, teorico ma anche pratico, sulla seduzione e sui suoi risvolti sociali (viene indicato con minuzia come un cavaliere deve corteggiare una nobildonna, o una villana, ecc.). È una teorizzazione precisa dell'amor cortese, con intenti in parte moralizzatori rispetto alla dottrina ovidiana. De amore: In primo luogo bisogna vedere cos’è amore, da dove amore prende nome, qual è l’effetto d’amore e come si conserva, come amore si rafforza e indebolisce e finisce, e poi come cambia amore, e cosa deve fare l’uno degli amanti qundo l’altro lo tradisce. – Cos’è amore- L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso, per cui si desidera soprattutto di godere dell’amplesso dell’altro, e nell’amore realizzare concordemente tuttui i precetti d’amore. Che l’amore sia passione si vede facilmente. Infatti, prima che l’amore sbocci da tutte e due le parti, non esiste angoscia maggiore, perché l’amante teme sempre che l’amore non ottenga l’effetto desiderato e che siano inutili le sue fatiche. Teme anche i pettegolezzi della gente e tutto ciò che gli può nuocere, perché le cose non compiute vengono meno al più piccolo turbamento. Se l’amante è povero teme che la donna disprezzi la sua povertà; se è brutto teme di essere disprezzato per la sua bruttezza o che la donna si leghi ad un altro più bello; se è ricco teme che la sua spilorceria di una volta possa danneggiarlo. …- Le prsone adatte all’amore – Considero ora quali persone siano adatte a porte le armi d’amore. E devi sapere che chi è padrone della propria mente, è pronto a svolgere le opere di Venere, tanto che può essere trafitto dagli aculei d’amore, a meno che non glielo impedisca l’età, la cecità o l’eccesso di piacere. L’età è un impedimento per i maschi dopo i sessantacinque anni e per le femmine dopo i cinquanta: l’uomo è in grado di accoppiarsi ma il suo piacere non diventa amore perché il calore naturale, a partire da quell’età, comincia a perdere le sue forze, mentre il freddo cresce sempre più e getta l’uomo in varie angustie e l’assale con l’insidia di molte malattie, sicché altro piacere non ha a quest’età oltre al magiare e al bere… Più della metà dell'opera consiste in una serie di dialoghi tra uomini e donne di varie classi sociali (il cavaliere e la contadina, ecc.). III.3.7 Le arti liberali

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In questo secolo lo studio delle arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) riceve rinnovato impulso, soprattutto in conseguenza della nascita delle università. Le tre discipline rappresentavano, secondo la struttura dell’insegnamento medievale, la base di qualunque apprendimento successivo; diventano così oggetto di studio da parte non solo dei maestri, che vi dedicano manuali per l'insegnamento, ma anche degli specialisti di altre discipline, che sul trivio fondano la costruzione delle loro teorie scientifiche. È la retorica a suscitare particolare interesse, coi trattati scientifici delle artes dictaminis o dictandi: manuali che prescrivono le tecniche per il bello scrivere, e in particolare per bene scrivere i documenti ufficiali (bolle, diplomi, lettere, brevi, atti in genere). Vengono fissate norme stilistiche molto precise e cogenti. Specialissima attenzione meritano le epistole, le lettere, sia ufficiali (bolle, ecc.) sia private. Tale scienza fiorisce soprattutto in ambiente bolognese, ma s'allarga ben presto ad altri centri della penisola e poi alla restante Europa, in particolare alla Francia settentrionale (Orléans). I manuali di ars dictaminis rappresentano dunque strumenti di lavoro per coloro che, per motivi professionali, devono scrivere lettere, cioè i funzionari delle cancellerie, e notai, giudici, maestri di scuola. Sono soprattutto le corti (quella imperiale, quella pontificia, i singoli regni, ecc.) e i grandi centri culturali (le università) che ne hanno bisogno, e danno impulso al fenomeno. I maestri e i teorici sfornano una vasta serie di manuali, spesso in polemica scientifica e dottrinale tra loro. Altra tipologia di manuale tecnico sono le artes poeticae, che indicano le strategie, metriche e retoriche, per la composizione di testi in versi. Nate nella tarda antichità per l'esigenza di soddisfare curiosità erudite, le opere lessicografiche diventarono in età scolastica uno strumento indispensabile per l'erudizione degli studiosi, trasformandosi in vere e proprie summae del sapere medievale. Per la retorica e la poetica, in Italia, andrà ricordato, tra i molti maestri italiani, Alberìco di Montecassino († 1088), originario di Benevento, la personalità di maggiore spicco nella pur attivissima atmosfera culturale dell'abbazia nella seconda metà del secolo XI e scrive il Breviarium de dictamine, uno dei primi trattati di epistolografia e i Flores rhetorici (o Dictaminum radii). In Francia, Matteo di Vendôme († 1200 circa), maestro di grammatica e retorica. La sua opera più interessante, che fornisce un quadro della teoria della versificazione nella seconda metà del secolo XII, è l'Ars versificatoria (‘L’arte di comporre versi’), un manuale teorico-pratico di poetica e di versificazione. Intorno al 1210 Goffredo di Vinsauf, forse d'origine inglese, redige la sua Poetria nova (per distinguerla dall'Ars poetica di Orazio, definita Poetria vetus), dedicata a Innocenzo III. Si tratta di un manuale di tecnica poetica. Anche le arti del quadrivio trovarono ampia trattazione teorica in questa età. Si può ricordare qui per tutti Guido d'Arezzo († 1050), autore del Micrologus, col quale si dà una sterzata decisiva allo studio della teoria musicale. A Guido è attribuita l'invenzione dei nomi ancora attualmente usati (tranne ut, sostituito da do in Italia nel Rinascimento) delle note musicali, desunti dai versi dell'inno composto da Paolo Diacono in onore di san Giovanni Battista: Ut queant laxis resonare fibris mira gestorum famuli tuorum, solve polluti labii reatum, s. Iobannes. III.4 La produzione artistica (cenni)

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Secc. XI-XII (prima metà) III.4.1 L’arte romanica Chiamata così nel XIX secolo, per analogia con la lingua e la letteratura romanze, a sottolinearne la rispondenza con il nuovo orientamento che andava manifestandosi nell'architettura, nella scultura e nella pittura, l'arte romanica si sviluppò nell'arco di circa due secoli, tra l'anno Mille e la fine del XII secolo. La sua diffusione si fondava su condizioni economiche, sociali, demografiche e politiche favorevoli: in particolare la stabilizzazione dei Normanni, la cristianizzazione degli Ungheresi, la pace ritrovata in Inghilterra, l'affermazione delle dinastie capetingia e ottoniana, lo sviluppo della feudalità, le crociate. Lo sviluppo del monachesimo (con Cluny) e la spiritualità dei pellegrinaggi assicuravano l'investimento delle ricchezze in oggetti liturgici, la circolazione delle tecniche, dei messaggi e degli uomini e la creazione di forme architettoniche specifiche. La febbre della costruzione fu descritta dai contemporanei, che assistettero all'alba dell'XI secolo al sorgere di abbazie e chiese estremamente diverse nei progetti secondo le funzioni, le tradizioni regionali, le caratteristiche del territorio, le disponibilità finanziarie, i talenti locali. Tra le esperienze più feconde vanno ricordate l'inventiva lombarda, con i suoi deambulatori precoci (Ivrea) e il suo trattamento dei muri esterni con una serie di arcate cieche; l'esperienza catalana (copertura a volta in pietra di Saint Martin-de-Canigou) e, nel territorio dell'Impero, la maturazione delle costruzioni ottoniane verso una nuova monumentalità (Spira). Per facilitare la liturgia, in particolare nelle chiese di pellegrinaggio, l'abside a deambulatorio e le cappelle radiali rappresentarono la principale invenzione dell'architettura romanica, che si definiva per la funzionalità, la chiara gerarchizzazione degli spazi (portico, navata, transetto, coro, cripta), la leggibilità dall'esterno dei volumi interni, la scelta degli archi per le aperture, molto spesso semicircolari e sdoppiati per moltiplicare gli effetti di luci e ombre. La preoccupazione principale degli architetti riguardava le volte, per le quali sperimentarono numerose soluzioni: volte a botte, sostenute o meno da travi maestre, che assicuravano la continuità della navata senza consentirne l'illuminazione diretta; volte a crociera nelle navate laterali per sostenere il peso delle tribune…Era un'arte sperimentale, che in Francia integrava i campanili mentre in Italia li isolava, che in Normandia imponeva la facciata con due torri, a Cluny moltiplicava navate e cappelle, a Citeaux sceglieva la severità delle absidi piatte, la chiarezza delle forme ortogonali, l'efficacia architettonica degli archi spezzati. All'interno il ritmo delle arcate, l'articolazione dei pilastri, le modanature degli archi, la diffusione spesso indiretta della luce modellavano uno spazio destinato alla preghiera. L'iconografia era determinata da una mistica contemplativa che privilegiava le immagini della maestà di Cristo e della Vergine, dei principali cicli biblici ed evangelici e che traduceva in termini antinomici angeli e demoni, vizi e virtù, estasi e deliri grotteschi, i combattimenti della vita interiore: il mondo romanico era contrastato, visionario, ibrido come i mostri dei suoi capitelli. All'interno delle chiese risplendeva la policromia: muri e volte erano dipinti e le tappezzerie, le vetrate, i mosaici dei pavimenti, lo scintillio degli oggetti liturgici contribuivano a quello splendore. Tra i tessuti, non liturgici, si ricorderà soprattutto l'arazzo di Bayeux, che celebra in un ampio fregio narrativo la conquista dell'Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore ed è la testimonianza preziosa di un affresco storico impegnato nella politica contemporanea. Le vetrate, troppo fragili, sono generalmente mal conservate e non se ne hanno tracce significative anteriori al XII secolo. Erano caratterizzate da vetri spessi, bordi larghi, sfondi ornamentali molto sviluppati, in cui la flora stilizzata si mescolava alla fauna fantastica. La pittura murale era sostenuta da una tradizioni antica e ininterrotta. La principale differenziazioni tra le scuole era segnata dalla maggiore o minor permeabilità nei confronti delle tecniche pittoriche bizantine. Molto influente in Italia (Sant'Angelo in Formis), il bizantinismo affascinava gli artisti, come a Montecassino, che lo diffusero in Occidente, in part colare a Cluny (Berzé-la-Ville). La Francia occidentale, influenzata maggiormente dall'eredità carolingia, conserva cicli importanti a Saint-Savin, dove nella volta a botte

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della navata l'immenso affresco illustra storie a partire dalla Creazione fino alla vita di Mosè. Al di là delle particolarità stilistiche specifiche di ciascuna regione, la pittura romanica era caratterizza dal predominio della geometria (corpi, volti, come sezioni d'insieme si inscrivono in combinazioni di cerchi, losanghe, triangoli, che si toccano, che si incastrano, organizzando le linee principali da una grande economia di mezzi, sia nel registro cromatico che nel repertorio degli oggetti o delle decorazioni, dall'accentuazione dei gesti e dei momenti per rinforzare l'espressività, dall'utilizzazione di codici simbolici e grafici essenziali. Il rinnovamento spirituale e intellettuale determinò il prestigio della miniatura, che ornava soprattutto bibbie e libri liturgici. L'Inghilterra, con la scuola di Winchester che privilegiava le cornici ornamentali rispetto agli acanti esuberanti, e con quella di Canterbury che eccelleva in disegni vigorosi, mantenne scambi fecondi con la Normandia. Nel XII secolo questa lunga esperienza portò alla supremazia inglese (Saint Albans, Bury Saint Edmunds). L'Italia si specializzò nella produzione di bibbie monumentali. La diversità delle scuole è testimoniata dalle differenze tra il pittore del Sacramentaire di Limoges (1100ca), col suo disegno violento, i suoi contrasti accecanti tra oro, blu oltremare e grigio perla, e quello dei Moralia in Job di Cîteaux (1111), dove i corpi si contorcono secondo un ispirazione gioiosa. Gli smalti avevano un ruolo importante, in particolare nella decorazione dei reliquiari e degli oggetti liturgici (croce, paliotto d'altare...), anche se non bisogna dimenticare una destinazione profana (effigie funeraria di Goffredo Plantageneto, cofanetti o gioielli). Con i Plantageneti una produzione che si potrebbe definire industriale replicò, per l'esportazione, i disegni. movimentati delle vite di santi popolari (Valeria, Tommaso Becket...) sui lati degli scrigni nei quali si conservavano le loro reliquie. Quando nel 1140 a Saint-Denis Sugero iniziò la ricostruzione della propria chiesa abbaziale fondandola sulla luce e su uno spazio unificato, l'umanesimo gotico si infiltrava nell'astrazione romanica. Tuttavia l'uno e l'altra coabitarono ancora a lungo, in particolar modo in Germania e in Italia. Architettura Tra XI e XII secolo in Europa vengono elaborati modelli costruttivi nuovi, in cui l’analogia delle funzioni delle opere d’arte e dei problemi che si presentano ai committenti ed artisti determinano l’analogia delle risposte, favorite, come s’è detto, dalla mobilità degli uomini, in particolare di quelli (principi, nobili, abati, vescovi) da cui dipendevano le creazioni artistiche e dà origine ad un processo di rapido sviluppo e continuo perfezionamento delle tecniche costruttive: i risultati riuscirono, tuttavia, ad essere, estremamente differenziati. La grande varietà di soluzioni s’impiantò su caratteri morfologici simili. I caratteri distintivi dell’architettura del periodo (detta romanica) appaiono poter essere individuati nel seguenti: 1) una ‘logica’ strutturale di cui l’elemento fondate è stato individuato nella copertura a volte e a volte a crociera, in particolare a crociera costolonata. 2) la complessa articolazione degli spazi, a cadenze e intervalli che impongono una percezione non immediata dell’insieme. 3) Una potente articolazione degli elementi di sostegno (pilastri e delle masse murarie. A questi elementi s’accompagna poi una varietà di soluzioni che testimoniano della grande vivacità inventiva del costruttori romanici, in grado di adattare alla costruzione soluzioni funzionali diverse a seconda della destinazione del prodotto e della sua diversa funzione liturgica (a secondo della tipologia della costruzione: cattedrali, abbazie, pievi etc). Lo sviluppo dell’arte romanica è dunque un fenomeno europeo ma il discorso sarà qui limitato all’Italia, che, nel contesto romanico europeo, presenta una tale varietà di aspetti che anche all’interno di una medesima regione o tra centri vicini non trova equivalenti in nessun’altra parte d’Europa. Una spiegazione di tale fenomeno può essere ricercata nella considerazione dell’intreccio di molteplici fattori, a cominciare dalla marcata differenziazione di situazione politiche e sociali, dalla particolare

