DIRITTO DEL LAVORO Riassunto Del Libro Il Rapporto Di Lavoro Subordinato UTET Prof Tosi Prof Treu...

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SINTESI DIRITTO DEL LAVORO Il rapporto di lavoro subordinato 1

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DIRITTO DEL LAVORO Riassunto Del Libro Il Rapporto Di Lavoro Subordinato UTET Prof Tosi Prof Treu Doc

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SINTESI

DIRITTO DEL LAVORO Il rapporto di lavoro subordinato

UTETTosi – Treu

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CAPITOLO INTRODUTTIVO - I lezione ORIGINE E CARATTERI FONDAMENTALI

1- Il diritto del rapporto individuale: origini e caratteri fondamentaliIl diritto de lavoro si articola in 3 parti fondamentali:

il diritto del rapporto individuale di lavoro il diritto sindacale il diritto della previdenza sociale

A far da collante all’intero corpo giuslavoristico è proprio il primo che comprende la figura del lavoratore subordinato cioè di colui che si impegna a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro (art. 2094), contrario a quest'articolo è l'art. 2222 c.c. che fa riferimento al lavoro autonomo.

Il Diritto del Lavoro nasce con la rivoluzione industriale che ha avuto inizio in Inghilterra per poi arrivare in un secondo momento in Italia, dove si ebbero delle tappe evolutive a partire dal 1861 (anno dell’unificazione Italiana).

La I° tappa: è costituita dalla repressione penale dell’attività sindacale sancita dal cod. pen. Sardo del 1859. Nonché dal fatto che non esisteva una regolamentazione specifica del rapporto derivante dal contratto di lavoro, il quale era assimilato ad una locazione delle opere e dei servizi: di conseguenza le parti, poste formalmente su un piano di parità, avevano la più ampia libertà nel determinare il contenuto del contratto, secondo la tipica impostazione del periodo liberale.

Nella II° tappa si delinea la cd. Questione sociale dovuta al fatto che la rivoluzione industriale, avvenuta in Italia più tardi rispetto al resto d’Europa porta con se anche nuove problematiche come quella di un eccessivo sfruttamento dei lavoratori. Con l’aumento dei cd. “lavoratori delle braccia”, nascono le prime e incerte forme di autotutela, e le lotte politiche a difesa dei ceti poveri ed emarginati: è questa la fase della prima legislazione sociale.

La III° tappa riguarda la nascita della disciplina del contratto/rapporto individuale di lavoro. Con l‘entrata in vigore del codice del 1942 viene dedicata a lavoro una disciplina ben distinta da quella concernente i contratti. Le disposizioni sul lavoro così come quelle sull’impresa e sulle società, sono contenute nel libro V: è questa la fase dell’incorporazione de diritto de lavoro nel diritto privato.

L’importanza del diritto del lavoro consiste nel suo potere di stabilire un equilibrio tra 2 parti e cioè datore di lavoro e lavoratore perché hanno diverso potere, e questo equilibrio si concretizza, nella conclusione de contratto e nella conduzione del rapporto.

2- Il periodo corporativo Il corporativismo ha caratterizzato tutto il ventennio successivo (periodo fascista).

La legge del 1926 ha abolito tutti i sindacati riconoscendo personalità pubblica soltanto ad un solo sindacato dei datori di lavoro e lavoratori per ogni categoria produttiva, legittimati a concludere contratti collettivi con efficacia erga omnes, con l’introduzione della magistratura del lavoro, chiamata a sostituirsi alle parti qualora non fossero in grado di mettersi d’accordo, in quanto erano considerati nuovamente come reati sciopero e serrata.

La legge del 1938 diede vita alla Camera dei Fasci e delle corporazioni

3- Il periodo costituzionale Il momento più significativo di sviluppo è rappresentato dalla Costituzione varata il 1 gennaio del 1948 a partire dai principi costituzionali.

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L’art. 1, che dice che “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” dove il termine lavoro viene inteso in senso ampio, comprensivo di ogni attività socialmente rilevante;

l‘art. 3, che sancisce il principio di uguaglianza sostanziale. l’art. 4, che riconosce ad ogni cittadino il diritto a lavoro; l'art. 35, la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; l'art. 36, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità di lavoro

prestato, sufficiente ad assicurare alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; l'art. 37, la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e la stessa retribuzione del lavoratore; l'art. 39, l'organizzazione sindacale è libera, ai sindacati non può essere imposto altro

obbligo se non la registrazione presso uffici locali e centrali; l'art. 40, il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano; l'art. 41, dichiara che l'iniziativa economica privata è libera.

Con la fase della costituzionalizzazione, inizia così una nuova stagione del diritto del lavoro dove accanto alla tradizionale tutela della posizione contrattualmente debole si affianca la tutela della libertà e della dignità sociale del lavoratore.

4- Periodo Post-costituzionale Nel periodo compreso tra gli anni 50-60 detto della prima stagione, in un clima di inattuazione delle disposizioni costituzionali, vengono varate varie leggi le quali avevano tutte la logica di costituire reti di protezione a favore dei lavoratori.La successiva stagione matura con l’autunno caldo del 69 dove il forte peso del lavoro e l’alto tasso di sindacalizzazione permettono la tutela del lavoratore all’interno delle fabbriche. E’ allora che vede la luce lo Statuto dei Lavoratori del 1970. Un testo dove si consolida il ruolo del sindacato, che offre massima garanzia di osservanza dei principi costituzionali di tutela della libertà e della dignità del lavoratore, giungendo a porre forti limitazioni all’esercizio dei poteri datoriali. Un testo che prevede l’obbligo de datore di reintegrare nel posto di lavoro il dipendente illegittimamente licenziato.

5- Il passaggio dagli anni '70 agli anni '80: dall'emergenza alla flessibilitàAnni 70: In seguito allo shock petrolifero, l‘Italia affronta un periodo di crisi economica data da un periodo di stagnazione de PI L e di inflazione che si ripercuotono sul mercato del lavoro. Ciò aumenta la disoccupazione adulta e giovanile a cui si fa fronte con una legislazione cd. Di “emergenza”, consistente nella introduzione di leggi che consentissero lo spostamento dei lavoratori da un settore all’altro, oltre che l’introduzione di contratti flessibili di formazione e lavoro che consentissero l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro oltre che utili per contenere la dinamica della scala mobile e contenere l’inflazione.Anni 80: Si conosce una stabilizzazione economica e vengono stipulati protocolli d’intesa tra governo e le più importanti categorie sindacali (Politica dei redditi). Passando quindi da una legislazione di emergenza ad una di flessibilità come risposta strutturale al continuo cambiamento dei mercati. In questo periodo abbiamo il Protocollo Scotti del 1983 (sottoscritto dal Governo e dalla CGIL-CISL-UIL) con essa si sblocca il rinnovo dei contratti nazionali e si chiude nell'arco di un anno con il Protocollo di S. Valentino non sottoscritto dalla CGIL.A posteriori è possibile individuare almeno tre elementi di novità destinati a segnare il diritto del lavoro:

a) La triangolarizzazione del diritto del lavoro, con la diretta ed esplicita partecipazione del Governo nella negoziazione triangolare (i protocolli);

b) La moltiplicazione dei tipi di rapporto (lavoro a tempo determinato, lavoro a termine, part-time, ecc.);

c) La deregolarizzazione del diritto del lavoro, a cui risponderà la legislazione, non solo con la moltiplicazione dei tipi, ma anche con una riduzione delle garanzie inderogabili ex lege.

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6- Gli anni '90: la stagione di mezzoAnni 90: nasce il metodo della concertazione (discussione), il cui scopo è quello di raggiungere un accordo il più possibile vantaggioso per le parti coinvolte, in questo contesto, il Governo, con i suoi rappresentanti dello stato svolgono una funziona di mediazione.Pur essendo nato in seno al rinnovo dei contratti nazionali di lavoro il modo concertativo viene applicato anche ad altri problemi come ad es. la politica territoriale. L'accordo interconfederale del 1993 (obbiettivo crescita della retribuzioni lorde in linea con l'evoluzione dei prezzi) rende stabile la concertazione. All'accordo segue il patto per il lavoro del 1996 ed il patto sociale per lo sviluppo dell'occupazione del 1998 (c.d. patto Natale). Tutti e tre gli accordi formano il trittico degli accordi interconfederali, che sono intese stipulate dalle confederazioni (CGIL-CISL-UIL) con la controparte pubblica e/o istituzionali, nazionali, regionali, provinciali e territoriali e delineano orientamenti normativi ed impegni collettivi che riguardano la qualità delle condizioni dei lavoratori e/o cittadino.

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8- Le prospettive del nuovo secolo (c.d. Legge Biagi e riforma della Costituzione)Il nostro secolo si apre all'insegna di un duplice ordine di sollecitazione:

quella di un tentativo di ripresa della concertazione attraverso il patto per l'Italia del 2002, esso è la prima risposta alla prima sollecitazione, con cui il Governo conclude un accordo con le parti sociali, impegnandosi a tramutare le disposizioni programmatiche di riforma contenute nel Libro Bianco, nella Legge Delega 30/2003 (c.d. legge Biagi) in materia di mercato del lavoro che sfocerà nel D.Lgs 276/2003.

quella di un movimento di riforma originato dall'emergere di nuovi equilibri reali (globalizzazione e regionalizzazione), che scaturiranno nell'opera di flessibilità del mercato del lavoro e di decentramento iniziato dagli anni '90.

La legge delega n. 30/2003 (distrugge la tipicità del lavoro subordinato e lo deregolarizza, cioè toglie alcuni diritti per garantire l'occupazione).Dopo il Libro Bianco, abbiamo la legge delega c.d. Legge Biagi che introduce una serie di novità, la cui portata è paragonabile allo Statuto dei Lavoratori. Diversamente da quest'ultimo, l'intento del legislatore parte dal presupposto secondo cui la flessibilità (è il concetto di base al quale il lavoratore non rimane costantemente al proprio di lavoro a tempo indeterminato, ma muta più volte, nell'arco della propria vita attività occupazionale e/o il datore di lavoro) in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro e inoltre che la rigidità del sistema crea alti tassi di disoccupazione.La legge Biagi ha introdotto o modificato numerosi contratti di lavoro: dalla somministrazione, all'apprendistato, dal contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente o al lavoro accessorio o occasionale, nonché il contratto a progetto, ha disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l'istituto del lavoro temporaneo o interinale. Con la riforma Biagi, sparisce la figura del Co.Co.Co. (Collaborazione Coordinata e Continuativa) e viene introdotto il contratto a progetto.

Contratto di lavoro a progetto, Esso deve essere redatto in forma scritta e deve indicare, ai fini della prova, i seguenti elementi:

la durata determinata o determinabile della prestazione di lavoro; il progetto o programma di lavoro; il corrispettivo ed i criteri per la sua determinazione, nonché i tempi e le modalità di legge; le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto.

Il contratto termina quando il progetto, il programma o la fase vengono realizzati. Con la circolare

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n° 17/2006 rivolta agli ispettori del lavoro, il contratto di lavoro a progetto può essere applicato anche nell'ambito delle attività operative telefoniche svolte dai call-center purché sussistano i seguenti presupposti:

Sia possibile individuare un preciso progetto o programma di lavoro; il collaboratore deve essere autonomo nella gestione dei tempi di lavoro; devono essere contemplate le modalità di coordinamento consentite tra il committente ed il

collaboratore. A favore del collaboratore a progetto sono comunque previste delle garanzie alcune

deducibili dalla disciplina che il codice riserva al lavoro autonomo art. 2222 (criterio di organizzazione per la determinazione del corrispettivo) altre nuove (previsione che la gravidanza, la malattia e l'infortunio del collaboratore non comportino l'estinzione del rapporto di lavoro).

In recesso prima del termine è ammesso solo per giusta causa e per altre causali stabilite dalle parti, ma non è giustificato il motivo soggettivo.

Il Decreto Legislativo n° 276/2003Esso conferma la graduatoria tradizionale della gerarchia delle fonti, in cui la legge statale ha il ruolo di protagonista. Permette l'esaltazione dell'autonomia privata individuale e consente di spaziare all'interno di un ricchissimo panorama di rapporti, istituti e soggetti.

La riforma del Titolo V della CostituzioneLa legge costituzionale n° 3/2001 ha riscritto il Titolo V della Costituzione , infatti adesso l'art. 117 Cost. elenca esattamente le competenze esclusive dello Stato e quelle concorrenti tra Stato e Regioni, lasciando alla competenza di queste ultime tutte le materie residuali. Il legislatore ha incluso tra le materie di competenza legislativa concorrenti, la tutela e sicurezza del lavoro, riservando alla competenza esclusiva dello Stato quella del diritto del lavoro, in quanto facente parte dell'ordinamento civile.

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CAPITOLO PRIMO IL TIPO “LAVORO SUBORDINATO”

Che è la subordinazione?La subordinazione viene considerata la chiave di accesso alla disciplina di tutela prevista dal diritto del lavoro.

1- La questione della subordinazioneIl codice del 1942 non ci da la definizione di subordinazione, ma ci dice quando la prestazione lavorativa può essere considerata subordinata. L’art.. 2094 c.c. ci dice che: è subordinata la prestazione che si svolge nell’organizzazione del datore di lavoro, alle dipendenze e sotto la direzione dello stesso. Nasce quindi l’esigenza di definire il campo di applicazione della disciplina garantista contenuta nel codice civile e soprattutto nella legislazione speciale la quale si applica esclusivamente al lavoro subordinato. Anche perché la capacità qualificatoria della nozione di subordinazione contenuta all’art. 2094, quale modo d’essere della prestazione lavorativa è molto fragile. Perché l’eterodeterminazione ossia la soggezione alle altrui decisioni e direttive può manifestarsi anche nell’ambito di altri rapporti aventi ad oggetto un’attività lavorativa. (vedi il contratto d’opera che consente una accentuata ingerenza del committente nell’esecuzione dell’opera stessa, es: attraverso la nomina da parte del committente del direttore dei lavori, ma in ogni caso il potere direttivo del cliente in tal caso non potrà mai essere paragonato al potere direttivo del datore di lavoro, di contro l’eterodeterminazione può risultare molto attenuata nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato si pensi ad es: al lavoro dei dirigenti o lavoro altamente specializzato). Stabilire quando c’è o non c’è subordinazione significa stabilire i confini del diritto del lavoro cioè quando il cittadino che presta attività lavorativa ha determinati diritti di protezione sociale, assicurativa previdenziale, cassa integrazione, pensione di invalidità ecc…cioè quando alla prestazione lavorativa viene applicata quella disciplina inderogabile che impone il rispetto dei minimi retributivi, delle mansioni, del trattamento di malattia… La subordinazione deve consentire non solo la precisa delimitazione della fattispecie tipica rispetto alle altre, ma anche la riconduzione ad essa dello specifico rapporto da qualificare.Cosa implica l’interpretazione più o meno estensiva della subordinazione?Essa rinvia a dei concetti non ad una casistica specificatamente individuata. E’ il concetto di dipendenza che deve essere interpretato. L’elemento fondamentale del lavoro subordinato secondo una impostazione più moderna, è l’assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive ed il vincolo della subordinazione consiste nell’accettazione, espressa o per fatti concludenti, da parte del lavoratore dell’esercizio del potere direttivo con cui egli specifica la prestazione lavorativa. Il potere direttivo è un potere fondamentale del datore di lavoro che inerisce al merito sulle modalità di esecuzione che attiene al risultato dell’attività lavorativa. Tanto più vi è un’interpretazione elastica di queste nozioni tanto più potrò giungere ad escludere dei lavoratori. Es. il lavoro dell’informatore medico scientifico che si deve attenere ad un programma di lavoro, è molto difficile dire quando tale rapporto può essere considerato subordinato e quando in ampia autonomia garantire un risultato.Particolarmente insistenti si sono rivelati anche i tentativi di agganciare la subordinazione a profili vari della condizione socio-economica del prestatore di lavoro, quali: estraneità ai mezzi di produzione, inerenza dell’attività lavorativa al ciclo produttivo, inferiorità economica ecc…Nella giurisprudenza ha fatto capolinea una nozione di subordinazione allargata che ha consentito l‘inserimento di figure professionali che normalmente avrebbero dovuto essere escluse:vedi CO.CO.CO collaboratori a progetto ossia la tendenza espansiva ha operato anche nel senso della esportazione di tratti della disciplina tipica al di là del tipo legale – nel senso della applicazione della disciplina tipica a rapporti diversi da quello di lavoro subordinato e quindi ad una lettura estensiva della definizione contenuta nell’art.

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2094 c.c..2- Le operazioni giurisprudenziali di qualificazione: metodo tipologico L’impossibilità di poter costruire sulla base dell’art. 2094 una nozione generale onnicomprensiva di subordinazione ha fatto si che la giurisprudenza enucleasse una serie di indici che distinguessero il lavoro subordinato da quello autonomo quali:

la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare dell’imprenditore, l‘esclusività della dipendenza da un solo datore di lavoro, le modalità di retribuzione, L’osservanza di un orario di lavoro predeterminato l’assenza di rischio. La natura della prestazione La continuità della prestazione

La giurisprudenza trovandosi di fronte ad un rapporto di lavoro di incerta natura tendeva a procedere ad un raffronto dello specifico rapporto cioè tendeva a verificare la completa coincidenza tra fattispecie concreta e fattispecie astratta attraverso un giudizio di identità (cd. Metodo sussuntivo). Questo aveva tuttavia portato col mettere fuori tutta una serie di classi lavorative (es. pony express) che si trovavano nella cd. Zona grigia. Da qui la conclusione della giurisprudenza di adottare un nuovo metodo di inquadramento detto tipologico attraverso un giudizio di approssimazione della fattispecie concreta rispetto al tipo sotteso alla fattispecie astratta (non esclud. Lav. solo perché manca un principio basta che vi sono alcuni indici in quanto il giudizio di identità creava situazioni di disparità di trattamento)Il giudizio di approssimazione comporta, stabilire se, malgrado l‘assenza di taluni indici della subordinazione, l’assetto di interessi sotteso al rapporto da qualificare sia da ritenersi più vicino a quello espresso dal tipo di lavoro subordinato piuttosto che ad altri tipi. E nell’operare questa valutazione il giudice deve tenere conto del comportamento che le parti hanno avuto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro rispetto alla volontà che avevano manifestato al momento della stipulazione del contratto (cd. nomen iuris). Tale valorizzazione del nomen iuris è sfociata nell’introduzione da parte de d.lgs 276/2003 della procedura di certificazione del rapporto di lavoro, finalizzata ad un alleggerimento del contenzioso in materia di qualificazione.Tali indici tuttavia non sono universalmente applicabili e peraltro sono considerati elementi sussidiari, cioè con un rilievo secondario rispetto all’unico elemento determinante per la dimostrazione dell’esistenza del vincolo di subordinazione: l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro.

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4- Subordinazione, fattispecie tipica ed effetti Ogni rapporto che presenti le caratteristiche della subordinazione deve essere ricondotto alla fattispecie tipica lavoro subordinato (cd. Tassatività del tipo) Pertanto una volta ricondotto un rapporto di lavoro alla fattispecie tipica, si producono tutti gli effetti legislativamente correlati a tale fattispecie (cd. Tassatività della disciplina tipica)La disciplina tipica va considerata tendenzialmente, ma non necessariamente applicabile al rapporto che viene qualificato come lavoro subordinato. Questo non vuol dire che si sta muovendo verso un restringimento del tipo legale, ma all’applicazione selettiva della disciplina tipica.

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Disponibilità del tipo legale? Cioè il legislatore può escludere dall’applicazione della normativa lavori che hanno le caratteristiche del lavoro subordinato Indisponibilità del tipo legale? Non può dissociare la fattispecie sostanziale dalla disciplina protettiva o norme corrispondenti

5- Parasubordinazione, lavoro autonomo, lavoro a progetto e occasionaleIl lavoro autonomo consiste nel compimento di un’opera o di un servizio, con lavoro prevalentemente proprio che il lavoratore svolge senza vincolo di subordinazione, verso un corrispettivo, nei confronti del committente. Tale definizione discende dall’art. 2222 del c.c.(speculare all’art. 2094) che disciplina il contratto d’opera cui si applicano le disposizioni degli artt. 2223-2228 riguardanti: l’esecuzione dell’opera, le modalità di determinazione del corrispettivo, le conseguenze nel caso in cui l‘opera non sia stata eseguita in modo esatto, il recesso unilaterale dal contratto, l‘impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione dell’opera.Il lavoro autonomo si pone in linea di principio agli antipodi del lavoro subordinato. Tuttavia non è sempre facile differenziare le fattispecie. Anche perché il contenuto dell’art. 2222 pone l’accento solo sull‘assenza del vincolo di subordinazione. Ma il lavoro può svolgersi con modalità tali da rendere difficile distinguere in modo netto le due tipologie. Inoltre esistono forme di lavoro che hanno natura autonoma ma esistendo un coordinamento con il committente, si fuoriesce dall’ambito di applicazione dell’art. 2222 per rientrare in quello della parasubordinazione. Dottrina e giurisprudenzaTradizionalmente, guardando all’oggetto della prestazione, si riteneva che nel lavoro autonomo esso fosse costituito dal risultato finale dell’attività del prestatore (locatio operis), mentre nel lavoro subordinato dalle stesse energie lavorative del prestatore (locatio operarum). In base a tale distinzione si parlava di obbligazione di risultato, e di obbligazione di mezzi. Questo criterio oggi non ha ormai rilevanza perché anche per talune categorie di lavoro autonomo può essere esclusa la responsabilità per un certo risultato (vedi avvocati, medici) in quanto oggetto del rapporto è soltanto la prestazione di un’attività, mentre nello schema causale del contratto di lavoro subordinato ben può rientrare la prestazione di un risultato utile per il datore di lavoro. E’ altresì escluso che la distinzione tra lav. Autonomo e subordinato possa essere fatta sul tipo di attività dedotta in contratto. Secondo a giurisprudenza “ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere espletata nelle forme del rapporto di lavoro subordinato o di quello autonomo, in relazione alla scelta liberamente compiuta dalle parti circa lo schema più idoneo ha soddisfare i loro rispettivi interessi”.La parasubordinazione L. 533/1973; anni 70 (riforma del processo del lavoro)La diffusione di lavoratori giuridicamente qualificati come autonomi, ma che di fatto si trovano in una posizione di dipendenza (subordinazione) verso il committente ha fatto si che la dottrina e la giurisprudenza creassero una vera e propria categoria: la parasubordinazione.Perno della elaborazione di tale categoria è stata la valorizzazione della debolezza del prestatore di lavoro nei confronti del committente, connesso alla ratio protettiva della disciplina tipica. Tale categoria ha ricevuto il primo riconoscimento legislativo nell’ambito del diritto processuale civile perché la l. 533/73 nel modificare l’art. 409 c.p.c. ha esteso l’applicazione delle disposizioni sul processo del lavoro ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale e a tutti gli altri rapporti di collaborazione con prestazione d’opera continuativa e coordinata, anche se non a

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carattere subordinato ( i c.d. co.co.co), nell’ambito dei co.co.co rientrano tutti i rapporti in cui la prestazione lavorativa ha i seguenti requisiti:

- Essere prevalentemente personale (“prevalenza dell’attività del lavorato sugli altri fattori impiegati x l’esecuzione dell’obbligazione prevista, anche sul capitale)_

- Continuativa (collaborazione durevole nel tempo)- Coordinata con l‘attività de committente (implica un collegamento funzionale del

collaboratore con l’attività economica del committente- inoltre assenza di vincoli di orario di lavoro, e libertà di organizzazione)

Per quanto riguarda la tutela, il lavoro parasubordinato e quello autonomo non differiscono.Nel diritto del lavoro la concretizzazione dei principi costituzionali si è avuta negli anni 70 con la nascita dello Statuto dei lavoratori poi confluito nella Riforma del lavoro contenuta nel Libro Bianco (2001). Con questa riforma è stata introdotta la tutela per tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica al fine di superare la contrapposizione tra lavoratore autonomo e subordinato. L’elemento che maggiormente differenzia la parasubordinazione dal lavoro autonomo e che lo avvicina al lavoro subordinato è il coordinamento dell’attività lavorativa del lavoratore con quella del committente con il suo inserimento nell’organizzazione produttiva di quest’ultimo. A differenza del lavoro subordinato, però, nella parasubordinazione la coordinazione non è connessa al potere direttivo del committente.Dal punto di vista della disciplina sostanziale di tutela il lavoro parasubordinato non si differenzia da quello autonomo. Nel concreto svolgimento dei rapporti di lavoro, spesso lo strumento dei co.co.co è stato utilizzato per eludere la normativa su lavoro subordinato.Per evitare tale utilizzo il legislatore ha introdotto con il d.lgs. 276/2003 (contratto a progetto) che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici e programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, indipendentemente da tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. Tale previsione si traduce nel divieto di rapporti di co.co.co. atipici, cioè senza l’osservanza della disciplina del lavoro a progetto. E’ infatti previsto che nel caso in cui non sussista un progetto o un programma di lavoro, il rapporto si presume di natura subordinata e a tempo indeterminato sin dal momento in cui esso ha avuto inizio.Dalle disposizioni sul lavoro a progetto restano esclusi, oltre che la pubblica amministrazione, alcuni specifici rapporti (agente di commercio, professioni intellettuali, nonché rapporti occasionali, che costituiscono l’eccezione di carattere generale. Prestazione occasionale si intende il rapporto di durata complessiva non sup. a 30 gg. Ne corso dell’anno solare con lo stesso committente salvo che il compenso percepito sia sup. a € 5000 nel quale caso di applicano le disposizioni del lavoro a progetto.Una fattispecie particolare di prestazione occasionale è il cd. lavoro accessorio (Es. lavori domestici retribuiti con pagamento in buoni)Il lavoro a progetto deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova, deve contenere l‘indicazione del progetto, della durata, del corrispettivo, delle forme di coordinamento , delle eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del lavoratore.A favore del collaboratore a progetto sono comunque previste delle garanzie alcune deducibili dalla disciplina che il codice riserva al lavoro autonomo art. 2222, (Criterio di proporzionalità per la

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determinazione del corrispettivo) altre nuove ( previsione che la gravidanza la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportino l’estinzione del rapporto di lavoro ma solo la sua sospensione senza erogazione di corrispettivo e senza proroga della durata del contratto (salvo il caso della gravidanza per cui è disposta proroga di 180 gg.). Il contratto si risolve al momento della realizzazione del progetto, ovvero al raggiungimento del risultato. Il recesso prima del termine è ammesso solo per giusta causa e per altre casuali stabilite dalle parti 6- Lavoro associato e subordinazione (associazione in partecipazione e lavoro in cooperativa) E’ un contratto con il quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di singoli affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Nell’associazione. in partecipazione l’associato che conferisce il proprio lavoro non può essere considerato lavoratore subordinato poiché anche in questo caso non si rinvengono gli elementi propri della subordinazione. L’associato infatti non è obbligato a prestare la collaborazione sotto la direzione dell’associante. Inoltre egli, anche se non ha la titolarità dell’affare, che resta in capo esclusivamente all’associante può esercitare un controllo circa il suo andamento e partecipa ai risultati dell’attività svolta.Il d.lgs. 276/2003 ha stabilito che nel caso in cui manchino una effettiva partecipazione e adeguare erogazioni all’associato che presti la propria attività, quest’ultimo ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato. Vi è dunque una presunzione legale di subordinazione al fine di utilizzare tale contratto per eludere la disciplina del lavoro subordinato.

CAPITOLO SECONDO

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LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO

A) CONTRATTO E RAPPORTO

1- La contrattualità del rapportoLa matrice contrattuale del rapporto di lavoro era considerata come una sottospecie della locazione, ma nel primo novecento, per l'influenza di una corrente di pensiero tedesca, l'impresa si sostanzierebbe in una comunione di scopo tra datore e lavoratore destinata ad esprimersi in un rapporto di lavoro organizzato su base gerarchica. Fonte del rapporto sarebbe non il contratto, bensì l'inserzione del lavoratore nell'impresa.La nostra dottrina è rimasta contrattualistica, facendo emergere il rapporto si scambio. Esiste però un'altra teoria c.d. acontrattuale di scambio questa dottrina ha creduto di trovare un aggancio normativo nell'art. 2126 c.c. intitolato alla “prestazione di fatto con violazione di legge”, laddove è stabilito che “la nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità della causa o dell'oggetto se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del lavoratore questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”, malgrado la nullità o l'annullamento del contratto, si producono i normali effetti del rapporto di lavoro subordinato in dipendenza della sua materiale esecuzione, bisognerebbe riconoscere, per questa dottrina, che fonte di quel rapporto non è il contratto, bensì la prestazione di fatto dell'attività lavorativa.Il contratto di lavoro nel settore Pubblico. Con la c.d. privatizzazione dell'impiego pubblico attraverso il D. Lgs n. 165/2001 è stato riformatolo status giuridico dei dipendenti della P.A., inquadrandoli nella medesima cornice scambistico-negoziale del privato, cosicché oggi:

l'assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro; i rapporti individuali di lavoro sono regolati contrattualmente; le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti con i

poteri del privato datore di lavoro.

2- Art. 2126 c.c. e prestazione di fattoLa prestazione invito domino . L'obbligo della retribuzione non esiste, nell'ipotesi di lavoro prestato invito domino, cioè senza il consenso o volontà del datore di lavoro. In questo caso il lavoratore, potrà invocare solo la disciplina sull'ingiustificato arricchimento (art. 2041 ss. c.c.).L'illiceità dell'oggetto e della causa. Nel contratto abbiamo 3 tipi di illiceità:

a) Illiceità dell'oggetto, quando il contratto sia contrario ai principi di ordine pubblico, cioè a quelli etici fondamentali dell'ordinamento giuridico;

b) Illiceità della causa, quando il contratto sia contrario ai principi di ordine pubblico, cioè a quelli etici fondamentali dell'ordinamento giuridico;

c) Violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, in questo caso il lavoratore avrà comunque diritto alla retribuzione (es. del contratto con un minore che abbia ad oggetto un'attività vietata per ragioni di sicurezza o di salute);

E' prevalente l'orientamento che esclude l''applicabilità in via analogica dell'art. 2126 c.c. al di fuori del lavoro subordinato, ammettendo invece il richiamo all'art. 2041 c.c. (l'ingiustificato arricchimento).

B) I SOGGETTI DEL CONTRATTO

1- Il Lavoratore: capacità giuridica e capacità di agire.Il principio fondamentale del contratto è l'infungibilità c.d. Soggettività della prestazione, che a propria volta scaturisce nel principio di intrasmissibilità della relativa obbligazione sia inter vivos che mortis causa, fermo restando il diritto dei superstiti ad una specifica indennità.

