Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

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"L'unità fondamentale per un qualsiasi studio sistematico edevolutivo di un gruppo di viventi è l'individuo. Pertanto inizieremocercando dí caratterizzare un individuo Primate tipico che,come ogni individuo, può essere descritto per il suo aspetto esteriore,per le sue dimensioni, o per altre differenti caratteristiche.A noi interessa caratterizzare questo individuo dal punto di vistagenetico, perché è sui metodi della genetica che essenzialmentesi basa lo studio dell'evoluzione."

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dell' uon/0 Introduzione all'antropologia

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A- 5-6 g._,S Nella « Biblioteca di Cultura Moderna »

prima edizione 1978

Nella « Biblioteca Universale Laterza » prima edizione riveduta e corretta 1981 seconda edizione riveduta e corretta 1983

Brunetto Chiarelli

L'ORIGINE DELL'UOMO INTRODUZIONE ALL'ANTROPOLOGIA

SiSTE.:211 ETIJOTECARIO

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

COMUNE Di ROMA

Cfreoscrizion

131:;oteca

Editori Laterza 1983

Page 3: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Introduzione

L'ANTROPOLOGIA COME STORIA NATURALE DELL'UOMO

Con il termine « antropologia » (dal greco eantbropos = uomo e Idgos = discorso) si definisce quel complesso di studi connesso con l'origine e l'evoluzione fisica e socio-culturale dell'Uomo. In altri termini, deve intendersi come lo studio dell'Uomo nella sua qualità di specie zoologica. Infatti vi sono discipline diverse e numerose che si occupano di aspetti particolari dell'essere umano, ma nessuna dí queste si interessa specificamente della posizione della nostra specie nella sistematica naturale, delle sue origini, del suo inquadramento nell'ambito dei Vertebrati superiori, delle relazioni che essa ha con le altre forme di viventi e con l'am-biente esterno che viene da noi profondamente trasformato.

L'anatomia descrive i dettagli della struttura del nostro corpo, la fisiologia ne studia la funzionalità, la patologia indaga sui processi abnormi, la psicologia si occupa delle proprietà elabora-tive del nostro cervello, la storia infine si interessa ai prodotti della cultura umana. Ma nessuna di queste scienze si occupa specifica-mente della nostra specie in senso naturalistico.

Il campo di studio compatibile con questa definizione è tut-tavia molto ampio, in quanto può comprendere aspetti tanto di-versi che devono essere trattati e approfonditi con metodologie che, spesso, poco hanno in comune tra loro.

Lo studioso -dell'Uomo, l'antropologo, è quindi interessato a descrivere le varie caratteristiche proprie della specie umana, come fa lo zoologo con una particolare specie animale o come fa il botanico con una particolare specie dí piante. Ovviamente i metodi saranno diversi a seconda dell'inclinazione propria di ogni studioso e della sua preparazione, ma il risultato deve tendere alla possi-bilità di una sintesi naturalistica di tutti i dati. Sintesi che è alla base di ogni discorso filosofico e che in sostanza deve costituire un ponte fra quelle che impropriamente vengono dette « scienze

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sperimentali » e quelle che ancor più impropriamente vengono chiamate « scienze umanistiche ». Se si vuole poi inserire l'antro-pologia in una tematica più ampia, si può suddividere la storia della Terra in tre stadi: il chemiogenetico, il biogenetico, il cognogenetico.

Lo stadio cbemiogenetico è caratterizzato dalla produzione di composti organici complessi originatisi mediante meccanismi quali l'aggregazione cosmica primitiva, i processi fotochimici, le reazioni termiche o spontanee fra composti preformati. Meccanismi co-munque non di tipo replicativo, non tali cioè da consentire la formazione di un composto mediante la replica di un'identica struttura.

Lo stadio biogenetico è caratterizzato dalle replicazionì di un polimero, strutturato secondo un ordine specifico. Il polimero bio-genetico per eccellenza, nel nostro globo, è l'acido desossiribo-nucleico, o DNA. Questa molecola determina la sequenza delle sue proprie repliche e di quei materiali, come le proteine, che costituiscono le cellule e gli organismi. Su questo polimero la na-tura ha compiuto, a caso, degli errori di reduplicazione e la sele-zione naturale ha scelto fra gli errori quelli più adatti, dando luogo a quell'enorme varietà di forme di vita attualmente esi- stenti sulla Terra.

La cognogenesi (storia) è caratterizzata dall'evoluzione dei meccanismi di percezione, di calcolo, di espressione simbolica e di comunicazione interpersonale per cui si ha l'accumulo delle tradizioni e della cultura.

L'antropologia si occupa delle fasi biogenetiche riguardanti il gruppo dei Primati e dell'origine fisica dell'Uomo, nonché del-l'origine e dei meccanismi di evoluzione dello stadio della cogno-genesi. Essa svolge inoltre una funzione di coordinamento e di sintesi delle conoscenze finora acquisite sulla nostra specie. L'or-ganizzazione dei dati concernenti questa scienza dell'Uomo, inteso come specie zoologica, è comunque un problema complesso e necessita di un principio e di un filo conduttore. Noi lo cerche-remo seguendo la storia evolutiva del gruppo zoologico a cui noi stessi apparteniamo: quello dei Primati.

I Primati come gruppo zoologico sono di per sé particolar-mente interessanti. Sono infatti gli unici Mammiferi per i quali la sistematica delle forme attualmente viventi ricapitoli, per grandi linee, quelle che devono essere state le tappe evolutive che hanno condotto alle forme attualmente più evolute. Le Proscimmie in-

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fatti possono essere considerate come uno stadio evolutivamente inferiore alle Scimmie. Nell'ambito di queste ultime poi le Scim-mie Platirrine, pur nel loro adattamento ecologico talvolta estre-mo, rappresentano uno stadio inferiore a quello delle Scimmie Catarrine il cui massimo prodotto evolutivo è l'Uomo. Una siste-matica orizzontale quindi che in grandi linee ricapitola la sistema-tica verticale o delle forme fossili; un gruppo di particolare inte-resse per lo zoologo e di importanza basilare per l'antropologo.

Nello studio dei Primati v'è infatti un altro motivo di inte-resse per l'Uomo, in quanto a quest'ordine egli stesso appartiene. Del resto, l'autocoscienza della somiglianza, non soltanto nel-l'aspetto esteriore ma anche nel comportamento, tra le Scimmie (le Antropomorfe in particolare) e la nostra specie è antichissima e antichissime sono le documentazioni che la provano. La prima documentazione scritta è probabilmente quella riportata nel Pe-riplus Hannonis (470 a. C.). Nel diario di Annone il Navigatore sí legge infatti: « Arrivammo in una insenatura che prende il nome di Corno del Sud; sullo sfondo stava un'altra isola popolata da Uomini selvaggi. Questi erano per la maggior parte di sesso femminile, coperti di peli in tutto il corpo e gli interpreti li chia-mavano ` Gorilla '. Non fu possibile accostarci ai maschi, che subito ci accingemmo a seguire. Essi ci sfuggivano arrampicandosi sui dirupi e difendendosi con le pietre. Dopo molti sforzi riu-scimmo a catturare tre femmine che però ci fu impossibile tra-sportare a bordo perché mordevano e graffiavano; fummo costretti a ucciderle e a portare la loro pelle a Cartagine ».

In Aristotele (384-322 a. C.) questa posizione è particolar- mente chiara e a proposito di Scimmie, nella sua Historia anima- lium, richiama il principio generale della gradualità nella natura (natura non facit saltus) con queste parole: « Vi sono alcuni ani-mali come le Scimmie e i Cinomorfi i quali, a causa della loro natura ambigua, hanno sia mani che piedi, ma i loro piedi possono essere usati come mani ». È stato però Galeno (129-201 d. C.) ad affrontare fra gli antichi in modo chiaro queste similitudini a li-vello anatomico: « Le Scimmie sono fra gli animali quelli che più rassornigliano all'Uomo per le loro viscere, muscoli, arterie, nervi e ossa », rispecchiando una convinzione diffusa della filo-sofia e della scienza di allora. L'Uomo era considerato come un animale simile alle Scimmie, dalle quali si distingueva per la maggior quantità di cervello, per l'intelligenza e per la stazione eretta.

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Dopo la lunga parentesi del Medioevo, con il rinnovarsi degli interessi naturalistici, va progressivamente crescendo anche que-sto interesse per la nostra somiglianza con le Scimmie, e per la natura animale dell'Uomo. È del 1699 l'opera di Edward Tyson (1650-1708), il primo vero trattato di anatomia comparata fra

l'Uomo e le Scimmie. Questa visione naturalistica dell'Uomo, cioè di completo in-

serimento della nostra specie nel regno animale, trova, nel corso del XVIII secolo, il suo maggiore sostenitore in Linneo (1707- 1778), il famoso fondatore della nomenclatura binomia che nel

suo Systema Naturae cataloga tutti gli animali in tre gruppi: Pri-mati, Secondati e Terziati. Fra i Primati egli include l'Uomo e le Scimmie, fra i Secondati tutti i Mammiferi e fra i Terziati tutti gli altri animali. Nella sua classificazione dei Primati, anzi, Linneo attribuisce il medesimo nome di Homo oltre che alla nostra specie,

alla quale dà l'attributo di « sapiens », anche allo Scimpanzé e al-

l'Orango, ai quali dà l'attributo rispettivamente di troglodytes

e sylvestris, giustificandosi cosi: « Benché vi abbia prestato molta attenzione non sono stato capace di scoprire alcuna differenza f

ra

l'Uomo e lo Scimpanzé »; e in seguito: « Come naturalista se-

guendo metodi naturalistici, io non sono stato finora capace di scoprire anche un solo carattere che distingua l'Uomo dalle An-tropomorfe giacché esse comprendono esemplari che sono anche meno pelosi dell'Uomo, che camminano eretti su due piedi e che rassomigliano alla specie umana per i loro piedi e le loro mani a tal punto che un viaggiatore inesperto li potrebbe considerare una varietà di Uomini. Ma c'è nell'Uomo qualcosa che non può essere visto, che coinvolge la conoscenza di noi stessi e che è la ragione »,

Tanto comune era la consapevolezza di questa similitudine che le Scimmie, nelle illustrazioni dei libri dell'epoca, venivano sempre rappresentate in atteggiamenti umani (v. fig. a fronte).

Ma bisogna arrivare alla pubblicazione di On the Or ba rwi

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f

Species (1859) e più ancora al The Descent of Man

(1871) perché il problema della parentela fra gli Uomini e le Scimmie sia impostato in modo chiaro e diventi scottante

e

al loro dram-

matico. Lo scalpore che le teorie di Darwin suscitarono apparire è da mettere in relazione tanto con l'atmosfera culturale dell'epoca, impregnata di antropocentrismo, idealismo e finalismo, quanto con una errata interpretazione dei termini stessi della questione evoluzionistica.

A partire dalla pubblicazione delle opere darwiniane, sorsero

XII

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Rappresentazione di Primati ín atteggiamenti umani. (Da una stampa del XVII secolo).

fra studiosi di diverse discipline dispute e contrasti violenti, che solo negli anni più recenti sono stati superati dalla completa accettazione della reale stretta parentela biologica della nostra specie con gli altri Primati. Anche se questo non impedisce il permanere di certe filosofie che considerano l'Uomo centro del-l'universo, creatura superiore e diversa da tutte le altre.

Alfine di far ritrovare all'Uomo la giusta posizione nell'am-bito della natura, può essere utile riproporre all'umanità attuale la constatazione della sua vera natura di specie animale, la cui breve vita è legata alla comune sopravvivenza di altri esseri e inserita in un ambiente fisico e biologico che, pur soggetto a costante trasformazione, deve essere rigorosamente rispettato per assicurare la futura sopravvivenza della specie.

Comunque, anche prescindendo da interessi zoologici e uma-nistici, vi sono perlomeno altri due punti di vista per cui lo studio dei Primati deve essere tenuto in considerazione. In primo luogo la cònstatata parentela biologica fra la nostra specie e quelle degli

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altri Primati induce a ritenere che lo studio della biologia com-parata dei Primati non umani sarà foriera di nuove e importanti scoperte per la biologia umana. In secondo luogo l'indubbia con-statazione che, sulla base di ogni criterio biologico, l'Uomo è di gran lunga il miglior prodotto della evoluzione organica, pone l'interrogativo di come ciò si sia potuto realizzare.

Nelle pagine che seguono abbiamo cercato di documentare i fatti dell'evoluzione dell'Uomo per mezzo della comparazione con le forme animali attuali a lui più direttamente imparentate. Una cor-retta comprensione dell'evoluzione umana è infatti basata sulla co-noscenza dettagliata dell'evoluzione dell'intero ordine dei Primati.

Questo libro tuttavia non vuole essere un testo di antropo-logia fisica e pertanto molte informazioni che tradizionalmente sono parte integrante di questa disciplina non hanno trovato un inserimento logico nel discorso, anche se sono indispensabili per la sua effettiva comprensione; mentre altre parti possono sem-brare aggiuntive. Per questa ragione, chiunque abbia una qualche conoscenza di biologia troverà superficiali i capitoli introduttivi di genetica e biologia generale, come chi ha una qualche cono-scenza di geologia troverà superficiali e troppo sintetici i capitoli concernenti i movimenti delle terre emerse e i capitoli introdut-tivi alla paleontologia dei Primati, ma questo testo non è dedicato al lettore specialista e ha l'ambizione di servire alla necessaria integrazione del tipo di cultura di cui abbiamo detto sopra.

L'unità fondamentale per un qualsiasi studio sistematico ed evolutivo di un gruppo di viventi è l'individuo. Pertanto inizie-remo cercando dí caratterizzare un individuo Primate tipico che, come ogni individuo, può essere descritto per il suo aspetto este-riore, per le sue dimensioni, o per altre differenti caratteristiche. A noi interessa caratterizzare questo individuo dal punto di vista genetico, perché è sui metodi della genetica che essenzialmente si basa lo studio dell'evoluzione.

B. C. Torino, 20 luglio 1975

L' ORIGINE DELL' UOMO

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Capitolo primo

RINGRAZIAMENTI. Questo testo è una rielaborazione di corsi di lezioni tenute alle Università di Torino e di Toronto fra il 1970 ed il 1974 su problemi dí evoluzione umana. Esso pertanto risente di una impostazione didattica, ma proprio alla attiva interazione e alla costante stimolazione degli studenti deve l'intento dí presentare in modo coordinato e sintetico i diversi aspetti della evoluzione fisica dei Primati e il problema della ori-gine dell'Uomo. Indispensabile mi è stato l'aiuto di molti collaboratori, in particolare del prof. M. Masali, dei dr.i G. Ardito e F. Fedele, delle dr.sse E. Rabino Massa e L. Lamberti Montagnoni. Il libro tuttavia non sarebbe mai stato completato senza la collaborazione appassionata e meti-colosa della sig.na Chiara Bullo.

Con l'occasione desidero anche ringraziare l'Academic Press di Londra-New York che nel 1973, con il titolo Evolution of the Primates, ha pub-blicato parte del materiale elaborato nel presente volume.

LE BASI GENETICHE DELL'EVOLUZIONE

1. Caratterizzazione genetica dell'individuo.

A parte la condizione unica dei gemelli monozigoti, nella nostra specie come in tutti gli altri Primati non esistono, e pro-babilmente non sono mai esistiti, due individui identici fra loro.

Le differenze non si limitano alle caratteristiche osservabili come il colore degli occhi o dei capelli o la forma del naso, ma comprendono anche differenze percettibili con altri sensi e diffe-renze che i nostri sensi non percepiscono affatto. Ogni individuo differisce da un altro per un particolare tono e timbro dí voce; è caratterizzato inoltre da un determinato odore che noi distin-guiamo raramente, ma di cui il nostro cane si serve per ricono-scerci. Ciascuno di noi è caratterizzato da un determinato gruppo sanguigno che solo attraverso speciali ricerche di laboratorio pos-siamo mettere in evidenza. Queste diversità hanno destato inte-resse fin dai tempi più antichi: sono state attribuite all'ereditarietà e all'ambiente, agli avi e all'educazione. Spesso la realtà di esse è stata distorta e, più o meno volutamente, da essa sono state tratte conclusioni errate.

Tuttavia, nonostante questa ampia variabilità, ognuno dí noi si attribuisce il titolo di Uomo e si distingue e distingue i suoi simili dagli altri esseri viventi, per cui si deve concludere che tutti gli esseri appartenenti alla nostra specie posseggono determi-nate caratteristiche comuni.

Le differenze fra noi e gli altri animali si fanno più manifeste quando prendiamo in considerazione i caratteri che sono apparsi più anticamente nel corso della evoluzione. I caratteri apparsi più recentemente sono generalmente di minore importanza e la loro natura ereditaria è facilmente dimostrabile.

Gli esseri umani appartengono ai Cordati, in quanto in un primo stadio dello sviluppo posseggono una struttura dí sostegno,

1

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H H3C C00-

C41 NH3

H -CF1,-C- C00-

w.CF1 NH3 11

H2 C C00- H:C

/ H H an' H

acido aspartico ( A sp) -O

_ULAJ- O NH3

arginina ( A rg ) H H2N-C---N1-1-CFET-Ca-CHr C00-

NH: NH3

istidina ( His) H HC=r-C--C1-12-r C00-

/..k'H NH3 C

lisina (Lys) H

H3N-CHI-CH7C1-17-CH:1- C00- NH3

leucina (Len) H 1..C , - C00-

CH3 NH3

Fl isoleucina ( lieu) H

Ha-4-000- Fl3C-CHI CH, NH3

O

\ , NH3 "„-cHT- C00-

NH3

metionina (Mer) H

NH3

- C00-

fenilaiànina (Phe) glutammina (Cita - NEW H H NI12 -CHrCHr-C; C00- C00-

O NH3 NH3

Fig. 1.1 Formule di struttura degli amminoacidi. Ciascun amminoacido, eccetto la prolina, ha un gruppo carbossilico ionizzato libero (C00-) e un gruppo amminico ionizzato libero (NH3) su un atomo di carbonio in posizione a. Ciascun amminoacido ha anche un gruppo R caratteristico. Gli amminoacidi possono essere divisi in quattro classi a loro volta defi-nite a seconda della polarità dei gruppi R in essi contenuti. Gli ammino-acidi con gruppi R non polari o idrofobici sono alanina, isoleucina, metionina, leucina, fenilalanina, prolina, triptofano e valina. Quelli con gruppi R polari, ma non carichi sono: asparagina, glutammina, cisteina, glicina, serina, treonina e tirosina. Gli acidi aspartico e glutammico hanno gruppi R con cariche negative, la lisina e l'arginina con cariche positive, come l'istidina a pii 6-7. (Da Lehninger, 1970).

detta appunto corda dorsale, disposta longitudinalmente nella parte dorsale del condotto alimentare. Si presume che anche que-sto sia un carattere determinato geneticamente, ma non abbiamo la possibilità di individuare quali e quanti geni siano interessati nella formazone della corda dorsale.

Dobbiamo poi classificarci fra i Vertebrati, poiché possediamo uno scheletro. Non si conoscono mutazioni che eliminano lo scheletro, ma si conoscono almeno un centinaio di piccole varia-zioni ereditarie nell'organizzazione di esso che, in vario modo e con diversa intensità, interferiscono con le normali funzioni della vita.

Alcune caratteristiche fondamentali dei Mammiferi, quali l'es-sere ricoperti di peluria, il possedere ghiandole mammarie e una temperatura corporea costante, sono meno stabili. Diverse mu-tazioni possono condurre a un'assenza più o meno completa dí pelo, a variazioni nel numero, nella posizione e nella funzionalità delle ghiandole mammarie. In questi casi la mutazione sfavore-vole può essere compensata dalla capacità umana di controllare l'ambiente. Possiamo infatti ripararci dal freddo vestendoci, pos-siamo correggere l'accrescimento delle ghiandole mammarie con la somministrazione artificiale di ormoni e i neonati possono essere allevati con allattamento artificiale.

Procedendo in questo modo, possiamo infine riconoscere un certo numero dí caratteri che distinguono tassonomicamente la nostra specie ( Homo sapiens) dalle Antropomorfe (Gorilla, Scim-panzé, Orango) e queste dalle altre specie di Primati.

Nell'ambito della specie Homo sapiens come nell'ambito di altre specie di Primati, poi, attraverso isolamenti geografici e sociali e con l'effetto concomitante del drift genetico e della se-lezione, molte popolazioni si sono differenziate da altre per uno o più caratteri, talvolta vistosi come il colore degli occhi o della pelle, il tipo dei capelli o le dimensioni del corpo.

Nell'ambito di una popolazione, così grande è il numero delle differenze ambientali e genetiche che interferiscono nella estrin-secazione dell'aspetto fisico, che ciascun individuo è da conside-rarsi unico. La unicità di ogni individuo di una popolazione ap-pare particolarmente eclatante quando si prende in considerazione l'armonica complessità del suo genotipo e, maggiormente, quando ci si addentra nella complessità della organizzazione strutturale dei suoi componenti più minuti come la sequenza degli ammi-noacidi nelle proteine.

glicina (Giy)

alanina (Ma)

serina (Ser i

cisteina (Cys)

tirosina ( Tyr) HO

NH3

asparagina ( Asp - N1-12) H

H H 1- C00-

NH3 H

113C - C- cocr

H C00-

NH3 H

HS-CHr C00- NH3

valina (Vai)

acido glutarnmico (Gita) H ~O C,C-CHT-CFCC, °°-

O NH3

H

C00- CH3 NH3

CH

- C00-

treonina (Thr)

triptofano ( Try)

prolina (Pro)

Page 9: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

2. Fissità della successione degli amminoacidi in una proteina.

Le proteine sono uno dei costituenti essenziali del nostro corpo. Sono in genere molecole a peso molecolare elevato. Sono costituite prevalentemente da una successione di amminoacidi (fig. 1.1) di numero e sequenza fissi per ognuna delle miriadi dí differenti proteine che entrano a far parte di ogni cellula del nostro corpo (fig. 1.2).

L'architettura di ogni molecola proteica è determinata a priori dal codice genetico organizzato nell'acido desossiribonucleico (DNA) localizzato nei cromosomi. Questo codice, coadiuvato dal-l'acido ribonucleico messaggero ( messenger RNA), dall'acido ribo-nucleico di trasferimento (transfer RNA) e dall'RNA insolubile, localizzato nei ríbosomi, determina la costruzione delle catene proteiche.

L'informazione necessaria per la sintesi proteica è codificata nella sequenza di subunità fondamentali (nucleotidi) che pren-dono il nome dalle quattro basi che le compongono: adenina, guanina, citosina, timina (fig. 1.3). Queste sono le lettere ' indi-spensabili per la formazione delle sillabe ' e quindi delle parole ' necessarie a leggere il messaggio genetico. Poiché non è possibile avere una corrispondenza biunivoca fra le quattro basi e i venti amminoacidi, solo una sequenza di tre basi (tripletta) può indicare

NH_i S S NH, NH. Cala. a Gly.11eu.Val.GluAllu.Cyst,evs.Ata.Ser.VaLtys.Ser.Leu.Tyr.41u.Leu.Glu.Asp.Tyr.Cy.IP

NH, Catena B ly.GluArg.01y.Phe.Phe.Tyr.TAr.Pro.Lys. A l,

(a)

s—s

catena a

catena 13

1))

Fig. 1.2 Sequenza degli amminoacidi nelle due catene costituenti la mole-cola di insulina: a) rappresentazione schematica; e b) struttura spaziale, Nei tratti in cui questa struttura è stabilIzzata da ponti di solfuro, le due catene sono legate fra loro. (Da Ryle et al., 1955).

4

Le basi puriniche

adenina NH, (6-amminopuHrina Ne:,.(42., ,cc::,

II

guanina 11

(2-ammino- O -6-ossipurinaì

citosina H H2N-1/41\rcmi

H CH

(2-ossi- NH3 -4-amminopitimidina)

Nr-!-9'CH

CH H

Fig. 1.3 Le formule di struttura delle basi degli acidi nucleici. L'elemento strutturale fondamentale di una pirimidina è un anello a sei atomi di cuí quattro di carbonio e due di azoto. In una purina l'anello a sei atomi ha in comune due atomi di carbonio con un anello a cinque ato-mi che comprende altri due atomi di azoto. La timina e l'uracile sono pirimidine quasi identiche; un gruppo metilico (-CR) nella timina sostituisce un atomo di idrogeno nell'uracile. Un nucleotide è costituito da una base legata a uno zucchero (ribosio nell'RNA e desossiribosio nel DNA) e a un gruppo fosfato. (Da A. Lehninger, 1970).

quale amminoacido debba essere incorporato nella catena proteica. Il numero delle possibili triplette ottenute dalla permutazione

delle quattro basi è 64 (tab. 1.1), mentre gli amminoacidi sono soltanto venti. Questo apparente spreco ' di lettere è giustificato dal fatto che tre lettere sono la lunghezza minima della parola nucleotidica necessaria per specificare í 20 diversi tipi di ammino-acidi.

La contraddizione fra numero di sillabe e numero di ammino-acidi è stata spiegata col fatto che alcuni amminoacidi sono codi-ficati da più di una tripletta di nucleotidi (AAA e AAG codificano ambedue la fenilalanina), che alcune triplette sono indicatori di termine di catena (ATT, ATC e ACT) e che altre danno segnali d'inizio o d'arresto a una catena di amminoacidi.

Le sillabe lette sul DNA vengono trascritte su molecole di RNA sintetizzate in prossimità del DNA cromosomiale. Le lettere dell'alfabeto dell'RNA sono anch'esse in numero di quattro; di

Le basi pirimidiniche uracile O

1-3Nr4. TI R

timina (5-metit- -2,4-dffissiu1wunffdina) il

HN(';' —CH3 0= CH

Page 10: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

molecole libere di t-RNA (RNA solubile) caricate con amminoacidi

la catena polipeptidica in ala di sintesi

C filamento di DNA

T C

RNA-pollinerasi

RNA messaggero

G U

T T AG tria:crAiziot:ectirm

C

Th traduzione

rlbosoma

U P

una molecola di t.RNA

che ha appena ceduto

il suo amminoacido

e

TABELLA 1.1 codice genetico: le triplette nucleotidiche e gli am- minoacidi corrispondenti* •

DNA RNA tripletta tripletta

AAA UUU fenilalanina (Phe) ATA UAU tirosina (Tyr) AAG UUC fenilalanina (Phe) ATG UAC tirosina (Tyr) AAT UUA leucina (Leu) ATT UAA terminatore di catena AAC UUG leucina (Lett) ATC UAG terminatore di catena GAA CUU leucina (Leu) GTA CAU istidina (His) GAG CUC leucina (Leu) GTG CAC istidina (His) GAT CUA 'cucina (Leu) GTT CAA glutammina (Glu—NH2) GAC CUG leucina (Leu) GTC CAG glutammina (Glu—NI-12) TAA AUU isoleucina (lleu) TTA AAU asparagina (Asp—NH2) TAG AUC isoleucina (Ileu) TTG AAC asparagina (Asp—NH2) TAT AUA isoleucina (Ileu) TTT AAA lisina (Lys) TAC AUG metionina (Met) TTC AAG lisina (Lys) CAA GUU valina (Vai) CTA GAU acido aspartico (Asp) CAG GUC valina (Vai) CTG GAC acido aspartico (Asp) CAT GUA valina (Vai) CTT GAA acido glutammico (Glu) CAC GUG valina (Val) CTC GAG acido glutammico (Glu) AGA UCU serena (Ser) ACA UGU cisteina (Cys) AGG UCC suina (Ser) ACG UGC cisteina (Cys) AGT UCA serína (Ser) ACT UGA terminatore di catena AGC UCG serina (Ser) ACC UGG triptofano (Try) GGA CCU prolina (Pro) GCA CGU arginina (Arg) GGG CCC prolina (Pro) GCG CGC arginina (Arg) GGT CCA prolina (Pro) GCT CGA arginina (Arg) GCG CCG prolina (Pro) GCC CGG arginina (Arg) TGA ACU treonina (Thr) TCA AGU serina (Ser) TGG ACC treonina (Thr) TCG AGC serina (Ser) TGT ACA treonina (Thr) TCT AGA arginina (Arg) TGC ACG treonina (Thr) TCC AGG arginina (Arg) CGA GCU alanina (Ala) CCA GGU glicina (Gly) CGG GCC alanina (Ala) CCG GGC glicina (Gly) CGT GCA alanina (Ala) CCT GGA glicina (Gly) CGC GCG alanina (Ala) CCC GGG glicina (Gly)

* Le abbreviazioni per gli amminoacidi sono riportate nella tabella. Le abbre-viazioni per le basi nucleotidiche sono: A, adenína; C, citosina; G, guanína; T, ti-mina; U, uracile.

esse tre sono uguali a quelle del DNA (A, G, C), mentre la quarta è diversa essendo la timina sostituita dall'uracile (fig. 1.3).

Il messaggio cosi trascritto da un alfabeto all'altro viene trasfe-rito, dal nucleo al citoplasma della cellula, dall'RNA messaggero ( mRNA); questo si attacca a un ribosoma (vera macchina della sintesi proteica) e viene letto, secondo una direzione fissa, in modo che ad ogni tripletta corrisponda un determinato ammino-acido, traducendo il linguaggio, espresso in nucleotidi, in un lin-guaggio di amminoacidi. In questa operazione entra in gioco un altro tipo di RNA, il transfer-RNA (tRNA). Per ogni ammino-acido si ha un appropriato tipo di tRNA in modo che possa corn-

Fig. 1.4 Rappresentazione schematica della sintesi proteica. I filamenti di RNA messaggero (mRNA) vengono formati da uno stampo dí DNA nel nucleo. L'mRNA va nel citoplasma, dove si attacca a un ribosoma. Un complesso tRNA-amminoacido, il cui anticodone si appaia con il codone che sta per essere letto sull'mRNA, si lega all'RNA. Quando il fila-mento di mRNA è tradotto, le molecole di tRNA si staccano dagli amminoacidi che sono uniti da legami peptidici per formare la proteina codificata nel filamento originario di DNA.

A mminoacido DNA RNA tripletta triple= Amminoacido

6 7

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baciare con la sequenza dei nucleotidi dello stampo (fig. 1.4). Ogni tRNA sceglie nel citoplasma l'amminoacido adatto e lo col-loca al giusto posto della catena proteica in via di formazione. Quando il ribosoma ha letto il messaggio scritto sull'RNA si separa da questo e dalla proteina formata ed è pronto per un'altra lettura. L'intero processo dura pochi secondi.

Il controllo della sintesi proteica avviene, con i medesimi prin-cipi, negli organismi superiori come nei batteri, e probabilmente da quando il meccanismo si è iniziato, circa 6 miliardi di anni fa, non ha subito cambiamenti sostanziali.

3. Che cos'è un gene e quanti sono i geni nel nucleo di una cellula umana.

Il gene è l'unità fondamentale che determina ogni nostro carattere. Esso è costituito da DNA ed è localizzato nei cromo-somi. Ciascun gene però non agisce da solo, in quanto, tranne che per i caratteri legati al sesso, è sempre accompagnato da un gene analogo, che proviene dall'altro genitore e che presiede allo stesso carattere. Ai due geni di una coppia così costituita si dà il nome di alleli e la coppia si dice allelomorfa.

Non si conosce il numero delle coppie geniche costituenti il patrimonio ereditario dell'Uomo. Le stime proposte da vari au-tori in passato variano da un minimo di 5.000 a un massimo di 120.000. Vogel nel 1964 ha prospettato il problema in modo originale.

I dati su cui si basano le sue deduzioni sono i seguenti. 1. L'emoglobina normale umana è formata dí 4 subunità glo-

biniche: due a e due p, cui sono connessi i nuclei porfirinici con-tenenti il ferro. La catena globinica a dell'emoglobina umana con-tiene 141 amminoacidi, la catena f 146. Questo significa che le catene a e p sono determinate rispettivamente da 423 e da 438 paia di nucleotidi. Molte altre proteine sono costituite da sequenze di amminoacidi del medesimo ordine di grandezza. Da ciò si può desumere che un gene strutturalmente attivo dovrebbe avere in media una lunghezza di circa 450 paia di nucleotidi.

2. Il peso di un assetto aploide di cromosomi umani (il nucleo degli spermatozoi) è di circa 2,72 X 10-2 g (il nucleo dei granu-lociti del sangue pesa circa 6,23 x 10-12 g).

Poiché, in linea di massima, si sa che il contenuto in DNA risulta costante per ciascuna cellula di ogni specie, si può am-mettere che la quantità totale di DNA ín un assetto aploide umano sia pari a 3X 10-12 g.

3. Normalmente le varianti dell'emoglobina umana differiscono fra loro per la sostituzione di un solo amminoacido. Un gene strut-turale quindi sembra possa produrre un solo tipo di catena poli-peptidica geneticamente determinata. Questo significa che i geni strutturali possono essere presenti una sola volta. È facile poi calcolare che un paio di nucleotidi con una adenina, una timina, due desossiribosi e due residui fosfati hanno un peso di circa 1 X 10-2' g.

Poiché l'assetto totale cromosomico aploide umano contiene intorno a 3 x 109 paia di nucleotidi, assumendo che ne siano ne-cessari 450 paia per un gene strutturale medio, si può dedurre che in un assetto aploide umano siano presenti circa 6,7 X 106 geni strutturali. Questo numero risulta estremamente elevato.

Sulla base di altre deduzioni ricavate dalla struttura dei cro-mosomi che sono in parte costituiti da proteine e tenendo in considerazione anche altri fattori, il Vogel arriva comunque ad affermare che il numero dei geni di un corredo aploide umano non dovrebbe certamente essere inferiore a 6,7 X 104.

Secondo questi calcoli quindi il numero dei geni contenuti in un nucleo aploide umano ammonterebbe a circa 67.000. Anche se questi calcoli risultano viziati dalla impossibilità di determi-nare con esattezza che cosa sia un gene funzionale, essi ci danno un'idea della enorme complessità del genotipo di un vertebrato superiore come l'Uomo.

Se poi vogliamo distinguere i geni che presentano sempre la stessa modalità in tutta la nostra specie da quelli responsabili delle variazioni individuali o gruppali, possiamo assumere che questi ultimi siano intorno a 5.000. Ora, siccome i geni funzio-nano in coppie di alleli e ciascun allele può esprimersi nella sua qualità di dominante e recessivo, ogni coppia di alleli può estrin-secare fino a tre fenotipi (omozigote dominante, omozigote reces-sivo ed eterozigote). Ne consegue quindi che i fenotipi umani, dif-ferenti per almeno una coppia genica, saranno

3:500• Questo nu-

mero enorme di possibilità dimostra come sia praticamente impos-sibile (salvo il caso dei gemelli MZ) trovare due individui fenoti-picamente uguali, viventi sul nostro globo. Ogni individuo pertanto rappresenta di per sé un unicum.

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4. L'individuo e la popolazione.

L'Uomo, come quasi tutte le altre specie di Primati, tende a vivere in gruppi che, in senso lato, sono detti popolazioni. Gli individui appartenenti a una popolazione in genere differiscono per qualche carattere da quelli appartenenti a un'altra popola-zione, sulla base della presenza-assenza di vari alleli o in termini di frequenze relative di essi.

Le popolazioni umane o animali differiscono geneticamente l'una dall'altra quasi unicamente per le varie proporzioni di alleli che esse contengono. Quasi mai si ha la perdita dí uno degli alleli in una popolazione, ma soltanto frequenze diverse, talvolta bas-sissime.

Mediante calcoli relativamente semplici è possibile derivare dalla proporzione dei vari fenotipi, per ogni popolazione, la fre-quenza relativa degli alleli ad essi corrispondenti. La descrizione genetica di una popolazione consiste quindi nell'elenco delle frequenze relative dei vari aneli che esistono in una popolazione.

5. Natura e rappresentazione della variabilità genetica di una popolazione.

Se ad esempio P e Q sono due geni presenti in entrambi i nuclei di una coppia parentale allo stato eterozigote, alla gameto-genesi entrambi i genitori daranno O,5P+0,5Q, per cui l'effetto del loro accoppiamento in termini di probabilità sarà:

(0,513+0,50' = 0,25PP+0,50PQ+0,25QQ. Se però i genitori sono uno eterozigote e uno omozigote

per questi caratteri, i figli da attendersi dalla coppia parentale saranno:

(0,5P+0,5Q) x 1P = 0,5PP +0,5PQ. Vi è quindi una relazione evidente fra genotipi parentali,

gameti da essi prodotti e frequenza dei genotipi dei figli. Per-tanto, allo studio dell'accoppiamento dei diversi genotipi si può sostituire quello della combinazione dei gameti corrispondenti, tenendo conto della relativa frequenza con la quale essi sono prodotti nella popolazione che si considera.

Infatti, se supponiamo che il fattore P concorra a produrre i genotipi di un gruppo nella proporzione del 40% e il fattore Q concorra in quella residua del 60%©, i gameti che saranno pro-

10

dotti da tutta la popolazione, sia maschile sia femminile (a meno dei caratteri legati al sesso), si troveranno pure nella medesima proporzione, e la frequenza dei genotipi delle figliolanze sarà;

(0,4P+0,6Q) X (0,4P+0,6Q) = (0,4P+0,6Q)2 = 0,16PP+0,48PQ+0,36QQ. A sua volta la generazione filiale produrrà gameti P e Q nella

medesima proporzione e produrrà la condizione iniziale. La formula: (0,4P+0,60)2 è quindi atta a rappresentare sin-

teticamente la distribuzione dei genotipi nella popolazione al momento dell'esame e nelle generazioni successive, purché le combinazioni fra i diversi gameti avvengano a caso e non vi siano intrusioni dall'esterno.

Se la popolazione costituisce una ben definita unità sistema-tica, come una razza o addirittura una specie, la formula potrà prendere il nome di allelotipo razziale o specifico.

Talvolta però i caratteri, come ad esempio i gruppi sanguigni ABO, sono poliallelici. In questo caso i geni che si combinano nell'unica coppia allelomorfica sono di tre qualità ( A, B, O) e quindi anche i gameti prodotti nella massa della popolazione sa-ranno di tre modalità, ciascuna delle quali si presenterà nella massa dei gameti della popolazione con una sua frequenza e l'alle-lotipo relativo a quel carattere assumerà l'aspetto trinomiale: (pAi-qB-1-r0)2 dove p, q ed r sono le frequenze relative di cia-scuno dei caratteri. Dallo sviluppo del trinomio si ottengono in qualità e frequenza tutti i genotipi della popolazione.

6. L'equilibrio genetico e la legge di Hardy-Weinberg.

L'allelotipo rappresenta, dal punto di vista genetico, una po-polazione per tutto il tempo nel quale si verificano accoppia-menti di tutti i tipi senza selezione alcuna e in cui le frequenze dei geni in gioco rimangono costanti. Una popolazione in cui le frequenze geniche per un determinato carattere siano riducibili a una distribuzione binomiale o polinomiale (anche se asimme-trica) si dice che è in condizioni di equilibrio genetico.

