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1 Capitolo III La violenza 1. La violenza e le difficoltà di definizione. All’interno delle categorie di illecito rilevabili nell’ambito del fenomeno sportivo, la fattispecie che viene in rilievo in maniera pressoché immediata subito dopo quella del doping è quella denominata come violenza. Sebbene si presenti con immediatezza, non è categoria di facile delimitazione e, dunque, definizione: una difficoltà che nasce per almeno due ordini di ragioni, uno di carattere generale ed uno relativo alla specificità dello sport. 1.1 Le difficoltà di natura generale. Il primo ordine di motivi è di carattere generale e nasce dalla constatazione di come tale concetto, sia pure tanto diffuso, si caratterizzi per una determinazione altrettanto incerta e problematica. a) La pluralità di accezioni nelle diverse discipline È una difficoltà che potrebbe derivare dal fatto che il termine violenza appartiene, prima ancora che al linguaggio giuridico, a quello comune, assumendo una pluralità di declinazioni, a seconda dei contesti (politici e/o ideologici) in cui è usato. Per uno studioso della politica, infatti, violenza sta ad indicare l’intervento fisico di un individuo o di un gruppo contro un altro individuo o gruppo 1 . Per il filosofo, la violenza può indicare un’azione che sia contraria ad un ordine naturale, morale, giuridico o politico 2 . Per il sociologo, ancora, può costituire la forma estrema di aggressione materiale, che si concretizza in un attacco, intenzionalmente distruttivo, a persone o cose, che rappresentino un valore la vittima o per la società; oppure si può concretizzare in un’imposizione, che si realizza mediante l’impiego (o la minaccia dell’impiego) della forza fisica e/o di armi, al fine di ottenere il compimento di atti contrari alla propria volontà 3 . Per il criminologo la violenza è un’attività volontaria che incide fisicamente sull’individuo, inducendo una lesione del soggetto preso di mira, arrecando, quindi, un pregiudizio di natura fisica, psichica o sociale 4 . b) L’evoluzione della definizione nella dottrina giuridica: il processo di dematerializzazione. 1 Così M. Stoppino, Violenza, in N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica, UTET, Torino, 1983, p. 1241. 2 In tal senso N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1968, p. 897. 3 Si veda L. Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1978, p. 743 4 Si rimanda a F. Schneider, Umfang, Entwicklung und Erscheinungsformen der Gewalt, in uristische Zeitung“, 1992, p. 386.

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Capitolo III

La violenza

1. La violenza e le difficoltà di definizione.

All’interno delle categorie di illecito rilevabili nell’ambito del fenomeno sportivo, la fattispecie che

viene in rilievo in maniera pressoché immediata subito dopo quella del doping è quella denominata come

violenza.

Sebbene si presenti con immediatezza, non è categoria di facile delimitazione e, dunque,

definizione: una difficoltà che nasce per almeno due ordini di ragioni, uno di carattere generale ed uno

relativo alla specificità dello sport.

1.1 Le difficoltà di natura generale.

Il primo ordine di motivi è di carattere generale e nasce dalla constatazione di come tale concetto,

sia pure tanto diffuso, si caratterizzi per una determinazione altrettanto incerta e problematica.

a) La pluralità di accezioni nelle diverse discipline

È una difficoltà che potrebbe derivare dal fatto che il termine violenza appartiene, prima ancora

che al linguaggio giuridico, a quello comune, assumendo una pluralità di declinazioni, a seconda dei contesti

(politici e/o ideologici) in cui è usato.

Per uno studioso della politica, infatti, violenza sta ad indicare l’intervento fisico di un individuo o di

un gruppo contro un altro individuo o gruppo1.

Per il filosofo, la violenza può indicare un’azione che sia contraria ad un ordine naturale, morale,

giuridico o politico2.

Per il sociologo, ancora, può costituire la forma estrema di aggressione materiale, che si concretizza

in un attacco, intenzionalmente distruttivo, a persone o cose, che rappresentino un valore la vittima o per

la società; oppure si può concretizzare in un’imposizione, che si realizza mediante l’impiego (o la minaccia

dell’impiego) della forza fisica e/o di armi, al fine di ottenere il compimento di atti contrari alla propria

volontà3.

Per il criminologo la violenza è un’attività volontaria che incide fisicamente sull’individuo,

inducendo una lesione del soggetto preso di mira, arrecando, quindi, un pregiudizio di natura fisica,

psichica o sociale4.

b) L’evoluzione della definizione nella dottrina giuridica: il processo di dematerializzazione.

1 Così M. Stoppino, Violenza, in N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino (a cura di), Dizionario di Politica,

UTET, Torino, 1983, p. 1241. 2 In tal senso N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1968, p. 897. 3 Si veda L. Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1978, p. 743 4 Si rimanda a F. Schneider, Umfang, Entwicklung und Erscheinungsformen der Gewalt, in uristische

Zeitung“, 1992, p. 386.

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Non solo, emerge una pluralità di accezioni riscontrabili anche in ambito giusteoretico, ove, nello

snodarsi della storia, si è partiti da un’accezione tradizionale (vis corpore corpori afflicta), secondo la quale

si ritiene integrata la violenza solo quando si verifica una estrinsecazione della forza fisica5: il corpo doveva

essere coinvolto sia che si trattasse del soggetto attivo, sia che si trattasse dell’oggetto della violenza, così

che si riteneva integrata la violenza quando si verificava un’azione esercitata con il corpo su un altro corpo6.

Una accezione ristretta che si è progressivamente estesa fino a comprendere ogni tipo di azione

che abbia come esito una forma di costrizione della volontà.

Si è assistito, pertanto, ad un ampliamento progressivo del concetto di violenza, che inizialmente,

per rilevare la violenza ha ritenuto essenziale che si realizzasse un dispiegamento della forza fisica7; quindi,

si è data attenzione all’idoneità dell’esplicazione della forza a produrre una coazione personale e/o a

vincere la resistenza del soggetto passivo8; ed, infine, si è giunti ad affermare che potesse rientrare nel

concetto di violenza ogni mezzo, posto in essere dal soggetto attivo, atto a togliere capacità di

determinazione e/o ad agire in autonomia al soggetto passivo9.

5 Così F. C. Schroeder, Schreien als Gewalt und Schuldspruchberichtigung durch Beschluss, in uristische

Schulung“, 1982, p. 492 6 Il primo requisito è qualificato dalla dottrina giuridica tedesca come körperliche Kraftentfaltung, mentre il

secondo integrerebbe un körperliche Einwirkung. 7 Emblematica in proposito è la posizione di Pisapia, il quale ha affermato che, per integrare la violenza, fosse

necessaria la manifestazione di una forza fisica “sovrastante e preponderante, tale cioè da vincere l’altrui resistenza e

limitare, in tal modo, l’altrui libertà” (D. Pisapia, Violenza minaccia e inganno nel diritto penale, Jovene, Napoli, 1940,

p. 32): un orientamento condiviso da Manzini, il quale ha definito la violenza come “l’esplicazione di una energia fisica

soverchiante (insita o no nella persona di chi la pone in opera) verso una persona o una cosa, per modo che ne derivi

una coazione personale fisica, assoluta o relativa, positiva o negativa, ovvero la modificazione di una cosa in contrato

coni diritti altrui sulla cosa medesima o producente impedimento all’esercizio al godimento d’altri diritti soggettivi” (V.

Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV,UTET, Torino, 1981, pp. 625-626). In tal senso si vedano anche alcuni

pronunciamenti della Cassazione, quali Cass. 24 ottobre 195, Cass. 14 novembre 1961, così come Cass.28 marzo 1969. 8 Si vedano in tal senso G. Maggiore, Diritto penale, II, t. 2, Zanichelli, Bologna, 1948, specie alla p. 859; E.

Viaro, Violenza e minaccia, in Novissimo Digesto italiano, XX, UTET, Torino, 1975, p.969. In questo senso la Corte di

Cassazione ha argomentato che “per la sussistenza della violenza contro la persona, quale elemento materiale della

rapina impropria, è sufficiente l’esplicazione da parte del colpevole di una qualunque energia fisica, purché sia idonea

a produrre una coazione personale diretta ad assicurare all’agente la cosa sottratta o l’impunità” (Cass. 13 giugno

1960, in “Cassazione penale. Massimario”, 1960, p. 92, m. 175). Un orientamento per altro non isolato, ma

confermato da pronunciamenti successivi, quali Cass. 21 giugno 1968, Cass. 4 luglio 1977, Cass. 17 giugno 1983 e

Cass. 13 novembre 1985: un orientamento che concentra la sua attenzione sull’effetto dell’azione più che sulla

concreta estrinsecazione della forza fisica. 9 Su questa posizione sembra attestarsi Antolisei, il quale ha distinto fra la violenza propria e quella impropria,

comprendendo nella prima “ogni energia fisica adoperata dal soggetto sul paziente per annullarne o limitarne la

capacità di autodeterminazione” e riconducendo alla seconda ogni altro mezzo residuale (ad esclusione della

minaccia) diretto ad ottenere lo stesso scopo (F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Giuffrè, Milano,

1982, p. 130). Un orientamento condiviso anche da Fiandaca e Musco che definiscono come violenza “tutto ciò che

(diverso dalla minaccia) è idoneo alla costrizione e priva l’aggredito della capacità di formazione del volere o di

attuazione del volere” (G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, Zanichelli, Bologna, 1988, p.213).