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configurazione geografica del territorio e dalla sua posizione intermedia tra l’Occidente europeo e la civiltà mediterranea orientale, dalla molteplicità delle iniziative artistiche. Muovendo da Nord a Sud, verranno qui presentati alcuni dei monumenti architettonici espressivi della parabola geografica (e cronologica) del romanico che appaiano di maggiore rilievo. In Lombardia, la basilica di S. Ambrogio a Milano (conclusa nel XII secolo con l’erezione del ‘campanile dei canonici’ (ILL. 64), a causa della distruzione delle altre cattedrali lombarde (Novara, Vercelli); appare forse più isolata nel contesto lombardo di quanto essa non fosse in origine; a Pavia S. Michele (ILL. 65), in stretta relazione con la basilica ambrosiana. In Emilia, con la cattedrale di Modena, (ILL.66) eretta da Lanfranco a partire del 1099, accompagnata dalle rappresentazioni scultoree di Wiligelmo, dal c.d. Maestro delle metope e da Anselmo da Campione (che lavora intorno al 1165). Il duomo di Parma, (ILL.67) che viene realizzato in un lungo ordine d’anni, giungendo sino alla fine del Duecento, anche se la parte più cospicua della costruzione è da porsi tra il 1099 e il 1130. In Veneto ricorderemo S. Zeno a Verona, (ILL.68), con caratteri accentuatamente ‘emiliani’, prossimi alla cattedrale di Modena. L’area veneta offre notevoli influenze bizantine, come nella cattedrale dei santi Maria e Donato (c. 1140) nell’isola di Murano (ILL. 69). Rivolta ad Orinete è invece S.Marco a Venezia, che aderisce un linguaggio architettonico ispirato all’oriente costantinopolitano. In Toscana, a Pisa, la piazza della cattedrale (il c.d. Campo dei Miracoli), (ILL.70), eretta, per la cattedrale, da Buscheto e Rainaldo , per il battistero (iniziato nel 1153 ma concluso nel XIV secolo), da Diotisalvi e per la torre campanaria Bonanno (la torre fu iniziata a partire dal 1173 ma conclusa tra XII e XIV secolo). A Firenze, il battistero di S. Giovanni fu consacrato da Niccolò II nel 1059. (ILL.71). Altro esempio è nella chiesa di S. Miniato al Monte, (ILL. 72), edificata tra il 1018 e il 1163 circa ma compiuta più tardi per quanto riguarda la decorazione del suo interno, e, infine, l’abbazia di Sant’Antimo, (ILL.73) edificata nel XII secolo a pianta basilicale. Nelle Marche, menzioneremo S. Maria in Portonovo (sec. XI metà) (ILL. 74), annessa a un monastero la cui fondazione viene tradizionalmente riferita a s. Pier Damiani. La Puglia mescola ad un’architettura condizionata da caratteri lombardi, pisani e orientali. Così si verifica in S. Nicola di Bari (secc. XII-XIII), (ILL. 75), nella cattedrale di Ruvo (sec. XII), (ILL.76) derivata dal duomo di Trani. Influenze dell’architettura pisana, invece, nella cattedrale di Troia (XII secolo). (ILL.77) Decisamente rivolte verso l’Oriente bizantino sono invece la Calabria (si veda ed es. la Cattolica di Stilo) (ILL.78) e la Sicilia, dove si fondono elementi bizantini, musulmani e occidentali. Soprattutto a Palermo edifici schiettamente arabi sono la Cuba (1180) (ILL.79) e s. Giovanni degli Eremiti (circa 1140). (ILL.80) IV L’età delle Università (secolo XIII) IV.1 Il processo storico Da un punto di vista politico-istituzionale, il Duecento registra i segni della definitiva crisi politica di un Impero, di cui solo la grande figura di Federico II riesce a dare segno di presenza, soprattutto a causa sia della ormai forte pressione al decentramento esercitata dalle città e dai Comuni, sia della politica della Sede Apostolica che con Bonifacio VIII è decisa ad attuare il progetto della costruzione di uno stato pontificio, rispetto al quale la risurrezione dell'impero è senz'altro di ostacolo. Uscito di minorità, Federico II, dopo essersi liberato, con l'aiuto del papa, del rivale nella lotta per la corona imperiale, Ottone di Brunswick (battaglia di Bouvines, 1214), non mantiene la promessa di rinunciare a unire su di sé la corona imperiale di Germania e quella regia di Sicilia: lo scontro col Papato è inevitabile. Gli anni fra il 1230 e quello della morte di Federico (1250) sono di lotta continua coi papi (in particolare il

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bellicosissimo Gregorio IX) e i loro alleati, i Comuni lombardi: a conti fatti, si può dire che lo Svevo, e con lui la parte ghibellina, escano sconfitti dallo scontro. Il definitivo trionfo della fazione guelfa si ha nel giro di pochi anni, nonostante l'orgogliosa vittoria dei ghibellini fiorentini guidati da Farinata degli Uberti a Montaperti (1260): nel 1259 l'«erede» e genero di Federico in Italia del nord, Ezzelino da Romano, viene sconfitto a Cassano d'Adda e nel 1266 i francesi di Carlo d'Angiò (fratello del re di Francia Luigi IX) conquistano il regno di Sicilia sconfiggendo e uccidendo nella battaglia di Benevento il figlio di Federico, Manfredi: merito dell'insistita azione politico-diplomatica di papa Urbano IV prima e di Clemente IV († 1268) poi. E nel sangue finisce il tentativo di riconquista dell'ultimo nipote di Federico II, lo sfortunato Corradino. Sale intanto nel Mediterraneo la potenza aragonese, che sarà uno degli elementi più importanti dei decenni successivi, soprattutto per la storia del Mezzogiorno d'Italia: la rivolta del Vespro (1282) e la pace di Caltabellotta (1302) portano la Sicilia, sottrattasi agli Angioini, alla dinastia catalana di re Pietro III (marito di Costanza, figlia di Manfredi) e dei suoi discendenti. La Chiesa produce intanto uno degli ultimi sussulti positivi, prima d'iniziare una strada di declino inarrestabile e rapido. In reazione alle sempre più forti contestazioni ereticali, che nel basso medioevo assumono carattere fortemente pauperistico (patarini, catari, albigesi), nascono, nei primi decenni del secolo, gli ordini mendicanti: i frati predicatori, detti anche domenicani dal nome del fondatore, lo spagnolo Domenico di Guzmàn († 1221), che nascono con lo specifico intento di organizzare una predicazione ortodossa nelle terre ad alta proliferazione ereticale (soprattutto il sud della Francia), e che in seguito prendono il monopolio dell'azione giudiziaria contro gli eretici (tribunale dell'Inquisizione); e i frati minori, detti anche francescani dal nome del loro fondatore, Francesco d'Assisi († 1226), che pongono al centro della loro spiritualità l'esaltazione della povertà, contrapposta evidentemente al lusso e alla corruzione delle alte sfere ecclesiastiche. Il XIII secolo si chiude, emblematicamente, con lo scontro fra il teocrate per antonomasia, papa Bonifacio VIII, e il sovrano di uno dei «nuovi» Stati, il cui continuo rafforzarsi ha condotto al collasso i grandi poteri sovrannazionali tipici del medioevo: Filippo IV il Bello di Francia. Questi affonda l'ultimo tentativo pontificio di riaffermare la teocrazia papale dei tempi di Gregorio VII e d'Innocenzo III: ad Anagni Bonifacio viene schiaffeggiato dagli inviati del sovrano e muore l'anno successivo (1303). Il suo successore, il guascone Clemente V, accetta di trasferire la sede pontificia in Avignone (dove essa resterà fino al 1377). Filippo porta a termine quello che era stato il sogno di Federico II per la Sicilia: creare uno Stato nazionale sempre meno feudale e sempre più burocratico e accentrato. Si libera anche - in maniera assai discussa - di un'altra delle grandi istituzioni sovranazionali del medioevo: l'ordine templare (1307). Sulla stese strada si muovono l'Inghilterra e i due regni più importanti della penisola iberica, Aragona e Castiglia. L'Impero vive l'ultimo rigurgito di grandezza col tentativo destinato a fallire Enrico VII di Lussemburgo (anche Dante invia una lettera entusiasta e ricca di speranza al sovrano). IV.2 Le istituzioni culturali La complessità culturale è la peculiarità del XIII secolo. Essa traspare con evidenza sin dal censimento dei vari tentativi compiuti dalla storiografia per affidare a un'unica immagine sia la sintesi storico-istituzionale, sia quella della produzione filosofica, giuridico-politica e poetico-retorica in lingua latina del Duecento, definito, quasi per antitesi, «il secolo degli Svevi», «il secolo dell'incipiente monarchia pontificia», il «secolo dell'autonomia comunale», il «secolo di san Francesco d'Assisi e di san Domenico di Caleruega», «il secolo della scolastica», l'«arabo secolo», il «secolo di Parigi», «il secolo senza Roma», «il secolo romano per eccellenza». In verità, a seconda dei punti di vista, ciascuna delle formule può riassumere buona parte della civiltà e della cultura del XIII secolo. Sul piano religioso la novità del Duecento è senza dubbio costituita dalla nascita degli ordini mendicanti che, specialmente ad opera dei Minori e dei Predicatori, acuiscono la crisi del monachesimo tradizionale, determinando sensibili mutamenti non solo nel campo della spiritualità ma anche in ambiti più propriamente culturali. Basterà qui ricordare la progressiva istituzione in ogni provincia religiosa di studia conventuali, che divulgarono a livello periferico i nuovi orientamenti culturali e le rinnovate pratiche scientifico-didattiche delle più importanti università europee, e soprattutto di quelle dove sia i Minori, sia i Predicatori occupavano cattedre di prestigio

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Ma, nella organizzazione degli studi, l'intensificarsi del processo di fondazione delle università rappresenta il dato più significativo registrabile nel XIII secolo. In Italia, ad esempio, a quelli di Bologna e di Salerno, si aggiunsero gli studia generalia di Vicenza (1204), Arezzo (1215), Padova (1222), Napoli (1224), Roma (1244), Siena (1246), Piacenza (1248). Indubbiamente, però, i centri universitari di maggior prestigio rimasero quelli di Parigi ed Oxford per le discipline scientifiche e filosofico-teologiche e di Orléans per l'insegnamento delle Belle Lettere. L'istituzione delle università incise profondamente sui metodi di insegnamento e determinò una considerevole laicizzazione della cultura anche sul piano dei contenuti. Un ulteriore influsso sul piano culturale è dovuto proprio all'estendersi - a danno delle potestà universali - delle autonomie locali (a tutti i livelli: regni, Signorie, Comuni, ecc.): «la municipalità», scrive il Paoli, « [...] indirizza diversamente rispetto al passato la consapevolezza critica dell'individuo [...] e contribuisce ad allargare la cerchia dei "professionisti" della cultura» (funzionari comunali, ecc.). In campo filosofico, il XIII è il secolo dell'affermazione definitiva in Occidente dell'aristotelismo. Al punto che la vera novità, rispetto ai secoli precedenti, sta nella «vera» e completa rivalutazione della ‘ratio’. Con l'acquisizione sempre più profonda di Aristotele e dei suoi commentatori, l'età scientifica si caratterizza per una «teologia come scienza»: teologia scientifica che poteva essere intesa sia in chiave «conciliativa» (Tommaso d'Aquino: l'aristotelismo è una filosofia naturale, che consente di pervenire anche alle verità di fede) sia in chiave « oppositiva» (Sigieri di Brabante: il razionalismo può pervenire a realtà diverse da quelle della speculazione teologica). Questi fenomeni (l'evoluzione filosofico-teologica e l'evoluzione strutturale dell'insegnamento) conducono a un'accentuazione della connotazione scientifica anche delle arti liberali e della loro pratica didattica; e, tra queste, le arti del quadrivio prendono il sopravvento su quelle del trivio. Ne è esempio emblematico la trasformazione cui va soggetta l'arte fondante del trivio, la grammatica, che diventa grammatica «speculativa»: più che la tradizionale esposizione della morfologia, essa diventa uno studio sistematico della scienza grammaticale, una vera e propria linguistica, attenta soprattutto ai modi significandi. Nell'età scientifica, non a caso, si rinforzano l'attenzione per le artes dictaminis e la loro produzione, a testimonianza dell'interesse e dell'urgenza della « questione della lingua». In relazione alla fortuna dei classici, va ridimensionato il giudizio di Giuseppe Toffanìn, cui il XIII sembrava « il secolo senza Roma». In realtà, proprio per il nuovo tipo di mentalità, la cultura dell'età scientifica approccia i classici in maniera abbastanza originale: classico non è più, o non è soltanto, l’autore antico o la Bibbia, come dall'età carolingia in poi, ma entrano a costituire l'esemplificazione gli autori cristiani e i moderni (cioè i tardomedievali). Il latino resta la lingua della produzione scientifica, subendo modifiche, come già avveniva da diversi secoli, soprattutto in direzione della creazione di uno strumento espressivo sempre più standardizzato e omogeneo, per combattere il pluralismo intrinseco all'uso dei volgari. Il latino dell'età scientifica appare - a un'osservazione superficiale - monotono, povero, ripetitivo: non si dimentichi che è proprio in reazione a questo latino, quello della tarda scolastica, che si scagliano le feroci polemiche stilistiche dei primi umanisti. Comunque, proprio questa lingua normalizzata e ripetitiva continua a consentire lo scambio tra gli studiosi di diversa provenienza linguistica e culturale; è la lingua in cui si realizzano le sintesi universali della cultura medievale, come la Summa theologiae di Tommaso; è lo strumento espressivo di una lirica ancora potente (Dies irae) e del maestoso e solenne stilus supremus delle cancellerie dell'Impero (Pier della Vigna) e della Chiesa.