Supponiamo, ad esempio, che un territorio isolato sia popo-lato da un ugual numero di omozigoti dominanti TT e di omozi-goti recessivi tt alla sensibilità alla phenyl-thio-carbammide, e che i membri di questa popolazione si accoppino a caso. I possibili matrimoni, per quanto concerne questo carattere, saranno:

11

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TT x TT , TT x tt e tt x tt. Se la proporzione iniziale dei TT e dei tt è del 50%, ciascuno pari quindi allo 0,5 del totale della popolazione, considerato uguale a 1, i gameti prodotti da questi individui staranno pure nella medesima proporzione; pertanto, se essi si combinano a caso, si avrà:

Uova 0,5T i 0,5t

0,5T 0,25tt

Ciò equivale a dire: 0,25TT+0,50Tt+0,25tt. Nella genera-zione successiva la proporzione dei gameti prodotti sarà la me-desima della generazione precedente, poiché la frequenza degli alleli T e t del gene sarà:

T = 0,25 (dagli omozigoti TT)+0,25 (dagli eterozigoti Tt)= 0,5

t=0,25 (dagli omozigoti tt)+0,25 (dagli eterozigoti Tt) = 0,5

e così via nelle generazioni successive. Generalizzando, si potrà dire che se q è la frequenza dei ga-

metí portatori dell'allele t, la distribuzione dei genotipi nella generazione successiva sarà:

Uova (1— q)T 1 (1— q)2TT I q (1—q)Tt

qt q (1—q)Tt q2tt

Spermi (1—q)T qt

In un caso di allena semplice, indicando con q la frequenza genica dell'allele t e con p quella dell'allele T, vale la relazione

p + q =1, ossia p.=1 — q. La distribuzione dei genotipi nella generazione considerata

può dunque descriversi con il sistema di rapporti seguente: (1 — q)2 TT 2q(1 — q)Tt q2 tt

ovvero p2 TT 2pqTt q2 ti,

i cui termini corrispondono allo sviluppo del binomio (pT qt)2.

12

L'espressione: (pT±qt)2 = p2 TT-1-2pqTt+q'tt è nota sotto il nome di formula di Hardy-Weinberg e fornisce le frequenze genotipiche per un carattere allelomorfo in una popolazione pan-mittica. Affinché si verifichino le condizioni di equilibrio in un caso di questo genere, è necessario che la somma di tutte le fre-quenze considerate sia uguale all'unità:

(p+q)2 = Y-F2pq+q2 = 1. La formula di Hardy-Weinberg permette di controllare se una

popolazione è in equilibrio genico. Da quanto precede risulta anche ovvio che è possibile calco-

lare la frequenza di un gene recessivo in una popolazione quando si conosce la frequenza del suo fenotipo. Infatti la frequenza di un allele in una popolazione risulta dal calcolo della radice qua-drata della frequenza del fenotipo omozigote. D'altra parte, quan-do è nota la frequenza dell'allele recessivo è facile calcolare, me-diante la formula di Hardy-Weinberg, la frequenza del dominante e degli eterozigoti, sostituendo il valore noto nell'espressione sopra considerata.

Consideriamo ora una popolazione nella quale i genotipi non siano distribuiti in maniera binomiale perfetta, per esempio la popolazione genotipica 0,3TT+0,4Tt+0,3tt, ovvero il cui feno-tipo sia 0,7T=0,3t.

Poiché V0,3+ V 0,3 = 1,096 è diverso da 1, i genotipi non possono considerarsi come una combinazione casuale di due geni e la popolazione non è in equilibrio genetico.

I gameti prodotti da questa popolazione sono in qualità e frequenza i seguenti:

0,3T+0,2T+0,2t+0,3t = 0,5T+ 0,5t e pertanto, nella solita ipotesi dí panmissia, la distribuzione dei genotipi nella generazione successiva sarà:

(0,5T+0,5t)2 = 0,25TT+0,50Tt+0,25t1 con fenotipo di 0,75T e 0,25t, che è una distribuzione diversa dalla precedente.

V0,25+ V0,25 = 0,5+0,5 = 1. Si può quindi concludere che: una popolazione chiusa in con-

dizioni di panmissia tende a conservare lo stato di equilibrio gene-tico, o a riacquistarlo qualora ne venga allontanata da cause transitorie.

In pratica l'equilibrio non sarà raggiunto subito, ma nelle generazioni successive, dopo il cessare delle cause che avevano turbato l'equilibrio; occorrerà un tempo più o meno lungo che

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Spermi 0,5t

0,25TT 0,25Tt

0,25Tt

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sarà espresso in numero di generazioni e che è in rapporto al-l'entità delle difficoltà che si oppongono alla libera circolazione dei geni (barriere etologiche, ecologiche, geografiche, ecc.).

Turbamenti dell'equilibrio genetico si concludono quindi quasi sempre con lo stabilirsi di una nuova forma di equilibrio che può condurre a un nuovo allelotipo. In questo modo è possibile che avvenga una trasformazione del patrimonio ereditario della po-polazione, che può condurre anche a una profonda differenzia-zione di essa. Se le differenze saranno vantaggiose, la nuova popolazione sopravviverà e potrà anche sopraffare la popolazione da cui si è originata, ed eventualmente costituire, come vedremo, una nuova sottospecie o addirittura una nuova specie, secondo la qualità e la quantità dei geni sostituiti.

7. Cause che possono condurre a una differenziazione tipo della popolazione.

L'allelotipo di una popolazione può essere alterato da vari fattori, fra i quali più importanti sono la mutazione, la selezione, íl drift (deriva) genetico di piccole porzioni della popolazione, le migrazioni differenziali.

Le mutazioni possono interessare la struttura dei cromosomi o la qualità delle singole unità ereditarie. Le mutazioni che più ci interessano a livello delle popolazioni sono le mutazioni ge-niche, in quanto esse introducono un carattere qualitativamente nuovo nel patrimonio ereditario di una popolazione e si mani-festano come una variazione discontinua. Esse possono insorgere spontaneamente o essere indotte da agenti fisici (ad esempio ra-diazioni ionizzanti) o da agenti chimici. Ma la cosa che più ci interessa di esse è che la frequenza di mutazione è diversa per i diversi loci. In media si può calcolare che esse avvengano in condizioni naturali con una frequenza dell'ordine di 1 • 10-5.

In generale la vitalità di un gene mutato è minore del gene originario, probabilmente perché la selezione naturale durante l'evoluzione ha già captato quelle mutazioni che si sono presentate più volte e che si sono dimostrate più vantaggiose in rapporto alla vitalità della specie. Tuttavia, se un gene presenta qualche van-taggio in un determinato ambiente, la selezione lo favorirà, ed esso potrà affermarsi fino a influire sull'allelotipo generale della po-polazione. A questo proposito vedremo in seguito come il gene

patologico per la talassemia si è affermato vantaggiosamente in alcune popolazioni umane del Mediterraneo.

La sopravvivenza differenziale dei geni da una generazione all'altra è determinata da fattori esterni che agiscono selezionando il più adatto (selezione). Nella selezione artificiale (allevamento degli animali domestici) la sopravvivenza differenziale o la ripro-duzione dei portatori dei differenti genotipi è operata dalla scelta umana, nella selezione naturale la sopravvivenza differenziale o la riproduzione dei portatori è indipendente dalla volontà umana, ed è perlopiù affidata casualmente a fattori dell'ambiente esterno.

L'ambiente fisico (climatico e geografico) è, fra i fattori natu-rali, quello che maggiormente influenza la selezione naturale nelle diverse specie animali. Se ad esempio prendiamo in considerazione quello che viene chiamato complesso pigmentario nell'uomo (co-lore della pelle, colore degli occhi e colore dei capelli), notiamo che le popolazioni a pigmentazione più scura occupano di pre-ferenza le regioni equatoriali. Il fattore che, ín questo caso, sembra più strettamente correlato con il carattere è l'irradiazione solare. Tale connessione fra fattore ambientale (irradiazione so-lare) e caratteristiche fisiche delle popolazioni equatoriali non è casuale, ma, perlomeno da alcuni punti di vista (come vedremo nel capitolo 2), è vantaggioso.

In popolazioni comprendenti un limitato numero di individui, la frequenza dei geni è soggetta a drift da una generazione all'altra.

Da un punto di vista statistico esso può definirsi come un addensamento casuale dei geni di un determinato tipo, mentre da un punto di vista dinamico è meglio definirlo come deriva gene-tica. Il fenomeno può essere esemplificato come segue. Se si immagina una popolazione di tipo europeo con il 15% di geni B e se ne prende un piccolo campione, per esempio quattro uomini e quattro donne, è assai probabile che i sedici geni del campione siano tutti di tipo O oppure di tipo A o comunque che nessuno degli otto individui sia di gruppo B o AB. Se questi otto indi-vidui per caso sono trasportati su un'isola deserta, si moltipli-cheranno dando luogo a individui tutti fenotipicamente A oppure O e si perderà il genotipo B.

È raro che avvenga un fenomeno del genere, ma esistono molti casi in cui gruppi non molto numerosi dí individui si sono separati dal resto della popolazione. In questo caso sarà poco probabile che l'allelotipo di questi gruppi sia in equilibrio e sia identico a quello della popolazione di origine. L'isolamento con-

14 15

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durrà all'instaurarsi di un nuovo equilibrio corrispondente a un allelotipo con diverse frequenze di geni e quindi a una popola-zione diversa dalla precedente.

Il fenomeno del drift, quindi, presuppone l'isolamento e la poca consistenza numerica dei gruppi isolati; per queste ragioni è pensabile che nella specie umana esso debba essersi verificato con maggior frequenza ín passato, quando l'umanità era distri-buita in gruppi relativamente poco numerosi separati da grandi distanze.

La migrazione differenziale di una parte di una popolazione in una località dove può mescolarsi geneticamente (ibridazione) con rappresentanti di altre popolazioni, diverse per la frequenza e la quantità di determinati geni, può incrementare o diminuire la frequenza di alcuni di questi geni. Nel caso dell'Uomo, questo fenomeno viene detto meticciato e, nel caso di una vasta fascia di mescolanza fra due popolazioni diverse, metamorfismo. Come l'isolamento, anche cambiamenti temporanei della estensione del-l'area occupata da una determinata popolazione (le cosiddette onde di popolazione o fluttuazioni) favoriscono il processo selettivo. Quando una popolazione si moltiplica rapidamente o cambia bru-scamente la sua area di diffusione e quindi la sua densità, variano pure le intensità delle forze selettive e per conseguenza le poten-zialità evolutive.

Nelle popolazioni umane, un certo tipo di selezione poi si verifica anche per accoppiamento non casuale. La selezione può essere dovuta a endogamia o a scelte preferenziali per fenotipi simili (isofenogarnia) o ad altre cause. Questi eventi possono con-durre a delle variazioni nell'allelotipo della popolazione. Tuttavia la direzione delle variazioni non è sempre definibile perché nella medesima generazione o nelle seguenti possono aversi fenomeni inversi come la esogamia o preferenze matrimoniali per fenotipi diversi (eterofenogamia).

8. Le basi dell'ereditarietà: i cromosomi.

Ogni cellula del nostro organismo, come quella di ogni altro essere vivente, contiene un corpicciolo colorabile con coloranti basici e costituito prevalentemente da acido desossiribonucleico (DNA): il nucleo. Esso appare pressoché omogeneo in tutte le cellule intercinetiche; ma quando la cellula si divide, nell'interno

16

g 11 g 1t 45 kie g t; o

I! MI Y

Fig. 1.5 I1 cariotipo umano normale

di esso si organizzano delle strutture filamentose: i cromosomi. Questi rappresentano la caratteristica della specie a livello

cellulare. Ciascuna specie animale e vegetale è caratterizzata da un numero fisso di cromosomi e da una loro morfologia tipica. Questo tipo di informazione viene detto cariotipo.

L'Uomo ha 46 cromosomi: il loro numero e la loro modo-logia sono costanti a tal punto che la presenza supplementare di uno dei più piccoli (il 21°) nelle cellule di un individuo, ha come conseguenza la sindrome mongoloide.

I cromosomi quindi hanno una funzione di notevole impor-tanza nell'organizzazione generale della vita di un individuo e di conseguenza anche nel complesso d'individui che costituisce la specie. La loro importanza sta nel fatto che su di essi sono loca-lizzati, in successione lineare, i fattori determinanti i singoli ca-ratteri ereditari.

I cromosomi, durante la metafase della divisione mitotica, sono particolarmente visibili e appaiono costituiti da due filamenti (cromatidi), uniti insieme in una regione caratteristica di ciascun cromosoma (centromero). A questo punto, ciascun cromosoma si è già autoduplicato e ciascuno dei cromatidi si porterà in una delle due cellule figlie (fig. 1.6).

17

te 17 18

11 21 22

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Con questo meccanismo di autoduplicazione, si perpetua inal-terato, per generazioni e generazioni di cellule, tutto il corredo di informazioni che l'individuo ha ricevuto al momento del con-cepimento dai genitori:

Affinché si mantenga rigidamente costante la quantità d'infor-mazioni da un individuo a un altro è necessario che il numero dei cromosomi si riduca a metà, per poter riformare, nello zigote, un corredo identico al precedente. Questa riduzione avviene durante la maturazione delle cellule germinali.

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9. Continuità delle cellule germinali.

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Le cellule germinali, contrariamente alle cellule somatiche, hanno la proprietà di trasmettere i loro cromosomi perpetua-mente da un individuo a un altro nelle successive generazioni. Le cellule somatiche di un individuo sono destinate a morire con la morte dell'individuo; le cellule germinali sono invece poten-zialmente immortali. Solo queste ultime dunque sono deputate a realizzare la continuità da un individuo all'altro con il succe-dersi delle generazioni, e solo le variazioni che avvengono nei cromosomi delle cellule germinali hanno importanza nel produrre variazioni nel complesso ereditario di una specie.

Fig. 1.6 Rappresentazione schematica delle principali tappe del ciclo mito-tico in una cellula diploide con due paia di cromosomi omologhi (2n = 4). a) profase media; b) tarda profase (profase avanzata); c) prometafase; d) metafase; e) anafase; f) telofase.

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Fig. 1.7 Rappresentazione schematica della prima divisione meiotica in una cellula diploide: a) leptotene; b) zigotene; c) pachitene; d) diplotene; e) diacinesi; f) metafase r; g) anafase i; h) telofase I; i) intercinesi; j) metafase II; k) anafase TI; I) telofase H. (Da Rieger et al., 1968).

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Negli organismi sessuati, già nelle prime divisioni dello zigote si differenziano gruppi di cellule che localizzandosi in particolari regioni dell'embrione determinano lo sviluppo delle gonadi. Nelle gonadi queste cellule continuano a moltiplicarsi e a differenziarsi: in spermatogoni, se si tratta di gonadi maschili; ín ovogoni, se si tratta di gonadi femminili.

Durante la maturazione degli spermatozoi e delle uova, i cro-mosomi passano attraverso i medesimi stadi, pur essendovi delle differenze nella durata delle fasi intermedie e nella regolazione del numero dei gameti.

Nel testicolo, quando uno spermatogonio cessa di moltipli-carsi per mitosi e incomincia ad ingrossarsi, è segno che sta per iniziare la divisione meiotica. La cellula che si trova in questo stadio viene chiamata spermatocita primo e ciascuno spermatocita primo è destinato a formare quattro spermi. Il risultato della divisione meiotica è la riduzione a metà del numero dei cromo-somi (figg. 1.7 e 1.8). L'assetto aploide dei cromosomi che è con-tenuto nello spermi° è il contributo del maschio al complesso ereditario della prole.

L'ovogenesi differisce dalla spermatogenesi principalmente per il comportamento del citoplasma durante la divisione meiotica. Per l'accumulo di sostanze nutritive, che formano il vitello, l'ovo-cita primario è molto. più grande dello spermatocita primario. Le prime due divisioni meiotiche sono già fortemente irregolari per la quantità di citoplasma che contengono. La cellula che diverrà un uovo attivo riceverà virtualmente tutte le sostanze nutritive accumulate nel citoplasma, mentre le altre (globuli po-lari) ne riceveranno solo una porzione insignificante. In tal modo, se la cellula uovo sarà fecondata, potrà svilupparsi in un embrione, mentre i globuli polari no. Il comportamento dei cromosomi du-rante la maturazione delle uova è esattamente il medesimo di quello degli spermi; esso comporta però tempi diversi delle suc-cessive fasi.

IO. Assortimento casuale dei cromosomi e dei geni durante la meiosi.

Il fatto che avvenga solo una divisione dei cromosomi durante le due divisioni meiotiche, conduce inevitabilmente a una ridu-zione a metà del numero dei cromosomi nei gameti rispetto alle

20

Fig. 1.8 Piastra diacínetica di Macaca nemestrina.

altre cellule dell'organismo. All'anafase pertanto ciascuno dei due omologhi deve separarsi e ciascun gamete maturo possiede un solo elemento di ogni paio (fase aploide). È il caso a decidere quale dei due cromosomi omologhi andrà in un particolare gamete, per cui le varie possibilità si realizzano con uguale frequenza. Questo è già un fattore che contribuisce notevolmente a mante-nere casuale l'associazione dei caratteri ereditari nell'ambito di una specie.

Ma un altro meccanismo tende a rendere ancora più casuale la combinazione dei geni nella prole. Questo meccanismo consiste nello scambio di porzioni di cromosoma fra omologhi durante la prima divisione meiotica ed è detto crossing-over. Il crossing-over può essere rappresentato schematicamente come segue. Durante lo stadio di sinapsi i due omologhi si trovano accostati l'uno al-l'altro. Mentre sono così accostati essi duplicano i loro cromatidi con il risultato che l'intera unità consiste di quattro filamenti.

Di essi, due sono di origine materna e due di origine paterna. Durante il processo di duplicazione, o immediatamente dopo, spesso avviene che due di questi filamenti si scambino delle parti, cioè per una qualche ragione un filamento materno e uno paterno si rompono simultaneamente nel medesimo punto. Le parti rotte

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11. Come i cromosomi possono cambiare dí numero e di forma.

Fig. 1.9 Schema della ricombinazione alla meiosi. Ciascuna unità è costi-tuita di un filamento di origine materna e uno di origine paterna, prima appaiati (a), poi attorcigliati (/3), infine scambiantisi delle porzioni (y, 8). Le lettere Aa, Dd, Ee indicano possibili loci genici, e la figura mostra come, dopo la seconda divisione meiotica, essi si distribuiscono in cia-scuno dei filamenti che entrano in uno spermatozoo. Poiché questo avviene indipendentemente per ciascuna delle 23 coppie, ogni spermatozoo ri-ceverà un complesso miscuglio di geni di origine materna e paterna. Le cellule uovo maturano secondo il medesimo schema.

si saldano reciprocamente (ricombinazione) in modo tale che due nuovi cromatidi si originano ciascuno con una porzione di origine paterna e una porzione di origine materna (fig. 1.9).

Questo stadio particolare è riconoscibile al microscopio ed è detto diplotene. I punti in cui i crornatidi si scambiano, sono detti punti di chiasma. Ognuno dei quattro crotnatidi così formati ha la medesima probabilità degli altri di inserirsi in un gamete, quindi di partecipare al corredo genotipico, di un individuo. Dal momento che ciascun cromatidio può a caso rompersi e riattaccarsi in un qualsiasi punto della sua lunghezza, la possibilità che un figlio erediti più geni che si trovano associati insieme in uno dei genitori è resa ancor meno probabile.

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Lo studio sistematico e sperimentale, condotto su piante e su animali, delle variazioni che i cromosomi possono subire nel numero e nella morfologia, ha permesso di definire diversi mecca-nismi atti a differenziare il cariotipo di individui o di gruppi di individui a tal punto da isolarli riproduttivamente dagli altri rappresentanti della specie.

Vi sono diversi modi mediante i quali il cariotipo di una specie può variare in numero e diversificarsi per morfologia. Que-sti meccanismi, considerati dalla citogenetica classica come muta-zioni cromosomiche, devono forse essere completamente reinter-pretati sulla base delle attuali conoscenze intorno alla ultrastrut-tura e organizzazione dei cromosomi. Torneremo a parlare della possibilità di queste nuove interpretazioni alla fine di questo paragrafo; per ora, dal momento che per quanto concerne la differenziazione dei cariotipi nell'evoluzione delle specie, le con-cezioni classiche e le nuove interpretazioni non sono in contrad-dizione, ci atterremo al concetto classico di mutazione cromo-somica.

Fra le variazioni numeriche, la poliploidía (duplicazione dell'intero corredo cromosomico) ha certamente avuto un ruolo molto importante nell'evoluzione delle specie vegetali e di molti animali inferiori. Nel caso dei Mammiferi, e .quindi dei Primati, questo meccanismo è da scartare per le difficoltà frapposte dalla presenza di cromosomi sessuali.

Singoli cromosomi possono incrementarsi attraverso mecca-nismi di non disgiunzione meiotica e mitotica. Fenomeni del ge-nere sono stati riscontrati, oltre che in piante e animali, anche per diversi cromosomi del complemento umano e vanno sotto il nome di trisomie, la più nota delle quali è quella caratteristica della sindrome di Down (cromosoma 210 ). In genere esse rappre-sentano situazioni sfavorevoli, ma non vi è ragione di pensare che esse lo siano sempre. Per una pianta, la Datura strarnonium, ad esempio, si conoscono trisomie perfettamente vitali per ciascuno dei 24 cromosomi.

Altra via teorica d'incremento del numero dei cromosomi è la possibilità che alcuni di essi si reduplichino asincronicamente in una cellula. Questa duplicazione, se avviene durante le prime divisioni mitotiche della linea germinale, può avere importanza

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nell'evoluzione di una specie. Ma le prove che un tale meccanismo si realizzi sono ancora poche.

Un altro meccanismo che può condurre a un incremento del numero dei cromosomi senza nessuna variazione del materiale genetico è la divisione trasversale, misdivision, deí centromeri. In questo caso da un cromosoma se ne producono due.

Oltre a incrementarsi in numero, i cromosomi possono anche ridursi. Il meccanismo che conduce a una riduzione del numero dei cromosomi, senza recare grave danno al genoma, è quello della fusione centrica. Essa si realizza fra cromosomi con regione cen-tromerica in posizione terminale (acrocentrici) e consiste nel- l'unione di due di essi in questa regione. In altri termini è il feno-meno opposto della misdivision del centromero. La riduzione del numero dei cromosomi per mezzo della fusione centrica è stata dimostrata nei più diversi organismi.

Più che il numero dei cromosomi, quindi, è il numero dei bracci che ha importanza filogenetica. Infatti variazioni nel nu- mero dei cromosomi in specie affini sono state più volte spiegate ricorrendo al cosiddetto numero fondamentale (N.F.) di Matthey che conta i cromosomi metacentrici e submetacentrici come 2 e gli acrocentrici come 1 in ogni cariotipo.

In ogni caso, il numero dei cromosomi ha senza dubbio una qualche importanza evolutiva. È tuttavia difficile figurarsene la ragione. Esso probabilmente risponde a particolari requisiti di natura ecologica. È infatti possibile pensare che un basso numero di cromosomi possa rappresentare un vantaggio per animali molto specializzati, in quanto una tale condizione potrebbe creare bloc-chi di geni, che tenderebbero a segregare insieme alla meiosi, e in tal modo a ridurre le possibilità di deviazioni deleterie nella discendenza.

Oltre alle variazioni numeriche, i cromosomi possono variare nella loro morfologia. Ví sono vari modi in cui queste variazioni si realizzano, tutti però coinvolgono almeno una rottura nella continuità del cromosoma (fig. 1.10). Le rotture avvengono spon-taneamente con una frequenza assai bassa, ma avvengono in tutti gli organismi. La maggior parte dei cambiamenti che hanno im-portanza nei meccanismi cromosomici di evoluzione, richiedono almeno due rotture contemporanee nel medesimo cromosoma o in cromosomi diversi della medesima cellula. Molto spesso le parti rotte tornano a saldarsi nuovamente fra loro; altre volte tuttavia si riuniscono in modo diverso, dando luogo a cromosomi morfo-

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o 4 Fig. 1.10 Rappresentazione grafica delle più importanti variazioni struttu-

rali dei cromosomi e giudizio sulla loro possibilità di successo.

logicamente nuovi. Le frequenze con cui questi riarrangiamenti si realizzano sono basse, ma avvengono.

La possibilità di sopravvivenza di un tale mutamento della morfologia di un cromosoma è ulteriormente abbassata da altri fattori che lo limitano o a livello della moltiplicazione della cel-

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Nel secondo caso il frammento ruotato può coinvolgere il centromero (inversione pericentrica) o non coinvolgerlo (para-centrica). La variazione morfologica che si realizza risulta mani-festa solo se coinvolge un frammento con centromero ín posizione asimmetrica. L'inversione è comunque perfettamente vitale per le cellule e può superare la meiosi senza gravi inconvenienti.

Ovviamente più meccanismi possono intervenire, contempo-raneamente o a più riprese, nella differenziazione del cariotipo di una specie.

Come si è detto, è attualmente in atto una sostanziale revi-sione del concetto di mutazione cromosomica a seguito della rein-terpretazione dell'organizzazione ultrastrutturale del cromosoma stesso e delle relazioni fra i cromosomi nelle cellule degli Eucarioti.

A seguito di queste informazioni, ogni cromosoma metafasico risulta dalla condensazione di un singolo filamento di circa 200 A, formato da una doppia elica di DNA organizzata in modo com-patto, in una matrice proteica. Il filamento non formerebbe sol-tanto un singolo cromosoma ma l'intero corredo cromosomico aploide (genoma); esso ha forma circolare e in ciascun nucleo vi sarebbero quindi due anelli di materiale cromosomico, uno di origine materna e uno di origine paterna. Questi filamenti non sarebbero liberi nel nucleoplasma, ma attaccati in diversi punti alla membrana nucleare in corrispondenza degli anuli.

Non tutti i punti di attacco avrebbero lo stesso significato. La maggior parte di essi sarebbe relativamente debole e verrebbe meno non appena si è completata la reduplicazione. Al contrario, pochi altri, più stabili, durerebbero fino alla scomparsa della membrana nucleare. Nella struttura cromosomica metafasica que-sti ultimi punti di attacco corrisponderebbero alle regioni centro-meriche di ciascun cromosoma.

Una verifica di questa interpretazione porterebbe, come ab-biamo detto, a un cambiamento del concetto di mutazione cromo-somica. Il cambiamento nella morfologia di un cromosoma non sarebbe quindi dovuto a meccanismi di mutazione, ma semplice-mente a variazioni in corrispondenza dei punti di attacco del fila-mento alla membrana nucleare (da normale a telomerico o centro-merico). Se questa ipotesi sarà provata ne conseguirà una reinter-pretazione dei meccanismi di variazione cromosomica come la fusione centrica, la fusione a tandem, la fissione centrica e anche la semplice traslocazione.

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lula (esempio: cromosomi dicentrici) o a livello della riprodu-zione negli individui portatori di questa variazione.

Se il cromosoma si rompe in un sol punto, la parte senza centromero può riattaccarsi al medesimo o a un altro cromosoma. Se questo non avviene, la porzione senza centromero, non poten-dosi portare a uno dei poli, si perde nelle cellule figlie e ne risulta pertanto quella che viene definita una delezione, cioè una perdita di una porzione di genoma. Questa perdita di un pezzo di cromo-soma, qualora persista in una popolazione, può assumere condi-zione omozigote e rappresentare una variazione del cariotipo. Tuttavia la delezione, specie se di un'ampia porzione di cromo-soma, è da considerarsi un fenomeno raro, in quanto con essa si perdono informazioni che certamente sono utili per la sopravvi-venza degli individui e della specie.

Se le rotture coinvolgono più di un cromosoma, si può avere uno scambio di porzioni di cromosoma. Questo tipo di scambio viene detto traslocazione reciproca. Il riattacco può avvenire in due modi, o tra il frammento acentrico dell'uno e quello con centromero dell'altro, o tra i frammenti acentrici fra loro e quelli con centromero fra loro. Nel primo dei modi si hanno due nuovi cromosomi diversi per aspetto, ma perfettamente vitali per la cel-lula e che, senza difficoltà, superano la meiosi; nel secondo caso invece si hanno un cromosoma acentrico e uno dicentrico, en-trambi impossibilitati a ripartire correttamente il materiale cromo-somico al momento della mitosi, determinando quindi una situa-zione non compatibile con la sopravvivenza cellulare. (Il mecca-nismo della fusione centrica non è altro che la forma estrema di una ineguale traslocazione di due cromosomi a centromero ter-minale).

Se più di una rottura è presente ín un medesimo cromosoma, i frammenti possono riunirsi in modo da mutare la forma originaria di esso. Anche in questo caso si possono avere due modalità di riattacco diverso dalle condizioni primitive: 1. le estremità libere della porzione provvista di centromero possono dar luogo a un nuovo cromosoma e a due frammenti acentrici; 2. la porzione intermedia fra le rotture ruota di 1800 e si congiunge con le precedenti.

Nel primo caso si ha una perdita di materiale cromosomico che, abbiamo già visto, non è vantaggiosa né alle cellule né all'in-dividuo, e la formazione di un cromosoma anulare che nei Mam-miferi non sembra avere successo (è stato trovato solo talvolta in cellule tumorali).

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Capitolo secondo

AZIONE DELL'AMBIENTE SULL'EVOLUZIONE DELLE POPOLAZIONI E DELLE SPECIE

1. Generalità.

Il fenotipo, cioè l'aspetto esterno, di un individuo non è altro che la risultante dell'azione modificatrice dell'ambiente sull'estrinsecazione del suo genotipo. A livello dell'individuo, in altri termini, l'azione dell'ambiente è la causa della variabi-lità di manifestazione di un carattere. Va considerato quindi come un fattore essenziale nel determinare la variabilità individuale.

Tuttavia questa azione, anche se si estrinseca a livello degli individui, si rende evidente e manifesta i suoi effetti più impor-tanti a livello delle popolazioni. L'individuo isolato, infatti, pur costituendo l'unità fondamentale, ha scarsa importanza nell'evo-luzione. Gli individui appartenenti a una popolazione, in genere, differiscono da quelli appartenenti a un'altra popolazione per un insieme più o meno esteso di. caratteri. Queste differenze sono quasi sempre il risultato di meccanismi di selezione e di adattamento dí una determinata popolazione a un peculiare ambiente. Prenderemo in esame l'azione su un'intera popola-zione e in special modo su popolazioni appartenenti ai Primati e all'Uomo in particolare.

Innanzitutto è necessario definire che cosa s'intende per azione dell'ambiente. Tutti i fattori climatici della biosfera sono agenti selettivi potenziali, che operano differenziazioni nelle popo-lazioni per mezzo di adattamenti genetici. La qualità e la quan-tità di cibo sono anche importanti agenti selettivi. La sua abbon-danza favorisce la sopravvivenza della prole, la varietà e la com-pletezza nutrizionale eviteranno l'instaurarsi di malattie da ca-renza, come avitaminosi o difetti di crescita. Anche le malattie epidemiche agiscono come fattori selettivi, favorendo quegli indi-vidui che presentano una maggiore immunità all'agente patogeno.

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L'ambiente naturale agisce quindi attraverso l'intervento di più fattori con il risultato di modificare profondamente le popola-zioni caratterizzandole e differenziandole tra loro.

L'alto grado di adattamento di una popolazione a una pecu-liare zona climatica o la sua immunità da determinate malattie, è sempre il risultato dei fattori selettivi che hanno causato questa differenziazione.

I fattori ambientali sono molti e non tutti noti. Per questo non è sempre facile valutare la potenzialità differenziatrice di un determinato ambiente: è controversa, per esempio, l'interpre-tazione del significato evolutivo della plica mongolica nelle popo-lazioni mongoliche; la ragione dell'alta frequenza del gene Duffy fra i Bantu; la peculiare distribuzione geografica di alcune con-dizioni patologiche; il valore adattativo del colore bianco del naso del Cercopithecus nictitans.

Qui di seguito prenderemo in considerazione alcuni fra i più eclatanti casi di azione dell'ambiente come agente selettivo.

2. Differenze climatiche, nutrizionali e immunitarie.

Di tutti gli elementi dell'ambiente naturale che circondano esseri come l'Uomo o gli altri Primati, nessuno ha avuto così grande importanza come il clima, inteso come la totalità dei fattori che costituiscono l'ambiente atmosferico, con le sue varia-zioni periodiche di temperatura, di umidità e di pressione, ma anche con i suoi eventi occasionali e talvolta catastrofici, come gli uragani.

I più importanti fattori della differenziazione climatica sono. la temperatura, l'umidità, l'intensità delle radiazioni solari e l'altitudine sul livello del mare.

Nella biosfera la temperatura oscilla da un massimo di +50 °C all'ombra a un minimo anche di —40 °C, con un salto quindi di 90 °C circa; ma queste sono temperature estreme che si riscon-trano solo in particolari regioni. Ciascuna regione della Terra presenta differenti caratteristiche termiche con ritmi stagionali più o meno uniformi. In certe zone, ad esempio quelle deser-tiche, l'escursione termica diurna presenta differenze anche supe-riori ai 30 C. Le variazioni di temperatura devono quindi aver agito come un potente mezzo di selezione naturale se si pensa che l'adozione di protezioni artificiali (vestiti, abitazioni, condi-

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zionamenti vari della temperatura degli ambienti) è di recente introduzione e destinata sempre a un numero circoscritto di individui.

Ma, oltre alla temperatura, nel determinare le caratteristiche di un clima, intervengono altri fattori tra cui la quantità di umidità presente nell'aria, la quantità della radiazione solare, l'altitudine sul livello del mare. Ognuno di questi elementi pre-senta un'ampia gamma di variabilità, che mette a dura prova la capacità di sopravvivenza degli individui e quindi delle popo-lazioni.

Anche i fattori nutrizionali influenzano profondamente l'evo-luzione e la differenziazione delle popolazioni. Attualmente, men-tre in America e in Europa ci si può nutrire mantenendosi quo-tidianamente al di sopra del proprio fabbisogno calorico (infe-riore alle 3.000-3.500 calorie giornaliere), in altre parti del mondo, invece, 1.500 calorie al giorno costituiscono un fatto ecce-zionale. Per molte popolazioni dell'Asia meridionale, anzi, la media si ferma alle 800 calorie giornaliere. Come per la tempe-ratura, anche qui gli estremi opposti generano conseguenze pato-logiche. Si muore di inedia cosi come per ipernutrizione; più precisamente, la morte per inedia o per eccessi alimentari è di gran lunga più comune che non la morte per caldo o per freddo.

Oltre ai fattori climatici, alla carenza o all'eccesso di cibo, vi sono numerose malattie infettive (colera, tifo, malaria, difte-rite, tubercolosi e dissenteria) che sterminano, o che hanno ster-minato, popolazioni di milioni di individui. In varie parti del mondo la malaria, il vaiolo, la dissenteria amebica, i morsi da serpente velenoso sono comune causa di morte. In molte zone depresse, ancora oggi, raramente un bambino su tre riesce a raggiungere l'età adulta.

L'azione differenziatrice dí molte malattie o di complessi di malattie epidemiche a livello delle popolazioni è perlopiù ancora poco nota.

3. Statura, mole corporea e selezione naturale.

Nell'ambito delle popolazioni umane attuali le variazioni di statura e di peso corporeo sono notevoli. Da popolazioni con medie maschili di 185 cm d'altezza si può arrivare a popola-zioni con medie talvolta inferiori a 152 cm. Il peso corporeo

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rigori del clima invernale moscovita mangiando più avidamente e incrementando l'adipe sottocutaneo; la lunghezza e la densità del loro pelo ha subito anche un notevole aumento. Nonostante le prime difficoltà, la loro sopravvivenza al clima di Mosca è stata ottima, tanto che si sono anche riprodotti.

Un tipico esempio di adattamento alle variazioni di altitu-dine è l'incremento numerico dei globuli rossi, che si nota in tutti gli individui della nostra specie che usano vivere ad alti-tudini superiori, ma che è tipico anche di altri animali.

La vita nelle regioni desertiche richiede una notevole tolle-ranza al calore diurno e al freddo notturno, senza che venga variato il carico calorico, cioè la capacità di espellere calore mediante la traspirazione, in modo da conservare la maggior quantità possibile dell'acqua che in quei luoghi diventa elemento prezioso. I vari tipi di Mammiferi desertici presentano differenti adattamenti al clima arido: abitudini notturne, magrezza, dimen-sioni corporee ridotte. Fra le popolazioni umane, la più adatta ai climi desertici è quella dei Boscimani. Infatti la pigmentazione della pelle degli Uomini che vivono in climi desertici (caldo-secchi) deve essere scura per proteggerli dall'azione dei raggi ultravio-letti, ma non eccessivamente, perché ciò costituirebbe un impe-dimento alla dispersione di calorie. I Boscimani con la loro pigmentazione giallo-bruna e Ia localizzazione peculiare delle masse adipose, rappresentano un esempio di compromesso fra indirizzi selettivi diversi in competizione.

Un altro tipo di specializzazione, riscontrata fra i Roditori desertici, è l'aumentata attitudine a concentrare le urine. Se l'Uomo potesse seguire l'esempio dei Topi del deserto, potrebbe risparmiare molta acqua ogni giorno. Non esiste, al momento, una dimostrazione concreta pro o contro un tale aumento di concentrazione delle urine presso popolazioni umane da lungo tempo adattate alle regioni desertiche, ma vi sono diverse indica-zioni indirette che fanno ritenere probabile che questo avvenga.

L'ambiente caldo-umido è sfavorevole all'Uomo anche perché deprime l'attività fisica. Se l'aria è carica di umidità e la tempe-ratura è elevata, il corpo reagisce aumentando la sudorazione. Nei tropici, e in genere nei climi caldo-umidi, si verificano incon-venienti seri per l'eccessiva perdita di sali durante la sudora-zione. Il sale rappresenta un'importante necessità alimentare ed è particolarmente carente in molte regioni tropicali. Se la tempe-

ratura corporea si innalza troppo, è possibile che si verifichi un collasso cardiaco letale.

Questi sono solo alcuni dei modi più manifesti in cui l'am-biente agisce determinando modificazioni morfologiche e fisiolo-giche in intere popolazioni, ma ancora non si conosce come questi fattori agiscano a livello dei singoli geni, facendo variare la fre-quenza di essi in una determinata popolazione o modificando la loro estrinsecazione.

Un esempio di come l'ambiente, in questo caso un ambiente patogeno, possa influire sulla frequenza di alcuni geni, è dato dalla peculiare frequenza di geni normalmente considerati pato-geni in zone malariche. Secondo la legge di Hardy-Weinberg, infatti, la costituzione genica di una popolazione dovrebbe essere in equilibrio continuo e inoltre è ovvio pensare che i geni anomali e che portano a condizioni patologiche siano eliminati per azione della selezione naturale. Queste condizioni tuttavia non sempre sono rispettate e caratteri ereditari, normalmente considerati come patologici, presentano una frequenza assai ele-vata. La spiegazione di questi fatti è da ricercarsi nel vantaggio che uno di questi genotipi presenta in condizioni ambientali peculiari in atto o realizzatesi in un recente passato. Cerche-remo di fare alcuni esempi.

5. Peculiare frequenza di geni anormali nelle popolazioni umane.

Per generazioni l'umanità ha dovuto combattere contro la malaria. In particolare, i Paesi compresi fra i 35° nord e i 20° sud nei due emisferi sono stati la culla della malaria. In Europa e nel Medio Oriente, fin dai tempi dei Romani, la malaria era estesa su entrambe le rive dell'Adriatico, in Grecia, nelle isole Ioniche, a Creta e sulle rive del Mar Nero e del Mar Caspio. Dato che le zone malariche erano in passato generalmente molto popolate, non c'è da stupirsi se nel 1880 la più alta percentuale di decessi per malattia nella nostra specie fosse da imputarsi alla malaria.