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Si assiste così ad un’oscillazione nell’identificazione del momento ritenuto idoneo a qualificare la

violenza, che ha generato concezioni all’apparenza reciprocamente elidenti che, però, tendono a coniugarsi

in un processo continuo di osmosi. Partendo da una considerazione della violenza come mera

estrinsecazione della forza fisica si è registrata, dunque, una progressiva dematerializzazione dell’accezione,

probabilmente perché si è constatato che un’accezione ristretta non riesce a rendere giustizia di tutte

quelle ipotesi in cui si verifichi una violenza10: di qui lo spostamento dell’attenzione sull’esito dell’azione

violenta, considerazione che permette di ampliare la configurabilità della violenza con la possibilità di

coprire alcuni inammissibili vuoti di giustiziabilità lasciati dalla concezione tradizionalmente ristretta di

violenza11.

Si è giunti, così, ad una definizione articolata bidimensionalmente che assume come qualificanti

entrambi i momenti, che la dottrina giuridica aveva individuato in maniera distinta e, si ribadisce, come

reciprocamente elidenti, ossia l’uso della forza e l’atto di costrizione12.

c) Le differenti accezioni secondo una prospettiva oggettuale.

Accanto alla distinzione operata avendo riguardo del momento ritenuto qualificante, è possibile

individuare un’ulteriore distinzione e, quindi, differente definizione, guardando la fattispecie a partire

dall’oggetto della violenza, che può aggettivarsi come reale (quando l’oggetto della violenza è una res) o

personale (quando l’oggetto della violenza è una persona)13.

Se l’ordinamento italiano dà una definizione chiara della violenza reale, ex art. 392 c.p.14, per cui si

esercita violenza sulle cose allorquando la res sia danneggiata e/o trasformata, oppure quando se ne muti

10

È stato sottolineato proposito che una concezione ristretta “non può abbracciare tutti i casi di violenza

possibili” (E. Mezzetti, Violenza privata e minaccia, in Digesto delle Discipline Penalistiche, XV, UTET, Torino, 1999, p.

266). 11 È bene sottolineare come si tratti di un orientamento che non trova comunque unanimità nella dottrina,

poiché è stato osservato come in tal modo “non si definisce il concetto, ma si scambia ancora una volta la causa con

l’effetto, la violenza con lo stato di costrizione. […] Benché attualmente in prevalenza condivisa, la tesi della coazione

della volontà non può essere accolta per una serie di motivi che si articolano su differenti piani. A parte l’ovvia

constatazione che non potrebbe attagliarsi a quelle fattispecie in cui la violenza funge da mera modalità di condotta –

che si perfezionano senza che occorra il prodursi di un effetto di costrizione -, essa, come già sottolineato, si risolve

logicamente in un inammissibile scambio tra la causa e l’effetto, tra la violenza e o stato di costrizione che ne deriva; il

che, tra l’altro, renderebbe impossibile distinguere la violenza dall’inganno. Sul piano pratico, un simile orientamento

condurrebbe – e in effetti ha talora condotto nella prassi applicativa -, in nome di un malinteso teleologismo, ad

estendere il raggio d’azione di numerose incriminazioni al di là di ogni ragionevole limite; non senza considerare la sua

manifesta incompatibilità non tanto con il principio di tassatività quanto piuttosto con quello della riserva di legge in

materia penale, perché in tal modo si finisce praticamente con il ritenere come non scritto un elemento della

fattispecie tipica” (G. De Simone, Violenza, in Enciclopedia del diritto, XLVI, Giuffrè, Milano, 1993, p. 896). 12

In tal senso si veda E. Mezzetti, Violenza privata e minaccia, cit., pp. 266-267. 13 Distinzione accolta da F. Mantovani (nel suo Diritto penale, p. spec., I, Delitti contro la persona, CEDAM,

Padova, 1995, p. 330). 14

L’art. 392, co. 2, c.p. sancisce infatti che “agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose allorché la

cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione”.

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la destinazione, non altrettanto avviene per la definizione di violenza personale15: il nostro codice penale,

infatti, disciplina la violenza personale, utilizzando più articoli, sanzionando di volta in volta una violenza

alla persona (art. 628 c.p.16), alle persone (artt. 39317 e 61418, nonché nel capo I del titolo XIII19) e verso le

persone (art. 385 c.p.20)21.

A rendere più complesso il quadro, sta la constatazione che, talora, potrebbe integrare violenza su

una persona anche la violenza esercitata su un terzo, al fine di piegare la volontà del soggetto che

realmente è oggetto di violenza (una doppia violenza personale esercitata su chi “materialmente” subisce

l’atto violento e su chi è il destinatario finale della violenza), così come si può esercitare una violenza reale,

quale via per coartare la volontà di una persona.

d) Le differenti accezioni secondo una prospettiva teleologica.

Infine, una distinzione ulteriore può essere individuata se si considera la violenza secondo la

prospettiva teleologica.

Si ha così una violenza come fine quando lo scopo dell’atto è proprio quello di arrecare

danno/lesione al soggetto passivo; come si può avere violenza come mezzo, allorquando la violenza è usata

per piegare la volontà altrui, costringendo il soggetto passivo a fare, oppure tollerare o, infine, omettere

qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto, tollerato oppure omesso22.

È stato osservato come al pari delle precedenti anche quest’ultima distinzione non sia dirimente:

basti pensare come nel suo configurarsi come mezzo per piegare la volontà altrui, la violenza-mezzo non

15 In direzione contraria va il codice penale militare di pace, nel quale all’art. 43 si statuisce che “agli effetti

della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza, si comprendono l’omicidio, ancorché tentato o

preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi” 16

“Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia,

s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con

la multa da lire un milione a quattro milioni” (art. 628, co. 1,c.p.). 17 “Chiunque, al fine indicato nell’articolo precedente, e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente

ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone, è punito con la reclusione fino a un anno” (co. 1

dell’art. 393 - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone c.p.) 18 “1) Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze

di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o

con inganno, è punito con la reclusione fino a tre anni. […] 4) La pena è da uno a cinque anni, e si procede d’ufficio, se

il fatto è commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato” (art. 614 –

Violazione di domicilio). 19

Intitolato “Dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone”. 20 “Chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade è punito con la reclusione da sei

mesi a un anno. La pena è della reclusione da uno a tre anni se il colpevole commette il fatto usando violenza o

minaccia contro le persone, ovvero mediante effrazione; ed è da tre a cinque anni se la violenza o minaccia è

commessa con armi o da più persone riunite” (co. 1 dell’art. 385 – Evasione). 21

È bene sottolineare come tale differenziazione della locuzione usata non incida significativamente sul

significato: in tal senso si vedano le considerazioni di B. Petrocelli nel suo Violenza e frode (1928), in Saggi di diritto

penale, CEDAM, Padova, 1952, pp. 184 e ss. 22

Si tratta di una distinzione individuata tanto da Antolisei, (nel suo Manuale di diritto penale. Parte speciale,

II, cit., p. 135), che da Mantovani (nel suo Diritto penale, p. spec., I, Delitti contro la persona, cit., p. 325).

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sembra poi distinguersi in maniera significativa dalla violenza-fine23, soprattutto se ci si colloca in una

prospettiva che faccia propria un’accezione estensiva di violenza.

1.2 Le difficoltà di definizione di violenza nello sport.

Stante questa intrinseca polisemia, come può essere definita la violenza quando ci si colloca

all’interno della pratica sportiva?

È più corretto assumere un’accezione ristretta oppure è più opportuno e/o proponibile fare propria

un’accezione ampia?

a) Accezione ristretta vs accezione dematerializzata

Si tratta di interrogativi di semplice e, ad un tempo, complessa soluzione.

Per un verso, infatti appare piuttosto semplice convenire sull’opportunità di non aderire ad una

prospettiva che apra ad una concezione dematerializzata della violenza, pena l’estendersi indefinito della

fattispecie, cui consegue l’impossibilità di adire ad una giustiziabilità degna24.

A titolo esemplificativo, si pensi alla possibilità di paventare gli estremi della violenza nei

comportamenti dei sanitari e/o della galassia delle persone giuridiche, così come palesate nella disamina

delle soggettività attive nell’ambito della fattispecie del doping: si tratta, evidentemente di ipotesi

suggestive, cui, però, difficilmente potrebbe seguire un riscontro positivo in sede giudiziale, nel primo caso

per il prevalere del principio di autodeterminazione e nel secondo per la natura di persone giuridiche, che

impedisce una perseguibilità penale.