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Capacità giuridica speciale e capacità al lavoro. Quando si parla di capacità giuridica speciale, si intende la particolare disciplina (penalmente sanzionata), che fissa i requisiti d'età per l'accesso al lavoro c.d. capacità al lavoro, che si acquista con l'età minima di ammissione al lavoro, indicata nella L. 977/1967 che recita “l'età minima per l'ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”, recentemente modificata ed ampliata dal D. Lgs. 345/1999 a seguito della Direttiva 94/33/CE, per la protezione dei giovani al lavoro.Per il pubblico impiego, il legislatore ha previsto come età minima il compimento dei 18 anni, mentre il limite di età massimo di 40 anni è invece venuto meno, a seguito dell'emanazione della L. 127/97, salvo alcune deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni, connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità di amministrazione.Bambini. E' tuttavia legittimo l'impiego del bambino in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo, pubblicitario, di spettacolo, purché non pregiudichino la sicurezza, la salute, lo sviluppo, l'istruzione e le possibilità di formazione (L. 977/1967).Adolescenti. I minori di età compresa tra i 15 ed i 18 anni, non più soggetti all'obbligo scolastico hanno invece piena capacità al lavoro.Il difetto della capacità giuridica speciale, integra la fattispecie di mancanza di un presupposto essenziale per la validità del contratto di lavoro, determinandone la sua nullità.Il difetto della capacità di agire, cioè del contratto stipulato da parte del soggetto provvisto dell'età minima di ammissione al lavoro, determina l'annullabilità del contratto.

2- Minori e lavoroLa legge 977/1967 applica speciali garanzie in favore dei giovani lavoratori minori dei 18 anni, riconducendo a lungo lo stesso ambito protettivo di quello femminile. I primissimi provvedimenti di legislazione sociale, accomunavano in un'unica tutela le c.d. Mezze forze (donne e minori), con l'intento di scoraggiare l'impiego a condizioni di minore costo.I Principi costituzionali. L'esigenza di una disciplina differenziata in materia è emersa con l'art. 37 della Costituzione che ha sancito 3 principi fondamentali:

Il principio della costituzionalizzazione della competenza legislativa in tema di età minima dell'ammissione al lavoro;

Il principio della creazione dell'istituto della tutela speciale per il lavoro minorile distinguendolo da quello femminile;

Il principio per cui il minore a parità di lavoro, ha diritto alla stessa retribuzione dell'adulto.La disciplina internazionale e comunitaria. La tutela speciale del lavoro minorile indicata nell'art. 37 Cost. si è tradotta nelle disposizioni della L. 977/1967 che a sua volta si allinea pienamente agli standard internazionali ed all'art. 32 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., successivamente la normativa a subito una modifica con il D. Lgs. 345/1999 per adattarsi alla Direttiva n° 94/33/CE, sul divieto di lavoro minorile e la protezione dei giovani sul luogo di lavoro, con l'obiettivo di privilegiare l'istruzione e l'inserimento professionale mediante formazione, nonché la sicurezza dei minori, in quanto gruppo a rischio particolarmente sensibile.Età e condizioni di lavoro nella L. 977/1967. Nella tutela speciale si contemplano due generali requisiti di ammissibilità al lavoro minorile:

1) Che il datore di lavoro effettui la valutazione dei rischi ambientali;2) Che il minore sia riconosciuto idoneo a svolgere la specifica prestazione oggetto del

contratto con visita medica pagata dal datore ed eseguita prima dell'assunzione nonché ogni anno.

Il lavoro notturno è proibito per tutti i minori, salvo il caso delle prestazioni culturali, artistiche, sportive, pubblicitarie e dello spettacolo. La notte è intesa come un periodo di almeno 12 ore consecutive comprensivo del lasso di tempo che va dalle ore 22 alle ore 06 o dalle 23 alle 07.3- Il datore di lavoro

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Per il datore di lavoro si applicano le regole civilistiche sulla capacità giuridica e di agire destinate alla generalità dei soggetti, piuttosto nel versante datoriale, si rileva la distinzione tra:

Imprenditori; Non imprenditori, titolari di un'attività organizzata a fini non lucrativi (es. ONLUS);

C) LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO

1- La forma del contratto di lavoroLa legge non prescrive per il contratto di lavoro alcuna forma e quindi vige il principio generale della libertà della forma.Molti contratti collettivi del settore privato prescrivono la forma scritta del contratto di lavoro, ma è assai dubbio che questa sia richiesta ai fini della validità del negozio, come disposto dall'art. 1352 c.c., presupponendo quest'ultimo che la stipulazione per iscritto sia stata voluta nel comune interesse delle parti.Diversamente deve dirsi per il mancato rispetto dell'obbligo di forma scritta del contratto individuale del lavoro prescritto per tutti i contratti collettivi di comparto del settore pubblico.Casi di riforma vincolata. Eccezioni al principio della libertà di forma sono previste con riguardo a una serie di ipotesi. In questi casi il vincolo di forma è inteso il più delle volte ad substantiam ossia ai fini di validità del contratto, con conseguente nullità dello stesso.Altre volte la forma scritta è richiesta ad probationem, con il principio che il contratto sarà comunque valido, ma in presenza di contestazioni sulla sua esistenza, l'interessato non potrà fornire prova testimoniale, salvo che il documento non sia stato perduto senza propria colpa.Quanto al contratto stipulato tra Agenzia fornitrice de prestatore di lavoro, la forma scritta è richiesta, sempre ad substantiam, ai sensi del D. Lgs. 368/2001, se il contratto è concluso a termine.Il decreto delegato n° 276/2003 prevede poi la forma scritta ad probationem per tutte le tipologie flessibili di contratto di lavoro di nuova introduzione: il lavoro ripartito, intermittente finanche per il lavoro a progetto, per il quale, data l'essenzialità della predisposizione del progetto, ci si aspettava piuttosto il requisito ad substantiam.Devono essere stipulati per iscritto i contratti di apprendistato, nonché il contratto di inserimento in cui la legge prevede esplicitamente, che in caso di mancanza di forma scritta, lo stesso venga convertito in contratto a tempo indeterminato.

2- Consenso, vizi del consenso e simulazioneConsenso tra le parti. La definizione dei contenuti dell'accordo è solo parzialmente oggetto di reciproco scambio del consenso tra le parti, poiché normalmente, la proposta di lavoro proviene dal datore di lavoro e risulta formulata sulla scorta delle disposizioni di legge e di contratto collettivo, che possono essere derogate solo in melius, ove il lavoratore, per la sua particolare forza sul mercato, abbia la capacità di imporre condizioni più favorevoli di quelle legislative o negoziali collettive.L'errore sulle qualità del lavoratore. Sul piano del contratto di lavoro, è causa di annullamento l'errore che sulle qualità personali del lavoratore che devono riguardare quelle che abbiano diretta attinenza con la prestazione lavorativa (es. alla rilevanza dei precedenti penali del lavoratore con mansioni fiduciarie, come il cassiere o il custode).La rilevanza dell'errore è in ogni caso subordinata alla sua riconoscibilità da parte del lavoratore, qualora quest'ultimo abbia causato l'errore, con affermazioni false (dolo commissivo) o reticenti (dolo omissivo).L'errore di diritto. ex all'art. 1429 c.c., con riguardo all'esempio in cui il datore di lavoro abbia proceduto all'assunzione senza il rispetto della graduatoria concorsuale, confidando sulla clausola preferenziale della residenza contenuta nel bando di concorso che poi viene dichiarata nulla.La simulazione. Questa disciplina non si discosta da quella del diritto comune per i negozi simulati,

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ma per lo più viene diversamente fondata, per questa possono prospettarsi 3 diverse ipotesi:1) Simulazione assoluta, viene simulato un contratto di lavoro subordinato in assenza della

volontà di dar vita ad un rapporto ed in assenza di una prestazione lavorativa (es. per ragioni fiscali);

2) Simulazione relativa, essa si distingue in due ipotesi:a) viene simulato un contratto diverso, ad es. di lavoro autonomo, ma le parti intendono dar

vita e comunque di fatto danno vita ad un rapporto di lavoro subordinato, il problema viene risolto con la corretta qualificazione del rapporto;

b) viene simulato un contratto di lavoro subordinato che nasconde un contratto autonomo, in questo caso il rapporto di lavoro subordinato non può trovare applicazione, qualora quell'assetto di interessi non ricorra effettivamente

3- La clausola della provaAi sensi dell'art. 2096 c.c. il contratto di lavoro può prevedere un periodo di prova, durante il quale ciascuna delle parti può recedere senza obbligo di preavviso e al termine del quale “l'assunzione diviene definitiva ed il servizio prestato si computa nell'anzianità si servizio del lavoratore”Il legislatore ha espressamente previsto l'apponibilità del patto di prova anche nel contratto di lavoro somministrato, nonché in quello di apprendistato.Anche tutti i contratti collettivi di comparto hanno imposto l'indicazione della durata del periodo di prova nel contratto individuale di lavoro., “l'assunzione del lavoratore per un periodo di prova deve risultare da atto scritto, richiesto ad substantiam.Il patto è finalizzato alla verifica “della capacità professionale e della complessiva personalità del lavoratore” in relazione alle mansioni affidate e al contesto aziendale in cui sono destinate a svolgersi.La durata. L'ordinamento impone la predeterminazione della durata massima della prova, normalmente stabilita dai contratti collettivi in misura non superiore ad un semestre a differenza per operai, impiegati e dirigenti.Il trattamento. Salvo il profilo del recesso senza preavviso, la disciplina legislativa del rapporto in prova non differisce da quella del rapporto definitivo, atteso l'orientamento della giurisprudenza costituzionale che riconosce al lavoratore in prova il normale trattamento economico e normativo.

CAPITOLO III

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PUBBLICO E PRIVATO NEI MERCATI DEL LAVORO

B) LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

1-Dal divieto di interposizione di manodopera all'ammissibilità della somministrazione di lavoro.Per più di 40 anni il diritto del lavoro dell'Italia repubblicana è stato regolato da 2 Leggi, la n° 264/1949 e la n° 1369/1960, che pur vietando comportamenti (e schemi negoziali) diversi, di fatto erano dirette a reprimere i medesimi fenomeni socio-economici. Di queste la legge del '60, vietava quelle attività che continuano e cominciano al di la del collocamento.E' questa una antica e nota prassi datoriale, volta a liberare i datori di lavoro dalla propria responsabilità giuridica ed economica nei confronti dei lavoratori direttamente occupati, scaricandola su altri soggetti, intermediari o interposti. Questo fenomeno spesso indicato con l'originaria espressione francese del marchandage du travail, è definita nel linguaggio del legislatore del 1960 come interposizione, appalto o intermediazione.La legge n° 1369/60, vietava nell'art. 1, la realizzazione di una fattispecie complessa (detta anche triangolazione) quale quella in cui un committente, imprenditore o non imprenditore, privato e pubblico, si rivolge ad un altro soggetto, detto interposto, per richiedere la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da questo. L'interposto, nel linguaggio comune detto caporale, anche se assume direttamente le vesti di datore di lavoro, si rivela un fantoccio, che lucra sull'attività interposta, facendo pagare un prezzo ai lavoratori.La fattispecie vietata era quindi quella della fornitura di manodopera e il divieto, era accompagnato da sanzioni sia sul piano civile che penale.

La sanzione civile, stabiliva che, eliminato lo schermo dell'interposto, i lavoratori fossero considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dirette di chi avesse effettivamente utilizzato le prestazioni; in questo modo il legislatore andava a tutelare gli interessi individuali, personali (es. salute) e patrimoniali (es. garanzia di crediti da lavoro).

La sanzione penale, di natura contravvenzionale, garantiva l'interesse pubblico all'inderogabilità delle norme protettive poste a tutela del lavoro subordinato.

Diffidenza verso il decentramento produttivo. Oltre alla diffidenza dei fenomeni interpositori, la L. 1369/60, voleva regolarizzare il fenomeno del decentramento e del precariato: due anni prima era stata varata la L. n° 264/1958 sul lavoro a domicilio; due anni dopo la L. 230/1962 sul contratto di lavoro a tempo determinato. Nel suo significato decentrare vuol dire scorporare o comunque commissionare a terzi i pezzi del processo produttivo necessario per produrre il bene o servizio proprio dell'attività di una certa impresa. In breve si intende impedire il decentramento fittizio, cioè quello finalizzato non ad una reale e funzionale segmentazione del processo produttivo con la creazione di una pluralità di imprenditori "responsabili" di ciascun segmento, ma a scaricare su terzi la titolarità formale dei rapporti di lavoro solo per sgravarsi dei costi e delle responsabilità.In questo contesto socio-economico, vede la luce la L. 196/1997, c.d. pacchetto Treu, che, nei primi 11 articoli, prevede una importante deroga al generale divieto di interposizione e di intermediazione. di cui alla Legge 1369/1960, che resta quindi in vigore. Si tratta di quello che viene battezzato come lavoro temporaneo tramite agenzia, ma comunemente detto interinale.Si tratta di un istituto intermedio fra servizi all'impiego, avviamento e selezione del personale, alternativa al contratto a termine, trattando dunque una fornitura lecita di manodopera. I soggetti sono sempre 3: agenzia fornitrice, utilizzatore e lavoratore ed i contratti disciplinati sono due, uno di fornitura stipulato con l'agenzia con l'utilizzatore ed uno di lavoro subordinato (a tempo indeterminato e a termine) stipulato dall'agenzia con il lavoratore.Nel 2003 con il D.Lgs. n° 276/93, la c.d. riforma Biagi, il legislatore rimette mano a tutta la materia disciplinando in via generale la somministrazione di lavoro, prevedendo l'abrogazione sia della L. 1369/60, sia degli artt. da 1 a 11 della legge 196/1997. L'entrata in vigore della novella e la

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contestuale abrogazione del sistema previgente sono avvenute soltanto il 2 luglio 2004 con l'emanazione dei Decreti Ministeriali attuativi.Nonostante l'abrogazione integrale della disciplina sul divieto generale di interposizione di manodopera e sul lavoro temporaneo, molte di quelle disposizioni sono rifluite (più o meno esplicitamente) nel nuovo testo normativo, creando quindi non poche affinità fra il previgente sistema e l'attuale Il legislatore italiano, sia nel 1997 sia nel 2003, ritiene che il fenomeno interpositorio possa perdere la sua connotazione negativa e pericolosa ed esplicare una funzione economica positiva, solo quando l'attività di somministrazione (o fornitura) di manodopera e le attività a questa propedeutiche di ricerca vengono esercitate professionalmente, sottoposte a controlli e limiti, circondate delle necessarie garanzie per la tutela dei lavoratori "somministrati" accompagnate da un articolato apparato sanzionatorio per il caso di esercizio dell'attività da parte di soggetti non autorizzati e senza il rispetto delle regole.

2- Fenomeni interpositori e fattispecie a confineIl profilo che ha suscitato maggiori interrogativi fin dall'entrata in vigore della L. 1369/1960 è stato l'inquadramento giuridico di questo che possiamo chiamare in senso atecnico “lavoro in affitto”. Il problema che ha occupato dottrina e giurisprudenza era quello di distinguere le fattispecie vietate di fornitura di manodopera (intermediazione e interposizione o appalto di mere prestazioni di lavoro) dal contratto di appalto vero e proprio.Secondo l'opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza, il tratto differenziale consisteva nel fatto che l'oggetto del divieto di cui all'art. 1 della L. n° 1369/60 era un'obbligazione di dare, cioè fornire lavoro subordinato altrui, mentre nel contratto di appalto di cui all'art. 1655 c.c. vie è un'obbligazione di fare, cioè di realizzare un'opera o un servizio, quindi fornire un autonomo risultato produttivo. Di fronte agli appalti di servizi non implicanti l'impiego di un0organizzazione complessa (c.d. a bassa intensità organizzativa) e con prevalenza di apporto del fattore “lavoro” piuttosto che di “capitale” (c.d. ad alta intensità di lavoro o labour intensive) la giurisprudenza operava il distinguo accertando chi organizzasse il fattore lavoro, quindi chi esercitasse i poteri tipici del datore di lavoro, verso i dipendenti (poteri direttivo, di controllo, disciplinare).Esempio: il contratto di appalto si realizza allorquando l'appaltante chiede all'appaltatore il “compimento di un'opera o di un servizio” “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio” e non l'utilizzo di mere prestazioni di lavoro. Se ad esempio una impresa gestisce direttamente un servizio mensa aziendale con proprie attrezzature chiedendo ad un terzo solo di assumere cuochi e camerieri che essa poi utilizzerà, si delinea una classica ipotesi di fornitura di manodopera, illecita in quanto vietata dalla L. 1369/60; se viceversa, il terzo apporta proprie attrezzature (posaterie, frigo, ecc.) e materie prime, organizza e coordina i vari fattori produttivi ed assume il rischio complessivo (economico ed organizzativo) del servizio, si tratta di un vero e proprio contratto di appalto del tutto lecito.Perché vi sia un contratto d'appalto, certamente è indispensabile che l'appaltatore sia un imprenditore genuino, cioè dotato di sufficiente autonomia organizzativa e gestionale.Il legislatore del 1960, non si era limitato a porre il divieto di interposizione nei rapporti di lavoro, ma si era preoccupato, altresì, di disciplinare gli appalti leciti di opere e di servizi introducendo alcune garanzie in favore dei dipendenti dell'appaltatore nel caso del c.d. appalti interni (es. i lavori di pulizia e di manutenzione ordinaria degli impianti), in modo da integrare la disposizione dell'art. 1676 c.c.Appalto e somministrazione nella riforma del 2003. Il legislatore del 2003 ritiene opportuno fare chiarezza tra i due fenomeni affini: la fornitura di lavoro, oggi chiamata somministrazione e l'appalto, in particolare dei servizi (c.d. labour intensive) cioè quegli appalti in cui risulta prevalente l'apporto del fattore “lavoro” piuttosto del fattore “capitale”. L'appalto ritenuto “non genuino”, cioè

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privo dei requisiti di cui all'art. 29 comma 1, è punito con la stessa sanzione penale contravvenzionale della somministrazione non autorizzata.

3- La somministrazione di lavoro del D.Lgs. N° 276/2003La riforma del 2003, nell'abrogare completamente sia la L. 1369/1960 sia la disciplina del lavoro temporaneo di cui alla L. 196/1997 (art. 1-11), riconferma il divieto del fenomeno interpositorio, salvo la deroga ammessa dal legislatore, ricavata dal fatto che è ammesso a svolgere attività di somministrazione, cioè di fornitura professionale di manodopera, solo un soggetto appositamente autorizzato.E' pertanto lecita la somministrazione se la “triangolazione” avviene nei limiti e alle condizioni previste dalla disciplina della somministrazione di lavoro, di cui agli art. 20 e 21 del D.Lgs. n° 276/2003. Lo schema è il solito, un soggetto imprenditore o non imprenditore, denominato utilizzatore, si rivolge ad un altro soggetto, denominato agenzia di somministrazione (dotato di apposita autorizzazione) per ottenere una fornitura di manodopera a tempo indeterminato o a termine. I lavoratori oggetto della fornitura sono assunti e retribuiti dall'agenzia di somministrazione ma svolgono la propria attività lavorativa per l'utilizzatore. Utilizzatore può anche essere una P.A. Che però può stipulare con l'agenzia solo contratti di somministrazione a termine.Diversamente dalla L. 196/1997, la fornitura di manodopera di cui al D.Lgs. 276/2003 può avvenire sia per mezzo di un contratto di somministrazione a tempo determinato, sia per mezzo di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, ritenuto una delle novità più importanti della c.d. Riforma Biagi.Allo scopo di garantire la “trasparenza” del mercato del lavoro per il contratto di somministrazione sono previsti precisi requisiti di forma (l'atto scritto ad substantiam) e di contenuto (i c.d. Elementi obbligatori: numero dei lavoratori, data di inizio, e durata della somministrazione, mansioni e inquadramento dei lavoratori, luogo ed orario, ecc.)Obbligo di informazione del lavoratore. Tutte le informazioni inerenti il contratto di somministrazione devono essere fornite dall'agenzia al lavoratore all'atto della stipulazione del contratto di lavoro subordinato o dell'invio presso l'utilizzatore a pena di sanzione amministrativa.I casi vietati. La somministrazione di lavoro è espressamente vietata:

1) Per la sostituzione di lavoratori in sciopero;2) Per le unità produttive e per le mansioni interessate, nel 6 mesi precedenti, da licenziamenti

collettivi e da integrazioni salariali;3) Da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex D.Lgs. 626/1994

Il contratto di lavoro subordinato. Secondo il classico schema della triangolazione, accanto al contratto di somministrazione (a termine o a tempo indeterminato) stipulato tra l'agenzia autorizzata e l'utilizzatore, troviamo il contratto di lavoro subordinato tra l'agenzia e lavoratore, esso può essere stipulato a tempo pieno o a tempo parziale, a tempo determinato, prorogabile con il consenso del lavoratore e per atto scritto nei casi previsti dal contratto collettivo applicato all'agenzia, avvero a tempo indeterminato, con il diritto del lavoratore, per i periodi di non lavoro in cui resta in attesa di assegnazione, ad una “indennità di disponibilità”.Rapporto tra lavoratore e utilizzatore. Il rapporto tra lavoratore ed utilizzatore, risulta regolato dalla legge, come già avveniva nella L. 196/1997, i lavoratori “somministrati” risultano alle dirette dipendenze dell'agenzia, titolare del contratto di lavoro, ma al contempo, essi svolgono la propria concreta attività lavorativa “nell'interesse nonché sotto la direzione ed il controllo” dell'utilizzatore. Sull'agenzia, in quanto datore di lavoro, gravano in favore dei lavoratori gli obblighi retributivi e contributivi, previdenziali ed assistenziali (art. 21).Somministrazione e appalto, gioco delle convenienze. In conclusione emerge che il D.Lgs. 276/2003 pur ampliando molto la deroga al divieto di interposizione in realtà rende economicamente più conveniente il contratto di appalto rispetto alla somministrazione di lavoro. Il

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D.Lgs. 276/2003 prevede la solidarietà tra agenzia di somministrazione e utilizzatore e la parità di trattamento tra i dipendenti dell'agenzia e quelli dell'utilizzatore solo per la somministrazione, mentre per tutte e due le ipotesi di appalto si limita a disporre la solidarietà tra committente e appaltatore da far valere, come in passato, entro un anno dalla cessazione dell'appalto medesimo. In più solo sulle agenzie di somministrazione e non sull'appaltatore grava l'obbligo di pagare per ciascun lavoratore un contributo per la formazione professionale (art. 12).

CAPITOLO IV

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IL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO

1- Il distaccoIl fenomeno del decentramento produttivo assume forme ed aspetti diversi, in parte leciti, in parte vietati. Decentrare, in senso lato, vuol dire scorporare o comunque commissionare a terzi pezzi del processo produttivo necessario per produrre il bene o servizio proprio dell'attività di una certa impresa.Dopo aver analizzato il fenomeno della triangolarizzazione nel suo duplice aspetto di fornitura vietata di manodopera e di somministrazione di lavoro lecita, passiamo ora a considerare un altro fenomeno interpositorio lecito, molto usato nelle pubbliche amministrazioni e nelle imprese collegate, consistente nell'invio di un dipendente di un datore di lavoro (c.d. distaccante) presso un diverso datore, con il permanere della titolarità del rapporto e dell'obbligo retributivo e contributivo in capo al primo anche se il lavoratore distaccato viene assoggettato al potere direttivo, di controllo ed eventualmente disciplinare del secondo.Si tratta di un'ipotesi di somministrazione autorizzata, costituisca uno strumento lecito di decentramento produttivo. Questo istituto è stato denominato alternativamente “distacco” o “comando”, anche se i due termini non sono sempre intesi come sinonimi, nel pubblico impiego.Il distacco nel D.Lgs. n° 276/2003. Esso considera il distacco come ipotesi legittima di somministrazione di lavoro posta in essere da un soggetto che non esercita professionalmente l'attività di fornitura di lavoro altrui. Lo schema è sempre quello della c.d. “triangolazione” in cui un datore di lavoro “distaccante”, per soddisfare un proprio interesse pone temporaneamente un proprio lavoratore (o più di uno) a disposizione di altro soggetto (c.d. distaccatario) per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa pur rimanendo direttamente responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore.Requisiti di liceità del distacco. Per configurare il legittimo distacco è necessario come elemento di continuità l'interesse proprio del datore distaccante. Per la definizione di interesse del datore si potrà far ricorso alla giurisprudenza pregressa, che lo aveva ravvisato in motivazioni di ordine tecnico, produttivo, organizzativo oppure di natura morale o solidale, ma certamente non lo si potrà svuotare riducendolo al mero interesse alla fornitura di manodopera (a scopo di lucro) in quanto oggetto dell'attività di somministrazione professionale di lavoro per l'esercizio della quale è necessaria l'autorizzazione.A conferma del fatto che l'art. 30 del D.Lgs. 276/2003 configura un'ipotesi lecita di somministrazione di lavoro, sta la norma che colpisce il distacco avvenuto in assenza dei requisiti sopra previsti con la stessa sanzione civile che punisce la somministrazione illecita: su domanda il lavoratore interessato può ottenere l'imputazione del rapporto in capo all'effettivo utilizzatore.Un tale potere incontra due limiti posti dall'art. 30 del D.Lgs 276/2003 che rappresentano senz'altro una grande novità:

In primo luogo, “il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato”;

In secondo luogo, “quando comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella in cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive.

2- Il rapporto di lavoro nei gruppi di impresa e in imprese collegate.Un fenomeno spesso strettamente connesso al comando o distacco è quello rappresentato dal collegamento fra più imprese, individuali o collettive, società di persone o di capitali. Qualora tale collegamento si presenti particolarmente intenso, con situazioni di controllo o di direzione unitaria, gli interpreti sono soliti parlare di “gruppo di imprese” o di “imprese di gruppo”. Tuttavia, nel nostro ordinamento non esiste una nozione giuridica unitaria di gruppo.3- Il trasferimento d'azienda (o ramo d'azienda)

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La disciplina del trasferimento d'azienda o di una sua parte ad un terzo, configurando un'ipotesi di modificazione soggettiva del rapporto di lavoro dal lato datoriale, viene declinata in modo da garantire, di massima, la prosecuzione del rapporto di lavoro presso l'acquirente e da predisporre una forma di garanzia dei diritti dei lavoratori soggettivamente rafforzata, coinvolgendo sia il cedente che il cessionario dell'azienda nelle posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori.I ripetuti interventi regolatori del legislatore comunitario e nazionale ispirati dalla volontà di rafforzare le tutele dei lavoratori e ampliarne la portata applicativa, sono conseguenza del fatto che il trasferimento dell'azienda o di un suo ramo rappresentano uno strumento sempre più utilizzato dalle imprese per realizzare il decentramento produttivo (c.d. outsourcing).Il trasferimento d'azienda, evoluzione normativa. A testimoniare l'importanza, l'attualità e la dimensione assunta oggi dal fenomeno stanno i numerosi interventi legislativi. La norma base è ancora oggi racchiusa nell'art. 2112 c.c. e nell'art. 47 L. 428/1990 (attuazione della Direttiva 77/187/CE) sui quali ha inciso in maniera sensibile il legislatore del nuovo millennio dapprima con il D.Lgs. n° 18/2001 (di attuazione alla Direttiva 98/187/CE) e dopo due anni con l'art. 32 del D.lgs 276/2003.Il principio base delle Direttive n° 77/187/CE e 98/50/CE e delle norme interne di attuazione è quello “del mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda” e di conservazione del posto di lavoro, che si realizza garantendo il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare dell'azienda o di un suo ramo. La razio è quella di garantire una sostanziale indifferenza dei rapporti di lavoro rispetto alle vicende circolatorie dell'azienda o di suoi rami, cioè rispetto a vicende attinenti alla proprietà o alla titolarità dell'azienda.Outsourcing/Insourcing. Il citato fenomeno dell'esternalizzazione (c.d. outsourcing) si accompagna spesso a quello della internalizzazione (c.d. insourcing). In altre parole ciò accade quando l'acquirente del segmento aziendale esternalizzato si impegna con il cedente a fornirgli beni o servizi realizzati mediante il segmento ceduto. Si pensi all'esternalizzazione da parte di una società automobilistica della costruzione dei pezzi in plastica dell'autovettura in favore di una società specializzata in lavorazioni plastiche e al connesso contratto di appalto (internalizzazione), mediante il quale tale società specializzata si impegna a fornire un certo numero di pezzi in plastica alla società automobilistica.Il collegamento con l'appalto. Nel tentativo di accompagnare e disciplinare il decentramento produttivo nel suo duplice aspetto, il legislatore del 2003 aggiunge un 6° comma all'art. 2112 c.c. con il quale dispone, per il caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo di azienda oggetto di cessione, che appaltante e appaltatore siano obbligati in solido verso i lavoratori dipendenti dell'appaltatore entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto. Venendo al cuore della materia, la nozione trasferimento d'azienda da sempre costituisce uno snodo cruciale della disciplina. Per trasferimento si intende, qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità dell'azienda (o del ramo) a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato.Anche l'oggetto del trasferimento, cioè a dire il concetto di azienda viene ampliato, infatti l'attuale formulazione allude al trasferimento di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro. La definizione consente di allentare ogni aggancio con l'art. 2555 c.c. nel quale la nozione di azienda appare imperniata sul complesso di beni organizzati dall'imprenditore e sposta l'accento sull'attività e sull'organizzazione.La smaterializzazione dei processi produttivi. Il nuovo dato normativo, induce a ritenere sufficiente ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 c.c., anche la traslazione di una attività realizzata solo mediante l'impiego di un insieme di lavoratori all'uopo organizzati, senza il supporto di un apparato strumentale.Il ramo d'azienda. Anche in assenza di una precisa definizione legale, nello specchio normativo

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dell'art 2112 c.c. e dell'art. 47 L. 428/1990 era stato fatto rientrare dalla giurisprudenza il trasferimento di singole unità produttive, dette rami di azienda, purché suscettibili di costituire un compiuto strumento di impresa. Una nozione legale di ramo d'azienda, ribattezzato parte dell'azienda, è stata introdotta dal D.Lgs. 18/2001 e modificata dal D.Lgs 276/2003. Essa consiste nell'articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento.Preesistenza e conservazione dell'identità. Il D.Lgs. 18/2001 richiedeva come requisiti per l'identificazione della parte dell'azienda, la sua preesistenza rispetto al trasferimento e la conservazione della propria identità nel trasferimento.La responsabilità solidale e le sue deroghe. E' comunque consentito che il lavoratore possa liberare dalla responsabilità solidale uno dei due coobbligati ma, trattandosi di ipotesi di c.d. volontà individuale assistita, ciò dovrà avvenire secondo modalità precise: nei confronti del cedente innanzi alla commissione di conciliazione prevista dai contratti collettivi o istituita presso ciascuna Direzione Provinciale del lavoro oppure in sede sindacale, nei confronti del cessionario (generalmente più interessato ad ottenere la liberazione).Le dimissioni del lavoratore collegate al trasferimento. Al lavoratore che non accetta il trasferimento non resta che rassegnare le proprie dimissioni, naturalmente con preavviso, se invece le condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, il lavoratore potrà pertanto dimettersi, entro 3 mesi dal trasferimento, con gli effetti della giusta causa (cioè senza dare preavviso).

CAPITOLO V

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LA PRESTAZIONE DI LAVORO: MANSIONI, QUALIFICHE E CATEGORIE

1-L’obbligazione di lavoroIl rapporto di lavoro è un rapporto complesso, risultante da due contrapposte obbligazioni fondamentali, di lavoro e di retribuzione, e da una serie di altri obblighi e doveri reciproci fra loro connessi.Per chiarezza tratteremo separatamente le situazioni soggettive del prestatore di lavoro e del datore di lavoro.La prestazione di lavoro è l’ “oggetto” dell’obbligazione principale del lavoratore. L’obbligazione di lavorare è un’obbligazione di comportamento, che impone al prestatore soltanto di tenere un certo comportamento, non di raggiungere, mediante tale comportamento, un risultato ulteriore. Gli elementi che concorrono a determinare la prestazione di lavoro sono diversi:

il tipo di attività lavorativa; la durata, misurata attraverso l’orario e il tempo di lavoro; il luogo dell’esecuzione della prestazione.