Nelle regioni della malaria endemica dell'Europa meridionale e dell'Africa orientale, era stato notato che alcuni individui non andavano soggetti alla malaria o almeno non avevano i caratte-ristici brividi, la febbre alta e ricorrente, l'ingrossamento della

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Cosenza

MEI 20-30% MIMI 10-20%

5-10% 2-5% 0-2.0%

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Sassari Napoli uoro

Cagliari Y> Catanzaro Messina essina

Reggio Calabria Catania

milza e i tipici sintomi intestinali. A più riprese erano state formulate possibili spiegazioni di questo fatto. Tuttavia nessuna prova soddisfacente fu portata per determinare se l'immunità fosse naturale o acquisita, se fosse dovuta a qualche causa transi-toria, e se esistesse per questa malattia endemica una immunità originaria. Recentemente sono stati scoperti meccanismi genetici che offrono una speciale immunità e questo costituisce uno dei più interessanti esempi di polimorfismo nell'Uomo. Uno di que-sti è la talassemia.

In Italia, specie in Sicilia, in Sardegna e nel Ferrarese, la

Fig. 2:2 La distribuzione della talassemia eterozigote in Italia (secondo i dati di Silvestroni e collaboratori, « American Journal of Human Gene-tics », vol. 27, 1975).

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talassemia è molto comune (fig. 22) e si presenta sotto due forme: la major ( morbo di Cooley) e la minor. Lo studio degli alberi genealogici dimostra che la talassemia è ereditaria e che i genitori di un individuo affetto da talassemia major sono porta-tori della malattia e presentano la minor. Quest'affezione viene ereditata come un gene dominante mendeliano. Alla talassemia minor corrisponde lo stato eterozigote, alla major lo stato orno-zigote.

Dall'incidenza rilevata per la malattia si può calcolare la frequenza del gene: essa oscilla da circa 0% in Svizzera fino a 0,2% o più in certe zone di Cipro e dell'Italia nord-orientale. Per la maggior parte dell'Italia, dove i dati epidemiologici sono completi, le frequenze per la talassemia variano da 0,2% a 0,06% ín Sicilia e in Corsica, sono intorno a 0,10% nelle zone costiere a nord-est di Bologna, e arrivano fino allo 0,18% nella regione intorno a Ferrara. I dati epidemiologici, insieme agli alberi genea-logici, confermano l'ereditarietà della talassemia.

Ricerche condotte sul sangue di individui affetti da talasse-mia major e su individui eterozigoti ( minor) hanno dimostrato che il difetto consiste principalmente nell'incapacità da parte di questi individui di produrre la normale emoglobina A dell'adulto. L'emoglobina del sangue degli individui affetti da talassemia major è pertanto quasi interamente di tipo fetale, mentre nella talas-semia minor l'emoglobina normale è presente, ma in quantità ridotta. Lo svantaggio degli omozigoti, quindi, consiste nell'inca-pacità di produrre quantità adeguate di emoglobina di tipo adulto e la sintomatologia che li caratterizza è in gran parte riferibile a questa deficienza. Per questa ragione quasi tutti gli individui omozigoti, cioè affetti dalla talassemia major, muoiono assai giovani e raramente raggiungono la maturità sessuale; di con-seguenza in ogni generazione viene eliminata una certa parte dei geni per la talassemia.

'La perpetuazione del gene anormale è un fatto apparente-mente inspiegabile. Dato che in ogni generazione una certa parte di geni anormali viene perduta per la morte in età giovanile di individui omozigoti, ci si dovrebbe aspettare che la presenza dí questa condizione patologica rimanesse a un livello basso, bilan-ciata solo da nuove mutazioni. Come si spiega allora la perpe-tuazione del gene anormale e la sua frequenza così alta a Creta, nel. Ferrarese e in Sicilia?

Una spiegazione potrebbe essere data dall'aumento di ferti-

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lità degli eterozigoti, ma questo non è stato provato, né d'altra parte potrebbe giustificare l'alta incidenza dì questo gene in alcune località e non in altre. Inoltre il tasso di mutazione per questo gene non è stato riscontrato particolarmente elevato, né con questo si potrebbero spiegare le notevoli variazioni nell'inci-denza della talassemia in Italia, in Grecia e altrove, dall'Iran al sud della Cina.

Nel 1950, alcuni studiosi posero l'attenzione sulla corrispon-denza tra distribuzione della talassemia e incidenza della malaria. Nelle zone d'Europa in cui la malaria era oloendemica, si riscon-travano le più alte frequenze di talassemia, mentre in regioni a clima freddo e nelle alture le frequenze si avvicinavano a zero. Nelle popolazioni sarde, per esempio, sí ha una frequenza molto più alta nelle regioni basse e costiere, dove la malaria è oloendemica, che in quelle situate ad altitudini superiori.

Questi dati dimostrano che gli individui affetti da talassemia minor sono in qualche modo immuni dalla malaria. In una zona malarica, infatti, gli individui normali sono affetti da malaria e hanno molte probabilità di morire giovani; gli omozigoti talas-semici muoiono anche in età giovanile per il morbo dí Cooley; gli eterozigoti invece sono protetti dalla malattia e, anche se menomati da deficienze emoglobiniche, attraverso di essi è assi-curata la continuazione di entrambi i geni.

Questa semplice interpretazione concorda con i dati e spiega la distribuzione non uniforme della talassemia nel Mediterraneo. La talassemia, nelle zone malariche, persiste per azione della selezione naturale.

Una seconda alterazione del sangue (in genere diffusa in

Fig. 2.3 Globuli rossi di un individuo normale e di un paziente affetto da anemia falciforrne.

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Fig. 2.4 Sulla carta sono indicate le frequenze del gene S dell'anemia falci-forme, calcolate in base ai dati di Livingstone.

Africa) è l'anemia falci/orme, chiamata così per la forma parti-colare che assumono i globuli rossi degli individui colpiti, se immersi in soluzione salina (fig. 2.3). Come la talassemia, essa è ereditaria ed è dovuta ad un singolo gene dominante. Se ne conoscono due forme: una più grave e una meno grave. La natura molecolare della malattia fu stabilita nel 1949 attraverso lo studio elettroforetico delle emoglobíne. La differente azione è dovuta alla sostituzione di un singolo amminoacido in posizione 6 della catena i ove al posto dell'acido glutammico si trova la valina.

In Africa le frequenze degli eterozigoti variano da O (zero) fino al 40% in certe zone (fig. 2.4). Inizialmente queste ampie variazioni furono interpretate come dovute all'influenza ambien-tale, o postulando emigrazioni da aree con alta frequenza verso aree di minore frequenza. Tuttavia, come per la talassemia, era necessaria un'interpretazione più profonda che desse ragione sia della perpetuazione che della distribuzione della falcemia. Poi-

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ché anche l'anemia falciforme è di solito letale (c'è una elimina-zione differenziale di individui omozigoti), è evidente che il gene per la falcemia doveva presentare un qualche vantaggio selet-tivo. Anche in questo caso il vantaggio consiste nella migliore possibilità di sopravvivenza in ambiente malarico. Anche qui infatti esiste una stretta associazione fra distribuzione geografica della falcemia e della malaria.

Il vantaggio della selezione in favore degli eterozigoti è stato confermato specialmente seguendo la sorte dei bambini nelle zone di malaria iperendemica in Africa. In queste zone, gli omozigoti normali ancora molto giovani vengono colpiti da malaria per cui muoiono e la vitalità dei sopravvissuti è ridotta. Gli individui omozigoti per la falcemia presentano un'alta mor-talità a causa della malattia. Gli eterozigoti invece sono protetti, nel senso che, pur potendo contrarre la malaria, essa non pre-senta sintomi così gravi come nei normali, ín quanto í parassiti crescono meno rapidamente nei globuli rossi che contengono emoglobina S.

La falcemia in Africa, come la talassemia nel Mediterraneo, è un esempio di polimorfismo adattativo dell'Uomo. Sia il gene normale dell'emoglobina A che quello anormale responsabile del-

Fig. 2.5 La malaria nel Vecchio Mondo. La carta indica le regioni dove esiste una significativa incidenza della malaria da Plasmodium falciparurn.

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l'emoglobina S (falcemia) continuano a esistere in Africa, perché l'eterozigosi rappresenta un vantaggio (fig. 2.5).

Più comune è la malaria, più alta è la frequenza del gene per la falcemia. Nelle zone senza malaria, l'eterozigosi non ha alcun vantaggio, per cui l'uso di insetticidi, le bonifiche, l'uso di reti protettive e di prodotti antimalarici dovrebbero condurre a una riduzione dell'incidenza della falcemia.

6. La sensibilità alla primaquina, il favismo e altre condizioni patologiche ereditarie; la sensibilità alla P.T.C.

La primaquina è un farmaco normalmente usato come anti-malarico. In alcuni individui, particolarmente sensibili, la som-ministrazione di questa sostanza determina anemia emolitica do-vuta al danneggiamento della membrana dei globuli rossi.

Gli individui sensibili a questo farmaco hanno ridotte capa-cità di trasporto di ossigeno nel sangue; per questa ragione, probabilmente, nel loro sangue non può aver luogo una infe-stazione massiva di Plasmodiurn malariae. Come per gli individui con emoglobine anormali, gli eritrociti dei primaquino-sensibili non lasciano sopravvivere a lungo i parassiti in modo da permet-tere la loro riproduzione. Per questo gli individui sensibili a questa sostanza sono immuni dalla malaria.

L'emolisi è causata dalla carenza nei globuli rossi di questi individui dell'enzima gIucoso-6-fosfato-deidrogenasi, deficienza che è particolarmente comune in molte zone malariche.

Un'altra condizione patologica che coinvolge i globuli rossi è il favismo. Essa è una risposta di tipo allergico al polline e ad alcune sostanze contenute nei baccelli di fava. Gli individui sensibili sono affetti da crisi emolitiche, non solo quando man-giano baccelli o semi di fave, ma anche quando camminano attraverso un campo di questi vegetali, quando essi sono in fiore. Individui affetti da favismo si trovano solo nelle regioni mediter-ranee (Francia, Spagna, Italia, Armenia, Israele). Recenti ricer-che hanno dimostrato che questo carattere è ereditario ed è localizzato sul cromosoma X. Sembra anche che esista una rela-zione tra il favismo e la sensibilità alla primaquina nel mecca-nismo biochimico che determina l'abbassamento del tasso di glu-tatione dei globuli rossi.

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Anche questo carattere è frequente in zone malariche e per-tanto sembra costituisca un vantaggio contro la malaria.

Si conoscono molte altre condizioni patologiche ereditarie che presentano frequenze differenti in diverse popolazioni. Per molte di esse si ha ragione di pensare che in qualche modo rappresentino un vantaggio per la vita dell'Uomo in un tale ambiente.

Un altro caso di polimorfismo genico che, se definitivamente chiarito, potrebbe costituire un brillante esempio di interazione fra attività endocrina, sensibilità gustativa e scelta alimentare, è costituito dalla sensibilità alla phenyl-thio-carbammide. Sia nel-l'Uomo che in molte altre specie di Primati la sensibilità a questa sostanza, come meglio vedremo nel 5 2 del cap. VII, si mantiene in condizione eterozigote.

Per spiegare questo caso di polimorfismo genico si possono al momento solo formulare delle ipotesi. Una delle più plau-sibili è quella del Boyd, secondo la quale composti simili alla P.T.C. che si trovano in alcune piante (Brassicaceae) avrebbero un qualche effetto sulla ghiandola tiroide, il cui anomalo funzio-namento condurrebbe alla selezione di uno degli alleli.

7. Le differenze nella pigmentazione umana, l'azione dell'am-biente e la selezione naturale.

Un carattere delle diverse popolazioni umane, verosimilmente in relazione con l'ambiente, è il colore della pelle, che, nel-l'Uomo, dipende essenzialmente da 5 pigmenti: la melanina allo stato granulare, un melanoide diffuso derivante dalla degrada-zione della melanina, il carotene diffuso e la emoglobina ossi-data e quella ridotta, visibili per trasparenza nei capillari.

Alla melanina granulare e alle sue variazioni quantitative vengono attribuite le diverse tonalità dí colore degli individui e dei gruppi umani. Alla interazione fra questi pigmenti si deve poi un effetto ottico addizionale.

Le variazioni della pigmentazione della pelle nell'Uomo hanno valore adattativo e sono forse il più manifesto esempio di adat-tamento all'ambiente negli esseri umani. Tutti noi sappiamo, per esperienza personale, come persino una piccola abbronzatura nella parte più superficiale della pelle abbia funzione protettiva. All'inizio dell'estate, prima che incominciamo ad abbronzarci,

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anche brevi esposizioni ai raggi solari possono provocare fasti-diosi inconvenienti. Più tardi, con una buona tintarella, pos-siamo gironzolare per ore sotto il solleone d'agosto senza fastidio alcuno. La pelle più scura rappresenta una naturale protezione contro la banda più dannosa dello spettro solare, cioè (intorno ai 2.200-2.800 Angstreim).

Una dose maggiore di melanina non ha soltanto funzione protettiva contro il danno immediato dei raggi solari sugli strati più profondi del derma, ma questa proprietà protettiva si esplica anche ad altri livelli. I tumori epiteliali, per esempio, sono stati riscontrati più frequentemente fra i Bianchi del Texas che nelle regioni più a nord degli Stati Uniti, e vi sono differenze signi-ficative nell'incidenza di questo tipo di tumore fra Negri e Bian-chi, anche a parità di tipo di lavoro.

I vantaggi che la pigmentazione della pelle offre in climi ricchi di luce, possono mutarsi in svantaggi in climi meno lumi-nosi. Nello strato sottocutaneo la trasformazione dell'ergosterolo in vitamina D, essenziale per la crescita delle ossa, è catalizzata dall'energia proveniente dalle radiazioni solari. Una pelle forte-mente pigmentata può rappresentare quindi uno svantaggio quan-do la vitamina D somministrata per via alimentare è scarsa, poiché può favorire lo sviluppo del rachitismo. Ma anche un eccesso di vitamina D risulta dannoso: il prolungato eccesso di vitamina D causa la formazione di depositi di calcio nelle arte-rie e specialmente nell'aorta, con conseguenti danni alla fun-zionalità renale per la formazione di calcoli.

Il fabbisogno medio giornaliero per un adolescente è di 400 unità internazionali, che sono facilmente reperibili nella comune dieta e che possono essere incrementate mediante l'uso dell'olio di fegato di merluzzo. Dosi superiori a 20.000 unità giornaliere in un adolescente sono dannose. Nelle regioni nordiche la mag-gior parte dei Bianchi adulti si fabbrica la vitamina D di cui necessita nel sottocutaneo della faccia e delle mani durante l'occa-sionale esposizione al sole. Si ammalerebbero se ricevessero una dose superiore alle 100.000 unità al giorno. Ai tropici, un Bianco, con una esposizione dell'intero corpo per sei ore al giorno al sole, potrebbe produrre oltre 800.000 unità e questo, a lungo andare, potrebbe essere molto grave.

La necessità di protezione da una parte e l'interferenza con la sintesi della vitamina D dall'altra, possono sufficientemente spiegare la diversa pigmentazione che si ha dalle popolazioni

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nordiche alle popolazioni equatoriali, dall'Europa all'Africa, e la minore, ma sempre constatabile, gradualità che si riscontra in Asia.

A questo punto possiamo chiederci quale fosse la pigmen-tazione della umanità primitiva e come si sia arrivati a questa variabilità di pigmentazione.

Le acquisizioni più recenti farebbero propendere per l'inter-pretazione che l'umanità primitiva fosse di colore scuro. Infatti è ormai abbastanza sicuro che i primi Uomini si siano originati in Africa o comunque nelle regioni equatoriali. In questo caso certamente essi dovevano avere la pelle scura. La pelle chiara si sarebbe originata successivamente, come una protezione con-tro la deficienza di vitamina D. La pelle scura infatti lascia filtrare negli strati sottocutanei, ove si sintetizza la vitamina D dall'ergosterolo, solo fra il 3% e il 36% delle radiazioni solari, mentre la pelle chiara lascia filtrare fra il 53% e il 72% di raggi U.V.

Quando la primitiva umanità si mosse dalle regioni equato-riali verso nord, si trovò a vivere in regioni dove la pelle scura e la necessità di vestiario contro il freddo costituivano una limitazione all'assorbimento di radiazioni U.V. Si dovevano avere pertanto frequenti casi di rachitismo. Gli Uomini a pelle più scura dovevano essere così rachitici che difficilmente riuscivano a rincorrere la preda e a cacciare, e le donne a pelle più scura dovevano frequentemente morire durante il parto per defor-mazioni della pelvi.

Solo gli individui a pelle più chiara di entrambi i sessi potevano meglio sopravvivere perché fra essi più rare e più tenui erano le forme di rachitismo. In questo modo, secondo il classico processo della selezione naturale, quanto più a nord l'Uomo andava, tanto meglio i più chiari di pelle potevano soprav-vivere, mentre gli scuri di pelle morivano o avevano minori probabilità di produrre progenie. Con un processo del genere, cioè della sopravvivenza del più adatto, si sarebbe fissato, in parte dell'umanità, il colore bianco della pelle.

Ovviamente l'intero problema del colore della pelle della umanità non è cosi semplice, ma certamente quest'interpreta-zione chiarisce uno dei suoi aspetti più importanti.

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Capitolo terzo

IL CONCETTO DI SPECIE

1. Introduzione.

Nei capitoli precedenti abbiamo caratterizzato geneticamente l'individuo e abbiamo visto che esso è l'unità fondamentale della evoluzione, in quanto portatore dei caratteri ereditari veicolati nei gameti; ma solo la popolazione è l'entità su cui agiscono le forze plasmatrici della natura, le quali, col tempo, possono condurre a modificazioni della specie mediante meccanismi di-versi di selezione.

L'entità superiore all'individuo nell'ambito di una popola-zione è il demo che può essere definito come un gruppo di indi-vidui organizzati in popolazione autosufficiente con caratteri propri. I vari demi possono presentare caratteristiche fisiche anche notevolmente diverse fra loro e possono rappresentare le varietà (varietas) di una specie o anche unità superiori come la sottospecie.

Ma l'entità fondamentale della sistematica animale e vegetale è però la specie. Attraverso la definizione di essa si risale alle unità sistematiche superiori e si possono caratterizzare quelle inferiori. É opportuno pertanto definire cosa è la specie.

2. Definizione di specie.

Nel tentativo di ricercare una definizione di specie, valida per i più diversi organismi, i vari studiosi si sono basati in passato su quattro criteri fondamentali: quello morfologico, quel-lo fisiologico, quello genetico e quello biochimico. Più di recente è stato introdotto il cosiddetto criterio biologico. Secondo il criterio morfologico la specie è « l'insieme di individui aventi caratteri morfologici comuni ». Questo criterio, pur essendo estre-

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L

_

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mamente soggettivo, costituisce ancora il mezzo più valido per il riconoscimento di una specie. Tuttavia esso, da solo, è insuf-ficiente. Le varie razze di Cane, per esempio, presentano una tale varietà morfologica che difficilmente potrebbero essere attri-buite alla medesima specie considerando il solo criterio morfo-logico, mentre vi sono alcune specie di Roditori che, pur essendo morfologicamente molto simili, sono certamente da considerarsi specie diverse.

Fra i criteri fisiologici il criterio missiologico è quello più chiaro. Esso consiste nel giudicare specifico ogni insieme di indi-vidui capaci di accoppiarsi con esito fecondo, ed eterospecifiche tutte le popolazioni i cui componenti non s'incrociano o s'incro-ciano senza dare prole o, infine, dando prole sterile. Rispetto agli altri, questo criterio ha il merito di stabilire un punto fermo costante e obiettivamente accettabile. Tuttavia questo cri-terio, di per sé lapalissiano, ha delle limitazioni. Sono note infatti molte buone specie che sono perfettamente interfeconde se portate in laboratorio, mentre in natura, pur convivendo nel tempo e nello spazio, non si incrociano mai o assai raramente. Anche il criterio missiologico quindi, pur essendo in linea gene-rale il più valido, non è assolutamente un criterio definitivo per il riconoscimento di una specie.

Il criterio genetico si basa sulla possibilità di ottenere, in piante coltivate, l'isolamento di gruppi minori le cui caratteri-stiche si mantengano costanti nella discendenza. È evidente che queste piccole specie o specie elementari non sono altro che dei complessi d'individui con ugual genotipo.

Uno dei criteri genetici più recenti è quello cariologico. Il numero e la morfologia dei cromosomi nell'ambito della specie sono infatti relativamente costanti. I cromosomi hanno certa-mente una notevole importanza filetica, ma una, loro morfologia identica non è un criterio sufficiente per ascrivere due individui alla medesima specie.

Il criterio biochimico si propone di riconoscere la specie dal-l'esistenza di peculiari caratteri biochimici comuni agli indi-vidui che la compongono. Questo criterio è di particolare im-portanza in organismi come i Batteri, in cui mancano, del tutto o quasi, criteri morfologici; tuttavia risulta difficilmente appli-cabile ai Mammiferi, dove sostanze organiche simili possono essersi originate per fenomeni di convergenza adattiva o possono essersi diversificate per singole mutazioni.

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Il cosiddetto criterio biologico, dovuto principalmente al Mayr, si avvale dei precedenti superandoli: esso infatti prende in considerazione, oltre agli altri, l'aspetto del « comportamento » che, ín tutte le manifestazioni vitali, accomuna gli individui di una specie e li contraddistingue da quelli di altre specie. Questo criterio, che si avvale contemporaneamente di altri criteri di diagnosi di specie, sarebbe meglio definirlo sintetico o plurila-terale anziché biologico. È il criterio attualmente più seguito e ha condotto a una definizione di specie consona alla realtà e alle odierne esigenze sperimentali e teoriche.

Il criterio biologico ammette che ogni buona specie di ani-male o pianta a riproduzione sessuata non formi ibridi con un'altra specie convivente nella stessa località, e che nella eco-logia di essa vi siano esigenze tanto diverse da quelle di un'altra, che entrambe possano coesistere nella medesima località. Per-tanto, secondo Mayr, « le specie sono gruppi di popolazioni interfeconde isolate riproduttivamente da altri gruppi simili ».

3. Concetto biologico di specie.

Questa definizione di specie presuppone una coesione fra gli individui che formano una stessa specie, determinata da tre fattori:

1. la facoltà di discriminazione e riconoscimento dei com-ponenti di una specie come appartenenti a una singola comu-nità riproduttiva;

2. la coesione genetica fra i componenti di una stessa specie, determinata dal continuo rimescolamento del materiale cromo-somico, per cui la specie (o più precisamente la realtà della specie) non è altro che un discontinuo complesso di geni della popolazione di cui è composta la specie;

3. l'interazione ecologica degli individui di questa specie con quelli di altre specie di piante e di animali.

Questo concetto di specie presuppone che le specie siano composte di popolazioni e le caratteristiche della specie non siano tipologiche, ma statistiche. Pertanto, per questo aspetto statistico dei caratteri di una specie, la sua descrizione tipologica può essere sostituita da medie statistiche. Così sarà necessario sapere se le popolazioni in esame producano prole feconda se

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incrociate fra loro, e considerare tutto il complesso dei fattori che contribuiscono all'isolamento fra le specie.

In pratica quindi, per decidere se due popolazioni o gruppi d'individui rappresentano due specie diverse o no, è necessario sapere:

a) se le due forme sono morfologicamente identiche o di-verse; b) se riproduttivamente sono isolate o meno; e) se coesi-stono nella medesima area e sono quindi simpatriche o non coesistono nella medesima area e sono quindi allopatriche.

Questi tre tipi di informazioni danno luogo a otto possibili condizioni:

1. se le due forme sono morfologicamente identiche, simpa-triche e riproduttivamente non isolate, appartengono naturalmente alla medesima popolazione;

2. se queste due forme sono morfologicamente identiche, ma allopatriche, pur essendo riproduttivamente non isolate, rap-presentano due sottospecie della medesima specie;

3. se due forme sono morfologicamente diverse, simpatriche e riproduttivamente non isolate, sono varianti genetiche entro la stessa popolazione, rappresentano cioè un caso di polimorfismo;

4. se le forme sono morfologicamente diverse e allopatriche, ma non isolate riproduttivamente, esse appartengono a sotto-specie di una stessa specie;

5. se, pur essendo morfologicamente identiche, sono ripro-duttivamente isolate, rappresentano due bonae species, ma tanto simili da giustificare l'impiego di una espressione particolare, quella di specie gemelle;

6. se due forme morfologicamente identiche e allopatriche sono isolate anche riproduttivamente, rappresentano due specie diverse anche se molto simili (specie gemelle);

7. se le forme sono morfologicamente diverse, simpatriche e riproduttivamente isolate, appartengono senz'altro a specie di-verse;

8. appartengono infine a specie diverse le forme riprodutti-vamente isolate, morfologicamente diverse e allopatriche.

Un tale schema può essere utile, anche se così semplificato, per definire le possibili situazioni in cui si viene a trovare un qualsiasi sistematico.

Biologicamente la specie si può definire come un sistema che assicura e protegge le combinazioni genetiche favorevoli. Infatti la possibilità di accoppiamento, e quindi lo scambio dei geni,

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assicura all'individuo e alla popolazione la variabilità necessaria per l'adattamento alle diverse condizioni, mentre l'impossibilità di accoppiamento esterno (extraspecifico) protegge il gruppo dal-l'intromissione di caratteri inadatti, che sconvolgerebbero o co-munque disturberebbero l'equilibrio dinamico dei geni che si è realizzato.

4. Sottospecie, varietà e gruppi di popolazioni (razze).

La divisione tassonomica immediatamente inferiore alla specie è la sottospecie. Per « sottospecie » si intende una popolazione regionale di una specie politipica, che si distingue dalle popola-zioni della medesima specie per occupare un territorio geogra-fico distinto e per differenze morfologiche e fisiologiche qualita-tivamente o quantitativamente considerevoli.

La sottospecie deve pertanto essere, per definizione, allopa-trica: infatti se più sottospecie vivessero in una medesima regione, esse si mescolerebbero genericamente e le differenze fra loro si estinguerebbero. Le differenze dalle altre sottospecie della mede-sima specie sono mantenute costanti dall'isolamento geografico e, per caratteristiche fisiologiche, la sottospecie dev'essere partico-larmente adattata al clima e alle condizioni fisiche dell'ambiente in cui si trova.

Nell'ambito delle popolazioni che costituiscono una sottospe-cie, per opera di meccanismi di varia natura (drift genetico, isolamento geografico, isolamento sociale, ecc.), possono instau-rarsi dei complessi di geni, per cui determinate popolazioni dif-feriscono da altre della medesima sottospecie. A questi gruppi di popolazione generalmente viene attribuito il nome di razza.

Questa entità deve quindi essere considerata come una entità tassonomica inferiore alla sottospecie. Come tale, può distin-guersi solo in seno a una specie polimorfa come è il caso della specie umana, del Cane e di molti altri animali domestici. La sua definizione è di tipo empirico: si basa su caratteri morfo-logici, anatomici, fisiologici, genetici e psicologici e potrebbe es-sere formulata cosi: un gruppo di individui della popolazione di una specie vivente in un'area o in aree determinate, il quale, per un insieme di caratteristiche fisiche comuni ai suoi membri, variabili entro certi limiti, si distingue dagli altri gruppi della specie.

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Capitolo quarto

I PRIMATI ATTUALMENTE VIVENTI

1. Generalità.

L'ordine dei Primati, al quale anche l'Uomo appartiene, fu definito nel 1758 da Linneo il quale vi comprese: Uomo, Scim-mie, Lemuri, Pipistrelli e Tardigradi. Successivamente questi due ultimi gruppi furono classificati in altri ordini.

Oggi nell'ordine dei Primati sono comprese: le Proscimmie (Tarsi e Lemuri), le Scimmie americane o Platirrine, e le Scim-mie del Vecchio Mondo o Catarrine (di cui fanno parte le Antro-pomorfe e l'Uomo).

Il nome di Primati fu dato da Linneo alle Scimmie e al-l'Uomo, per distinguerli dagli altri Mammiferi, che egli chiamò Secondati, e dagli altri animali a cui dette il nome di Terziati. Nella maggior parte dei trattati di zoologia l'ordine dei Primati viene collocato dopo gli Insettivori per le molte affinità che con essi hanno le forme più primitive di Primati come la T upaia.

I caratteri che distinguono i Primati dagli altri Mammiferi sono i seguenti.

1. I Primati sono perlopiù arboricoli, a eccezione dei Bab-buini, delle Macache e dell'Uomo, che vivono esclusivamente sul suolo. La vita arboricola è probabilmente un modo arcaico di vita, come doveva essere quello di molti placentati ma questo tipo di vita produce precise modificazioni anato-miche e fisiologiche.

2. I Mammiferi in generale e tutti i Primati, eccettuato l'Uomo, si muoyono abitualmente su quattro arti; nei Primati tuttavia la vita sugli alberi ha prodotto una differenziazione fra l'arto anteriore e quello posteriore, avendo il primo prevalente-mente funzione prensile e il secondo prevalentemente di appoggio.

3. La lunga coda primitiva è stata conservata da alcuni Pri-

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mari con funzione equilibratrice, da altri con funzione prensile; in altre forme invece la coda si è ridotta o manca del tutto.

4. Per le loro caratteristiche di vita, í Primati hanno con-servato una struttura generalizzata delle membra, tipica dei Mam-miferi primitivi. Sono presenti infatti tutte, o quasi, le parti dell'acropodio e sono conservati e ben differenziati gli elementi dello scheletro toracico, come la clavicola, che in molti altri gruppi dí Mammiferi tende a sparire o a essere molto ridotta.

5. I Primati hanno membra eccezionalmente mobili e hanno acquisito una mobilità indipendente delle dita, specialmente del-l'indice e del pollice che può essere opponibile alle altre dita.

6. Nei Primati gli artigli acuminati, tipici dei Mammiferi, vengono sostituiti da unghie piatte e contemporaneamente si ha uno sviluppo della sensibilità nella parte molle dell'ultima falange delle dita.

7. 1 Primati sono per la maggior parte onnivori. La loro dentizione è perciò poco specializzata: manca il grande sviluppo dei canini proprio dei Carnivori o quello dei molari proprio degli Erbivori. Inoltre il numero dei denti si è ridotto da 44 (come era nei placentati primitivi) a 32 (o 36), conservando tuttavia la conformazione a semplici 'cuspidi nei denti molari.

8. Come conseguenza della riduzione del numero dei denti, dell'assenza di specializzazione nell'apparato masticatorio, del miglioramento della vista, della progressiva riduzione dell'appa-rato dell'olfatto e dell'aumento della grandezza dell'encefalo, il cranio dei Primati è chiaramente diverso nella sua struttura da quello degli altri Mammiferi. La faccia ha uno sviluppo propor-zionalmente minore e, soprattutto, è meno lunga; la bocca è retratta e il profilo più ripido. Inoltre le orbite non comunicano con la fossa temporale, ma costituiscono una cavità concoide bene individuata (chiusura retro-orbitaria), che nei Primati supe-riori s'avvicina a un'emisfera. È questa una caratteristica tipica dei Primati, presente fin dalle forme più antiche e che diffe-renzia questo gruppo dalle altre forme di Mammiferi.

9. Relativamente al peso del corpo, i Primati hanno l'ence-falo più sviluppato di tutti gli altri Mammiferi. A tale aumento generale di massa è associata una maggiore complessità di strut-ture. L'incremento dimensionale riguarda specialmente le aree motorie, che sono in relazione col loro alto grado di coordina-mento muscolare, necessario alla vita arboricola e ai complessi movimenti dell'arto superiore e alla visione binoculare.

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10. Ma caratteristica distintiva dei Primati, rispetto agli altri Mammiferi, è quella di avere la India otica formata quasi inte-ramente da una estensione della petrosa, mentre negli altri Mam-miferi essa è formata dall'osso timpanico e dall'endotimpanico.

Questi caratteri, nel loro insieme, oltre a differenziare i Pri-

mati viventi dagli altri Mammiferi, sono validi anche per stu-diare i resti fossili dei Primati, in quanto la maggior parte di essi implica particolari caratteristiche o trasformazioni dell'appa- rato scheletrico.

Oltre a queste peculiarità anatomiche i Primati sono carat- terizzati da un lungo periodo di vita postnatale e da una buona efficienza dei rapporti placento-fetali, che si incrementa filogene- ticamente dai più primitivi ai più differenziati.

Altra tendenza generale riscontrabile nei Primati è la ridu-zione del numero della prole, a causa delle condizioni di vita arboricole. Le difficoltà del trasporto dei figli neonati deve aver portato alla riduzione del numero dei figli e ad un più stretto rapporto fra madre e figlio, importante prerequisito dell'evolu-zione umana (processi di apprendimento e di socializzazione).

2. La classificazione dei Primati.

Nel suo insieme, l'ordine dei Primati presenta una notevole varietà di forme che possono essere classificate in circa 180 specie viventi, suddivise in circa 50 generi. Per meglio capire l'evoluzione di questo gruppo di animali e per meglio classifi-care la nostra specie nell'ordine dei Primati, è necessario orga-nizzare le varie forme in gruppi con valore tassonomico inter-medio fra l'ordine e la specie: sottordine, infraordine, super- famiglia e genere.

Vi è tuttavia un certo disaccordo, fra i sistematici, nella classificazione delle varie forme di Primati. La maggior parte di queste difficoltà concernono le categorie superiori alla specie e al genere.

La classificazione che qui presentiamo (tab. 4.1) è, con qualche modificazione, quella adottata dal Simpson. Eccetto l'Uomo, le varie specie di Primati attuali vivono nelle regioni equatoriali (fig. 4.1).

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segue SIMIAE PLATYRRHINAE

Alouatta 5 Saimiri 2 - Cebus 4 Ateles 4 Brachyteles 1 Lagothrix 2

SIMIAE CERCOPITHECIDAE Macaca 13

CATARRHINAE Papio 7 Theropithecus 1 Cercocebus 5 Cercopithecus 22 Erythrocebus

COLOBIDAE Presbytis 14 Pygathrix 1 Rhinopithecus 2 Simias 1 Nasalis 1 Colobus 5

HYLOBATIDAE Hylobates 6 Symphalangus 1

PONGIDAE Pongo 1 Pan 2 Gorilla 1

HOMINIDAE Homo 1

TABELLA 4.1 Classificazione tassonomica dei Primati viventi (subor-dine, famiglia, genere). (L'ultima colonna indica il numero delle specie viventi descritte per ciascun genere).

(segue Tabella 4.1)

Subordino Famiglia Genere Numero specie

Subordine Famiglia Genere Numero specie

PROSIMII TUPAIIDAE Tupaia 11 Dendrogale 2 Urogale 1 Ptilocercus 1

LORISIDAE Loris 1 Nycticebus 2 Arctocebus 1 Perodicticus 1

GALAGIDAE Galago 6

LEMURIDAE Microcebus 2 Cheirogaleus 2 Phaner 1 Hapalemur 2 Lemur 5 Lepilemur

INDRIIDAE Propithecus Avahi Indri

DAUBENTONIIDAE Daubentonia

TARSIIDAE Tarsius 3

SIMIAE CALLITHRICIDAE Callithrix 3 PLATYRRHINAE Cebuella 1

Leonticleus Saguinus 14

CALLIIVIICONIDAE Callimico 1

CEBIDAE Aotes Callicebus 3 Pithecia 2 Chiropotes 2 Cacajao 3

3. Le Proscimmie viventi.

In questo sottordine i sistematici comprendono i Lemuri-formi, i Lorisiformi, i Tarsiformi e, anche se non tutti sono d'accordo, i Tupaiformi. Nel loro insieme, le Proscimmie sono particolarmente interessanti, in quanto esse sono per la maggior parte Mammiferi molto primitivi e hanno molti caratteri in

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comune con gl'Insettivori, il gruppo dei Mammiferi più vicino ai Primati.

Gli antenati delle Proscimmie hanno costituito il ceppo fon-damentale dal quale si sono evoluti tutti i Primati attuali. Le conoscenze che si hanno su esse ci aiutano pertanto a capire le relazioni esistenti fra le varie forme di Primati.

Tupaioidea. Formano un gruppo aberrante di Proscimmie che molti autori preferiscono classificare fra gl'Insettivori. Sono da considerare un gruppo di forme molto primitive, rappresen-tate dai generi Tupaia, Dendrogate, Urogale, Ptilocercus. Sono tutte confinate nell'Estremo Oriente e più precisamente nel Sudest asiatico e nell'Indonesia (fig. 4.1). Sono fra i più piccoli Mammiferi esistenti, molto vivaci e aggressivi: sono attivi di giorno. Hanno muso lungo con naso lungo e umido e una coda a ciuffo. La pelliccia è screziata perché i singoli peli hanno stri-sce chiare e scure, e varia dal color camoscio al rosso bruno, con una striscia obliqua più chiara sul dorso (fig. 4.2). La loro dieta è onnivora, ma si cibano volentieri d'insetti. Come gl'In-settivori hanno artigli su tutte e dieci le dita. Hanno un totale di 38 denti (la formula dentaria è riportata nella tab. 7.VII). Questi animali sono gli unici tra i Primati ad avere 6 incisivi inferiori; tutti gli altri ne hanno 2 o 4. Gli occhi sono grandi

Fig. 4.2 Tupaza

57

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TABELLA 4.11 Alcuni parametri vitali nei diversi Primati.

Genere Pubertà (anni)

Durata ciclo ovarico

(gg.)

Durata gestazione (gg-)

Tupaia Urogale Loris Nycticebus Arctócebus Perodicticus Galago Microcebus Cheírogaleus Lemur Lepilemur

0.6 — — — — 1

1 - 1.5 0.8 —

1.5 - 3.0 1.5

9 - 12 —

37 - 54 42

38 - 45 34 - 47 23 - 47 48 - 55

30 39 - 50

41 - 50 50 - 56

160 - 174 174 - 193 131 - 136 170 -193 120 - 146

59 - 65 70

120 - 145 120 - 150

Propithecus 2.5 — 150 Indri — — 60 Tarsius — 23 - 23 180 Callithrix 1.2 — 140 - 150 Cebuella — — 140 - 150 Leontideus — — 132 -140 Saguinus — 14 -17 134 - 150 Callimico — — 149 - 152 Pithecia — — 101 Alouatta 3.5 - 4.0 — 139 Saimiri 3 24 - 25 152 - 172 Cebus 3 - 4 16 - 20 180 Ateles — 24 - 27 139 Lagothrix 4 23 - 26 139 - 250 Macaca 3 - 3.5 24 - 33 146 - 186 Papio 3 - 4 31 - 35 154 - 190 Theropithecus 5 32 - 36 180 Cercocebus — 28 - 33 213 Cercopithecus — 30 - 33 180 - 213 Erythrocebus 3 - 4 30 - 32 213 Presbytis 3.5 21 - 30 168 -196 Pygathrix — 180 - 190 Nasalis — — 166 Colobus — — 180 - 213 Hylobates 5 - 10 27 - 29 210 - 217 Symphalangus — 20 - 43 230 - 235 Pongo 6 - 8 29 - 32 210 - 275 Pan 6-10 34 - 37 210 - 270 Gorilla 5 - 8 30 - 35 238 - 289 forno 12 28 - 30 260

e disposti ad angolo retto l'uno con l'altro. La visione pertanto non è di tipo stereoscopico come negli altri Primati; l'area visiva del cervello (area striata), ciò nonostante, è più ampia di quella degl'Insettivori; la regione olfattoria relativamente più mode-sta. L'intero scheletro è di tipo lemuriforme, specie per quanto riguarda l'orbita rotondeggiante e la bolla timpanica rigonfia. Il cervello in generale è primitivo, pur presentando un leggero sviluppo del neopallio. Il maschio è provvisto di pene grosso e pendulo con testicoli esterni, la femmina ha utero bipartito e gli embrioni si impiantano con placenta endotelio-coriale e per questo carattere si differenzia dagli altri Primati che hanno placenta epitelio-coniale o emocoriale. Il genere Tupaia è carat-terizzato dall'avere 3 paia di mammelle, il genere Dendrogale 2, e i generi Urogale e Ptilocercus un solo paio. Resti dí Ptilo-cercus fossili, non molto differenti dalle forme attuali sono stati trovati in strati dell'Oligocene inferiore della Mongolia.