Non solo, aderendo ad un’accezione estensiva della violenza emerge una serie di difficoltà

esegetiche: fino a quando, infatti, l’induzione ad una pratica caratterizzata da una preparazione intensa e

sistematizzata, condizionante in maniera decisiva l’esistenza dei giovani sportivi, può configurarsi come

frutto di una loro autonoma determinazione e qual è la soglia, oltrepassata la quale, si accede ad un’ipotesi

di coartazione della volontà e, dunque, si può ritenere integrata la violenza?

Accedendo ad un’accezione dematerializzata di violenza si aprirebbero, pertanto, spazi indefiniti di

conflittualità che, in realtà, avrebbero come esito una sostanziale impunità e scarse possibilità di adire ad

una giudiziabilità a causa dei confini incerti della fattispecie richiamata.

b) Lo sport come attività intrinsecamente pericolosa

Attesa, quindi, l’opportunità di assumere un’accezione ristretta di violenza, quale vis corpore

corpori afflicta, emerge però una difficoltà definitoria (ed è questo il secondo ordine di ragioni specifico

23 In tal senso cfr. G. Vassalli, Il diritto alla libertà morale (Contributo alla teoria dei diritti della personalità), in

Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, II, Torino, 1960, specie alla p. 1686) 24

In proposito, contra un’estensione in senso dematerializzante dei margini definitori della fattispecie in

generale si è pronunciato Petrocelli, sottolineando l’inopportunità di proporre “un concetto così vago e slargato a

base di una classificazione, non utile in un codice, soprattutto per le confusioni che è destinata inevitabilmente a

operare quando il termine corrispondente, anzi che in un’intestazione di paragrafo, sia addirittura compreso nella

parte integrante di una disposizione” (B. Petrocelli, Violenza e frode, cit., p. 187).

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legato allo sport), una difficoltà che trova origine nella definizione di sport come attività intrinsecamente

pericolosa: lo sport sarebbe contrassegnato da una rischiosità essenziale25, tanto che, in giurisprudenza,

tale caratterizzazione è stata usata sovente per negare fondamento a pretese risarcitorie agite da

partecipante a competizioni in cui avessero subito delle lesioni26.

A rendere ulteriormente complessa l’esegesi di tale categoria sta la considerazione che si è dinanzi

non solo dinanzi ad un’attività intrinsecamente rischiosa, ma che questa è stata liberamente scelta: tutto

ciò rende piuttosto complesso comprendere fino a che punto la volontarietà della pratica possa costituire

un’esimente per gli esiti di tale attività.

In proposito potrebbe essere d’aiuto una classificazione elaborata dalla dottrina giuridica italiana, la

quale ha individuato una tripartizione che distinguerebbe fra sport non violenti, attività sportive a violenza

eventuale e sport a violenza necessaria: così si distingue “tra sport non violenti nei quali è vietato ogni

contatto con l’avversario (automobilismo, atletica leggera, nuoto, tennis), sport di vero e proprio

combattimento nei quali è elemento caratterizzante proprio l’aggressione e l’atterramento dell’avversario

(pugilato, lotta greco-romana, lotta libera) ed infine sport che contemplano la possibilità del verificarsi nel

corso della gara di contatti violenti con l’avversario (rugby, calcio, pallacanestro)”27.

Seguendo questa ipotesi classificatoria28, si ha che per gli sport ricadenti nella prima categoria non

si hanno problemi interpretativi, in quanto escludono del tutto il contatto fisico tra gli atleti e, pertanto, in

25 Si tratta di una caratterizzazione dell’attività sportiva, meglio definita dalla locuzione “rischio sportivo” con

cui si intende “sottolineare la caratteristica di pericolosità insita in ogni attività sportiva. In un senso più tecnico essa è

valsa ad indicare, in campo civilistico, la normale dose di pericolosità di determinati giochi” (F. Albeggiani, Sport (dir.

pen.), in Enciclopedia del diritto, XLIII, Giuffrè, Milano, 1990, p. 539, nota 4). Sul “rischio sportivo” si vedano amplius E.

Bonasi Benucci, Il rischio sportivo, “Rivista di diritto sportivo”, 1955, pp. 422 e ss.; M. Pascasio, Il rischio sportivo, in

“Rivista di diritto sportivo”, 1961, p. 73 e ss. In tal senso Dini ha affermato che “tutte le attività sportive possono

presentare un rischio” (P. Dini, L’atleta e i limiti del rischio, in “Rivista del diritto sportivo”, 1977, p. 62) 26 Leading case, in Italia, è stato il pronunciamento della Corte di Cassazione del 13 novembre 1958, n. 3702. 27 G. Vidiri, Violenza sportiva e responsabilità penale dell’atleta, in “Cassazione Penale”, 1992, p. 3157. 28

Si sottolinea come detta tripartizione sia pressoché condivisa dalla dottrina italiana: in tal senso

convengono, infatti, anche T. Delogu, (cfr. La teoria del delitto sportivo, in “Annali di diritto e procedura penale”,

1932, p. 1301-1302), G. Vassalli, (cfr. Agonismo sportivo e norme penali, in “Rivista del diritto sportivo”, 1958, p.181),

A. De Francesco (cfr. La violenza sportiva e i suoi limiti scriminanti, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale,

1983, p.589). Alessandro Traversi accoglie la distinzione tripartita, introducendo però nella classificazione la

valutazione dei rischi per gli spettatori, osservando, in particolare, così che “le attività sportive possono essere

suddivise in tre categorie: quelle che non presuppongono alcun contatto fisico tra gli atleti né rischi per gli

spettatori(come il tennis e l’atletica leggera); quelle che, pur escludendo l’uso della violenza, ammettono il contatto

fisico con conseguente rischio per l’incolumità degli atleti (come, ad esempio, il calcio, l’hockey ed il rugby), nonché le

attività in sé pericolose, sia per i gareggianti che per i terzi (per esempio, l’automobilismo); infine quelle

ontologicamente violente (c.d. “a violenza necessaria”), nelle quali l’uso della violenza fisica sulla persona non dà

luogo, come negli altri sport, a violazione delle regole del gioco, ma, al contrario, costituisce l’essenza stessa della

disciplina (come nel caso del pugilato e della lotta libera” (A. Traversi, Diritto penale dello sport, Giuffrè, Milano,2001,

pp.39-40). C’è chi individua, invece, una quadripartizione, come Rampioni, il quale afferma che “alcuni consistono in

una violenza diretta e necessaria sulla persona, tendente a mettere fuori combattimento l’avversario, come la boxe e

la lotta; altri si praticano esercitando violenza su una persona e su una cosa contemporaneamente, come il rugby; altri

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essi vige un regime di responsabilità ordinario; per gli altri, invece, ci si interroga sui profili di liceità delle

pratiche in questione, indagando, in primo luogo, sulla ratio sottostante l’ammissibilità di tali attività,

altrimenti punite dall’ordinamento statale e, in seconda istanza, su quale sia il limite che segna il passaggio

dalla liceità alla punibilità, ossia il limite del rischio consentito.

Per il primo ordine di interrogativi emergono due orientamenti contrapposti.

Il primo di questi si colloca su posizioni rigoristiche: in tale prospettiva non esiste una specificità

dello sport così che gli eventuali danni e lesioni derivanti da attività sportive vanno considerati e giudicati

come le altre attività umane assoggettandole, dunque, al regime ordinario della responsabilità civile e

penale.

Si tratta di un orientamento che, anche nel momento di maggiore diffusione, è sempre stato

minoritario ed ormai appare del tutto recessivo. Un orientamento niente affatto uniforme, potendosi

riconoscere in esso una pluralità di posizioni: c’è, infatti, chi ha sostenuto che gli sport violenti ponessero

questioni del tutto analoghe a quelle proprie di tutte le attività pericolose, non individuando particolari

regimi disciplinatori29; così come c’è stato chi ha sostenuto, invece, che non è rilevante distinguere se la

lesione sia il risultato di un comportamento agito nel rispetto delle regole del gioco e/o dello sport, o

meno30.