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In sintesi, l'età scientifica, di fronte alle innovazioni che rischiano di travolgere il tradizionale sistema culturale medievale di tipo classico-patristico, cerca di attutire e indirizzare le spinte centrifughe di una cultura sempre utilizza il volgare e «modernizzante»; il tentativo viene effettuato in maniera intelligente: attraverso un inglobamento progressivo del «nuovo» e modificazione costante del «vecchio». IV.2.1 Le nuove biblioteche A partire dal XIII secolo, assumono particolare importanza e diversa caratterizzazione le biblioteche legate agli Studia degli ordini mendicanti (francescani e domenicani). E’ infatti soprattutto negli ordini domenicano e francescano che, a partire dal primo XIII secolo, si avverte una influenza notevole del modello culturale universitario nella organizzazione delle biblioteche. In particolare, le costituzioni domenicane, redatte da Umberto di Romans, maestro generale dell’ordine fra il 1257 e il 1267 stabiliscono gli obblighi e gli incarichi del bibliotecario, si preoccupano di assicurare la buona conservazione dei libri ed una loro agevole consultazione, prescrivendo di disporli in armadi contrassegnati da etichette che individuino le materie trattate nei singoli volumi. Inoltre - ed appare questa la ‘novità’ di maggiore rilievo - se il libro deve essere consultato, non vale preoccuparsi troppo del suo aspetto esteriore: esso è infatti divenuto strumento di ricerca, studio e lavoro, indispensabile per l’esercizio del ministero religioso. IV.3 La storia letteraria e i generi letterari Dal punto di vista strettamente storico-letterario, il più importante fenomeno da sottolineare è la crescente concorrenza che il latino subisce da parte delle lingue volgari. Nella corte siciliana di Federico II, dove pur il latino è la lingua ufficiale del diritto, della comunicazione internazionale e della propaganda politica, nasce la prima produzione poetica in volgare italiano (molto più tardi, quindi, rispetto ad altri volgari), opera della cosiddetta scuola poetica siciliana: costituita essenzialmente da funzionari e giudici della magna curia (Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, lo stesso Federico, ecc.). E agli inizi del Trecento il volgare non è più, come nel secolo precedente, solo lingua della lirica, ma invade altri generi: la Commedia dantesca è, in questo senso, l'esempio risolutivo. La letteratura in latino del XIII secolo è, dal canto suo, prevalentemente scientifica. Preponderante è la produzione filosofica ma sono ben attestate anche quella medica, giuridica, astronomica; importante la manualistica retorico-grammaticale. S'irrobustisce e sistematizza il filone enciclopedico ma non decadono i generi tradizionali, dalla sermonistica all'agiografia, alla storiografia, all'epica, né mancano del tutto la produzione lirica e quella che possiamo definire narrativa. Molto interessante, semmai, il fenomeno del ritorno del teatro classico cui si assiste con la tragedia d'impronta senecana di Albertino Mussato; ma siamo in un ambiente proprio ai limiti del medioevo, alla nascita di quella temperie che si può definire preumanistica. IV.3.1 La storiografia Dal punto di vista ideologico-politico, nella prima metà del Duecento la letteratura storiografica tende a rispecchiare la dicotomia politica tra guelfi e ghibellini. È comunque una scrittura quasi mai prigioniera di eccessiva partigianeria; la fede

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politica viene contemperata con la volontà da parte degli storiografi e dei cronisti di fare attenzione all'elemento oggettivo e alla funzione referenziale dei propri testi. L'orizzonte geografico è costituito da un lato dai regni nazionali; dall'altro, si evidenzia una ricca produzione «urbana», che serve a celebrare l'autonomia municipalistica delle città, soprattutto del Nord Italia (Rolandino da Padova, ecc.). Da sottolineare come anche la storiografia venga ormai scritta in volgare: restando all'Italia, basta ricordare le opere di Dino Compagni (fino al 1312) e di Giovanni Villani (fino al 1346). Moltissimi sono gli storici e i cronisti di questo periodo. Ne verrà qui fatta, come al solito, una cernita assai drastica ma, si spera, sufficiente a dare un quadro credibile della produzione. Uno spaccato eccezionale del Duecento, soprattutto italiano, ci rimane nella Cronica di Salimbene de Adam di Parma (1221-dopo il 1288). Dopo avere studiato a lungo in Francia, torna in Emilia. La cronaca abbraccia gli anni 1168-1288 (ma il testo, che ci è pervenuto nel codice originale autografo [Vat. lat. 7260], è mutilo). Salimbene, entrato molto giovane nell'ordine dei minori contro la volontà dei genitori, è grande viaggiatore e durante i suoi moltissimi spostamenti in Italia e in Europa ha modo di conoscere, diventandone amico, numerosi personaggi di grande rilievo, dall'imperatore Federico II, a Luigi IX il Santo re di Francia, a Carlo d'Angiò, a papa Innocenzo IV, al frate missionario Giovanni da Pian del Carpine, autore della famosa Historia Mongolorum. Per un lungo periodo aderisce alle dottrine mistico-apocalittiche di Gioacchino da Fiore ma dopo la condanna di queste da parte di papa Alessandro IV (1253 ) e dopo che l'avvento dell'anno 1260, contrariamente a quanto profetizzato dall'abate calabrese, non aveva portato alcuna età dello Spirito, le abbandona. La sua Cronica è un testo molto sui generis. Intanto nella struttura: annalistico complessivamente, lo schema è sovente tradito per l'inserimento di excursus, medaglioni biografici, aneddoti, pettegolezzi. Salimbene ribadisce di narrare ciò che «vidi oculis meis»: ed è la narrazione di un uomo concreto e dotato di un'eccezionale esperienza, per l'avventurosa vita. La sua arguzia lo porta a fermare la penna su notizie d'ogni genere, il che conferisce alla cronaca un carattere vario e vivace, ben espresso mediante un latino quanto mai semplice, ai limiti della rozzezza, ricco di prestiti dal volgare, sintatticamente povero e dimesso. IV.3.2 L’agiografia e la sermonistica Il genere agiografico subisce, nel corso del Duecento, alcune evoluzioni e modifiche, sia sul livello contenutistico-ideologico sia su quello formale. Sotto il profilo dei modelli di santità, una forte svolta è portata dalla figura di Francesco d'Assisi: con lui comincia a «stemperarsi quella pressoché assoluta "alterità storia-metastoria", caratteristica del modello di santità tipicamente monastico», e la sua figura dimostra questo «incontro storia-Dio, rendendo visibile l'"invasione" divina dell'umano» (Paoli). Il coniugarsi dell'esigenza predicatoria col carattere riassuntivo ed enciclopedico tipico dell'età scientifica porta al cambiamento della struttura fisica stessa dei codici agiografici: nascono i cosiddetti leggendari abbreviati, volumi contenenti raccolte agiografiche amplissime (centinaia di vite) come numero, ma molto brevi come estensione testuale, molto spesso riassunti di redazioni precedenti delle leggende (Bartolomeo da Trento, Iacopo da Varazze). La sermonistica è un genere letterario sempre molto vivo nel medioevo, ma che nel secolo XIII vive un momento di fortissima ripresa, soprattutto in quanto coinvolto nelle urgenti esigenze della polemica antiereticale.

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Per quanto riguarda l'Italia va ricordato il frate predicatore ligure Iacopo da Varazze († 1298), insegnante di teologia a Genova (dal 1292 è arcivescovo della città), poi ammirato predicatore in numerose città italiane. Iacopo è famoso per l'intensa attività predicatoria: pubblica tre raccolte di sermones. Ma è l'autore soprattutto della famosissima Legenda aurea, una libera rielaborazione di precedenti narrazioni agiografiche, vite e passioni: si tratta della più rilevante raccolta agiografica d'ogni tempo: 182 racconti, ordinati normalmente secondo le ricorrenze dei santi nel calendario, che rappresentano una summa della mitologia cristiana. Iacopo affianca notizie strettamente agiografiche ad altri dati (storici, filologici, politici, teologici, morali, ecc.), realizzando in questo modo, per ogni item del suo catalogo, una piccola raccolta perfettamente autonoma, e giocabile in chiave predicatoria. Diventato nel 1292 arcivescovo di Genova, Iacopo viene a svolgere un ruolo politico di primo piano nella vita della sua città. Di ciò resta testimonianza nel Chronicon lanuense, scritto a scopo d'istruzione politico-morale. In questo senso Iacopo si propone come il continuatore dei grandi annalisti genovesi, da Càffaro in poi anche se il suo lavoro indulge, spesso, al fantastico e al meraviglioso. APPROFONDIMENTO San Francesco d'Assisi (1181/1182-1226) Francesco d'Assisi fu senza alcun dubbio uno dei protagonisti della storia del medioevo. Fu il fondatore dell'Ordine dei frati Minori e delle Clarisse, che ebbero un'espansione rapida in tutta la cristianità a partire dagli anni 1220/1230, e il suo esempio ispirò numerosi laici che seguirono, sotto forme diverse, il suo ideale spirituale. Dati biografici Francesco di Bernardone nacque ad Assisi, in Umbria, alla fine del 1181 o all'inizio del 1182. Era figlio di un mercante di stoffe e, secondo la norma, sarebbe dovuto succedere al padre nell'esercizio di quel mestiere, ma, fin dall'adolescenza, mostrò più interesse per la vita festosa della gioventù ricca della sua città che per le attività commerciali. La ricchezza gli permetteva, infatti, di frequentare i figli delle famiglie nobili e, a contatto con loro, si impregnò di quegli ideali della cultura cortigiana che avrebbero profondamente segnato la sua mentalità e i suoi comportamenti. Nel 1202 partecipò, come cavaliere, alla guerra tra Assisi, divenuto libero Comune nel 1198, e la vicina Perugia e, per qualche mese, fece l'esperienza della prigionia. Tentato di proseguire nell'avventura delle armi e della vita cavalleresca, si unì nel 1205 ad una spedizione militare che papa --Innocenzo III aveva organizzato contro gli imperiali in Italia del Sud, ma la malattia lo trattenne a Spoleto, dove in visione gli sarebbe stato detto di far ritorno ad Assisi. Per anni andò alla ricerca della sua strada nella vita, dedicandosi alla meditazione solitaria, alla preghiera e alla pratica della carità. Dopo aver rotto i rapporti con suo padre, che gli rimproverava la prodigalità verso i poveri e verso le chiese, Francesco rinunciò ai propri beni e si pose sotto la protezione del vescovo Guido di Assisi in qualità di penitente, cioè come laico dedito alla vita religiosa. Nel febbraio del 1208 prese coscienza della sua vera vocazione ascoltando un sacerdote che leggeva il passo del Vangelo di Matteo (10, 7-16) dove si parla dell'invio in missione degli apostoli a piedi nudi e senza denaro in tasca, e decise di vivere secondo quella povertà evangelica. Possedendo una sola tunica e sostituendone la cinta con una semplice corda, chiamò i suoi concittadini alla conversione e fu ben presto seguito da alcuni abitanti di Assisi e dei dintorni, con i quali formò una piccola comunità itinerante. Nel 1209 si recò a Roma con i suoi compagni per ottenere dal papa l'approvazione del suo stile di vita che era a priori sospetto, giacché appariva molto simile a quello di diversi movimenti eretici. Innocenzo III si limitò ad autorizzarli verbalmente a proseguire quell'esperienza, ma obbligò Francesco alla tonsura e a stabilirsi presso una chiesa, quella della Porziuncola, vicino ad Assisi.