Lemuroidea. La superfamiglia dei Lemuroidea comprende tre famiglie (Lemuridae, Indriidae e Daubentoniidae), attualmente viventi, tutte con habitat esclusivo nel Madagascar (fig. 4.1). In questa isola, rimasta a lungo separata dal continente, dove nes-sun altro tipo di Mammifero ha mai avuto occasione di com-petere con essi, i Lemuri si sono specializzati come i Marsu-piali in Australia. Tuttavia, come per altre forme di fauna isolata, molte fra le più grosse forme scomparvero un millennio a. C. quando, con l'arrivo dell'Uomo, l'isola fu aperta agli animali continentali.

La maggior parte dei Lemuri presenta uno scheletro parti-colarmente adattato all'arrampicamento sugli alberi, e mani e piedi in cui le seconde o terze dita hanno artigli, mentre le altre hanno unghie come negli altri Primati. In qualche specie il secondo dito è rudimentale; in quasi tutte le specie è più lungo il quarto, anziché il terzo come per gli altri Primati. Un grado particolare di specializzazione si ha nella Daubentonia in cui il dito medio è lungo e molto sottile e viene utilizzato per estrarre larve dai buchi del legno. Tutte le dita di Daubentonia inoltre portano artigli escluso l'alluce che invece ha un'unghia piatta. La mandibola è lunga e sottile, a forma di V e, rispetto ai Tupaioídea, contiene un dente in meno per parte. I denti sono in totale 36, organizzati :in modo peculiare. Nella mandibola i quattro incisivi e i due canini sono convergenti verso l'esterno

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e acuminati, il primo premolare è grosso e assume le funzioni di canino.

Un grado ancora maggiore di specializzazione si ha nella Daubentonia, in cui la dentizione è estremamente ridotta; la formula dentaria è:

1I, OC, 1P, 3M/11, OC, OP, 3M

con un totale cioè di soli 18 denti permanenti, rispetto ai 36 degli altri Lemuri. Inoltre gl'incisivi di questa specie sono taglienti e crescono con l'usura proprio come quelli dei Rodi-tori. Si nutrono infatti del succo tratto dai duri steli delle canne da zucchero e necessitano pertanto di incisivi così specializzati.

I Lemuri hanno una riproduzione stagionale; l'utero è bipar-tito come nei Tupaioidea. Ma mentre in essi la placenta è a disco, quella dei Lemuri è diffusa, con ampio allantoide. Altro fatto unico fra í Primati è che la placenta non viene espulsa al momento del parto; per questa caratteristica i Lemuri asso-migliano molto agli Ungulati. Quasi tutti i generi presentano un solo paio di mammelle localizzate nelle regioni pettorali.

Sono nel complesso un gruppo estremamente specializzato e quindi non molto utile per fornire informazioni sull'origine dei Primati. Sono tuttavia assai importanti per illustrare alcuni aspetti della specializzazione e alcune modalità di evoluzione. Essi, per dimensioni, variano dalla grossezza quasi di un Topo a quella di un grosso Cane. Hanno senso dell'olfatto piuttosto sviluppato e cervello relativamente piccolo. Pur essendo specia-lizzati in una notevole quantità di forme, non hanno incremen-tato, nella loro evoluzione, le capacità intellettuali, da quando raggiunsero il Madagascar. Questo fatto è certo da mettere in relazione con la mancanza di competitori in quella vasta isola.

I più tipici e rappresentativi viventi di questa superfamiglia sono le varie specie di Lemur e di Microcebus, l'Indri e la Daubentonia. Come vedremo, sono stati scoperti resti fossili, ascrivibili a queste forme, nei sedimenti del Paleocene e del-l'Eocene d'Europa, del Nord-America e dell'Africa. Essi sono raggruppati nelle famiglie dei Plesiadapidae, Adapidae e No-tharctidae.

Lorisoidea. La superfamiglia dei Lorisoidea comprende due famiglie: quella dei Lorisidae con quattro generi e quella dei

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Fig. 4.3 Nycticebus coucang.

Gaiagidae con uno solo. I Lorisidae comprendono specie viventi nel Sudest asiatico e nell'Africa (fig. 4.1). Sono tutti animali piccoli, delle dimensioni di uno Scoiattolo o al massimo dí un Gatto, con unghie su tutte le dita eccetto che sul secondo. Sono notturni e solitari. Si muovono lentamente. Si cibano in genere di foglie e dí uova dí uccelli. A mo' di difesa posseggono 4 o 5 spine vertebrali lunghe e acuminate che si ergono attraverso la pelle del collo e delle spalle. I Gaiago sono invece animali più mobili; vivono sugli alberi su cui si spostano con agili salti (fig. 4.4).

Tarsioidea. La superfamiglia dei Tarsioidea è rappresentata da un solo genere e da tre sole specie viventi. È comunque

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Fig. 4.4 Galago senegalensis.

molto importante, perché si pensa che le sue forme fossili, ritrovate ín strati del Paleocene e dell'Eocene inferiore della Francia e dell'America settentrionale, rappresentino un anello di congiunzione tra i Lemuri e gli altri Primati più evoluti. Tutte queste forme fossili sono raccolte nella famiglia degli Anapto-morphidae.

La famiglia T arsiidae, come abbiamo detto, comprende la sola forma vivente Tarsius, che vive nelle foreste di Sumatra, nelle isole Celebes, nelle isole Sangir e nel sud delle Filippine (fig. 4.1). Le varie popolazioni di questa specie variano nel colore e in alcune piccole caratteristiche del cranio. Le loro dimensioni sono molto piccole. Sono fornite di occhi molto grandi, quasi stereoscopici e sono notturne. Hanno mani e piedi rivestiti, verso l'interno, di ampi cuscinetti spugnosi. Inoltre sono caratterizzate da un allungamento delle ossa tarsali (da cui il nome). Nelle mascelle gli incisivi mediani sono della stessa larghezza dei laterali come nell'Uomo. Hanno un totale di 34 denti ripartiti secondo la formula:

21, IC, 3P, 3M/11, 1C, 3P, 3M.

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Mentre nei Lemuri e nei Lorisidi la parte ossea dell'orecchio è composta di due parti (bUlla anulus), nel Tarsio queste sono fuse a formare un meato esterno unico, come nei Primati supe-riori.

4. Caratteristiche, generali delle Scimmie Platirrine e Catarrine.

Caratteristiche comuni a tutte Ie Scimmie, le Antropomorfe e l'Uomo, ma differenziali rispetto alle Proscimmie, sono: la cavità orbitale separata dalle fosse temporali per mezzo di un setto osseo; la bulla timpanica non rigonfia; un cervello altamente sviluppato con numerose circonvoluzioni; l'utero singolo e roton-deggiante; la placenta formata di tessuto embrionale e materno, di forma discoidale, ed espulsa alla nascita (decidua).

5. Le Platirrine viventi.

Il nome di questo gruppo di Primati, che vive nell'America centrale e meridionale, deriva dall'avere le narici separate da un largo setto, in contrasto con le Scimmie del Vecchio Mondo, o Catarrine, le cui narici sono molto ravvicinate. La testa è arra-

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Fig. 45 Callithrix jacchus.

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tondata e la mandibola è relativamiente piccola. A differenza delle Catarrine, inoltre, non hanno callosità ischiatiche. Il pollice non è mai opponibile alle altre dita e molto spesso è vestigiale o assente. L'alluce è provvisto di un'unghia appiattita. Le unghie delle altre dita, di mani e piedi, sono molto spesso compresse lateralmente e nei Callithricidae si presentano ancora come veri e propri artigli benché all'esame istologico presentino già le caratteristiche tipiche delle unghie.

La loro formula dentaria generale è di tipo lemuroideo, cioè formata da 36 denti con disposizione

21, 1C, 3P, 3M/21, 1C, 3P, 3M.

Le Scimmie americane sono tutte arboricole e abitano le foreste tropicali del Sud-America. Solo poche specie si estendono nell'America centrale (fig. 4.1).

Si dividono in due famiglie: Callithricidae e Cebidae. Le forme più primitive sono quelle dei Callithricidae con i

generi Callíthrix, Cebuella e Leontocebus. Esse hanno dimen-sioni estremamente piccole, con una coda lunga quanto testa e

Fig. 4.6 Pithecia pithecía g e 9 con piccolo.

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Fig. 4.7 Callimico goeldii.

corpo messi assieme (fig. 4.5). La formula dentaria dei Callithri-cidae, a differenza di quella dei Cebidae, è ridotta, con due molari anziché tre per ogni Iato della mascella.

Cebidae rappresentano una forma più evoluta presentando unghie su tutte le dita oltre che sull'alluce (fig. 4.6). La visione è di tipo stereoscopico come quella delle Scimmie Catarrine. Hanno cervello particolarmente sviluppato e intelligenza supe-riore aí Callithricidae. La locomozione dei Cebidae è anche molto differenziata; caratteristica peculiare di alcuni generi è la lunga coda con la parte inferiore umida e squamosa che serve come organo prensile, specializzazione, questa, particolarmente vantag-giosa nel periodo delle piogge quando le foreste vengono inondate e i rami sono viscidi.

Fra i Cebidae e i Callithricidae vi è una forma intermedia rappresentata dalla specie Callimico goeldii (fig. 4.7), anzi Calli-mico, Callicebus e Cebus formano una successione progressiva di forme molta più simile a una serie evolutiva fossile che a una successione sistematica di forme viventi. Si ritiene infatti che 3.1 Callimico goeldii abbia mantenuto ancora molte caratteristiche ancestrali del gruppo che, divisosi dalle rimanenti specie di Primati alla fine del Terziario, ha dato origine alle varie forme di Primati attualmente viventi sul continente americano.

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6. Le Catarrine.

CoI nome di Catarrine vengono definite tutte le Scimmie del Vecchio Mondo (Asia, Africa, Europa), includendo le Antro-pomorfe e l'Uomo. Hanno fra loro in comune il tipo di naso, da cui prendono nome: in esse le narici sono ravvicinate e parallele, separate da uno stretto setto nasale. Il loro senso dell'olfatto è molto ridotto in confronto a quello degli altri Primati. Sono tutte diurne e hanno visione stereoscopica.

Hanno un totale di 32 denti ripartiti secondo la formula: 21, 1C, 2P, 3M/2I, 1C, 2P, 3M

tipica anche dell'Uomo. Nell'ambito delle Catarrine si possono differenziare dei gruppi

per caratteristiche comuni. Una di queste, per esempio, è il tipo di placenta, che nei Gibboni, nelle Antropomorfe e nel-l'Uomo è costituita da un solo disco, mentre nelle altre Catar-rine è formata da due dischi. Altra caratteristica che differenzia le Antropomorfe e l'Uomo dalle altre Catarrine è l'assenza di callosità ischiatica: una superficie umida e priva di pelo che ricopre la sporgenza delle ossa ischiatiche. Questa callosità tutta-via è talvolta presente nello Scimpanzé.

Benché, come vedremo, esistano molti problemi circa l'orga-nizzazione tassonomica di questo gruppo, le Catarrine si possono suddividere nelle superfamiglie dei Cercopithecoidea e degli Hominoidea.

Nella prima superfamiglia possiamo comprendere, anche se la maggior parte dei sistematici non sono d'accordo, Ie fami-glie dei Cercopithecidae, dei Colobidae e degli Hylobatidae; nella seconda superfamiglia, le Antropomorfe vere e proprie (Pan-gidae) e l'Uomo ( Hominidae).

Descriveremo qui di seguito le caratteristiche principali delle diverse famiglie.

7. I Cercopithecoidea viventi.

La famiglia dei Cercopithecidae comprende le Macache, i Babbuini e i Cercopiteci; quella dei Cotobidae comprende i Colobi, i Presbiti, i Nasali e altre forme.

Tutti i rappresentanti dei Cercopithecidae sono caratteriz-zati da sacche boccali, ove possono temporaneamente accumu-

Fig. 4.8 Macaca sylvana. Fig. 4.9 Cercocebus atys.

Fig. 4.10 Cercopithecus nictitans.

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Papio anubis Erythrocebus patas Cercopithecus tuona

ci Cercopithecus nictitans Cercopithecus aethiops

■ Colobus badius v Cercocebus atys • Cercopithecus neglectus x Cercopithecus nigrovincils d Cercopithecus cephus

Acacie e anousti.

'45.122'

lare del cibo. Il loro stomaco è semplice: sono onnivori. La loro distribuzione geografica è molto estesa: le Macache sono distribuite principalmente su tutte le Indie, nel nord della Cina e in Giappone (fig. 4.1); una sola di questa specie, la Bertuccia, vive in Africa e ín Europa (Gibilterra). Gli altri Cercopithecidae vivono in Africa, sia nella foresta che nella savana e nelle mon- tagne dell'Abissinia (fig. 4.1). Tra questi però sono da distin-guere nettamente i generi Papio, Theropithecus e Cercocebus dalle specie del genere Cercopithecus: in quest'ultimo genere infatti l'ultimo molare inferiore ha solo quattro cuspidi, anziché cinque. Si ritiene che questa differenza sia molto antica.

La locomozione nei Cercopithecidae si realizza a seconda del tipo di habitat e si distinguono due gruppi, quello arboricolo e quello terricolo. I generi Cercocebus (fig. 4.9) e Cercopithecus (fig. 4.10), che vivono in Africa, sono unicamente arboricoli. Gli altri generi ( Macaca, Papio, Theropithecus) sono specializzati invece per un modo di vita sconosciuto per i Primati finora descritti: la vita sulla terra. In questo modo essi hanno potuto colonizzare ambienti nuovi per animali come i Primati, e cioè il territorio roccioso e quello della savana o della pianura (fig. 4.11). Possono sedere semierettì nei momenti di riposo e hanno conservato la completa mobilità delle dita, nonostante il loro comportamento da quadrupedi. Hanno mascelle potenti con grossi denti. Possono aprire completamente la bocca solo rovesciando all'indietro la testa. Vivono in gruppi soggetti a una ferrea disci-plina, mantenuta dal maschio più forte o, in sua assenza, dalla femmina più anziana.

Le femmine di tutti i Cercopithecidae posseggono un'ampia area intorno alla regione genitale che diventa tumida e vistosa durante il periodo dell'ovulazione e che serve da attrazione sessuale. Il maschio ha spesso gli organi sessuali vistosamente colorati in verde, rosso e blu.

La famiglia dei Colobidae comprende specie che vivono in Africa e in Asia meridionale, tutte arboricole. Il genere Colobus (fig. 4.13) vive in Africa (dall'Africa occidentale attraverso il Congo fino in Etiopia); gli altri generi (Presbytis, Nasalis, Simias, Pygatbrix, Rhinopithecus) vivono invece in Asia (figg. 4.12 e 4.14). Si nutrono quasi esclusivamente di foglie, gemme, pic-coli arbusti e frutti.

Questo adattamento alimentare necessita di un apparato dige-rente particolare; lo stomaco dei Colobidae è molto grande e

Fig. 4.11 Zona di vegetazione in una Lascia campione di 1300 miglia dal Congo al Tibesti per mostrare gli habitat dei Primati locali. Nel com-plesso ambiente della foresta pluviale africana si possono distinguere diverse zone altimetriche, in cui specie diverse di Primati sí distribui-scono. Lo strato superiore è occupato dal Colobo, quello medio dal Cercopiteco moria e dal Cercopiteco a naso bianco, quello inferiore dal Cercopiteco negletto, mentre la zona degli arbusti, vicina al suolo, è occupata dal Cercopiteco fulíginoso.

può contenere una quantità di foglie equivalente a 1/3 del peso dell'animale ed è suddiviso in più sacche semindipendenti. Per questa ragione i Colobidae sono sprovvisti delle sacche boc-cali che sono invece presenti nei Cercopithecidae. Poiché le foglie richiedono una masticazione peculiare, gli incisivi di questi ani-mali sono piccoli e taglienti. I molari sono proporzionalmente molto grandi. Il meccanismo di triturazione avviene per movi-menti latero-laterali, il che comporta un notevole sviluppo dei muscoli masseteri e temporali del cranio. Per questo particolare apparato boccale e per questa complessa muscolatura, molte specie presentano somiglianze con gli Hominidae. Alcune poi ( Nasalis e Rhinopithecus), con il loro naso esterno particolar-mente sviluppato, si direbbero delle vere e proprie caricature di esseri umani.

69 68

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Fig. 4.13 Colobus guereza. Fíg. 4.12 Presbytis obscurus.

Fig. 4.14 .Nasalis larvatus. Fig. 4.15 Hylobates concolor.

La dieta esclusivamente vegetariana dei Colobidae, che per-mette loro di avere un cibo abbondante e facilmente reperibile, ne limita tuttavia l'habitat alle regioni delle foreste con foglie non decidue. Alcune di queste specie possono vivere anche in regioni fredde come le foreste himalaiane e transhimalaiane ( Presbytis e Pygathrix). Tuttavia, come per altre specializzazioni ecologiche limitate, la loro dieta, dal punto di vista evolutivo, costituisce un vicolo cieco in cui più di un gruppo di animali è entrato, ma dal quale nessuno è emerso per produrre forme più evolute.

Gli Hylobatidae per alcuni loro caratteri, come la possibilità dí stazione eretta e l'assenza di coda, sono stati in passato classi-ficati nella superfamiglia degli Hominoidea. Le più recenti cono-scenze invece tendono a far inserire questo gruppo fra i Cerco-pithecoidea. Come abbiamo detto, gli Hylobatidae (Gibboni) sono caratterizzati da assenza di coda e da arti molto lunghi. Nell'ambito dei Primati sono i migliori brachiatori e sono capaci di saltare agilmente, servendosi solo dell'arto superiore, da ramo a ramo, anche tra alberi diversi. Riescono anche a camminare eretti, bilanciandosi con le lunghe braccia; le mani e i piedi sono lunghi e sottili e vengono usati indifferentemente per afferrare il cibo. Il pollice è corto e attaccato molto indietro nel palmo della mano e quindi quasi completamente inutilizzabile. È que-sto, come vedremo, un adattamento particolare alla brachiazione.

I loro denti sono piccoli, eccetto i canini, che sono grossi e lunghi. Queste Scimmie emettono suoni acuti, che possono essere uditi a più di un chilometro di distanza. Non presentano un visibile dimorfismo sessuale; anche i genitali sono piccoli e ricoperti di pelurie.

Gli Hylobatidae comprendono due generi: Sympha/angus e Hylobates (fig. 4.15).

Il Symphalangus è caratterizzato dal possedere .una membrana tra le prime falangi del 2° e 3' dito (da cui il nome), e da una sacca laringea estensibile in modo particolare. Vive nelle fore-ste di Sumatra. Gli Hylobates invece vivono specialmente nella penisola di Malacca, nel Borneo e a Sumatra (fig. 4.1). In pas-sato tuttavia questo genere, o generi molto affini, avevano una distribuzione geografica molto più estesa, come attestano i resti di Gibbone trovati in strati Miocenici dell'Europa e nel Plio-cene della Cina centrale e settentrionale.

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Fig. 4.16 Pongo pygmaesis. Fig. 4.17 Gorilla gorilla.

Fig. 4.18 Pan trogloclytes.

8. Le Antropomorfe viventi,

La famiglia dei Pongidae comprende le tre Antropomorfe vere e proprie: Orango, Gorilla, Scimpanzé (figg. 4.16; 4.17; 4.18).

L'Orango (od Orangutan) vive nelle isole di Borneo e di Sumatra. Le altre due Antropomorfe vivono nelle foreste afri-cane (fig. 4.1). Lo Scimpanzé e il Gorilla sono anche anatomica-mente e fisiologicamente molto simili fra loro.

Le differenze fra le Antropomorfe e l'Uomo sono in gran parte da correlarsi con l'habitat. L'Uomo è divenuto terrestre, e ha conquistato l'habitat della savana, mentre le Antropomorfe hanno mantenuto abitudini arboricole, talvolta sviluppandole ulte-riormente, come l'Orango, che possiede arti superiori estrema-mente lunghi e arti inferiori relativamente corti.

Il Gorilla, specie il maschio, per la sua grossa mole, è dive-nuto invece parzialmente terrestre. Lo Scimpanzé è indifferen-temente arboricolo o terrestre. La sproporzione tra gli arti supe-riori lunghi e gli arti inferiori più corti ha condotto il Gorilla e Io Scimpanzé a un tipo molto peculiare di deambulazione quadrupede, con la parte anteriore del corpo più elevata, e con il peso della parte anteriore del corpo appoggiato sulle nocche della mano. Ma la forma della pelvi e la piccola dimensione dei muscoli glutei impediscono, nelle Antropomorfe, una stazione eretta abituale.

Il ciclo mestruale delle Antropomorfe presenta le stesse fasi che si osservano nell'Uomo e, nello Scimpanzé, sono identici anche gli intervalli. Il periodo dí gestazione per le 3 Antro-pomorfe è di circa nove mesi e la placenta è essenzialmente del medesimo tipo di quella umana. Anche il cervello, sebbene grande circa 1/3 di quello umano, non presenta, rispetto ad esso, sostanziali differenze morfologiche. Anche per quel che riguarda gli altri organi e apparati non esistono differenze apprez-zabili tranne che per le dimensioni.

Un'altra indicazione della similitudine tra Uomo e Antro-pomorfe è data dalla suscettibilità di esse alle malattie che col-piscono specificamente l'Uomo, mentre gli altri Primati ne sono relativamente immuni.

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9. Gli Ominidi.

La famiglia degli Hominidae è rappresentata da un singolo genere vivente e da una sola specie: la nostra ( Homo sapiens).

Essa differisce dalle altre Antropomorfe per dei caratteri facil-mente enumerabili.

Il cervello dell'Uomo è circa tre volte più grosso di quello delle Antropomorfe, sebbene alla nascita sia più piccolo di quello dell'Orango. Esso è anche più specializzato. I denti dell'Uomo sono in genere più piccoli, in particolare i suoi canini sono della medesima dimensione degli incisivi e dei premolari. Di conse-guenza nell'Uomo, tranne in rare eccezioni, non si ha diastema, cioè uno spazio tra i canini e gli incisivi laterali, presente invece nelle Antropomorfe.

Mentre le Antropomorfe sono specializzate come brachiatrici, l'Uomo ha acquistato la stazione eretta, con conseguenti impor-tanti differenze nella colonna dorsale, nella pelvi, negli arti superiori e inferiori, nelle mani, nel cranio, nella mandibola e nello speciale sviluppo dell'apparato boccale.

La maggior parte delle popolazioni umane è meno pelosa delle Antropomorfe, eccetto che per la testa, per le ascelle e per il pube.

10. Unità specifica dell'umanità vivente (Neantropo) e le cinque sottospecie umane.

L'umanità vivente è distribuita praticamente su tutta la super-ficie terrestre: è cioè cosmopolita. All'osservazione morfologica esterna si presenta molto variabile, Appartengono ad essa gruppi di individui biondi, dagli occhi azzurri, dalla pelle chiarissima e dalla statura elevata (media 182 cm), come gli Svedesi, e gruppi di individui dalla pelle bruna, dal capello nero, cortis-simo e strettamente avvolto su se stesso, e dalla statura bassis-sima (media 144 cm), come i Pigmei africani.

Nonostante queste differenze morfologiche esteriori, i vari gruppi umani appartengono tutti a una specie, la specie Homo sapiens. Infatti, in seno all'umanità vivente, sono state prati-camente controllate quasi tutte le possibilità d'incrocio (criterio missiologico di determinazione di specie). Quasi sempre sono stati gli Europei che, diffondendosi in tutto l'Ecumene e venendo

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in contatto con altre popolazioni, hanno servito da tesi per dimo-strare l'interfecondità fra Europei e Tasmaniani (i Salers delle isole dello Stretto di Bass), fra Europei. e Ottentotti (i. Bastardi di Rehoboth), fra Negri ed Europei, fra Ottentotti e Indiani in Sudafrica, fra Ainu e Giapponesi, fra Europei e Cinesi. Non sono mai stati constatati casi di sterilità collettiva.

Per la condizione di interfecondità che abbiamo considerato implicita nella definizione di specie, quindi, tutte le popolazioni umane sono da raggrupparsi solo in categorie inferiori a tale entità tassonomica. Questo, almeno, se si ammette valida la proprietà transitiva, cioè se si considera come dimostrata l'inter-fecondità di due gruppi a loro volta interfecondi con un terzo. Se ci rifacciamo quindi allo schema delle possibili condizioni tassonomiche considerate nel terzo capitolo, si ha che gli individui appartenenti alle popolazioni umane cadono nel gruppo dei ripro-duttivamente non isolati, anche se possono essere morfologicamente non identici o allopatrici: appartengono cioè tutti alla medesima specie.

Nell'ambito delle popolazioni che costituiscono la specie Homo sapiens, ve ne sono alcune che, pur essendo interfeconde con altre, si presentano morfologicamente diverse e vivono in regioni diverse: Negri e Bianchi, Australiani e Negri, ecc.

In base a questi requisiti si possono, secondo Coon, distin-guere nell'umanità cinque sottospecie diverse (figg. 4.19 e 4.20):

1. la Caucasoide, con distribuzione geografica in tutta l'Eu-ropa, nell'Arabia, nel Medio Oriente, nell'India, nell'Africa set-tentrionale;

2. la Mongoloide, con distribuzione geografica in tutta l'Asia, nelle isole Filippine, nell'America settentrionale, centrale e meri-dionale, nella parte orientale del Madagascar;

3. l' Australoide, con distribuzione geografica in tutta l'Au-stralia, l'isola del Borneo, la parte centrale dell'India e alcune coste delle Filippine;

4. la Congoide, con distribuzione geografica nell'Africa cen-trale e nella parte occidentale del Madagascar;

5. la Capoide, con distribuzione geografica nell'Africa me-ridionale.

Inoltre popolazioni che convivono nella medesima regione possono presentarsi morfologicamente alquanto diverse, pertanto nell'ambito delle cinque sottospecie umane prima descritte ven-

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getto distinti gruppi di popolazioni diverse, alle quali general-mente viene attribuito iI nome di razze; termine questo peraltro non sempre correttamente usato.

Fig. 4.20 Le caratteristiche facciali più significative delle 5 sottospecie umane: a) Caucasoide, b) Congoide, c) Mongoloide, d) Australoide, e) Capoide. (Da Bates, 1961, modificata).

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Capitolo quinto

L'EVOLUZIONE DELLA SPECIE (SPECIAZIONE)

1. Generalità.

Nel capitolo precedente abbiamo brevemente passato in ras-segna l'oggetto della nostra attenzione, le varie specie di Pri-mati attualmente viventi, e le abbiamo definite come entità relativamente stabili.

Ma a noi interessa cogliere l'aspetto dinamico di queste, cioè interessa vedere come queste varie specie di Primati possano essersi differenziate fra loro e possano essersi evolute da ante-nati comuni. Per questo è però necessario riprendere in consi-derazione il concetto di specie da un punto di vista dinamico, cioè vedere per mezzo di quali meccanismi si opera il differen-ziamento fra le specie.

2. Meccanismi che producono la separazione ira le specie.

La discontinuità fra le popolazioni che costituiscono le varie specie è raggiunta in vari modi e la conoscenza del modo di realizzarsi di queste discontinuità offre la spiegazione dell'ori-gine della specie.

Tra le barriere che separano le specie la sterilità interspe-cifica è quella più documentata. Esistono tuttavia delle buone specie che, pur vivendo nella medesima area, in natura non si accoppiano, mentre l'accoppiamento è possibile in cattività, for-nendo una prole sicuramente fertile per molte generazioni. Una tale barriera non sempre però è facilmente sperimentabile né è assoluta; molto spesso si hanno ibridi (per lo più sterili) oltre che fra specie diverse, anche fra generi e famiglie diverse.

Oltre alla barriera di sterilità, quindi, in natura devono esi-

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stere anche altri meccanismi che impediscono l'accoppiamento di individui di specie diverse.

Cercando di schematizzare, possiamo incominciare a dividere questi meccanismi d'isolamento in estrinseci e intrinseci.

Per meccanismi estrinseci si intendono tutti quelli che non dipendono direttamente dall'individuo o dalle popolazioni che costituiscono la specie, ma che si ripercuotono sugli individui o sulle popolazioni di una specie, determinando, col tempo, modi-ficazioni tali da permettere la separazione di due popolazioni fino al livello specifico. Il principale di questi meccanismi è l'isolamento geografico che, col passare del tempo, facilita l'in-staurarsi di meccanismi d'isolamento genetico.

Per meccanismi intrinseci s'intendono invece quelli che in qualche modo sono connessi con l'individuo e con la popola-zione. Questi si realizzano o impedendo agli individui di venire a contatto durante i periodi di attività sessuale, o creando bar-riere di tipo fisiologico e anatomico, per cui, pur venendo a contatto, gli individui delle due popolazioni non si accoppiano.

Un esempio tipico del primo modo di isolamento è quello che si realizza fra le varie specie di Cercopiteci le quali, pur vivendo nella medesima area e sui medesimi alberi, difficilmente si incontrano perché vivono ad altezze diverse anche sul mede-simo albero (differenza di habitat). Ma basta l'instaurarsi di differenze stagionali nell'attività sessuale fra popolazioni diverse, anche della medesima specie, o l'originarsi di diverse forme di comportamento (corteggiamento del maschio, reazione specifica del-la femmina) o l'esistenza di un peculiare dimorfismo sessuale per originare meccanismi d'isolamento anche fra individui conviventi nella medesima area. Stimoli visivi, auditivi, olfattivi e gusta-tivi sono altrettanti meccanismi che agiscono nel determinare o mantenere l'isolamento. Un altro meccanismo di isolamento può essere quello dovuto all'impossibilità di copula per profonde differenze dell'apparato genitale.

Ma anche se l'incrocio avviene, superando certe barriere eco-logiche ed etologiche, esso può rivelarsi infruttuoso per altre cause, che impediscono lo sviluppo dell'embrione o la forma-zione di progenie vitale. Può darsi infatti che lo sperma provo-chi una reazione di tipo antigenico nell'apparato genitale fem-minile e quindi sia immobilizzato e distrutto o comunque non sia capacitato. Oppure lo sperma, raggiunto l'uovo, non riesce a penetrarvi; oppure penetra, ma non riesce a produrre una

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fecondazione effettiva; oppure feconda l'uovo, ma lo zigote si sviluppa malamente e l'embrione abortisce.

Anche quando tutte queste barriere vengono superate e un ibrido vitale raggiunge la maturità, molto spesso esso si dimo-stra sterile. Se pure esso risulta fertile, o perlomeno parzial-mente fecondo, difficilmente il suo genotipo riesce a mantenersi in natura per qualche generazione.

Ciascuno di questi tipi d'isolamento è indipendente dagli altri; pertanto, se uno non funziona, entra in azione il succes-sivo e l'isolamento complessivo fra due specie è generalmente determinato da meccanismi diversi.

3. Vie della speciazione; principali tipi di speciazione.

Quelli che abbiamo descritto sono i meccanismi mediante i quali due popolazioni appartenenti a specie diverse si manten-gono isolate; tuttavia implicitamente abbiamo già accennato ad alcuni dei meccanismi attraverso i quali le popolazioni e le specie tendono a diversificarsi. Prendiamo ora in considerazione i modi di speciazione che maggiormente possono aver interessato il dif-ferenziamento delle diverse specie di Primati e l'origine della nostra.

Quando nel complesso genetico di una specie appaiono muta-zioni con valore selettivo positivo, per successiva e continua selezione esse possono affermarsi in una popolazione della specie e rappresentare la base di partenza per una nuova specie (trasfor-mazione autogena), qualora entrino ín funzione meccanismi d'iso-lamento.

Altre volte una variazione nel numero o nella morfologia dei cromosomi può affermarsi in una popolazione. Essa può allora costituire l'origine di una incompatibilità alla meiosi e quindi co-stituire l'origine di una nuova specie (speciazione istantanea attra-verso meccanismi cariologici) (cfr. cap. 8, S 6).

La variazione di uno o più fattori ambientali (cambiamento di nicchia ecologica) può determinare in alcuni individui di una specie e nella loro discendenza differenze tali da diversificarli dagli altri individui della specie originaria. Differenziazioni di questo tipo possono condurre alla formazione di una nuova specie.

L'ambiente, sotto forma sia di ambiente fisico sia di am-biente biotico, può vantaggiosamente selezionare diversi geni. Si

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può avere cioè una speciazione dovuta a isolamento semigeo-grafico con pressione selettiva più forte del flusso dei geni. L'ana-lisi di un tale meccanismo di speciazione è piuttosto complessa e il metodo che si segue per stabilire la probabilità che un carattere sia adattativo consiste nella ricerca di correlazioni fra la distribuzione di un certo carattere e una qualche particolarità ambientale. Quando queste correlazioni esistono, sembra lecito concludere che le variazioni morfologiche e fisiologiche dipen-dono dall'effetto di peculiari condizioni ambientali. Esempi di correlazioni di questo tipo nell'Uomo sono: la forma del naso, o il colore della pelle e il clima, la talassemia e la malaria, ecc.

Ma il meccanismo che più di frequente ha portato alla forma-zione di nuove specie nell'ambito dei Primati, è quello che si attua mediante isolamento geografico di una colonia, seguito da acquisizione di caratteri differenziali.

La speciazione per isolamento geografico tuttavia si può at-tuare con modalità diverse. Innanzitutto si può avere la com-parsa di isolamento riproduttivo o di variazione delle esigenze ecologiche in popolazioni differenti della medesima specie distri-buita su una vasta area.

Altre volte le popolazioni, restando geograficamente distinte, continuano a differenziarsi e possono col tempo raggiungere il livello specifico ed è anche possibile che in un periodo successivo le due specie figlie, sviluppatesi dall'unica specie originaria, si sovrappongano geograficamente.

Altre volte ancora può avvenire che pochi individui inva-dano un'isola e differenziandosi diano luogo a una specie. Succes-sivamente può avvenire una seconda invasione e, se nel frat-tempo il primo gruppo di colonizzatori ha raggiunto iI livello specifico, si assiste alla convivenza del secondo gruppo col primo senza possibilità di mescolamenti.

La speciazione geografica è provata dall'esistenza in natura di popolazioni per le quali il sistematico non è in grado di deci-dere se siano ancora classificabili come sottospecie o già come specie, dall'esistenza delle cosiddette superspecie, cioè di gruppi di specie affini, caratteristiche di una determinata regione geo-grafica e dalla cosiddetta sovrapposizione circolare. Essa si ha quando più sottospecie risultano distribuite geograficamente in catena e sono collegate da passaggi graduali. Le popolazioni terminali, pur essendo simpatriche, si dimostrano riproduttiva-

mente isolate, anche se collegate da una catena completa di popo-lazioni intermedie incrociantisi l'una con l'altra.

Come si vede, la speciazione geografica è una delle più impor-tanti e delle più attive manifestazioni nell'evoluzione delle entità tassonomiche e quindi dello sviluppo delle linee filetiche, ed è anche, come abbiamo detto, quella che più ha interessato l'evo-luzione dei Primati.

4. Definizione dinamica del concetto dí specie.

Da quanto prima detto è facile concludere che la specie non consiste in una entità tassonomica statica. Per le sue stesse caratteristiche di realtà biologica, essa deve essere definita essen-zialmente in senso dinamico. Una tendenza di questo tipo è par-ticolarmente evidente nella definizione di specie proposta da Dobzhansky:

La specie è quello stadio del processo evolutivo in cui un gruppo di individui completamente o parzialmente interfecondi si scinde in due o più gruppi distinti, fisiologicamente incapaci di riprodursi « inter se ».

Con una tale definizione viene riconfermato il criterio biolo-gico di definizione della specie, ma viene introdotto anche quello evolutivo.

Nei prossimi capitoli vedremo come questa visione evolu-tiva del concetto di specie possa essere applicata alle diverse specie di Primati.

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Capitolo sesto

LA COMPARAZIONE NELLA COMPOSIZIONE CHIMICA DI SINGOLE MOLECOLE E LE DISTANZE IMMUNOLOGICHE

1. Generalità.

Nei capitoli precedenti abbiamo descritto i meccanismi che conducono alla differenziazione degli individui e quindi delle specie. Cercheremo ora di prendere in esame alcuni esempi di differenziazioni verificatesi fra le varie specie di Primati. Le affronteremo a livello della composizione qualitativa e quanti-tativa di singole molecole, a livello delle differenze di vari geni, a livello dei prodotti d'interazione di più geni, e infine a livello delle differenze realizzatesi nell'organizzazione delle strutture portatrici dei caratteri ereditari: i cromosomi.

In questo capitolo ci occuperemo in primo luogo delle diffe-renze realizzatesi nella composizione chimica (qualitativa e quan-titativa) di singole molecole proteiche. Compareremo poi le varie molecole omologhe fra loro nelle diverse specie di Primati al fine di trarre da questa comparazione delle informazioni filo-genetiche.

I recenti sviluppi sperimentali e teorici della chimica delle proteine e della genetica hanno permesso di stabilire che la strut-tura specifica delle proteine naturali è soggetta a un rigoroso controllo genetico. Ciascuna proteina ha la sua configurazione superficiale costituita da vari centri attivi responsabili della sua attività funzionale (ormonale, enzimatica o anticorpale). È pre-sumibile che ciascuno di essi sia determinato geneticamente e sia specifico per ogni individuo e per ogni specie o gruppo di specie. In altri termini possiamo affermare che le informazioni geniche espresse in una singola proteina riflettono la storia evo-lutiva di un organismo. Per semplicità e per maggiore disponi-bilità di dettagli ci occuperemo all'inizio quasi esclusivamente dell'emoglobina, premettendo alcuni brevi cenni sulle principali caratteristiche strutturali di una proteina.

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2. Struttura dimensionale e caratteristiche principali di una proteina.

Le proteine sono sostanze organiche a peso molecolare molto alto, in genere non inferiore a 15.000, derivanti dalla conden-sazione di diversi amminoacidi per eliminazione di una molecola d'acqua fra il gruppo carbossilico — COOH di un amminoacido e il gruppo amminico — NI-12 del successivo. Le proteine sono semplici, se constano solamente di una successione di amminoacidi o coniugate se risultano dall'unione di una proteina semplice con un gruppo non proteico.

In ogni proteina si riconoscono diversi livelli di struttura, che vengono detti primario, secondario, terziario, quaternario.

La struttura primaria di una proteina è data dalla successione degli amminoacidi o unità fondamentali. La struttura secondaria è data dall'organizzazione spaziale della catena dei singoli ammi-noacidi e dei loro legami nel formare anelli a struttura piana, come nel caso di due cistine legate da un ponte S-S (per perdita di H). La struttura terziaria è data dall'organizzazione spaziale di una catena di amminoacidi. La struttura quaternaria è la strut-tura in toto di una proteina.