Il secondo orientamento, contrapposto al precedente, ritiene che le attività sportive caratterizzate

da una potenziale lesività possano essere ritenute ordinariamente lecite, purché non queste non eccedano

il livello funzionale al loro esercizio31.

ancora sono a violenza solo eventuale sulla persona, cioè, teoricamente, prescindono da quella, colme il calcio; la

quarta categoria, infine, comprende gli sport a violenza solo su cose, come il tennis” (R. Rampioni, Delitto sportivo, in

Enciclopedia giuridica, X, Treccani, ROMA, 1989, p. 1). 29

In tal senso si vedano A. Bernaschi, Limiti della illiceità penale nella violenza sportiva, in “Rivista del diritto

sportivo”, 1976, pp. 4-5; L. Crugnola, La violenza sportiva, in “Rivista del diritto sportivo”, 1960, p. 55; G. Noccioli, Le

lesioni sportive nell’ordinamento giuridico, in “Rivista del diritto sportivo”, 1953, p. 252; A. Tomaselli, La violenza

sportiva e il diritto penale, in “Rivista del diritto sportivo”, 1970, pp. 319 ss. 30 In tal senso, Giuseppe Del Vecchio sosteneva che sussistesse una responsabilità per tutti i casi di lesioni e

morte di un atleta, che si fossero verificati in una gara sportiva, anche nel caso in cui fosse stata rilevata l’osservanza

delle regole, a meno che non si potesse rilevare l’ipotesi di caso fortuito e forza maggiore (cfr. in tal senso i suoi La

criminalità negli “sports”, F.lli Bocca, Torino, 1927, pp. 83 ss.; La colpa con previsione nel nuovo Codice Penale, in

“Nuovo Diritto – La Pretura”,1929, pp. 4 ss.; La responsabilità penale nell’evento dannoso sportivo, in “Archivio di

antropologia criminale, psichiatria e medicina legale”1937, pp. 611 ss.). Petrocelli ha sostenuto che le lesioni sportive

vanno considerate alla stessa stregua delle lesioni ordinarie; non solo, l’osservanza delle regole non può espungerne a

rilevanza penale (in questa direzione vanno i suoi La illiceità della violenza sportiva, in “Rivista critica di diritto e

giurisprudenza”, 1929, pp. 262 e ss.; I limiti della questione circa la illiceità della violenza sportiva, in “Il nuovo diritto”,

1930, pp. 15 e ss.). Analogamente Penso ha sostenuto che le lesioni inferte volontariamente e direttamente a causa e

nell’esercizio di uno sport violento, pur in caso di osservanza delle regole, va considerato alla stregua di una reato

comune contro la persona (G. Penso, Studi sul progetto preliminare di un nuovo codice penale italiano, IES, Milano,

1929, pp. 113 e ss.) 31

Ex pluribus si vedano F: Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffré Milano, 1997, p. 311; G.

Bettiol, Diritto penale, CEDAM, Padova, 1982, pp. 370-371; F. Chiarotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello

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Anche questo orientamento non si presenta uniforme nella scelta delle argomentazioni portate a

supporto della posizione.

C’è, infatti, chi ha sostenuto la liceità, sempre comunque condizionata, delle pratiche sportive

aventi tratti di violenza e/o pericolosità, argomentando che si tratta di attività riconosciute dallo Stato: la

previsione di punizioni per le lesioni all’integrità fisica derivanti da tali attività sarebbe in contraddizione

proprio con l’autorizzazione conferita alle stesse32.

Altri, invece, hanno affermato che la liceità trova giustificazione nella scriminante del consenso

dell’avente diritto: partecipando alla competizione, l’atleta acconsente alle aggressioni che sono

necessariamente connesse alla pratica agonistica33.

La giurisprudenza italiana, invece, sembra aver raggiunto una posizione pressoché concorde

argomentando che “il giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del

gioco, del dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e della integrità fisica di costui, commette un illecito

sportivo ma non è perseguibile penalmente, poiché in siffatta ipotesi non può dirsi superata la soglia del

rischio consentito, in quanto è dato di comune esperienza che nel corso di una gara l'ansia di risultato, la

stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta eccessiva, possono comportare delle violazione non

volontarie del regolamento di gara. Viceversa quando il fatto lesivo si verifichi perché il giocatore violi

volontariamente le regole del gioco disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario che, invece,

dovrebbero costituire la caratteristica essenziale di ogni sportivo, allora il fatto non potrà rientrare nella

causa di giustificazione, ma sarà penalmente perseguibile”34.

sport, in “Rivista del diritto sportivo”, 1959, pp. 237 ss.; F. Cordero, Appunti in tema di violenza sportiva, in

“Giurisprudenza italiana”, 1950, II, cc. 313 ss.; T. Delogu, La teoria del delitto sportivo, in “Giurisprudenza italiana”,

1950, II, cc. 313 ss.;V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, UTET, Torino, 1985, pp. 218 ss.; P. Nuvolone, I

limiti taciti della norma penale (1945), CEDAM, Padova, 1972, p. 181. 32 Si veda in tal senso L. Granata, Presupposti giuridici della colpa punibile nei giochi sportivi, in “Rivista di

diritto sportivo”, 1955, p. 1 e ss.. Vidiri ha affermato che l’emanazione della legge 23 marzo 1981, n. 91, recante

norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, ha determinato l’emersione della struttura sportiva,

conferendo “portata generale anche alle regole sportive dettate dalle federazioni, le quali, oltre ad adempiere alla

funzione tecnica di assicurare la regolarità delle competizioni ponendo i contendenti in una posizione paritaria,

assolvono incontestabilmente alla funzione di limitare i rischi che possono scaturire dalla violenza-base caratterizzante

la specifica disciplina praticata” (G. Vidiri, Violenza sportiva e responsabilità penale dell’atleta, cit., p. 3159). 33 Si tratta di una scriminante invocata da molti autori, i quali, però, attribuiscono ad essa un’estensione

diversificata: per alcuni, infatti, tale scriminante agirebbe entro i limiti della disponibilità dell’integrità personale

sanciti ex art. 5 c.c. (in tal senso si vedano F. Chiarotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, cit., p. 261;

G. Marini, Violenza sportiva, in Novissimo Digesto italiano, XX, UTET, Torino, 1975, pp. 982 ss.; A. Pagliaro, Principi di

diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, p. 428); per altri, invece, la scriminante avrebbe una portata più ampia,

potendo determinarne i limiti sulla base di norme di tipo consuetudinario (così T. Delogu, La teoria del delitto sportivo,

in “Annali di diritto e procedura penale”, 1932, p. 1304; R. Rampioni, Sul c.d. “delitto sportivo”: limiti di applicazione,

in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1975, p. 661 ss.; R. Riz, Il consenso dell’avente diritto, CEDAM,

Padova, 1979, p. 276). 34

Cass. pen., sez. V, sent. 2 dicembre 1999, n. 1951, disponibile on line al link

http://www.altalex.com/index.php?idnot=174; un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ribadito da

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Per il secondo ordine di questioni, ossia quelle riguardanti la ricerca della soglia oltrepassata la

quale si passa dalla liceità di alcune condotte alla loro punibilità, si è giunti alla conclusione che il limite del

rischio consentito vada rintracciato nella specificità della materia, soprattutto avendo riguardo della

volontarietà della pratica, e dell’intento esclusivamente ludico e agonistico dell’attività sportiva35.

È bene sottolineare come detta esenzione da responsabilità abbia origini antiche. Già nella civiltà

ellenica era stato sancito che, se nel corso di giochi sportivi qualcuno uccideva un altro, questi non era

ritenuto colpevole di omicidio: nel diritto attico era prevista l’ipotesi di omicidio giustificato (φόνος

δίχαος),realizzantesi nel caso di un omicidio involontario dell’avversario nel corso di una gara36.

Un regime di esenzione che è stato sancito anche nell’ambito della ben più articolata esperienza e

civiltà giuridica romana, che tramanda molte disposizioni disciplinanti tale ipotesi: fra queste le due più

significative sono costituite da due frammenti ulpianei quali D. XLVII, 10, 3,337, nel quale si sanciva che le

percosse subite durante un certamen non potessero dar luogo ad esperire un actio iniuriarum, e D. IX, 2, 7,

diverse pronunce della Corte di Cassazione, la quale in una sentenza recentissima ha affermato che “nella

partecipazione ad una gara è insita l'accettazione (e quindi la prestazione del consenso) del rischio che, da

determinate azioni precipuamente connotate dall'impeto o dalla concitazione agonistica (si pensi in particolare alle

“azioni” del gioco del calcio “violentemente” contrastate dai giocatori avversari, nell'intento di evitare di subire il

goal), possano derivare eventi pregiudizievoli per l'incolumità personale. Come peraltro ritenuto dalla giurisprudenza

di legittimità (cfr. Sez. 5 n. 19473 del 2005., testé citata), non si fuoriesce - ciononostante - dal perimetro del c.d.

rischio consentito (ed assentite) qualora si travalichino le regole scritte preordinate alla disciplina dell'uso della

violenza nel gioco del calcio, ad esempio, (e si realizzi quindi l'illecito sportivo) nel caso in cui la condotta “non sia

volontaria, ma n presenti piuttosto lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o nella trance agonistica

(ansia del risultato) può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette”, ben potendo, al contrario, ricorrer

l'ipotesi di lesioni personali dolose, in caso di accertata volontarietà o di preventiva accettazione del rischio di

pregiudicare l'altrui incolumità, ovvero di lesioni personali semplicemente colpose, allorché la violazione consapevole

della regola cautelare risulti finalizzata “al conseguimento - in forma illecita, e dunque, antisportiva - di un

determinato obiettivo agonistico” (Cass. pen., sez. IV, sent. 28 febbraio 2012, n. 7768, disponibile al link

http://www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=7617). 35

È stato osservato, infatti, che “l’atleta sa a priori di andare incontro ad un rischio fisico, perché è

consapevole che la supremazia agonistica si afferma, a seconda degli sport, solo ovvero con l’uso di mezzi violenti e,

quindi, con la messa in pericolo della integrità personale propria e del contendente […]. Chi pratica uno sport non può

ignorare tale carattere e col praticarlo acconsente ad assumere le conseguenze svantaggiose in vista della vittoria.