Per indicare il tipo di attività lavorativa, si fa riferimento alle mansioni. In relazione alle mansioni del lavoratore si stabiliscono qualifica e categoria.Le varie mansioni e posizioni di lavoro sono raggruppate fra loro secondo criteri di omogeneità professionale, cui corrisponde un certo trattamento, graduato a seconda della gerarchia e importanza delle mansioni.L’oggetto della prestazione di lavoro è dunque determinato con riferimento alle mansioni per le quali è stato assunto. La specificazione dei compiti di volta in volta richiesti al lavoratore, rientra nel potere direttivo del datore di lavoro, che lo esercita tramite i suoi collaboratori appartenenti alla c.d. linea gerarchica.Abbiamo già detto che in relazione alle mansioni si stabiliscono qualifica e categoria.Nel linguaggio legislativo qualifica è una variante semantica delle mansioni, in quanto individua un raggruppamento di queste. Le qualifiche sono a loro volta raggruppate in categorie. Il legislatore all’art 2095 cc, individua 3 categorie: operaio, impiegato, dirigente, cui si è aggiunta, nel 1985 la categoria dei quadri.L’art 2095, non contiene una definizione delle singole categorie e rinvia così alle leggi speciali. Il legislatore, ha però emanato norme speciali che indicano in modo vago i requisiti di appartenenza della categoria solo per gli impiegati e i quadri.

2- Le categorie dei lavoratori: impiegati e operai.Distinzione tra operai e impiegati. La distinzione ha un fondamento legislativo nella c.d. legge sull’impiego privato. I criteri distintivi fra le due categorie sono indicati nell’art. 1 della legge del 1924, ove si definisce l’impiegato come colui che svolge un’attività professionale, con funzioni di collaborazione ad attività organizzative della produzione proprie dell’imprenditore e quindi agire in sua sostituzione. (criterio della collaborazione impiegatizia).Il superamento della distinzione fra operai e impiegati si è avviato ad opera della contrattazione collettiva, prima in qualche settore ad alta percentuale impiegatizia (assicurazioni, energia, banche), poi per l’industria a partire dal 1973, anche se ancora vi sono delle differenze. Fra le differenze residue si possono menzionare, ad es., le diverse discipline contrattuali del periodo di prova, di preavviso (entrambi più corti di norma per gli operai), nonché alcune diversità della disciplina legale in tema di previdenza e sicurezza sociale.

2.1- I dirigentiI dirigenti sono sottratti all’applicazione di una serie di norma protettive in materia di: orario di lavoro, limiti alla disciplina del lavoro a termine, limiti al licenziamento. I dirigenti hanno infine un trattamento previdenziale distinto e più favorevole delle altre categorie.

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Il dirigente oltre a godere della fiducia del datore, costituisce l’alter ego dell’imprenditore, preposto alla direzione dell’intera impresa o a un ramo importante è autonomo di questa.

2.2-I quadriLa l. n 190/1985, nel modificare l’art 2095 c.c., definisce i quadri come quei lavoratori che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa; peraltro affida alla contrattazione collettiva il compito di stabilirne i requisiti di appartenenza.Gli aspetti della disciplina speciale individuati dalla l. n.190, sono limitati e non sono neppure necessariamente collegati alla posizione di quadro, ma estendibili a tutti i prestatori che siano meritevoli di pari considerazione per le mansioni svolte: così è per il diritto alla promozione a una qualifica superiore, per l’assicurazione contro la responsabilità civile.

3-Le mansioni e la qualificaL’individuazione delle mansioni, e quindi della qualifica e categoria del lavoratore nel rapporto di lavoro si determina secondo le regole generali in materia di rapporti contrattuali. È il c.d. principio di contrattualità delle mansioni confermato dall’art 2103 c.c., laddove esplicita che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. L’individuazione delle mansioni e della qualifica avviene di norma secondo la tipologia definita dalla contrattazione collettiva. In mancanza di un’indicazione precisa delle mansioni, il punto di riferimento per valutare le qualifiche, saranno le mansioni effettivamente svolte n modo stabile nell’organizzazione del lavoro.Le mansioni e la qualifica individuano l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore; mentre le categorie (operai, impiegati, quadri, dirigenti) si determinano sulla base di mansioni e qualifiche.Niente vieta che un lavoratore provvisto di una certa qualificazione professionale, sia assunto in mansioni e qualifiche diverse, anche inferiori. Una parziale eccezione a tale regola, è introdotta dalla legge o dalla contrattazione collettiva in certi settori. Qui il titolo di studio costituisce elemento decisivo per l’attribuzione di una certa qualifica, ovvero condizione essenziale per acquisirla.Niente vieta altresì che le mansioni di assunzione siano polivalenti o promiscue. Anzi la polivalenza tende ad essere favorita nella prassi aziendale nell’interesse di ambedue le parti: una maggiore flessibilità del lavoro e minore ripetitività dei compiti.Nel caso di mansioni promiscue (a cavallo fra qualifiche diverse), l’inquadramento se non previsto in sede collettiva, può presentare problemi. La giurisprudenza ritiene in tal caso di far riferimento alle mansioni prevalenti.

4-La disciplina contrattuale delle qualifiche: l’inquadramento unicoLe qualifiche, insieme con le categorie, costituiscono un oggetto centrale della contrattazione collettiva dalle sue origini. A tal proposito si è rilevato che esse rappresentano i termini di un “patto storico” fra imprese e lavoratori.Fino agli anni ’60 è stato prevalente nell’industria un sistema di classificazione tradizionale che aveva le sue origini ancora nella contrattazione degli anni ’30. Nel corso degli anni ’60, la contrattazione aziendale sperimentò nuovi sistemi di classificazione basati su tecniche di valutazione delle posizioni del lavoro: la c.d. job evaluation. Ma tali esperimenti non si generalizzano per la debolezza della contrattazione e per la differenza dei sindacati.Un cambiamento del sistema si realizzò a partire dalla fine del decennio ’60 con l’adozione del c.d. inquadramento unico. Le novità introdotte riguardano innanzi tutto il superamento (parziale) della divisione fra operai e impiegati con l’adozione di una scala di classificazione unificata. In secondo luogo si ridusse notevolmente il numero delle categorie contrattuali di inquadramento, chiamate livelli, in cui si raggrupparono le varie mansioni a fini retributivi.La classificazione si realizzò attraverso declaratorie generiche e con l’esemplificazione di singole

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mansioni.

5-Lo jus variandi: dal codice civile all’art. 13 St. lav.Una particolarità della disciplina del rapporto di lavoro risulta dal potere riconosciuto al datore, di modificare le mansioni del lavoratore oltre l’ambito convenuto. Un simile potere unilaterale è denominato jus variandi, e non trova riscontro in altri rapporti obbligatori di durata, dove le modifiche del contenuto obbligatorio sono ammissibili per mutuo consenso. Tale particolarità è sempre stata giustificata con le esigenze flessibili dell’organizzazione del lavoro, che richiedono sovente modifiche non prevedibili.La prima disciplina organica dello jus variandi del datore di lavoro fu stabilita nell’art 2103 c.c., che ne definì le condizioni di esercizio. Nella versione originaria della norma lo jus variandi era riconosciuto dall’imprenditore, in quanto il suo esercizio corrispondesse alle esigenze dell’impresa e non importasse una diminuzione della retribuzione e un mutamento della posizione del lavoratore. In concreto, l’unico limite che assumeva rilievo di garanzia per il lavoratore risultava quello dell’invariabilità in peius della retribuzione, mentre la discrezionalità nell’uso della forza lavoro restava alquanto ampia e incontrollata.Al punto che la giurisprudenza tendeva a riconoscere la possibilità di una modifica consensuale tacita in peius delle mansioni e correlativamente della retribuzione. Tale interpretazione, affermava che il lavoratore, il quale non avesse reagito con le dimissioni alle modifiche imposte dal datore continuando di fatto a lavorare nelle nuove mansioni, manifestava tacitamente di accettare tale modifica. L’art 13 dello statuto dei lavoratori ha innovato la materia con la riformulazione del vecchio art 2103 c.c.ART 13: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione.

5.1-Il limite dell’equivalenza delle mansioniIl dibattito dottrinale e giurisprudenziale intorno al concetto di equivalenza delle mansioni è sempre di notevole attualità, sia per la complessità e la delicatezza dell’argomento, sia per i continui mutamenti delle concrete realtà aziendali che comportano un diverso atteggiarsi dei contrapposti interessi.Va sottolineato che negli anni novanta, parte della giurisprudenza, ponendosi in contrasto con la dottrina prevalente, aveva elaborato un concetto “statico” di equivalenza, affermando che affinché vi sia equivalenza di mansioni è richiesta l’omogeneità tra le mansioni pregresse e quelle successivamente assegnate.Solo negli ultimi tempi la giurisprudenza, si è evoluta su una concezione non più statica del concetto di equivalenza, bensì “dinamica”, ritenendo legittima anche l’assegnazione a mansioni non del tutto identiche alle precedenti, ma comunque rientranti nella specifica competenza tecnico professionale del lavoratore e che non comportino un pregiudizio alla carriera. Pertanto equivalenza non significa necessariamente identità di mansioni, quindi al dipendente può ben essere richiesto di utilizzare l’esperienza pregressa in funzioni diverse, purché non si verifichi un sostanziale depauperamento del suo patrimonio professionale.

5.2-La nullità dei patti contrariL’ultimo comma del nuovo art 2103 sancisce la nullità di ogni patto contrario. Gli accordi nulli cui si riferisce la norma, sono quelli individuali e collettivi che realizzano un risultato vietato dalla norma, ad es. l’attribuzione a mansioni inferiori (c.d. mobilità verso il basso).La natura inderogabile della norma pone un problema delicato a fronte di quei patti che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori per soddisfare un interesse qualificato del lavoratore: quello di evitare un licenziamento giustificato da ragioni oggettiva, ad es, quando lo stesso prestatore non sia

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più abile a svolgere il lavoro originario per invalidità permanente sopravvenuta, o in caso di abolizione del posto di lavoro per motivi tecnologici.A favore della validità di tali patti si ha una deroga, infatti in tali casi sembra necessario accertare la sopravvenienza effettiva della situazione che non consenta vie alternative. Un’indicazione è offerta dallo stesso legislatore, ove si impone al datore di lavoro di spostare le lavoratrici madri temporaneamente (durante il periodo della gravidanza e fino a 7 mesi di età del bambino) a mansioni non pregiudizievoli alla loro salute, ancorché inferiori, con conservazione della retribuzione precedente. Analogamente i lavoratori divenuti invalidi, per infortunio o malattia, durante il rapporto di lavoro non possono essere licenziati nel caso in cui possano essere adibiti a mansioni inferiori.Il legislatore prevede l’assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte (cioè inferiori).

5.3- Mobilità verso l’alto e carrieraLa seconda parte del 1° comma dell’art 2103 c.c. disciplina la c.d. mobilità verso l’alto, cioè l’assegnazione a mansioni superiori.Il legislatore ha stabilito che lo svolgimento di mansioni superiori protratto per più di 3 mesi rende irreversibile lo spostamento. La promozione si realizza automaticamente compiersi del periodo temporale.Mentre l’art 13 St. lav. conferma che la progressione in carriera è affidata al potere discrezionale del datore, la contrattazione collettiva ha previsto diverse procedure ad es. i concorsi.Si è discusso se i 3 mesi di svolgimento delle mansioni superiori debbano essere continuativi o si possono cumulare in distinti periodi.La giurisprudenza intende i 3 mesi come mesi di lavoro effettivo, non di calendario, così pure precisa che la continuità non va intesa in senso rigido e quindi non è ad es. interrotta dalle ferie.La norma prevede un’eccezione alla c.d. promozione automatica, quando le mansioni superiori vengano disposte per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Il lavoratore spostato a mansioni superiori ha diritto da subito al trattamento superiore corrispondente (art. 2103 c.c.).

CAP VI

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DILIGENZA, OBBEDIENZA, FEDELTA’, LUOGO E DURATA DEL LAVORO

A) DILIGENZA, OBBEDIENZA E FEDELTÀ

1-La diligenza come misura della prestazione.Diligenza e obbedienza sono doveri del lavoratore subordinato. Alla diligenza si riferisce l’art. 2104 c.c. Il primo parametro utilizzato dall’art 2104 1° comma per indicare la diligenza è la natura della prestazione. L’art 2104 c.c. richiama altri due parametri: l’interesse superiore della produzione nazionale e l’interesse dell’impresa.In riferimento all’interesse superiore della produzione nazionale deve ritenersi abrogato con la caduta del regime corporativo. Più controverso resta il significato attribuibile all’ultimo parametro, l’interesse dell’impresa. Tale interesse sta a indicare che la prestazione dovuta dal lavoratore va rapportata alle particolari esigenze dell’organizzazione in cui il rapporto si inserisce. Il richiamo all’interesse dell’impresa, fa si che la diligenza sia valutata con riguardo alla complessiva attività da svolgere nell’organizzazione.

2-Il dovere di obbedienza.L’art 2104 2° comma fa riferimento all’obbedienza. Si tratta della soggezione giuridica in senso proprio del lavoratore correlata al potere direttivo del datore di lavoro. L’obbedienza implica l’osservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali il lavoratore dipende per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro.Tale obbligo comprende tutti i comportamenti necessari a rendere la prestazione di lavoro ragionevolmente integrabile nell’organizzazione.

3-L'obbligo di fedeltà: concorrenza e riservatezza.L’art 2105 c.c. invece riguarda l’obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o a farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.

4-Le invenzioni del lavoratoreL’art 2590 c.c. attribuisce al lavoratore il diritto ad essere riconosciuto “autore” dell’invenzione industriale realizzata nello svolgimento del rapporto di lavoro.Tale disciplina regola diritti e doveri delle parti sulla base di una triplice tipologia, a seconda:

che l’attività inventiva sia quella specificatamente dedotta in contratto (invenzioni c.d. di servizio).

In questo caso tutti i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro; che sia svolta nell’esecuzione e nell’adempimento del contratto attuata, cioè, in orario di

lavoro (invenzioni c.d. aziendali);In questo caso il datore mantiene i diritti patrimoniali, ma il lavoratore ha diritto ad un “equo premio” proporzionato all’importanza dell’invenzione;

che rientri nell’ambito dell’attività dell’impresa, ma sia realizzata indipendentemente dal rapporto, fuori dall’orario di lavoro e con mezzi propri del lavoratore ( invenzioni c.d. occasionali).

In questo caso i diritti patrimoniali spettano al lavoratore ma, in quanto l’invenzione rientri nel campo dell’attività dell’impresa, il datore ha diritto di prelazione , da esercitarsi entro 3 mesi per l’uso della stessa o per l’acquisto del brevetto.

B) LUOGO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO

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1-La disciplina del trasferimento del lavoratore.Il luogo di adempimento della prestazione, se non è determinato contrattualmente, deve desumersi dagli usi o da altre circostanze, prima tra tutte quella della natura della prestazione. L’art 13 St. lav. ha confermato l’esistenza di modifica del luogo di lavoro, intesa non come qualsiasi spostamento spaziale del lavoratore, ma solo quello da un’unità produttiva ad un’altra (trasferimento esterno). Si parla invece di trasferimento interno il passaggio del lavoratore all’interno della medesima articolazione produttiva.L’art 13 St. lav. subordina l’esercizio del potere di trasferimento all’esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.Anche i comportamenti del lavoratore, qualora determinino situazioni di c.d. incompatibilità ambientale (ad es. rapporti difficili con i colleghi), per la giurisprudenza integrano una ragione oggettiva che legittima il trasferimento del lavoratore (c.d. trasferimento per motivi disciplinari).Infine sono previsti limiti al potere di trasferimento a vantaggio di peculiari figure di lavoratori: ad es.:

per il dirigente sindacale aziendale è richiesto il previo nulla-osta delle associazioni sindacali di appartenenza;

per il lavoratore che fruisce dei congedi di maternità o di paternità è previsto il diritto al rientro nella stessa unità produttiva o in altra del medesimo comune.

2-Trasferta e trasfertismoL’art 13 St. lav. sarebbe chiamato a disciplinare non ogni vicenda modificativa del luogo di esecuzione della prestazione, bensì il solo “trasferimento” definitivo del lavoratore. Resterebbero, così escluse, la trasferta e il trasfertismo.La trasferta è una modifica del luogo di esecuzione del lavoro ed è temporanea;il trasfertismo è lo spostamento di quei lavoratori obbligati per contratto a rendere la propria prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori (ad es. i piazzisti).

C) DURATA DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO

1-La durata della prestazione: orario e pauseLa durata costituisce la misura della prestazione dovuta dal lavoratore.La quantità di prestazione normalmente dovuta è segnata dalla disciplina dell’orario di lavoro inteso in senso ampio, cioè non solo come orario giornaliero, ma come tempo complessivo di lavoro nella giornata, nella settimana, nell’anno, con l’esclusione, quindi, delle c.d pause periodiche (riposi giornalieri, settimanali, ferie).Durante tali pause il rapporto continua ad es il dovere di fedeltà del lavoratore di cui all’art 2105 cod civ.La disciplina legislativa e contrattuale del tempo di lavoro è storicamente rivolta anzitutto a limitare la durata massima, a tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore. In Italia la legge base in materia di orario massimo giornaliero è stata a lungo rappresentata dal R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, integrato dai relativi regolamenti di attuazione (nn.1955,1956 e 1957 del 1923). I successivi artt. 2107 2108 con civ. e il 2 comma dell’art 36 Cost (sulla riserva relativa di legge della durata massima della giornata lavorativa) non hanno alterato impostazione vincolistica della disciplina.La disciplina legislativa, ed ancor più quella contrattuale, registrano una tendenza secolare, con accelerazioni periodiche, alla riduzione della durata del lavoro. Peraltro, le crisi economiche ed ancor più le innovazioni tecnologiche hanno fatto emergere con particolare forza l’esigenza di riduzione di orario e soprattutto di nuovi regimi di orari non più a fini protettivi della salute del lavoratore, ma come misura per fronteggiare la crescente disoccupazione anche al prezzo di

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riduzioni retributive.Nel frattempo abbiamo l’emanazione della Direttiva CE n 104 del 1923 sui tempi di lavoro e di riposo, essa è finalizzata a migliorare l’ambiente di lavoro e garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e salute dei lavoratori, l’intervento del legislatore ha per obiettivo la flessibilità del lavoro in chiave di maggior competitività per le imprese.

2-L’orario di lavoro: disciplina legale e contrattualeLa disciplina legale tradizionale sulla durata massima del lavoro (R.D.L. n. 692/1923) prevedeva – per le aziende industriali e commerciali- che l’orario massimo non potesse eccedere le 8 ore giornaliere o 48 ore settimanali. La disciplina legale dell’orario settimanale ha, per lungo tempo, segnato i limiti massimi, anche agli effetti dello straordinario, seppur sostituita in toto dalla normativa contrattuale, che aveva generalizzato, a partire dal 1973, la settimana di 40 ore distribuite su 5 giorni (lavorativi).Successivamente l’art 13 L n. 196/1997 ha stabilito la riduzione dell’orario (massimo) normale di lavoro (da 48) a 40 ore settimanali; limite che-sec l’interpretazione prevalente- andava ad aggiungersi a quello giornaliero di 8 ore.Il D.Lgs n. 66/2003 ha provveduto all’integrale abrogazione delle pregresse disposizioni legislative e regolamentari. Il legislatore ha in primis , riconfermato in pieno il disposto dell’art 13, L. n. 196/1997.In particolare, oltre a fissare nuovamente l’orario (massimo) normale –limite oltre il quale la prestazione lavorativa è da considerarsi straordinaria – in 40 ore settimanali, ha riproposto la facoltà a favore dei contratti collettivi di stabilire una durata minore rispetto a quella legale e di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative per periodi ultrasettimanali non superiori all’anno.La norma, ha configurato i limiti normali massimi come valori medi nell’arco di un periodo superiore alla settimana, dall’altro, ha consentito il regime di orario c.d. multiperiodale, consistente nel superamento convenzionale dei limiti normali massimi, salvo compensazione nell’anno.La determinazione della durata massima settimanale dell’orario di lavoro è demandata ai contratti collettivi. Tuttavia questi, in ogni caso devono rispettare un limite legale a prima vista basso -48 ore- ma dilatabile dato che va calcolato in modo flessibile.Il limite è di 48 ore per ogni periodo di sette giorni, da calcolarsi, non settimana per settimana, bensì come media in un arco temporale non superiore a quattro mesi. Inoltre tale arco temporale può essere elevato, sempre dalla contrattazione collettiva, a sei ovvero a dodici mesi, per ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro.Accanto ai limiti settimanali, normale e massimo, la legge non fa più alcun riferimento ad una durata della giornata lavorativa. Ciò ha implicato l’inequivocabile venir meno della storica limitazione della giornata lavorativa ad 8 ore; introdotta dal R:D:L: N: 692/1923 e non ritoccata, almeno secondo l’interpretazione prevalente, nemmeno dalla L. n. 196/1997.Tuttavia, fermo restando che nulla impedisce alla contrattazione collettiva di fissare tetti di orario giornaliero, una limitazione della durata della giornata lavorativa può, comunque, essere ricavata dalla norma sul riposo giornaliero.Dal riconoscimento del diritto del lavoratore a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore e della pausa obbligatoria di almeno 10 minuti si deduce, per mezzo di un mero calcolo aritmetico, come la durata della giornata lavorativa non possa superare le 12,50 ore.I limiti stabiliti dal legislatore si riferiscono al lavoro effettivamente svolto.In realtà la lettura della nozione di orario di lavoro della Direttiva CE fornita dalla giurisprudenza comunitaria, pare escludere che nella stessa rientri soltanto il lavoro caratterizzato da un’effettiva applicazione delle energie lavorative. Come osserva il giudice comunitario, rientrano nell’orario di lavoro necessariamente anche periodi nell’ambito dei quali il lavoratore, benché non impegnato in attività di lavoro stia cmq mettendo a disposizione le proprie energie lavorative al datore di lavoro,

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essendo cmq obbligato a restare sul luogo di lavoro, per poter fornire a richiesta del datore, immediatamente la propria prestazione.Ci si è chiesti se il datore di lavoro possa modificare unilateralmente l’orario di lavoro, nell’osservanza dei limiti massimi di cui alla disciplina legale.Per la modifica dell’estensione dell’orario (e della retribuzione) l’opinione dominante nega l’esistenza di un potere unilaterale del datore, richiedendo la genuinità dell’assenso del lavoratore.La regolamentazione generale dell’orario di lavoro dettata dal D.lgs n 66/2003 si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati. Art 2 del decreto:Le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano a tutti i settori di attività pubblici e privati con le uniche eccezioni del lavoro della gente di mare di cui alla direttiva 1999/63/CE, del personale di volo nella aviazione civile di cui alla direttiva 2000/79/CE e dei lavoratori mobili per quanto attiene ai profili di cui alla direttiva 2002/15/CE.

2. Nei riguardi delle forze armate e di polizia, dei servizi di protezione civile, ivi compresi quelli del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché nell'ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato le disposizioni contenute nel presente decreto non trovano applicazione in presenza di particolari esigenze inerenti al servizio espletato o di ragioni connesse ai servizi di ordine e sicurezza pubblica, di difesa e protezione civile, nonché degli altri servizi espletati dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, cosi' come individuate con decreto del Ministro competente, di concerto con i Ministri del lavoro e delle politiche sociali, della salute, dell'economia e delle finanze e per la funzione pubblica, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

3. Le disposizioni del presente decreto non si applicano al personale della scuota di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297.

4. La disciplina contenuta nel presente decreto si applica anche agli apprendisti maggiorenni.

3-Lavoro straordinario (e supplementare)Una disciplina particolare è prevista per il lavoro straordinario, ossia per il lavoro prestato oltre l’orario normale settimanale di lavoro fissato dalla legge. Nel sistema originario, il lavoratore straordinario era quello eccedente il limite delle 48 ore settimanali o delle 8 ore giornaliere.Dopo gli interventi della seconda metà degli anni 90 e da ultimo, dopo l’entrata in vigore del D. Lgs n. 66/2003 mentre il limite della settimana risulta ridotto a 40 ore, con conseguente abbassamento della soglia oltre la quale computare lo straordinario legale, il tetto legale della giornata lavorativa è scomparso.Il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto oltre che da limiti di natura sostanziale e procedurale, nonché da disincentivi di ordine economico.I contratti collettivi sono liberi di regolare le modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario anche prevedendo l’obbligo del lavoratore di effettuare le prestazioni eccedenti fatto salvo solo un giustificato motivo di rifiuto.Viceversa, in mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo se la richiesta del datore di lavoro è corredata da consenso del lavoratore e nel limite massimo annuale di 250 ore.Inoltre, salvo diversa disposizione della disciplina collettiva, il lavoro straordinario può essere richiesto, anche prescindendo dal consenso del lavoratore per esigenze tassativamente determinate: a) eccezionali esigenze tecnico –produttive, impossibili da fronteggiare attraverso assunzioni di altri lavoratori,b)casi di forza maggiore o casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario

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possa dar luogo ad un periodo grave ovvero un danno alle persone o alla produzione, c) eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva.Il lavoro straordinario deve essere computato a parte compensato con maggiorazioni retributive.

4-Lavoro notturno e regimi di orario.Lavoro notturno: l’art 2108 cod civ stabilisce che il lavoro notturno non compreso in regolari turni periodici deve essere retribuito con una maggiorazione rispetto al lavoro diurno.L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore complessive ( comprensive anche del lavoro straordinario).

6-Le ferieIl diritto del lavoratore a un periodo annuale di ferie retribuite è riconosciuto dall’art 36,3 comma Cost, che sancisce l’irrinunciabilità.Trova, altresì, riconoscimento nell’art 10, D. Lgs n. 66/2003, che mantiene in vigore l’art 2109 cod civ. Le ferie rispondono allo scopo tipico di soddisfare primarie necessità fisiche e morali del dipendente.La durata minima è fissata in 4 settimane, elevabili dai contratti collettivi.Il periodo di ferie è annuale: esso spetta, cioè, entro l’anno.Tuttavia perché lo stesso maturi non occorre aver prestato servizio per un intero anno, essendo garantito, anche a coloro che abbiano lavorato per un periodo inferiore, 1/12 delle ferie per ogni mese di servizio prestato.Tale principio c.d della introannualità delle ferie, è stato sancito dalla Corte Cost. che ha abrogato l’inciso dell’art 2109 dopo un anno di ininterrotto servizio.La scelta del periodo di ferie rientra nel potere dispositivo del datore di lavoro da esercitarsi secondo buona fede, contemperando le esigenze aziendali con quelle dei lavoratori.Il potere di determinazione del periodo feriale, riconosciuto dalla legge al datore di lavoro, non è assoluto. Il datore dovrà, rispettare il principio secondo cui, salvo diverse previsioni contrattuali collettive, le ferie vanno godute per almeno due settimane entro l’anno di maturazione, mentre per il restante periodo entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione.In secondo luogo, lo stesso datore dovrà tener conto del fatto che le ferie vanno possibilmente godute in modo continuativo , è in ogni caso riconosciuto al lavoratore il diritto di richiedere il godimento consecutivo delle prime due settimane.L’art 2109 cod civ, l’art 36 Cost e l’art 10 D.Lgs n. 66/2003 stabiliscono che il periodo feriale deve essere retribuito , senza ulteriori indicazioni.Per espressa previsione del D.Lgs n. 66/2003, il periodo minimo è di 4 settimane e non si possono rinunziare.Una questione a lungo controversa è stata quella relativa agli effetti della malattia sopravvenuta nel corso delle ferie. La giurisprudenza prevalente ha per lungo periodo escluso l’effetto interruttivo della malattia rispetto alle ferie,Questo orientamento ha, tuttavia, subito un netto capovolgimento, ha dichiarato illegittimo l’art 2109 cod civ nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso.La pronuncia della Corte Cost ha avuto un’applicazione non pacifica nella giurisprudenza successiva.L’orientamento dominante correttamente attribuisce effetti sospensivi non ad ogni malattia, bensì solo a quella che impedisca, in concreto, il normale decorso delle ferie e ne precluda il raggiungimento delle finalità tipiche (recupero delle proprie energie psico-fisiche).

CAPITOLO VII

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POTERI E DOVERI DEL DATORE DI LAVORO

A) IL POTERE DIRETTIVO

1-I poteri del datore in generale e i loro limitiLa configurazione tradizionale del rapporto di lavoro attribuisce al datore una posizione attiva, di iniziativa o di preminenza, e al lavoratore una posizione passiva, di soggezione. Tale configurazione risulta già dalle norme codicistiche sul lavoratore subordinato, il quale collabora nell’impresa prestando la propria opera alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art 2094 c.c.), che è capo dell’impresa (art 2086 c.c.) da cui dipendono gerarchicamente i lavoratori.Una conferma viene dall’art 2104 c.c., secondo cui il prestatore deve osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.Tali posizioni di supremazia del datore di lavoro sono state configurate tradizionalmente come poteri giuridici n senso proprio , esercitabili in modo discrezionale per la tutela di un interesse proprio. I tentativi di assoggettarli al rispetto dei principi costituzionali (di non discriminazione, di libertà sindacale ecc) sono rimasti senza seguito prima dello Statuto dei lavoratori.Una modifica del rapporto si è avuta con lo Statuto e, in parte con la contrattazione collettiva, che hanno ridotto gli aspetti di soggezione del lavoratore, attribuendogli posizioni attive di controllo, limitando l’esercizio dei poteri imprenditoriali.

2-Il potere direttivoLe innovazioni normative indicate incidono soprattutto sul potere direttivo. La disciplina cui si è fatto ceno riguarda unicamente i poteri imprenditoriali correlati allo svolgimento e alla disciplina del lavoro (ad es. il potere di modificare le mansioni, potere punitivo), non invece, le funzioni manageriali di gestione dell’impresa (ad es. investimenti).

3-I limiti legislativi al potere direttivo: principio di non discriminazioneAi poteri dell’imprenditore si riferiscono diverse norme del Titolo I dello Statuto dei lavoratori tra cui: l’art 13 di cui ci siamo già occupati, gli artt. 2,3, 4,5,6 e 8 sul potere di controllo, e l’art 7 sul potere disciplinare. A questi si aggiunge, poi, l’art. 9 sul dovere di sicurezza del datore di lavoro.Va richiamato un limite generale all’esercizio dei poteri imprenditoriali: quello conseguente al divieto di discriminazione. Nell’ordinamento interno, la Costituzione (artt. 3e 37) pone una direttiva di parità fra lavoratori e lavoratrici, con la precisazione che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione (art 37).Di fondamentale importanza, sono anche le direttive sull’eguaglianza formale e sostanziale (art 3): a tale stregua, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni; mentre è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.Col principio di eguaglianza formale (inteso come eguaglianza di fronte la legge) si impone che vengano trattate in modo eguale situazioni eguali; col principio di eguaglianza sostanziale si impone allo Stato e agli enti pubblici di porre in essere quelle misure specifiche di sostegno volte a realizzare una reale parità di trattamento.L’art 15 St. lav. dichiara la nullità di tutti gli atti e patti diretti a ledere in qualsiasi modo la posizione del lavoratore per motivi sindacali, o per motivi legati al sesso, alla politica, alla religione, alla razza, alla lingua.