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Confortati da quella accoglienza relativamente favorevole, i frati, che presero allora il nome di «minori» (cioè piccoli, umili), cominciarono a predicare nell'Italia centrale attirando numerosi seguaci, affascinati dal carisma personale di Francesco e dalla novità del loro genere di vita. Vi erano pure delle donne, la prima delle quali fu, nel 1212, una nobile giovane di Assisi, Chiara, che avrebbe dato vita all'Ordine delle Povere recluse di San Damiano, chiamate poi Clarisse. Nel 1217, al Capitolo generale riunito alla Porziuncola, fu presa la decisione di inviare dei frati a nord delle Alpi e nei Paesi d'oltremare. Francesco stesso voleva partire in missione, ma il cardinale Ugolino lo convinse a restare in Italia per vegliare sulla comunità, in pieno sviluppo ma ancora fragile. Nel 1219, tuttavia, riuscì a recarsi in Egitto, nella speranza di raggiungere la Terra Santa, e cercò di stabilire un dialogo religioso con i musulmani che assediavano Damietta. A causa di disordini scoppiati all'interno del suo movimento, nel 1220 fu costretto a far ritorno in Italia e ad abbandonare il suo progetto. Infatti dovette far fronte ai gravi problemi sorti in seguito alla trasformazione della fraternità evangelica dei primi tempi in un Ordine religioso retto da una regola. Gravemente ammalato, ma in grado di tenere a bada l'evolversi di una situazione che sfuggiva sempre più al suo controllo, Francesco alternò la predicazione con prolungati soggiorni in eremitaggi; tra questi, quello della Verna, dove nel settembre 1224 avrebbe ricevuto le stimmate. Divenuto quasi cieco, compose il Cantico delle Creature, testo fondatore della letteratura non solo religiosa in lingua italiana. Sentendo avvicinarsi la fine, nel 1226 stilò il suo Testamento, nel quale cercò di definire per i suoi frati un ideale di vita evangelico conforme al suo progetto originale. Ricondotto ad Assisi, morì alla Porziuncola il 3 ottobre 1226 e fu canonizzato il 16 luglio 1228 da Ugolino, divenuto papa nel 1227 col nome di Gregorio IX. Le fonti I dati biografici non devono creare illusioni: la conoscenza che possiamo avere della vita e della personalità di Francesco d'Assisi ha ancora molte zone d'ombra. Egli, infatti, non ebbe in vita l'attenzione dei suoi contemporanei e, ad eccezione di poche testimonianze, come quella del vescovo francese Giacomo di Vitry, e di brevi cenni in diverse cronache italiane, sono rare le fonti esterne all'Ordine francescano dove egli si trovi menzionato. Inoltre Francesco non ha lasciato alcuna opera importante: due Regole molto brevi (quella del 1221, che è la migliore testimonianza dei suoi intenti, ma che non fu accettata dal papato, e la Regula Bullata del 1223), alcuni biglietti (chartulae), lettere e preghiere. Alcuni suoi scritti, come il Cantico delle Creature e il Testamento, sono giustamente celebri ma si riferiscono soprattutto agli ultimi anni della sua esistenza. Sostanzialmente conosciamo F. attraverso leggende. È normale che sia così, dato che non fu né un teologo né un legislatore ma un uomo ispirato da Dio che già da vivo fu ritenuto un santo. Il ricordo lasciato ai suoi uditori è stato trasmesso sia mediante tradizioni orali, alcune delle quali furono messe per iscritto solo molto tempo dopo la sua morte - è il caso degli Actus beati Francisci e della loro forma italiana conosciuta sotto il nome di Fioretti, composti nel XIV secolo - sia attraverso numerosi testi agiografici, spesso caratterizzati dalle convenzioni stilistiche e dalle idealizzazioni del personaggio tipiche di tale genere letterario. La vita di san Francesco, inoltre, fu oggetto di grandi speculazioni a motivo delle tensioni interne sorte nell'Ordine dei frati Minori, che venne orientato dal papato verso direzioni che il fondatore non aveva affatto previste e che finì per accettare. Ecco perché si interpretò il suo messaggio in maniera da fondare di volta in volta sulle sue parole le scelte che si cercava di far prevalere. Dal 1228, su richiesta di Gregorio IX, Tommaso da Celano aveva scritto una sua biografia ufficiale, la Vita prima che, oltre a contenere numerose lacune, banalizzava la figura del santo sottolineandone il ruolo di fondatore di Ordine religioso, che il papa aveva già evidenziato in maniera unilaterale nelle sue bolle di canonizzazione. L'incompletezza di quel testo spinse i responsabili dell'Ordine a chiedere, nel 1244, che fossero raccolte e messe per iscritto le testimonianze di coloro che avevano vissuto con Francesco. Una parte dei documenti radunati in quegli anni dai suoi compagni più stretti (in particolare i frati Leone, Angelo e Rufino) venne utilizzata dal medesimo agiografo nel 1246 per compilare una Vita secunda, meglio circostanziata ma che ne rileggeva la storia alla

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luce delle crisi che l'Ordine stava attraversando e che aveva portato all'allontanamento di frate Elia dalla direzione dello stesso. Detta Vita fu completata verso il 1250 da una raccolta dei miracoli del santo (Tractatus de miraculis). Altre tradizioni, più locali e più vicine alla base del movimento francescano, trovarono espressione intorno al 1240 nello scritto dell'Anonymus Perusinus e nella Compilatio Assisiensis, conosciuta anche sotto il nome di. Legenda trium sociorum, o sotto forma poetica (Sacrum commercium sancti Francisci cum Domina Paupertate), opere che in alcuni punti contraddicevano la versione ufficiale dei fatti. Nel 1260 Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dei frati Minori, volle porre fine una volta per tutte a queste discordanze compilando una nuova biografia del fondatore, la Vita maior, presto seguita da una Vita minor, versione abbreviata della precedente, e nel 1266 diede l'ordine di distruggere tutte le biografie anteriori. Questa disposizione autoritaria non risolse il problema; infatti, allorché, alla fine del XIII secolo e all'inizio del XIV, si inasprì il conflitto all'interno dell'Ordine tra la maggioranza dei membri e gli « Spirituali», seguaci di un rigorismo che non ammetteva compromessi, questi ultimi compilarono nuovi testi (Legenda Perusina, Speculum paupertatis, ecc.) per sostenere le loro tesi sulla base di florilegi precedenti. L'arte figurativa, infine, svolse un ruolo importante nella costruzione a posteriori della figura di san Francesco Giotto, in particolare, con i suoi geniali cicli pittorici francescani di Assisi, Padova e Firenze, contribuì notevolmente a diffondere l'immagine di un santo taumaturgo, fedele collaboratore del papato ed eroe escatologico, che era quella che volevano promuovere i suoi committenti dell'Ordine e della gerarchia ecclesiastica, a scapito delle altre letture più concrete, come quella della Tavola Bardi, in Santa Croce di Firenze, che pone l'accento sul suo amore per i poveri e per gli infermi. Vivere secondo il santo Evangelo Non si può comprendere il successo ottenuto dalla predicazione di Francesco d'Assisi - alla sua morte erano già più di mille i frati Minori sparsi nel mondo cristiano e in Oriente - senza risalire al suo messaggio. Quando si cerca di definirlo, pare che esso si riduca ad alcune formule banali, perché egli non fu un teorico della vita spirituale. Questo laico, che scriveva in un latino rozzo e pieno di italianismi, ha lasciato fondamentalmente una testimonianza: quella di un uomo che ha voluto vivere il messaggio evangelico nella sua integralità. «Vivere secondo il santo Evangelo», per usare l'espressione sua, era, all'alba del XIII secolo, un'idea innovativa, almeno all'interno della Chiesa; diversi movimenti religiosi, come quello dei Valdesi, avevano già avanzato tale rivendicazione prima di essere condannati come eretici dal papato nel 1184. Il Poverello si situa proprio nella scia di questo evangelismo popolare che egli si sforzò di vivere e di far accogliere in seno alle istituzioni ecclesiastiche, nei confronti delle quali si mostrò sempre obbediente e rispettoso. A partire dalla sua conversione, infatti, si sforzò di «seguire nudo Cristo nudo» calandosi volontariamente nelle stesse situazioni concrete che aveva conosciuto «il Figlio dell'Uomo che non aveva dove posare il capo». Con lui, per la prima volta nella storia del cristianesimo, la vita religiosa non è più concepita soltanto come una contemplazione del mistero infinito di Dio - sebbene la preghiera abbia occupato un posto centrale nella sua esperienza spirituale - ma come una imitazione o, meglio ancora, come la ricerca di una conformità sempre più stretta al Cristo povero, umile e sofferente, dal cui sacrificio scaturisce sia la nostra filiazione divina sia la nostra fraternità umana. Come si sa, la povertà è al centro del messaggio francescano per cui rappresenta un programma concreto di esistenza, individuale e collettiva, assolutamente nuovo. Alla sua epoca, infatti, i monaci più austeri, anche se personalmente sprovvisti di risorse, erano grandi proprietari terrieri e facevano parte del sistema signorile e feudale. Con Francesco le esigenze di distacco dai beni si fanno più forti, giacché egli chiede ai suoi seguaci di non possedere alcunché, né in proprio né in comune, e di accontentarsi del ricavato del proprio lavoro e della mendicità. Vivere secondo il Vangelo implica infatti ai suoi occhi di accettare la precarietà economica e una dipendenza ,quotidiana dagli

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altri per assicurarsi il necessario. E una condizione, pertanto, che lo accomuna ai poveri e agli emarginati. L'altro elemento del messaggio francescano, strettamente collegato al precedente, è costituito dall’umiltà, come testimonia il nome di «Minori» dato alla sua fraternità. All'interno di quest'ultima Francesco si augurava che regnassero l'uguaglianza e l'amore reciproco. Il rapido aumento del numero dei frati e l'intervento del papato lo obbligarono ad istituire una gerarchia interna. Pertanto, la Regola del 1223 stabiliva che l'Ordine fosse retto da un ministro generale, le varie province da ministri e i singoli conventi da semplici guardiani. Tutte queste funzioni, però, erano elettive e temporanee, e il ruolo importante assegnato al capitolo generale annuale, al quale in origine partecipavano tutti i membri del l'Ordine, attesta la preoccupazione del fondatore di creare una comunità religiosa basata non su rapporti verticali di autorità ma su un'obbedienza liberamente concessa e sulla correzione fraterna. Allo stesso modo Francesco chiese ai suoi frati di adottare un particolare atteggiamento di sottomissione nei loro rapporti con le istituzioni ecclesiastiche e con la società civile, evitando di reclamare per se stessi privilegi o protezioni. La sua ambizione non era di riformare la Chiesa, e ancora meno di aggredirla, ma di dare testimonianza di una assoluta fedeltà al Vangelo vissuto in mezzo al mondo e agli uomini, proponendo il modello alternativo di una fraternità sottratta al potere del denaro e della violenza e nello stesso tempo pienamente dedita all'adorazione di Dio e al servizio dei poveri. IV.3.3 Il dramma Albertino Mussato († 1329), notaio, è esponente di primo piano della vita politica del Comune di Padova (ambasciatore presso Bonifacio VIII e poi presso Enrico VII). La sua carriera subisce contraccolpi al momento degli scontri con la Verona di Cangrande della Scala. Nel 1315 viene incoronato poeta nella sua città. Ma quando Padova cade nelle mani di Marsilio da Carrara (1328), egli viene esiliato in Chioggia, dove muore. Contemporaneo di Dante, il Mussato è dunque un importante esempio d'intellettuale prestato alla politica, nel senso più nobile dell'operazione. È autore di rilevanti opere storiche: un'Historia Augusta, o De gestis Henrici VII Caesaris (sugli avvenimenti verificatisi in Italia dal 1311 al 1313, al tempo cioè della discesa dell'imperatore Enrico VII) e un De gestis Italorum post Henricum VII Caesarem (che continua l'opera precedente fino al 1321). È altresì autore di una serie di Epistole metriche d'importante rilievo poetico. Il Mussato vi discute, infatti, il decisivo problema dell'essenza e della finalità stesse della poesia, effettuando una difesa di questa assai interessante, in quanto ci permette di capire anche i punti di vista di chi quell'arte sottovalutava, o del tutto svalutava, negli ultimi decenni dell'età scientifica e agli albori dell'Umanesimo. In particolare nelle epistole IV e XVIII il Mussato afferma l'origine divina e il carattere di scienza della poesia, che consente una conoscenza vera, per ispirazione celeste. Anche le favole poetiche, infatti, sono ricche di sapienza autentica, che è la stessa che si deve cercare nelle Scritture. Ma l'opera per la quale resta famoso (e per la quale viene incoronato poeta) è una tragedia, l'Ecerinis. Il testo ha al centro le fosche vicende realizzatesi intorno al famigerato Ezzelino da Romano e alla sua famiglia: nella rappresentazione del Mussato Ezzelino viene generato, insieme al truce fratello Alberico, dal ventre della madre in seguito a un accoppiamento non col marito, ma col demonio in persona. Il tratteggiamento della parabola storica e umana del fosco genero di Federico II (che anche Dante pone all'inferno, nel girone dei violenti contro il prossimo) coincide con un'esaltazione della libertas padovana: l'intento evidente è quello di riattizzare nei suoi concittadini la fiamma del patriottismo, ricordando le atrocità commesse dagli odiosi tiranni di mezzo secolo prima.

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IV.3.4 La poesia lirica e religiosa La poesia religiosa dell'età scientifica è prevalentemente in latino. Strutture più sfruttate la sequenza e l'inno, che servono a esprimere da un lato l'unione di Dio e natura, dall'altro l'elevazione dell'uomo a Dio, cioè i principali temi teologico-filosofici che agitano il pensiero del secolo XIII. Tommaso da Celano († 1250 circa), entrato nell'ordine dei minori intorno al 1214, viene incaricato papa Gregorio IX di redigere la prima biografia di Francesco per la canonizzazione del santo. A Tommaso viene generalmente attribuita la famosissima sequenza della messa dei defunti, il Dies irae. Il testo esprime in maniera potentemente drammatica il momento della fine del mondo, della resurrezione dei morti e dell'attesa angosciosa del giudizio finale, e, al tempo stesso, la dolcezza affettuosa della misericordia e del perdono. Poeta latino, oltreché in volgare, Iacopone da Todi († 1306), nato verso il 1230, entra nell'ordine dei minori intorno al 1279. È autore, in volgare, del celebre Pianto della Madonna. In latino scrive un altro testo di grande fortuna, lo Stabat mater (sequenza dell'Addolorata) che si offre qui nel testo latino, in considerazione della sua agevole leggibilità anche per chi non conosca quella lingua: Stabat mater Stabat mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa, dum pendebat filius; cuius animam gementem contristantem et dolentem pertransivit gladius. O quam tristis et afflicta fuit illa benedicta mater unigeniti! Quae maerebat et dolebat et tremebat, cum videbat nati poenas incliti. Quis est homo qui non fleret matrem Christi si videret in tanto supplicio? Quis non posset contristari, piam matrem contemplari dolentem cum filio? Pro peccatis suae gentis Iesum vidit in tormentis et flagellis subditum, vidit suum dulcem natum morientem, desolatum, cum emisit spiritum. Eia, mater, fons amoris, me sentire vim doloris fac, ut tecum lugeam, fac ut ardeat cor meum in amando Christum deum, ut sibi complaceam.