Avendo caratteristiche anfolitiche, come un qualsiasi colloide, una proteina può essere separata da altre o da altri componenti dei liquidi biologici mediante tecniche elettroforetiche. Poiché le unità fondamentali di una proteina sono gli amminoacidi, e il numero degli amminoacidi che entrano normalmente a far parte di una catena proteica non supera i 20, attraverso la differente successione di essi, si può avere un numero praticamente illimi-tato di proteine. Se si paragonano gli amminoacidi alle lettere del-l'alfabeto, i polipeptidi alle parole e le molecole ai periodi, come con le ventuno lettere dell'alfabeto si può esprimere una enorme quantità di concetti così con gli amminoacidi può formarsi un numero praticamente illimitato di proteine.

Ciascun amminoacido è caratterizzato da una particolare reat-tività con determinate sostanze o da un diverso peso molecolare.

Un buon metodo per distinguere i vari amminoacidi in una miscela è quello della cromatografia bidimensionale. Nello studio della struttura delle proteine è però necessario conoscere l'ordine secondo il quale gli amminoacidi sono uniti fra loro a formare la molecola.

Per indagare la successione secondo la quale gli amminoacidi

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sono disposti nella catena polipeptidica della molecola proteica si marca l'amminoacido terminale, per esempio facendo reagire il suo gruppo amminico con 2,4-dinitrofluorobenzene (FDNP). Si forma così un composto colorato in giallo, nel quale il legame creatosi è più resistente all'idrolisi di quello peptidico.

Se la proteina così trattata viene sottoposta a una idrolisi parziale, si formano derivati dimitrofenolici dell'amminoacido ter-minale e dei polipeptidi di due, tre, quattro... amminoacidi. In un secondo tempo si separano e s'identificano gli amminoacidi che li costituivano; ad esempio:

DNP—fenilalanina DNP — fenilalanina + valina DNP — fenilalanina + valina + ac. aspartico DNP — fenilalanina +valina + ac. aspartico + ac. glutammico. Ciò significa che alla fenilalanina (amminoacido terminale) è

legata la valina, a questa l'acido aspartico, a questo l'acido glu-tammico, e così via; e cioè la sequenza degli amminoacidi nella catena polipeptidica è precisamente la seguente:

fenilalanina—valina—ac. aspartico—ac. glutammico. Per quanto riguarda la struttura spaziale, ossia la forma, della

molecola proteica, molti dati importanti vengono forniti dall'esa-me roentgenografico.

3. Emoglobina.

L'emoglobina è il pigmento respiratorio dei Vertebrati e costi-tuisce la quasi totalità delle proteine solubili degli eritrociti (circa 95%). Le emoglobine appartengono alla classe delle pro-teine coniugate e consistono di una parte propriamente proteica (globina), legata a un gruppo prostetico che è una porfirina. e costituisce circa il 4% in peso della molecola (eme). Le porfi-rine sono composti ciclici a largo anello, costituiti da 4 nuclei pirrolici tra loro uniti da gruppi —CH., che hanno la pro-prietà di formare complessi con il ferro e altri metalli. Quando i nuclei pirrolici si legano con il ferro, esso va a occupare il centro dell'anello, legandosi agli atomi di azoto dei gruppi pirro-lici; il gruppo eme così formato è il responsabile della colora-zione rossa dell'emoglobina. Sia gli ioni Fe' sia gli ioni Fe+++ sono in grado di legarsi con la porfirina per dare il gruppo eme che può esistere quindi sia in forma ossidata (ferriemo) che

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Fig. 6.1 Rappresentazione schematica della molecola della emoglobina uma- na. Si noti la disposizione simmetrica a coppie di catene polipeptiche a e a. 02, ossigeno; HS—, legame solfidrilico). (Secondo Perutz).

ridotta (ferroemo). Di queste due forme, solo quella ridotta è in grado di combinarsi reversibilmente con l'ossigeno molecolare.

Il gruppo eme ha molta importanza da un punto di vista fisiologico, ma, essendo evolutivamente molto stabile, non si presta a studi di carattere genetico: non presenta infatti varia-zioni nell'ambito dei Primati:Ai nostri fini quindi poco interessa.

Poiché il contenuto in ferro dell'emoglobina dell'Uomo adulto è di circa 0,338%, ammettendo che ogni molecola di emoglobina possegga un solo atomo di ferro, si può calcolare per essa una massa molecolare di circa 17.000. Misure di velocità di sedi-mentazione e dí pressione osmotica però dimostrano una massa molecolare dell'ordine di 68.000, che corrisponde a un conte-nuto di 4 atomi di ferro, cioè 4 ferroemi uniti ad altrettante catene globiniche (fig. 6.1). Fa eccezione a questo l'emoglobina della Lampreda, un Cordato primitivo, che ha un peso moleco-lare di circa 17.000 e per questo somiglia molto alla mioglobina dei Vertebrati superiori. Nel paragrafo 6 di questo capitolo vedremo l'importanza di questo dato.

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4. Principali tipi d'emoglobina nell'Uomo e loro sequenze in amminoacidi.

Nell'Uomo si conoscono diversi tipi di emoglobine; esse tuttavia rispondono sempre a un unico modello base, comune a tutti i Vertebrati superiori: cioè l'unione di 4 subunità costi-tuite ciascuna da una catena polipeptidica unita al gruppo pro-stetico eme (fig. 6.1). Esse differiscono nella sequenza degli ammi-noacidi nella catena globinica.

Le 4 subunità proteiche della globina di un Uomo adulto normale presentano tutte il medesimo amminoacido terminale, la valina. La determinazione del penultimo amminoacido tuttavia per-mette di distinguerle in due varietà: una, indicata come catena P , termina con la successione ... — leucina — istidina — valina; l'al-tra, indicata come catena a, termina invece con la sequenza ...—leu-cina—valina (fig. 6.2>.

L'emoglobina del feto è anche caratterizzata da 4 subunità, ma esse differiscono da quelle dell'adulto: due di esse terminano infatti con l'amminoacido valina, mentre le altre due terminano con l'amminoacido glicina. Quelle che terminano con glicina sono caratterizzate da sequenze terminali del tipo Gly — His — Phe,

Fig. 6.2 La disposizione della sequenza degli amminoacidi nelle catene a e 13 delle emoglobine, asn sta per Asp-NH2). Sono indicati solo gli am-minoacidi delle prime porzioni della catena e quelli pii importanti della rimanente sequenza.

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3 e sono indicate come catena y; quelle che terminano con la valina presentano delle sequenze terminali del tipo Leu Vai e sono molto simili, se non identiche, alle catene dell'adulto.

L'emoglobina fetale al momento della nascita è presente nel sangue del neonato nella proporzione del 60-70% e viene total-mente sostituita verso il sesto o settimo mese di vita con quella di tipo adulto. In condizioni normali, quindi, la catena 't è destinata a scomparire. Nell'adulto infatti permane solo in indi-vidui affetti da una condizione patologica ereditaria: la talas-sernia. La catena Y differisce, oltre che chimicamente, anche fisiologicamente dalle due precedenti: l'emoglobina fetale (y) ha infatti una maggiore affinità per l'ossigeno rispetto all'emoglo-bina di adulto (p) ed è quindi meno efficiente per il trasporto dell'ossigeno a livello dei tessuti, ma più capace di attrarre ossi-geno attraverso la placenta.

Altra variante dell'emoglobina umana è la cosiddetta emo-globina A2. Questo tipo di emoglobina è distinguibile dalla normale solo mediante tecniche elettroforetiche molto sensibili. t formata da due catene a e da due catene che differiscono dalle altre precedentemente descritte e che vengono dette catene b. Tutte le varianti normali delle emoglobine umane contengono pertanto due catene a. Altre varianti emoglobiniche, che si riscontrano però solo in condizioni patologiche (leucemia), sono: l'emoglobina H, formata da 4 catene p, e l'emoglobina " Barts ", che consta di 4 catene Y.

Oltre a queste, numerose varianti non sempre patologiche sono state descritte per la catena a e f3 caratterizzate dalla sosti-tuzione o dalla perdita di singoli amminoacidi.

Si può quindi concludere che i tre geni che codificano la sintesi delle catene polipeptidiche a, p, e y delle globine umane sono suscettibili di variare con discreta frequenza.

Le catene et, p e Y umane differiscono poi fra loro per numero e per la sequenza degli amminoacidi.

La catena a è costituita da 141 amminoacidi, le catene f3 e Y

da 146. Tuttavia, considerando la successione degli amminoacidi delle catene a e P (fig. 6.3) si nota che, nonostante la diversa lunghezza delle due catene, la sequenza degli amminoacidi pre-senta notevoli somiglianze reciproche. Le due catene contengono infatti 60 amminoacidi identici nelle medesime posizioni relative. La comparazione delle catene ri e y (fig. 6.4) mette in evidenza una omologia ancor più forte. A parte l'identità del numero degli

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Fig. 6.3 Sequenza degli amminoacidi delle catene polipeptiche a e p del-l'emoglobina umana normale di adulto. (Da Ingram, 1963).

amminoacidi, ben 111 di essi sono identici e nelle medesime posizioni relative.

Le omologie fra le catene 1 e s sono ancor più forti; le due catene differiscono solo per 4 amminoacidi.

Questo fa pensare che in origine le due catene a e t fossero identiche e che solo in un secondo tempo si- siano diversificate

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Fig. 6.5 Comparazione dei fingerprints dell'emoglobina di diversi Primati_ (Da Zuckerkandl et al., 1960).

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per delezione e mutazione del DNA informatore. A suffragio di questa ipotesi si osserva che la catena ot differisce dalla t più di quanto la P differisca dalla Y Sembra quindi che, avendo la catena a subito maggiore differenziazione, sia la più antica.

5. Le emoglobine dei Primati.

In questi ultimi anni molte ricerche sono state compiute per individuare le tappe del processo evolutivo che ha condotto alla formazione dei geni che presiedono alla sintesi delle catene polipeptidiche delle emoglobine umane normali. Risultati molto interessanti si sono avuti dallo studio sistematico delle sequenze degli amminoacidi nelle catene polipeptidiche dell'emoglobina delle diverse specie di Primati.

Le omologie strutturali ci aiutano infatti a stabilire quali sono le tappe evolutive dei geni dell'emoglobina e a indivi-duare le regioni della catena globinica potenzialmente più varia-bili rispetto a quelle strutturalmente più stabili.

Nella figura 6.5 sono presentati i fingerprínts elettroforetici bidimensionali delle tre Antropomorfe, ín comparazione con la mappa dell'Hb umana e di Macaca.

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Fig. 6.4 Sequenza degli amminoacidi delle catene polipeptiche dell'emo-globina umana 13 (adulto) e y (fetale). (Da Ingram, 1963).

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I peptidi triptici di Gorilla gorilla e Pan troglodytes non occupano nei fingerprints posizioni molto diverse da quelle dei peptidi umani. Nel caso del Gorilla esistono differenze, comun- que, non nettissime a livello dei peptidi 12 e 24. Nello Scim-panzé si ha una diversità lievemente più spiccata per i peptidi 12 e 24; si rileva inoltre nella regione 15-16 del materiale non presente nelle mappe umane; questa regione presenta almeno 4 peptidi differenti.

Le differenze con il fingerprint umano aumentano di numero nel caso dell'Orango (Pongo pygmaeus): oltre ai peptidi 12 e 24 e alla regione 15-16, si nota una mobilità invertita per i peptidi 20 (anodica in Pongo e catodica in Homo) .e 10 (il contrario). Differenze ancora più spiccate si rilevano nel caso di Macaca mulatta il cui fingerprint differisce da quello umano per i peptidi 12, 10, 6, 7 e per la regione 2-3-4 nonché per la comparsa di un peptide aberrante vicino al 12.

Le differenze nella composizione in amminoacidi di catene ana-loghe tra le Proscimmie e l'Uomo sono più grandi che non tra le Scimmie e l'Uomo, e queste differenze si fanno sempre minori comparando specie a noi più prossime. La differenza più evidente è la presenza in entrambe le catene a e p dell'emoglobina dei Lemuri di residui di isoleucina, che sono invece assenti nel-l'Uomo. L'Hylobaies lar possiede un'emoglobina che sembra diffe-rire soltanto per dettagli strutturali da quella umana.

Le emoglobine di Macaca mulatta, Cercopithecus mitis, Papio doguera (Simiae Catarrhinae), Saimiri sciurea e Cacajao rubi- cundus (Simiae Platyrrhinae), sono tuttavia ancora abbastanza si-mili a quella umana, sebbene ne differiscano per un maggior numero di particolari strutturali.

Ancora più differenti dal termine di paragone umano sono le emoglobine di Gatago crassicaudatus, Perodicticus potto e Pro-pithecus verreauxi (Prosimiae), ma non così tanto come quelle di Lemur o, ancora di più, di Tu paia glis.

Dall'esame dei peptidi della catena a e della catena fi risulta poi evidente l'esistenza di una maggiore variazione nella catena p rispetto alla catena a, in tutti i Primati; risulta pure che le catene p di ciascun animale differiscono dalla catena f3 umana in misura maggiore che non le catene a.

Il numero delle differenze rilevabili fra l'emoglobina dei Pri-mati e quella umana, può essere assunta come direttamente pro-porzionale alla distanza filogenetica tra le- specie considerate.

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Quanto più le specie sono vicine nella scala evolutiva, tanto mi-nori sono le differenze a livello della composizione delle catene polipeptidiche della globina.

L'uso delle sequenze degli amminoacidi per studiare Ia filo-genesi dei Primati è ovviamente di grande importanza. Recente-mente si sono fatti enormi progressi in questo campo, tuttavia tale tecnica richiede una conoscenza sia della chimica delle pro-teine che della sistematica biologica. Sfortunatamente, pochi ri-cercatori sono competenti in entrambi i campi per cui nella uti-lizzazione di questi dati si sono avuti degli equivoci. Poche sequenze sono state finora esaminate, ma quelle che sono state interpretate hanno mostrato che la maggior parte delle sostitu-zioni non hanno valore selettivo per cui il loro accumulo dipen-derebbe dal tempo. Questo significa che l'intervallo di tempo trascorso dalla differenziazione di due specie dal comune antenato, dovrebbe essere proporzionale al numero delle differenze nelle sequenze delle proteine analoghe riscontrate in queste specie.

Pertanto è la localizzazione delle mutazioni che deve essere utilizzata per studiare la filogenesi, non il numero degli ammino-acidi sostituiti che può e non può essere in relazione al tempo di divergenza.

Cinque posizioni (12, 16, 24, 129, 131), per esempio, legano il Propithecus al Lemur, La sostituzione della metionina alla leucina nella posizione 76 è l'unico legame delle Proscimmie con i Primati superiori, mentre la sostituzione della istidina alla leu-cina nella posizione 113 collega tutte le Proscimmie, Tupaia inclusa. La posizione 113 lega anche le Proscimmie con gli Insettivori.

Comparando la sequenza degli amminoacidi della catena P dei Primati si nota immediatamente che le Proscimmie e le Scim-mie derivano da due linee distinte anche se sono state prese in esame solo poche specie. Le Proscimmie infatti mostrano uno schema completamente differente nelle sostituzioni degli ammino-acidi rispetto alle Scimmie del Vecchio e- Nuovo Mondo.

. Di un certo interesse sono le sostituzioni in alcune posizioni: la glutammina nella posizione 87 è l'ovvio precursore delle ca-tene di tutti i Primati e la sostituzione della glutammina da parte della treonina nelle Antropomorfe e nell'Uomo è recente e sem-bra metterli in relazione. La glutammina della posizione 125 sembra collegare le Scimmie del Vecchio e del Nuovo Mondo. Le analogie della posizione 5 (prolina) e 56 (glicina) legano le

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Scimmie del Vecchio Mondo, le Antropomorfe e l'Uomo e li distinguono dalle Scimmie del Nuovo Mondo e dalle Proscimmie. La posizione 56 può inoltre indicare una relazione fra Scimmie del Nuovo Mondo e Lemuri.

Quando si esamina più attentamente la sequenza degli ammi-noacidi dei peptidi della catena p dei Primati più primitivi, si è colpiti dalla somiglianza fra questa e la sequenza nella catena Y del feto umano. I primi 90 amminoacidi della catena f dell'Uomo con-tengono complessivamente 20 amminoacidi differenti da quelli della catena Y. La maggior parte delle differenze nella composi-zione degli amminoacidi delle catene i3 dei Primati finora studiati possono essere riferite alle 20 posizioni per le quali le catene p e y umane sono differenti.

Sulla base di queste osservazioni, si può concludere che durante la filogenesi le catene polipeptidiche delle emoglobine dei Primati hanno presentato una variazione nel grado di sta-bilità. La catena a si è mantenuta più stabile della catena p nel corso della filogenesi e le catene p dei Primati meno evoluti con-tengono amminoacidi che sono presenti nella catena Y dell'Uomo.

Nonostante l'apparente instabilità della catena p nel corso dell'evoluzione, è evidente che certe sequenze di queste catene non presentano grandi variazioni: questo si può dimostrare dalla successione degli amminoacidi nei residui dalla 30' alla 40a posi-zione che è la stessa in tutte le catene dei Primati: Leu-Leu-Val-Val-Tyr-Pro-Tyr-Thr-Glu-Arg NH2. La stabilità di questa sequenza nella catene fl fa pensare che essa deve essere molto importante per il funzionamento della molecola, e quindi le mutazioni che possono essere avvenute in questa porzione della catena non si sono fissate perché dannose o letali.

6. L'evoluzione dell'emoglobina.

L'evoluzione si attua, come abbiamo visto, per mezzo della selezione naturale operante su _mutazioni spontanee. Questo as-serto richiede innanzitutto l'esistenza di un meccanismo che assi-curi la costanza dell'informazione genetica, e in secondo luogo il verificarsi di mutazioni spontanee su cui la selezione possa agire. Alla prima condizione provvede l'informazione genetica scritta sotto forma di triplette (basi puriniche e pirimidiniche) nel DNA informatore, che codifica la successione degli ammino-

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acidi in una molecola proteica. Alla seconda provvedono una varietà di fattori fisici e biologici diversi. La selezione avrà presa in vario modo sulle diverse mutazioni, eliminando quelle svan-taggiose e letali e acquisendo quelle vantaggiose. Ogni molecola è in uno stato di optimum che risulta dall'interazione tra l'am-biente e la plasticità intrinseca della molecola.

Ogni variazione non è fine a se stessa, in quanto condiziona l'esistenza di ulteriori differenziazioni a vari livelli dell'organismo. Se, ad esempio, in una determinata molecola proteica al posto della fenilalanina si ha la tirosína, si ottiene un peptide nuovo che richiede, come qualsiasi altro peptide, degli enzimi specifici, tanto per la sua sintesi quanto per la sua distruzione. Se la costi-tuzione del peptide è nuova per l'organismo, questi enzimi possono mancare, determinando così un effetto letale o dannoso e impe-dendo così alla mutazione di affermarsi.

La sostituzione di un amminoacido non coinvolge soltanto la struttura primaria, ma può influenzare anche le strutture secon-daria e terziaria di una proteina, e talvolta può produrre altera-zioni anche nell'organizzazione spaziale (struttura quaternaria) di essa.

Lo studio della filogenesi delle proteine si effettua comparando proteine omologhe, cioè equivalenti funzionalmente, isolate da organismi situati a diversi livelli in una medesima serie filetica e possibilmente vicini tra loro.

Per l'identificazione di una proteina è stato usato quasi sem-pre il criterio funzionale (nel caso delle emoglobine, per esem-pio, la capacità di legarsi reversibilmente con l'02 molecolare) e solo in un secondo tempo si è arrivati a stabilire le omologie strutturali. Ciò non significa tuttavia che sia da escludere l'esi-stenza di proteine strutturalmente omologhe, ma dotate di diversa funzione.

Le tre varianti dell'emoglobina che si trovano nel sangue umano normale, 1'HbA di adulto, l'HbF fetale e l'HbA2 di Kunkel, rappresentano differenti associazioni di 4 diverse catene polipeptidiche (a, p, y, h ), le cui strutture sono determinate gene-ticamente. Infatti si pensa che esistano 4 foci responsabili della diversa sequenza degli amminoacidi delle 4 catene.

Ricerche su genealogie indicano che i geni strutturali che determinano la struttura primaria delle catene p e Y segregano indipendentemente.

Confrontando la struttura primaria dei polipeptidi delle emo-

97

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• 600 %o

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240 "- c,"

44

globine dei Vertebrati appare chiaramente che esse sono fra di loro strutturalmente simili. Su questa base è stato possibile supporre che un gene primitivo si sia duplicato e mentre una delle coppie conservava la funzione primitiva e indispensabile, l'altra era libera di mutare e di assumere un ruolo nuovo e com-plementare a quello del gene primitivo.

Non solo quindi le varie catene globiniche dell'emoglobina adulta e fetale (a, P, Y, é) sono codificate da geni prodottisi per reduplicazione e differenziazione successive, ma è anche vero che tutti questi geni all'origine derivano da un gene antico che codi-ficava anche una proteina coniugata con un gruppo porfirinico, la mioglobina. Da questo protogene mioglobinico si sarebbe du-plicato un gene la cui proteina anziché avere funzione di mante-nere una riserva di ossigeno nel muscolo, avrebbe assunto la funzione di veicolare l'ossigeno nel sangue.

La successiva duplicazione e variazione del gene della emo-globina primitiva ha condotto alla formazione di dimeri del tipo 4, più efficienti del monomero (la probabile situazione dei Ciclo-stomi) e poi di tetrameri del tipo a2P2 i quali presentano il van-taggio di legare le successive molecole di ossigeno con velocità crescente. Questo si presume sia avvenuto verso la metà del Paleozoico quando comparvero i primi Pesci.

Altre ripetizioni come la y si sono verificate nel gene dell'emo-globina nel corso del Mesozoico quando si originarono i primi Mammiferi. Esse hanno assunto una grande importanza in rela-zione alla gestazione interna, durante la quale il feto respira solo a condizione di sottrarre ossigeno all'emoglobina materna.

Questa nuova catena globinica Y, gemella della p, unita alla formano il tetramero «2/2 dell'emoglobina fetale (fig. 6.6).

A questo punto ci si chiede quante mutazioni sono occorse per giungere al gene a umano attuale, partendo dal suo antenato primitivo. Ma è forse più ragionevole chiederci quanti atti muta-tivi, come minimo, siano intercorsi fra le attuali catene a e li

umane. Dei 141 amminoacidi della catena «, 85 sono diversi nella sequenza rispetto alla 13. Questo indica che devono essere intervenute almeno 85 mutazioni.

In genere si crede che l'evoluzione dei Vertebrati sia iniziata 5 >< 108 anni fa.

Assumendo che il tempo medio di generazione per i Verte-brati sia di 5 anni, ne consegue che sono necessarie 10' generazioni per l'evoluzione dell'emoglobina dei Vertebrati. In genere si

98

forma ancestrale

megIobina catena <1, catena,t catena 13 catena

globina I 4- 83 —› i 4— 36 1 ■•• • 6 —4 1

Numero di sostituzioni

l 78 amminoacidiche intercorse

Fig. 6.6 Schema della evoluzione delle catene globiniche dell'emoglobina nei Vertebrati mediante duplicazione genica seguita da traslocazione (secondo la ipotesi di Ingram). Da un protogene per la mioglobina sono derivati per duplicazione e successiva specializzazione i geni per la catena globinica a e un gene gemello che si è moltiplicato generando 4 geni per altrettante catene. La moltiplicazione delle catene globiniche ha consentito la comparsa di tetrameri fisiologicamente specializzati. A de-stra il tempo in milioni di anni; sotto il numero di sostituzioni ammi-noacidiche intercorse.

assume che la frequenza di mutazione per generazione sia 10-5 o 10', il che conduce a calcolare da 100 a 1.000 mutazioni nella storia evolutiva dell'emoglobina dei Vertebrati.

Sulla base di questi dati è anche possibile ipotizzare le epoche cronologiche della comparsa dei diversi geni che hanno condotto alla differenziazione delle diverse catene globiniche. Con questo procedimento, Zuckerkandl e Pauling hanno stabilito nel 1968 che il precursore comune delle catene a e / debba essere com-parso intorno ai 600 milioni di anni fa, quello del precursore di y e fi intorno ai 260 milioni di anni, molto più di recente (44 milioni di anni fa). invece sarebbe comparso il precursore comune delle catene p e 8. Dato che l'evoluzione dei Mammiferi, Primati inclusi, si è svolta durante gli ultimi 160 milioni di anni, analizzando le emoglobine dei Primati ci si può aspettare di fare luce solo su quelli che possono essere stati gli ultimi stadi del-l'evoluzione delle varie emoglobine.

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Fig. 6.7 Albero filogenetico dei Vertebrati basato sulle sequenze della catena a dell'emoglobina. In ordinate il tempo in milioni di anni; le cifre rappresentano il numero di sostituzioni amminoacidiche. (Da M. Goodman et al., in « Journal of Molecular Evolution », III, 1, 1974).

7. La comparazione fra specie proteiche omologhe.

Lo studio comparativo delle proteine sieriche può fornire informazioni utili per stabilire relazioni filogenetiche nell'ambito di un determinato gruppo di organismi. Qualche volta è possibile anche ricavare informazioni sulla velocità evolutiva delle diverse parti dei complessi genici di questi organismi, cioè si può dedurre se certe proteine (e i corrispondenti geni) si sono evolute con maggiore velocità di altre.

Inoltre, poiché molte proteine o complessi di proteine risul-tano formati dall'azione combinata di più geni, lo studio di esse,

100

al fine di una ricostruzione evolutiva della specie, risulta più in-formativo dello studio delle frequenze di singoli geni.

Dal sangue, dopo aver separato gli elementi figurati (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) si ottiene 41 liquido plasmatico, che ha colore citrino. Il plasma è costituito per il 91-92% di H20 e per l'8-9% dí altre sostanze, che per oltre 1'85% sono rappresentate da protidi, il rimanente da lipidi, glicidi, steroidi e composti inorganici. Dal plasma si separa per coagulazione il siero, che differisce dal plasma solo perché manca di fibrinogeno. I protidi del sangue vengono dunque distinti in due gruppi, l'uno comprendente il fibrinogeno e l'altro sieroprotidi veri e propri (sieroalbumine e sieroglobuline) che alla coagulazione non perdono la loro solubilità originaria.

Il fibrinogeno costituisce circa il 4% dei protidi totali del plasma. Le rimanenti proteine sieriche (81%) nella nostra specie sono rappresentate da sieroalbumine (64-70%), sieroglobuline al (3-4,5%), sieroglobuline 0.2 (6-9%), sieroglobuline P (8-12%), sieroglobuline Y (9-13% ).

Vi sono varie tecniche e metodiche per mettere in evidenza le varie frazioni proteiche del siero. Una delle più efficienti e più generalmente utilizzate è la elettroforesi. In un campo elettro-foretico, infatti, tutti i protidi del plasma migrano al catodo o all'anodo con diversa velocità. Una striscia di carta con una goccia di siero immessa in un campo elettroforetico per un certo tempo, se colorata e trattata con reagenti opportuni, dimostra la presenza di numerose bande (fig. 6.8).

Le bande sono dovute, nell'ordine, alle albumine, alle a-glo-buline, alle P-globuline, al fibrinogeno e alle Y-globuli ne . In un siffatto diagramma elettroforetico tuttavia le bande ben evidenti non sono più di 6; molte di più sono le specie proteiche effetti-vamente presenti nel plasma. Le frazioni delle a e P-globuline sono in realtà comprensive di gruppi di protidi che posseggono una pressoché identica mobilità elettroforetica. Una migliore separa-zione elettroforetica può essere ottenuta usando il gel d'agar mediante il quale si possono evidenziare fino a una ventina di componenti.

Le albumine presentano mobilità anodica ( ) e sono prece-dute da una componente più veloce indicata come prealbumina, tutte le altre componenti migrano invece verso il catodo ( —).

In realtà, per avere separazioni ben evidenti per le diverse specie proteiche, è necessario usare condizioni sperimentali (pH

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Prealbumine

Albumine

Gc

Aptoglobine

Transferrine

y- globuline

Postalbumine

$-globuline

a-globuline

-globuline

f3-lipoproteine Punto dí applicazione

e F

Fig. 6.8 Mobilità elettroforetica relativa delle proteine costituenti il siero umano normale. Le variazioni delle condizioni di elettroforesi permet-tono di ottenere risoluzioni migliori per i diversi componenti. Le con-dizioni operative comunemente usate sono: voltaggio da 7 a 20 volts/cm; temperatura da 5 a 25° C; tempo da 10 a 24 ore; pH da 8 a 9; concen-trazione salina inferiore a 0,5 M. Al fine di ottenere risultati riprodu-cibili, le medesime condizioni operative devono essere rigorosamente mantenute per ogni campione di siero e per ogni elettroforesi.

del tampone, densità del gel, temperatura, intensità elettrica, ecc.) di volta in volta differenti; pertanto quando si vuole studiare una singola componente non si possono studiare contemporanea-mente anche le altre. Alcune delle specie molecolari presenti nel siero presentano poi variazioni individuali di natura ereditaria e costituiscono quindi casi particolarmente interessanti di poli-morfismo.

Esaminiamo ora sommariamente le diverse specie molecolari presenti nel siero dell'Uomo comparativamente con quelle dei Primati non umani.

1. Albumine. L'albumina è l'unico protide semplice che si trova nel siero. La sua massa molecolare è bassa, circa 67.000. È responsabile del mantenimento della pressione oncotica del sangue (25-30 mm Hg); funge inoltre da riserva protidica del-l'organismo e da trasportatore delle sostanze insolubili in acqua,

102

le quali divengono prontamente solubili quando sono legate con l'albumina.

Solo di recente sono state descritte varianti ereditarie delle sieroalbumine nella nostra specie con una mobilità elettroforetica relativa più veloce. Per quanto riguarda gli altri Primati, un solo esempio è noto per Papio anubis nel quale una variante più lenta è stata individuata nel 30% dei 54 animali studiati.

2. Le proteine gruppo-specifiche (Gc). Queste proteine ap-paiono come una o due bande dopo le albumine nell'elettroforesi su gel di acrilamide. La loro funzione non è nota, ma sono molto usate in genetica umana poiché presentano varianti polimorfiche. Per mezzo di immunoelettroforesi è possibile distinguere tre fe-notipi Gc nell'Uomo. Un tipo di polimorfismo identico a quello umano è stato riscontrato nell'Orango, ma non nello Scimpanzé. Anche alcuni Babbuini sembrano poi essere polimorfici per que-sto gruppo di sieroproteine.

3. Lipoproteine. Le u-globuline sono dei lipoprotidi il cui gruppo prostetico costituisce circa il 75% della molecola. Sem-brano fungere da veicolo di trasporto dei composti insolubili in acqua, ed effettivamente la maggior parte del colesterolo del sangue è legato ai lipoprotidi.

Varianti ereditarie sono state descritte per le t-lipoproteine umane e anticorpi alle p-lipoproteine prodotti in Conigli hanno permesso di individuare un antigene Lp(a). Il medesimo tipo di polimorfismo umano con individui positivi e negativi all'antisiero anti-Lp(a) umano è stato riscontrato in diversi Scimpanzé, Oranghi e Macachi.

Un'altra variante ereditaria trovata nell'Uomo (Ld) non sem-bra invece essere presente nei Primati non umani.

4. Transferrine. La p-globulina più abbondante nel siero è il glicoprotide 131-transferrina (siderofillina); essa è capace di legare 1,25 mg di Fe+++ per mg (ossia 2 atomi di metallo per molecola) e in certe condizioni (carenza di ferro e gravidanza) la sua con-centrazione può aumentare notevolmente.

Il gruppo prostetico rappresenta circa il 5,5% dell'intera mo-lecola. Recenti ricerche hanno dimostrato che la frazione fieglo-bulinica del siero è costituita di tre componenti di diversa mobi-lità anodica, che sono state riconosciute come transferrine per mezzo dí tecniche autoradiografiche con l'impiego di 59FeC13 (fig. 6.9). I tre tipi di transferrina sono probabilmente forme allomere di una stessa catena protidica.

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AIbunllf'éì'

• . . c .Origine.: 01.-„1.10-2

Tratisterrine.

•— .;.rginé a 1x18 —i t.- 11-13,24— > i - 11-2

Fig. 6.9 Elettroforesi su gel d'amido (a sinistra) e autoradiografia me-diante 59FeC13 (a destra), mostranti le varianti transferriniche_ (Sec. J. C. Robinson e coli., da Schultze e Heremans, 1966).

I genotipi più comuni sono controllati da una serie di geni apparentemente allelici; studi su genealogie indicano che essi appartengono allo stesso focus.

Al momento, nell'Uomo sono note più di 20 varianti poli-morfiche delle transferrine, alcune delle quali molto rare; le loro capacità funzionali sono tuttavia pressoché uguali per quanto ri-guarda il trasporto di Fe"÷ e la loro attività di difesa contro le infezioni.

Il polimorfismo delle transferrine è stato riscontrato nel Go-rilla e negli Scimpanzé. In un gruppo di 111 Scimpanzé sono stati individuati 5 differenti tipi di transferrine che possono essere ricondotti ad altrettanti alleli.

Molte differenti transferrine sono state trovate in alcune specie di Macache. Perlomeno 10 in Macaca mulatta, 8 in Macaca irus, 2 in Macaca fascicularis. Minori variazioni sembrano invece presenti nei Babbuini.

In generale poi le transferrine delle Antropomorfe e delle Scimmie del Nuovo Mondo risultano avere nel loro insieme minore mobilità elettroforetica rispetto a quelle delle Scimmie del Vecchio Mondo.

5. Aptoglobine (Hp). Sono costituite di urgIobuline, con peso molecolare di circa 85.000, di cui il gruppo prostetico rappresenta circa il 23%. Le aptoglobine hanno la capacità di legare l'Hb

104

liberata per emolisi impedendo così che essa danneggi i tubuli renali.

Per mezzo dell'elettroforesi su gel d'amido, si riconoscono tre tipi principali di aptoglobine, la Hp 1-1, la Hp 2-1 e la Hp 2-2 (fig. 6.10). Negli omozigoti per il gene Hp' (Hp 1-1) si mette in evidenza una sola banda del componente che lega l'Hb. Il fenotipo degli omozigoti Hp2 (Hp 2-2) mostra un profilo elettroforetico caratteristico, costituito da una serie di bande a mobilità e con-centrazione decrescenti, che sono ovviamente dei polimeri di una medesima catena polipeptiolica. Il genotipo Hp 2-1, eterozigote, è costituito da una miscela di molecole eterogenee, di cui solo una piccola parte si comporta alla ultracentrifugazione esattamente come Hp 1-1, mentre le rimanenti specie molecolari formano una serie di polimeri, la cui mobilità, comunque, non è la stessa del-l'omozigote.

In realtà l'Hp è formata da due tipi differenti di subunità che sono state denominate catene u e F. Le catene p sono le medesime nei tre tipi di aptoglobina su descritti, mentre le a, sono diverse in Hp 1-1 e Hp 2-2, e in Hp 2-1.

Del gene Hp' tuttavia esistono due forme alleliche Hp'F e Hp's. Gli individui omozigoti per Hp'F hanno catene di mobilità nettamente più elevata che non gli omozigoti per Hp's, mentre gli eterozigoti Hp's/Hp'F posseggono entrambi i tipi di catena, nelle stesse proporzioni.

Complesso Hb/Hp Tipo

111 Hp (I-1)

e I Hp (2-0mod

)1 I Hp (2-I)

111E11 Hp (2-2)

Hb

Eccesso

Fig. 6.10 Varianti aptoglobiniche del siero umano normale (reazione pe- rossidasica alla benzidina effettuata sul complesso aptoglobina-emoglo- bina, dopo elettroforesi su gel d'amido). (Sec. J. M. Fine, da Jayle et al., 1962).

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I CHO i- -C) O- C H01

-40 O- Mi= regione variabile

regione costante

catena pesante Il prodotto genico aiF (la catena polipeptidica sintetizzata sotto

controllo del gene Hp1F) e l'uls hanno identico peso molecolare, i medesimi amminoacidi —N e — C terminali, ma differi- scono in un peptide, quello centrale, rispettivamente N, F, C e N, S, C. L'a' possiede entrambi F ed S e in più uno che non c'è negli al, il peptide J, che risulta composto da pezzi di N e C fusi assieme, pur essendo presenti anche questi due peptidi. Da questi dati è possibile dedurre che il gene Hp' si sia evoluto da una fusione dei primitivi geni Hp1F e Hp's. Una fusione di questo tipo può essere avvenuta in individui eterozigoti per Hp'F e Hp's per crossing-over non omologo, durante la meiosi. Se questo è vero, il gene Hp2 dev'essere il risultato di una mutazione piutto-sto recente. Infatti tutti i Mammiferi sinora esaminati, comprese le Scimmie Antropomorfe, mostrano di possedere solo aptoglobina di forma monomera, simile all'Hp 1-1 umana.

Anche le frequenze geniche dei diversi tipi di Hp hanno una precisa distribuzione geografica. Gli aneli Hp' infatti mostrano una frequenza crescente da est verso ovest, a partire dal Cashmir, dove la loro frequenza è minima.

Sulla base di questi risultati, alcuni autori hanno pensato che questa regione sia stata il centro di origine del gene Hp'. Lo schema di Smithies tuttavia fa ritenere più verosimile che in que-sta regione si sia avuta la prima fusione genica per dare l'Hp', ora in fase di espansione e di sopravanzamento del gene Hp'. Se-condo questa teoria, quindi, il polimorfismo presente nell'apto-globina della specie umana dovrebbe essere una fase instabile (transeunte), in cui cioè si ha il netto vantaggio di uno degli omozigoti, quello prodotto di recente.

Esistono però popolazioni in cui il polimorfismo delle Hp è perfettamente bilanciato, cioè il rapporto delle frequenze geniche non varia con il passare delle generazioni. In questi casi si deve ritenere che la condizione eterozigote sia in qualche modo favo-rita dall'ambiente, come nel caso dell'HbS nelle zone malariche; questo anche per il fatto che l'aptoglobina svolge un ruolo impor-tante nel catabolismo delle porfirine.

6. Y-Globuline. Le y-globuline sono co-protidi il cui gruppo prostetico non costituisce più del 3% dell'intera molecola. Hanno peso molecolare di circa 150.000. Da un punto di vista chimico-fisico sono indistinguibili dagli anticorpi del sangue.

È probabile che le y-globuline e gli anticorpi differiscano tra loro soltanto nella disposizione spaziale della catena peptidica.

106

catena leggera

Fig. 6.11 Modello della struttura di una molecola anticorpale umana ,G. Sono indicati i legami S-S inter-catena e intra-catena; CHO indica la posizione approssimativa del componente carboidrato nella catena pesante.

Difficile è tuttavia conciliare l'enorme numero di anticorpi che un individuo può produrre con i pochi geni predisposti, perlomeno nella linea germinale, alla sintesi delle -globuline. Si tratta cioè di sapere come un numero relativamente limitato di geni struttu-rali possa controllare la sintesi di più proteine. Il problema è ancora aperto. Secondo alcuni autori questa variabilità di pro-dotti potrebbe realizzarsi mediante meccanismi di duplicazione incompleta e crossing-over non omologo secondo gli schemi già visti per le aptoglobine.