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Tra le norme successive alla Cost. di repressione delle discriminazioni ricordiamo la L. n.7/1963, sulla nullità delle c.d. clausole di nubilato e del licenziamento per causa di matrimonio, la L. 1204/1971 sulla tutela della maternità, la L. 903/1977 in cui viene sancita la parità fra i sessi nel lavoro e la L. 125/1991 che riguarda le pari opportunità.

4-La tutela contro le discriminazioni per ragioni di sesso. parità di trattamento e parità retributiva nella L. 903/1977.La legge 903/1977 pone specifici divieti di discriminazione per ragione di sesso e viene considerata attuazione del principio di eguaglianza formale. La legge vieta esplicitamente anche ogni discriminazione fra uomini e donne nell’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e nella progressione di carriera.La legge 903/1977 estende poi il principio di parità tra sessi all’area della previdenza sociale: solo parzialmente, con l’art 4 sull’età del pensionamento delle donne; completamente con l’art 9 che parifica le condizioni di erogazione degli assegni familiari e con l’art 11 che parifica le condizioni per ottenere le prestazioni previdenziali ai superstiti.La legge 903/1977 introduce anche un procedimento speciale, sicché qualora vengano posti in essere comportamenti discriminatori, il lavoratore potrà ricorrere al giudice al fine di ottenere in via d’urgenza un decreto immediatamente esecutivo, contenente l’ordine di cessazione del comportamento e di rimozione degli effetti.La legge si preoccupa di ribadire la parità di retribuzione per prestazioni uguali o di eguale valore tra lavoratori e lavoratici.L’applicazione dei principi della legge sono stati insoddisfacenti nella prassi; persistono a tutt’oggi forti sperequazioni, specie retributive, tra lavoratori di sesso diverso, che svolgono la medesima professione.

5- Pari opportunità e azioni positive nella Legge 125/1991La legge n.125/1991 è animata da almeno un duplice obiettivo:

1) Rimediare ad alcune debolezze della l. 903/1977;2) Porsi in un’ottica di uguaglianza sostanziale.

Discriminazioni indirette per ragioni di sesso. La legge provvede ad una definizione esplicita delle discriminazioni per ragioni di sesso, distinguendole tra: dirette e indirette.Con l’aggettivo dirette si qualificano tutte le discriminazioni operanti sul piano individuale, cioè quei trattamenti differenziati, basati su condizioni soggettive (sesso, razza, origine etnica).Alla luce di ciò, la legge definisce la discriminazione sessuale diretta come qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. Ad es. a parità di curriculum viene assunto Tizio piuttosto che Caio solo perché il datore di lavoro non vuole donne nella sua azienda.Discriminazioni indirette per ragioni di sesso. La nozione di discriminazione indiretta è invece più sottile e complessa, scivolando dal piano individuale a quello collettivo. Secondo la legge, costituisce discriminazione sessuale indiretta qualsiasi comportamento pregiudizievole, da chiunque posto in essere, conseguente all’adozione di criteri formalmente neutri ed eguali fra soggetti, ma che svantaggiano in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori di un sesso (tipicamente le donne) senza alcuna giustificazione. Ad es. viene richiesto il possesso di una statura minima senza che ciò sia essenziale alle mansioni da svolgere.La direttiva 2002/73/CE e nozione di discriminazione sessuale indiretta. Per effetto della direttiva 2002/73/CE, la nozione di discriminazione indiretta per ragioni di sesso è in procinto di essere novellata. Il quadro normativo si appresta ad acquisire una progressiva omogeneità per ciascuno dei tre ambiti considerati: discriminazioni di sesso, di razza e origine etnica.La direttiva, per discriminazione sessuale indiretta ricomprende ogni comportamento pregiudizievole, fondato su criteri o prassi apparentemente neutri, ma che di fatto mettono o

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potrebbero mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell’altro.La definizione non è del tutto coincidente sul piano letterale con quella contenuta nel vigente testo della L. 125/1991, che ai fini della sussistenza di una discriminazione sessuale indiretta, richiede l’effettivo verificarsi di una situazione di svantaggio proporzionalmente maggiore per le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell’altro e non solo il potenziale prodursi di una situazione particolare di svantaggio delle prime nei confronti delle seconde.La ratio promozionale delle pari opportunità, propria della L.125/1991, trova la sua massima espressione nel riconoscimento delle azioni positive. La legge dà una definizione funzionale di azioni positive, comprendendovi tutte le iniziative volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di pari opportunità fra lavoratori e lavoratrici.Rientrano tra le azioni positive ad es. la promozione di forme d’esercizio flessibile, i corsi di formazione per sole donne al fine di avvicinare le lavoratrici ai settori tradizionalmente maschili.L’attuazione di azioni positive è affidata a diversi organi promotori. La L. 125/1991 li elenca in modo tassativo, comprendendovi sia soggetti istituzionali (il comitato ed i consiglieri di parità), sia soggetti privati (sindacati e datori di lavoro). In particolare riguardo ai primi troviamo:-il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici;-le consigliere e i consiglieri di parità.Il CNP (comitato nazionale di parità) è istituito presso il Ministero del lavoro con il fine di promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso di ogni altro ostacolo che limiti l’uguaglianza delle donne nell’accesso al lavoro.Il CNP, annualmente deve formulare un programma- obiettivo con l’indicazione delle tipologie di progetti azioni positive a promuovere, i soggetti ammessi e i relativi criteri di valutazione.Le consigliere ed i consiglieri di parità sono pubblici ufficiali ed hanno l’obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria i reati di cui vengano a conoscenza.Un’ultima innovazione rilevante della L.125/1991, riguarda la c.d. inversione parziale dell’onere della prova nel giudizio in tema di discriminazione. Quando il soggetto ricorrente (lavoratore o lavoratrice) fornisce elementi di fatto relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, idonei a fondare l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto (datore di lavoro) l’onere della prova sull’insussistenza delle discriminazioni.

6-La tutela contro le discriminazioni per ragioni di razza o di origine etnica e le altre discriminazioni.Con i D. Lgs. del 9 luglio 2003 nn. 215 e 216 hanno ricevuto trasposizione nel nostro ordinamento le direttive n. 2000/43/CE concernente la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e n. 2000/78/CE concernente la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. I due decreti legislativi, a dispetto del loro contenuto sostanzialmente omogeneo, hanno un campo applicativo diverso: solo il D. Lgs n216/2003 circoscrive l’oggetto del proprio interesse alle discriminazioni in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; il D. Lgs 215/2003 ha, invece, un ambito di operatività più vasto, estendendosi anche all’assistenza sanitaria, all’istruzione, all’accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio. Un importante precedente dei D. Lgs nn. 215 e 216 del 2003 è rappresentato nel nostro ordinamento dal testo unico sull’immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998). Il testo riconosce a tutti i lavoratori stranieri “regolari” e alle loro famiglie la parità di trattamento e la piena uguaglianza dei diritti rispetto ai lavoratori italiani.Entrambi i D. Lgs nn 215 e 216 contengono una propria definizione di discriminazione diretta ed indiretta per razza o origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap,età, orientamento

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sessuale.Si ha discriminazione diretta quando in ragione di tali motivi una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata, o sarebbe stata trattata un’altra in una situazione analoga. Esempio: un annuncio di lavoro, che escluda espressamente gli inabili handicappati dall’ambito dei suoi destinatari.La discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio, una prassi, apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, di una determinata religione, o di una particolare età, in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone. Esempio: Tizio si rivolge ad un’agenzia per l’assunzione di personale, e ordini a questa di non selezionare lavoratori appartenenti ad una determinata razza o credo religioso.Lo stesso deve dirsi per le molestie, entro cui il legislatore ricomprende qualsiasi comportamento indesiderato, che abbia lo scopo o l’effetto di violare la dignità delle persone e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

A) IL POTERE DI CONTROLLO

1-I limiti al potere di vigilanza: controlli nell’attività e visite personaliLimiti al potere di vigilanza. le guardie giurate. La disciplina statutaria assoggetta a limiti specifici il potere di vigilanza del datore sull’attività lavorativa. Al personale di vigilanza si rivolgono gli artt. 2 e 3 St. lav.L’art 2 si riferisce alle guardie giurate con compiti di tutela del patrimonio aziendale e dotato di particolari privilegi connessi a tale funzione (diritto di portare armi);Il personale di vigilanza sul lavoro. L’art 3 rafforza l’art 2, imponendo la preventiva comunicazione ai lavoratori interessati dei nominativi e delle mansioni specifiche del personale di vigilanza sul lavoro, distinto dalle stesse guardie giurate e privo dei loro particolari poteri. Le due norme mirano non ad abolire la funzione di vigilanza nell’impresa, ma a privarla degli aspetti “polizieschi”, talora storicamente assunti con la costituzione di vere e proprie polizie interne.Tale normativa implica che, il datore di lavoro non potrà tener conto in sede disciplinare degli elementi acquisiti a carico del lavoratore da guardie giurate, nonché da personale di vigilanza, al di fuori delle loro attribuzioni. È stato tuttavia affermato che i limiti discendenti dagli artt. 2 e 3, non possono essere invocati, qualora il controllo riguardi non l’attività lavorativa, bensì condotte illecite, cioè mancanze specifiche dei dipendenti. Ad es. sono stati considerati legittimi i controlli effettuati da una banca all’insaputa del dipendente tramite alcuni clienti appositamente contattati, al fine di verificare la regolarità del comportamento di una cassiera.Controlli a distanza. L’art 4 precisa i controlli esercitabili dal datore di lavoro, stabilendo che essi non possono realizzarsi mediante impianti audiovisivi (es. televisioni a circuito chiuso) e altre apparecchiature atte a sorvegliare a distanza l’attività dei lavoratori. Controlli a distanza possono giustificarsi solo se richiesti da esigenze organizzative (ad. es. al ricorso di telecamere a circuito chiuso necessario x motivi di sicurezza all’interno delle banche).Per rafforzare l’effettività dell’art 4, è prevista una garanzia procedurale a vari livelli: sindacale, amministrativo e giudiziale. Le apparecchiature di controllo richiesto da esigenze obiettive, ma da cui possa derivare un controllo delle attività del lavoratore, sono installabili solo previo accordo con tutte le RSA o in mancanza, con la commissione interna. Qualche problema sorge relativamente all’efficacia soggettiva di simili accordi sindacali. Usualmente sono ritenuti vincolanti per tutti i lavoratori interessati, iscritti e non iscritti al sindacato stipulante, anche se tale efficacia generale non è facilmente spiegabile all’interno del nostro sistema sindacale, con la conseguenza che il tipo di contratto collettivo oggi sottoscritto è privo di una tale valenza, e si applica, ai soli iscritti.Visite personali di controllo sul lavoratore. Principi simili a quelli dell’art 4 sono stabiliti dall’ art 6

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a proposito di visite personali di controllo sul lavoratore, cioè le perquisizioni personali. Tale prassi è ammessa solo se indispensabile ai fini della tutela del patrimonio aziendale e a condizione che le visite siano svolte all’uscita dei luoghi di lavoro. La Corte Cost. ha salvato la disposizione, in quanto supportata da obiettive giustificazioni e garanzie per i lavoratori, i quali possono sempre rifiutare la perquisizione.Controllo delle malattie. L’art 5 limita il potere di controllo dell’imprenditore nei confronti del lavoratore assente dal lavoro per infermità (o infortunio). Più precisamente vieta la prassi dei controlli tramite medici nominati e pagati dal datore di lavoro, e affida l’accertamento ai servizi ispettivi degli istituti competenti: l’INAIL per gli infortuni e l’ASL e l’INPS per le malattie. Questi sono tenuti a compierlo quando il datore lo richieda.Controllo sull'idoneità fisica del lavoratore. Il 3° comma dell’art 5 riserva ad enti pubblici anche il controllo sull’idoneità fisica del lavoratore, vale a dire sulla capacità di proseguire il rapporto di lavoro.

2-Il divieto di indagine sulle opinioni e la tutela della privacy.L’art 8 vieta al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione e nel corso del rapporto, di effettuare indagini, anche tramite terzi, sulle opinioni politiche, religiose sindacali del lavoratore, nonché su tutti i fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale di questo. Nell’intento di garantire il rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone nel trattamento dei dati personali, le regole appaiono diverse per i dati ordinari e per quelli sensibili e giudiziari.I dati ordinari sono definiti come tutti quei dati che non sono sensibili e giudiziari. Il loro trattamento è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato, salvo tassative eccezioni;i dati sensibili sono quelli idonei a rivelare l’origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati;i dati giudiziari sono quelli idonei a rivelare provvedimenti giudiziari in materia di sanzioni amministrative, carichi pendenti, o la qualità di imputato o di indagato. Tali dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione de Garante per la protezione dei dati personali.La regola del consenso e autorizzazione, conosce delle eccezioni. Esiste un novero di ipotesi nelle quali il trattamento è ammesso anche senza consenso, sulla base della sola autorizzazione del garante. Ad. es. in caso di trattamento effettuato da organismi senza scopo di lucro, nel caso di trattamento svolto per adempiere a specifici obblighi di legge per la gestione del rapporto di lavoro.In forza di ciò, il datore di lavoro potrà trattare la gran parte dei dati sensibili attinenti ai propri lavoratori senza ottenere il preventivo consenso. Per quando riguarda il Garante, ha esonerato dall’obbligo della richiesta di autorizzazione i datori di lavoro privati che debbano trattare dati sensibili in tutta una serie di occasioni. Tra queste ricordiamo: -l’adempimento di obblighi previsti ai fini dell’instaurazione, gestione ed estinzione del rapporto di lavoro, o in materia di igiene e sicurezza del lavoro. Il lavoratore ha diritto di accedere ai dati personali e può opporsi, per motivi legittimi, al loro trattamento. Alla luce della normativa sulla privacy, va risolto anche il problema della legittimità dei controlli sulle comunicazioni telefoniche del lavoratore, nonché sull’utilizzo di parte di questi del computer aziendale.Nel caso di un dipendente, che aveva effettuato conversazioni private con il telefono aziendale, è stato considerato legittimo il licenziamento, ed ancor prima, la registrazione ad opera del datore dei numeri telefonici chiamati.Un’attenzione ancora maggiore suscitano le questioni legate alla vigilanza sull’uso di apparecchiature elettroniche da parte del personale, ad. es. il computer aziendale. V’è da capire se si

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tratti di strumenti di lavoro utilizzabili solo per scopi professionali o anche per fini personali. La questione si è posta, nella specie, per il controllo sull’uso della posta elettronica ad opera dei dipendenti. Secondo il Garante, la posta elettronica andrebbe protetta, con conseguente piena applicabilità della normativa penale. La giurisprudenza ha escluso gli estremi del reato ex art 616 c.p. nella condotta del datore che, all’insaputa del lavoratore, ne aveva controllato la posta elettronica e ciò proprio in ragione della natura “non privata”, bensì “aziendale” dell’indirizzo e-mail.Problemi analoghi ha sollevato il controllo sulla navigazione internet del lavoratore. I giudici hanno ritenuto legittimo il licenziamento di un prestatore di lavoro da ci erano emersi collegamenti giornalieri sul web di durata lunghissima per scopi personali.

C) IL POTERE DISCIPLINARE

1-Il fondamento del potere disciplinare L’art 2106 c.c. stabilisce che l’inosservanza, da parte del prestatore di lavoro, degli obblighi previsti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione o in conformità delle norme corporative.

2-I requisiti sostanziali.Presupposti sostanziali del potere disciplinare sono: la sussistenza del fatto addebitato e la proporzionalità tra infrazione e sanzione. Riguardo a quest’ultimo presupposto influisce correntemente l’eventuale recidiva, vale a dire la circostanza che una determinata infrazione sia stata già sanzionata. L’ultimo comma dell’art 7 St. lav. stabilisce che non può tenersi conto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.

3-I requisiti procedimentali.I requisiti invece, introdotti dall’art 7 sono definiti procedimentali. I requisiti procedimentali, disciplinati dai commi 2,3 e 5 dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, si identificano nel rispetto di regole procedurali atte a garantire la conoscibilità da parte dei lavoratori delle infrazioni idonee a determinare l’applicazione di sanzioni e le conseguenti pene irrogabili. La loro assenza si traduce nell’inesistenza del potere e conseguentemente nella nullità della sanzione. I requisiti procedimentali sono:-preesistenza del codice disciplinare aziendale , vale a dire di un testo nel quale il datore che indichi le infrazioni e le relative sanzioni. La previsione di un codice disciplinare consente al lavoratore di conoscere quali violazioni agli obblighi contrattuali debbono ritenersi punibili e quali sanzioni saranno applicabili.Per quanto concerne la tipologia delle sanzioni, occorre precisare che questa si ricava dalla contrattazione collettiva e prevede, in ordine di gravità:

richiamo verbale; ammonizione scritta; multa; sospensione dall’attività lavorativa; licenziamento disciplinare;

-pubblicità del codice disciplinare: si intende che il codice venga portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti.Secondo la giurisprudenza (Cass. Sezione Lavoro n. 20733 del 3 ottobre 2007, in particolare,) affinché i locali in cui sono affisse le disposizioni (il c.d. codice disciplinare) possano dirsi “accessibili liberamente a tutti i lavoratori” occorre che essi siano comodamente raggiungibili. Ne consegue che quest’obbligo non può essere ristretto alla necessità che i locali in cui viene effettuata

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l’affissione non siano chiusi e che tutti i dipendenti abbiano piena libertà di accedervi senza impedimenti di sorta e senza dover chiedere permessi particolari, in quanto la possibilità di recarsi nei locali in cui sono esposte le norme disciplinari deve essere effettiva, non meramente teorica.-preventiva e specifica contestazione dell’addebito. Ai sensi dell’art. 7, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori, il datore di lavoro non può procedere all’irrogazione di una sanzione disciplinare senza prima aver contestato la relativa infrazione al lavoratore e senza averlo sentito a sua difesa. La contestazione deve avvenire per iscritto, fatta eccezione per il caso del semplice rimprovero verbale. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.L’addebito deve essere contestato con immediatezza e specificità. Tra conoscenza del fatto e sua contestazione non può trascorrere più del tempo ragionevolmente necessario al datore di lavoro per fare un minimo di accertamenti, ed assumere la decisione di dare inizio al procedimento disciplinare. La contestazione è ritenuta congrua allorché appare idonea a realizzare il risultato perseguito dalla norma, cioè a consentire una puntuale difesa da parte del lavoratore. La contestazione deve insomma individuare addebitati con sufficiente precisione.-diritto di difesa del lavoratore. Affinché la sanzione irrogata sa valida, non è sufficiente la preventiva contestazione dell’addebito, in quanto occorre che il lavoratore venga messo nelle condizioni di potersi difendere. Per tale ragione, dopo la contestazione dell’addebito il lavoratore può richiedere di essere sentito oralmente e di presentare delle memorie scritte al fine di approntare delle difese.In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.Il periodo di attesa era finalizzato a favorire una pausa di riflessione per lo stesso datore di lavoro, scongiurando decisioni “a caldo”, e che comunque il lavoratore doveva essere in condizioni di poter integrare le proprie difese per tutto quel periodo.La norma non prevede invece un termine entro cui il datore di lavoro debba assumere il provvedimento disciplinare. Sono stati allora i contratti collettivi a colmare il vuoto legislativo, stabilendo un termine decadenziale, trascorso il quale il provvedimento disciplinare non può essere più irrogato.L’art 7 non prevede alcun obbligo in capo al datore di motivare il provvedimento disciplinare in concreto adottato. Qualora il codice disciplinare (o il contratto collettivo) preveda l’obbligo del datore di motivare la sanzione, la sua inosservanza comporterà la nullità del provvedimento disciplinare. L’art 7 prevede che il lavoratore possa impugnare il provvedimento, ovvero promuovere, nei 20 giorni successivi, anche x mezzo dell’associazione sindacale alla quale sia iscritto (o conferisca mandato), la costituzione di un Collegio di conciliazione ed arbitrato. Si tratta di un arbitrato irrituale. Tale scelta comporta la sospensione della sanzione.

D) I DOVERI DEL DATORE DI LAVORO

1-L’obbligo di sicurezza e l’art 2087 c.c.L’art 2087 vincola il datore ad un obbligo di sicurezza nei confronti dei lavoratori, imponendogli di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.Nonostante l’ampiezza dell’art 2087, il diritto alla sicurezza partecipa della debolezza tipica di qualsiasi situazione attiva rilevante sul mero piano del rapporto individuale.In prevalenza esso è stato invocato per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a infortuni o lesioni già verificatesi, mentre non ha avuto rilievo nella sua funzione preventiva.2-Dall’art 9 St. lav. al D. Lgs n. 626/1994 e successive modifiche.

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L’art 9 attribuisce ai lavoratori il diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.L’art 2087 c.c. e l’art 9 St. lav. possono oggi ritenersi assorbite nel D. Lgs 19 settembre 1994, n. 626. Tale testo normativo, regolamenta ex novo la materia in ordine alla salvaguardia della sicurezza del lavoro.Le norme del D. Lgs hanno determinato un importante salto di qualità nella concezione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Si parla di prevenzione, da realizzarsi tramite una valutazione di tutti i rischi presenti in azienda. L’obiettivo è di eliminarli alla fonte, ove possibile, o comunque di ridurli al minimo.È il c.d. modello partecipato della sicurezza: accanto al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, nonché agli organismi pubblici di controllo già presenti, il legislatore contempla nuovi soggetti destinatari di diritti ed obblighi: il servizio di prevenzione e protezione ed il suo responsabile, il medico competente, i lavoratori, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS).Ciascuno, in relazione alle proprie responsabilità, è chiamato a dare attuazione al principio di prevenzione.L’obbligo di sicurezza, posto a carico del datore, viene scomposto in una serie di specifici adempimenti.Il primo adempimento consiste nella valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa, al fine di individuare le fonti di pericolo e l’entità del danno che ne può derivare. Il secondo è rappresentato dalla redazione del c.d. documento per la sicurezza, da custodire presso l’azienda e contenente:

Una relazione sulla valutazione dei rischi; L’individuazione delle misure di prevenzione; Le modalità ed i tempi per la realizzazione del programma di sicurezza.

Entrambe sono funzioni organizzative non delegabili, che il datore di lavoro deve esercitare in collaborazione con il responsabile di servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza.Quest’ultimo viene consultato anche in merito alla designazione degli addetti al servizio di prevenzione ed all’organizzazione della formazione dei lavoratori. Egli riceve tutte le informazioni in materia, elabora proposte ecc. Deve essere eletto o designato dai lavoratori in tutte le aziende. I dipendenti devono contribuire con il datore di lavoro all’adempimento degli obblighi in tema di tutela della salute (c.d. principio del coinvolgimento del lavoratore) ed in particolare: -ubbidire alle direttive generali loro impartite in materia; -utilizzare correttamente macchinari, attrezzature e dispositivi di protezione.Essi hanno diritto di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile. È nuovo il fatto che la violazione degli obblighi ricostruiti in capo al lavoratore venga sanzionata (anche penalmente).

3-L’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionaliAlla tutela dei lavoratori è finalizzato il sistema delle assicurazioni sociali obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali attualmente gestito dall’INAIL. La normativa si applica ai lavoratori addetti a particolari lavorazioni indicate come potenzialmente pericolose.Il D. Lgs. n. 38/2000 ha esteso l’obbligo assicurativo ai lavoratori parasubordinati, oltre che ai lavoratori dell’area dirigenziale, agli sportivi professionisti, ai lavoratori italiani operanti in Paesi extracomunitari, e ricomprese nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria anche le ipotesi di infortunio c.d. in itinere cioè subito dal lavoratore nel recarsi sul luogo di lavoro o nel normale tragitto di andata e ritorno rispetto al luogo ove il lavoratore consuma il pasto, in assenza di un

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servizio di mensa aziendale.In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, il danno risarcibile ha coinciso per lungo tempo con il solo danno patrimoniale. Più recentemente la giurisprudenza è giunta a riconoscere l’esistenza del c.d. danno biologico inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona. Quello biologico è un danno (propriamente non patrimoniale) che scaturisce dalla violazione del diritto alla salute da lui subita, quindi una lesione all’integrità psicofisica.

4-Il danno alla persona del lavoratoreAl di là del danno biologico, si pongono tutta una serie di ulteriori pregiudizi di cui i giudici sostengono la risarcibilità. Si tratta di menomazioni ala dignità personale, connesse ad eventi diversi: demansionamento, soppressione del riposo settimanale, molestie sessuali e mobbing.Demansionamento: si ha quando il datore adibisca il dipendente a compiti inferiori rispetto agli ultimi effettivamente svolti, ovvero lo costringa a lunghi periodi di inattività. In simili ipotesi, la giurisprudenza riconosce al prestatore il diritto al risarcimento del danno per lesione alla dignità professionale. Soppressione del riposo settimanale: È inoltre risarcito dai giudici il lavoratore che abbia prestato la sua attività oltre il sesto giorno consecutivo, in violazione del principio della irrinunciabilità del riposo settimanale.Molestie sessuali: la direttiva 73/2002 CE designa come molestie sessuali ogni situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, creando un clima ostile, degradante, umiliante e offensivo. L’offesa della dignità costituisce violazione dell’obbligo contrattuale di cui all’art 2087 c.c. contestabile dalla vittima dinanzi al giudice del lavoro.Mobbing: l’espressione evoca forme di persecuzione psicologica poste in essere nei luoghi di lavoro da parte di colleghi (mobbing orizzontale) oppure dal datore di lavoro (mobbing verticale). La fattispecie consta in continue molestie ed aggressioni psicologiche in campo lavorativo, produttive di uno stato di profondo disagio della vittima.

5-Gli obblighi di informazione del datoreUn’importanza crescente hanno acquisito gli obblighi di informazione a carico dell’imprenditore. È carico dell’imprenditore di comunicare al lavoratore informazioni relative ad aspetti cruciali del rapporto: categoria e qualifica corrispondente alle mansioni di assunzione (art 96 disp. Att.), tempo delle ferie (art 2109 c.c.). la legislazione speciale sancisce altresì l’obbligo del prospetto paga ( L. n. 4/1953).

6-La cooperazione del datore all’adempimentoLa cooperazione è necessaria per l’adempimento della prestazione da parte del lavoratore. Questa posizione del datore è configurata come onere. Il rifiuto ingiustificato di ricevere una prestazione comporta in capo al datore di lavoro le conseguenze della mora credendi.Un obbligo del datore di permettere lo svolgimento della prestazione è configurato solo in rapporti di lavoro caratterizzati da un interesse specifico del lavoratore ad eseguire il proprio lavoro. Caso emblematico è l’apprendistato ove lo svolgimento della prestazione è finalizzato all’apprendimento, che inerisce alla causa tipica del rapporto. Analoga conclusione è accolta per il lavoratore in prova, che ha interesse a completare l’esperimento ai fini dell’assunzione definitiva.Di recente si è affermata l’esistenza di un diritto del lavoratore a svolgere la prestazione,e di un correlativo obbligo del datore di porre in essere le condizioni necessarie a permettere tale svolgimento (messa a disposizione degli strumenti). Il fondamento di tale diritto è stato desunto dall’art 13 St. lav. che riconosce e protegge la posizione professionale del lavoratore.

CAPITOLO VIII

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LA RETRIBUZIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO: FONTI, NOZIONE, STRUTTURA

A) FONTI E PRINCIPI

1-Fonti individuali e collettiveSul piano del rapporto individuale la retribuzione costituisce la prestazione fondamentale del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Sul piano collettivo le retribuzioni costituiscono una quota cospicua del reddito nazionale e rappresentano uno strumento decisivo per la sua distribuzione fra diversi gruppi e categorie sociali.La disciplina della retribuzione, per quanto riguarda gli aspetti quantitativi, è determinata dalla contrattazione collettiva; all’autonomia individuale spetta un ruolo di miglioramento degli standards retributivi stabiliti in sede collettiva.

2-Corrispettività e principi costituzionali: a) sufficienza e proporzionalità. Il concetto giurisprudenziale di retribuzione minima.L’obbligo retributivo caratterizza il rapporto di lavoro come rapporto di scambio o a prestazioni corrispettive. La norma di riferimento è l’art 36 Cost., ove si sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.Il giudice si limita a verificare se la retribuzione è proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, ritenendo che il livello retributivo sia idoneo a soddisfare le esigenze di vita del lavoratore medio e della sua famiglia.Ma quale livello retributivo può ritenersi conforme ai canoni dell’art 36 Cost.? I giudici hanno fatto costante riferimento alla retribuzione base (i c.d. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi della categoria o del settore produttivo.Il riferimento ai contratti collettivi importa che sufficienza e proporzionalità non rivestano un valore assoluto ed uniforme per tutti i lavoratori, ma varino in funzione del settore e della qualifica del singolo. I contratti collettivi ricercano un equilibrio fra prestazione di lavoro e controprestazione retributiva.L’art 2099 c.c. stabilisce che in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordi individuali tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice. Ma il percorso non è condivisibile, perché nel caso in esame il giudice non interviene in assenza di una definizione consensuale di retribuzione al fine di integrare una lacuna del contratto; interviene invece, in casi dove la retribuzione è concordata (anche in modo tacito), ma in misura insufficiente.Il canone giurisprudenziale di “retribuzione minima”, si è storicamente consolidato, divenendo di generale applicazione.

3-Non discriminazione e parità retributivaFra i principi di matrice costituzionale rilevanti in tema di retribuzione devono essere annoverati anche quelli di non discriminazione e di uguaglianza.Il primo, ha un vasto campo di applicazione, in quanto si estende a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, dall’assunzione all’estinzione. Esso si caratterizza in negativo perché inibisce trattamenti differenziati per specifici motivi: anzitutto per motivi di età fra adulti e minori.Il secondo importa, invece, in positivo una parificazione del trattamento dei lavoratori che ricoprano la stessa posizione professionale. Secondo l’opinione dominante, nel nostro ordinamento non sarebbe in alcun modo configurabile un principio generale assoluto di eguaglianza operante nei rapporti interprivati di lavoro e di scambio.La giurisprudenza ha ritenuto che la proporzionalità di cui all’art 36 Cost. attiene all’equilibrio fra e prestazioni del singolo rapporto di lavoro e non implica un rapporto “orizzontale” di parità fra retribuzione di diversi lavoratori che si trovino in situazioni analoghe; sicchè un lavoratore non

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potrebbe rivendicare una retribuzione maggiore solo perché altri lavoratori con analoghe qualifiche o mansioni godono di un trattamento più favorevole.Sulla questione è intervenuta la Corte Cost. con la sentenza n. 103/1989: tale pronuncia, nel rigettare la questione di costituzionalità, si richiama alla normativa legale, la cui applicazione garantirebbe il diritto ad un’eguale retribuzione a parità di mansioni.