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Sancta mater, illud agas, crucifixi fige plagas cordi meo valide; tui nati vulnerati, tam dignati pro me pati, poenas mecum divide. Fac me vere tecum flere, crucifixo condolere, donec ego vixero. Iuxta crucem tecum stare, te libenter sociare in planctu desidero. Virgo virginum praeclara, mihi iam non sis amara, fac me tecum plangere, fac ut portem Christi mortem, passionis eius sortem et plagas recolere. Fac me plagis vulnerari cruce hac inebriaci ob amorem filii; inflammatus et accensus per te, virgo, sim defensus in die iudicii. Fac me cruce custodiri, morte Christi praemuniri, confoveri gratia; quando corpus morietur, fac ut animae donetur paradisi gloria. IV.3.5 La letteratura d'evasione (narrativa) La letteratura d'evasione è un genere che trova espressione soprattutto nelle lingue volgari: romanzi cortesi, in lingua d'oil, in inglese, in tedesco, ecc.; è meno praticata nel volgare italiano. Presso la corte sveva di Sicilia, ma anche in seguito, dopo l'avvento di Carlo d'Angiò, opera il giudice messinese Guido delle Colonne († dopo il 1287), apprezzato poeta anche in volgare (Dante, nel De vulgari eloquentià, cita due sue canzoni). Scrive una storia romanzata, una sorta di romanzo storico, l'Historia destructionis Troiae, in 35 libri in prosa. Un altro autore bilingue (latino e milanese) è Bonvesìn (Bonvicino) da la riva (la «Ripa» di Porta Ticinese, il quartiere dove insegnava; † 1313). Frate terziario dell'ordine degli umiliati, Bonvesìn vive nel caotico momento di passaggio di Milano dal Comune alla Signoria e alle lotte tra i Della Torre e i Visconti. Sebbene scriva in volgare, la sua opera più importante è latina: il De magnalibus Mediolani, un trattato in prosa, in cui si dispiega un grande amore e un grande rispetto per Milano. Bonvesìn è convinto della straordinaria mobilità sociale della sua città: chiunque voglia, può procurarsi di che vivere dignitosamente. Milano è superiore a tutte le altre città per operosità, capacità, impegno dei cittadini: vi si trovano, per

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esempio, i migliori maestri, medici, artigiani. Il genere in versi della laus civitatis trova in quest'opera un'importante realizzazione. Certo, nemmeno Milano è indenne da alcuni dei problemi frequenti nella società tardomedievale: non mancano i peccatori, né i criminali, ma tuttavia resta la migliore. IV.3.6 La letteratura politica La politica, in quanto tema, è presente in numerosi generi letterari, storiografia ed epica di contenuto storico sopra tutti; altra forma espressiva dove il tema è molto frequente è quella epistolare (in particolare le lettere di personaggi politici o ecclesiastici: l'esempio più fulgido è l'epistolario di Pier della Vigna). Ma esiste anche una letteratura politica tecnicamente impostata, manuali di teoria del governo e dell'amministrazione: il testo più rilevante in questo senso è il De monarchia di Dante. IV.3.7 La letteratura scientifico-erudita IV.3.7.1 Le traduzioni filosofiche L'immissione massiccia del pensiero di Aristotele avviene grazie alle traduzioni, dal greco o dall'arabo. Spesso le traduzioni non sono semplici», ma vengono accompagnate da commenti e glosse di grande rilevanza ermeneutica, che costituiscono a loro volta dei veri e propri trattati, in quanto chiosano, spesso migliorandolo e aggiornandolo, il testo «classico» tradotto. IV.3.7.2 La filosofia e teologia Il dibattito filosofico-teologico nel XIII secolo si sviluppa, direttamente o indirettamente intorno all'ingente corpus del cosiddetto Aristotele latino (traduzioni e commenti). Con la conoscenza delle opere dello Stagirita comincia a istaurarsi la distinzione tra esegesi e teologia, intendendosi con la prima un metodo d'indagine di tipo argomentativo, che tende a ricercare sempre più il senso letterale, storico, la lictera della Scrittura (con conseguente nascita di strumenti bibliografici per la comprensione della Bibbia: concordanze, manuali sintetici). Non che si neghi del tutto l'interpretazione allegorica e spirituale, ma questa passa, aristotelicamente, a un secondo livello di lettura: prima il fatto sensibile (la lictera), poi quello sovrassensibile. In questo senso si distinguono il pensiero di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino: solo dal senso letterale si possono trarre gli argomenti; gli altri tre sensi si basano su di esso. L'interpretazione di tipo allegorico e spirituale (di tradizione tardoantica e carolingia) viene rivendicata dagli esponenti della corrente teologica cosiddetta mistica, contrapposta all'aristotelismo: Bonaventura da Bagnoregio, per quanto riguarda i pensatori; Angela da Foligno (fi 1309), per l'esperienza diretta di attingimento di Dio per via mistica. Si delinea in questo modo un sostanziale dualismo della cultura teologica dell'età scientifica: da un lato posizioni estremamente scientiste e razionalistiche, dall'altro misticismo estremo (corrente della teologia «mistica»). All'interno delle posizioni razionalistiche (cioè dell'«aristotelismo mediolatino»), è possibile poi distinguere tre correnti fondamentali, cui fanno capo i più importanti esponenti del pensiero teologico (ma i confini tra l'uno e l'altro degli indirizzi non sono sempre cristallini). La situazione può pertanto esser così sintetizzata: 1) Averroismo: è la corrente aristotelica che legge Aristotele solo attraverso i commenti del filosofo arabo Averroè. Essa finisce con l'esser considerata

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pericolosamente eretica, in quanto sostenitrice dei princìpi dell'«unità dell'intelletto» e della «doppia verità». Principale esponente: Sigièri di Brabante►. 2) Tomismo: è la lettura «ortodossa» di Aristotele, effettuata esclusivamente sulle traduzioni direttamente dal greco (soprattutto di Guglielmo di Moerbeke), rifiutando qualsiasi intermediario e commentatore. Principali esponenti: Alberto Magno► e Tommaso d'Aquino►. 3) Sperimentalismo: la corrente scientifico-sperimentale intende verificare le affermazioni di Aristotele sulla base di nuovi esperimenti. Principali esponenti due francescani inglesi: Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone►. Sull'altro versante si pone il misticismo, cioè quel pensiero d'impostazione platonico-agostiniana che tende a ridimensionare fortemente l'importanza della logica e della dialettica nel percorso di attingimento di Dio, avvicinandosi a posizioni escatologico-apocalittiche (sulla scia del pensiero già di Bernardo di Chiaravalle e, per altri aspetti, di Gioacchino da Fiore). Principali esponenti soprattutto tra i francescani della corrente spirituale": Bonaventura da Bagnoregio, Alessandro di Hales. Giovanni Duns Scoto. Pietro Olivi. L'esponente più autorevole della corrente averroistica (cioè dell'aristotelismo arabizzante di ascendenza averroista) è il belga Sigieri di Brabante († 1284), chierico e canonico di San Paolo a Liegi, docente allo studio di Parigi), sulle cui dottrine si condensa l'opposizione «ortodossa» (fino a una condanna, e all'esilio). Morì a Orvieto, assassinato da un chierico che gli faceva da segretario, còlto da un raptus di follia, mentre aspettava la sentenza d'appello del papa sull'accusa d'eresia. La corrente che prevede l'interpretazione fedele e diretta dei testi aristotelici è seguita soprattutto dai domenicani. Sant'Alberto di Colonia, detto Alberto Magno († 1280), nato in Svezia, studia a Padova, ed è poi docente tra l'altro a Parigi, dove ha tra gli allievi Tommaso d'Aquino. Nel 1254 ha il compito di fondare uno studium in Germania, a Colonia. Nel 1260 è nominato vescovo di Ratisbona, ma poi torna all'insegnamento. Figlio del conte Landolfo d'Aquino, formatosi a Montecassino e a Napoli, e poi allievo di Alberto Magno a Parigi, san Tommaso d'Aquino († 1274), soprannominato doctor angelicus, insegna in varie università d'Europa. Si occupa di politica nel De regimine principum, dove si sostiene il principio della necessità dello Stato; in quest'opera Tommaso si dimostra contrario alle tesi teocratiche: ritiene che il potere legislativo derivi da Dio ai regnanti, ma attraverso il popolo (e non attraverso il papa!), e affermala distinzione di àmbiti e di sovranità tra potere civile e potere religioso. Le sue opere fondanti, sulla strada della coesistenza completa e pacifica della tradizione patristica con le nuove acquisizioni metodologiche del razionalismo aristotelico, sono la Summa theologiae e la Summa contra gentiles. Della prima, Tommaso arriva a comporre fino alla parte III; il resto, il cosiddetto Supplementum, fu preso da un'altra sua opera, il Commento alle «Sentenze» di Pietro Lombardo. Secondo Tommaso, teologia e filosofia sono tra loro autonome, e rappresentano due vie - assolutamente legittime - per raggiungere l'unica verità. Il punto d'incontro tra le due è rappresentato dalla «teologia razionale», che comprende alcune verità (esistenza e attributi personali di Dio, immortalità dell'anima, ecc.) che, pur essendo contenute nella rivelazione, sono dimostrabili con procedimenti razionali. Esponente della corrente platonico-agostiniana (mistica) è fra Bonaventura da Bagnoregio († 1274), uno dei protagonisti dello scontro tra clero secolare e ordini mendicanti per l'insegnamento all'università di Parigi; dal 1257 è generale dell'ordine dei minori; dal 1274 cardinale e vescovo d'Albano. Bonaventura è avversario dell'aristotelismo in generale, e fiero oppositore, in particolare, delle dottrine averroiste.

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IV.3.7.3 Le enciclopedie Essendo stati l’XI e il XII secoli di straordinaria accumulazione critica in tutti i campi del sapere, nel XIII si manifesta l'esigenza di operare una riflessione, e quasi una metabolizzazione, di queste nuove conoscenze. Così, nell'età scientifica si perfeziona lo strumento principale del sapere complessivo, sintetico: le enciclopedie (che possono prendere anche il nome di summae). Frate domenicano, lector nel monastero cisterciense di Royaumont-sur-Oise, Vincenzo di Beauvais († 1264) è legato d'amicizia col re di Francia Luigi IX il Santo, dei figli del quale è precettore. Oltre a scritti pedagogici, Vincenzo resta famoso per la realizzazione della più ampia enciclopedia del medioevo, lo Speculum maius, anch'esso dedicato a Luigi IX, sintesi ampia e complessiva della scienza e della cultura contemporanea. Come nelle altre opere, l'autore dà prova delle sue eccezionali capacità di compilatore sistematico e meticoloso, caratteristiche che rappresentano le vere qualità superiori dello Speculum. Ci sono comunque anche spunti metodologici di non scarso spessore, come nel caso della questione intorno al modo di citare le fonti, che Vincenzo pone con grande rigore e serietà metodologica «moderna». L'opera è divisa in tre sezioni: lo Speculum naturale, lo Speculum doctrinale (in cui la cultura umanistica è posposta a quella scientifica) e lo Speculum historiale (apocrifo lo Speculum morale). Lo Speculum naturale tratta dell'origine del mondo, dei materiali, poi dell'uomo, dell'anima, dei sensi, delle proprietà del corpo umano; il doctrinale espone «de doctrinis et artibus» (arti liberali, economia, diritto, medicina, fisica, matematica, teologia, ecc.); l'historiale narra la storia umana da Adamo al 1250 VI.3.7.4 La retorica Accanto allo studio di Parigi (Giovanni di Garlandia, Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinsauf), consegue grande importanza nel proseguimento dell'insegnamento della retorica, nel corso del secolo XIII, lo studio di Bologna (vi studia anche Goffredo di Vinsauf, che scrive una Poétria nova). Sulle sue cattedre si succedono una serie di docenti (Boncompagno da Signa, Bene da Firenze, Guido Faba) la cui dottrina e i cui trattati tendono a ricondurre sempre più il dictamen nell'ambito dell'ars rhetorica. Si può affermare che con Bene da Firenze e Guido Faba lo studio di Bologna tocchi il suo apogeo e l'ars dictaminis italiana assuma in Europa un primato che non sarà contrastato per secoli. Boncompagno da Signa († 1240), fiorentino d'origine, si sposta ben presto a Bologna, dove insegna grammatica e retorica. Molto impegnato anche dal punto di vista politico e diplomatico, si vanta d'esser l'iniziatore dell'ars dictaminis e si autodefinisce l'erede di Cicerone. Della disciplina è senz'altro il primo a mettere in evidenza gli aspetti maggiormente giuridici, accentuandone al contempo l'impronta laica e civile. E’ autore di numerosi trattati: il Boncompagnus (o Rhetorica antiqua), la Palma (sull'epistola in generale e le sue parti), la Rota Veneris (sull'epistola amorosa) e la Rhetorica novissima (in tredici libri). Le novità tecniche da lui apportate s'individuano soprattutto nella divisione dell'epistole in tre parti (anziché nelle tradizionali cinque) e, ciceronianamente, nella definizione dei compiti del dettatore: Boncompagno lo vede soprattutto come un tecnico, padrone assoluto della produzione teorica e della concretizzazione pratica (redazione effettiva delle lettere). Per esemplificare l'uso delle norme da lui stesso elaborate, scrive un'operetta storica, il Liber de obsidione