Quei danni, dunque, che occorrono allo sportivo durante la gara e che possono essere considerati «normali» rispetto

ad essa, rientrano nel rischio che, accettando l’esercizio pericoloso, egli si è volontariamente assunto” (R. Rampioni,

Delitto sportivo, cit., p. 4). 36 Più diffusamente in proposito si veda U. E. Paoli, Omicidio (Diritto attico), in Novissimo Digesto italiano, XI,

UTET, Torino, 1965, p. 837. Appare interessante sottolineare come Platone, nel delineare il suo modello legislativo per

uno Stato ideale, dettava una norma analoga a quella esistente nella realtà storica, così che “se uno abbia ucciso un

amico involontariamente in qualche competizione o nelle gare delle pubbliche feste, sia che la morte avvenga

immediatamente, sia più tardi a causa delle ferite riportate in tale circostanza dal colpito, oppure, alle stesse

condizioni, in guerra o nelle manovre militari, negli esercizi a corpo libero o con le armi quando avviene l’imitazione

delle azioni di guerra, l’uccisore, dopo essere stato purificato secondil rito portato da Delfo in relazione a questi fatti,

sia ritenuto puro e immune da colpa” (Platone, Leggi, IX, 865a-b). 37 “Si quis per iocum percutiat aut dum certat, iniuriarum non tenetur”.

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438, con il quale era sancita l’immunità da responsabilità aquiliana per l’atleta che avesse causato la morte o

lesioni all’avversario.

Ciò premesso, è stata individuata in maniera pressoché unanime una scriminante, c.d. “del rischio

consentito”, con cui si intende il “il rischio strettamente connesso e consequenziale al particolare tipo di

pratica sportiva praticata”39.

Una scriminante che comprende il rischio generico del fallo, che non agisce, però, nel caso in cui la

condotta con cui si infrangono le regole sportive, oltre ad essere volontaria, “sia di tale durezza da

comportare la prevedibilità di un serio pericolo di lesioni a carico dell’avversario, di talché esso venga

esposto ad un rischio superiore a quello accettabile del partecipante medio”40.

Una scriminante che non agisce nel caso di condotte violente, avulse dal contesto della gara, che si

verifichino lontano dall’azione di gioco e, soprattutto, privi di relazione con la stessa41.

Una scriminante la cui ampiezza è radicalmente limitata quando si fuoriesce da un contesto

agonistico: in allenamento e/o in esibizioni dimostrative è necessario che siano adottati comportamenti

improntati a prudenza e cautela, al fine di circoscrivere al massimo la possibilità di causare lesioni

all’integrità fisica dell’avversario42.

2. Soggettività.

Preso atto della difficoltà definitoria, si procederà alla disamina delle soggettività coinvolte, anche

per verificare se, guardando la violenza secondo questo angolo prospettico, possa aiutare a sciogliere i nodi

problematici appena evidenziati.

38 “Sui quis in colluctatione vel in pancratio, vel pugiles dum inter se exercentur alius alium occiderit, si

quidem in publico certamine alius alium occiderit, cessat Aquilia, quia gloria causa et voirtutis, non iniuræ gratia

videtur damnum datum”. 39 A. Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 49. In una parola, “il rischio sportivo si sostanzia in un aumento

di pericolo, in una maggiore probabilità di danno che non può a priori eliminarsi, ma può solo essere limitata

attraverso l’adozione di idonee cautele” (E. Bonasi Benucci, Il rischio sportivo, cit., p. 423). 40 Ibidem, p. 50. 41 In proposito è stato precisato che “si ha dolo tutte le volte in cui non ci sia collegamento tra condotta dello

sportivo e svolgimento dell’attività sportiva; in tal caso la condotta lesiva deve essere giudicata e sanzionata in sede

penale come se si fosse verificata al di fuori dell’ambito sportivo” (G. Capilli, La responsabilità derivante dall’esercizio

di attività sportiva agonistica, in G. Capilli – P. M.Putti (a cura di), Casi e questioni di diritto privato – XX –la

responsabilità nello sport, Giuffrè, Milano, 2002, p.130). Non solo, appare ormai consolidato un orientamento

giurisprudenziale teso ad individuare gli estremi del delitto di lesioni personali, qualora si verificasse che “lo

svolgimento della gara è solo l’occasione, la sede occasionale di tempo e luogo dell’azione produttiva di lesioni

personali, in realtà avulse dalle esigenze di svolgimento della gara e solo determinata dalla volontà di compiere un

atto di violenza fisica, lesivo dell’altrui incolumità fisica” (Cass. pen., sez. V, sent. 6 maggio 1992). 42 In tal senso, ex pluribus, si veda il pronunciamento della Corte di Cassazione, laddove argomenta che

“l’attività sportiva nel caso di esibizione-allenamento richiede nel comportamento dei contendenti una maggiore

prudenza e cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario e, quindi, un maggiore controllo nell’ardore

agonistico e della forza e velocità dei colpi” (Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2286).

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Nella disamina delle soggettività, avendo riguardo della distinzione fra soggettività attive e passive,

emergono in prima istanza gli atleti, che possono coprire entrambi i ruoli.

Se ci si attiene ad un’accezione ristretta di violenza, non sembra a questo punto intravedere la

possibilità di un’ulteriore estensione delle soggettività coinvolte. Se, invece, si accoglie un’accezione

dematerializzata, fermo restando l’unicità dei soggetti passivi, si profila l’ammissibilità di altre soggettività

attive, quali ad esempio gli arbitri e/o ufficiali di gara, i tecnici e le società e/o associazioni sportive nonché

le Federazioni. Ad avallare tale estensione starebbe la constatazione che particolari comportamenti

(commissivi od omissivi), posti in essere da tali soggetti, potrebbero far ritenere integrata la violenza, in

quanto produttivi sia di effetti lesivi dell’integrità fisica, sia di coartazione della volontà.

Si tratterebbe di un’estensione niente affatto destituita di fondamento, ma non esente da criticità,

non appena si consideri la conseguente estensione della fattispecie, il cui progressivo slabbramento

avrebbe solo ricadute di sostanziale impunibilità: senza voler sottovalutare, quindi, la gravità delle

responsabilità addebitabili a tali soggettività, probabilmente sarebbe più fruttuoso sanzionarne i

comportamenti senza ricondurli necessariamente nell’alveo della violenza.

2.1. Gli atleti quali soggetti attivi.

Secondo quanto appena detto, in prima battuta emerge la categoria degli atleti, quali agenti che

possono infliggere lesioni all’integrità fisica dei competitori, fino a provocarne talora addirittura la morte.

Quali i profili giuridicamente rilevanti?

Il lavoro esegetico appare piuttosto complesso, considerato che lo sport si caratterizza per l’essere

esercizio regolato della forza, anzi un’attività diretta in maniera specifica alla disciplina dell’uso della forza,

orientandola al compimento di gesti che richiedono una capacità ed una destrezza particolarmente

raffinate; una difficoltà che si amplifica oltremodo quando ad essere considerati sono gli sport

ontologicamente caratterizzati dall’uso della forza.

A rendere ancora più complessa l’opera di esegesi è la considerazione che lo sport si connota per

una volontarietà della pratica che potrebbe costituire un’esimente dalla responsabilità di portata molto

ampia.

Stante ciò, la chiave di lettura risolutiva potrebbe essere rintracciata proprio nell’accezione di sport

come pratica che si caratterizza per l’uso regolato della forza: uso regolato, non indiscriminato.

Di qui una distinzione piuttosto semplice, per cui si potrebbe ritenere integrata la violenza quando

si dovesse riscontrare una violazione delle regole, così che le eventuali lesioni riportate al verificarsi di tali

condizioni potrebbero essere ritenute perseguibili quali esiti di atti di violenza.

L’interrogativo che, tuttavia, si pone è se sia sufficiente la cognizione di una violazione delle regole

perché possa ritenersi integrata la violenza: un interrogativo che sorge anche dalla considerazione della

molteplicità di lesioni che potrebbero acquisire rilevanza giuridica.