Le immunoglobine sono tutte caratterizzate da uno schema di struttura comune, essendo costituite da due coppie di catene polipeptidiche, 2 leggere 22500) e 2 pesanti 53.000) (fig. 6.11). Ma mentre esistono solo due tipi di catene leggere, k e k, si conoscono perlomeno 9 differenti tipi di ca-tene pesanti. Dei 5 tipi di immunoglobine conosciuti, IgA, IgD, IgE, IgM e IgG, la più importante quantitativamente e qualita-tivamente è la IgG. L'immunoglobina IgG è importante per la sua azione immunizzante a livello delle mucose. L'immunoglobina filogeneticamente più antica è la IgM, mentre la più recente è la IgD, che sembra essere presente solo nell'Uomo.

Almeno due taci sono responsabili della sintesi di queste diffe-renti specie polipeptidiche: Gm e Inv, completamente indipen-denti l'uno dall'altro, e deputati rispettivamente al controllo e alla sintesi delle catene pesanti e della catena leggera.

107

Page 60: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

I dati sui Primati non umani per questo complesso genico sono ancora piuttosto scarsi e incoerenti. La catena pesante delle Scimmie tuttavia sembra essere sierologicamente molto diversa da quella umana. Gli Scimpanzé appaiono polimorfi per almeno 6 di questi fattori.

Almeno 6 fattori Gm sono stati individuati anche nel Gorilla. I dati ottenuti per l'Orango sono troppo discordanti per essere qui riferiti, anche se alcune similitudini sono state riscontrate con i fattori umani. Sembra pertanto evidente che le Scimmie Antropomorfe, specialmente lo Scimpanzé e il Gorilla, abbiano un gran numero di fattori Gm in comune con l'Uomo e certa-mente sono polimorfi per alcuni di essi.

I risultati ottenuti per le Scimmie del Vecchio Mondo e per quelle del Nuovo Mondo finora studiate appaiono difficili ad essere interpretati. In generale le Scimmie hanno una considere-vole minore specificità per il Gm umano che non le Antropo-morfe. I Babbuini poi sono risultati negativi per Gm con sei sieri agglutinanti, ma positivi per un settimo. Questo ha permesso di mettere in evidenza una eterogeneità nei reagenti che non era apparsa studiando il materiale umano, il che dimostra quanto le prove su specie diverse di Primati siano utili per la scoperta di caratteristiche peculiari nell'Uomo.

8. Elettroforesi bidimensionale del siero e la cromatografia di altri liquidi biologici.

La elettroforesi bidimensionale, che combina una prima sepa-razione su carta con una seconda su gel d'amido in direzione orto-gonale a questa, permette di risolvere un campione di siero di un Mammifero in 20-25 componenti (fig. 6.12).

Con questa tecnica è possibile quindi ottenere profili elettro-foretici che mostrano costantemente una zona di prealbumina, una larga frazione albuminica, un gruppo di 3-4 postalbumine, trans-ferrine e aptoglobine, la 92, e le .y-globuline, secondo lo schema della fig. 6.13.

La posizione delle singole frazioni nella piastra di gel d'amido è caratteristica della specie della quale si studia il siero. Varia-zioni individuali sono state notate solo per le frazioni a ricono-sciuto determinismo polimorfico come le transferrine e le apto-globine nell'Uomo.

108

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k ma

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7 13 a 2 a 1 Albumina

Fig. 6.12 Rappresentazione schematica di profili elettroforetici del siero umano per elettroforesi orizzontale, verticale e bidimensionale su gel d'amido. (Sec. Smithies, da Schultze e Herernans, 1966).

La comparazione dei diversi patterns può essere usata per sta-bilire distanze filogenetiche e similitudini tassonomiche. I quadri bidimensionali del siero di specie diverse appartenenti al mede-simo genere risultano infatti molto simili fra loro. Se invece com-pariamo i quadri elettroforetici di individui appartenenti a generi diversi, anche della medesima sottofamiglia, queste differenze risultano più marcate.

La comparazione con questo metodo dei sieri di diverse specie del genere Lemur ha mostrato che tre sottospecie del genere Lemur fulvus appaiono assolutamente identiche, pur essendo chia-ramente distinguibili dal Lemur variegatus e dal Lemur carta per alcune caratteristiche. Con la medesima tecnica è stato possibile inoltre dimostrare l'esistenza di patterns completamente diversi fra Lemur, Pro pithecus e Galago.

I quadri elettroforetici di specie diverse dei generi Macaca e Papio, pur non essendo identici fra loro, mostrano una generale somiglianza. Comparando poi i quadri elettroforetici di individtii appartenenti a generi differenti, anche della medesima sottofa-

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Fig. 6.13 Quadro elettroforetico bidimensionale, su gel d'amido, dei sieri dei Cercopithecoidea. ( Da Fuhrman Conti e Chiarelli, 1968). in alto a sinistra, rappresentazione schematica per l'individuazione di alcune fra-zioni (PrA, prealbumine; A, albumine; PoA, postalbumine; Tr, transfer-rine; Hp, aptoglobine; Son, %-globuline; 7, 7-globuline); e quadri elettro-foretici di diverse specie di Primati, del Vecchio Mondo.

110

miglia ( Hylobates e Symphalangus), si hanno quasi sempre quadri con differenze più marcate (fig. 6.13).

I generi Manica, Papio, Cercopitbecus, Theropithecus invece presentano quadri elettroforetici molto simili fra loro. La simili-tudine del quadro elettroforetico bidimensionale di questo gruppo di Primati proverebbe che in esso esiste un alto grado di corri-spondenza genotipica, il che suggerisce che questi generi abbiano avuto un antenato comune relativamente recente. Le maggiori differenze da un punto di vista qualitativo, in questo gruppo di Cercopithecinae, sono quelle della zona delle a-globuline, che, sia nella migrazione elettroforetica su carta sia in quella su gel d'amido, si trovano tra le transferrine e le albumine.

Presbytis entellus, unica specie studiata delle Colobinae, pre-senta un quadro elettroforetico non molto diverso da quello delle Cercopithecinae.

La comparazione del quadro elettroforetico bidimensionale deI siero delle Hylobatinae con quello delle Ponginae e delle Cerco-pitbecinae rivela caratteristiche proprie che permettono di distin-guere le Hylobatinae dalle altre. Ciò nonostante, Hylobates e Symphalangus, come già è stato rilevato, non sono molto simili fra loro, specialmente nella zona delle S-«2-globuline.

I quadri elettroforetici delle Antropomorfe vere (Gorilla, Scimpanzé e Orango) presentano tra loro differenze più marcate di quelle che si possono rilevare fra i generi delle Cercopithecinae prima menzionati. Anche se ciascuna Antropomorfa differisce marcatamente dalle altre, si può rilevare che il Gorilla e lo Scim-panzé presentano, nel quadro elettroforetico delle proteine sie-riche, un gruppo di almeno 10 frazioni, comuni anche all'Uomo, caratterizzate da una velocità di migrazione più elevata di quella delle frazioni presenti nell'Orango.

Queste differenze qualitative, riscontrate nei quadri elettro-foretici bidimensionali delle proteine sieriche dei Primati deI Vecchio Mondo, permettono di avanzare deduzioni sul grado di omogeneità genetica fra le varie specie. Non è invece possibile desumere da queste il grado di parentela filogenetica fra specie diverse. Infatti non abbiamo finora elementi certi per valutare le frequenze e la direzione delle mutazioni che sono intervenute nel differenziamento delle proteine sieriche di questo gruppo di Primati durante la loro evoluzione.

Questi dati tuttavia possono essere utilizzati, anche se con molta riserva, per quantitativizzare le distanze filogenetiche e

111

Page 62: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Pongo pygnneus

Pan troglodytes

Gorikla Hylobates gorilla lar

Sympha- langus

syndactilus

tassonomiche fra le varie specie di Primati. Infatti, se facciamo coincidere il pattern elettroforetico di una data specie con un piano cartesiano i cui assi siano paralleli alle direzioni di migra-zione su carta e su gel rispettivamente, possiamo misurare le coordinate del centro di ciascuna macchia. Questi dati quanti-tativi possono essere ordinati in matrici ed elaborati secondo metodiche opportune. Mediante queste tecniche di calcolo si pos-sono cosi descrivere le relazioni tassonomiche che intercorrono fra le varie specie di Primati, unicamente sulla base di dati quanti-tativi della carica elettrica delle proteine del siero. Alcuni dei risultati finora ottenuti sono in buon accordo con la sistematica tradizionale o sottolineano raggruppamenti ancor più naturali (fig. 6.14).

1,0 -

0.8 -

0,6 -

0,4

0,2 -

o -

Un altro metodo solo apparentemente simile alla elettroforesi bidimensionale è quello cromatografico. Questo metodo è di co-mune impiego nello studio dei liquidi biologici. Deve il nome al fatto che fu usato la prima volta per separare dei composti colo-rati (clorofilla a e b). Esso consta di un supporto, che funziona da fase fissa (carta), sulla quale migrano le diverse sostanze tra-sportate da solventi diversi, che fungono da fase mobile.

La migrazione avviene essenzialmente in ragione dell'affinità della base mobile per la fase fissa. La mobilità cromatografica di una certa sostanza viene definita, rispetta a un determinato sol-vente, come il rapporto fra la distanza percorsa dalla sostanza e la distanza percorsa da quel solvente e si indica con Rf.

L'individuazione delle macchie (spots) sul cromatogramma si effettua con opportune sostanze, atte a evidenziare selettivamente i vari amminoacidi. La ninidrina (idrato di trichetoidrindene), per esempio, dà con alcuni amminoacidi composti colorati ín violetto, con altri (prolina e ossiprolina) in giallo.

I primi soggetti di studio furono individui malati in cui gli amminoacidi escreti con le urine sono diversi da quelli degli indi-vidui normali. Comparando i patterns urinari di individui sani e malati si può risalire alle cause dell'anomalia. Si vede, per esem-pio, che la secrezione dell'acido f-amminoisobutirrico, che com-pare in alcuni soggetti soltanto, è sottoposta a controllo genetico e che la sua escrezione avviene solo in caso di omozigosi del gene recessivo.

Questi primi risultati hanno portato al fiorire di ricerche bio-chimiche-genetiche a livello degli amminoacidi urinari e delle tappe finali del loro metabolismo (.indoli e irnidazoli), tese prima a sta-bilire eventuali variazioni delle frequenze geniche all'interno della

TABELLA 6.1 Differenze di concentrazione di alcuni amminoacidi uri- nari negli Hominoidea. (Da Hawkes, 1968). 0,2 -

- 0,4 - Amminoacidi mg Amminoacieloj mg Creatinina

- 0,6 -

0,8 -

Fig. 6.14 Tentativo di costruzione di un albero filogenetico con le infor-mazioni derivate dalla elettroforesi bidimensionale.

112

Scimpanzé Gorilla Orango Gibbone Uomo

Ac. glutammico 0,12 0,51 0,25 0,06 0,01 Glícina 0,12 0,44 0,25 0,09 0,06 Taurina 0,14 0,42 0,25 0,59 0,05 Alanina 0,07 0,38 0,12 0,08 0,03 Treonina 0,17 0,17 0,14 0,03 0,03

113

Page 63: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Uomo

,... ,.. 0 a ,...

Scimpanzé

.,

.,:.: .

Hapale O

Ci

O o ;';(:) C' o O

13

Tupaia

CD

9 .., ..

Fig. 6.15 Cromatogrammi di amminoacidi urinari di vari Primati. (Da Hawkes, 1968).

specie umana (ad esempio il gene per l'acido P-amminoisobutirrico ha una frequenza decrescente da est a ovest a partire dalla Cina), e poi la eventuale somiglianza tra specie diverse (fig. 6.15).

Poiché le differenze in concentrazione fra i diversi amminoacidi non sono per nulla o molto poco dipendenti dalla dieta, si può in linea preliminare dire che vi sono notevolissime diversità tra i patterns delle Antropomorfe e quelli dell'Uomo. In ogni caso, per tutti gli amminoacidi considerati, le differenze quantitative, e ín qualche caso anche qualitative, sono molto più spiccate tra le Antropomorfe e l'Uomo che non tra le diverse specie di Antropo-morfe, come si può vedere nella tabella 6.1.

9. Le distanze immunologiche.

La metodica più efficiente per stabilire relazioni fra proteine sferiche di specie diverse è senza dubbio quella immunologica. Iniettando siero di sangue umano in un Coniglio, si formano, nel siero del Coniglio, sostanze capaci di far precipitare le albu-mine del siero umano (precipitine). Un siero cosi preparato si dice « anti-Uomo » ed è capace di far precipitare non solo le sieroproteine umane, ma anche quelle di altri animali. In maniera simile si possono ottenere sieri anti-Scimpanzé, anti-Macaca ecc.

Ogni siero così preparato dà precipitati d'intensità massima con il siero della specie contro cui è immunizzato (reazione amo-

114

toga), e precipitati d'intensità minore con i sieri del sangue di altre specie (reazione eterdoga). Il primo ad applicare questo tipo di reazioni immunologiche per le ricerche sistematiche sui Primati, quando ancora le conoscenze sulla struttura delle pro-teine era rudimentale, fu il Nuttall (1904). Egli riscontrò che il siero anti-Uomo dava un precipitato totale con il siero umano, mentre questo era inferiore con il siero di Scimpanzé e ancora minore con quello delle Scimmie e delle Proscimmie. Da allora altri ricercatori hanno operato con tecniche più raffinate. In par-ticolare, il Mollison (1912) ha constatato che un siero anti-Uomo dà precipitati di intensità progressivamente decrescenti con i sieri di Uomo, Scimpanzé, Gibbone, Orango, Cercopiteci, Cebi, Pro-scimmie e altri Mammiferi.

La reazione si esegue generalmente per miscela di quantità costanti di antisiero con quantità progressivamente crescenti di siero. Se la reazione si fa avvenire in un capillare graduato, di sezione nota, è facile calcolare la quantità di precipitato ottenuta. Le intensità delle reazioni eterologhe verranno date come percen-tuali della massima intensità della reazione omologa.

Secondo Mollison, la diversa intensità della precipitazione non sarebbe dovuta tanto a differenze quantitative, quanto a diffe-renze qualitative tra albumine « di parentela », cioè sarebbe tanto più intensa quanto più le due specie in esame posseggono eguali unità nella struttura albuminica, chiamate dall'autore « proteali ». Il siero immunizzato contro una specie farebbe precipitare tutte le albumine contenute nel sangue di quella specie, mentre nel siero di una specie diversa farebbe precipitare solamente le albu-mine (i proteali) che quella specie ha in comune con la specie che è servita per la preparazione dell'antisiero.

La diversa intensità di precipitazione significherebbe pertanto che, per le albumine del siero, l'Uomo ha la massima affinità con lo Scimpanzé e questa affinità poi decresce nella serie animale.

Che l'Uomo e le Antropomorfe posseggano proteali comuni ( meglio però usare il termine di « albumina »), e altri loro propri, come carattere strettamente specifico, è stato dimostrato cimen-tando i rispettivi sieri contro gli antisieri eterologhi, con le co-siddette reazioni reciproche.

t già stato detto che un siero X forma un precipitato di in-tensità massima con siero anti-X e di intensità decrescente con altri. Il siero umano forma con siero anti-Scimpanzé una quan-tità di precipitato pari al 63%; la reazione reciproca (siero

115

Page 64: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

TABELLA 6.111 Similitudine immunologica delle albumine delle varie specie di Primati con le albumine umane. (Da Hafleigh e Williams, 1966).

TABELLA 6.11 Intensità di precipitazione (in percentuale) fra sieri e antisieri di diverse specie di Primati e reazioni reciproche. (Da Mol-lison, 1933).

Ancisiero Siero

Homo Pan Pongo Macaca Papio Homo 100 85 71 64 65 Pan 63 100 85 74 72 Pongo 39 44 100 42 48 Macaca 45 46 34 100 83 Papio 40 42 34 61 100

Pan/siero anti-Homo) dà un precipitato dell'85%. Da questo risultato si ricava che l'Uomo ha circa 2/3 delle albumine in comune con Pan e 1/3 sue proprie, mentre Pan ha 6/7 delle al-bumine in comune con l'Uomo e solo 1/7 sue proprie.

La tabella 6.11 indica l'intensità di precipitazione (espressa in percentuale) tra sieri e antisieri di diversa specie e le reazioni reciproche.

Riportando in grafico i risultati della precedente tabella si ottiene il quadro riportato in figura 6.16. Per comprenderne il significato si osservi che l'altezza di ogni colonna corrisponde alla quantità di precipitato ottenuto nella reazione omologa (intensità 100%). Le linee trasversali nella parte .più bassa della colonna indicano le più grandi quantità di precipitato delle reazioni etero-loghe (espresse in percentuale dell'omologa) e la porzione supe-riore tratteggiata indica la porzione dí albumina specie-specifica, cioè formatasi dopo la separazione della specie in questione dal ceppo comune.

Mac Pon No

Po

Pan ,Mac

Mac Po Pop Pap Po

Homo Pan Pongo Macaco Papiro Fig. 6.16 Grafico riportante i dati della tabella 6.11: intensità di precipi-

tazione (in percentuale) tra sieri e antisieri di diversa specie.

116

Similitudine Taxa, Specie (in percentuale)

HOMINOIDEA Uomo 100 Scimpanzé 97 Gorilla 92 Gibbone 79

CERCOPITHECOIDEA Macaco 82 Babbuino 79 Cercocebo 79 Eritrocebo 76 Cercopiteco 79 Colobo 80

CEBOIDEA Aote 74 Atele 58 Saimiri 60 Lagotrice 61 Cebo 45 Saguino 54

PROSIMII Lemure 37 Propiteco 22 Patto 31 Galago 28 Tupaia 31

ALTRI MAMMIFERI Riccio 17 Maiale 8

Risultati pressoché analoghi sono stati ottenuti più di recente (1966). Nella tab. 6.111 sono sintetizzati alcuni dei risultati di Hafleigh e Williams sul grado di interazione del siero di vari Primati con antisiero alla sieroalbumina umana prodotta in Co-nigli. I risultati sono stati ottenuti misurando la quantità di pre-cipitato formato nella titolazione del siero con l'antisiero e vo-gliono rappresentare il grado di similitudine fra le albumine dei vari Primati non umani con le albumine umane. Le albumine dello Scimpanzé e del Gorilla risultano molto simili alle albumine

117

100 e

0—

Page 65: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

umane, mentre quelle del Gibbone lo sono meno e il valore di questa specie rientra nell'ambito della variabilità delle specie di Scimmie del Vecchio Mondo saggiate. Questo, come altre evi-denze che considereremo nei prossimi capitoli, tendono univoca-bilmente a differenziare i Gibboni dalle Antropomorfe. I valori per le Scimmie del Nuovo Mondo sono inferiori e ancora più bassi sono quelli per le Proscimmie.

La comparazione immunologica totale delle proteine sieriche può essere integrata con un riconoscimento antigenico delle di-verse frazioni proteiche. Questo metodo, che si avvale delle pro-prietà antigeniche delle proteine omologhe nei sieri delle diverse specie di Primati, può fornire una misura più chiara dei gradi relativi di corrispondenza anticorpale fra i vari Primati per ciascun tipo di proteina. Ciò è particolarmente evidente se l'analisi è condotta con molti antisieri su un particolare tipo di proteina.

Per esempio, se un animale abbastanza strettamente imparen-tato all'Uomo, come la Macaca, viene immunizzato con una pro-teina umana, solo una piccola porzione delle configurazioni super-ficiali (centri attivi della proteina) avranno azione antigenica e ten-deranno ad avere una configurazione strettamente specie-specifica. Invece, se è un animale filogeneticamente molto distante dal-l'Uomo a essere immunizzato con la medesima proteina, ad esem-pio un Pollo, tutte le configurazioni superficiali della proteina potranno avere potere antigenico e gli anticorpi di alcune di esse potranno anche reagire con le configurazioni antigeniche di altri Mammiferi al di fuori dei Primati.

Queste ricerche sono state sviluppate specialmente da Good-man. Egli ha prodotto antisieri di Pollo, di Scimmia e di Coniglio per varie proteine sieriche umane e le ha usate per provare la reattività di essi con sieri di molte specie di Primati, mediante tecniche particolari.

Gli esperimenti di immunodiffusione vengono condotti usando le piastre di Ouchterlony, che consistono in una disposizione trifogliare di tre pozzetti nei quali vengono seminate le separa-zioni antigeniche e di antisiero che diffondono in un campo d'agar centrale, Normalmente l'antisiero viene posto neI pozzetto infe-riore e le due preparazioni antigeniche nei 2 laterali (fig. 6.17).

Così se due proteine correlate vengono comparate con gli antisieri di una di esse (l'antigene omologo), la lunghezza dello sperone di questo antigene omologo contro l'altro (l'antigene eterologo) sarà tanto più lungo quanto più grande è la dissimili-

118

tudine fra le due proteine nella configurazione dei loro gruppi amminoacidi di superficie. Se due antigeni eterologhi vengono comparati con una proteina che ha una più stretta affinità con l'antigene omologo si produrrà uno sperone più lungo rispetto all'altro. Questi dati possono essere riportati in una tavola di distanze antigeniche quale quella della tab. 6.1V nella quale sono riportate solo le distanze antigeniche dell'Uomo e degli altri Primati finora studiati.

Dalla tabella si ricava chiaramente che esiste un incremento delle distanze antigeniche dall'Uomo agli altri Primati e agli altri Mammiferi.

Le Antropomorfe africane (Scimpanzé e Gorilla) sono più vicine all'Uomo seguite in successione dall'Orango, dai Gibboni, dalle Scimmie del Vecchio Mondo, da quelle del Nuovo Mondo, dai Tarsi, dai Lemuri e Lorisidi, dalle Tupaie e dagli altri Mam-miferi Euteri.

Si può quindi affermare che le Antropomorfe africane sono più simili all'Uomo che non l'Orango e che la separazione filetica è piuttosto antica. Inoltre i dati immunologici sul Gibbone e sul Sinfalango dimostrano l'esistenza di un'altissima affinità fra questi due generi.

Secondo una classificazione proposta da Goodman, sulla base dei dati immunologici, Homo Pan e Gorilla dovrebbero essere considerati come appartenenti alla sottofamiglia delle Homininae, mentre Pongo sarebbe l'unico genere della sottofamiglia Ponginae.

Le relazioni filogenetiche di altri gruppi di Primati sono state anche analizzate con tecniche immunochimiche. Paiska e Korinek,

Fig. 6.17 Metodo di interpretazione della reazione di immunodiffusione nella piastra di Ouchterlony. A) reazione di identità; B) reazione di parziale identità con formazione di uno spur monolaterale (l'antigene Y ha in comune con X solo la configurazione acd; gli anticorpi per b ed e non sono precipitati dalla molecola Y: essi continuano a diffondersi attraverso Pagar finché non incontrano le molecole X con le quali pre-cipitano a dare Io sperone indicato dalla freccia); C) reazione di parziale identità con formazione di speroni bilaterali.

119

Page 66: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

TABELLA 6.1V Distanze antigeniche X W ottenute usando antisieri di coniglio per alcuni generi di Primati. (Da Goodman

e Lasker, 1974, semplificata).

Taxa A

nd- H

ytob

ates

Ans

i - M

acac

a

o 0.

Ant

i-Ery

thro

cebu

s

And

- Pre

sbyt

is

Ant

i- Sa

imir

i

Ant

i-Nyc

ticeb

us

And

- Bl

epha

ntul

us

o 5

-i 5. <C <C <

o o z

.5 -o

o <

Homo — 6 8 21 42 35 33 36 59 61 94 104 111 99 113 120 141 129

Pan 10 — 8 25 39 36 44 39 86 112

Gorilla 8 4 — 22 36 36 86 111

Pongo 20 11 16 21 39 48 37 39 59 61 86

Hylobates 26 22 19 — 31 41 39 36 53 61 86 117

Symphaiangus 25 21 2 Macaca 36 34 28 35 — 1 2 21 56 65 92 108 111 117 166

Papio 42 37 26 2 — 0 20 86 108

Theropithecus 44 31 28 35 2 4 19 85

Cercocebus 36 29 29 35 6 1 0 18 86

Cercopithecus 40 25 26 30 9 5 0 15 86

Erythrocebus 38 29 28 35 1 4 — 18 86 110

Presbytis 40 32 29 29 10 19 18 — 62 65 84 118

Colobus 44 32 26 36 15 11 14 5

Ateles Lagothrix

Alouatta

76 66 73

71 71

52 54 61

75 72 72

37 33 29

22 23 12

104 104

Saimiri 76 76 67 65 64 60 57 65 — 26 99 107 112 91 Cebus 71 73 68 58 74 30 30 102 Chiropotes 67 71 63 56 35 62 33 29

Cacajao 64 74 66 67 69 38 26 109 Callicebus 72 67 57 68 38 16

Aotes 73 66 56 60 59 62 62 33 — 101 123 119 117 170 Saguinus 64 67 60 69 31 11 Tarsius 88 95 84 92 98 — 110 Galago 105 119 105 113 93 103 95 109 107 118 108 — 39 41 102 115 140 158

Nycticebus 104 122 102 113 106 104 98 113 120 115 34 — 27 129 175 Loris 100 119 107 114 116 111 97 109 109 118 114 45 19 — 102 Perodicticus 106 116 105 122 110 95 107 123 111 37 48 51 122 123 Arctocehus 124 40 45 Lemuroi dea 112 119 96 107 100 103 98 109 111 96 107 88 95 117 166

Urogale 122 — 16

Tupaia 126 127 117 110 108 104 106 118 123 109 115 123 125 42 149 144

Erinacidae 136 152 131 142 122 140 141 137 128 150 143 160

Page 67: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

usando sieri anti-Macaca ottenuti dal Coniglio, hanno dimostrato un maggior grado di corrispondenZa antigenica fra gli Hominoidea e i Cercopithecoidea che non fra i Cercopithecoidea e i Ceboidea.

Questi dati immunologici dimostrano la validità di una classi-ficazione tassonomica che comporti una più stretta relazione filo-genetica dei Ceboidea con i Cercopithecoidea che non con i Le-muriformi e i Lorisiformi, anche se la separazione dei Proto-horninoidea è probabilmente avvenuta a uno stadio molto antico dell'evoluzione dei Primati, nel Paleocene o nel primo Eocene.

Sono state fatte poi comparazioni con sieri anti-Potto e anti-Lemur. In ogni caso considerato, i Lorisidae (Galago., Loris, Pat-to) e i Lemuridae (Lemur) mostrano maggiore corrispondenza antigenica fra loro che non con i Tupaiidae e con forme di Scim-mie Catarrine. Questo suggerisce che la separazione filogenetica fra le Proscimmie Lorisiformi (Loris, Potto) e quelle malgasce (Lemur) è stata più recente della separazione filetica dell'antenato comune di questi due gruppi dagli antenati delle forme di Ca-tarrine. Questi dati dimostrerebbero inoltre che, nell'ambito delle Proscimmie, non vi sarebbe relazione filogenetica tra i Tupaioidea e i Lemuroidea.

Sarich e Wilson (1967) si sono serviti di una diversa proce-dura immunochimica. Questi ricercatori hanno utilizzato una sola frazione proteica del siero: le albumine. Essi affermano che tale molecola è relativamente stabile in tutte le specie e che le varia-zioni nella sequenza degli amminoacidi, esistente in specie diverse, è un indice delle distanze filogenetiche esistenti fra le specie stesse. Essi hanno misurato la omogeneità e calcolato l'indice di eterogeneità di questa frazione di siero in parecchie specie di Primati usando la tecnica della fissazione microcompIementare (MC'F) su siero antialbumina, ottenuto :immunizzando Conigli con albumine purificate di questi Primati. Sviluppando questa ricerca, Sarich e Wilson hanno potuto inoltre dimostrare che la differenziazione degli amminoacidi nelle molecole di albumina varia, nei diversi organismi, in misura costante nel tempo.

Sulla base di questo presupposto essi hanno cercato di quan-titativizzare le relazioni filogenetiche e in particolare i tempi di divergenza dei vari gruppi tassonomici, come è riportato schema-ticamente nella tab. 6.V.

L'aspetto più controverso di queste affermazioni sta nelle even-tuali conseguenze derivanti da una stretta relazione tra Uomo, Scimpanzé e Gorilla che fa pensare all'esistenza di un antenato

122

TABELLA 6.V Tempi di divergenza dei diversi gruppi di Primati sta-biliti con i metodi immunitari sull'albumina. (Secondo Sarich e Wilson, 1967).

Tempo (in milioni di anni)

Lemuriformi Lorisiformi / Scimmie Tarsiformi.

Platirrine / Catarrine Cercopithecoidea / Hominoidea Hylobatidae Hominoidea Pongo / altri Hominoidea Pan Gorilla Homo

comune alle tre specie in tempi relativemente recenti. Alcuni stu-diosi infatti, sulla base di altri dati sperimentali, ritengono che l'albumina non subisca cambiamenti secondo un andamento co-stante, ma le sue modificazioni possano essere condizionate da diversi fattori e pertanto non essere costanti nel tempo. Perciò, nonostante la indubbia somiglianza fra le albumine, non è certo che i vari gruppi di Primati abbiano mantenuto costante la velo-cità evolutiva delle loro albumine. Sarich e Wilson, tuttavia, affermano che queste critiche sono completamente infondate e non ci sono evidenze di un rallentamento nel processo evolutivo dei Primati.

10. La ibridazione in vitro del DNA.

Se quelli che abbiamo finora presentato sono metodi validi e interessanti per comparare i prodotti diretti di singoli geni, informazioni di gran lunga più interessanti si possono però avere comparando direttamente le sequenze delle basi puriniche e piri-midiniche (adenina, citosina, guanina, timina) che compongono il DNA nucleare delle diverse specie di Primati.

Questo tipo di comparazione è oggi possibile mediante tec-niche relativamente semplici. Esse si basano sulla possibilità di dissodare la doppia catena del DNA mediante la rottura dei

123

Divergenza fra

70 - 80 (presunto)

35 - 40 20 - 24 10- 12 9-11

4 - 5

Page 68: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

AAAA

ITTT

i

T

i T

AA

i I T T

A

C A A coppie di nucleotidi non complementari

TABELLA 6.VI Entità delle sostituzioni nucleotidiche sulla base del tempo.

tempo di diverg-nza tempo

in milioni totale di anni

Uomo / Scimpanzé 15 30 2,4 0,08 1.6 Uomo / Gibbone 30 60 5,3 0,09 1,8 Uomo / Cercopiteco 45 90 9,5 0,1 2 Uomo / Cebo 65 130 15,8 0,12 2,4 Uomo / Galago 80 160 42 0,26 5,2

ponti idrogeno fra le due catene complementari e la riassocia-zione di queste con singole catene provenienti da DNA di specie diverse. Questo DNA ibrido ci informerà sulla quantità di sequenze omologhe ed eterologhe presenti in una specie rispetto all'altra. Praticamente si procede alla denaturazione del DNA (separazione della doppia elica nei due filamenti) mediante ebol-lizione in soluzione salina e facendo ríassociare queste porzioni di catene di 400-500 nucleotidi con singoli filamenti di DNA di altre specie marcate con timiclina radioattiva.

Durante questa fase i filamenti tendono a riassociarsi in quantità variabili dipendenti dalla quantità di basi complemen-tari. Vi saranno pertanto dei filamenti perfettamente accoppiati, dei filamenti più o meno accoppiati e dei filamenti liberi. La separazione fra i filamenti accoppiati e quelli rimasti liberi si ottiene facendo passare la miscela attraverso una colonna di idrossiapatite. Questo cristallo ha la proprietà di assorbire le molecole di DNA doppie o comunque riassociate, ma non i sin-goli filamenti che possono essere così asportati col semplice lavaggio. Eluendo poi a temperature gradualmente incrementate, sui cristalli di idrossiapatite si dissocieranno le coppie di fila-menti a cominciare da quelli a minor numero di basi comple-mentari. Le frazioni eluite vengono determinate di volta ín volta quantitativamente utilizzando la loro radioattività, mediante un contatore a scintillazione. La stabilità termica del DNA riasso-ciato infine può essere confrontata con quella naturale che pos-siede accoppiamenti perfetti fra le basi complementari (fig. 6.18).

Questo procedimento è stato applicato da Kohne (1972) su diverse specie di Primati in relazione al DNA umano con risul-

124

tati molto interessanti. Secondo questi dati la percentuale di nucleotidi diversi rispetto all'Uomo sarebbe del 2,4% per lo Scimpanzé, del 5,3% per il Gibbone, del 9,5% per il Cerco-piteco, del 15,8% per il Cebo e di circa il 42% per il Galago. Questi dati dimostrerebbero una diversificazione che si incre-menta con la distanza biologica fra le specie, in generale accordo quindi con la sistematica.

Ma essi possono anche essere utilizzati per la costruzione di un albero filogenetico basato direttamente sul numero delle mu-tazioni intercorse durante la differenziazione delle due specie, anche se in questo caso si devono tener presenti due importanti limitazioni. In primo luogo, una grande quantità dei DNA pre-sente nel nucleo delle diverse specie è di tipo ripetitivo, cioè presenta un gran numero di basi ripetute ed è forse costante fra le varie specie. In secondo luogo, mentre per il calcolo delle mutazioni fra specie affini le sostituzioni dei nucleotidi sono quelle avvenute durante l'evoluzione delle specie, per quelle più lontane i valori sono inferiori al reale, a causa delle sostituzioni multiple avvenute nello stesso punto e che non è possibile scoprire.

Prescindendo da queste limitazioni, tuttavia, il calcolo per un albero filogenetico è piuttosto semplice.

L'entità della divergenza fra l'Uomo e lo Scimpanzé è data dalla somma dei cambiamenti avvenuti nella linea che ha con-dotto all'Uomo e da quella che ha condotto allo Scimpanzé dopo la divergenza dall'antenato comune. La percentuale del DNA non riassociato, quindi, ci informa sul numero delle mutazioni intercorse nelle due linee evolutive dopo la loro divergenza dall'antenato comune.

Sequenza del DNA dalla specie X—) A A

I Sequenze di DNA compiementa —> T T re dalla specie Z

Fig. 6.18 Le sequenze delle basi delle specie X e Z sono messe a con-fronto nella formazione di un ibrido a doppio filamento di DNA, ma i singoli filamenti non hanno basi perfettamente complementari quando si riassociano per formare una molecola ibrida. (Da Kohne, 1972).

125

Divergenza ira

percentuali sosrituzioni

nucleotidiche

percentuali reutaziooi

per milioni dí anni

coppie nucleotidiche

murare ogni anno

Page 69: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

I dati paleontologici ci permettono, grosso modo, di stabi-lire queste date di divergenza. Sulla base di queste possiamo quindi avere informazioni sul numero di mutazioni avvenute. Infatti, stabilito che il numero delle coppie nucleotidiche di DNA non ripetitivo in una cellula aploide è 2 x109, moltiplicando questo numero per le percentuali di sostituzioni di basi dopo la divergenza di due specie, si ottiene il numero delle coppie nucleotidiche mutate. Questo valore diviso per il numero degli anni occorsi dalla divergenza a oggi, cí dà il numero di sostitu-zioni di basi nucleotidiche avvenute ogni anno. Per esempio:

2 X109 X 24

0,048 X 109 100

48 X 106 = 1,6

30 X 106

I risultati di questi calcoli sono presentati nella tabella 6.VI. Da questi dati risulta che il numero di mutazioni non è in

diretta relazione con il tempo di separazione fra le specie e che la velocità di evoluzione decresce col tempo. È quindi probabile che altri fattori interferiscano. Uno di questi potrebbe essere la lunghezza del tempo di generazione, dove per tempo di generazione si intende il periodo di gestazione più la durata della vita fino alla maturità sessuale. Tutto questo sembra con-cordare con i dati noti per altri gruppi di specie di Mammiferi e con i dati ottenuti dagli studi sugli amminoacidi.

Capitolo settimo

I CARATTERI EREDITARI E LA DIFFERENZIAZIONE DELLE SPECIE

DEI PRIMATI

1. Genetica comparata in Primati.

Oltre alla comparazione a livello molecolare della composi-zione chimica dí singole proteine possiamo cercare di individuare similitudini o differenze a livello del risultato dell'estrinseca-zione dei singoli geni e delle loro frequenze, nell'ambito delle diverse specie.

Lo studio comparativo di singoli caratteri ereditari nelle varie specie di Primati, appare interessante non solo perché con-sente di ricostruire gli schemi evolutivi seguiti in natura nella comparsa e nell'affermazione dei singoli caratteri ereditari, ma anche perché offre la possibilità di individuare caratteri ereditari analoghi in animali certamente più simili all'Uomo che non la Drosophila o il Topo: animali su cui può appuntarsi l'attenzione del genetista umano, per meglio conoscere il comportamento di quelli della nostra specie. In molti casi è probabile che le diffe-renze fra specie rappresentino un'estensione delle variazioni intra-specifiche. In un certo senso, il genetista umano potrà meglio conoscere come i caratteri ereditari varino nell'ambito della nostra specie quando saprà come essi variano fra le specie a noi più direttamente imparentate.

Questo non vuole assolutamente dire che la presenza di un medesimo gene in due differenti specie indichi una comune ori-gine filogenetica. Parte del complesso genico può mantenersi pressoché intatto in due specie da molto tempo distinte, mentre altre specie strettamente imparentate, o addirittura due popo-lazioni di una medesima specie, possono divergere per la perdita o per l'estesa modificazione di uno o più geni.

La genetica comparata dei Primati è una disciplina recente e i dati disponibili sono scarsi. È prematuro pensare di poter

127

Page 70: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

trovare gruppi di associazione, e ancor più di fare mappe gene-tiche per le diverse specie di Primati, quando per l'Uomo solo in questi ultimi anni se ne incominciano a intravedere le possi-bilità. Tuttavia i dati sono promettenti. Esemplificheremo con alcuni dei caratteri meglio e più estesamente conosciuti.

2. La sensibilità alla P.T.C. (phenyl-thio-carbammide) nell'Uomo e negli altri Primati.

Alcuni individui (non-tasters) non riescono a sentire il gusto della phenyl-thio-carbammide (P.T.C.), un composto sintetico che fra le caratteristiche organolettiche ha appunto la qualità di essere per altri individui (tasters) amaro come il chinino.

La sensibilità a questa sostanza è una caratteristica stretta-mente ereditaria, probabilmente di tipo mendeliano semplice. Il gene per la sensibilità (T) è dominante su quello per la non sensibilità (t). La soglia di sensibilità degli eterozigoti (Tt) è però talvolta superiore a quella degli omozigoti (TT). La fre-quenza dei fenotipi dominanti nell'umanità è di circa 1'80%. Le differenze nelle frequenze dei genotipi fra le varie popola-zioni sono tuttavia notevoli (fig. 7.1). L'ereditarietà alla sensi-bilità a questa sostanza è stata dimostrata anche presso altri Pri-mati. È stato anche dimostrato che l'Uomo e lo Scimpanzé hanno una soglia di sensibilità pressoché simile. I dati popolazionistici raccolti a livello dei singoli generi hanno rilevato frequenze dei fenotipi tasters diverse per i diversi generi.

Benché i dati non siano da considerarsi ancora definitivi, si possono già fare alcune osservazioni. In genere i Cercopitecidi presentano una frequenza genica per i dominanti (tasters) com-presa tra il 70 e l'80% pressoché simile a quella dell'umanità in generale, mentre per le Scimmie Platirrine vi è profonda dif-ferenza fra i diversi generi. Nei generi Ateles e Lagothrix si ha un'elevata frequenza dei non-tasters, mentre l'opposto avviene nei generi Callíthrix e Leontocebus; la frequenza dei tasters nel genere Cebus è estremamente bassa, mentre è molto alta per il genere Saimiri. Queste differenze corrispondono ad altrettante differenze sistematiche.