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Anconae, sul vano assedio cui fu sottoposta la città marchigiana da Federico Barbarossa nel 1173. Avversario scientifico di Boncompagno è il maestro bolognese Bene da Firenze († prima del 1242). Il suo Candelabrum, infatti, è in polemica con le dottrine dell'autore della Rhetorica novissima, anche perché Bene si rifà molto agli insegnamenti delle scuole francesi contemporanee, e in particolare a Matteo di Vendôme e a Goffredo di Vinsauf. Coetaneo e collega di Bene allo studio bolognese è Guido Faba († 1250 circa), autore, tra l'altro, di una Summa dictaminis, assai famosa e diffusa anche nella tradizione manoscritta, anche se in buona parte fortemente dipendente dal Candelabrum. In un'altra opera, poi, la Gemma purpurea, Guido sviluppa i primi esempi di prosa in lingua anche volgare. L'esponente più autorevole, sia pure non teorico, dello stile epistolare, autentico e riconosciuto inventore dello stilus supremus (veicolo per eccellenza di propaganda politica), è Pier della Vigna († 1249), consigliere politico e culturale di Federico Il. Accolto dall'imperatore intorno al 1220 nella cancelleria imperiale come notaio, diviene prima giudice della magna curia, poi, guadagnatosi la fiducia del sovrano, il suo più ascoltato consigliere e collaboratore (partecipa anche alla stesura delle Constitutiones Melphitanae, il nuovo corpus legislativo del regnum Siciliae emanato dallo Svevo nel 1231). Ambasciatore presso il papa e in Inghilterra, nel 1247 viene nominato logoteta del regno e protonotario della corte. Ma, a metà febbraio del 1249, caduto in disgrazia improvvisamente, accusato di tradimento, viene arrestato e pare si sia dato poco dopo la morte. La sua vicenda suscitò un enorme scalpore, di cui è traccia nelle cronache contemporanee, che ben presto ne fecero un personaggio mitico: si ricorda qui per tutti il canto XIII dell'Inferno, dove, sia pure dannato tra i suicidi, di Pier della Vigna è dato un ritratto al tempo stesso appassionato e positivo ed egli può proclamare la propria innocenza rispetto alle accuse di tradimento nei confronti dell'imperatore. Pier della Vigna è forse il più grande degli epistolografi medievali: a lui si deve, nella sua qualità di autore delle lettere dell'imperatore e della curia imperiale, la formazione dello stile della magna curia federiciana, uno degli esempi più complessi, preziosi, involuti e colti della prosa latina del tardo medioevo. Di Pier della Vigna, oltre all’epistolario, rimangono anche una serie di composizioni minori in versi (sia latini sia in volgare). L'opera di retorica più importante dell'età scientifica, che chiude simbolicamente il medioevo e apre la speculazione posteriore sul terreno della “questione della lingua” è il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri (1265-1321: di Dante viene omesso il cenno biografico perché reperibile dovunque con assolta facilità). Il De vulgari eloquentia, cominciato non prima del 1304 secondo un progetto in quattro libri, non va oltre il capitolo II. Con quest'opera in latino Dante intende giovare alla conoscenza e all'uso del volgare, sottoposto ad analisi scientifica. Nel primo libro si tratta dell'origine del linguaggio: dalla lingua ebraica, comune a tutti, la confusione di Babele fa nascere tre lingue, il greco, il germanico e il latino, da cui nascono le lingue volgari, tra cui il volgare italico («vulgare Latium»). Questo si fonda su quattordici dialetti, che Dante passa in rassegna con grande perizia e precisione: nessuno di questi, per caratteristiche e tradizione, può imporsi sugli altri e diventare la lingua nazionale; è necessario allora ricorrere al «volgare illustre», cioè a quell'astrazione unitaria che, evitando tutti i particolarísmi e i localismi, riesca a esser davvero una lingua «illustre», «cardinale», «aulica» e «curiale». Di questa lingua esistono però anche alcune realizzazioni concrete: la lingua dei rimatori siciliani e la lingua poetica di Cino da Pistoia e del «suo amico» (Dante stesso). Il secondo libro è

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dedicato alla dimostrazione che al «volgare illustre» si addicono soltanto le materie alte e nobili (amore, armi, virtù: salus, venus, virtus), e che queste possono esser trattate soltanto con lo stile più alto, lo stile «tragico». IV.4 La produzione artistica (cenni) Secc. XII (II metà) e XIII La creazione artistica cui soprattutto corre il pensiero quando si cerchi di offrire una cifra di questo periodo è certo rappresentata dall’architettura gotica (ed anche dai prodotti della scultura che si legarono funzionalmente a completare il progetto decorativo di quell’architettura). A differenza del romanico, essa ha quasi, per così dire, un atto di nascita, perché ha origine nella regione circostante Parigi poco prima della metà del XII secolo (ILL. 81) ed anticipa di una cinquantina d’anni i primi pionieristici tentativi di innesto nel nuovo stile negli edifici ecclesiastici italiani. La cattedrale o la chiesa abbaziale gotica francese è spesso un edificio dalle dimensioni colossali, slanciato e luminoso, costruito talvolta ricorrendo a spericolate soluzioni tecniche: essa è una sorta di ‘metafora del mondo’: ancorata a terra, tende con una progressiva semplificazione con l’assottigliarsi delle strutture a lanciarsi verso il cielo, esprimendo l’anelito dell’anima a ricongiungersi a Dio. Le navate s’innalzano ad altezze vertiginose, le volte sono sospese a decine di metri dal suolo, tutti gli archi sono a sesto acuto (di contro all’arco a ‘tutto sesto’ che aveva caratterizzato l’architettura romanica): ed è l’arco a sesto acuto la forma caratteristica dell’architettura gotica, perché imprime un ritmo verticale alle nuove costruzioni. La luce è poi un altro componente essenziale: un edificio religioso doveva rifulgere di luce, soprattutto, intuibilmente, nelle sue strutture più elevate dal suolo e comunicarla alle zone sottostanti, rifulgendo sui metalli preziosi, sulle gemme degli altari. Il periodo classico dell’arte gotica francese è ritenuta la prima metà del XIII secolo. (Chartres, tra il 1194 e il 1230) (ILL.61) Bourges). (ILL. 82) ma è di qualche decennio (c. metà del XIII secolo) posteriore la radicalizzazione delle caratteristiche architettoniche del gotico che tende ancor più a svuotare le pareti, ad assottigliare le strutture ad impiegare le vetrate in senso sostitutivo della parete. E’ il c.d. ‘gotico radiante’ di cui esempio a Parigi, la Sainte-Chapelle, c. 1241, fatta erigere da s. Luigi re di Francia come santuario palatino e come custode delle preziose reliquie giunte da Bisanzio(ILL. 83). Funzionalmente legata al testo architettonico è anche la scultura transalpina: la cattedrale diviene una sorta di espressione di una completa dottrina dell’umano e del divino e la scultura asseconda questo criterio di lettura dell’edificio immettendovi schemi dottrinari di incredibile complessità nei quali le figure e le scene sacre si connetto, tramite, a volte, a legano concettuali estremamente sottili, a personificazioni e ad allegorie riguardanti i più vari aspetti del pensiero e della vita. (ILL. 84) IV.4.1 L’Italia In Italia, invece, l’architettura gotica stenta ad affermarsi: essa darà luogo a formulazioni moderate o romanico-gotiche che rifiutano l’esasperato slancio verticale delle chiese transalpine e lo svuotamento dell’involucro murario. La tradizione romanica è, infatti, troppo forte e ben radicata nelle diverse realtà regionali per non opporre una forte resistenza alla penetrazione di nuovi modelli. Non a caso il gotico

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giungerà in Italia attraverso forme più moderate, con riferimento ai modelli (che anche erano francesi) rappresentati dalle costruzioni cistercensi. (ILL.85)Esemplare, a questo proposito, il complesso di Fosssanova nel Lazio, iniziato nel 1187 e consacrato nel 1206. (ILL.86) Un esempio di mescolanza tra elementi romanici e gotici è S. Andrea di Vercelli, in cui è romanica la facciata a capanna, mentre l’interno è risolutamente gotico. (ILL. 87) Nel quadro della diffusione del gotico in Italia assume particolare rilievo la basilica di S. Francesco di Assisi, sia per le caratteristiche strutturali, sia per le decorazioni pittoriche. S. Francesco rappresenta la sepoltura del santo: ma per tradizione il corpo di un santo era posto in una cripta: ma qui si vuole che essa sia ampia quanto una chiesa: perciò sono costruite due chiese sovrapposte: la chiesa-cripta inferiore (ILL. 88)e quella superiore finalizzata alla predicazione, un’attività centrale nella dottrina francescana e degli ordini mendicanti(ILL.89) Negli ultimi anni del XIII secolo le interpretazioni del Gotico nell'Italia centrale sono tutt'altro che cristallizzate. Dal 1290 si apre il cantiere della cattedrale di Orvieto (ILL.97), talora a torto attribuita ad Arnolfo di Cambio. Molto diversa è la contemporanea chiesa francescana di San Fortunato a Todi (1292-1328), anch'essa a tre navate, tutte di eguale altezza (è questa una nuova soluzione architettonica). Rispetto a questi precedenti, fiorentini e non, la chiesa di Santa Croce a Firenze (ILL.98) iniziata nel 1294-95 (e costruita sino al 1442 in base al progetto iniziale forse di Arnolfo di Cambio), si presenta come un caso a sé. La pianta è simile a quella di Santa Maria Novella (ILL. 99): croce latina a tre navate, con transetto su cui si affacciano le cappelle orientate, cinque per parte ai lati della cappella maggiore. La grande navata centrale (larga 20 m, alta 34 m) si fonde con le laterali determinando la sensazione di un unico, immane vano. Allo stesso tempo la chiesa esprime, per l'austerità degli ornati e la semplicità dell'invaso spaziale, l'aspirazione pauperistica e la religiosità emotiva dell'Ordine francescano. Il paramento esterno di Santa Croce doveva caratterizzare, secondo il piano di Arnolfo, anche l'esterno di Santa Maria del Fiore, la cattedrale fiorentina cui si pone mano sotto la sua direzione dal 1296. Il progetto di Arnolfo qual è ricostruibile in base a disegni: la cattedrale attuale, peraltro, corrisponde solo in parte al progetto iniziale, poiché la morte di Arnolfo, poco dopo il 1302, blocca lo slancio iniziale dei lavori. Più tardi Giotto erigerà il campanile (dal 1334) e Francesco Talenti, dal 1355, la chiesa vera e propria sulla base di una revisione del piano originario (la facciata è ottocentesca). IV.4.2 La scultura in Italia Benedetto Antelami: L’architetto del battistero di Parma è anche il più importante scultore italiano attivo a cavallo tra il XII e il XIII secolo e si ispira alla tradizione nel romanico padano (Wiligelmo) rinnovandola alla luce dei più innovativi esempi transalpini. Particolarmente noto, oltre alla Deposizione, (ILL.90.) è Il ciclo dei mesi e delle stagioni, forse destinato ad un portale della cattedrale ma riposto nel battistero, con cui si descrive la vita dell’uomo nei diversi periodi dell’anno, cadenzata dai lavori agricoli stagionali. L’insistenza sulla raffigurazione del lavoro significa che esso non cade più sotto il segno della maledizione divina, ma è considerato un’attività nobilitante e salvifica anche dalla Chiesa. (ILL. 91-92)Il tema dei mesi offre all’Antelami l’occasione per descrivere figure in atti quotidiani, strumenti di lavoro, piante e frutti, per illustrare la vita dell’uomo e del suo ambiente.

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Nicola Pisano La fama di Nicola Pisano è soprattutto legata alla sua opera di scultore ma occorre ricordare che egli fu anche architetto e che gli vengono attribuite alcune delle più innovative realizzazioni dell’architettura toscana tra il 1247 e il 1278: a Pisa, forse nel campanile della chiesa di S. Michele (terminato nel 1250) e nel Battistero, iniziato da Diotisalvi. Anche a Siena Nicola lavora alla cattedrale dal 1247 a circa il 1268. Poco dopo la metà degli anni ’40 l’artista è alla testa di un’impresa ampia e ramificata, con numerosi aiuti che lavorano alle sue dipendenze. Della sua attività di scultore uno degli esempi più antichi appare a Siena nel duomo uno degli esempi più antichi, la testa-capitello di Giove, che riprende modelli federiciani (Nicola è noto, agli inizi della sua attività come ‘Nicola di Puglia, indizio significativo della sua formazione e presenza nell’ambiente di Federico II). Oltre alla Deposizione nella lunetta del portale di S. Martino a Lucca, deve essere ricordato il suo capolavoro, il Pulpito per il battistero di Pisa, firmato e datato 1260 (ma iniziato verso il 1257). La lettura di questo testo scultoreo evidenzia una ‘inventio’ in cui l’autore si distacca dall’allegorimo tradizionale nella raffigurazione della crocifissione: negli angoli superiori si vedono infatti la Chiesa introdotta da un angelo e, al lato opposto, la Sinagoga che viene scacciata. Inoltre, lo svenimento di Maria a sinistra è desunto da fonti letterarie francescane; inedite sono le espressioni del dubbio nel gruppo dei presenti di destra (si veda il fariseo che si tocca nervosamente la barba). (ILL. 94) Arnolfo di Cambio Allievi di Nicola Pisano furono Arnolfo di Cambio e i figlio Giovanni Pisano, entrambi architetti e scultori, direttori di grandi botteghe, attivi sino agli inizi del XIV secolo. Arnolfo di Cambio (c. 1245-1302/10) è dapprima al servizio di Carlo d’Angiò, il che motiva la sua iniziale inclinazione verso modelli gotici. Arnolfo predilige composizioni più essenziali, con poche, grandi statue collocate nei gangli nodali della composizione, sulla scia di esempi gotici parigini. Di Arnolfo andrà sottolineato l’inedito realismo con cui realizza le immagini. Nel ritratto funerario del cardinale de Braye, nella chiesa di S. Domenico ad Orvieto, il volto del cardinale disteso sul sarcofago è ritratto sottolineando l’età avanzata del defunto (ILL. 95). Arnolfo è, infatti, tra i primi scultori a sfruttare calchi presi direttamente sul volto per ravvivare l'effetto realistico del ritratto funerario: sarà infatti tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo che si diffonderanno primi ritratti "veridici" dell'arte postclassica. Ma Arnolfo è anche il primo scultore a ritrarre un vivente, nel monumento a Carlo I d'Angiò (ILL.96), originariamente inserito in un complesso onorario in Santa Maria in Aracoeli a Roma, verso il 1277. Questo esempio, come il successivo Bonifacio VIII, destinato alla facciata di Santa Maria del Fiore, del 1300, indica che questi primi ritratti nascono con intenti di celebrazione politica: soltanto i "grandi" della terra possono ambire, per il momento, ad essere immortalati sicut sunt da un artista, in ritratti non concepiti come sculture isolate o destinati a una fruizione privata, ma inseriti entro ampi contesti monumentali destinati alla pubblica visione. Giovanni Pisano Erede materiale della bottega di Nicola Pisano è il figlio Giovanni (Pisa, c. 1248 - Siena, dopo il 4) che completa o riprende le imprese iniziate dal padre. L'originalità di Giovanni consiste nel risalto conferito al sentimento delle figure e nell'accordo tra quello e la mimica corporea. Su questa base egli opera un profondo rinnovamento dell'iconografia medievale. Lo vediamo già nella decorazione della facciata del duomo di Siena: i tre portali, strombati alla francese, sono il supporto di