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In questo caso sovviene l’altra caratteristica, ricordata in precedenza, ossia la peculiare volontarietà

della pratica sportiva, cui va aggiunta la considerazione della connotazione dello sport come attività

rischiosa, per concludere che la violenza potrebbe ritenersi integrata non solo al verificarsi di lesioni

derivanti dalla violazione delle regole, ma anche che sia realizzata un’altra condizione, ossia che sia

constata la volontà di produrre tali lesioni.

Tutto ciò potrebbe rendere di certo più agevole il lavoro di esegesi, ma non appare ancora del tutto

soddisfacente: si possono ritenere davvero irrilevanti quelle lesioni, frutto di una violazione non volontaria

delle regole, dettate magari da mera stanchezza? Quali allora i profili di rilevanza giuridica di tali condotte?

Se non ascrivibili direttamente agli atleti, potrebbero essere rintracciate responsabilità altrove?

Considerato, dunque, che neanche la definizione dello sport come uso regolato della forza riesce a

fornire un criterio atto a dipanare il complesso intreccio delle responsabilità, forse l’individuazione e la

disamina dei beni lesi dagli atti di violenza potrebbe fornire indicazioni più stringenti.

Analogamente a quanto rilevato per il doping, emerge la lesione di almeno tre categorie di beni,

ossia il corretto svolgimento della competizione, l’integrità fisica e la costellazione degli interessi di natura

patrimoniale.

a) Il corretto svolgimento della competizione.

La lesione del primo ordine di beni è di facile rilievo, non appena si constata che la violenza

costituisce una violazione delle regole del confronto agonistico.

In tal senso appare altrettanto evidente la competenza peculiare dell’ordinamento sportivo, che si

costituisce proprio per regolare il confronto agonistico: una violazione di tali regole, così come si evidenzia

nella violenza, finisce per costituire, analogamente a quanto già argomentato per il doping, una negazione

proprio della ragion d’essere dell’ordinamento stesso.

Si tratta di una competenza che emerge dalla disamina dei vari regolamenti tecnici di specialità, i

quali dedicano sempre una sezione ai comportamenti ritenuti anti-sportivi, includendo fra questi anche le

manifestazioni di violenza43.

È un riconoscimento della rilevanza del comportamento che, addirittura, prescinde dal verificarsi di

lesioni dell’integrità fisica: l’atleta che dovesse essere ritenuto responsabile viene sanzionato con l’addebito

di un fallo e la conseguente azione risarcitoria che può concretizzarsi nell’assegnazione di un punto alla

43 A titolo esemplificativo si vedano, per gli sport di squadra, la regola 12 – Falli e scorrettezze del

Regolamento del Giuoco del Calcio ; la regola 12 – Falli e comportamento antisportivo del Regolamento del Calcio a

cinque; la regola 6 (artt. 33 – Contatto, 34 – Fallo personale, 36 – Fallo antisportivo) del Regolamento FIP, la regola 21

– Condotta scorretta e sue sanzioni del Regolamento FIPAV, la regola 10 – Antigioco del Regolamento FIR; per gli sport

individuali si vedano gli artt. 35 – Modo regolare di colpire, 36 – Scorrettezze del Regolamento FPI Dilettanti; l’art. 8 –

Comportamenti proibiti del Regolamento d’arbitraggio per le gare di karate, in vigore dal 1 gennaio 2012.

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parte lesa44, oppure nella concessione di poter riprendere il gioco in condizioni di favore (mediante

l’assegnazione di punizione, penalty, rimessa in gioco e/o tiri liberi)45.

È il riconoscimento della rilevanza che in alcuni giochi di squadra può condurre alla sanzione

dell’atleta che agisce tali comportamenti, fino al provvedimento di espulsione (momentanea o definitiva a

seconda della specialità sportiva) e la seguente squalifica46, oppure con l’assegnazione di punti alla squadra

avversaria o all’avversario (nel caso di sport individuali)47.

È da segnalare come l’ordinamento sportivo, generalmente, applichi un regime di responsabilità

oggettiva, ritenendo rilevante in sé la violazione delle regole, prescindendo dalla volontarietà dell’atto, la

quale, comunque, nella valutazione della sanzione costituisce semmai un aggravante48.

Si evidenzia, quindi, una competenza peculiare dell’ordinamento sportivo, che non trova

corrispondenza negli ordinamenti di natura pubblicistica, per la loro intrinseca indifferenza alla tutela di

tale bene.

b) La lesione dell’integrità fisica.

Per quanto concerne la lesione dell’integrità fisica, il discorso si fa certamente più articolato.

L’ordinamento sportivo sembra essere nel complesso sostanzialmente indifferente alla tutela del

bene salute, che risulterebbe essere compromesso dalla lesione dell’integrità fisica frutto di un atto

qualificabile come violento.

Tutto ciò non conduce, però, ad un disconoscimento della rilevanza di tale lesione, che viene

valutata operando, ordinariamente, una distinzione fra la lesione esito di un comportamento scorretto (per

ciò sanzionato), ma non volontario, ed una lesione scientemente prodotta in violazione delle regole: nella

seconda ipotesi si configura di regola un’aggravante del regime di responsabilità oggettiva che si sostanzia

spesso in un appesantimento della sanzione per colui al quale il comportamento è imputato49.

In proposito appare molto interessante e particolarmente eccentrica, rispetto alle norme che si

riscontrano nella generalità delle specialità sportive, la disciplina approntata dal Regolamento del KUMITE,

la quale riconosce rilevanza in sé alla lesione dell’integrità fisica occorsa in gara, prescindendo dalla

volontarietà dell’atto produttivo di tale bene50.

La lesione dell’integrità fisica, esito di un atto ritenuto violento, sembra essere, invece, di

pertinenza degli ordinamenti di natura pubblicistica, i quali ordinariamente sanzionano la rilevanza di tale

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fattispecie51, individuando una diversificazione dell’imputazione di responsabilità a seconda del grado di

volontarietà dell’atto produttivo della lesione.

Resta comunque aperta la questione in ordine alla rilevanza delle lesione riportate nell’ambito della

pratica sportiva, giacché appare ormai consolidato l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale per cui la

pratica sportiva va a costituire la ragione di un’esimente da responsabilità di portata piuttosto ampia:

un’esimente fondata sulla duplice scriminante dell’esercizio di un diritto (in Italia ex art. 51 c.p.52), per le

lesioni riportate a seguito di un comportamento conforme alle regole53, e del rischio consentito (in Italia ex

art. 50 c.p.54), nel caso di lesioni riportate in seguito a comportamenti non conformi alle regole55.

Ci si interroga sulla portata di tali esimenti: fin dove si estendono? La volontà potrebbe costituire

un ulteriore criterio dirimente?

Per il primo ordine di interrogativi, un tentativo di circoscrizione della sua estensione è stato

operato ricorrendo al concetto di “violenza-base”, con il quale si vuol intendere La violenza “ammessa dal

regolamento tecnico della singola disciplina sportiva”56: ciascuna disciplina sportiva consente la violenza in

51 Se per la tutela della salute si può individuare una diversificazione negli atteggiamenti dei vari ordinamenti

giuridici, è bene sottolineare come tutti gli ordinamenti giuridici statali riconoscano la rilevanza giuridica delle lesioni

inferte all’integrità fisica, fino all’esito estremo della morte. 52 “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine

legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine

dell'autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine. Risponde del reato altresì chi ha

eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Non è punibile chi

esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine” (art. 51 –

esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). 53 In tal senso si vedano C. Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273; L. Crugnola, La violenza

sportiva, cit., p. 53; P. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 181; A. Pannain, Violazione delle regole del

gioco e delitto sportivo, in “Archivio penale”, 1962, II, p. 98; G. Vidiri, Violenza sportiva e responsabilità penale

dell’atleta, cit., p. 3158. In proposito, appaiono interessanti le osservazioni di L,. M. Flamini, il quale argomenta che

tale scriminate ha trovato ulteriore fondamento nell’art. 1 della legge 17 ottobre 2003, n. 280, ove si statuisce che

l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, a cui è attribuita competenza disciplinare per quanto attiene

“l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo

nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive e agonistiche” (art.

2, co. 1 lettera a) della legge 280/2003). Da ciò deriverebbe che “la normativa statale che riconosce l’autonomia

dell’ordinamento sportivo comporti, implicitamente ma inequivocabilmente, la ricezione nell’ordinamento, con

funzione scriminante ex art. 51 c.p., di quelle norme tecnico-sportive che consentono all’atleta, nel corso di attività

sportive ufficiali, condotte violente nei confronti dell’avversario” (L. M. Flamini, Violenza sportiva, in Digesto delle

discipline penalistiche. Aggiornamento, t. 2, UTET, Torino, 2005, p. 1783). 54 “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente

disporne” (art. 50 – consenso dell’avente diritto). 55

In tal senso si vedano C. Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273; L. Crugnola, La violenza

sportiva, cit., p. 53; P. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 181; A. Pannain, Violazione delle regole del

gioco e delitto sportivo, in “Archivio penale”, 1962, II, p. 98; G. Vidiri, Violenza sportiva e responsabilità penale

dell’atleta, cit., p. 3158. 56 L. M. Flamini, Violenza sportiva, cit., p. 1789.