B) NOZIONE DI RETRIBUZIONE

1-Il concetto di retribuzione. Definizioni legislativeLa retribuzione costituisce la prestazione fondamentale cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Indica il quindi il compenso del lavoro prestato, cioè il trattamento economico che spetta al lavoratore in ragione del rapporto di lavoro.È discusso se di retribuzione esista un concetto unitario o se ne esistono molteplici. In realtà una pluralità di definizioni risulta da fonti legali e contrattuali che si occupano a vari fini della disciplina dell’istituto. Fra le definizioni legali, oltre a quelle generiche contemplate dagli artt. 2094c.c. (è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore) e 2099 c.c.( la retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo, e deve essere corrisposta con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito. In mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice) la più importante è quella dell’art 2121 c.c.( l’indennità deve calcolarsi computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese).La legge 297/1982 ha introdotto una diversa nozione di retribuzione cioè devono essere considerati tutti gli emolumenti corrisposti a titolo non occasionale. Una nozione altrettanto ampia viene adoperata dal legislatore ai fini contributivi e fiscali. Per lungo tempo si è trattato di due nozioni distinte, ma sono state ravvicinate dal D. Lgs n. 314/1977, che ha riformulato l’art 12 della L. 30 aprile 1969 n. 153 e l’art 48 del TUIR (testo unico delle imposte sui redditi che identifica la retribuzione ai fini fiscali). Oggi l’art 12 della L.153/1969 rinvia per la nozione generale del reddito ai fini contributivi all’art 48 del TUIR: Il reddito di lavoro dipendente e' costituito da tutti i compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta anche sotto forma di partecipazione agli utili in dipendenza del rapporto di lavoro, comprese le somme percepite a titolo di rimborso di spese inerenti alla produzione del reddito e le erogazioni liberali.Si tratta di una nozione più ampia di quella cui faceva riferimento l’art 12 L. 153/1969 ( Per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro) : alla precedente espressione utilizzata dalla norma “in dipendenza del rapporto di lavoro” si sostituisce con quella attuale “in relazione al rapporto di lavoro”.

2-La nozione giurisprudenziale onnicomprensiva. CriticaDi fronte a questa varietà di forme retributive, notevoli problemi si sono presentati alla giurisprudenza. Essa ha elaborato nel tempo il c.d. concetto unitario o onnicomprensivo di retribuzione, alla base del quale sta anzi tutto l’individuazione di alcuni caratteri strutturali che sarebbero propri della retribuzione:-determinatezza: richiesta dall’art. 2099 per definire la quantità in misura sia fissa sia variabile;-obbligatorietà: che escluderebbe la discrezionalità del datore;-corrispettività: nel senso non di corrispondenza con specifiche prestazioni di lavoro ma di generica riconducibilità casuale al rapporto di lavoro;

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-continuità: come corresponsione corrente nel tempo.Tali caratteri sono stati utilizzati in modo combinato x ricomprendere nella retribuzione tutti i compensi erogati dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto, con carattere necessario e ricorrente nel tempo, con la sola esclusione dei rimborsi spese.

C) FORME DI RETRIBUZIONE

1-Tipologia legale.Molteplici sono i criteri di classificazione degli istituti retributivi. La classificazione più generale delle forme retributive ha fondamento legale, essendo contenuta nell’art. 2099 c.c. le forme sono le seguenti:

retribuzione a tempo: è la forma retributiva più usata. È quella forma determinata in ragione del tempo della prestazione di lavoro (euro per ora, giorno, mese o anno);

retribuzione a cottimo: è una forma di retribuzione in cui il lavoratore subordinato è ricompensato sulla base del risultato del proprio lavoro e non in base alle ore di lavoro.

Si possono distinguere varie forme di cottimo: cottimo a forfait: in cui il compenso è commisurato all’opera finita; cottimo a misura: commisurato alla quantità prodotta; cottimo a tempo: si considera il tempo risparmiato rispetto al tempo standard; cottimo individuale: viene considerato il rendimento del singolo lavoratore; cottimo collettivo: viene considerato il rendimento di un gruppo o di una squadra.

La disciplina legislativa dell’istituto è contenuta in due norme: -l’art. 2100 c.c. che prevede il c.d. cottimo obbligatorio, stabilendo che il lavoratore deve essere retribuito a cottimo nelle ipotesi in cui è vincolato ad un certo ritmo produttivo (es. catena di montaggio);-l’art. 2101 c.c. stabilisce le tariffe di cottimo. La legge impone all’imprenditore di comunicare preventivamente ai prestatori di lavoro gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo. Inoltre il datore può modificare tali elementi solo nel caso in cui siano cambiate le condizioni di lavoro che li giustificano.

retribuzione in natura: assume carattere eccezionale; essa ha un rilievo marginale in certe forme di lavoro domestico, agricolo, nel settore della pesca.

provvigione: è il tipo di compenso tipico dei lavoratori subordinati adibiti ad attività particolari ad es. i viaggiatori, i piazzisti.

partecipazione ai prodotti: è per lo più usata nelle attività di lavoro agricolo e nella pesca come retribuzione parziale, è una specie particolare di provvigione. Qui però il prodotto non è l’affare, ma il bene fisico oggetto dell’attività dell’impresa;

partecipazione agli utili: secondo l’art. 2102 c.c. gli utili devono essere determinati in base agli utili netti e, per le imprese soggette a pubblicazione di bilancio, a quelli risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato. Il lavoratore non ha diritto di controllare l’ammontare degli utili da cui dipende il suo compenso, dovendosi attenere ai dati forniti dall’impresa. La partecipazione agli utili tende a perseguire un coinvolgimento del lavoratore nell’andamento aziendale.

2-La disciplina contrattuale della retribuzione. La proliferazione delle forme retributive.Una distinzione ricorrente è fra: retribuzione diretta cioè corrisposta immediatamente al lavoratore (settimanalmente, mensilmente), e retribuzione differita, cioè corrisposta in modo posticipato rispetto al periodo di maturazione: annualmente (come ad es. la 13 a mensilità) o alla fine del rapporto (come il trattamento di fine rapporto).Un termine di significato corrente è quello di automatismi retributivi, usato per designare istituti che

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comportano incrementi automatici del trattamento economico al verificarsi di determinati fatti o cadenze temporali. Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione tabellare. Essa è fissata nei suoi vari standards e periodicamente aggiornata in rapporto alle diverse categorie e qualifiche di lavoratori.

3-Le voci retributive contrattuali.La retribuzione base (o tabellare) è connessa con la qualifica ricoperta dal lavoratore e quindi con le mansioni svolte. Tale voce retributiva è stata, fino al 1992, comprensiva dell’indennità di contingenza o scala mobile, cioè un’attribuzione patrimoniale di natura retributiva istituita x compensare i lavoratori della perdita di potere di acquisto delle retribuzioni per effetto dell’aumento del costo della vita.La scomparsa del meccanismo della scala mobile giunge nel 1992 (protocollo del 31 luglio). Un anno dopo viene stipulato l’accordo interconfederale (Protocollo del 23 luglio 1993) che trasforma la concertazione sui salari da occasionale in strutturale, prevedendo che le parti sociali si incontrino due volte l’anno per fissare tariffe e livello del debito pubblico. A tal fine i sindacati si impegnano ad adottare comportamenti con l’obiettivo di ottenere un tasso di inflazione allineato alla media dei Paesi più virtuosi.Nel sistema introdotto dal Protocollo del 1993 (poi confermato dal Patto di Natale del 1998) il recupero dell’inflazione è demandato al contratto collettivo, la cui cadenza, per la parte economica, è stabilita in due anni. Le parti si sono preoccupate della possibilità che le trattative per i rinnovi contrattuali subiscano ritardi e le retribuzioni dei lavoratori risultino scoperti di fronte all’inflazione.Per questo è stata introdotta la c.d. indennità di vacanza contrattuale, il cui importo è commisurato al 30% ( o al 50% se la vacanza si protrae per oltre sei mesi) del tasso di inflazione programmato.L’indennità di vacanza contrattuale dà luogo ad un istituto retributivo in senso sostanziale.Fra gli elementi retributivi compresi nella retribuzione normale dei lavoratori i contratti collettivi prevedono gli scatti di anzianità. Si tratta di aumenti di retribuzione periodici (di solito biennali) stabiliti in varia misura in rapporto all’anzianità di servizio del lavoratore, misurata dalla permanenza nell’azienda.I superminimi costituiscono incrementi rispetto alle retribuzioni contrattuali standard assegnati collettivamente oppure individualmente. I superminimi indicano il grado di controllo o, il mancato controllo del salario da parte della contrattazione nazionale dando origine al fenomeno del wage drift = slittamento salariale. Istituti contrattati a livello collettivo, ma che possono assumere anche forma individuale, sono i premi di produzione. Furono configurati all’inizio degli anni ’60 come strumenti per far partecipare i lavoratori ai benefici della produttività aziendale, ma più tardi sono stati quasi subito previsti dalla contrattazione aziendale come compensi fissi (annuali) slegati dalla produttività, diventando in concreto un’integrazione aziendale della retribuzione stabilita nel contrato nazionale. In tal senso non si distinguono dai superminimi aziendali.Nella contrattazione aziendale si sono introdotti i c.d. premi di presenza corrisposti solo per giorni di effettiva presenza al lavoro e diretti a disincentivare l’assenteismo.Le gratifiche costituiscono elementi integrativi della retribuzione corrisposti una volta l’anno per far fronte a spese o bisogni particolari del lavoratore.La più diffusa è quella natalizia detta anche 13a mensilità. Il testo base è l’Accordo interconfederale del 27 ottobre 1946, relativo all’industria.Indennità. Una categoria particolarmente eterogenea è quella dell’indennità, prevista dalla contrattazione collettiva. Si tratta di attribuzioni con carattere risarcitorio; ma la grande maggioranza di tali indennità è stata attratta nell’area della retribuzione in qualità di elemento accessorio. In effetti esse servono ad adattare il compenso complessivo del lavoratore a diverse particolarità del lavoro (condizioni temporali, di disagio) sena che si possa configurare tipicamente la reintegrazione di una specifica perdita patrimoniale subita dal lavoratore a causa del lavoro.

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Solo in tale ultimo caso saremmo di fronte a prestazioni indennitarie o a rimborsi spese in senso tecnico.Nell’ampia tipologia delle indennità (retributive), rientrano ad es. quelle legate ai seguenti fattori: particolari modalità temporali di svolgimento del lavoro (indennità di turno), particolari condizioni ambientali (indennità per lavori nocivi o pesanti), particolari rischi professionali (indennità di cassa, maneggio di denaro).

D. L’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGO RETRIBUTIVO

1-L'adempimento dell'obbligo retributivo.L’adempimento dell’obbligo retributivo, quale obbligazione di dare, è regolato dagli artt. 1176 e 1218 c.c. L’art 2099 c.c. stabilisce più specificamente che i tempi e le circostanze del pagamento devono essere quelli in uso nel luogo dove il lavoro è eseguito. Il diritto al pagamento della retribuzione sorge a lavoro compiuto. Di qui il principio generale c.d. della postnumerazione: i pagamenti seguono cadenze periodiche stabilite dai contratti (per lo più a mese anche per gli operai).Periodicità diverse sono stabilite ad es. per la tredicesima e i premi di produzione.L’uguale cadenza per l’adempimento dell’obbligo retributivo fra operai e impiegati (c.d. mensilizzazione), non ha alterato la distinzione terminologica. Si parla infatti di salario per gli operai e stipendio per gli impiegati. La L. 4/1953 obbliga il datore di lavoro a consegnare al lavoratore, contestualmente alla corresponsione della retribuzione, il c.d. prospetto di paga, nel quale sono indicati nome e qualifica professionale del lavoratore medesimo, periodo di riferimento e l’elenco di tutti gli elementi che compongono la retribuzione corrisposta.

CAPITOLO IX

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LASOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

1- Fattispecie e tipologieLa sospensione è annoverata fra le vicende del rapporto di lavoro. Vi sono ricomprese ipotesi eterogenee: da quelle degli artt. 2110-2111 c.c., allo sciopero, ai casi di sospensione del lavoro per crisi aziendale, alle pause ed ai riposi.La sospensione, non è propriamente riferibile al rapporto nel suo complesso, ma alla obbligazione e prestazione di lavoro. Una ricorrente classificazione distingue tra sospensioni per motivi inerenti alla sfera del prestatore di lavoro e sospensioni dipendenti dall'impresa.Già l'art. 6 ultimo comma R.D.L. N° 1825/1924 stabiliva nelle ipotesi di sospensione “dipendenti dal datore di lavoro” è dovuta all'impiegato l'intera retribuzione. Nelle ipotesi di sospensione è per cause dipendenti dal lavoratore, la garanzia, riconosciuta nella maggior parte dei casi dall'art. 2110 e 2111 c.c. è quella di un'indennità previdenziale attribuita in conformità all'art. 38 Cost..

A) SOSPENSIONE PER CAUSE INERENTI AL PRESTATORE DI LAVOROTra queste le ipotesi di particolare rilievo, assumo quelle per malattia, infortunio, gravidanza, del servizio militare. Tra le previsioni comuni v'è il diritto alla conservazione del posto di lavoro per il c.d. periodo di comporto. Relativamente alla garanzia del reddito, il prestatore ha diritto alla retribuzione. Una speciale tutela legislativa è riconosciuta, poi, a sostegno della maternità, nell'intento di salvaguardare la salute e la vita della madre e del bambino, ma con una rinnovata attenzione per le esigenze di cura del figlio ad opera di ambedue i genitori. Altre ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro sono, infine, previste dalla legge con riferimento a diverse vicende (funzioni pubbliche elettive, operazioni elettorali) ed a peculiari soggetti (disabili, tossicodipendenti, donatori di sangue e di midollo osseo).

1- Gli artt. 2110-2111 c.c.I casi più rilevanti di sospensione per motivi attinenti alla sfera del lavoratore sono quelli considerati in generale dagli artt. 2110-2111 c.c. (malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare).Conservazione del posto. Tra le previsioni più comuni v'è il diritto del lavoratore alla conservazione del posto per il periodo stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto). Ciò implica che il potere di recesso del datore di lavoro sia sospeso per tutto il periodo del comporto.L'eventuale recesso deliberato dal datore si ritiene non nullo, bensì inefficace o ad efficacia differita alla fine della malattia o del periodo di comporto, eccettuato, però, il caso della lavoratrice in stato di gravidanza.Conservazione del reddito. A quella del posto si accompagna la conservazione del reddito, stabilendo che, in mancanza di forme previdenziali equivalenti, il lavoratore ha diritto alla retribuzione per il periodo e nella misura stabiliti dalla legge, dal contratto collettivo, dagli usi o secondo equità.

2- Malattia ed infortunioLa nozione lavoristica di malattia ricomprende le sole affezioni morbose comportanti un'incapacità al lavoro. La conservazione del posto è garantita per periodi variabili, di solito a seconda dell'anzianità di servizio del lavoratore e con esclusione dei dipendenti in prova.Nel caso di infortunio, la conservazione del posto perdura fino alla guarigione certificata dall'Istituto competente (INAIL) e nel caso di malattia professionale, finché il lavoratore riceve dallo stesso INAIL i relativi indennizzi economici. Malattia e infortunio sospendono il periodo di preavviso.Quanto alla conservazione del reddito, la disciplina legale mantiene ancora la distinzione storica fra

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impiegati ed operai. Gli impiegati, hanno diritto al mantenimento della retribuzione a carico del datore di lavoro,

integrale per un certo periodo di tempo e parziale per il periodo successivo. Gli operai, viceversa, ricevono un'indennità previdenziale posta a carico dell'Istituto

pubblico competente (INPS per malattia e INAIL per infortunio), ma anticipata dal datore di lavoro.

Obblighi accessori del lavoratore connessi alla malattia e controllo delle assenze da parte datoriale. In proposito, la L. 638/1983 ha imposto ai lavoratori l'obbligo di reperibilità in determinate fasce orarie (ore 10-12 e 17-19 di ogni giorno anche festivo) salvo giustificato motivo, ai fini della sottoposizione a visita medica.Es. se Tizio, dipendente dell'azienda di Caio è ammalato da 15 giorni dovesse risultare ingiustificatamente assente dalla visita di controllo effettuata dal medico competente dell'ASL alla ore 11.00 della domenica, gli potrebbe senz'altro essere sanzionato con la perdita dell'intero trattamento economico, ma ciò solo per i primi 10 giorni di malattia, con riguardo al restante periodo, la sanzione , corrispondente al dimezzamento (e non alla perdita) della retribuzione, potrebbe scattare esclusivamente ove lo stesso lavoratore risultasse irreperibile ad una seconda visita di controllo. In ogni caso le sanzioni scattano a prescindere dal fatto che il dipendente assente sia o meno effettivamente malato. Al fine di permettere i controlli in esame, la disciplina contrattuale fa carico al lavoratore di comunicare tempestivamente al datore di lavoro le cause dell'assenza: immediatamente in caso di infortunio, normalmente entro due giorni nel caso di malattia, trasmettendo al datore di lavoro l'attestazione sull'inizio e la durata presunta della malattia ed all'INPS, il certificato di diagnosi, entrambi redatti dal medico curante. L'inosservanza di tali obblighi comporta la perdita dell'indennità INPS per i giorni di ritardo, salvo che il ritardo sia giustificato da ragioni “serie ed apprezzabili”.Le cure idrotermali. Diversa regolamentazione è riservata alle cure termali, di cui è previsto il godimento in misura superiore ai 15 giorni l'anno, esclusivamente per esigenze terapeutiche o riabilitative, su motivata prescrizione di un medico specialista pubblico.

3- Gravidanza, puerperio e congedi parentali.In considerazione dell'esigenza di assicurare alla madre e al bambino quella speciale adeguata protezione, costituzionalmente sancita (art. 37 e 31 Cost.) le donne lavoratrici sono beneficiarie di una speciale tutela legislativa nel corso della gravidanza e del puerperio. L'attuale disciplina è contenuta nel D.Lgs. 151/2001, che raccoglie in un testo unico le disposizioni legislative per la tutela ed il sostegno della maternità e della paternità, tra cui le stesse norme della L. 1204/1971, già novellate dalla L. 53/2000, attuativa della Direttiva n° 96/31/CE sui congedi parentali.Il congedo di maternità pre-parto. Solo la lavoratrice madre naturale, in ragione dell'esigenza di tutelarne la gestazione è imposta la fruizione del c.d. Congedo di maternità pre-parto, con conseguente divieto di lavoro:

a) nei 2 mesi precedenti la data presunta di parto;b) l'interdizione dal lavoro deve essere anticipata nel caso di complicanze della gravidanza o

quando le condizioni di lavoro o ambientali possono risultare pregiudizievoli per la salute della gestante e del nascituro.

Il congedo di maternità post-parto. Nell'intento di proteggere la salute della madre e del bambino, la legge obbliga, poi, la lavoratrice ad astenersi dal lavoro anche nella fase immediatamente successiva al parto. E' il c.d. Congedo di maternità post-parto, che copre:

a) i 3 mesi dopo il parto;b) gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata

rispetto a quella presunta (tali giorni sono infatti aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto);

Nel complesso, la donna gode, pertanto, di un congedo di maternità pari a 5 mesi. L'inosservanza di

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tali disposizioni è punita penalmente con l'arresto fino a 6 mesi.Trattamento economico e normativo. Durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno diritto ad un'indennità giornaliera pari all'80% della retribuzione normale. L'indennità è a carico dell'INPS, anche se di regola, grava sul datore di lavoro l'obbligo di anticiparla, salvo successivo conguaglio.Divieto di licenziamento. E' nullo il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo che va dall'inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo i casi eccezionali (colpa grave, scadenza del termine, esito negativo della prova).Il congedo di paternità. Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, il congedo post-parto per i primi 3 mesi di vita del bambino si estende anche al padre, ma limitatamente ad alcuni casi particolarmente gravi e tassativamente previsti (morte o grave infermità della madre, abbandono, affidamento esclusivo al padre), nei quali il venir meno dell'assistenza della madre rende necessaria una presenza sostitutiva dell'altro genitore. Il congedo di paternità si differenzia da quello di maternità poiché:

è facoltativo; può essere esercitato solo in alternativa alla madre; è rigido, poiché non prevede flessibilità, consentendo al padre di assentarsi solo nei primi 3

mesi dalla nascita del figlio.Adozione ed affidamento. Al fine di agevolare l'ingresso del bambino nella famiglia e la creazione di stabili legami affettivi, un congedo di tre mesi, con relativa indennità, può essere richiesto dalla lavoratrice, che abbia adottato o abbia ottenuto in affidamento un bambino cittadino italiano di età non superiore a 6 anni o uno straniero fino al compimento dei 18 anni. Il divieto di licenziamento si applicherà fino ad un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare.I congedi parentali. Nell'intento di garantire ad entrambi i genitori di conciliare lavoro con la cura dei figli, la legge ha introdotto appositi “congedi parentali”, spettanti a ciascun genitore e per ciascun bambino, nei suoi primi 8 anni di vita. I genitori possono usufruire del congedo sia separatamente che contemporaneamente. I congedi parentali non possono eccedere il limite complessivo di 10 mesi, ma il diritto è esercitabile da ogni genitore per un periodo (continuativo o frazionato) non superiore a 6 mesi; qualora vi sia un solo genitore egli può godere di congedo per un periodo (continuativo o frazionato) non superiore a 10 mesi. Es. Tizio chiede per la prima volta e con congruo preavviso il godimento di due mesi di congedo parentale al proprio datore di lavoro Caio, per prendersi cura del figlio di due anni, Caio non potrà opporre il suo diniego, né motivandolo col fatto che già la moglie di Tizio impiegata presso di lui sta fruendo d'un congedo bimestrale, né adducendo l'esistenza di un interesse di impresa alla celere conclusione di un lavoro ormai già in corso e per il quale Tizio è ritenuto indispensabile.Il trattamento economico. La lavoratrice madre ed il lavoratore padre hanno, diritto ad un'indennità pari all'30% della retribuzione (corrisposta dall'INPS) fino al terzo anno di vita del bambino e per un periodo complessivo massimo di 6 mesi; mentre dal terzo anno di vita fino all'ottavo e comunque per il residuo periodo di astensione facoltativa, l'indennità è dovuta unicamente ove il reddito individuale del genitore sia inferiore ad una certa soglia minima.Congedi per genitori di disabile. La lavoratrice madre i in alternativa il lavoratore padre di minore con handicap grave, hanno diritto al prolungamento fino a tre anni del congedo parentale a condizione che il bambino non sia ricoverato presso istituti specializzati.Congedi per la malattia del figlio. Entrambi i genitori, ma alternativamente, hanno diritto di assentarsi dal lavoro (però senza retribuzione) per le malattie del figlio, previo certificato medico, con una diversità temporale: nei primi tre anni di vita del figlio per tutta la durata della malattia; dai tre agli otto anni del figlio nel limite di 5 giorni lavorativi all'anno. Inoltre il ricovero ospedaliero del figlio, a richiesta del genitore, interrompe il decorso delle ferie.Sanzioni. Il rifiuto, l'opposizione o l'ostacolo all'esercizio dei diritti esaminati sono puniti con sanzioni amministrative. E' nullo il licenziamento causato fruizione del congedo parentale.4- Servizio militare.

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La garanzia del posto di lavoro è ormai riconosciuta sia nel caso del servizio di leva, cui vengono assimilati il volontariato civile nei Paesi in via di sviluppo, sia nel caso di richiamo alle armi.La garanzia del reddito è prevista, invece, solo per il caso di richiamo alle armi.Va tuttavia, ricordato che il reclutamento su base obbligatoria delle forze armate è stato sospeso a decorrere dal 01/01/2005, sancendo così la sostituzione dei militari in servizio di leva con volontari di truppa.

5- Altri casi di sospensione.Oltre ai casi sopra riportati, esistono altre ipotesi, di origine legale o contrattuale, caratterizzate dalla temporanea interruzione dell'obbligazione lavorativa con diritto alla conservazione dell'occupazione, e talvolta, anche del reddito.Disabili. La legge riconosce al disabile il diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro nel caso di aggravamento delle proprie condizioni di salute.Congedi familiari. Aspettative speciali, con o senza retribuzione, sono previste in occasione di particolari circostanze familiari: morte o malattia di parenti prossimi, matrimonio, ecc.. Il congedo matrimoniale è fissato nella misura di 15 giorni consecutivi retribuiti per tutti i lavoratori (non in prova nel settore privato).Congedi formativi. Il legislatore riconosce ai lavoratori occupati, specifici congedi da godere nell'arco della propria vita lavorativa (L. 53/2000), contemplando due diverse tipologie di congedi:

i congedi per la formazione, c.d. congedi sabbatici , sono finalizzati al completamento della scuola dell'obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro. Si tratta di congedi utilizzabili per coltivare interessi anche totalmente slegati dall'attività professionale. Il congedo per la formazione, comporta la sospensione non retribuita del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro può rifiutare la richiesta del lavoratore ovvero può differirne l'accoglimento nel casi di comprovate esigenze organizzative;

i congedi per la formazione continua, sono, invece, di tipo aziendalistico, con conseguente diritto per i lavoratori, occupati e non occupati, ad intraprendere percorsi formativi per tutto l'arco di vita, così da accrescere conoscenze e competenze professionali. In tal caso, la formazione può corrispondere ad un'autonoma scelta del lavoratore ovvero essere predisposta dall'azienda, attraverso piani formativi aziendali o territoriali concordati con le parti sociali. Essa, ad ogni modo, dovrà essere finalizzata alla valorizzazione delle competenze utilizzate nell'ambito del rapporto di lavoro, essendo funzionale anche all'interesse del datore di lavoro al miglioramento della professionalità dei suoi dipendenti.

Nullità del licenziamento. Il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione dei congedi formativi è nullo.Permessi per motivi di studio. I lavoratori studenti, hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti per sostenere le prove d'esame con l'obbligo di produrre, a richiesta del datore di lavoro, idonea certificazione comprovante tale partecipazione. La norma limita la concessione del permesso al giorno di svolgimento dell'esame, senza affrontare la questione della preparazione e della frequenza dei vari corsi. La contrattazione collettiva nazionale ha, per diversi settori, colmato alcune lacune estendendo il diritto anche oltre il giorno d'esame, per un monte ore complessivo annuale (inizialmente 150 ore, poi esteso a 250 ore).Lavoratori tossicodipendenti. Un periodo di aspettativa della durata massima di tre anni, senza retribuzione, né decorrenza dell'anzianità spetta al tossicodipendente per seguire programmi terapeutici e riabilitativi.Donatori di sangue e di midollo osseo. La legge ha poi riconosciuto ai donatori di midollo osseo e di sangue il diritto a permessi retribuiti;Sospensione consensuale. La sospensione del rapporto può risultare anche dall'accordo individuale

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tra le parti, nel qual caso sarà lo stesso accordo a stabilire le conseguenze circa i diritti e doveri derivanti dal rapporto sospeso.Partecipazione alle operazioni elettorali. La legge ha sancito altresì il diritto ad assentarsi dal lavoro per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni elettorali, incluse le consultazioni referendarie e le elezioni europee, sia per coloro che adempiono funzioni presso gli uffici elettorali, sia per i rappresentanti dei partiti i gruppi politici ed i promotori dei referendum. Tali assenze dal lavoro vanno considerate a tutti gli effetti giorni di attività lavorativa.

B) SOSPENSIONI DIPENDENTI DALL'IMPRESA

1- La Cassa Integrazione Guadagni: l'evoluzione normativaLa Cassa Integrazioni Guadagni (CIG) rappresenta una forma di intervento pubblico sul mercato del lavoro atta a garantire la sopravvivenza dell'impresa, nonché la salvaguardia dell'occupazione e del reddito dei lavoratori durante periodi di contrattazione dell'attività aziendale. Al tempo stesso, la GIG rappresenta un'ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro per fatti inerenti all'impresa.Se si applicasse il diritto comune dei contratti, l'imprenditore sarebbe esonerato dall'obbligo retributivo solo laddove la sospensione della prestazione fosse riconducibile ad una impossibilità sopravvenuta a lui non imputabile. La CIG ha funzioni sia di sostegno all'impresa sia di garanzia del reddito e dell'occupazione, cercando di scongiurare o ritardare il più possibile il rischio di perdita del posto di lavoro.L'evoluzione della disciplina della Cassa Integrazione. La sua evoluzione normativa comporta quattro fasi:

1) La prima caratterizzata da una graduale crescita della Cassa Integrazione, secondo esigenze diverse, in questa fase matura la necessità di estendere oltremodo la CIG: in presenza di una interruzione o contrazione dell'attività aziendale non più solo involontaria e breve in vista una prossima e sicura ripresa, ma anche programmata e lunga senza una prospettiva certa di rioccupazione della forza lavoro;

2) La seconda fase copre gli anni del c.d. diritto dell'emergenza ed in parte del c.d. diritto della crisi segnata da un'espansione senza selezione e senza limiti temporali della CIGS. In tale periodo l'istituto è andato acquisendo un carattere largamente assistenziale.

3) La terza fase è caratterizzata da una ridefinizione del ruolo della GIG fissando come obbiettivo il problema delle eccedenze di personale nel mercato del lavoro. Nella metà degli anni '80 il legislatore interviene su un duplice versante. a) Un primo filone indiretto è dato da misure intese a diminuire il ricorso alla Cassa

integrazione, quali i prepensionamenti;b) Un secondo filone costituito da alcune modifiche della CIGS, nel senso di restringerne

l'ambito. Nonostante tutto ciò , la necessità di una riforma globale resterà immutata. Nel 1991 viene emanata la Legge 223 iniziando la riforma della razionalizzazione della CIG ormai attesa da tempo. L'intervento riguarda la (CIG Ordinaria), nel senso si cerca di renderla più omogenea rispetto a quello straordinario (CIG Straordinario), ma soprattutto la riforma tocca la CIGS al fine di ricondurlo alle sue finalità originarie, di sostegno temporaneo all'impresa. In tale ottica la Cassa Integrazione non dovrebbe essere più l'anticamera dei licenziamenti collettivi.

4) La linearità della riforma operata con la Legge 223/1991 è però subito interrotta dalla successiva sequenza legislativa, che introduce nella CIGS una fitta spesso contraddittoria serie di modifiche. Si tratta di disposizioni che dilatano, in senso soggettivo ed oggettivo l'ambito di applicazione dell'integrazione salariale, prevedendo deroghe provvisorie e poi introducendo numerose proroghe ai rispettivi termini di scadenza. A fronte di una perpetuazione della logica delle proroghe e degli interventi “a pioggia” di tipo assistenziale,

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si registrano recenti impulsi di riorganizzazione del sistema degli ammortizzatori sociali. In tale prospettiva assume rilevanza la rete di protezione sociale apprestata dallo Stato per sostenere il lavoratore in cerca di occupazione che si concentra sulla formazione professionale, sull'indennità di disoccupazione e su quella di mobilità, assottigliando l'integrazione salariale che dovrebbe rappresentare un sussidio solo eccezionale per superare le crisi transitorie di azienda.

La riforma degli ammortizzatori sociali. La proposta di riforma degli ammortizzatori sociali (del Patto per l'Italia del 2002) prospetta un nuovo sistema di tutele attive volto ad incoraggiare ed assistere il lavoratore nel processo di reinserimento nel mercato del lavoro.