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statue (Profeti e Sapienti dell'antichità, ora nel Museo dell'Opera del Duomo, che si muovono libere, completamente svincolate dall'architettura, naturali e inquiete Il rapporto di dipendenza/evoluzione nei confronti di Nicola Pisano si misura nel Pulpito per la chiesa di Sant'Andrea a Pistoia (terminato nel 1301, (Ill. 100), dove Giovanni riprende e modifica i prototipi paterni di Pisa e Siena. È esagonale, come quello pisano ma i rilievi del parapetto sono separati da grandi figure, come a Siena. È più slanciato in verticale, tramite il rialzo degli archi trilobati. Le modificazioni più appariscenti sono però di ordine figurativo, a partire dai veementi leoni stilofori e dall'angoloso e scarno Atlante che regge una colonna. Il secondo Pulpito di Giovanni Pisano, quello per il duomo di Pisa (1301-10) (ILL.101), che sostituisce il precedente pulpito romanico moltiplica i messaggi teologici per mezzo dell'infittirsi della scultura: vi appaiono, infatti, notazioni etiche quando, ad esempio, tra le quattro Virtù poste alla base della statua-cariatide dell'Ecclesia spicca la Temperanza nuda che si copre con le mani il seno e l'inguine (ILL.102), ma anche nozioni connesse con l’enciclopedismo religioso (i quattro fiumi del paradiso, le età ella vita umana). IV.5 La pittura in Toscana nella seconda meta del Duecento Gli sviluppi della pittura duecentesca in Toscana, tra Lucca, Pisa, Siena, Arezzo e Firenze, come pure la decorazione pittorica della basilica di Assisi, meglio si comprendono se considerati globalmente, con taglio diacronico, ponendo in evidenza l'evoluzione interna di questo settore artistico. Esistono fasi storiche durante le quali le diverse "tecniche" artistiche marciano all'unisono e tendono, nei rispettivi campi, a esiti analoghi. Non è questo il caso della Toscana del Duecento e, più in generale, dell'Italia del XIII secolo, dove si registra un forte iato tra lo stile dell'architettura e della scultura da una parte, e quello della pittura dall'altra. Tale scollamento è un'eredità dell'età romanica, quando la scultura, rinata dopo secoli di abbandono, si era collegata ai modelli nordeuropei, mentre la pittura restava ancorata a un'ininterrotta tradizione di scambi formali col mondo bizantino. Nel Duecento, o almeno per lunga parte del secolo, la situazione non cambia: il rinnovamento della scultura è ulteriormente accelerato dall'immissione dei modelli gotici, mentre l'arrivo in Italia di icone e di piccoli mosaici, oltre che di artisti orientali, continua a trattenere la pittura entro la tradizione bizantina, rinforzata addirittura dall'infittirsi degli scambi dopo la presa di Bisanzio e la formazione dei Regni latini d'Oriente (cfr. Crociate). Con l'arrivo delle maestranze federiciane in Toscana e con l'inizio dell'attività di Nicola Pisano, lo stacco tra la scultura, gotica e classicheggiante, e la pittura rimasta bizantina, tocca il culmine: i pittori sembrano disarmati di fronte alla capacità narrativa di Nicola, alla verosimiglianza, alla vivacità, alla drammaticità delle sue figure e dei suoi rilievi attorno al 1260. In questo momento, in ambito narrativo, la scultura è l'arte-guida: la pittura si sta trasformando, ma con lentezza e senza mai negare i suoi presupposti bizantini. Tuttavia, nel giro di due generazioni, bruciando le tappe, rinunciando di colpo a stilemi secolari, i pittori rinnovano i loro modelli e il loro linguaggio, sino a giungere con Giotto, dall'inizio degli anni novanta, a fondamentali innovazioni formali e narrative che rendono le loro "storie" quanto mai coinvolgenti; rappresentano in modo credibile le figure, i loro gesti e atteggiamenti, disponendole entro uno "spazio" riconquistato. Il successo della pittura è travolgente, offrendo oltre tutto la possibilità di decorazioni più economiche della scultura e di più rapida esecuzione: sino a che, nel Trecento, si assisterà ad un ribaltamento del rapporto tra le due arti e la pittura diventerà l’arte-guida.

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Il fenomeno più appariscente pittura toscana dall'inizio del Duecento è la grande diffusione delle tavole dipinte, mentre l'affresco è raramente praticato prima dell'ultimo quindicennio secolo: e la fortuna duecentesca di questa tecnica si spiega con l'appoggio degli ordini mendicanti, in particolare i francescani. Divisi al loro interno, dalla morte di san Francesco, tra i Conventuali e gli Spirituali - i primi, appoggiati dal Papato e dall'alta borghesia e desiderosi di ammirare nelle chiese dell'Ordine fastose decorazioni, anche pittoriche, i secondi invece avversi ciò che contravviene all'ideale della povertà - i francescani, tra gli estremi della rinuncia alla decorazione e di una decorazione inamovibile qual è quella offerta gli affreschi o dai mosaici, trovano conveniente una soluzione di compromesso: le tavole dipinte. Sono un fastoso ornamento per gli altari e le navate, possono essere eventualmente rimosse e, per di più, si prestano a essere trasportate per le vie delle città nelle processioni. I soggetti rappresentati nelle sono quelli cari ai Francescani: il Crocifisso, destinato a essere appeso davanti ai fedeli al termine della navata, per suscitare una commossa meditazione sui dolori del Golgota, sulla Redenzione, sul mistero dell'Incarnazione (ILL. 103); la Madonna col Bambino, rappresentata solennemente assisa in trono come metafora dell'Ecclesia, ma allo stesso tempo legata da un tenero rapporto col figlio, come emblema di una religione umanizzata (ILL.104); l'immagine di san Francesco, contornata, se possibile, dagli episodi miracolosi della sua vita, che promuove il culto popolare del santo (ILL.105). Di Bonaventura Berlinghieri da Lucca, documentato tra il 1228 e il 1274, è il dossale d'altare con San Francesco e storie della sua vita nella chiesa di San Francesco a Pescia, datato 1233 (ILL.106). Per quanto precoce, non è la prima immagine nota del santo (che compare già in un affresco a Subiaco nel 1228), ma nella tavola sono fissati per la prima volta in forma narrativa alcuni episodi salienti della sua vita: sei vivaci scenette allineate verticalmente ai lati della rigida, allungata, ieratica effigie. Secondo la tipologia compositiva più comune delle tavole d'altare duecentesche, il protagonista a piena figura, immoto, è fiancheggiato dalle "storie" a più personaggi e arricchite da cenni ambientali. Vale la pena di rilevare come, da quest'epoca, i santi effigiati sono sempre accompagnati da "attributi" fissi, allusivi alla loro vita e all'eventuale martirio, the ne rendono possibile l'identificazione. A san Francesco competono il saio francescano, le miracolose stigmate, il libro che lo qualifica come "quinto evangelista" (eventualmente sostituito da un piccolo crocifisso). Lasciando da parte le pur importanti realizzazioni lucchesi e pisane, sempre nell’ottica di una sempre più presente spiritualità francescana, che valicherebbero i limiti ristretti concessi a questo ‘profilo’ storico-artistico, conviene ancora ricordare Dante per introdurre la maggior personalità della pittura fiorentina pregiottesca, Cenni di Pepi detto Cimabue (notizie 1272-1302), colui che, come scrive il poeta, sembrava "tener lo campo", dominare cioè la scena artistica, prima di venire sopravanzato da Giotto, il suo più geniale allievo. Due secoli e mezzo dopo la sua morte, Vasari attribuisce a Cimabue un ruolo storico fondamentale: si sarebbe discostato per primo dalla "maniera greca", "scabrosa goffa ed ordinaria" degli altri pittori duecenteschi, ritrovando il principio del "buon disegno". Permangono incertezze sulla datazione dei principali dipinti attribuitigli, anche per via dei rarissimi punti fermi della sua biografia: la presenza a Roma nel 1272; la preparazione di un modello per il mosaico absidale del duomo di Pisa nel 1301, la morte avvenuta a Pisa nel 1302. Le ultime due date, le uniche alle quali corrisponde un'opera sopravvissuta, appunto il San Giovanni a mosaico nell'abside pisano, riguardano comunque la fase conclusiva della sua vita, quando l'astro di Cimabue è oscurato ormai dall'ascesa di Giotto.

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La grandezza di Cimabue si comprende ponendo a confronto la più antica delle sue opere, il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo, databile entro il 1270, col più moderno Crocifisso del Museo dell'Opera di Santa Croce a Firenze (ILL. 107 a-b), di una decina d'anni più tardi. La tavola aretina non propone novità assolute, ma dimostra che Cimabue si orienta in senso moderno ispirandosi al modello" di Giunta Pisano in San Domenico a Bologna (ILL.108), forse per esplicita richiesta dei committenti domenicani II confronto con Nicola serve soprattutto a Cimabue per definire e valorizzare lo specifico linguaggio della pittura, per mettere a punto il naturalismo necessario per suscitare il coinvolgimento emotivo di chi guarda. Il Cristo di Santa Croce è ancora più emaciato e inarcato. Ma sono scomparsi i duri grafismi anatomici ancora presenti nella Croce di Arezzo. Le linee che segnavano i profili, le ossa, i muscoli sono sostituite da ombre sfumate, con le quali il pittore modella il rilievo in accordo con una fonte di luce approssimativamente calcolata. Le ombre si scuriscono in relazione con la profondità degli incavi e degli scorci: appena accennate sui gomiti o sulla muscolatura del ventre, si fanno più marcate sotto la testa, sul fianco, tra le gambe. Cimabue è il primo pittore, dopo secoli di dure grafie, a usare il colore in questo modo; i morbidi e sfumati trapassi gli consentono di conseguire un inedito naturalismo. IV.6 I pittori del cantiere di Assisi La rivoluzione stilistica della storia della pittura in Italia, quando si forma lo stile che Vasari definisce "latino", per contrapporlo al "greco" dei Bizantini, si coglie innanzi tutto nella basilica di Assisi, dove le tendenze più innovative della pittura duecentesca trovano alimento nei programmi autocelebrativi dell'Ordine francescano e del papato. Fondamentale è la chiamata di Cimabue, cui è richiesto di eseguire affreschi nella basilica superiore, certo per interessamento papale e in conseguenza della fama acquisita a Roma (dov'è documentato nel 1272). La cronologia degli affreschi della basilica superiore è materia tra le più controverse della storia dell'arte italiana e si intreccia con i dibattiti dei Francescani, la cui ala spirituale continua a rifiutare di arricchire le chiese dell'Ordine con fastosi apparati decorativi. Nel Concilio di Narbona (1260) i francescani optano ancora per la scelta rigorista escludendo l'uso delle immagini, perfino a scopo didattico. Ma per il momento la decisione non coinvolge la basilica di Assisi. Nel 1279 un altro concilio dei francescani, tenuto proprio ad Assisi, ribadisce l'indirizzo aniconico, suscitando però una ferma reazione da parte di papa Niccolò III. È però probabile che il fautore della decorazione sia un suo successore, Niccolò IV (1288-92), il primo francescano assurto al trono papale e che per di più è un grande mecenate, prodigo di donativi per la basilica assisiate: con una bolla del 1288 decreta che le abbondanti elemosine offerte dai pellegrini convenuti ad Assisi servano a finanziare la decorazione della chiesa. I primi affreschi compaiono dunque nella basilica superiore nel 1288: tra di essi è anche il ciclo che si dispiega sulle volte e sulle pareti dei transetti e del coro, affidato a Cimabue e alla sua équipe di allievi e aiuti. Gli affreschi, che narrano le Storie dei SS. Pietro e Paolo, le Storie di Maria, l'Apocalisse, non sono più ben leggibili. Nella Crocifissione (ILL.109) del transetto sinistro, con le sue numerose figure fortemente gesticolanti sotto un cielo affollato da angeli in pose di sgomento e di strazio, è ancora leggibile un'immagine potentemente drammatica: un punto d'arrivo delle tensioni patetiche suscitate dai Francescani intorno al tema della croce, da Giunta Pisano in poi. Nel cantiere assisiate giunge, probabilmente al seguito di Cimabue, anche Giotto giovane, che lascia un segno della sua abilità tecnica e narrativa nelle Storie di Isacco affrescate nella chiesa superiore.