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una misura diversa, così che tutto ciò che non ecceda questo livello ricadrebbe all’interno della scriminante

invocata57.

Per il secondo ordine di interrogativi, il ricorso alla volontà, quale criterio dirimente per

l’individuazione dell’estensione dell’esimente, non sembra costituire fondamento soddisfacente, non

appena si consideri la volontarietà dell’accesso alla pratica sportiva, che reca in se stessa un tratto di

insopprimibile “pericolosità”, comprendente anche l’accettazione di un rischio generico di fallo, per cui “la

colpa sportiva non va commisurata sulla base dei rigorosi criteri della prudenza normale ma in

considerazione della peculiare natura dell’attività, in sé pericolosa e tuttavia consentita, onde maggior

campo di azione finisce per trovare il fortuito”58.

È stato individuata così la possibilità di ascrivere una colpa quando il comportamento non

conforme alle regole, oltre ad essere volontario, è di tale durezza da comportare la prevedibilità di arrecare

lesioni all’avversario: un orientamento che trova riscontro copioso nella giurisprudenza finanche di

Cassazione59.

c) La lesione di beni ed interessi di natura patrimoniale.

La commissione di atti di violenza all’interno della pratica sportiva fa profilare, infine, anche la

lesione di interessi e/o beni di natura patrimoniale, riconoscibili al suo interno: per un verso si ricorda come

il confronto agonistico si caratterizzi per una intrinseca patrimonialità, nel suo esigere l’individuazione di un

vincitore, il cui riconoscimento passa attraverso l’assegnazione di un premio, consistente in una medaglia

e/o una coppa e cui si accompagna sovente un premio valutabile in termini strettamente economici; per

altro verso, si osserva come le lesioni inflitte potrebbero compromettere in parte o del tutto la capacità

57

In questo senso si veda P. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 182. È stato sottolineato come

“nel concetto di attività lecita […] si fanno generalmente rientrare anche ipotesi, sempre più frequenti, di irregolarità

sportive (tipico esempio, in campo calcistico, le spinte, gli strattonamenti, le entrate scomposte, ecc.) considerate non

avulse dallo schema tecnico dello sport di riferimento dalle finalità della relativa pratica sportiva, attesa la contiguità

con l’agonismo che ne caratterizza le odierne competizioni e, dunque, la loro riferibilità a quell’area di rischio,

presente in ogni disciplina sportiva” (M. Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, in “Rivista di diritto ed

economia dello sport”, 2008, 3, p. 54). 58 Mantovani, Esercizio del diritto (dir. pen.), in Enciclopedia del diritto, XV, Giuffrè, Milano, 1966, p. 648. 59 È stato sancito, infatti, che “nell'esercizio di discipline sportive, come il karate, alla cui essenza e

regolamentazione è estranea la violenza, considerata soltanto nel suo impatto patologico ed extra-regolamentare,

come espressione della mancanza di autocontrollo e di adeguata preparazione da parte dell'atleta e, come tale,

sanzionata, l'evento lesivo conseguente a un contatto fisico violento con l'avversario integra il reato colposo” (Trib.

Firenze, 17 dicembre 1984); così come “è responsabile penalmente il giocatore di football americano che, nel corso di

una gara ed in occasione di un impatto con un avversario per contrastarlo anche senza il possesso della palla, l'abbia

colpito volontariamente con un pugno al corpo provocandogli gravissime lesioni personali: non si tratta infatti, nella

fattispecie, di un colpo rientrante nelle regole di quella pur maschia e violenta disciplina sportiva” (Trib. Udine, 6

giugno 1990). Sul punto la Corte di Cassazione è intervenuta più volte osservando, in particolare, che “configura un

illecito penale la condotta di un calciatore che, nel corso di una partita a livello dilettantistico, provoca lesioni gravi ad

un avversario, commettendo ai suoi danni un fatto volontario di tale durezza da esporlo ad un rischio superiore a

quello accettabile dal partecipante a tale genere di competizione, non potendo in tale caso operare l'esimente del

consenso dell'avente diritto” (Cass. Pen., sez. V, sentenza 30 aprile 1992).

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futura di competere dell’atleta che subisce tali atti, facendo profilare la possibilità di ascrivere all’agente

una responsabilità per i danni fisici arrecati, ma anche per lucro cessante60.

La tutela di tali interessi, per il primo profilo non appare aliena dalla competenza dell’ordinamento

sportivo: una competenza che, però, non trova un riscontro regolamentare adeguato, poiché, al di là di una

sanzione più o meno rigorosa del comportamento ritenuto scorretto, non prevede forme specifiche di

reintegrazione, come è espressamente disposto per la fattispecie del doping.

Per il secondo profilo, non sembra, invece, di potersi riconoscere alcuna competenza

dell’ordinamento sportivo. Una tutela, però, che, per quanto di pertinenza propria degli ordinamenti di

natura pubblicistica, non sembra trovare adeguato ristoro neanche negli ordinamenti di natura

pubblicistica, pur rappresentandone la sede propria di garanzia.

La ragione risiede, probabilmente, nel particolare regime di responsabilità che contrassegna la

pratica sportiva in re ipsa: un regime di responsabilità (meglio ancora una particolare esenzione da

responsabilità) che potrebbe ritenersi acquisito e fondato nel caso in cui i soggetti coinvolti siano

maggiorenni.

Quid ius?, però, quando i soggetti sono minorenni? In tal caso, la volontarietà può costituire

ancora una valida esimente? In caso di risposta affermativa, l’ampiezza della sua portata può essere la

medesima di quella riconosciuta per i soggetti maggiorenni?

Non solo, l’esimente può ritenersi valida in ogni momento della pratica, oppure agisce in misura

differenziata a seconda delle situazioni? Il confronto in sede competitiva o in modalità di allenamento è

assoggettato agli stessi parametri di valutazione e, quindi, di ascrizione di responsabilità?

Qualunque sia il tipo di interessi e/o di beni di lesi sembra potersi comunque riconoscere una

graduazione di responsabilità, che vede erodere l’ampiezza della portata dell’esimente via via che ci si

allontana dal confronto in sede agonistica: un riconoscimento che non trova riscontro alcuno

nell’ordinamento sportivo, che è diretto alla regolamentazione della competizione, ma che sembra avere

eco nella giurisprudenza degli ordinamenti di natura pubblicistica, laddove è individuata la necessità di

60

Senza avere pretesa di esaustività, si ricorda come il lucro cessante rappresenti uno dei due pregiudizi di

natura economica (l’altro è il c.d. danno emergente) che si verificano in conseguenza di un illecito. Secondo la

definizione generale contenuta nell’art. 1123 c.c. (“Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve

comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza

immediata e diretta”),il danno da risarcire si compone del danno emergente (la conseguenza diretta dell’eventuale

illecito/inadempimento) e del lucro cessante il mancato guadagno conseguente all’illecito/inadempimento). In

particolare, “se oggetto del danno è un interesse attuale, ovverosia l’interesse relativo a u n bene già spettante ad una

persona nel tempo in cui il medesimo è cagionato, si ha un danno emergente; se, viceversa, oggetto del danno è un

interesse futuro, ovverosia l’interesse relativo a u n bene non ancora spettante a una persona, si ha lucro cessante”

(A. De Cupis, Il danno, Giuffrè, Milano, 1954, p. 150).

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porre in essere criteri di prudenza e cautela quando si è in modalità preparatoria e, dunque, fuori

dall’agone competitivo in senso stretto61.

2.2 Gli atleti nella veste di soggetti passivi.

Sin qui l’analisi della categoria degli atleti nella veste specifica di soggetti che agiscono

comportamenti di natura violenta: quid ius? nel caso di atleti che subiscano tali atti?

Restano, evidentemente, ferme le considerazioni di carattere generale in ordine alla rilevanza

giuridico della violenza, particolarmente in ambito sportivo, appena svolte nella disamina degli atleti nella

loro veste di soggetti attivi: considerazioni che fanno emergere una sostanziale insoddisfazione per i criteri

di valutazione sin qui elaborati.

Procedendo in maniera analoga al paragrafo precedente, si può iniziare una disamina che guardi la

violenza secondo una prospettiva dettata dalla valutazione delle categorie di beni lesi dalla violenza.

a) Il corretto svolgimento della competizione.