2- L'intervento ordinario e straordinario: “cause integrabili”, ambito applicativo, durata e misura dell'integrazione.L'intervento ordinario si presenta come uno strumento micro, di supporto ad un calo produttivo temporaneo, mentre l'intervento straordinario si configura quale mezzo macro, di supporto ad un ridimensionamento produttivo, ricollegabile ad un processo lungo.L'intervento ordinario è dato da:

a) Situazioni determinate da eventi transitori non imputabili all'imprenditore o agli operai;b) Situazioni determinate da situazioni temporanee di mercato.

L'intervento straordinario è dato da:a) ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale;b) crisi aziendale.

L'intervento potrà, essere richiesto dal responsabile della procedura (curatore, liquidatore, commissario) nei casi di fallimento, amministrazione straordinario, o liquidazione coatta amministrativa, in caso di mancanza di continuazione dell'attività (L. 223/1991).Le relative discipline: campi di applicazione. Viene suddivisa nella relativa disciplina:

a) Campi di applicazione: l'intervento ordinario è limitato alle imprese industriali; l'intervento straordinario, invece è concedibile solo all'impresa con più di 15 dipendenti;poiché alcune categorie o settori di impresa sono esclusi dal campo di applicazione della GIG, in attesa di un'organica riforma, il legislatore ha inteso promuovere nuove tipologie di ammortizzatori sociali, da regolare e gestire per via contrattuale. A tal fine è stata prevista la costituzione, mediante contrattazione collettiva, di appositi fondi presso l'INPS;

b) Lavoratori aventi diritto: l'intervento ordinario è rimasto a lungo riservato agli operai; tuttavia la L. 223/1991 ne ha allargato l'ambito ad impiegati e quadri, in modo da farlo coincidere con quello dell'intervento straordinario;

c) Misura dell'integrazione: sia l'intervento ordinario sia lo straordinario corrispondono all'80% della retribuzione per le ore non lavorate, ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. Per entrambi gli interventi è previsto un massimale, rivalutato annualmente.

d) Durata dell'integrazione: l'intervento ordinario è previsto pre 3 mesi continuativi, con eventuali proroghe

trimestrali in casi eccezionali, fino a 12 mesi (l'integrazione, se relativa a più periodi non consecutivi, non può superare complessivamente i 12 mesi in un biennio);

l'intervento straordinario è invece disposto per un tempo diverso, a seconda delle cause integrabili, in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendali, per 2 anni, con eventuali altre 2 proroghe, ciascuna di durata non superiore a 12 mesi.

3- Procedure, erogazione e finanziamento della CIG.Termine della presentazione della domanda. La legge introduce precisi termini di presentazione della domanda, infatti la GIGS, salvo procedure concorsuali, riferita ad un periodo massimo di 12 mesi, va presentata entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in corso al termine della settimana

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in cui ha avuto la sospensione o la riduzione dell'orario, la violazione di questo termine (di decadenza) preclude la possibilità di ottenere il trattamento per periodi eccessivamente lontani da verificarsi della causa integrabile.Procedure di consultazione sindacale. L'informazione e la consultazione sindacale è necessaria ai fini dell'ammissibilità della domanda di Cassa integrazione. Per l'intervento ordinario la sequenza procedurale è duplice :

Nei casi di eventi oggettivamente non evitabili, è prevista una comunicazione successiva alle RSA (o RSU)ovvero, in mancanza, alle OO.SS. Provinciali di categoria più rappresentative (oppure a richiesta un esame congiunto che deve terminare entro 5 gg, per sospensioni e riduzioni dell'orario superiori a 16 ore settimanali);

Negli altri casi di contrattazione o sospensione dell'attività produttiva è invece prevista una comunicazione preventiva alle RSA (o RSU) e alle OO.SS. Provinciali di categoria più rappresentative (oppure a richiesta un esame congiunto che deve terminare entro 25 o 10 gg, a seconda che il numero di dipendenti sia superiore o inferiore alle 50 unità).

Per l'intervento straordinario: Si sancisce in ogni caso un obbligo di comunicazione preventiva che l'imprenditore è

chiamato ad adempiere tempestivamente nei confronti delle RSU o, in assenza, delle OO.SS. provinciali comparativamente più rappresentative.

Procedura amministrativa. Conclusa la fase di consultazione sindacale, nell'intervento ordinario la domanda di messa in Cassa o di eventuali proroghe si sviluppa presso la sede provinciale dell'INPS.Il programma di CIGS e il Decreto ministeriale di concessione. Nel caso di intervento straordinario, la domanda è inoltrata al Ministero del Lavoro previo parere motivato della Regione. La richiesta deve contenere il programma che l'impresa intende attuare.Al Ministero è attribuita la competenza di approvare il programma con Decreto e di concedere il trattamento di integrazione salariale (nel termine di 30 gg dalla ricezione della domanda o 60 per i periodi succ. ai 12 mesi, escluso il caso di crisi aziendale in cui i termini si allungano).

4- Criteri di scelta, rientro in azienda, ricollocamento dei lavoratoriIl Criterio di scelta. Ai sensi della L. 223/1991, i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere, devono formare oggetto della comunicazione e dell'esame congiunto con i sindacati. La previsione conferma l'opinione per cui i criteri di scelta adottati nella GIG sono distinti da quelli previsti per i licenziamenti collettivi, in quanto i cassintegrati al termine del periodo rientrano in azienda, mentre solo per i lavoratori licenziati per violazione dei criteri di selezione è prevista la reintegrazione.In pratica, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, operano i seguenti principi: i criteri CIG, devono essere obiettivi e razionali, rispettare i principi di correttezza, equità e buona fede e, comunque, evitare qualsiasi discriminazione.Il criterio della rotazione. La vera novità della L. 223/1991 è la rotazione fra i lavoratori sospesi. Infatti il legislatore la considera una regola da applicare nella singola unità produttiva interessata alle sospensioni o alle medesime mansioni (regola suscettibile di eccezioni se sussistono regioni tecnico-organizzative). Il datore non è tenuto alla rotazione anche se i motivi di impedimento devono essere comunicati alle OO.SS. ed indicati nel programma CIG: il Ministro del lavoro, se li riterrà ingiustificati, promuoverà l'accordo fra le parti o, in mancanza, imporrà con Decreto il meccanismo della rotazione sulla base delle proposte delle parti.Il ricollocamento. Il legislatore è intervenuto anche per fornire i lavoratori cassintegrati il ricollocamento attraverso, sgravi contributivi, destinati alle imprese che li assumono, in particolare quelle del Mezzogiorno. La legge promuove poi, la costituzione di Cooperative di produzione e lavoro tra cassintegrati con trasferimento dell'azienda in crisi agli stessi.L'impiego dei cassintegrati. Il lavoratore cassintegrato può svolgere attività di lavoro autonomo o subordinato, ma deve darne preventiva comunicazione alla sede provinciale INPS, con conseguente

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perdita dell'integrazione per le sole giornate di lavoro effettuate. In mancanza di tale comunicazione il lavoratore decade dal diritto di integrazione e a sua volta l'eventuale datore è tenuto a versare una somma a titolo di penale. Il lavoratore decade altresì in caso di mancata frequenza dei corsi di formazione professionale.

CAPITOLO X

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LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

A) IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

1-Le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro.L'estinzione del rapporto di lavoro può avvenire:

a) per recesso del datore di lavoro (licenziamento) o per recesso del lavoratore (dimissioni);b) per risoluzione consensuale, in questo caso non opera la disciplina limitativa del

licenziamento;c) per scadenza del termine, nei contratti di lavoro a tempo determinato;d) per altre particolari circostanze specificatamente previste dalla legge (es. mancato ritorno in

azienda del lavoratore dopo il servizio militare, dopo la reintegrazione)e) per morte del lavoratore (salvo determinati oneri economici in favore dei superstiti)f) si discute se possano configurare autonoma causa di risoluzione, disciplinata dalle regole

generali del diritto contrattuale, la impossibilità sopravvenuta della prestazione e la forza maggiore. In proposito si distingue tra: ipotesi riguardanti l'impresa (o il datore), come il c.d. factum principis (ad es.

requisizione amministrativa di un'azienda, ordine dell'autorità di evacuare i locali aziendali, divieto di svolgere uno spettacolo), i fenomeni naturali (es. inondazioni, terremoti, ecc. che abbiano distrutto i locali aziendali), lo stato di guerra;

ipotesi concernenti la persona del lavoratore, la carcerazione del lavoratore, l'accertamento sanitario di assoluta idoneità al lavoro.

L'opinione prevalente ritiene che l'impossibilità sopravvenuta e la forza maggiore rilevino come cause estintive nei limiti in cui configurino un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

2-Il recesso nella disciplina del codice civile.In origine la materia era affrontata nel quadro di una filosofia puramente liberale (codice civile del 1865), ma il principio liberistico ha trovato svolgimento nell'art. 2118 c.c. del 1942 secondo cui “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, senza fornire alcuna motivazione” (c.d. recesso ad nutum). Il recesso ad nutum si collegava a vari principi:

a) pareva garantire la libertà individuale dei contraenti nei confronti di vincoli contrattuali;b) garantiva una presunta “eguaglianza” tra le parti del rapporto;c) allineava la risoluzione del rapporto di lavoro a quella di ogni altro contratto;d) creava una logica simmetrica tra la costituzione e la cessazione del rapporto di lavoro, nel

comune segno della libera determinazione ad opera della volontà delle parti.L'obbligo del preavviso. L'unico vincolo per il recedente, ai sensi della disciplina codicistica è ancora oggi, quello di dare alla controparte regolare preavviso.La ratio dell'istituto è quella di consentire al datore, in caso di dimissioni, la tempestiva sostituzione del lavoratore ed al lavoratore, in caso di licenziamento, la possibilità di ricerca di altra idonea occupazione.L'eccezione per giusta causa. L'obbligo del preavviso viene meno in caso di licenziamento per giusta causa come recita l'art. 2119 c.c. “non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”.Dimissioni per giusta causa. Tuttavia nel caso di dimissioni sorrette da giusta causa, cioè da gravi comportamenti del datore, il lavoratore è esonerato dall'obbligo del preavviso, ma ai sensi dell'art. 2119 c.c. il lavoratore ha altresì diritto ad un'indennità sostitutiva del preavviso.Durata del preavviso. La durata del preavviso non è predeterminata dal codice civile, che sul punto rinvia alla contrattazione collettiva e, in mancanza, agli usi o all'equità (i contratti collettivi individuano misure differenti a seconda della categoria di appartenenza).

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Malattia. L'art. 2110 c.c. recita, il lavoratore in malattia non può essere licenziato fino alla cessazione dello stato morboso o alla scadenza del periodo di comporto, per cui la malattia sopravvenuta durante il periodo di preavviso, ne sospende il decorso.Indennità sostitutiva del preavviso. L'art. 2118 c.c. autorizza la parte che recede dal rapporto di lavoro a sostituire il periodo di preavviso con la relativa indennità, pari alla retribuzione che sarebbe spettata in ipotesi di preavviso lavorato, che viene calcolata in un numero di mensilità o di giorni stabilito dai contratti collettivi, con l'esclusione del rimborso spese.La c.d. realità del preavviso . La mera sostituzione del preavviso con l'indennità, non è però idonea a produrre l'anticipata risoluzione del rapporto, il quale resta giuridicamente attivo fino al termine del periodo di preavviso, sicché eventuali incrementi retributivi, intervenuti in quel periodo, producono effetti in favore del lavoratore, tuttavia è lecito l'accorso, mediante il quale il datore ed il lavoratore prevedano la risoluzione immediata del rapporto, precludendo istantaneamente la maturazione di ulteriori vantaggi economici e normativi.Fallimento e liquidazione coatta amministrativa. L'art. 2119 c.c. esclude che il fallimento o la liquidazione coatta, integrino una giusta causa di licenziamento. Pertanto la dichiarazione di fallimento e l'inizio della procedura di liquidazione coatta amministrativa non comportano automaticamente la cessazione dell'attività dell'impresa, anzi è espressamente previsto che all'esercizio provvisorio dell'impresa, possa essere autorizzato il curatore del fallimento o liquidatore. In tal caso i rapporti di lavoro continuano regolarmente ed il licenziamento potrà essere intimato soltanto se si verifica un inadempimento dei lavoratori ovvero se l'attività aziendale venga realmente a cessare. A conferma di questa ricostruzione l'art. 3 L. 223/1991 prevede qualora l'attività non continui neppure in parte, la possibilità di innestare sull'iter fallimentare un licenziamento collettivo o una procedura di mobilità.

3-L'introduzione della regola della necessaria giustificazione del licenziamentoSe dal piano astratto e paritario il diritto contrattuale nella realtà le dimissioni del lavoratore creano al datore il mero fastidio di una sostituzione, il licenziamento costituisce generalmente per il lavoratore un dramma in ragione della difficoltà di reperirne un altro, in un mercato del lavoro ostile. Con l'avvento della Carta Costituzionale, l'ostilità recepita dal codice civile, generò l'auspicio che si affermasse il divieto dei licenziamenti immotivati.La Legge 604/1996. Una specifica legge sui licenziamenti individuali fu tuttavia varata nel 1996 la n° 604, facendo però rimanere intatta la disciplina delle dimissioni, cui continuava ad applicarsi la normativa codicistica. Cosicché la L. 604/1996 canonizzò il principio della giustificazione obiettiva del potere di recesso, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. L'art. 5 della L. 604 pose l'onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo a carico del datore di lavoro, chiamando così a supportare anche sul piano probatorio la legittimità del recesso. L'art. 8 previde l'ipotesi di licenziamento non assistito da giusta causa o da giustificato motivo un regime sanzionatorio:

Riassunzione del lavoratore o a scelta del datore, pagamento di una penale risarcitoria ragguagliata ad un numero di mensilità di retribuzione.

Nei fatti i datori di lavoro optavano quasi sempre per il pagamento dell'indennità risarcitoria. In sostanza, il licenziamento ingiustificato veniva salvaguardato dal potere del datore di lavoro di estinguere anche immotivatamente il rapporto, salva l'efficacia dissuasiva dell'onere economico.Soltanto per i licenziamento di rappresaglia determinati cioè da ragioni ideologiche, religiose, politiche, sindacali, veniva apprestato ad un regime di più radicale nullità.Art. 18 Statuto dei Lavoratori. Un decisivo passo avanti sul piano di una tutela effettiva della stabilità del posto di lavoro è stato compiuto con l'art. 18 Stat. Lav. Infatti, allorquando il Giudice ritenga che il licenziamento non sia assistito da giusta causa o da giustificato motivo deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza alcuna possibilità alternativa di tipo risarcitorio ovvero senza alcuna possibilità di monetizzare la stabilità del rapporto. Oltre alla

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reintegrazione il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore, commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione. In sostanza il datore di lavoro può anche non reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore ingiustamente licenziato, ma dovrà continuare a pagargli ininterrottamente una indennità pari alle retribuzioni correnti, con ciò realizzandosi un forte incentivo alla effettiva reintegrazione ed utilizzazione del lavoratore. Soltanto il lavoratore potrà liberare il datore dalla reintegra e dall'obbligo risarcitorio, chiedendo in sostituzione della reintegrazione una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione, ovvero non riprendendo servizio nel termine di 30 gg dall'invito rivoltogli dal datore di lavoro, in tale ultimo caso il rapporto si intende risolto allo spirare dei 30 giorni.La disciplina dell'art. 18 si applica ai datori di lavoro e alle unità produttive che superano determinate soglie occupazionali, esso ha anche esteso la disciplina ai licenziamenti per rappresaglia ed ai licenziamenti inefficaci per vizio di forma.

4-La giusta causaL'art. 2119 c.c. autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. In tale ipotesi, come anticipato , la parte recedente non è tenuta a dare il preavviso. Parte della dottrina e della giurisprudenza ravvisa la giusta causa non soltanto in un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali, ma anche in qualsiasi altra circostanza o situazione esterna al rapporto di lavoro, verificatasi nella sfera del lavoratore ed idonea a ledere il vincolo di fiducia perciò ad impedire la prosecuzione del rapporto.Da altri la giusta causa viene identificata esclusivamente con un vistoso inadempimento degli obblighi contrattuali, imputabile a colpa o dolo del prestatore.L'art. 9 della legge sull'impiego privato (R.D.L. 1825/1924), alludeva ad “una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”, mentre il codice civile del 1942, pur ripetendo l'antica formula, ha sostituito il termine “mancanza” con quello più ampio e neutro di “causa”.Elasticità della giusta causa. Ai fini della sussistenza della giusta causa, non è sufficiente una valutazione in astratto, ma occorre, che la mancanza commessa, per le sue modalità soggettive ed oggettive, si riveli talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto. Con riguardo alle c.d. organizzazioni di tendenza tipicamente orientate al perseguimento di finalità ideologiche (partiti politici, sindacati, giornali politicamente orientati), il concetto di giusta causa, viene reso più elastico sino a ricomprendere situazioni di incompatibilità personale, rispetto agli scopi o all’ideologia dell’organizzazione, giacché in tal caso il profilo fiduciario attiene strettamente al contratto di lavoro ed alle obbligazioni assunte.La giusta causa consiste in un fatto di tale gravità, da imporre l’immediata estromissione del prestatore di lavoro, mentre resta ininfluente l’effettivo pregiudizio o danno subito dal datore: ad es. nel caso di un guardiano che si allontani, magari più volte, dal luogo o dall’oggetto da custodire, si è ritenuta configurabile giusta causa a prescindere dal verificarsi in concreto di episodi di furto o danneggiamento. Sovente i contratti collettivi provvedono ad elencare i fatti definibili in concreto come giusta causa. Dottrina e giurisprudenza sono orientate a negare la vincolatività di tali elencazioni, in quanto non esimono il giudice dall’indagare sulla reale entità e gravità della mancanza (nel caso specifico) ai fini dell’eventuale prosecuzione del rapporto: un addebito, pur qualificato come giusta causa dal contratto collettivo, può non esserlo in concreto, tenuto conto delle più diverse circostanze di fatto.Viceversa, altro fatto può essere considerato come giusta causa dal giudice pur se non risulta ricompreso tra quelli espressamente contemplati nel contratto collettivo, restando sovrana la prudente valutazione del magistrato.La pendenza di un procedimento penale a carico del lavoratore non rappresenta di per sé giusta

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causa: ciò che rileva è invece il fatto oggetto dell’imputazione, che può integrare giusta causa di licenziamento a seconda dell’incidenza sull’aspettativa o probabilità di adempimento.Taluni contratti collettivi richiedono che il fatto sia stato accertato in sede penale con sentenza passata in giudicato. Nel vigore del c.c., l’orientamento prevalente ammetteva la conversione del licenziamento intimato per giusta causa, poi considerata insussistente, il licenziamento ad nutum con pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.

5-Il giustificato motivo soggettivoLa definizione del giustificato motivo, che può essere soggettivo o oggettivo, è contenuta nell’art 3 L. n. 604/1966. Il giustificato motivo soggettivo si realizza quando il prestatore di lavoro incorre in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che legittima il licenziamento con preavviso, così da differenziarsi dalla giusta causa che, come visto, esclude il preavviso in quanto non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.Per chi ritiene che il concetto di giusta causa identifichi soltanto un inadempimento contrattuale, il giustificato motivo si caratterizzerebbe per la minore gravità dell’inadempimento capace di consentire la prosecuzione del rapporto. Chi, viceversa, sostiene che la giusta causa abbracci quei comportamenti extracontrattuali idonei a ledere la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti, dovrà concludere che la differenza è anche qualitativa. La giusta causa comprende sia ipotesi di giustificato motivo “aggravato”, sia fatti o comportamenti estranei ad un inadempimento “attuale”.L’inadempimento può riguardare solo gli obblighi discendenti dal contratto di lavoro, cioè i corollari della diligenza, nonché gli obblighi di correttezza e buona fede, di non divulgazione di notizie aziendali e di non concorrenza.Peraltro solo un inadempimento notevole integra gli estremi del giustificato motivo. Il criterio di identificazione del carattere notevole dell’inadempimento va individuato nel grado di colpa del lavoratore e non nell’unità del datore compromessa dall’inadempimento. In ogni caso ampia è la discrezionalità del giudice nel classificare un determinato inadempimento come giusta causa di licenziamento (presupposto di risoluzione immediata) o come giustificato motivo soggettivo (produttivo di estinzione solo al termine del periodo di preavviso).Il legislatore ha espressamente escluso la configurabilità di un giustificato motivo di licenziamento nel caso di rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Con riguardo al lavoro part-time, è stato stabilito che l’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare richiede il consenso del lavoratore interessato, e che l’eventuale rifiuto dello stesso non integra gli estremi del giustificato motivo di licenziamento. Parimenti il rifiuto da parte del lavoratore di stipulare il patto concernente le c.d. clausole flessibili non può integrare in nessun caso gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.

6-Il giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art 3 L. n. 604/1966, consiste in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, e legittima il recesso del datore di lavoro sempre nel rispetto del periodo di preavviso.Tale formula riguarda ad es. la riduzione di commesse, perdite in bilancio, o profili concernenti più strettamente le modalità del produrre ad es. l’organizzazione del lavoro.Nel contrasto tra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e quello del datore di espellere unità lavorative realmente non più funzionali, è il secondo a prevalere. Due sono però le condizioni richieste:

L’effettività delle esigenze aziendali richiamate nella motivazione del licenziamento; Un preciso nesso di causalità tra tali esigenze ed il licenziamento.

Il giudice deve accertare l’effettiva soppressione di una posizione lavorativa all’interno dell’azienda. Le ipotesi che possono legittimare la soppressione del posto ricalcano le causali del licenziamento collettivo, ossia la riduzione o trasformazione di attività o di lavoro.

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È opinione largamente prevalente che il giudice non può valutare la convenienza economica, ma solo verificarne la concreta attuazione.In sede giudiziale è possibile verificare la coerenza del licenziamento rispetto alla modifica organizzativa, alla stregua delle comuni regole tecniche di buona organizzazione. Sarebbe ingiustificato un licenziamento che non appaia come conseguenza razionale rispetto alla scelta tecnico-organizzativa, ovvero non sia legato da uno stretto nesso di causalità.Di massima si ritiene che il licenziamento risulti assistito da un giustificato motivo oggettivo soltanto allorquando il lavoratore non possa essere utilizzato su posizioni di lavoro alternative e tende a collocare il licenziamento in un’area di extrema ratio.Secondo la giurisprudenza prevalente le assenze del lavoratore per carcerazione preventiva non integrano una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo del licenziamento, ma possono determinare una sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione, la cui idoneità estintiva del rapporto va valutata in relazione alle dimensioni dell’impresa, alla durata ragionevolmente prevedibile dell’assenza, alla fungibilità delle mansioni del lavoratore detenuto.Ai sensi dell’art 102 bis del cod. proc. pen., sul datore di lavoro grava l’obbligo di reintegrare il lavoratore licenziato per essere stato sottoposto a misure cautelari (carcerazione preventiva o arresti domiciliari) qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione.La Suprema Corte a Sezioni Unite ha escluso che le assenze per malattia possano essere qualificate giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

7.1-Il licenziamento discriminatorioLa fattispecie del licenziamento discriminatorio trae origine dal coordinamento delle previsioni contenute sia nell’art 4 L. 604/1966, secondo cui il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta, sia nell’art 3 St. lav. che stabilisce la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a licenziare un lavoratore a causa della sua affiliazione o attività sindacale, ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero,nonché dei licenziamenti attuati a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua.

7.2-I periodi di irricedibilitàIl potere di recesso del datore, incontra anche limiti temporali. Tali limitazioni sono elencate nell'art. 2110 c.c., che attiene all'impossibilità sopravvenuta per malattia, infortunio, gravidanza e puerperio.Il licenziamento intimato durante il comporto. Se il licenziamento viene intimato nel corso del periodo di comporto, dottrina e giurisprudenza dominanti lo considerano inefficace significando che il licenziamento riprenderà efficacia solo al termine dell'evento protetto o del periodo d'irricedibilità.Non manca però chi ne afferma la nullità per motivo illecito sostenendo l'applicazione delle conseguenze sanzionatorie dell'art. 18 St. Lav.Il licenziamento al termine del comporto. Sugli effetti dell'impossibilità della prestazione che perduri oltre il periodo di comporto dottrina e giurisprudenza hanno espresso opinioni diverse.

Secondo un opinione minoritaria sarebbe applicabile il meccanismo della risoluzione automatica del rapporto;

Secondo un altro orientamento, il datore di lavoro potrebbe licenziare solo se il protrarsi dell'impossibilità integri un giustificato motivo oggettivo determinato da un concreto impedimento al regolare funzionamento dell'azienda, da valutare caso per caso.

Matrimonio. L'irricedibilità è stabilita dal legislatore anche nei periodi che precedono e seguono immediatamente il matrimonio della lavoratrice. L'art. 1 della L. 7/1963, afferma il divieto al licenziamento della lavoratrice dal momento delle pubblicazioni fino ad un anno dopo la

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celebrazioni del matrimonio. Sono ritenute nulle le dimissioni rassegnate nel medesimo periodo, a meno che esse non vengano confermate entro un mese presso l'Ufficio del Lavoro, esso è imposto per bloccare qualsiasi valutazione dal datore di lavoro circa la convenienza dell'ulteriore occupazione della lavoratrice, nel timore di una futura maternità o più in generale della minore disponibilità della lavoratrice per il suo status familiare. Nel sancire la nullità del licenziamento, stabilisce che alla lavoratrice licenziata per causa di matrimonio spetta la retribuzione dal licenziamento fino all'effettivo ripristino del rapporto.Maternità e paternità. Un divieto generale di licenziamento è contemplato, a pena di nullità, dell'art. 54 D.Lgs. 151/2001 anche per la lavoratrice madre a per il lavoratore padre, rispettivamente dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine del congedo di maternità o paternità, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino.Il lavoratore licenziato deve presentare al datore di lavoro idonea documentazione dalla quale risulti l'esistenza all'epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano.Il divieto di licenziamento non si applica nel caso:

a) di colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto;b) di cessazione dell'attività dell'azienda;c) di ultimazione della prestazione per la quale si è stati assunti;d) per la risoluzione del rapporto per la scadenza del termine;e) esito negativo della prova.

Nell'ipotesi di adozione e di affidamento il divieto di licenziamento si applica fino ad un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare.Operatività del recesso per giusta causa. La previsione d'irricedibilità non esclude la possibilità del licenziamento per giusta causa, ma solo del recesso ad nutum e di quello per giustificato motivo. Ovviamente nei periodi d'irricedibilità la giusta causa può riguardare solo la violazione degli obblighi accessori (svolgimento di attività lavorativa presso terzi incompatibile o in concorrenza).Cessazione dell'attività aziendale. L'unico fatto oggettivo ritenuto capace di estinzione durante il comporto è la cessazione dell'attività aziendale, che determina l'impossibilità materiale della prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

8-La forma e la procedura di irrogazione del licenziamento.La presenza dei requisiti sostanziali per giusta causa o giustificato motivo è condizione necessaria, ma non sufficiente, occorre, infatti, che il licenziamento venga irrogato secondo ben precise modalità a garanzia del lavoratore.

8.1-Il licenziamento non disciplinare.Forma e procedura. Il licenziamento deve essere comunicato per iscritto al lavoratore, non è necessaria l'indicazione dei motivi, i quali possono essere richiesti dal lavoratore entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento; in tal caso il datore di lavoro è tenuto ad esplicitarli per iscritto entro 7 giorni dalla richiesta. Diversa è la procedura di irrogazione del licenziamento disciplinare.Eccezioni. Solo per i lavoratori domestici, per i lavoratori oltre i 60 anni in possesso dei requisiti

pensionistici, per i lavoratori in prova permane un principio di libertà di forma, nel senso che il licenziamento può essere intimato oralmente e senza motivazione.Dirigenti. Nel licenziamento dei dirigenti è obbligatoria la forma scritta ma non l'obbligo di motivazione.Comunicazione. Il licenziamento, in quanto atto unilaterale recettizio; produce effetto dal momento in cui perviene a conoscenza del lavoratore (art. 1334 c.c.) e ciò rileva a vari fini (decorrenza del termine per la richiesta dei motivi da parte del lavoratore, decorrenza del termine di decadenza per l'impugnativa del licenziamento ex art. 6, L. n. 604/1966, ecc.). L'onere della forma scritta è rispettato anche nel caso in cui il datore di lavoro offra in consegna

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lettera di licenziamento al dipendente che rifiuti di riceverla, dovendo in questo caso il datore fornire la prova per testimoni dell'episodio. L'atto si reputa altresì conosciuto nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, salva la prova della impossibilità incolpevole di effettiva conoscenza.Sanzioni: tutela reale e tutela di diritto comune. Il licenziamento carente di forma o di motivazione (se richiesta), resta assoggettato alla medesima disciplina del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo (reintegrazione + risarcimento ragguagliato ad almeno 5 mensilità di retribuzione): in tal senso depone lo stesso art. 18 St. lav. Il licenziamento viziato nella forma viene qualificato dalla L. n. 604/1966 come inefficace. Dottrina e giurisprudenza prevalenti sostengono che dall'inefficacia derivino l'improduttività di effetti giuridici del licenziamento ed il diritto del lavoratore ad ottenere il risarcimento del danno, commisurato alle mancate retribuzioni fino al concreto ripristino del rapporto di lavoro.Rinnovazione del licenziamento. Il licenziamento viziato per ragioni di forma può essere rinnovato osservando le modalità prescritte e la cessazione del rapporto si produrrà solo a momento della rinnovazione.

8.2- Il licenziamento disciplinare.Più articolata è la procedura di irrogazione del licenziamento disciplinare, essa è l'espressione dell'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, in quanto non bastano la mera comunicazione del licenziamento e l'eventuale successiva specificazione dei motivi, ma occorre rispettare gli oneri processuali art. 7 St. lav. Prevede. Gli oneri sono:

l'affissione del codice disciplinare in luogo accessibile ai lavoratori; la contestazione per iscritto degli specifici addebiti mossi al lavoratore; la concessione di un termine al dipendente per presentare le proprie giustificazioni; la previsione di una pausa di riflessione (5 giorni) tra la contestazione dell'addebito e

l'applica provvedimento disciplinare.La tesi “ontologica”del licenziamento disciplinare. La sentenza n. 204/1982 della Corte Costituzionale, puntualizza che il licenziamento deve ritenersi disciplinare quando sia correlato ad un comportamento imputabile a titolo di colpa al lavoratore, essendo irrilevante la sua esplicita previsione nella specifica disciplina (collettiva o individuale). Secondo tale impostazioni (c.d. ontologica) il licenziamento disciplinare copre quindi per intero l'area del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e quasi totalmente quella del licenziamento per giusta causa.Tuttavia, secondo un successivo orientamento della Corte di Cassazione, la mancata affissione del codice disciplinare non inficia la legittimità del licenziamento quando i fatti addebitati al dipendente configurino illeciti penali o gravi violazioni di doveri fondamentali del lavoratore poiché in tali ipotesi, il lavoratore non rischia di incorrere in sanzioni per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze.Della tutela obbligatoria e del recesso ad nutum. La giurisprudenza è giunta a ritenere, che il licenziamento disciplinare che presenti vizi di procedura non è affetto da nullità, ma produce gli effetti propri del licenziamento illegittimo per carenza dei presupposti giustificativi ai sensi dell'art. 8, L. n. 604/1966 (che prevede la scelta del datore tra riassunzione del lavoratore e pagamento di un'indennità).