Una situazione particolare si ha invece per le Antropomorfe e i Gibboni. Nei Gibboni la frequenza di tasters è del 50%. L'Orango presenta una frequenza che è estremamente bassa

128

Page 71: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

(5%); mentre lo Scimpanzé e il Gorilla hanno una frequenza di tasters pressoché simile a quella nota per l'Uomo e per i Cer-copithecidae (fig. 7.2).

Questi dati, e in special modo quelli delle Platirrine e del-l'Orango, indicano la possibilità che siano intervenuti meccani-smi di drift genetico o di selezione per condurre a queste con-dizioni di « tutto o niente ». La composizione chimica della P.T.C. sostiene questa interpretazione. Anche se altre sostanze chimicamente simili danno la medesima reazione bimodale di

Genero No. 50 / 100% Prosimiae Lemur

Goiago 16 8

— ''''' ilaimp■mi ~Mi

—T Ceboidea

Saimiri Cebus Ateles Lagothrix

14 36 13 15

Callithricidea Calli thrix Leontideus

1 0 8

: i _

Cercopithe-coidea

Macaco Papio Theropithecus Cereocebus Cereopithecus Erythrocebus Colobus

99 106 12 35 137

12

~l

~ I 91 wi ] iii~m~i~vm

3 e

minammi l 13

11111~

Hominoidea

Hylobates Pongo Pan Gorilla Homo

29 39 81 18

...

~~, '

1 °lo non-taster

~IR % t aste r Errore standard =13:13 Variabilità nelle razze umane

Fig. 7.2 Rappresentazione grafica delle percentuali di tasters e non-tasters per ciascun genere di Primati.

130

sensibilità, la P.T.C. è quella che dà i risultati più chiari. La parte della formula che risulta essenziale a tutte queste sostanze per essere sentite amare è:

NH— Cs H5

C=S

NH2

Tutti i derivati in cui l'ossigeno sostituisce lo zolfo sono inattivi. Il fatto che certe tiouree, specialmente il tiouracile, siano

usate nelle terapie per diminuire l'attività tiroidea, fa ritenere che il polimorfismo per il gene della sensibilità possa essere in qualche modo connesso con le funzioni della ghiandola tiroide il cui anomalo funzionamento condurrebbe alla selezione di uno degli allei.

Il fatto che sostanze chimiche simili alla P.T.C. si trovino normalmente in alcuni vegetali (Brassicaceae) e che la presenza di un tale polimorfismo si riscontri anche presso gli altri Pri-mati, fa presumere che esso sia stato trasmesso da lungo tempo nell'evoluzione e si sia mantenuto mediante un meccanismo ete-rotico di possibile origine alimentare connesso con il funziona-mento della ghiandola tiroide. L'alterata attività di essa avrebbe condotto alla selezione di uno o dell'altro allele, o avrebbe man-tenuto entrambi in equilibrio, qualora la selezione non ne avesse eliminato uno.

3. I gruppi sanguigni nell'Uomo e negli altri Primati: il sistema ABO, il sistema MN e il sistema Rh.

Le sostanze che determinano i gruppi sanguigni umani sono mucoproteine o mucopolisaccarídi, cioè grosse molecole proteiche legate a molecole di zuccheri. Queste sostanze, che si trovano nel sangue, vengono dette anche antigeni. Un antigene può essere definito come una grossa molecola proteica che causa la produ-zione di un anticorpo o che reagisce con un anticorpo già pre-sente nel siero. Gli anticorpi sono proteine di grosse dimensioni che fanno parte della frazione y-globulinica del siero. Un or-ganismo generalmente risponde alla presenza di una sostanza

131

Page 72: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

estranea producendo un anticorpo contro di essa. Gli anticorpi che a noi interessano sono quelli che agglutinano i globuli rossi i quali portano gruppi antigenici specifici sulla loro superficie. Quasi tutti gli antigeni gruppo-specifici del sangue sono presenti al momento della nascita, come pure sono presenti fin dalla nascita nel sangue circolante gli anticorpi contro alcuni di essi. Essi cioè sono predeterminati ereditariamente in ciascun indi-viduo; non sono caratteristici delle sole cellule circolanti nel sangue, ma sono presenti in tutti i tessuti dell'organismo.

Nel 1900 Landsteiner, mescolando i globuli rossi con il siero di individui diversi, mise in evidenza che i globuli rossi di alcuni individui venivano agglutinati dal siero di altri. Poté così discri-minare i vari tipi di individui che ora noi attribuiamo a gruppi A, B, O e AB. inutile dire quanto questa scoperta sia stata importante per la medicina. Milioni di individui hanno potuto sopravvivere a gravi ferite o a importanti interventi chirurgici grazie alle trasfusioni di sangue (fig. 7.3). Ma questa scoperta ha avuto grande importanza anche per la genetica e per l'antro-pologia.

L'ereditarietà di questi caratteri è assoluta ed essi seguono tanto bene le leggi di Mendel da poter essere usati come tests di paternità. La corrispondenza fra i fenotipi A, B, 0, AB e i loro genotipi, è presentata nella tabella 7.1.

Altri sistemi di gruppi sanguigni sono stati individuati iniet-tando in animali, come il Coniglio e la Macaca mulatta, globuli rossi di Uomo. Questi animali sintetizzano anticorpi specifici, così come noi ci immunizziamo contro la poliomielite quando ci vacciniamo. L'antisiero prodotto dal plasma dí animali immu-nizzati, quando è cimentato con globuli rossi di vari individui

TABELLA 7.1 Relazioni e corrispondenza fra i fenotipi A, 13, 0, e AB e i loro ,genotipi.

Gruppo sanguigno Patrimonio genetico Antigeni nei globuli (fenotipo) (genotipo) rossi

ii nessuno Anti-A e Anti-B

A IAIA o IAi A Anti-B

B IBIB o IBi B Anti-A

AB IAIB A e B nessuno

132

- - 4 yr

e t

AB Fig. 7.3 Schema della compatibilità (linee intere) e incompatibilità (linee

a tratti) del sangue fra individui di gruppi sanguigni diversi.

umani, può permettere di distinguere gli individui che conten-gono un determinato antigene da quelli che non lo contengono. I globuli rossi che contengono l'antigene vengono agglutinati, mentre quelli che non lo contengono non vengono agglutinati dall'antisiero contenente l'anticorpo specifico.

Un altro modo, mediante il quale possono essere individuati i gruppi sanguigni, è quello di cimentare il siero di individui che hanno subito ripetute trasfusioni di sangue. Questi individui sono normalmente immunizzati contro gli antigeni contenuti nei globuli rossi del donatore o dei donatori. Se cimentiamo i glo-buli rossi del donatore con il siero del ricettore, molto spesso si osserva la presenza di antigeni specifici contro i globuli del donatore che agglutinano il suo sangue.

Un'altra situazione che permette dí scoprire nuovi sistemi di gruppi sanguigni è la presenza nei neonati di disordini emolitici. Gli anticorpi infatti non solo agglutinano i globuli rossi, ma in certi casi essi possono anche romperli (emolisi). Nei neonati si ha infatti il cosiddetto ittero emolitico quando gli anticorpi, eventualmente presenti nel siero della madre, riescono a passare nel circolo sanguigno fetale attraverso la placenta e aggredi-scono i globuli rossi del feto, distruggendoli. In molti casi questa emolisi è causata da un anticorpo normalmente circolante nella madre, come l'anti-A o l'anri-B. In altri casi esso può essere sin-

133

Anticorpi nel siero

A4-

Page 73: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

1..C° PC1 •11- ZZ c..e)

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o

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E 3/1

tetizzato dai tessuti produttori di anticorpi della madre stessa, dietro stimolazione degli antigeni presenti sugli eritrociti del feto che eventualmente possono essere passati nel sistema circolatorio materno attraverso la placenta.

Mediante queste tecniche o questi accorgimenti sono stati individuati numerosi sistemi di gruppi sanguigni nell'Uomo. Nella tab. 7.11 ne sono elencati í principali.

Passiamo ora in rassegna le conoscenze che per alcuni di questi sistemi sí hanno comparativamente per l'Uomo e per í Primati non umani.

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a) Il sistema ABO.

La frequenza di fenotipi ABO varia nelle diverse popolazioni. Questo fatto ha spinto gli antropologi a cercare una maniera di utilizzarlo per classificare le varie popolazioni umane. In una cinquantina d'anni sono stati raccolti dati abbondantissimi su questo sistema e praticamente tutte le popolazioni umane sono state studiate, anche se non tutte in dettaglio.

La variazione nella distribuzione geografica della frequenza di un dato gene può essere rappresentata unendo con una linea i punti con uguali frequenze geniche (linee « isogeniche ») (fig. 7.4). Un altro modo per rappresentare le variazioni géografiche per questo carattere è quello di indicare ciascuna popolazione con un punto in un sistema di coordinate triangolari sui cui lati sono riportate le frequenze per ognuno dei tre geni TA., TB, Io.

Calcolare quali siano le frequenze geniche medie per i gruppi sanguigni ABO in tutta l'umanità può sembrare discutibile, tut-tavia questa stima può essere utile per vedere come le varie popolazioni si scostino dalla media ed eventualmente per com-parare le frequenze umane con quelle di Primati non umani.

Secondo í calcoli più attendibili le frequenze per il gene IA sono del 21,5%, quelle per il gene In 16,2%, quelle per il gene Io 62,3%.

Nelle Antropomorfe e nei Gibboni sono riconoscibili antigeni di tipo molto simile, se non uguale, agli antigeni ABO umani. Esistono tuttavia delle differenze, di qualità e di distribuzione, nei vari gruppi che compongono il sistema ABO umano nelle singole specie (tab. 7.111). Non è stata dimostrata la presenza di gruppi B o AB nello Scimpanzé, né gruppi O nel Gorilla e nell'Orango,

135

Lu

(a+b

—),

Lu

(a—

b+)

Page 74: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

II II 0- 5 5-10 15 -20 20-25 10 -15

che presentano invece B e AB oltre che A. I Gibboni (140 ani-mali studiati) hanno gruppi sanguigni ABO come l'Uomo e anti-geni pressoché identici a quelli umani sono stati riscontrati sui loro globuli rossi.

Esistono anche differenze nella localizzazione dell'antigene sull'eritrocita, rispetto alla localizzazione della specie umana: nel Gorilla infatti l'antigene è portato non sulla superficie del-l'eritrocita (come accade normalmente nell'Uomo), ma all'interno di esso, per cui si hanno forme cosiddette « B deboli ». Tutte le Antropomorfe saggiate finora secernono sostanze AB e H nella loro saliva, ad eccezione del solo Orango. Solo gli Oranghi pertanto sembrano mostrare il polimorfismo secretore/non secretore pre-sente nell'Uomo.

Antigeni di tipo A e B umano, anche se un po' diversi da quelli delle Antropomorfe, sono stati individuati nei secreti e negli organi delle Scimmie del Vecchio Mondo, mai però sugli

Fig. 7.4 Carta di distribuzione delle frequenze del gene TB in Europa. Sí nota una tendenza al decremento da est a ovest. Ciò potrebbe essere il risultato delle frequenti invasioni di genti provenienti dall'Est, le quali sono caratterizzate da un'alta frequenza di questo gene. (Da Sinnott et al., 1950).

136

TABELLA 7.111 Frequenza dei gruppi del sistema ABO umano nelle Antropomorfe (secondo Socha et al., 1972). (Nel Gorilla gli agglu-tinogeni non sono presenti sul globulo rosso, ma al suo interno).

Antigeni portati autrerítrocita

Generi

O A B AB

Pan 288 37 251 — sì sì -

Gorilla 25 — 23 2 — — (sì) (sì)

Pongo 71 — 41 14 16 ...._ sì sì

eritrociti. Solo talvolta questi antigeni o antigeni simili sono rico-noscibili sugli eritrociti di alcune Scimmie del Nuovo Mondo e anche presso alcuni Lemuridi. Né nelle Scimmie del Vecchio Mondo, né in quelle del Nuovo Mondo, né nelle Proscimmie, è mai stato messo in evidenza un vero gruppo O (cioè con anti-geni H).

Tutte le Scimmie saggiate sono secretrici per le sostanze A, B e H, pertanto i loro gruppi sanguigni per il sistema ABO possono essere determinati sperimentando sulla loro saliva. La sostanza del sistema Lewis è presente nella saliva delle Scimmie del Vec-chio Mondo.

Ricapitolando, possiamo quindi affermare che sostanze del si-stema ABO sono regolarmente presenti negli organi e nelle secre-zioni di tutti i Primati finora saggiati, mentre gli antigeni non risultano sempre presenti negli eritrociti. Alcuni studiosi hanno voluto vedere in questa particolare distribuzione un significato filogenetico o almeno un carattere distintivo fra i vari gruppi di Primati. Ricerche recenti hanno però modificato questo quadro: in diversi individui di Scimmie e Proscimmie sono stati messi in evidenza antigeni di tipo A o B localizzati sull'eritrocita, mentre antigeni di tipo H, che si conoscevano solo nello Scimpanzé e nell'Uomo, sono stati messi in evidenza in animali inferiori (per-sino in Batteri).

Resta a questo punto il problema dell'unicità del meccanismo di determinazione genetica del sistema ABO nei Primati. Questo problema non è ancora affrontabile per la carenza di dati genetici fra i Primati non umani, specialmente per le Scimmie inferiori. Nello Scimpanzé si presume che il meccanismo sia legato a un

137

Dati Totale

H A

Page 75: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

allele dominante per A e a un recessivo per 0, analogamente al-l'Uomo, mentre per il Gorilla e l'Orango si pensa alla presenza di due geni isovalenti, uno per A e uno per B. Tuttavia, dai dati finora ricavati, risulterebbe che queste due specie non sono in equilibrio genico. Questo fatto potrebbe però essere dovuto o a un tipo di accoppiamento non casuale che favorisce gli orno-zigoti, o a una particolare distribuzione geografica dei vari geno-tipi; ma potrebbe anche dipendere da meccanismi ancora non chiariti.

b) Il sistema MN.

I primi antigeni di questo sistema che furono scoperti sono 1'M e l'N che possono essere messi in evidenza con antisieri otte-nuti immunizzando Conigli con globuli rossi umani. L'ereditarietà di questi antigeni è molto semplice perché dipende da una sola coppia allelica M e N che può dar luogo ai tre fenotipi M, MN, e N. Le frequenze geniche di una popolazione possono essere stimate molto facilmente contando direttamente i geni.

Tutti gli Scimpanzé finora studiati (tab. 7.IV) presentano fat-tori M-simili sui loro globuli rossi; circa un terzo di essi poi ha il fattore Nv. Il fattore Nv è uno dei numerosi fattori N presenti nell'uomo e viene evidenziato mediante lecitine.

Su 24 Oranghi studiati, circa la metà presentava fattori M-si-mili a quelli umani, ma nessuno aveva fattori Nv comparabili con quelli umani, cosicché gli Oranghi possono dividersi in tipi M" e m0' rispettivamente.

Fra 24 Gibboni studiati per questo sistema, 14 furono rico-nosciuti come N, 5 come M e 5 come MN, e le caratteristiche sierologiche dei fattori M e N dei Gibboni sono considerate più simili a quelle umane che non a quelle di altri Primati. Anche il loro determinismo genetico appare più simile a quello dell'Uomo che non a quello dello Scimpanzé e dell'Orango.

Le Scimmie del Vecchio Mondo presentano anche nel loro sangue fattori M-simili, mentre fra le Scimmie del Nuovo Mondo solo certe specie presentano fattori M-simili. Fattori M-simili non sono stati osservati né nelle Scimmie del Vecchio Mondo, né in quelle del Nuovo Mondo.

Esperienze recenti sembrano dimostrare che gli antigeni M e N umani siano formati da un mosaico, del quale solo alcuni

138

TABELLA 7.1V Frequenza dei fattori M e Nv in alcuni Primati. (Se-condo Wiener e Moor-Janowski, 1971).

Fattori M - simili Fattori Nv (Vicia gramiaca)

Presenti Assenti Totale Presenti Assentì Totale

Scimpanzé 130 130 42 62 104 Gorilla 1 1 1 1 Orango 12 12 24 24 24 Gibbone 10 14 24 19 5 24

componenti sarebbero presenti nel sangue dello Scimpanzé e degli altri Primati; questa similitudine diverrebbe via via minore discendendo nella scala zoologica. Questo fattore sembrerebbe quindi avere grande importanza filogenetica, ma la questione è lungi dall'essere chiarita.

c) Il sistema Rh.

Nel 1940 Landsteiner e Wiener scoprirono che gli antisieri prodotti iniettando globuli rossi di Rhesus (Macaca mulatta) in Coniglio agglutinavano i campioni di sangue di gran numero di Uomini. La reazione Rh positiva era ereditata come dominante, la negativa come recessiva.

Anche se sembra ormai accertato che il sistema Rh comprenda tre geni strettamente associati, la loro interpretazione e la stessa nomenclatura dggi diversi geni sono ancora in discussione. Ad ogni modo il fattore'Rh+ è dovuto a quei complessi genici in cui D è dominante (CDE, CDe, cDE, cDe), e Rh— agli altri (tab. 7.V).

Il sistema genico dell'Rh è particolarmente interessante per uno studio comparativo, poiché rappresenta un supergene o un complesso di geni strettamente associati presenti in molte specie. Vi sono due ipotesi alternative, anche se non necessaria-mente escludentisi, circa il modo con cui questo complesso di geni si sarebbe originato. La prima è basata sull'ipotesi di Fisher, secondo la quale il linkage fra geni che alterano reciprocamente il valore selettivo tenderebbe ad aumentare. Così il C e il D

139

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TABELLA 7.V Complessi genici del sistema Rh comunemente presenti nelle popolazioni europee. (I tre geni, nella specie umana, tendono a rimanere strettamente uniti, cioè non si separerebbero durante i fenomeni di ricombinazione costituendo un supergene).

Complessi gcn i ci

A nticorpi CDE CDc cDE cde cDe cdE Cde CdE (R2) (R,) (Ra) (r) (Re) (R —) (W) ( R y )

Anti-C Anti-D Ami-E Anti-c (Antí-d) * (—) (—) (—) (+) (—i (+) (+) (+) Anti-e -F-

* Anticorpo ipotizzato e non ancora individuato.

dell'Rh, che nell'Uomo probabilmente alterano reciprocamente il loro valore selettivo, potrebbero essersi originati su differenti cromosomi, e successivamente, attraverso traslocazioni, sarebbero divenuti strettamente associati. L'altra possibilità è che questo complesso di geni sia insorto per mezzo dí duplicazioni geniche, seguite da divergenza di funzione.

Il sistema Rh nelle Antropomorfe, e, per quanto si sa, anche negli altri Primati, presenta alcune interessanti differenze rispetto a quelle trovate nella nostra specie, che in seguito potrebbero permettere dí dirimere fra queste due ipotesi.

I globuli rossi dello Scimpanzé risultano avere gli stessi anti-geni D e C dell'Uomo poiché i loro eritrociti reagiscono nel medesimo modo degli eritrociti umani con sieri anti-D e anti-C. Gli altri fattori o antigeni del sistema Rh non sono stati messi in evidenza nei globuli rossi di Scimpanzé. Lo Scimpanzé per-tanto mancherebbe del gene E.

Nel Gorilla si hanno individui Rh + e Rh — con distribuzione di sottogruppi simili a quelli umani (cioè vi sarebbero presenti tutti e tre i sottogruppi). Nell'Orango invece il titolo della rea-zione è tanto basso da indicare che i fattori per 1'Rh in questa specie devono essere molto diversi da quelli umani. Nei Gibboni si avrebbe solo una debole capacità di assorbimento nell'anti-E,

140

mentre non esisterebbero antigeni del sistema Rh né nelle Scim-mie del Vecchio Mondo, né in quelle del Nuovo Mondo, né nelle Proscimmie. Si deve però tenere presente che questi dati sono ricavati da osservazioni condotte su un numero quanto mai esiguo di individui e hanno quindi valore puramente indicativo.

I dati per le Antropomorfe, insieme con i rari reperti umani che non presentano antigene prodotto dal gene per il focus E, potrebbero fornire una indicazione in favore della teoria del Fisher che invoca l'esistenza di loci separati e separabili per gli antigeni di ciascuna delle serie. Si potrebbe però anche affermare che l'antigene D-simile rappresenti l'antigene primordiale per l'Rh dal quale gli altri Rh si sarebbero originati, perché l'antigene D sembra essere il più diffuso nei Primati, rispetto agli altri.

Ricerche comparative sul complesso delle reazioni immunitarie nelle Antropomorfe potrebbero indubbiamente fornire informa-zioni molto utili sulla costituzione dei geni produttori di antigeni e dei loro modificatori. Molte lacune sulla conoscenza dei gruppi umani potranno pertanto essere colmate quando si approfondi-ranno le nostre conoscenze su sistemi di isoantigeni propri delle singole specie di Primati.

4. I gruppi sanguigni e la selezione naturale.

Per molto tempo si è ritenuto che i gruppi sanguigni non fossero soggetti a selezione, non fossero cioè caratteri adattativi, e su questo assunto molti antropologi hanno tentato di classi-ficare e stabilire parentele fra le diverse popolazioni umane. Ma la distribuzione geografica stessa, con i suoi gradienti delle fre-quenze degli alleli per i gruppi sanguigni ABO nelle varie po-polazioni, suggerisce l'ipotesi che vi sia una qualche relazione di questi con l'ambiente. Il gruppo sanguigno Rh e la sua relazione con la malattia emolitica del neonato chiaramente dimostra l'effetto di una selezione. Ogni volta che un feto Rh+ viene ucciso dagli anticorpi prodotti dalla madre Rh—, si ha una perdita di geni D e d. In questo modo, con il susseguirsi delle genera-zioni, questi geni dovrebbero divenire sempre meno frequenti nella popolazione, fino ad estinguersi, oppure a raggiungere una frequenza tale da essere mantenuta solo dal ritmo della mutazione. Queste frequenze sono tuttavia ín alcune popolazioni molto ele-

141

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vate. È evidente che un qualche vantaggio selettivo deve avere la sua importanza nel mantenimento di questo polimorfismo.

La medesima cosa può dirsi per i gruppi sanguigni. ABO. Re-centi ricerche hanno dimostrato che vi è una considerevole morte di feti con certi genotipi; in particolare quando la madre è O e il feto è A.

È stato poi osservato che le frequenze di individui con un determinato gruppo sanguigno, affetti da certe malattie, sono diverse da quelle della popolazione in generale. I risultati sono particolarmente evidenti nei casi di cancro gastrico e di ulcera duodenale. Gli individui con gruppo sanguigno O, per esempio, sono più soggetti all'ulcera duodenale degli altri, mentre le per-sone di gruppo sanguigno A sembrano più soggette di altre ai tumori gastrici.

Ancora non si hanno spiegazioni soddisfacenti per questi pos-sibili meccanismi selettivi, ma essi certamente esistono e hanno avuto diverso grado d'importanza nelle diverse condizioni in cui l'Uomo si è evoluto nelle varie epoche. La comparazione di questi dati con quelli degli altri Primati potrà forse aiutare a inter-pretare il polimorfismo dei gruppi sanguigni della nostra specie.

5. Generalità sulla ereditarietà dei caratteri morfologici.

Alcune caratteristiche morfologiche, quale ad esempio la forma del naso, possono fornire un'indicazione di parentela con i propri familiari. Molte particolarità di questo genere infatti hanno un determinismo ereditario e compaiono più strettamente associate in individui imparentati che in individui scelti a caso. Per le com-plesse vicende che intercorrono fra i geni e il loro affermarsi feno-tipico durante lo sviluppo, è invece difficile determinare la quan-tità dei geni e specificare esattamente la natura di quelli che de-terminano una particolare forma di naso o di bocca. Come per tutti i caratteri morfologici, cioè, l'estrinsecazione definitiva di-pende da una moltitudine di fattori che ne influenzano le espres-sività.

Il determinismo ereditario di molti caratteri morfologici quan-titativi, inoltre, deve essere ricercato non in caratteri mendeliani semplici ( major genes), come quelli che abbiamo visto nei capi-toli precedenti, ma in complessi di geni multipli la cui azione si

142

sviluppa con effetti additivi senza dominanza completa e che ven-gono generalmente definiti come poligeni.

Questo tipo di dati non è tuttavia meno importante di quelli ottenuti su caratteri mendeliani semplici. Essi permettono infatti di affrontare lo studio a livello genetico delle caratteristiche mor-fologiche dello scheletro e questo, più di altre parti del corpo, è utile per provare l'evoluzione delle varie specie di Primati poiché è l'unico elemento a cui possiamo riferirci nella compa-razione con i resti fossili. Nell'esaminare i vari caratteri dello scheletro bisogna tener presente che talvolta si rilevano altera-zioni che risultano comparabili con le caratteristiche scheletriche di antenati vissuti molte generazioni prima. Esse vanno ricono-sciute e correttamente interpretate tenendo conto che i geni in una popolazione non scompaiono, ma si trasformano.

I caratteri morfologici, tuttavia, sono difficili da studiare anche perché i loro determinanti genici interagiscono fra loro nella estrinsecazione del fenotipo con la produzione di una variabilità continua. Pertanto, più che prendere in considerazione singoli caratteri si devono quasi sempre considerare « complessi di ca-ratteri » nel loro insieme, tenendo in particolare considerazione il loro significato funzionale e adattativo. Questo complica in modo notevole il tipo di analisi e solo le metodiche biometriche più moderne e l'applicazione dei calcolatori elettronici permet-tono di affrontare questi problemi.

Nell'esaminare le caratteristiche dello scheletro di una deter-minata specie di Primati devono, inoltre, essere tenute in parti-colare considerazione le differenze di sesso. Gli ormoni sessuali influenzano in modo determinante le caratteristiche dello sche-letro di molte specie di Primati, tanto che ogni osso può portare indicazioni del sesso dell'individuo a cui è appartenuto. Questa, fra l'altro, può essere una delle ragioni della moltiplicazione sia di nomi specifici che generici in paleontologia. Una revisione accurata dei resti fossili dei Primati e degli Ominidi che tenesse presente la diversità di sesso, ridurrebbe certamente il numero delle specie descritte.

6. Alcuni caratteri morfologici dello scheletro.

L'ereditarietà dei caratteri morfologici o, meglio, di quelli morfometrici nella nostra specie è dimostrata dal confronto fra

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gemelli omozigoti e dizigoti nonché dallo studio delle genea-logie. Le lunghezze dei diametri cranici e facciali, per esempio,. presentano una marcata concordanza fra gemelli MZ, mentre i DZ differiscono fra loro sensibilmente a questo riguardo. Lo stesso succede per la forma del cranio e della testa in generale, anche se non è dimostrabile direttamente per mezzo dell'analisi statistica. (indici di correlazione).

Non v'è ragione di dubitare che anche presso le varie specie di Primati questi e altri caratteri morfologici dello scheletro pre-sentino un alto grado di ereditarietà. Lo provano la maggiore similitudine morfologica fra le specie più strettamente imparen-tate. La difficoltà sta, come abbiamo detto in precedenza, nell'in-dividuare correttamente il carattere da studiare e nell'adottare: una metodica di analisi appropriata.

Un gruppo di caratteri che si presta particolarmente bene a questo tipo di analisi è quello dei caratteri epigenetici dello sche-letro, che sono caratteri di natura discontinua, la cui determina-zione si pone nei limiti dí presenza-assenza, rilevabili nel cranio o nelle altre ossa delle più diverse forme di Vertebrati. Come per i caratteri morfometrici, non è chiaro se le variazioni nella fre-quenza di questi caratteri e i caratteri medesimi siano controllati da uno o da più geni, anche se perlopiù si pensa che i geni che li determinano siano in numero ridotto. Tuttavia il fatto che essi mostrino una differente frequenza fra le diverse popolazioni per-mette che siano trattati come singoli caratteri ereditari e quindi si possono valutare delle « distanze » fra un gruppo e l'altro.

Questi caratteri sono, per esempio, i solchi sulla superficie esterna del frontale, che corrispondono a rami dei nervi sopra-orbitali, la cui incidenza varia da 0% presso gli Australiani al 50% presso i Negri.

Così, altri caratteri di questo tipo, nella nostra specie, sono i fori sopraorbitali, i fori infraorbitali, la direzione e il tipo della sutura palatina trasversa, la sutura metopica, la osteoporosi orbi tale, il foramen mentoniero, la presenza di ossa wormiane, il toro mandibolare, il toro palatino, le esostosi del canale uditivo ester-no, ecc. Tutti presentano frequenze molto diverse nelle popola-zioni umane.

Alcuni di questi caratteri sono presenti anche nelle diverse specie di Primati, con frequenze variabili, altri sono caratteristiche fisse di tutti gli individui di una determinata specie, altri invece

sono assolutamente assenti nello scheletro di tutti gli individui di una specie. Uno studio esteso di questi caratteri potrebbe certamente aiutarci perlomeno a distinguere i caratteri variabili da quelli stabili, contribuendo in questo modo a una valutazione più adeguata dei caratteri da prendere in considerazione per sta-bilire delle relazioni filogenetiche fra i vari resti fossili di Primati.

7. I dermatoglifi della mano.

I rilievi papillari della pelle del lato volare delle dita della mano, così come i rilievi palmari e le linee dí piegatura della cute di essa, come quelli plantari del piede, sono predeterminati e fissi per ogni individuo. Essi sono già presenti nella pelle del feto e se a un adulto si asporta una parte del derma essi ricompaiono con le medesime configurazioni. Il loro determinismo ereditario nella nostra specie è provato dall'altissima concordanza per questi carat-teri nei gemelli tnonozigoti e dagli studi su genealogie. Un'altra interessante prova di ereditarietà sta nella riscontrata concomi-tanza nella nostra specie di profonde alterazioni nei dermatoglifi palmari degli individui affetti da idiozia mongoloide, in cui è pre-sente un cromosoma 21° supplementare.

L'interesse dei dermatoglifi (il cui determinismo ereditario è tuttavia molto complesso) risiede nel fatto che essi rappresentano una caratteristica tipica di tutte le specie di Primati.

Il loro significato funzionale è da mettere in relazione con la prensilità delle mani e dei piedi dei Primati. Oltre alle linee di piegatura, anche i rilievi papillari della pelle delle dita e quelli palmari sono in stretta relazione con l'attività dell'arto. Essi in-fatti sono cuscinetti carnosi che proteggono le strutture più pro-fonde e servono per assorbire la spinta quando la pelle viene compressa contro le parti ossee. Questa parte del derma è com-pletamente libera da peli e da ghiandole sebacee, ma contiene una enorme quantità di ghiandole sudoripare ed è provvista di moltissime terminazioni dí nervi sensitivi. In tal modo questi rilievi dermici costituiscono un complesso meccanismo atto non solo a facilitare sensazioni tattili, ma anche ad aumentare l'ade-sività alla superficie di appoggio, così come fanno i copertoni delle ruote delle auto.

A differenza delle altre specie di Mammiferi, tutti i Primati

144 145

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viventi presentano piedi e mani con peculiari caratteristiche der-matoglifiche, con significative differenze fra le varie specie sia per la perfezione che per la completezza.

Quasi tutte le Proscimmie presentano questi speciali rilievi dermici quasi unicamente sui polpastrelli, mentre sul palmo e sul tallone hanno dei semplici rilievi carnosi, non sempre com-pletamente glabri. Il palmo della mano e la pianta dei piedi di quasi tutte le Scimmie sono invece coperti di complicati derma-toglifi. I patterns dei dermatoglifi digitali dei tre gruppi di Pro-scimmie (Lemuriformi, Lorisiformi e Tarsiformi) differiscono fra loro notevolmente e in generale da quelli delle Scimmie.

Tutto ciò avvalora l'ipotesi che questi attuali tre gruppi di Proscimmie rappresentino tre distinte linee evolutive e che le Scimmie non abbiano particolari strette relazioni con nessuno dei tre.

Nell'ambito delle Scimmie Platirrine, mentre i Cebidae pre-sentano dermatoglifi notevolmente variabili per forma e per orga-nizzazione, i Callithricidae presentano dermatoglifi molto stabili e uniformi in tutte le specie. Per questo carattere poi il Callimico goeldii è da associarsi strettamente ai Callithricidae.

Nell'ambito delle Scimmie Catarrine, i Cercopithecoidea si presentano molto più generalizzati e molto più uniformi che non gli Hominoidea. Nell'ambito delle Cercopithecinae, in parti-colare, per la presenza di un'ampia variabilità interspecifica, una netta delimitazione delle specie sulla base delle caratteristiche dei dermatoglifi è assolutamente impossibile. Le caratteristiche derma-toglifiche in questo caso sono gruppo-specifiche. Nell'ambito delle Colobinae le differenze specifiche sono più marcate ( Nasalis e Colobus). Pigathrix e Presbytís hanno dermatoglifi difficilmente differenziabili da quelli delle Cercopithecinae. Questa relativa uni-formità delle caratteristiche del derma delle estremità dei Cerco-pithecoidea è un carattere peculiare se paragonata con la situa-zione presente nei Ceboidea ed Hominoidea.

Le specializzazioni strutturali dei dermatoglifi degli Homi-noidea sono invece molto marcate. Anche per questo carattere, mentre gli Hylobatidae si presentano completamente distinti dai Pongidae e dagli Hominidae e con alcune caratteristiche che li fanno avvicinare ai Cercopithecidae, i Pongidae presentano molti caratteri simili a quelli della nostra specie, pur presentando caratteristiche proprie a loro soltanto.

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8. Interesse dei denti nelle ricerche evolutive.

La comparazione della dentatura fra le diverse specie viventi e le corrispondenti forme fossili, meglio che lo studio di altre porzioni dello scheletro, molto spesso mette in evidenza le forme di transizione e le relazioni di parentela fra le specie La denta-tura dell'Uomo attuale, per esempio, differisce da quella dei suoi antenati fossili sia per caratteristiche dimensionali che per alcune caratteristiche morfologiche. Differenze simili, anche più estese, si riscontrano fra l'Uomo e le Antropomorfe. Un'altra ragione per cui lo studio dei denti è importante per risalire alla filogenesi dei Primati, è dovuta al fatto che la maggior parte dei resti fossili di questo gruppo è costituita da denti. Questi infatti si conser-vano meglio di ogni altra parte dello scheletro nel processo di decomposizione, che per i Primati è generalmente intenso, dato il peculiare habitat forestale.

I denti dei Primati sono stati quindi studiati in grande det-taglio e le loro caratteristiche morfologiche sono decisive nel-l'attribuzione di un resto fossile a una determinata famiglia o genere e anche, talvolta, alla specie. È quindi ovvio che le dedu-zioni ottenute dallo studio dei denti tendono a imperniare ogni discussione sulle relazioni filogenetiche nell'ambito dí questo gruppo di animali.

I denti poi, poiché si sviluppano già fin dai primi stadi della vita e sono protetti dalle ossa mandibolari e mascellari, non subi-scono alcuna influenza ambientale esterna e sono soggetti solo alle influenze della costituzione genetica dell'individuo. Se ade-guatamente studiati, essi quindi possono costituire una base molto sicura per stabilire delle relazioni sistematiche e filogenetiche.

Tuttavia, un'adeguata interpretazione delle caratteristiche dentarie dei Primati non è cosa semplice. Innanzitutto, il numero di esemplari di denti di Primati fossili è piuttosto scarso, per cui poco si può dire della variabilità individuale. Molto spesso i paleoprimatologi tendono a sottovalutare la variabilità indivi-duale dei caratteri. La conoscenza della variabilità delle caratte-ristiche dentarie nelle specie attualmente viventi potrebbe essere utile per l'interpretazione dei dati sui fossili, ma, salvo poche eccezioni, le informazioni sono anche qui piuttosto scarse.

Quando 'poi le comparazioni vengono fatte ad un livello più alto, come per esempio fra differenti generi o differenti famiglie, sorgono altri problemi. Se due forme si somigliano, sono esse

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Page 80: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

veramente imparentate o sono il prodotto di un'evoluzione paral-lela? In questo caso, più che calcolare una probabilità, la si deve stimare: tanto più particolareggiata sarà la somiglianza, tanto più piccola sarà la probabilità che il carattere in questione si sia evoluto più di una volta. Ma non bisogna esagerare anche con questo tipo di stima; vi sono complicati rimaneggiamenti morfo-logici che possono essere dovuti a variazioni genetiche semplici e facilmente ripetibili.

Un tempo, per esempio, si credeva che gli Apatemydae del Terziario inferiore fossero imparentati con gli attuali Aye-aye, ai quali somigliano nella dentatura, particolarmente perché posseg-gono entrambi grossi incisivi. Ma gli Aye-aye sono anatomica-mente e fisiologicamente molto simili ai Lemuridi del Madagascar ed. è ragionevole pensare che la rassomiglianza con gli Apaterny-dae nella dentizione sia dovuta ad evoluzione convergente. Grossi incisivi infatti si trovano in molti altri Mammiferi appartenenti a differenti famiglie.

Altre volte, invece, le somiglianze sono indicazioni di paren-tele abbastanza strette. Il Proconsul, per esempio, presenta ca-ratteristiche dentarie molto simili a quelle del Pliopithecus, ca-ratteristiche per cui entrambi differiscono dalle Antropomorfe attuali. Il Pliopithecus è generalmente considerato come uno degli antenati dei Gibboni, mentre il Proconsul si suppone sia uno degli antenati delle Antropomorfe attuali. Il grado di similitudine a livello delle caratteristiche dentarie è tale da far considerare arti-ficiosa la divisione degli Ominoidi del Miocene in due famiglie, differenziazione che probabilmente deve essere avvenuta più di recente.

Ma la somiglianza non necessariamente è prova di parentela, come le differenze non necessariamente dimostrano l'assenza di parentela.

In gran parte dipende da come le differenze osservate ven-gono interpretate in un ipotetico processo evolutivo. È interes-sante, a questo proposito, l'esempio dell'Oreopithecus. Inizial-mente Iliirzeler, sulla base di vari caratteri specialmente dentari, come le piccole dimensioni dei canini, l'assenza di diastema, la scarsa specializzazione dei premolari, aveva considerato l'Oreo-pithecus più imparentato con gli Ominidi che con i Pongidi. Da questa conclusione era scaturita la possibilità che gli Ominidi fossero già differenziati dai Pongidi prima dell'inizio del Pliocene.

Successivamente sono state riscontrate molte differenze nelle

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caratteristiche, anche dentarie, dell'Oreopithecus sia con i Pon-gidi che con gli Ominidi e al contempo sono stati messi in evi denza molti caratteri per cui i Pongidi e gli Ominidi si somigliano fra loro, pur differenziandosi dall'Oreopithecus.

Questi dati indicano che l'Oreopithecus si è evoluto in una direzione differente da entrambe le famiglie suddette e che esso si è separato dagli Ominidi già in un tempo precedente al diffe-renziamento dei Pongídi. Risulta infatti più semplice, come ve-dremo, derivare le caratteristiche dentarie dell'Uomo da quelle del Proconsul o anche dal Pliopithecus, che non da quelle del-l'Oreopithecus.

Ma prima di entrare in dettagli sulla dentatura delle diverse specie di Primati fossili e attuali, prendiamo in considerazione le principali caratteristiche dentarie del Primate Uomo. Ci occupe-remo qui solo dei denti permanenti.