Per quanto concerne la lesione del bene riferibile al corretto svolgimento della competizione, si può

affermare che l’ordinamento sportivo sembra riconoscere una rilevanza del comportamento violento,

inscrivendolo nell’alveo dei comportamenti antisportivi in sé, tanto da assoggettarlo ad un regime di

responsabilità oggettiva, sanzionandolo comunque e cercando di ripristinare l’equilibrio competitivo

assegnando una possibilità a coloro che sono stati penalizzati dall’atto violento62.

Si tratta di una reintegrazione che non può considerarsi pienamente soddisfacente non appena si

consideri che, nel caso in cui l’esito dell’atto violento si concretizzi in lesioni dell’integrità fisica, ciò

determina per colui che le ha subite l’impossibilità di proseguire nella competizione in corso e, spesso, di

accedere alle competizioni per un tempo anche abbastanza prolungato.

La sanzione e l’eventuale assegnazione di punti o della possibilità di riprendere il confronto in

condizione favorevole non appare misura che ristori pienamente, per quanto concerne il corretto

svolgimento della competizione, il danno subito dagli atleti.

b) L’integrità fisica.

Per quanto concerne la lesione dell’integrità fisica, permane la sostanziale indifferenza

dell’ordinamento sportivo che, di conseguenza, non presenta particolari disposizioni atte a conferire rilievo

alla condizione di passività: la compromissione fisica, temporanea o permanente, dell’atleta non dà luogo a

particolari forme di tutela, che non siano la sanzione di chi è riconosciuto responsabile, senza prevedere,

ordinariamente, aggravanti nel caso in cui si sia verificata una violazione delle regole confronto.

Del tutto eccezionale appare, pertanto, quanto disposto dal regolamento del KUMITE che

conferisce rilievo particolare all’occorrenza di lesioni durante il confronto in competizione, stabilendo una

61 Al riguardo si rimanda alla sentenza della Cassazione penale, sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2286,

richiamata alla nota 42. 62

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sanzione per colui che ha inferto la lesione63: una reintegrazione che ha comunque un sapore molto amaro,

considerando che spesso le lesioni subite impediscono all’infortunato di procedere oltre.

Del resto, neanche andando a considerare gli ordinamenti di natura pubblicistica si posso reperire

forme particolari di riconoscimento della rilevanza della condizione di passività.

Una ragione potrebbe essere rintracciata nel particolare regime di esenzione da responsabilità che

fa sì che l’accesso alla pratica sportiva ed agonistica implichi una sorta di accettazione del rischio del “fallo”

e delle relative conseguenze, anche se è stato osservato che “caratteristica delle attività sportive

organizzate è la predisposizione di una fitta trama di regole di comportamento le quali non sempre hanno

una funzione preventiva di eventi lesivi, potendo essere finalizzate esclusivamente ad assicurare

l’eguaglianza fra i competitori durante lo svolgimento della gara […]. Nondimeno, una gran parte delle

regole ha indubbiamente anche la funzione di contenere i rischi legati alla pratica sportiva”64. Pertanto, “un

contributo essenziale è sicuramente offerto da quella parte dei regolamenti tecnici traducentisi in

prescrizioni, alle quali può essere riconosciuta la funzione di contenere i rischi della pratica sportiva entro

limiti tollerabili”65.

In tal senso va anche la giurisprudenza italiana che individua una netta distinzione tra lesioni

occorse durante la competizione, conseguite in seguito ad azioni scorrette o violente, assoggettate ad un

regime di sostanziale impunità (a meno che la competizione non costituisca solo il luogo e l’occasione per

realizzare la volontà di arrecare danno ad altri), e lesioni occorse durante allenamenti e/o esibizioni

dimostrative, cui si applica un regime di responsabilità civile e penale molto prossimo a quello ordinario,

essendo richiesto un ardore competitivo ed agonistico attenuato, cui segue il ripristino di un obbligo di

diligenza e cautela, altrimenti messo in ombra.

63

Premesso, infatti che “Il concorrente si assume la piena responsabilità di ogni lesione da lui causata” (art. 2,

sez. Atleti, punto 7), all’art.8–comportamenti proibiti si distinguono due categorie di comportamenti proibiti,

all’interno dei quali occupano uno spazio rilevante quelle azioni che possano provocare danni e lezioni all’avversario

(“CATEGORIA 1. 1. Le tecniche che hanno un contatto eccessivo e le tecniche che hanno un contatto con la gola.

2. Attacchi alle braccia o alle gambe, all’inguine, alle articolazioni o al collo del piede. 3. Attacchi al viso con tecniche

a mano aperta. 4. Tecniche di proiezione pericolose o vietate. CATEGORIA 2. […]7. Tecniche che per loro natura non

possono essere controllate e costituiscono un rischio per la sicurezza dell'avversario, e attacchi pericolosi e

incontrollati. 8. Attacchi simultanei con la testa, le ginocchia o i gomiti”). Tutto ciò trova fondamento nella

spiegazione riportata di seguito all’elencazione, ove si afferma che “Il Karate agonistico è una disciplina sportiva e,

perciò, alcune delle tecniche più pericolose sono proibite e tutte le tecniche devono essere controllate. Gli Atleti

allenati possono assorbire colpi relativamente forti sulle regioni coperte da muscolatura, come l'addome, ma rimane

il fatto che la testa, il viso, il collo, l'inguine e le articolazioni sono punti particolarmente esposti alle lesioni. Pertanto,

deve essere punita qualsiasi tecnica che determini una lesione, purché non sia causata dall‘Atleta cui è destinata. Gli

Atleti devono eseguire tutte le tecniche mantenendo il controllo e la buona forma. In caso contrario, sono sanzionati

con un richiamo o una penalità, qualunque sia la tecnica usata impropriamente. Particolare attenzione deve essere

posta durante le competizioni per Cadetti e uniores” (Regolamento d’arbitraggio per le gare di karate, cit., p. 19). 64

(F. Albeggiani, Sport (dir. pen.), cit., p. 545-546 nota 32. 65

Ibidem, pp. 545-546.

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c) Gli interessi e/o i beni di natura patrimoniale.

Le considerazioni, svolte in ordine alle lesioni arrecate tanto al bene del corretto svolgimento della

competizione quanto all’integrità fisica, hanno come conseguenza pressoché immediata il

misconoscimento della condizione di passività avendo riguardo degli interessi e/o beni di natura

patrimoniale eventualmente coinvolti.

A conferma di ciò, basti osservare come non si trovi traccia di una considerazione nell’ambito della

lex sportiva (una considerazione che potrebbe concretizzarsi in una reintegrazione che proceda ad

un’assegnazione d’ufficio della vittoria a colui che ha subito il danno).

Nella medesima direzione sembrerebbero essere orientati gli ordinamenti di natura pubblicistica, i

quali si astengono ordinariamente dall’intervenire e, laddove ritengano di recedere da tale atteggiamento,

mostrano una cura particolare nell’opera di interpretazione al fine di discernere i confini dell’ammissibilità

di petizioni tese all’ottenimento di eventuali risarcimenti. In tal senso, dottrina e giurisprudenzahanno

compiuto un lavoro significativo teso a delineare gli spazi entro cui potessero agire le scriminanti invocate,

individuando di volta in volta, prima il concetto di violenza-base, legato ad una classificazione degli sport,

come criterio di valutazione; poi la distinzione fra comportamenti tenuti in un ambito competitivo e quelli

agiti in allenamento e/o esibizione; quindi, l’indicazione dell’utilità del criterio di conformità o meno alle

regole tecniche, cui però andava aggiunta anche l’elemento psicologico della volontarietà o meno di tale

infrazione.

Un’opera di delimitazione molto accurata che non sembra riconoscere spazi di manovra, a meno

che non si individui un intento violento che riveli una consistenza del tutto autonoma ed estranea

all’ambito agonistico.

Sembrerebbe emergere, pertanto, una scarsa considerazione della condizione di passività, tanto da

parte dell’ordinamento sportivo quanto degli ordinamenti di natura pubblicistica: quali le ragioni di questo

atteggiamento apparentemente irragionevole?

L’origine va rintracciata probabilmente, ancora una volta, nella natura volontaria dell’accesso alla

pratica sportiva, che la rende una specie di “zona franca”, per cui i soggetti coinvolti avrebbero scelto

liberamente di praticare lo sport e, altrettanto liberamente, ne accetterebbero le conseguenze: un accento

posto sull’assunzione di responsabilità che sbilancia notevolmente l’attenzione sul momento agente a

discapito di una considerazione della soggezione.

Tutto ciò non appare esente da contraddizioni, non appena si consideri che non sembra possibile

ignorare lo iato fra concezione ideale e realtà: una realtà segnata in maniera non così marcata da una piena

consapevolezza dell’accettazione responsabile, venendo a determinare in questo modo vuoti indubbi di

giustiziabilità, che sembrano ignorare in maniera pressoché sistematica la domanda di giustizia che si leva

da parte di chi subisce atti violenti.