9-L'impugnativa del licenziamento.La Legge 604/1966 stabilisce che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione ovvero dalla comunicazione dei motiviove questa non sia contestuale a quella del licenziamento. La decadenza è ritenuta applicabile al licenziamento ingiustificati, a quello nullo, al licenziamento disciplinare viziato per mancato rispetto del procedimento previsto (art. 7 St. lav).

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Interruzione e decadenza. II termine è insuscettibile di interruzione o di sospensione, solamente la comunicazione al datore di lavoro della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, sospende il decorso di ogni termine di decadenza per la durata di tale tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione Impugnativa extragiudiziale. L'impugnativa può essere extragiudiziale e tale viene considerato ogni atto scritto mediante il quale il lavoratore a prescindere da formule sacramentali manifesta inequivocabilmente al datore la volontà di contestare legittimità del recesso. Evitata così la decadenza, il prestatore ha la possibilità di agire in giudizio nel termine di prescrizione. L'impugnativa giudiziale. Tuttavia può accadere che il lavoratore impedisca la decadenza direttamente attraverso l'impugnativa giudiziale. In questa ipotesi parte della giurisprudenza riteneva sufficiente il deposito del ricorso in cancelleria nei termini previsti. Più correttamente la Cassazione a Sezioni Unite, asserisce che per evitare la decadenza del diritto all'impugnazione non basta solo il deposito, ma anche la notifica del ricorso al datore di lavoro che devono avvenire entro i 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento.Soggetti legittimati all'impugnativa. Legittimati all'impugnativa sono l'organizzazione sindacale, e la lettera di un legale cui sia stato conferita un incarico scritto (non vale a precludere la decadenza la lettere del legale senza conferimento dell'incarico in forma scritta da parte del lavoratore) .Tentativo obbligatorio di conciliazione. L'art. 5 della L. n. 108/1990 ha previsto che il lavoratore interessato a far valere in giudizio la illegittimità del licenziamento deve preventivamente promuovere un tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale, secondo le procedure previste dai contratti collettivi, ovvero innanzi alla commissione di conciliazione, istituita presso l'ufficio provinciale del lavoro, ovvero ancora in sede sindacale. In mancanza del tentativo di conciliazione, il giudice adito, nella prima udienza, sospende la controversia e fissa un termine non superiore a 60 giorni onde consentire l'attivazione del tentativo medesimo. Sull'esito di tale tentativo incide l'obbligo del giudice di valutare, ai fini della condanna alle spese processuali, il comportamento complessivo tenuto dalle parti durante la fase conciliativa. Il procedimento di conciliazione si conclude con un verbale che sancisce il successo o l'insuccesso del tentativo.

a) Nel caso in cui la conciliazione è favorevole il verbale di conciliazione, è inoppugnabile;b) Se il tentativo di conciliazione fallisce,

1. datore e lavoratore hanno facoltà di promuovere un arbitrato per la soluzione della vertenza: il Collegio arbitrale sarà costituito da un rappresentante scelto da ciascuna parte e da un presidente scelto d'accordo o dal direttore dell'ufficio provinciale del lavoro. Il lodo arbitrale, depositato acquista efficacia di titolo esecutivo.

2. Oppure entrambe le parti possono non promuovere o non aderire alla procedura arbitrale, rivolgendosi direttamente al giudice.

Il tentativo di rilanciare forme di composizione stragiudiziale delle controversie trova giustificazione nell'intento legislativo di favorire, negli ambiti produttivi più ristretti, decisioni equitative

10. L'onere della prova.L'onere dell prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro. Il lavoratore licenziato viene considerato ex lege in situazione di debolezza processuale, stante la maggiore difficoltà di disporre degli elementi di prova in ordine alla non sussistenza di un motivo legittimo di licenziamento. Nessuna giustificazione deve invece essere fornita laddove sia ancora legittimo il recesso ad nutum. La prova del motivo illecito. Altra ipotesi di rilievo attiene alla ripartizione dell'onere della prova nel licenziamento nullo, determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali. In questo caso il datore di lavoro deve

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porre a fondamento del licenziamento una semplice ragione giustificativa (giusta causa o giustificato motivo, oppure la ricorrenza di un'ipotesi di licenziamento collettivo, ecc.), mentre il lavoratore deve eventualmente eccepire (e provare) la ricorrenza, di reali ragioni di discriminazioni politica, sindacale o religiosa.Si tratta di una prova difficile giacché il lavoratore dovrebbe essere in grado di dimostrare la destinazione a fini discriminatori di licenziamenti che si presentano apparentemente giustificati. La prova del licenziamento orale. Infine occorre considerare il caso del lavoratore che agisce in giudizio per ottenere la declaratoria di inefficacia del licenziamento per carenza di forma scritta o per mancata o intempestiva comunicazione dei motivi richiesti.Il datore di lavoro in non pochi casi può essere indotto ad opporre che il rapporto si è in realtà interrotto in forza di dimissioni presentate oralmente dal lavoratore. In tale ipotesi, è il lavoratore che si fa attore in giudizio contestando l'illegittimità del licenziamento orale, spetta a questi provare che esso si è effettivamente verificato nella realtà e che non si è dunque trattato, come asserisce l'imprenditore, di dimissioni.

11. Il regime sanzionatorio del licenziamento invalido.Per il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, è previsto un doppio, alternativo regime sanzionatorio:

quello della c.d. tutela obbligatoria, delineato dall'art. 8 della L. n. 604/1966 che si applica ai datori che non superano determinate soglie occupazionali

quello della c.d. tutela reale, delineato dall'art. 18 St. lav., che si applica al sopra di tali soglie occupazionali.

11.1-La tutela obbligatoria.Secondo l'art. 8 della L. n. 604/1966 dall'annullamento del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo discende un'obbligazione alternativa a carico del datore di lavoro «il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa (se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro), all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro.

1) Per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 10 anni, la misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità;

2) Per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni può essere maggiorata fino a 14 mensilità.

11.2-La tutela realeDiverso è invece il regime sanzionatorio del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo delineato dall'art. 18 St. lav. ed operante per i datori di lavoro che presentino maggiori livelli occupazionali. Introducendo un sistema di stabilità reale, l'art. 18 considera il rapporto di come non interrotto dal licenziamento ingiustificato, che ne impedisce giuridicamente la sola funzionalità di fatto; più in particolare la norma prevede:

la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; il risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento ingiustificato,

risarcimento la cui misura comunque non potrà essere inferiore a 5 mensilità, anche se dal licenziamento alla reintegrazione sia trascorso un periodo di tempo minore.

Questo regime sanzionatorio è esteso alle ipotesi di nullità del licenziamento determinato da ragioni discriminatorie nonché alle ipotesi di inefficacia del licenziamento per vizi formali o procedurali nelle imprese di maggiori dimensioni.a) L'ordine di reintegrazione

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Secondo una prima lettura, nel sistema dell'art. 18 St. lav. l'ordine di reintegrazione sarebbe quasi superfluo o avrebbe un valore meramente «etico» in quanto il rapporto di lavoro, interrotto solo di fatto dall'illegittimo licenziamento, non richiede in alcun modo di essere ripristinato, poiché esso prosegue automaticamente a seguito dell'accertamento dell'invalidità del recesso datoriale.Attuazione coattiva della reintegrazione. Secondo una prima e prevalente opinione, non sarebbe suscettibile di esecuzione forzata per una fondamentale ragione di principio: l'ordine imporrebbe, al datore di lavoro un obbligo di fare infungibile. Nessuno potrebbe in sostanza imporre al datore di reintegrazione effettiva del lavoratore.La prevalente giurisprudenza sembra comunque orientata a negare l'esecuzione forzata dell'obbligo di reintegra e a riconoscere nei fatti al datore la possibilità di non ottemperare a tale obbligo e di lasciare inutilizzato il lavoratore pur regolarmente retribuito. Invito a riprendere servizio. Se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito rivolto dal datore di lavoro il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei 30 giorni, salvo un giustificato motivo di assenza. La reintegrazione deve avvenire nello stesso posto occupato al momento del licenziamento. Nulla impedisce che successivamente alla reintegrazione il datore di lavoro adibisca il lavoratore a diverse mansionib) Il risarcimento del dannoIl giudice, quando emette sentenza di reintegra nel posto di lavoro, condanna il datore «al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento stabilendo un'indennità (e comunque non inferiore a 5 mensilità di retribuzione) nonché al versamento dei contribuiti assistenziali e previdenziali maturati nel medesimo lasso temporale.L'aliunde perceptum. L'applicazione rigida di norme, valevoli a stabilire la quantità di indennizzo, induce a considerare maggiormente gli elementi variabili del caso concreto, rendendo l'indennità suscettibile di variazione. A tal proposito possono verificarsi due ipotesi:

1) Quella a favore del datore di lavoro, quando il lavoratore ha percepito compensi da altri datori di lavoro (in tal caso l'aliunde perceptum, assume una valenza compensatrice);

2) Quella a favore del lavoratore, quando dimostri di aver subito pregiudizi ulteriori al di della perdita della retribuzione (ad es. sfratto per morosità o l'assunzione di mutui).

Retribuzione globale di fatto. Per «retribuzione globale di fatto», deve intendersi il comprensivo di tutto quanto il lavoratore avrebbe effettivamente e continuativamente percepito nel periodo considerato; Rinuncia alla reintegrazione. II prestatore di lavoro che ha ottenuto una sentenza di reintegrazione ha la facoltà di chiedere al datore in sostituzione di tale reintegrazione una indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto.

12- Tutela processuale del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.Il diritto alla reintegrazione può essere fatto valere, oltre che attraverso l'ordinario processo del lavoro, tramite strumenti processuali più rapidi, quali:

l'art. 700 c.p.c., in base al quale, quando vi è fondato motivo di temere che nelle more del giudizio ordinario il diritto azionato possa subire un pregiudizio imminente e irreparabile, si può chiedere al giudice un provvedimento d'urgenza a carattere cautelativo: nella specie una sospensione del licenziamento (con reintegra provvisoria) sino all'esito del giudizio ordinario di merito;

L'art. 28 St. Lav., in base al quale, quando il licenziamento sia connesso ad un fine antisindacale la sua illegittimità può essere fatta valere anche dal sindacato mediante la procedura per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro;

L'art. 18 St. Lav., in base al quale, ai dirigenti delle RSA ed i membri delle commissioni interne garantisce una tutela del tutto peculiare ai dirigenti delle RSA e ai membri delle commissioni interne, in ragione della maggiore esposizione ad azioni di rappresaglia

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sindacale. Il provvedimento di reintegra può essere provvisoriamente emesso con ordinanza nel corso del giudizio (e dunque anticipato rispetto alla sentenza) quando le prove fornite dal datore di lavoro non sembrano sufficienti a giustificare il licenziamento. Il provvedimento deve essere però richiesto congiuntamente dal sindacalista licenziato e dal sindacato di appartenenza. In caso di mancata reintegrazione del sindacalista, dopo l'ordine giudiziale, il datore dovrà pagare, oltre alla retribuzione, una somma di pari entità ad un fondo previdenziale.

13-Il campo di applicazione della disciplina vincolistica dei licenziamenti individuali.II regime di tutela del posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo è differenziato in ragione delle dimensioni occupazionali del datore il di lavoro, sì da non potersi individuare una regola unitaria di generale applicazione.

13.1- Area della tutela reale.Allo stato l'art. 18 St. lav. (e la sanzione di reintegrazione) si applica ad ogni datore di lavoro, imprenditore e non che:

occupa nella unità produttiva ove ha avuto luogo il licenziamento; occupa nell'ambito dello stesso comune più di 15 dipendenti; occupa complessivamente più di 60 dipendenti.

Ai fini dei criteri individuati dalle lettere a) e b) il numero dei dipendenti si abbassa a 5 per le imprese agricole.Ai fini del computo delle soglie occupazionali (l'art, 1 della L. 108/1990) si tiene conto sia «dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, sia «dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro».I lavoratori assunti con contratto di inserimento, sono esclusi dal computo. Infine non sono da computare il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.Sono, altresì esclusi dal computo dell'organico dell'impresa utilizzatrice i lavoratori «somministrati» nonché i lavoratori a domicilio subordinati.

13.2-Area della tutela obbligatoria.Ove non sia applicabile l'art. 18 St. lav., in quanto non ricorre nessuna delle condizioni indicate, si applicherà la L. n. 604/1966 e la sua alternativa sanzionatoria (riassunzione o risarcimento del danno da 2,5 a 6 mensilità).Il regime di stabilità «obbligatoria» si applica, a prescindere dalla consistenza occupazionale, nei confronti dei «datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di religione o di culto» .Il legislatore ha voluto sottrarre tali datori di lavoro al rischio della reintegra ex art. 18, ritenendo che il carattere ideologico o, «di tendenza» della attività svolta e delle finalità perseguite, mal tollererebbe la prosecuzione coatta di un lavoratore sgradito non «allineato» all'ispirazione politica o ideologica che guida l'attività del soggetto datore. In altri termini si è ritenuto di far prevalere le esigenze, legate da rapporto fiduciario.

13.3. Area residuale del licenziamento libero. I dirigenti. Dall'art. 10 della L. n. 604/1966, si desume che non godono della tutela legislativa contro i licenziamenti arbitrari e sono, quindi, licenziabili ad nutum i dirigenti amministrativi e tecnici.L'esclusione è stata ritenuta costituzionalmente legittima in virtù del particolare vincolo fiduciario che contraddistingue il rapporto di lavoro dei dirigenti e che rende improponibile una prosecuzione di tale rapporto con soggetti che non godono più della completa fiducia da parte del datore.

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La L. n. 108/1990, i dirigenti godono invece della tutela contro i licenziamenti discriminatori e il datore di lavoro è tenuto all'obbligo di comunicare il licenziamento in forma scritta. La mancata disciplina sui licenziamenti individuali è compensata da una diffusa tutela prevista dalla contrattazione collettiva di categoria che, in caso di recesso privo di giustificatezza», riconosce al dirigente il diritto ad una indennità supplementare. La contrattazione di categoria prevede l'obbligo di comunicare per iscritto la motivazione del licenziamento. La nozione di «giustificatezza», è da individuare, in ragione del carattere fiduciario del rapporto dirigenziale.La contrattazione collettiva ha inoltre riconosciuto ai dirigenti la possibilità di ricorrere ad un Collegio di conciliazione e di arbitrato per l'accertamento della giustificatezza o meno del licenziamento, il Collegio ha facoltà di condannare il datore al pagamento dell'indennità supplementare, di natura risarcitoria, il cui quantum oscilla tra un minimo ed un massimo predeterminato di mensilità di retribuzione. La prevalente giurisprudenza di legittimità, ritiene che soltanto nei confronti dei dirigenti apicali non possano trovare applicazione le garanzie procedimentali sul licenziamento disciplinare di cui all'art. 7 St. lav..Lavoratori in prova. La disciplina vincolistica dei licenziamenti non si applica in favore dei lavoratori assunti in prova, il licenziamento nel periodo di prova può essere contestato in via giudiziale quando risulti che non è stata consentita, per l'inadeguatezza della durata della prova o per altri motivi illeciti, quella verifica del comportamento e delle qualità professionali del lavoratore alla quale il patto di prova è preordinato. In sostanza non può essere sindacato l'esito della prova la cui valutazione è di competenza esclusiva del datore.Contratti a termine atleti professionisti. Risultano sottratti alla normativa in esame i lavoratori assunti con contratto a termine, nonché gli atleti professionisti considerati lavoratori subordinati. I lavoratori domestici. L'art. 4 della L. n. 108/1990 esclude altresì l'applicazione dell'art. 18 St. lav. e della L. n. 604/1966 ai «rapporti di lavoro domestico per i quali resta operante l'art. 2118 c.c.

B. I LICENZIAMENTI COLLETTIVI

1-Evoluzione delle fonti di disciplina: contrattazione collettiva, giurisprudenza, normativa comunitaria, legge.Un ulteriore modo di estinzione del rapporto di lavoro, è il licenziamento collettivo, disciplinato dalla L. n. 223/1991. La complessità del fenomeno ha per lungo tempo indotto il legislatore italiano ad un voluto astensionismo in materia. I licenziamenti collettivi erano così regolati da due accordi interconfederali nonché da alcune scarne disposizioni legislative:

l'art. 11, L. 604/1966, per cui « la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni della presente legge»;

l'art. 6. L. 108/1990, che si limita a confermare l'esclusione dei licenziaceli menti collettivi dalla applicazione della disciplina del licenziamento individuale.

Tale astensionismo era compensato dall'adozione di una politica di prevenzione delle riduzione di personale, realizzata con la creazione di sistemi alternativi: CIG e circuiti di mobilità.L'utilizzo di questi sistemi ha creato situazioni di sopravvivenza meramente fittizia dei rapporti di lavoro i cui costi venivano interamente sopportati dalla collettività. Il legislatore è stato così indotto ad un intervento normativo di portata generale (la L. n. 223/1991) con cui, si è inteso valorizzare la mobilità esterna (c.d. mobilità extra-aziendale), concepita come momento successivo al licenziamento collettivo.

2-I licenziamenti collettivi nella L. n. 223/1991: la riduzione di personale e la messa in mobilità

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nelle imprese.Per quanto riguarda gli imprenditori, l'istituto del licenziamento collettivo è connesso con la Cassa integrazione guadagni riportata ad una Situazione di sostegno di crisi aziendali reversibili, mentre il licenziamento collettivo seguito da mobilità diviene lo strumento con cui risolvere i problemi di eccedenza definitiva di personale attraverso una gestione extra-aziendale, della forza lavoro esuberante. La L. n. 223/1991 contempla due fattispecie di licenziamento collettivo: quello «per riduzione di personale» e quello «per messa in mobilità».Per dar corso al «licenziamento per riduzione di personale» è necessario che l'imprenditore abbia un organico complessivo di più di 15 dipendenti, e che «intenda» licenziare almeno 5 lavoratori nella provincia in un arco temporale di 120 giorni.La causa della dismissione dev'essere riconducibile ad una riduzione o trasformazione di attività di impresa o del lavoro. In ogni caso il giudice, deve solo accertare:

- la sussistenza del presupposto causale invocato sostegno dei licenziamenti collettivi (verificare, cioè, se una «riduzione o trasformazione di attività o di lavoro», denunciata dall'impresa, vi sia effettivamente:

- il nesso eziologico tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso; - la correttezza procedurale dell'operazione (il puntuale rispetto, cioè, della procedura di

mobilità e dei criteri di scelta dei licenziandi).Nel caso di licenziamento collettivo, l'indagine del giudice sembra, più ampia, avendo ad oggetto anche il rispetto della procedura di mobilità, non prevista nei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo).La L. n. 223/1991 impone all'imprenditore di comunicare a rappresentanze e organizzazioni sindacali i «motivi che determinano la situazione di eccedenza» nonché i «motivi tecnici, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare la dichiarazione di mobilità». Licenziamento per messa in mobilità. L'imprenditore (con più di 15 dipendenti) può avviare le procedure di mobilità qualora, durante il godimento o alla fine di un periodo di Cig straordinaria, ritenga di non essere in grado di reimpiegare tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative.

3-La procedura di mobilità.Tra il momento in cui, matura la decisione di procedere al licenziamento collettivo ed il momento dell'effettiva espulsione del singolo lavoratore dal processo produttivo, la legge pone la c.d. procedura di mobilità la cui funzione è quella di attutire, ove possibile, gli effetti del licenziamento collettivo sulla occupazione aziendale e sul mercato del lavoro. La legge impone all'imprenditore l'obbligo di comunicare preventivamente per iscritto alle RSA (ora RSU) ed alle associazioni di categoria:

i motivi «tecnici ed organizzativi» che determinano la necessità di ridurre il personale; il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente;

i tempi di attuazione del programma di mobilità; L'informativa deve essere seria e completa, «dettagliata ed analitica» idonea ad aprire il confronto sindacale; La procedura, introdotta dalla comunicazione, può articolarsi in due fasi, una preliminare, e l'altra subordinata all'esito-negativo della prima.

d) La prima fase, c.d. «sindacale», può aver luogo ad iniziativa del sindacato, entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione e deve, comunque, svolgersi in un arco temporale non superiore a 45 giorni. Essenzialmente si sostanzia in un libero confronto tra imprenditore ed il sindacato finalizzato a ricercare un accordo che risolva in tutto o in parte

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il problema delle eccedenze. Questa consultazione si configura per il datore di lavoro come un onere a trattare in buona fede il cui mancato rispetto, può integrare un comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28 St. lav., potendo essere causa dell'inefficacia dei recessi intimati. La legge, nell'intento di favorire soluzioni compromissorie predispone una serie di incentivi alla conclusione dell'accordo. L'imprenditore viene incentivato a concludere l'accordo dal momento che in questo caso beneficia di una consistente decurtazione dei costi del licenziamento. È prevista altresì, un'ipotesi di deroga all'art. 2103 cod. civ., qualora sia possibile evitare un recesso spostando il lavoratore ad altre mansioni anche se non equivalenti a quelle di provenienza; l'accordo sindacale può regolare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall'impresa ad altra per una durata temporanea, esaurita questa fase si configurano due possibili situazioni:1. o è stata raggiunta un'intesa formalizzata in un accordo.2. oppure la procedura è stata infruttuosa; in questo secondo caso la legge prevede

l'apertura di un'ulteriore fase conciliativa in sede amministrativa, su impulso del direttore della provinciale del lavoro.

4-Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e intimazione del licenziamento.Una volta conclusa l'intera procedura, che non può avere una durata superiore a 75 giorni, il datore di lavoro ha facoltà di individuare in concreto i lavoratori colpiti dal provvedimento espulsivo. L'individuazione deve essere operata utilizzando criteri elencati in un accordo collettivo, oppure, in mancanza, si dovrà far ricorso a quelli stabiliti in via sussidiaria dall'art. 5, 1° comma:

esigenze tecnico-produttive ed organizzative; carichi di famiglia; anzianità.

I criteri (diversi da quelli legali) devono essere predeterminati ed obiettivi, generali ed astratti con seguente inammissibilità di criteri vaghi ed elastici. L'anzianità di servizio. Nell'ambito dei criteri di scelta definiti in accordi collettivi, ha ricevuto l'attenzione della dottrina e della giurisprudenza soprattutto il criterio della «maggiore anzianità inteso come possesso dei requisiti di età e di contribuzione utili per fruire di un trattamento di quiescenza. Questo criterio tende a «sfavorire» i lavoratori che hanno la possibilità di accedere ad un reddito pensionistico e implica la preferenza per i lavoratori più giovani che, a seguito dalla perdita del posto di lavoro, non avrebbero modo né di trovare a breve termine una nuova occupazione né di accedere a un trattamento pensionistico.Nei confronti del lavoratore identificato come destinatario del provvedimento espulsivo potrà, essere intimato il licenziamento in forma scritta, e secondo la giurisprudenza senza necessità di alcuna motivazione. Successivamente al licenziamento sorge il dovere del datore di informare sia la parte pubblica sia le associazione sindacali di categoria.

5. Il sistema sanzionatorio.La legge dispone che il licenziamento collettivo è viziato quando sia intimato senza l'osservanza delle forme previste, o vi sia stata violazione o non corretta applicazione dei criteri di scelta.Il lavoratore che voglia far valere le proprie ragioni, ha l'onere di impugnare il licenziamento nelle forme e con i termini di decadenza previsti dalla L. n. 604/1966 per i licenziamenti individuali. Qualora il giudice accerti l'illegittimità del licenziamento, ne dichiara:

la inefficacia , se viene riscontrato il difetto di forma o il non rispetto della procedura; l'annullabilità (in caso di violazione dei criteri di scelta).

Ed ordina, ai sensi dell'art. 18 St. lav., la reintegra. Il legislatore ha, previsto un correttivo al rigore sanzionatorio della reintegrazione; che opera nella sola ipotesi in cui venga riscontrata la violazione dei criteri di scelta. Il datore di lavoro ha, infatti, facoltà di intimare li licenziamento ad un altro lavoratore facendo questa volta un corretto uso dei criteri di scelta; unico onere sarà una

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comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali. In sostanza la tutela reale, finisce per operare con riguardo ad ogni impresa con più di 15 dipendenti.

6-L'estensione della L. n. 223/1991 ai datori di lavoro non imprenditori. Il D. Lgs. 8 aprile 2004, n. 110.Il D. Lgs. 110/2004 ha però esteso l'applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi dettata dalla L. n. 223/1991 anche ai datori di lavoro non imprenditori. Si tratta - come vedremo d'una estensione solo parziale. La riforma si è resa necessaria a seguito della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nei confronti dell'Italia, motivata dal fatto che la normativa nazionale non aveva recepito la direttiva n. 98/59 nella parte in cui prevedeva l'inclusione tra i destinatari della L. n. 223/1991 di tutti i datori di lavoro e non solo degli imprenditori.Di conseguenza, la L. n. 223/1991 si applica ora anche «ai privati datori di lavoro non imprenditori». I dipendenti di questi ultimi, si trovano in una condizione deteriore rispetto ai dipendenti delle imprese. Essi, infatti, non possono godere degli ammortizzatori sociali previsti dalla L. n. 223/1991 (ed, in particolare, dell'indennità di mobilità), né delle agevolazioni contributive a favore del nuovo datore di lavoro in caso di nuova assunzione.

C. IL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO

1. L'evoluzione legislativa.L'anzianità di servizio presso il medesimo datore di lavoro assume particolare rilevanza in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, allorquando è dovuta al lavoratore una indennità commisurata, tra l'altro, durata del rapporto. Alle origini la c.d. indennità di anzianità ha rappresentato una sorta di premio di fedeltà per il lavoratore: riconosciuta inizialmente solo agli impiegati e negata a chi si dimetteva o veniva licenziato per giusta causa.Successivamente, estesa a tutti i casi di cessazione del rapporto l'indennità ha invece visto valorizzato il carattere di corrispettivo retributivo della prestazione complessivamente resa, corrisposto alla cessazione del rapporto ad es., far fronte alle esigenze del lavoratore nel momento del venir meno di una stabile fonte di guadagno.La disciplina attuale dell'istituto, ora denominato «trattamento di fine rapporto» (TFR), è dettata dalla L. 297/1982.2-I nuovi criteri di calcolo.Il meccanismo di calcolo della vecchia indennità di anzianità consisteva nella moltiplicazione dell'ultima retribuzione per un coefficiente proporzionale alla durata del rapporto.Secondo l'attuale disciplina, invece, per ciascun anno (calendariale) di servizio occorre isolare una quota pari alla complessiva retribuzione annuale divisa per 13,5 (poco più, quindi, d'una retribuzione mensile).Nella retribuzione annuale vanno compitate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale e con esclusione dei rimborsi spese.Per evitare ingiustificate e macroscopiche diseguaglianze in sede di TFR, la legge vieta alla contrattazione di abbassare il divisore 13,5. L'autonomia collettiva è invece libera di espungere alcune voci retributive dalla retribuzione e dunque di comprimere l'entità del trattamento di fine rapporto, magari in considerazione di una strategia tesa a valorizzare la retribuzione corrente. La L. n. 297/1982 ha consentilo una piena equiparazione del trattamento per impiegati ed operai.Le quote della retribuzione annuale devono essere rivalutate ogni anno al 31 dicembre con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei

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prezzi al consumo accertato dall'Istat.I nuovi criteri di computo presentano il vantaggio di riflettere fedelmente la storia retributiva di ciascun lavoratore, impedendo manovre o effetti sperequativi a vantaggio di chi presenta dei picchi di carriera nella fase terminale del rapporto.Il nuovo sistema di computo del TFR concerne soltanto le anzianità di lavoro maturate dopo il 31 maggio 1982, mentre i rapporti di lavoro in corso all'entrata in vigore della L. n. 297/1982 restano assoggettati ad un meccanismo di computo differenziato:

per le anzianità maturate in precedenza viene calcolata l'indennità di anzianità al 31 maggio 1982 alla stregua dei vecchi criteri sanciti nella L. n. 91/1977.

3-Le anticipazioni e il Fondo di garanzia. L'indennità in caso di morteII lavoratore con almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore può ottenere, in pendenza del rapporto, un'anticipazione del TFR non superiore al 70% del trattamento già maturato.La legge, però, pone vincoli finalistici alla domanda di anticipazione (spese sanitarie per terapie o interventi straordinari, acquisto della prima 1 casa di abitazione per sé o per i figli, e per astensione facoltativa dal lavoro dei genitori nei primi otto anni di vita del bambino) e limita il numero dei beneficiari onde non esporre le aziende ad ingenti quanto improvvisi esborsi di liquidità Significativa è, la previsione (art. 2, L. n. 297/1982) di un «Fondo di garanzia», alimentato da contributi datoriali e destinato a sostituire il datore di lavoro nell'erogazione del TFR in alcuni casi di insolvenza o di inadempienza.II Fondo interviene in caso di:

fallimento, quando sia stato depositato lo stato passivo; concordato preventivo, quando sia stata pubblicata la sentenza di omologazione del

concordato medesimo; liquidazione coatta amministrativa, quando sia stato depositato lo stato passivo, ovvero sia

stata emessa sentenza che decide sulle eventuali opposizioni o impugnazioni riguardanti il credito di lavoro;

amministrazione straordinaria.L'art. 2122 cod. civ., si stabilisce che, in caso di morte del lavoratore, il TFR e l'indennità di mancato preavviso spettano al coniuge, ai figli, e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo.

4-Prospettive di riforma.Le prospettive di riforma del TFR appaiono intrecciate con l'evoluzione del sistema pensionistico e col finanziamento della previdenza complementare di cui al D. Lgs. n. 124/1993 (c.d. fondi pensione). Il D. Lgs. 299/1999 prevedeva, in via sperimentale, la c.d. «cartolarizzazione» del TFR in alternativa al versamento in contanti del TFR ai fondi pensione il debito dell'impresa costituito dalle quote annuali di TFR poteva essere trasformato in strumenti finanziari emessi dalla impresa stessa e attribuiti al fondo pensione. Tali strumenti finanziari potevano consistere in azioni obbligazioni convertibili in azioniL'operazione (consentita dal 1999 e solo per i tre anni successivi) richiedeva il consenso scritto del lavoratore. L'obiettivo era quello rendere disponibili risorse per la previdenza complementare cercando, al contempo di salvaguardare l'equilibrio finanziario dell'impresa.In questo modo si garantiva comunque un ritorno alle aziende in termini di capitale di rischio. La L. 243/2004, (c.d. riforma Maroni), mira a facilitare l'afflusso del TFR ai fondi pensionistici complementari di cui al D. Lgs. n. 124/1993. Al riguardo viene previsto una forma di silenzio-assenso.In altri termini: resta fermo il principio di volontarietà di adesione al fondo pensione solo che adesso la volontà del lavoratore di non aderirvi dev'essere espressa entro sei mesi dall'entrata in vigore del relativo decreto legislativo ovvero entro sei mesi dall'assunzione, altrimenti silenzio del

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lavoratore è considerato come volontà di aderire a un fondo pensione (e di conferirvi il TFR).