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Siamo qui probabilmente di fronte alla più antica opera a noi nota di Giotto (c. 1267-1337), (ILL.110) l'allievo fiorentino di Cimabue, nato a Vespignano (Vicchio di Mugello). Secondo la leggenda Cimabue l'avrebbe incontrato in campagna, mentre ritraeva su una roccia la pecorella di un gregge con tanta abilità da convincere seduta stante il maestro a invitare quel giovanetto nella sua bottega. Ancora a Giotto e all'interno della stessa sequenza di opere suscitate da Niccolò IV, vale a dire verso il 1290-95, spettano le Storie di san Francesco sulle pareti della navata della basilica superiore di Assisi, ciclo capitale della pittura italiana: difficile immaginare oggi quale meraviglia dovesse suscitare nei fedeli e nei pellegrini, non appena dipinta, questa monumentale storia suddivisa in ventotto riquadri, che si svolge per tutta la parete destra, verso l'ingresso della chiesa, gira nella controfacciata e torna indietro lungo la parete opposta, descrivendo le vicende del santo titolare della basilica, dalla giovinezza alla morte, alternando gli episodi storici ufficiali a quelli delle leggende care all'agiografia popolare e concludendosi con i miracoli postumi. Niente più ori, o fissità iconiche, o simboli astrusi. Consideriamo una delle scene, l'Omaggio dell'uomo semplice (ILL.111). Si svolge lungo una via che gli spettatori potevano riconoscere immediatamente come un sito reale di Assisi, tra il Palazzo Comunale e il Tempio di Minerva. Il santo incede e un cittadino stende il mantello al suo passaggio: la scena naturale e credibile, la mimica dei protagonisti è chiarissima. Anche i bambini, assenti da secoli nell'arte sacra, ritrovano posto nella pittura giottesca, nelle scene di folla, dove la loro presenza aggiunge un necessario "tocco" di casualità quotidiana, ad esempio nella Rinuncia ai beni (ILL.112). E non si sa se ammirare maggiormente, in questo affresco, la varia rappresentazione della folla, o la verosimile posa di Bernardone trattenuto da un astante, o il sorprendente studio anatomico del corpo seminudo di Francesco. Mentre è però evidente che Giotto tratta il paesaggio in modo ancora arcaico, mantenendo la convenzione bizantina delle rocce scheggiate e senza definire con precisione le distanze e il succedersi dei piani in profondità, clamorosa è la spazialità degli ambienti architettonici. Giotto rifiuta dunque il retaggio bizantino e certa enfasi espressiva che ancora sopravviveva nelle opere del suo maestro, Cimabue, del quale isola semmai e accentua la componente naturalistica. Appoggiandosi poi, come Nicola Pisano e come Arnolfo (le cui opere ha conosciuto a Roma), alle componenti classiche latenti nello stile gotico, nonché alle figurazioni paleocristiane romane, recupera effetti di plasticità e di spazialità dimenticate da secoli. APPROFONDIMENTO I simboli nell'arte medievale Il simbolo (dal greco symbolon = raccostamento) è procedimento proprio di tutte le immagini artistiche, essendo queste per loro stessa natura segni o figure significanti una realtà (o significato) che è diversa e altra dall'immagine in sé. Il rapporto concettuale fra significante e significato è, nel simbolo, immediato, mentre con il termine di allegoria (greco allegoria, lat. alieniloquium = discorso per un altro) si intende una corrispondenza allusiva che appartiene ad una sfera intellettualmente più elaborata, nella quale l'immagine conserva una propria autonomia rispetto all'idea astratta che viene intenzionalmente espressa. In modo particolare il simbolo e l'allegoria costituiscono i fondamentali schemi espressivi della cultura e della spiritualità medievali, si tratti di teologia, di mistica o dì arti figurative. Il simbolo infatti si inquadra coerentemente in una concezione unitaria di vita e di fede nella quale la filosofia, le scienze naturali, le arti (del trivio e del quadrivio) e le tecniche umane cospirano nel loro insieme ad un'armonia superiore. La giustificazione teologica da darsi alle arti

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figurative divenne motivo costante della problematica estetica medievale soprattutto per confutare l'eresia iconoclastica: già Gregorio Magno e Gregorio II avevano enunciato il concetto che l'arte debba demonstrare invisibilia per visibilia, affinché per contemplationem figuratae imaginis l'anima sia elevata e orientata verso la luce, ossia la contemplazione dei misteri spirituali. Tutto l'universo è concepito in una prospettiva sacrale, in cui le pietre, gli astri, gli elementi vegetali, gli animali e l'uomo costituiscono un'architettura di ordinata diversità. Alla fine dell'VIII secolo la cultura carolingia, pur non negando la qualità simbolica dell'opera d'arte, riconosce in essa anche una materiarum qualitas, cioè un valore meramente estetico come aspetto complementare di quello allegorico. Lo pseudo-Dionigi Areopagita, Scoto Eriugena, Ugo di San Vittore, cui si rifà anche Tommaso d'Aquino, sviluppano una compiuta definizione teorica dell'allegoria e del simbolo, che negli aspetti della bellezza visibile (color, formatio) ravvisa quelli della bellezza invisibile (sensus, significatio) senza svalutare l'una rispetto all'altra. Al pensiero areopagitico-scotiano si ispira il dibattito fra l'abate Sugerio, il più fervido promotore della costruzione di abbazie e cattedrali (Abbazia di Saint-Denis, 1144) nelle quali l'ornamentazione è ritenuta necessaria alla manifestazione dell'invisibile sapienza divina, e all'opposto Bernardo di Clairvaux, che depreca l'eccesso di ornamentazione quale conveniente «ad esseri carnali», capace di distrarre i monaci dalla meditazione essenzialmente contemplativa. La duplicità dell'atteggiamento nei confronti delle immagini e dell'uso di esse trae origine dalla preistoria del cristianesimo, dell'ebraismo, religione aniconica, nonché dalla diffidenza degli apologeti (Taziano, Clemente Alessandrino, Origene, Tertulliano) nei confronti dei simulacri, oggetto per i pagani di culto e pertanto idolatrici. La situazione del cristianesimo antecedente all'Editto di Milano del 313 imponeva la necessità di parlare un linguaggio occulto, riconoscibile soltanto da iniziati: ecco pertanto nell'arte cristiana primitiva il ricorso a semplici acrostici o crittogrammi (IKTHYS = pesce, composto dalle iniziali di Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) e poco dopo l'assunzione di motivi comuni nella cultura ellenistico-romana ai quali viene attribuito dai convertiti alla nuova religione un diverso significato. Ad esempio Cristo, vero sole, viene raffigurato come Apollo, oppure come il «moscòforo» o «buon pastore», in sarcofagi e pitture catacombali; gli éroti diventano angeli, ed i numerosi spunti naturalistici, come la vite e i tralci, il pane abbinato ai pesci, le colombe e i cervi che si abbeverano alla fonte, il pavone, oltre a riferimenti a miti mistericí ed orientali (Orfeo che ammansisce le fiere, Mitra, Amore e Psiche) vengono per così dire cristianizzati. Dopo la liberalizzazione del culto, il simbolismo paleocristiano si arricchisce progressivamente di tematiche tratte dalle Sacre Scritture, dall'Antico e dal Nuovo Testamento e dall'Apocalisse con opportune proposte di tipologie architettoniche ed iconografiche funzionali anche alla lotta contro le eresie. La tendenza al simbolismo, portato all'astrazione, che esprime concezioni antitetiche rispetto alla tradizione romana, è più radicata nell'arte bizantina che tende a svalutare gli aspetti realistici delle rappresentazioni figurative. Ne sono tipico esempio le basiliche giustinianee di S. Sofia a Costantinopoli e quelle dei territori bizantini d'Italia, Ravenna e l'esarcato: nel mosaico absidale di S. Apollinare in Classe (VI secolo) l'immagine del Cristo risorto è sostituita da una croce gemmata e gli Apostoli da dodici pecorelle, né valore realistico ha la vegetazione, decisamente stilizzata e disposta secondo una geometria preordinata. Relativamente all'architettura, l'orientamento della chiesa, la scelta della pianta (la croce greca o latina, oppure a pianta centrale o poligonale con riferimento ai martyria o ai battisteri), l'attenzione ai sistemi di illuminazione, corrispondono a norme che danno ad ogni elemento un significato simbolico. La chiesa è in sé il primo segno della civitas spiritualis, cioè della Chiesa celeste o vera Gerusalemme ed è, quindi, un'autentica teofania, o luogo della manifestazione divina. Dopo la parentesi dell'età longobarda, che introduce quasi esclusivamente figurazioni simboliche esprimesse in forme ornamentali «nuove», come l'intreccio lineare, il labirinto, le stilizzazioni vegetali, le tematiche naturalistiche desunte dal contatto con la cultura romana, il clima di rinascenza carolingia favorisce un rinnovato fervore costruttivo: ma solo dopo il Mille, quando dal crollo dell'impero carolingio emergono le strutture embrionali dei futuri Stati europei, su quasi tutta la terra, soprattutto in Italia e nelle Gallie si ricominciarono a ricostruire le basiliche, cattedrali, chiese dei monasteri e persino le chiesette dei villaggi. Il «bianco mantello di chiese», secondo la definizione suggestiva di Glaber, diffonde, in sincronia con la maturazione delle lingue e letterature

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«romanze», un nuovo linguaggio artistico, il romanico, proprio dei secc. XI e XII. È possibile seguire la diffusione delle formule romaniche lungo i percorsi delle vie dei pellegrinaggi e dei commerci, che collegavano chiese, ospizi e conventi ai grandi santuari (Roma, Santiago de Compostela) e ai porti di imbarco per la Terrasanta: questo spiega come il linguaggio delle arti visive, declinato nelle sue elaborazioni più colte ma anche in quelle più rozze e semplificate, costituisca una vera «koinè linguistica volgare» dell'Occidente. «Pochi erano in grado di leggere, e di accedere pertanto ai testi letterari ed alle Scritture sacre: al linguaggio della produzione architettonica e figurativa spettava dunque il compito di essere "Biblia pauperum", vera summa della cultura dell'epoca, non soltanto di quella religiosa, ma anche profana». Nella «strategia» iconografica della chiesa medievale compaiono non solo gli ormai tradizionali temi delle storie sacre (le storie della Genesi, i Profeti, il Giudizio finale), significativamente collocate all'esterno, sulla facciata e sui portali, che assumono il chiaro significato simbolico di «porta della salvazione», ma riaffiorano soggetti della tradizione pagana (Ercole, il Labirinto, le favole di Esopo, geni funerari, centauri, sfingi, vittorie alate, leoni e creature mostruose, uomini-draghi, sirene a doppia coda, animali bizzarri intrecciati o affrontati) e si affermano quelli della contemporanea letteratura cavalleresca (le storie del ciclo carolingio di quello bretone, di Re Artù e del Santo Graal). Contemporaneamente compaiono figurazioni relative alla vita quotidiana, a tutti gli elementi del sapere dell'agire dell'uomo medievale: i cicli stagionali dei lavori agricoli e dei mestieri, i simboli zodiacali, le arti meccaniche e liberali, le personificazioni dei Vizi e delle Virtù Teologali e Cardinali, cui si aggiunge una costellazione di qualità spirituali minori. Spesso Vizi

Virtù sono raffigurati insieme, contrapposti o in lotta: il tema della Psicomachia, o lotta fra il bene e il male, è un frequente tema allegorico; altro frequente soggetto è quello del ciclo della vita e delle sue situazioni: la ruota della Fortuna, la leggenda di origine buddhistica di Barlaam; l'albero della Vita, il Tempo, la Morte, le quattro età dell'uomo, presentate in relazione con i quattro elementi, acqua, aria, terra, fuoco e i quattro temperamenti, secondo lo schema della Mundi continuatio, tratto dal Timeo di Platone. Il parallelismo tra il mondo, o Macrocosmo, e l'uomo, o Microcosmo, era costante fra moltissimi autori medievali, commentatori di Platone, che si basavano sulle analogie tra il corpo umano e il mondo materiale, entrambi presupponenti uno stesso spirito: tipica è l'allegoria dell'Anima mundi , raffigurata in una miniatura (Parigi, Biblioteca Nazionale, Ms. 6734) come una donna recante una banderuola con la scritta: vegetalis in arboribus, sensibilia in pecoribus, rationalis in hominibus, affiancata dal sole e dalla luna e dai quattro elementi collegati con le parti del corpo umano. Tra i temi più originali e fantasiosi, nel XIII-XIV secolo, è quello del Trionfo de Morte; numerose sono poi le allegorie «Politiche», personificazioni di città, come Roma o Capua, o Venezia o Perugia, spesso figure femminili coronate, ancora figurazioni del Buon Governo e del Cattivo Governo e di aspetti della vita sociale quali le opere di Misericordia corporali e spirituali. Dal repertorio favolistico derivano altre figurazioni argutamente moralizzanti, come la volpe e la cicogna, il lupo in cattedra incappucciato che ammaestra un capretto, mentre la fantasia popolare attribuisce a figure celebri dell'antichità intenzioni moralistiche che ridicolizzano l'amore o la curiosità colpevole: troviamo accostati ad esempio Alessandro Magno e Adamo, Virgilio e la principessa, Aristotele e Campaspe, in apologhi non sempre di facile interpretazione. Non si deve mai dimenticare che gli autori latini venivano letti e citati adattandoli ad una cultura cristianizzata sostanzialmente sincretistica, che era pronta ad inserire elementi delle più varie provenienze in una costruzione simbolica estremamente complessa, ma anche straordinariamente unitaria: un'autentica miniera di citazioni, di cui sia i monaci, sia gli anonimi scalpellini, scultori e capimastri, sia il popolo minuto erano pienamente consapevoli.