CAPITOLO XII CONTRATTI A TERMINE, FLESSIBILI E FORMATIVI

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A) COONTRATTO A TERMINE

1-Il lavoro a termineAl contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine. L’ordinamento ha per lungo tempo valutato con sfavore il contratto a tempo determinato, considerando fisiologico quello a tempo indeterminato. Tuttavia, crescenti istanze di flessibilità e di nuova occupazione hanno condotto ad una progressiva attenuazione dell’originario rigore, fino all’emanazione del D.Lgs 6 settembre 2001 n 368. Per adempiere la Direttiva n.99/70 UE è stato emanato il D. Lgs n.368/2001 che abroga la L. n. 230/1962, essa liberalizza l’apposizione del termine e conserva alcune specifiche garanzie della precedente disciplina. Il contratto a termine è attualmente disciplinato dal D.lgs 368\2001 art. 4 per il quale è possibile la apposizione di un termine al contratto di lavoro.Tale termine deve risultare, direttamente o indirettamente, da atto scritto (c.d. forma scritta ad substantiam) a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.Il rapporto si considera a tempo indeterminato laddove manchi il requisito della forma scritta o di sostanza. Il datore di lavoro ha l’obbligo di consegnare al lavoratore copia del contratto entro 5 giorni dalla sua stipulazione (art. 1 comma 3 D.lgs 368\2001).L’apposizione di un termine al contratto di lavoro è subordinata alle c.d. clausole di contingentamento ovvero limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi di categoria stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.Il termine può essere prorogato, previo consenso del lavoratore, una sola volta e per la medesima attività lavorativa cui si riferisce il contratto, purché vi siano ragioni obiettive e la durata complessiva del contratto non superi i tre anni (art. 4 D.lgs 368\2001). Si discute se il limite del triennio abbia carattere generale, dovendosi in tal caso applicare ad ogni stipulazione di contratto a termine o se, come parrebbe preferire parte della dottrina, esso si risolva più semplicemente in un divieto di proroga per tutti i contratti il cui termine iniziale già oltrepassi il triennio.Se il rapporto continua di fatto oltre la scadenza:del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il rapporto si considera tempo indeterminato solo a partire dal 20° o 30° giorno di continuazione (a seconda che il contratto si inferiore o superiore ai 6 mesi).Nel periodo intermedio il datore è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione pari al 20% fino al fino al decimo giorno di continuazione e al 40% per ogni giorno ulteriore (art. 5 commi 1 e 2 D.lgs 368\2001). Se un lavoratore è riassunto entro 10 o 20 giorni dalla scadenza di un contratto a tempo determinato, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Se invece si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle senza soluzioni di continuità, il contratto si considera a tempo determinato dalla data di stipula del primo contratto (art. 5 commi 3 e 4 D.lgs 368\2001).Il recesso dal contratto a tempo determinato è legittimo solo se sorretto da giusta causa. Diversamente il lavoratore ha diritto alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla scadenza del contratto, detratto quanto ha percepito, o avrebbe potuto percepire da un'altra occupazione usando l’ordinaria diligenza.

B) CONTRATTI FLESSIBILI

Negli ultimi anni, le crescenti preoccupazioni occupazionali , economiche e di competitività hanno spinto il legislatore a disciplinare contratti di lavoro con regimi d’orario flessibili.Il D.Lgs n. 276/2003, disciplina 3 tipologie contrattuali a orario ridotto, modulato e flessibile: -una vecchia, ma revisionata, il contratto di lavoro a tempo parziale;

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-una semi-nuova, il contratto di lavoro ripartito; -una tutta costruita ex novo, il contratto di lavoro intermittente.Tutti e tre questi contratti consentono un uso flessibile della forza lavoro sotto il profilo temporale.

1-Il lavoro a tempo parzialeIl lavoro a tempo parziale (o part-time) da un ventennio costituisce una delle manifestazioni più significative della tendenza alla diversificazione del rapporto di lavoro rispetto al modello tradizionale. Il part-time è regolamentato dal D. Lgs n. 61/2000; tale decreto recepisce la Direttiva CE n. 81/1997 relativa all’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo parziale.Il D. Lgs. n.61/2000 nell’art 1 definisce il lavoro a tempo parziale come l’orario di lavoro fissato dal contratto individuale che risulti comunque inferiore all’orario normale (pieno) di lavoro (40 ore settimanali) o all’eventuale minore orario normale di lavoro stabilito dai contratti collettivi, purché applicati. La stessa norma definisce tre varianti di prestazione a tempo parziale:-orizzontale, in cui la riduzione è prevista in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro (per es. nella settimana, 4 ore al giorno per 5 giorni);-verticale, in cui si prevede che l’attività lavorativa sia svolta ad orario giornaliero pieno ma limitatamente a periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (per es. nella settimana, 8 ore al giorno per 3 giorni);-mista, secondo una combinazione delle modalità orizzontale e verticale (per es. nella settimana 4 ore al giorno per 4 giorni oppure 1 giorno a tempo pieno e 1 a metà tempo).Il D. Lgs, n.61 prevede la forma scritta per la stipulazione del contratto, con l’indicazione puntuale della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Il D. Lgs. n.61 richiede la forma scritta ad probationem, precisando che qualora la scrittura risulti mancante è ammessa la prova per testimoni nei limiti di cui all’art 2725 c.c. cioè quando il contraente abbia senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.In difetto di prova della stipulazione del part-time, su richiesta del lavoratore, potrà essere dichiarata la conversione giudiziale del contratto di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno; ma soltanto ex-nunc, cioè a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata. Resta fermo il diritto alle retribuzioni dovute per l prestazioni effettivamente rese antecedentemente alla conversione.Le parto hanno l’obbligo di specificare nel contratto la durata della prestazione di lavoro, cioè deve esserci la clausola di riduzione dell’orario. La sua assenza o indeterminatezza non comporta tuttavia la nullità del contratto stesso, ma la possibile dichiarazione giudiziale di sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno sempre a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale.Il D. Lgs. n.61 consente lo svolgimento di lavoro straordinario, cioè eccedente la prestazione a tempo pieno (40 ore settimanali), soltanto nell’ipotesi di part-time verticale e misto, anche a tempo determinato. Le clausole c.d. flessibili stabiliscono il potere del datore di variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa a tempo parziale rispetto a quella inizialmente concordata.Un esempio può chiarire. In un part-time verticale (dal lunedì al giovedì dalle 6 alle 14), la clausola flessibile può prevedere lo spostamento del turno di lavoro dal mattino al pomeriggio (sempre x lo stesso numero di ore: dalle 14 alle 22), la clausola elastica può prevedere l’aumento di 2 ore di lavoro (6-16). Lì apposizione delle clausole flessibili richiede il consenso del lavoratore, con uno specifico patto scritto. Il lavoratore può rifiutare di firmare il patto elasticità/flessibilità senza il timore di essere licenziato o punito (ma rischiando di non essere assunto).Una volta sottoscritto il patto, il lavoratore si rende disponibile per variare fasce orarie (clausole

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flessibili), per aumentare l’orario di lavoro concordato (clausole elastiche). In sostanza tali clausole accessorie attribuiscono al datore un vero e proprio jus variandi temporale.È esplicitamente consentita la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, purché vi sia l’accordo delle parti e venga convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio.Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Sostanzialmente la stessa garanzia vale per il rifiuto del lavoro supplementare, nonché per il rifiuto del patto di elasticità e di flessibilità.

2-Il lavoro ripartitoIl D.Lgs. n. 276/2003, definisce il lavoro ripartito (job sharing) come “speciale” contratto di lavoro subordinato con il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa.Per le sue caratteristiche, il contratto sembra destinato ai lavoratori legati da forti vincoli di solidarietà. Non a caso è definito anche lavoro “a coppia”.Salvo diverse intese tra le parti contraenti, ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa nei limiti previsti dal legislatore. Il vincolo di solidarietà passiva che caratterizza il rapporto di lavoro presuppone la piena fungibilità della prestazione di lavoro.Al momento della stipulazione le parti devono concordare la quantità e la collocazione temporale della propria attività lavorativa. Salvo diverse intese individuali o collettive, i lavoratori hanno la facoltà di modificare consensualmente la ripartizione dell’orario e di sostituirsi a vicenda. Nel qual caso, il rischio dell’impossibilità della prestazione per fatti attinenti all’uno impone all’altro di adempiere per l’intero; quindi ciascuno dei due deve coprire le assenze dell’altro. Nel caso di impedimento di entrambi i lavoratori, il D.Lgs. n. 276/2003 rinvia alla norma del diritto comune, cioè all’art 1256 c.c., secondo cui l’impossibilità temporanea può estinguere l’obbligazione quando perduri tanto tempo da far cessare l’interesse del creditore della prestazione.Il contratto di lavoro ripartito deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova. La disciplina generale applicabile, è rinviata alla contrattazione collettiva senza selezione di livelli e agenti negoziali. In assenza di contratti collettivi, si applica la normativa generale del lavoro subordinato ma soltanto in quanto compatibile con un rapporto in cui la prestazione è dovuta da due debitori.Altro aspetto delicato del lavoro gemellato attiene alla cessazione del rapporto di lavoro. Salvo diverse intese tra le parti contraenti, le dimissioni o il licenziamento di uno dei due comporta l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale; a meno che il datore e l’altro lavoratore non convertano il contratto di lavoro ripartito in normale contratto di lavoro subordinato a tempo pieno o a tempo parziale. Viceversa, il licenziamento per ragioni aziendali non può che interessare contemporaneamente entrambi i lavoratori.

3-Il lavoro intermittenteIl D.Lgs n. 276/2003, introduce e disciplina il lavoro intermittente. La novità consiste nel fatto che il datore di lavoro può utilizzare la prestazione lavorativa in modo intermittente, se e quando decida di farlo, e a sua volta il lavoratore non è obbligato a rispondere alla chiamata (lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità). Pertanto è un contratto che nasce senza obblighi per le parti. Le cose cambiano se, con l’apposizione di una clausola accessoria, il lavoratore si obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro. Solo in tal caso sorge un correlativo obbligo del datore di corrispondere l’indennità di disponibilità.Il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo determinato, cioè fissando un

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termine alla possibilità di chiamata o alla disponibilità.Il lavoro intermittente è consentito per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi dell’art 37 (fine settimana, ferie estive, vacane natalizie e pasquali).Anche il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta ai soli fini della prova di vari elementi, fra i quali: l’ipotesi giustificativa, la durata, il luogo e la modalità della disponibilità, il trattamento economico e normativo.Per i periodi non lavorati, il lavoratore non è titolare di alcun diritto (e dovere) riconosciuto ai lavoratori subordinati. Soltanto per i periodi di disponibilità garantita spetta al lavoratore un’indennità mensile nella misura stabilita dai contratti collettivi e comunque non inferiore ad un minimo fissato con decreto ministeriale.

C) CONTRATTI A CONTENUTO FORMATIVO E DI FORMAZIONE/LAVORO

1-Dall'apprendistato agli apprendistatiSulla strada dell’alternanza e dell’intreccio tra formazione e lavoro, la legislazione è venuta proponendo l’apprendistato, denominato tirocinio dal codice civile, classico strumento di ingresso del giovane nel mondo del lavoro.L’apprendistato è un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, seppur “speciale”.Possono essere assunti, in tutti i settori di attività, con contratto di apprendistato classico, i giovani di età non inferiore ai 16 anni e non superiore a 24. La valida instaurazione di un contratto di apprendistato è subordinata quindi ad un limite minimo e ad uno massimo di età. Il limite massimo riguarda esclusivamente il momento in cui il rapporto ha inizio, ma se valicato successivamente non ne preclude la continuazione.Al fine di tutelare la salute del lavoratore si fissa l’obbligo di visita sanitaria pre-assuntiva per accertare che le condizioni fisiche di questo ne consentano l’adibizione al lavoro per il quale deve essere assunto. Fino al 23 ottobre 2003 l’assunzione doveva anche essere autorizzata preventivamente dalla Direzione Provinciale del lavoro. È consentita l’apposizione del patto di prova che tuttavia non può avere durata superiore a 2 mesi.La fissazione della durata dell’apprendistato classico è rinviata ai contratti collettivi nazionali, in relazione ai tempi necessari per apprendere le mansioni, tuttavia non potrà essere inferiore a 18 mesi e superiore a 4 anni. I periodi di servizio prestato in qualità di apprendista presso più datori di lavoro si cumulano ai fini del computo della durata massima del periodo di apprendistato, purché non separati da interruzioni superiori ad un anno e purché si riferiscano alle stesse attività. Durante il rapporto di apprendistato trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, mentre al termine del periodo il datore di lavoro ha la facoltà di dare disdetta ai sensi dell’art 2118 c.c.. in difetto di questa, l’apprendista è mantenuto in servizio con la qualifica conseguita mediante le prove di idoneità e il periodo di apprendistato è considerato utile ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore.Il D. Lgs. n. 276/2003 prevede per un futuro prossimo la sostituzione del contratto apprendistato con una trilogia di tipi contrattuali tutti denominati “apprendistato”: -del primo tipo, per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione;-del secondo tipo, professionalizzante;-del terzo tipo, per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.La causa dei tre nuovi contratti di apprendistato è sempre mista, mentre l’età minima e massima prevista per il lavoratore varia in ragione del tipo. La forma del contratto di apprendistato del primo e del secondo tipo è scritta e deve prevedere l’indicazione di un piano formativo individuale.Quanto al terzo tipo il legislatore non dice nulla, rinviando implicitamente all’autonomia collettiva o individuale.L’apprendistato del primo tipo ( diritto-dovere di istruzione) consente al minore di entrare nel mondo del lavoro e contemporaneamente di adempiere ai propri obblighi formativi. Possono essere

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assunti giovani di età compresa tra i 15 e i 18 anni e la durata massima del contratto è di 3 anni, purché sempre all’interno del limite massimo di età.L’apprendistato del secondo tipo (quello professionalizzante) è quello che maggiormente si avvicina a quello classico. Questo tipo mira al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale. Possono essere assunti soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni; la durata del contratto non può essere inferiore a 2 anni e superiore a 6.L’apprendistato del terzo tipo ( per l’acquisizione di un diploma) è diretto al conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, ovvero al conseguimento di titoli di studio universitari e di alta formazione, nonché alla specializzazione tecnica superiore. Possono essere assunti giovani di età compresa tra 18 e 29 anni.

2-I contratti di formazione e lavoroomissis ...............

3-I contratti di inserimentoIl D. Lgs. n. 276/2003 prevede una tipologia contrattuale nuova, con finalità più occupazionali che formative. Con il contratto di inserimento il legislatore decreta la fine dei contratti di formazione che sopravvivono solo nelle PA. La disciplina del contratto di inserimento è operativa a seguito dell’ Accordo interconfederale firmato l’11 febbraio 2004 da Confindustria, CGIL, CISL e UIL.Questo contratto è diretto a categorie di persone considerate dal legislatore particolarmente deboli sul mercato del lavoro:

Soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni; Disoccupati di lunga durata da 29 fino a 32 anni; Lavoratori con più di 50 anni di età che siano privi di un posto di lavoro; Lavoratori che desiderino riprendere un’attività lavorativa e che non abbiano lavorato per

almeno 2 anni; Donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica in cui il tasso di occupazione

femminile sia inferiore almeno del 20% di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 10% quello maschile;

Persone riconosciute affette da handicap fisico, mentale o psichico.I datori di lavoro interessati sono principalmente privatiCondizione per l’assunzione con contratto di inserimento è la definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo.L’Accordo interconfederale firmato l’11 febbraio 2004 da Confindustria, CGIL, CISL, UIL dispone che il progetto individuale di inserimento debba prevedere una formazione teorica non inferiore a 16 ore ripartita tra apprendimento di nozioni di prevenzione antinfortunistica e disciplina del rapporto e organizzazione aziendale.Quanto alla forma, anche il contratto di inserimento deve essere stipulato per iscritto, e deve essere specificamente indicato il progetto individuale di inserimento. In mancanza di forma scritta il contratto di inserimento è nullo e il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato. La durata non può essere inferiore a 9 mesi né superiore ei 18 mesi, con l’eccezione prevista per i lavoratori disabili, nei confronti dei quali la durata massima può essere estesa fino a 36 mesi.Si tratta quindi di una species del genus contratto a termine e per questo, salva diversa determinazione della contrattazione collettiva, trova applicazione, per quanto compatibile, la disciplina contenuta nel D. Lgs. n. 386/2001.

4-I tirocini formativi e di orientamento

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I tirocini formativi e di orientamento, non configurano un rapporto di lavoro subordinato e consistono in un inserimento temporaneo, di durata variabile a seconda dei soggetti a cui si riferisce ma non superiore a 12 mesi (24 nel caso di disabili), di un soggetto all’interno nel mondo produttivo, allo scopo di sperimentare un contatto diretto e un addestramento pratico.Non si prevede la corresponsione di alcuna somma di denaro al tirocinante, anche se spesso il soggetto ospitante eroga una borsa o premio al termine dello stage.Si tratta di un’esperienza che entra a pieno titolo nel percorso didattico degli studenti consentendo loro di accumulare “crediti formativi”.

CAPITOLO XIIIL LAVORO NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

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1-La c.d. privatizzazione del pubblico impiegoNel decennio 1992/2003 vi fu la c.d. privatizzazione del pubblico impiego. In origine, il rapporto di pubblico impiego nasce come istituto giuridico in ragione delle esigenze organizzative della P.A. per il perseguimento dell’interesse istituzionale di essa, che è per definizione interesse pubblico generale. Il rapporto di pubblico impiego, per lungo tempo non è caratterizzato da una posizione paritaria fra dipendente ed amministrazione. Il D.Lgs. 3 febbraio 1993 n.29, opera un’autentica rivoluzione sul piano delle fonti, traghettando il rapporto di pubblico impiego dal diritto pubblico al diritto privato.Il decreto modifica l’atto posto alla base del rapporto di impiego che è ora un contratto e non più un provvedimento unilaterale di nomina da parte della P.A.La riforma prende avvio con la L. 93/1983 (legge quadro sul pubblico impiego), ma la crisi di tale legge condusse all’esigenza di una nuova riforma così fra il 1992 e il 1993 ( legge delega 421/1992 e D.lgs. n. 29/1993) il Parlamento ed il Governo varano la c.d. privatizzazione del rapporto d lavoro pubblico.Fino al 2001, la riforma è oggetto di ripetute conferme da parte di interventi legislativi che gradualmente la completano e raffinano.Le Leggi delega 59/1997 (c.d. legge delega Bassanini) e n. 127/1997 (c.d. Bassanini bis), sfociano in una sequenza di D.Lgs: n. 396 del 1997, n.80 del 1998, n. 387/1998, poi tutti definitivamente confluiti nel D.Lgs 30 marzo 2001 n. 165 definito testo unico per il pubblico impiego.

2-Tratti di specialità nella disciplina del rapporto alle dipendenze della P.A.: le linee portanti della privatizzazione.La riforma incide sul rapporto di lavoro, ma non modifica la natura del datore di lavoro, che rimane pubblica.Inevitabile conseguenza della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico deve ritenersi il passaggio dalla giurisdizione del giudice amministrativo a quella del giudice ordinario. La scelta del legislatore è quella di devolvere al giudice ordinario le controversie relative alle materie attinenti al rapporto di lavoro e di conservare alla giurisdizione del giudice amministrativo quelle relative all’organizzazione ed all’esercizio della funzione.La ripartizione di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo è operata per materie e non sulla base della posizione giuridica tutelata: sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA., incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro.Il passaggio di giurisdizione è stato definitivamente realizzato dal D. Lgs n. 80/1998.

3-La dirigenza pubblicaCon l’espressione dirigenza pubblica si individua il personale di più elevata posizione all’interno delle amministrazioni, investito di proprie attribuzioni in ordine all’organizzazione e all’esercizio delle attività amministrative -gestorie. La dirigenza pubblica è retta da una specifica disciplina legislativa e contrattuale, contenuta nel D. Lgs n. 165/2001. Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. La categoria dei dirigenti pubblici, si articola in due fasce:

1. la prima, dei dirigenti di uffici dirigenziali generali, che intrattengono rapporti direttamente con gli organi di governo;

2. la seconda, dei dirigenti tout court , che comprende tutti gli altri.Le procedure di accesso e di costituzione del rapporto di lavoro dirigenziale, segnano il profilo di

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maggiore differenza tra dirigenza pubblica e privata. Alla qualifica di dirigente di ruolo si accede tramite concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della P.A. al concorso per esami possono partecipare dipendenti di ruolo delle P.A. ed alcuni soggetti esterni muniti di esperienze dirigenziali nella P.A.Mentre al corso –concorso, integrato da un successivo ciclo formativo, ammette la partecipazione di soggetti esterni oltre a quella di dipendenti pubblici con una congrua anzianità di servizio in qualificate posizioni funzionali.Esaurita la procedura di reclutamento, il vincitore stipula con l’amministrazione un contratto individuale, costitutivo del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.La riforma del 2002, ha previsto l’istituzione di una specifica area della vice dirigenza, nella quale viene fatto confluire il personale laureato.Il D.Lgs 165/2001, introduce la c.d. regola dello spoil system che consiste nella cessazione degli incarichi di funzione dirigenziale al variare della compagine politica. La revoca dell’incarico prima della scadenza del termine è prevista in conseguenza della risoluzione del rapporto.In caso di licenziamento, la contrattazione collettiva per l’area dirigenziale riconosce al dirigente la possibilità di ricorrere ad un collegio di conciliazione, che pone a carico dell’amministrazione un’indennità supplementare qualora il recesso risulti ingiustificato.

4-Il reclutamento del personale. Forme contrattuali flessibili.Nonostante la c.d. privatizzazione del pubblico impiego, persistono forti tratti di specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni, specie in tema di accesso all’impiego, tecnicamente detto “reclutamento”.I procedimenti di assunzione restano nell’area coperta da riserva di legge (art 2 L. 421/1992) e sono sottoposti ad una disciplina pubblicistica. Il legislatore ha preferito adottare questa soluzione in ossequi al dettato degli artt. 51, 97, 3°comma e 98 della Costituzione, ritenendo il concorso pubblico quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci e metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità e al servizio esclusivo della Nazione. L’art 35, D. Lgs n. 165/2001, prevede che il reclutamento del personale nelle P.A. possa avvenire:

Tramite procedure selettive volte all’accertamento della professionalità richiesta (di cui il concorso è l’esempio classico);

Mediante richiesta numerica con avviamento degli iscritti nelle liste appositamente redatte dagli uffici regionali o provinciali competenti, e nelle liste di mobilità;

Mediante richiesta numerica o nominativa dei disabili iscritti nelle liste speciali di collocamento.

I soggetti disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, salvi i requisiti di idoneità specifica per le singole funzioni ad es. il requisito della sana e robusta costituzione fisica.Nell’accesso ai posti di lavoro pubblico, i cittadini comunitari sono equiparati ai cittadini italiani. Deroghe al principio possono riguardare solo i posti di lavoro che implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale. La procedura selettiva si conclude con l’individuazione del soggetto idoneo ad instaurare un rapporto di lavoro con l’amministrazione.Per l’assunzione che avviene con contratto individuale di lavoro, il datore di lavoro pubblico può anche avvalersi delle tipologie contrattuali definite flessibili o atipiche. (es i contratti di formazione e lavoro,contratti a termine, lavoro temporaneo, contratti a tempo parziale). Discorso a parte merita il part-time, dato che non soltanto è inserito a pieno titolo tra le tipologie flessibili, ma è prevista la trasformazione automatica dal tempo pieno al tempo parziale a domanda del lavoratore, con diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla

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trasformazione.

5-Mansioni, inquadramento e jus variandiIn tema di jus variandi permane uno dei più rilevanti tratti di specialità nella disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici privatizzati. La deroga alla disciplina comune, trova una giustificazione nell’esigenza di permettere alla P.A. di controllare sempre, attraverso l’utilizzo di procedure selettive e concorsuali, l’accesso a qualifiche superiori da parte dei dipendenti.Questa deroga è ora confermata dall’art 52 D. Lgs n. 165/2001 che detta una disciplina privatistica ad hoc per la materia. Si è detto che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni di assunzione o a quelle considerate equivalenti, ovvero alle mansioni corrispondenti alla qualifica superiore successivamente acquisita.La specialità più rilevante riguarda l’assegnazione a mansioni superiori. L’art 52 D. Lgs n. 165/2001 prevede uno jus variandi in melius, ma limitato a due ipotesi tassative:

3) Vacanza di posto per un periodo non superiore a 6 mesi; 4) Sostituzione di dipendente assente con diritto alla conservazione del posto per tutto il

periodo di assenza, escluse le ferie.L’adibizione legittima ed effettiva a mansioni superiori, dà diritto al trattamento economico e normativo corrispondente all’attività svolta (cioè quello previsto per la qualifica superiore), ma, in vistosa deroga all’art 2103 c.c., non conferisce mai il diritto all’attribuzione definitiva.

7-Il potere disciplinare e il licenziamento per motivi soggettiviA seguito della privatizzazione anche nel settore pubblico è ormai certa la configurazione del potere disciplinare come potere privatistico della P.A. datore di lavoro, privando la P.A. delle tradizionali posizioni di supremazia speciale.L’art 55 del D. Lgs. n. 165/2001, individua le infrazioni nell’inosservanza delle disposizioni in materia di diligenza (art 2104 1° comma c.c.), di obbedienza (art 2104 2° comma c.d.) e di fedeltà (art 2105 c.c.).Gli obblighi del pubblico dipendente il cui rapporto è privatizzato non si differenziano da quelli del dipendente privato: si tratta di obblighi volti a garantire l’esatto adempimento della prestazione dovuta.La tipologia e l’entità delle infrazioni nonché delle sanzioni sono definite dai contratti collettivi nell’ambito del codice disciplinare. Al predetto codice deve essere data idonea pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti.L’art 7 comma 4 St lav, stabilisce che non possono essere disposte sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto e che la multa non può essere disposta per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base. Nel novero delle sanzioni deve essere compreso il licenziamento disciplinare (vedi capitolo X). Si prevede che, salvo il caso in cui le sanzioni da applicare si identifichino con il rimprovero verbale o scritto, ad irrogarle non sia il capo della struttura, ma, su segnalazione di questo, un apposito ufficio per i procedimenti disciplinari (U.P.D.), competente per ogni fase del procedimento ed individuato in ciascuna P.A.Si tratta di un organismo che rappresenta direttamente la P.A. - datore di lavoro.È l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che fa tutto:

contesta l’addebito al dipendente; istruisce il procedimento e applica la sanzione;

al capo della struttura in cui il dipendente lavora, resta solo il compito di segnalazione sulle ipotesi di infrazione. L’audizione a difesa del dipendente deve avvenire nel termine di 15 giorni dalla convocazione (art 55 comma 5); nei successivi 15 giorni la P.A. deve applicare la sanzione. inoltre i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicato prima che siano trascorsi

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5 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.Tali disposizioni potrebbero essere coordinate nel modo seguente:

Prima ipotesi: la P.A. contesta l’addebito, decorrono 15 giorni ed il dipendente non si presenta, nei successivi 15 giorni la P.A. può irrogare la sanzione;

Seconda ipotesi: la P.A. contesta l’addebito, il dipendente di presenta per difendersi fra il 1° e il 15° giorno; fra il 5° ed il 15° giorno successivo all’audizione, la P.A. può irrogare la sanzione.

Una novità assoluta è costituita dal c.d. patteggiamento (art 55, 6° comma D. Lgs n. 165/2001), cioè è possibile l’applicazione di una sanzione ridotta, ma questa non è suscettibile di impugnazione, né in via giudiziale né arbitrale. Infine è prevista una procedura di carattere conciliativo-arbitrale da esperirsi secondo le modalità fissate dai contratti collettivi o in mancanza innanzi al Collegio arbitrale di disciplina istituito presso ciascuna PA. Nel corso della procedura conciliativo – arbitrale la sanzione resta sospesa, mentre solo la PA ha l’obbligo di conformarsi alla decisione del Collegio. Ciò non significa che l’Amministrazione sia preclusa l’impugnativa giudiziale del provvedimento arbitrale, bensì che esiste per la PA un obbligo legale di immediata esecuzione del provvedimento, a prescindere dalla sua successiva impugnazione. Un ulteriore profilo di specialità è costituito dalla regolazione legislativa dei rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche. La L. 27 marzo 2001 n. 97 ha introdotto nuove misure cautelari obbligatorie, adottabili dalla PA, nell’ipotesi di rinvio a giudizio del dipendente per gravi reati contro la PA. In certi casi la condanna in sede penale può comportare l’applicazione da parte del giudice penale, della pena accessoria all’estinzione del rapporto d lavoro.

9-Eccedenze di personale e mobilità collettiva. Il collocamento in disponibilità Il D. Lgs n. 80/1998 ed il D. Lgs n. 387/1998 (ora confluiti negli artt. 33 e 34 D.lgs n 165/2001) hanno rivisitato la disciplina delle eccedenze di personale e della mobilità collettiva nelle PA.La disciplina delle eccedenze di personale nel pubblico impiego risulta articolata in più fasi:

a) “fotografia” della consistenza del personale: cioè la rilevazione della consistenza del personale in rapporto al fabbisogno di risorse umane secondo le procedure previste dall’ordinamento di ogni amministrazione interessata;

b) Rilevazione dell’eccedenza e confronto con le organizzazioni sindacali: le PA, quando l’eccedenza riguardi almeno 10 dipendenti, sono tenute ad informare le rappresentanze unitarie del personale e le OO.SS (organizzazioni sindacali).

Le cause di eccedenza devono comunque riguardare sempre questioni organizzative dell’amministrazione. L’informazione al sindacato deve avvenire attraverso una comunicazione scritta e contenere l’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza.Entro 10 giorni dal ricevimento della comunicazione, a richiesta delle OO.SS. si procede ad un esame diretto a verificare la possibilità di pervenire ad un accordo sulla ricollocazione totale o parziale del personale eccedente (anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro).

c) Messa in disponibilità e ricollocazione del personale eccedente: rilevata l’eccedenza e conclusa la procedura, l’art 33 comma 7 del D. Lgs. n. 165/2001 prevede che venga comunicato il “collocamento in disponibilità” al personale in esubero che non sia stato possibile impiegare diversamente nell’ambito della medesima amministrazione o ricollocare presso altre amministrazioni.

Il “collocamento in disponibilità” comporta non la risoluzione ma la sospensione del rapporto di lavoro, col pagamento di un’indennità a carico del datore per la durata massima di 24 mesi.

d) Risoluzione del rapporto: se la ricollocazione non riesce, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto alla scadenza dei 24 mesi di durata massima del trattamento.

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Si tratta di un’ipotesi di risoluzione automatica ex lege del rapporto di lavoro, la quale non necessita di alcun atto di accertamento da parte della P.A. circa l’esistenza dei presupposti di legge che determinano l’estinzione del rapporto di lavoro (la scadenza del termine del periodo di disponibilità).Non sembra possibile ricondurre la risoluzione del rapporto alla fine del periodo di disponibilità ad una sorta di licenziamento per riduzione di personale. Peraltro il dipendente il cui rapporto di lavoro cessa al termine della disponibilità avrà la possibilità di impugnare l’atto di collocamento risalente ai due anni che precedono per eventuali vizi della gestione dell’eccedenza da parte della PA. Non sembra invece dubitabile che il rifiuto, da parte del dipendente di prendere servizio su un posto vacante determini l’immediata risoluzione del rapporto.

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