9. Le caratteristiche della dentatura umana comparata con quella delle Antropomorfe.

La dentatura permanente dell'Uomo attuale consiste di 32 denti, di cui 16 impiantati sulla mascella e 16 sulla mandibola. Ciascun lato poi contiene 8 denti di quattro tipi diversi che diffe-riscono fra loro per la forma e per l'uso: incisivi, canini, premo-lari e molari.

La formula dentaria permanente dell'Uomo è:

✓ 2 1 n 2 3 • r-, Da ▪ 2 1 2 3

Gli incisivi, per il loro margine superiore a mo' di cuneo, sono usati principalmente per mordere e tagliare. Gli incisivi centrali superiori sono più grandi, quelli laterali superiori più piccoli. Questi ultimi sono talvolta molto irregolari per forma e dimensione, talvolta possono anche mancare completamente. Gli inferiori sono piccoli e molto simili fra loro. Essi si occludono con i superiori in genere con il lato tagliente un po' spostato verso la parte linguale. Una occlusione diversa, margine tagliente degli inferiori contro margine tagliente dei superiori, è frequente specialmente nelle popolazioni che si nutrono di cibi duri e terrosi.

149

1r

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I canini sono disposti ai lati della bocca, e sono generalmente appuntiti. In alcuni Mammiferi essi costituiscono una eccellente arma di difesa; nell'Uomo essi hanno principalmente funzione di taglio e di lacerazione del cibo fibroso. La loro lunghezza e la loro posizione è tale che normalmente non protendono oltre il livello degli altri denti. Questo permette all'Uomo un movimento di lateralità durante la masticazione che non è invece possibile nelle specie di Primati provviste di canini lunghi.

I denti che seguono in senso antero-posteriore i canini, sono i premolari. I premolari permanenti rimpiazzano i molari decidui, assumendo una funzione diversa. Ciascuno di essi ha due cuspidi, sebbene il secondo premolare inferiore abbia talvolta una terza piccola cuspide. Il primo premolare inferiore spesso ha una forma appiattita, come se fosse stato compresso e inoltre ha una pro- minenza appuntita sul margine esterno che, occludendosi con il canino superiore, dà una possibilità di taglio che doveva essere particolarmente sviluppata nei nostri antenati. Le radici dei pre- molari dell'Uomo attuale sono ridotte, in comparazione con quelle dei Pongidi fossili e attuali. Il primo premolare superiore generalmente ha due radici, talvolta una, il secondo generalmente ha una sola radice, occasionalmente due; i premolari inferiori hanno una radice ciascuno.

Nell'Uomo, i molari sono usati quasi esclusivamente per tri-turare. I molari superiori hanno quattro (qualche volta tre) cu- spidi, mentre gli inferiori ne hanno cinque (qualche volta quattro). Il numero delle cuspidi, la loro posizione, il tipo di solcatura fra esse, differiscono fra i vari individui e costituiscono, come ve- dremo, un importante carattere diagnostico per le specie. In ge- nere i molari superiori hanno tre radici, gli inferiori due. Nelle popolazioni europoidi il primo molare generalmente è grande, il secondo più piccolo e il terzo più piccolo ancora. In altre popo-lazioni, invece, il terzo molare è più grande del secondo, sebbene più piccolo del primo.

La più appariscente differenza fra le arcate dentarie di un Pongide e di un Ominide, è la presenza nel primo di uno spazio fra il canino e l'incisivo laterale nell'arco superiore (mascella) e fra il canino e il premolare nella mandibola. Questo spazio è detto diastema (tab. 7.VI e fig. 7.5).

Gli incisivi superiori dei Pongidi sono molto grandi e con gli alveoli dei centrali disposti molto avanti rispetto alla linea che congiunge fra loro i margini anteriori degli alveoli dei canini;

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TABELLA 7.VI Differenze nella dentatura fra Uomo e Scimmie Antro-pornorfe.

U o m o Antropomorfe

Terzo molare inferiore più piccolo degli altri due; primo molare infe-riore più grande degli altri due. Aspetto dei solchi e delle cuspidi a 5 Y nel primo molare inferiore, a 5+, 4+, 5 X, negli altri due.

nell'Uomo, invece, oltre a essere piccoli, presentano il margine posteriore degli alveoli al medesimo livello, o dietro la linea che congiunge fra loro i margini anteriori degli alveoli dei canini.

I canini dei Pongidi sono relativamente grand•i e piuttosto appuntiti e quando si occludono si sovrappongono abbondante-mente e protendono di molto oltre il piano di occlusione, cosa che non avviene per l'Uomo attuale. Nei Pongidi, i canini erompono dopo i secondi molari e talvolta anche dopo i terzi molari, mentre nell'Uomo attuale essi erompono, normalmente, prima del secondo molare. Nei Pongidi inoltre questi denti presentano un pronun-ciato dimorfismo sessuale, che nell'Uomo è assente.

Ogni discussione sull'origine dell'Uomo invariabilmente intro-

151

Mascella superiore e mandibola a forma parabolica, file dei molari non parallele ma divergenti. Non rinfor-zo della sinfisi, ma presenza di men-to; non diastema. Non prognati-smo. Palato non piatto, ma curvo e profondo.

Canini non sporgenti oltre il piano occlusale.

Primo premolare più grande del canino (nell'arcata superiore), con una radice. Primo premolare infe-riore bicuspidato, e non carenato e tagliente (« sezionante »).

Terzo molare superiore più piccolo degli altri due; primo molare supe-riore più grande degli altri due. Molari superiori con 4 cuspidi di-vise da solchi..

Mascella superiore e mandibola a forma di U, file dei molari paral-lele. Rinforzo notevole della sinfisi (presenza di una placca ossea detta pitecoide). Palato piatto e lungo, prognato. Diastema.

Canini poderosi, a forma di zanne, appuntiti, molto lunghi.

Primo premolare superiore più pic-colo del canino, con due radici. Primo premolare inferiore con una sola cuspide, carenato, tagliente, del tipo « sezionante ».

Secondo molare superiore più gran-de degli altri. Presenza di creste forti e rilevate fra le 4 cuspidi dei molari supe-riori.

Terzo molare inferiore più grande degli altri due. « Dryopithecus pattern » nei molari inferiori.

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duce il problema dei canini. Sembra che anche la più antica forma di Pongide, il Proconsul dell'Oligocene africano, abbia avuto canini molto piccoli. Questo dato ha fatto concludere ad alcuni studiosi che i canini ridotti dell'Uomo siano una caratteristica di primitività. Come risultato della specializzazione dei canini e del loro ingrossamento, il primo premolare deí Pongidi avrebbe assunto la forma monocuspidata, a differenza dell'Uomo in cui invece questo dente è bicuspidato.

I premolari presentano anche notevole valore diagnostico per distinguere un Pongide da un Ominide. Nei Pongidi, infatti, il primo premolare superiore ha normalmente tre radici, mentre nel-l'Uomo attuale ha solo una o due radici. Solo occasionalmente in alcune popolazioni umane sono presenti tre radici. Il primo pre-molare inferiore nei Pongidi è generalmente unicuspidato, mentre nell'Uomo è bicuspidato.

Ma i denti più interessanti per lo studio comparativo sono i molari. I molari normalmente vengono numerati in ordine antero-posteriore, cosicché l'M3 è il più arretrato. Un quarto molare, soprannumerario, si trova assai frequentemente nell'Orango ed eccezionalmente nell'Uomo. Esso deriva da una precoce divisione della gemma dentaria dell'ultimo molare (M3).

Per quanto concerne le dimensioni, mentre nei Pongidi il molare più grande è in genere il 2° nell'arcata superiore, e il 39

Fig. 7.5 Palato e dentatura superiore A) di Gorilla, B) di Australopiteco e C) di Aborigeno australiano. La dentatura dell'Australopiteco è una ricostruzione da più esemplari. In essa sono comunque da notare le dimensioni relativamente piccole dei canini e degli incisivi, l'assenza di diastema, presente invece nel Gorilla, e la curvatura dell'arcata den-taria.

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nell'inferiore, nell'Uomo attuale •il molare più grande di entrambe le arcate è il 1°.

I molari superiori hanno 4 cuspidi principali, delle quali le due più esterne e la più anteriore delle interne corrispondono alle 3 cuspidi del tipo fondamentale, il cosiddetto trigono. La quarta cuspide spesso rimane congiunta alla cresta trasversa che negli Hominoídea (Pongidi e Ominidi) invariabilmente termina sul culmine della quarta cuspide. La cuspide postero-interiore (ipocono) sorge dal cingolo basale che circonda il trigono. Essa è generalmente la meno prominente delle quattro.

I molari inferiori degli Hominoidea hanno 5 cuspidi ondu-late: due più interne, e tre più esterne, che sono distinte dalle loro omologhe dei molari superiori dal suffisso -ide. Solo le due cuspidi anteriori sono più rilevate del trigonide originario e sono spesso riunite da un ponte.

Sia i Pongidi che gli Ominidi mostrano una notevole -varia-bilità nella disposizione delle loro cuspidi e nelle loro dimensioni relative e assolute. Comparando in generale la morfologia delle cuspidi e delle creste dei molari dí un Pongide con quelle di un Ominide, si vede che esse si somigliano nell'aspetto generale, ma si differenziano leggermente nella formazione delle cuspidi e nelle creste presenti sulla superficie occlusiva. Queste creste sono più prominenti nel Gorilla; l'Orango ha una corona tipicamente bassa e piana, coperta di moltissime piccole rugosità - dello smalto. Nel-l'Uomo le cuspidi, specialmente dei molari superiori M' e M', sono spesso ridotte a 3, le cinque cuspidi dei molari inferiori a 4. Gli Aborigeni australiani, tuttavia, hanno 5 cuspidi in tutti e tre i molari dell'arcata superiore. Fra le due cuspidi posteriori c'è spesso una minutissima 6' cuspide (tuberculum sextum). Nel molare inferiore originario, la cuspide antero-linguale (il meta-conide) si fonde con la cuspide centro-esterna (ipoconide).

Questo schema è caratteristico di tutti gli Hominoidea. Il più antico esempio di una tale fusione è stato trovato nei

resti miocenici di Dryopithecinae. È espresso dalla formula « 5Y », che indica la presenza di 5 cuspidi, fra le quali un sistema di solchi obliqui e trasversi dà origine ad una Y centrale. Questo schema 5Y si sviluppa a poco a poco in uno con 4 cuspidi, indi-cato con « 4+ ». Il primo molare inferiore degli uomini attuali mostra ancora tracce dello schema 5Y, il secondo invece è quadri-tubercolare.

153

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10. L'evoluzione della dentatura nei Primati.

Vi sono varie teorie che tentano di spiegare l'evoluzione dei denti, dalle forme più semplici del dente appuntito dei primi Rettili, alle forme più complicate dei molari umani.

L'ipotesi più accreditata è quella per cui il semplice dente appuntito che originariamente derivava da una scaglia placoide, successivamente ha sviluppato due addizionali piccole protube-ranze a cono, una di fronte e l'altra dietro il cono principale. Questo stadio è noto come stadio tricon'odonte ed è rappresen-tato da fossili di Mammiferi ormai estinti.

Si suppone poi che queste due strutture aggiunte (coni), si siano mosse esternamente nei denti superiori e internamente negli inferiori a formare un triangolo (fig. 7,6).

I denti tritubercolari sono da considerarsi la forma di base ancestrale, dalla quale tutte le dentizioni degli attuali Mammiferi si sono originate, per addizione o eliminazione o per modifica-zioni di cuspidi.

I differenti tipi di dentature nelle varie specie di Primati, come quelli negli altri Mammiferi, si sono realizzati sotto la pres-sione della selezione e seguono ben definite leggi biologiche. Al-cuni tipi di dentature sono limitanti e sono il risultato dell'adatta-mento ad un peculiare tipo di dieta. I Carnivori non possono masticare l'erba che costituisce la dieta essenziale del Cavallo, né la Pecora può mangiare carne. Ma a parte queste specializza-zioni estreme, vi sono altri gruppi di animali, come molti Pri-mati, tra cui l'Uomo, la cui dentatura è poco specializzata poiché da tempo essi seguono una dieta onnivora. Tutti i Primati hanno una dentatura abbastanza simile. Le principali differenze consi-stono nella intensità di espressione di certe caratteristiche e nelle dimensioni relative delle varie parti o nel numero di denti di ciascun tipo (tab. 7.VII).

La formula dentaria primitiva dei Mammiferi Euteri di 44 denti (I3/3, Cl/i, P4/4, M3/3) non si è mantenuta stabile nelle diverse specie dei Primati.

Soltanto nel genere Tupaia sono conservati i 3 incisivi infe-riori e solo qualche Lemure fossile ( Adapis e Notharctus) ha mantenuto l'intero numero dei premolari.

La massima riduzione dí denti nei Primati si ha nella Dau-hentonia che ha perduto entrambi i canini inferiori e superiori, i due incisivi laterali, i quattro premolari inferiori e i tre superiori.

La complessa mente condizionata

I differenti dovuto compiere, probabilmente logia nei vari superiori sono forma conoide in avanti (procombenti), mente compresse è probabilmente strigliare il pelo ghezza e la continua dono dal fatto del legno alla maggiore del loro Nuovo e Vecchio sono denti appiattiti,

I canini sí forma, nel grado sione con i denti zione dipende dentaria opposta;

PARACONO

PROTOCONO

"Calb

S.

PROTOCONIDE '

STADIO I II

Fig. 7.6 Gli stadi di Osborn.

PROTOCONO METACONO

diversificazione dal suo

ruoli che oltre al semplice

la causa della Primati. In impiantati allungata;

con le estremità dovuta alla e nel groorning

crescita che queste

ricerca di Coleotteri, nutrimento. Mondo,

usati presentano

di proiezione della mascella

l'ampiezza degli tali intervalli

allungati,

PARAGONO ' PROTOCONO

della uso.

i denti anteriori

diversificazione quasi tutte verticalmente, quelli inferiori

e

funzione che personale

degli incisivi Proscimmie

Negli altri Antropomorfe

per addentare molto variabili

della corona opposta.

intervalli

BUCCALE

METACONO

TRIGONIDE • -7 Ni.

METACONIDE PROTOCONIDE

III

evoluzione

PARACONIDE

BUCCALE

afferrare

acuminate.

che

permettono

PARAGONO PROTOCONO

dentatura è

(gli incisivi) e tritare

della le Proscimmie

con corona invece sono

le corone sono Tale

questi denti e di gruppo.

dell'Aye-aye rosicchiano

costituiscono Primati (Scimmie e Uomo),

il cibo tenuto nelle dimensioni,

e nel tipo Dal grado

(diastemi) l'incastro

METACONO

PARAGONO

stata certa-

hanno il cibo, sono loro morfo-

gli incisivi semplice a

inclinati completa-

modificazione hanno per

La lun-dipen-

la corteccia la fonte

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PROTOCONO METACONO

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V

la teoria

PROTOCONIDE

METACONIDE PROTOCONIDE

PARA CONIDE ;

IV

del molare secondo

154 155

Page 84: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

PRO

SCIiv

IMIE

TABELLA 7.VII Formule dentarie dei Primati viventi.

PLACENTATI PRIMITIVI (tot. denti 44)

Tupaiidae C +, Per, M (tot. denti 38)

Lemuridae 14, C4, p-R. (tot. denti 36)

eccetto che Lepilemur C+. PI, MI (tot. denti 32)

Indriidae 13=22 , (tot. denti 30)

Daubentoniidae i+. Cg. P &. MI (tot. denti 18)

Lorisidae i f, Pi, (tot. denti 36)

Tarsiidae I i, C+, P.g, mg- (tot. denti 34)

Platirrine:

Callithricidae I • . P a -2- 2 (tot. denti 32)

Cebidae (tot. denti 36)

Catarrine: (tot. denti 32)

Cercopithecidae

Hylobatidae

Pongi•dae

Hominidae

delle corone durante la occlusione. Questi intervalli sono presenti tra l'incisivo laterale e il canino della mascella superiore, fra il canino e il primo premolare della mandibola.

I canini più lunghi e taglienti sono presenti nei maschi delle forme terrestri delle Scimmie del Vecchio Mondo. I Gibboni presentano canini allungati in entrambi i sessi. I canini più ro-

156

busti invece sono quelli delle Antropomorf e, in cui è presente anche un dimorfismo sessuale.

Nei Primati le direzioni evolutive manifestatesi per i denti laterali (premolari e molari) sono due: a) una riduzione del nu-mero degli elementi, e b) un incremento nel numero delle cuspidi presenti sulla superficie di occlusione della corona.

La riduzione nel numero si verifica principalmente per i pre-molari, Il primo premolare è quello che più comunemente viene perduto. I Primati del Vecchio Mondo hanno perduto anche il secondo così che í due premolari rimasti della originaria denta-tura degli Euteri sono P3 e P4.

In genere i premolari nelle Proscimmie sono semplici coni (unicuspidi). In alcuni gruppi ( Topaia e Loris) invece il primo premolare è così modificato da sembrare un canino e da funzio-nare come tale, mentre l'ultimo premolare presenta la morfologia di un molare (molarizzazione).

Negli Hominidae sia fossili che attuali, i premolari superiori e inferiori sono bicuspidi. Anche nelle Antropomorfe i premolari superiori sono bicuspidi; degli inferiori invece solo il secondo (P4) ha due cuspidi mentre il primo (P3) ha una sola cuspide. In tutte le Scimmie del Vecchio Mondo e nelle Antropomorfe il primo premolare ha funzione di taglio. Questa caratteristica è tipica di tutte le Antropomorfe del Miocene e Pliocene, ma non dell'Uomo né fossile né attuale.

Le corone dei molari superiori si sviluppano secondo la forma primitiva tritubercolare degli Euteri. Delle 3 cuspidi una (il proto-cono) si trova sul lato linguale della corona, le altre due si trovano sul lato boccale, il paracono anteriormente e il metacono poste-riormente. Un ispessimento variabile dello smalto (cingulum), circonda la base delle cuspidi e dà frequentemente origine a cu-spidi supplementari (stili) (figg. 7.7 e 7.8).

I molari superiori di Topaia e Tarsius rappresentano la forma più primitiva di molare nei Primati. Nella Tupaia il mesostilo è particolarmente marcato e generalmente bifido, mentre nello Ptilocercus è assente il mesostilo, ma sono presenti un parastilo e un metastilo.

In tutti gli altri Primati c'è una progressiva tendenza al-l'acquisizione di una forma quadritubercolare dovuta alla forma-zione di una quarta cuspide principale (ipocono). Questo ipocono potrebbe essere il risultato di due processi differenti. Nella forma più comune l'ipocono ha origine dal cingolo interno all'angolo

157

C+, P3, Mi

C+, P1,

Page 85: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

B

Psh.

Pl.

C

BUCCALE

PARAGONO 14.1

W 141 PROTOCONO

A CUSPIDE DI CARAI3ELU

LINGUALE

METACONIDE ENTOCONIDE

B TUB. INTERMED.

LINGUALE

Fig. 7.8 La terminologia adottata da Osborn per le cuspidi dei molare superiore; B) molare inferiore.

denti. A)

BUCCALE PROTOSTILIDE

IPOCONIDE • PROTOCONIDE POCONULIDE

SEXTUM r›. PARACONIDE

\ ":(TUBERCULUM

superiore tritubercolare; in Lemur e Hapalemur è presente un ipocono allo stadio iniziale; in Legernur e Phaner è presente in M' un ipocono completamente sviluppato; mentre denti com-pletamente quadritubercolari sono presenti nelle Indriidae. Anche i Lorisidi hanno 4 cuspidi principali. Fra le Scimmie solo i Callithricidae hanno conservato molari superiori tritubercolari. Tutte le altre presentano molari superiori quadritubercolari o pentatubercolari. La quinta cuspide è generalmente presente in M3 in Macaca, Cercocebus, Theropithecus e Papío. Una caratteristica peculiare delle Scimmie del Vecchio Mondo è costituita dalla presenza di un lofo (cresta di smalto) trasverso che unisce la cuspide boccale e linguale in coppie. Questa situazione bilofo-donte è molto accentuata in Theropithecus e nei suoi antenati estinti (es. Simopithecus). Al contrario, le Scimmie Antropomorfe presentano molari superiori in cui protocono e metacono sono uniti obliquamente per mezzo di una cresta con la conseguente formazione di una depressione antero-laterale e postero-mediale

MI,

D

Fig. 7.7 Schema che illustra come un primitivo molare superiore tritu-bercolare può essere trasformato in dente quadritubercolare a seguito dello sviluppo di un vero ipocono, che si origina dal cingolo alla base del dente (A) o da uno pseudocono, formato dalla fessurazione del proto-cono. B) Veduta laterale dí un dente che presenta un aspetto mediale. Come in C e D può verificarsi una ulteriore elaborazione in cui la corona del molare superiore può produrre cuspidi supplementari, proto-conuli e metaconuli, o stili che si originano dal cingolo esterno. H = ipocono; M = metacono; Ml = metaconulo; Ms = metastilo; Mss = mesostilo; P = protocono; Pa = paracono; Pl = protoconulo; Ps = parastilo; Psh = pseudoipocono.

postero-mediale della corona. In altri casi si sviluppa uno pseudo-ipocono che si separa dal protocono (fig. 7.7.).

Questa disposizione (pseudo-ipocono) si verifica nelle No-tharctinae dell'Eocene, che per questa caratteristica si distinguono dalle Adapinae, in cui la quarta cuspide è un vero ipocono.

Fra i Lemuridi viventi, le Cheirogalinae presentano un molare

158 159

Page 86: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

13 C o

(fovea). Una simile caratteristica si riscontra anche in alcune Scimmie Platirrine ( Ateles, Alouatta).

A volte nei Gibboni e nell'Uomo, ma raramente o mai nelle Antropomorfe, è presente un tuberculum anomalum (cuspide di Carabelli); esso è come una sporgenza che si origina dal cingolo all'angolo meso-linguale della corona in M' o M2.

La struttura tipica della corona dei molari inferiori viene definita tubercolo-settoriale o trobosfenica. La superficie di occlu-sione è divisa in due parti, una metà anteriore (frontale o mesiale) con tre cuspidi disposte a triangolo (trigonide) e una sezione posteriore, su di un piano inferiore, detta talonide (stadio IV del diagramma di fig. 7.6). Delle cuspidi del trigonide, il protoconide si trova sul lato buccale, mentre il metaconide e il paraconide si trovano sul lato linguale. Sul talonide sí inserisce il protocono del corrispondente dente superiore. Sul bordo del talonide si sviluppano poi una cuspide (entoconide) sul lato linguale e un'al-tra (ipoconide) sul lato buccale. Cosicché il corredo totale di un molare inferiore tipico di un Primate è di 5 cuspidi (figg. 7.8 e 7.9).

Ma nei processi di differenziamento le corone dei molari in-feriori nei Primati tendono ad acquisire una forma quadrituber colare (fig. 7.9). Questa forma caratteristica si è affermata attra verso una graduale riduzione e in ultimo, con la scomparsa del paraconide, unitamente a un graduale cambiamento della posizione del protoconide fino a raggiungere una posizione opposta rispetto al metaconide. Allo stesso tempo il talonide, precedentemente stretto, si allarga e il suo livello si innalza fino a quello del tri-gonide; le due cuspidi, entoconide e ipoconide, si allargano fino a raggiungere la dimensione del protoconide e metaconide. In molti casi, specialmente su M3 si sviluppa, sul margine posteriore del talonide, una quinta cuspide (:ipoconulide). In mezzo a questo, in alcuni Primati ( Gorilla e nel fossile Dryopithecus) si trova anche un setto tubercolare.

Come nei molari superiori, nei molari inferiori frequentemente si riscontrano, specialmente nei Cercopithecidae, cuspidi supple-mentari (stilidi) e creste (lofidi).

I molari inferiori della Tupaia e del Tarsius conservano la primitiva forma trobosfenica, con un trigonide con tre cuspidi e un talonide depresso, con entoconide e ipoconide, e con un ipo-conulide su M3.

160

Hd.

Hd.

Fig. 7.9 Diagramma che illustra come un primitivo molare inferiore tu-bercolo-settoriale, può trasformarsi in un dente quadritubercolato (A). In B è illustrata la riduzione del paraconide e l'innalzamento dell'ento-conide e ipoconide. In C si nota la scomparsa del paraconide mentre le rimanenti cuspidi presentano dimensioni diverse. In D si nota la cuspide supplementare: l'ipoconulide. La veduta laterale dei denti è riprodotta dal lato mesiale. E = entoconide; H = ipoconide; Hd = ipoconulide; M = metaconide; P = protoconide; Pa = paraconide.

La forma estinta di .Necrolernur dell'Eocene e Microchoerus ( Necrolemurinae) non mostrano la presenza di un paraconide e già avevano acquisito una superficie piatta di occlusione con l'in-nalzamento del talonide.

Nei fossili di Parapithecus dell'Oligocene il paraconide è anche completamente scomparso e il molare raggiunge una forma qua-dritubercolare con cuspidi metaconoidi, protoconoidi, entoconoidi e ipoconoidi.

Nei Lemuroidea viventi, i molari inferiori presentano corone laterali complesse e una divisione fra trigonide e talonide. Se vogliamo tracciare il progresso evolutivo dei molari inferiori dalle forme delle prime Notharctinae fino ai generi attuali si possono mettere in evidenza i vari stadi dell'evoluzione del talonide. Sia nelle forme fossili che nei Lemuri attuali è presente un ipoconu-lide sul margine di M3.

Nei Lorisidae i molari inferiori sono quadritubercolati; pro-toconide e metaconide si trovano in posizione opposta l'uno ri-spetto all'altro mentre il talonide presenta un entoconide e un ipoconide più stretto che nei Lemuri.

161

Page 87: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Bucc H y fra i solchi divaricanti della Y e dal metaconide e protoconide che separano anteriormente il gambo della Y dall'ipoconide ed entoconide posteriormente (fig. 7.10).

Da questa cosiddetta struttura a Y del Dryopithecus, attra-verso modificazioni delle solcature con o senza riduzione di cu-spidi, derivano le diverse forme di molari che si riscontrano nelle attuali Antropomorfe e nell'Uomo.

Fig. 7.10 Molare inferiore sinistro di Dryopithecus. La struttura a Y, for-mata da solchi sulla superficie di occlusione, è rappresentata in modo schematico. (Ridisegnato da Robinson e Allin, 1966). Bucc = boccale; Ling = linguale; Mes Mesiale; Dist = distale; Ent = entoconide; Met = metaconide; Pr = protoconide.

L' Amphipithecus di Burma, dell'Eocene superiore, presenta una formula dentaria simile a quella delle Scimmie sudamericane con MI provvisto di trigonide e talonide allo stesso livello.

Nelle Scimmie del Nuovo Mondo tutti i molari inferiori sono quadricuspidati e il paio anteriore generalmente è unito da un lofo trasverso. Il paraconide e l'ipoconide sono assenti, sebbene ne rimangano tracce in Alouatta e Ateles.

I Callithrícidae si differenziano dai Cebidae per non avere il terzo molare (M3).

Le Scimmie del Vecchio Mondo posseggono molari inferiori più specializzati. Hanno una struttura bilofodonte, cioè presen-tano delle creste di smalto che uniscono trasversalmente le coppie di cuspidi, anteriori e posteriori.

I resti fossili dimostrano che la bilofodontia era già presente perlomeno all'inizio del Miocene nelle Scimmie del Vecchio Mondo.

Si trova un ipoconide su M3 in Macaca, Papio, T heropithecus e Cercocebus.

Nei molari delle Dryopithecinae e degli Horninidae è pre-sente un particolare complesso di solchi detto 5Y. Questa parti-colare struttura è formata dall'ipoconide che occupa lo spazio

162

Page 88: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Capitolo ottavo

IL CARIOTIPO DEI PRIMATI E QUELLO DELL'UOMO

1. Generalità.

Abbiamo visto in uno dei primi capitoli che in ciascuna specie animale o vegetale i cromosomi sono costanti per numero e mor-fologia, cosicché il loro assetto complessivo o cariogramma ha grande interesse tassonomico ed evolutivo.

Fino a due decenni fa intraprendere uno studio dettagliato dei cromosomi dei Mammiferi non solo appariva di non facile attuazione ma soprattutto dava risultati notevolmente imprecisi, e quindi poco attendibili, anche per i cromosomi umani. Attual-mente le tecniche del trattamento ipotonico e i metodi delle col-ture in vitro hanno permesso una indagine più accurata dei cro-mosomi somatici, e nuove prospettive si sono aperte per l'uso di queste strutture a fini tassonomici e filogenetici.

Infatti, sebbene non sia possibile studiare i cariotipi degli antenati delle specie attualmente viventi, per mezzo dello studio dei cromosomi è possibile ricostruire le tappe attraverso le quali i cariotipi sono passati durante la loro evoluzione. La similitudine fra i complementi cromosomici di specie diverse, ma affini, viene assunta come indicazione di comune origine, mentre le differenze permettono di ricostruire in qualche modo le tappe attraverso le quali si sono evoluti.

Ai cromosomi infatti, come a tutte le strutture morfologiche, possono essere applicati i principi della similitudine e della dissi-militudine, ma con tre importanti vantaggi:

1. I cromosomi sono strutture relativamente semplici essendo formate fondamentalmente da una lunga catena unilineare di molecole di DNA.

2. I cromosomi sono i vettori dell'informazione ereditaria e devono pertanto avere una morfologia costante in tutti gli indi-

1

165

Page 89: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

vidui della medesima specie in quanto si accoppiano alla meiosi che funziona da filtro per il controllo delle omologie (cfr. p. 17).

3. Si conoscono meccanismi relativamente semplici per mezzo dei quali essi possono cambiare di forma e di numero. Alcune volte questi cambiamenti possono passare il filtro della meiosi ed eventualmente stabilizzarsi in una popolazione.

I cromosomi, pertanto, possono essere considerati ottimi ca-ratteri per ricerche sistematiche e filogenetiche.

È necessario tuttavia precisare che la similitudine fra cromo-somi di specie imparentate non implica necessariamente l'omo-logia di essi. Solo lo studio dei cromosomi meiotici di ibridi inter-specifici può permettere di stabilire le effettive omologie fra com-plementi cromosomici apparentemente simili. Questo tipo di ana-lisi tuttavia per i Primati si trova ancora in uno stadio iniziale e pertanto le relazioni filogenetiche che deduciamo sulla base della similitudine dei loro cromosomi son tutt'altro che provate. Pur con queste limitazioni, i dati raccolti sui cromosomi dei, Primati offrono la possibilità di essere usati per organizzare una siste-matica filogenetica su base 'cromosomica che, sebbene incompleta, offre spunti' molto interessanti.

A parte il dato numerico, il cariotipo di una specie può essere definito per le caratteristiche dimensionali e morfologiche dei sin-goli cromosomi e per il contenuto in DNA in toto del nucleo o del singolo cromosoma.

Qui di seguito presenteremo alcuni tentativi di utilizzazione di queste informazioni per la sistematica delle diverse specie di Primati; infine cercheremo di sintetizzare alcune possibili prospet-tive per futuri sviluppi delle ricerche.

2. _T cromosomi delle Proscimmie.

Le Proscimmie, così eterogenee per la loro remota storia evo-lutiva e per il loro isolamento geografico, sembrano particolar-mente adatte ad un approccio cariologico per lo studio della loro filogenesi. L'organizzazione filogenetica delle specie solita-mente ascritte a questo gruppo è stata oggetto di continue discus-sioni, rispetto all'ordine di classificazione, soprattutto a livello soprafamiliare.

Nella tab. 8.1 sono riportate in sintesi le informazioni cario-logiche relative alle specie finora studiate. I dati sul contenuto

166

TABELLA 8.1 Dati numerici sui cromosomi dei Tupaiidae, Lorisidae, Galagidae, Lemuridae, Indriidae, Daubentoniidae e Tarsiidae.

T az a 2n S-M A x Y

Tupaiidae Tupaia glis T. montana T. minor Urogale everetti

Lorisidae Loris tardigradus Nycticebus coucang N. pygmaeus Arctocebus calabarensis Perodicticus potto

Galagidae Galago senegalensis G. crassicaudatus G. alleni G. demidovii

Lemuridae Microcebus murinus Cheirogaleus major C. medius Phanet furcifer Hapalemur griseus H. simus Lemur catta L. variegatus L. macaco

L. mongoz Lepilemur mustelinus

Indriidae Propithecus diadema P. verreauxi Avahi laniger Indrí indri

Daubentoniidae Daubentonia madagascariensis 30

Tarsiidae Tarsius syrichta 80 T. bancanus 80 14 66

60-62 14-12 44-48 M-S A 52-68 M A

66 44

62 34-38 26-22 S S-A 50-52 48

50 52 20 30 5 ? 62 24 36 S A

36-38 22-24-30 14-12-6 S S-A 62 6-30 54-30 S A-S 40 24 14 S A 58 6 50 S A

66 64 A A 66 64 A A 66 64 S-M ? 48

54-58 10-6 42-50 A A 60 4 54 M A 56 10-14 44-50 S-A A 46 18 26 S A

44-48-52 20-16-4 22-30- A A 58-60 52-54 58-60 4 52-54 A A 22-38

48 48 64 44

Page 90: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Numero fondamentale (N.F ) 2n

nucleare di DNA sono invece riportati nella tab. 8.1V. Sulla base di questi dati, vari tentativi sono stati fatti per stabilire relazioni cariologiche fra le varie specie di questo gruppo, fin dai primi anni in cui si svilupparono le ricerche cariologiche sui Primati, ma a noi interessano questi dati nel loro complesso.

Dalla tab. 8.1 è rilevabile quanto segue: 1. la mancanza di informazioni cariologiche per i generi Dendrogale e Ptilocercus, molto importanti per la loro posizione tassonomica; 2. la incom-pletezza delle informazioni per molti altri generi per i quali si hanno a disposizione solo dati preliminari ( Urogale, Pbaner, Le-pilemur, Propithecus, Avabi, Indri, Daubentonia); 3. la varia-bilità esistente nel numero dei cromosomi nei generi più ampia-mente studiati come Galago e Lemur.

Tralasciando per il momento la variabilità nel numero dei cromosomi dei generi Galago e Lemur, ci si può porre una do-manda più generale: è possibile stabilire una relazione filogenetica fra i vari gruppi di Proscimmie sulla base delle variazioni del numero cromosomico?

La maggior parte delle informazioni sul numero diploide dei cromosomi somatici trascura una delle mutazioni che più di fre-quente avviene e con maggior facilità si afferma: la fusione cen-trica. Questa carenza può in parte essere superata ricorrendo al numero fondamentale di Matthey (N.F.) dato che tale numero prende in considerazione soltanto il numero di braccia. L'uso del numero fondamentale è inoltre basato sull'assunto che la fusione centrica è una delle mutazioni che passano con maggior successo attraverso il filtro della meiosi. Tali mutazioni, infatti, non inter-feriscono con l'organizzazione dell'informazione genetica sui cro-mosomi. Il solo cambiamento che ne risulta è la riduzione o l'incremento nella distribuzione casuale dell'informazione gene-tica nella discendenza. La riduzione o l'incremento di unità cro-mosomiche può rappresentare poi un vantaggio per l'organismo, riducendo o incrementando la variabilità potenziale in una popo-lazione.

I dati sul numero delle braccia (N.F.) per le specie di cui si hanno informazioni è presentato nella tab. 8.11 e da questi dati si può facilmente rilevare che il numero fondamentale di Matthey varia da 70 a 84 nei Tupaiidae; tra 87 e 102 nei Lorisidae; tra 61 e 94 nei Galagidae; tra 62 e 70 nei Lemuridae; è di 54 nei Daubentoniidae e di 94 nei Tarsiidae.

TABELLA 8.11 Numero fondamentale (N.F.) delle Proscimmie,

Numero delle specie descritte rispetto e quelle studiare

Tupaiidae Tupaia 11/6 52-60-62-66-69 70-72-74-76 Dendrogale 2/0 Urogale 1/i 44 84-80 Ptilocercus 1/0

Lorisidae Loris 111 62 93-101 Nycticebus 2/1 50 100 Arctocebus 1/1 52 102 Perodicticus 1/1 62 87

Galagidae Galago 6/2 38-62 61-64-69-75-94

Letnuridae Microcebus 2/1 66 68 Cheirogaleus 2/1 66 68 Pbaner 1/0 48 62 Hapalemur 2/2 54-58 64 Lemur 6/6 44-46-48-52-56-58-60 62-64-66-70 Lepilemur 1/1) 22-38 42-36

Indriidae Propithecus 2.'1 48 Avahi 1k0 64 Indri 1 '0 44

Daubentoniidae Daubentonia 1/0 30 54

Tarsiidae Tarsius 3/2 80 94

Non esistono problemi per la separazione tassonomica, e quindi filogenetica, fra i Tupaiidae, Indriidae, Daubentoniidae e Tarsiidae fra loro e rispetto ai Lorisidae e Lemuridae. Esistono invece delle incertezze tassonomiche, o comunque delle possibili relazioni filogenetiche, fra i Lorisidae, i Galagidae e i Lemu-ridae. I dati sul numero fondamentale possono aiutarci. I Lo-

Genera

70

84

87

'I9 102

61—.94

62

V 70

54

94

168 169

Page 91: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

(segue Tabella 8.111)

Taxa 2n S-M A X

Chiropotes

C. satanas 54 24 30

Cacajao

C. rubicundus 45-46 20-22 24-25

Alouatta

A. villosa 53? A. fusca 50 20 28 S A A. seniculus 44 12-(16) (26)-30 (A) (S-M) A. caraja 52 20 30 S A

Sairniri

S. sciurea 44 28-30-32 10-12-14 S A

Cebus

C. apella 54 26 26 S-A A C. capucinus 52-54 18-20-24-26 26-28-30-34 S-A A C. albifrons 52-54 18-28 32 S A

Ateles

A. paniscus 34 30 2 S-M A A. fusciceps 34 30 2 S S A. belzebuth 34 30 2 M A A. geoffroyi 34 30 2 S-M S-M-A

Brachyteles

B. arachnoides 62 26 34 ? ?

Lagothrix

L. lagotricha 62 30 30 S A

171

TABELLA 8.111 Dati numerici sui cromosomi delle Scimmie Platirrine.

Taza U S-M A X

Callithrix

C. argentata 44 28-32 10-14 S M-A C_ humeralifer 44-46 30-32-34 10-14 S S-M-A C. jacchus 41 46 32-(34) 10-12 S A

Cebuella

C. pygmaea 44 32 10 S A

Leontídeus

L. rosalia 46 32-(34) (10)-12 S M

Saguinus

S. tamarin 46 S. fuscicollis 46 30-34 10-14 S M S. nigricollis 46 30-34 10-14 S M S. mystax 46 30 14 S M S. oedipus 46 30-(34) (10)-14 S-M M-A S. leucopus 46 30 14 S S S. inustus S. bicolor S. martìnsi

Callimico

C. goeldii 48 28-32 16-18 S A

Aotes

A. trivirgatus 49-50-51- 18-20-21-22 18-20-22-25 S-M S-M-A 52-53-54 -30-32-34 -28-30-32

Callicebus

C. cupreus 46-50? 20-22 24-26 S S-M-(A) C. torquatus 20 10 10

Pithecia P. pithecia 46-(48) (18) (28) (S) (S)

170

Page 92: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

risidae infatti si distinguono nettamente dai Lemuridae perché i loro numeri fondamentali sono diversi e in nessun modo sovrap-ponibili (62-70, 87-102).

Particolarmente interessante è la posizione tassonomica dei Galagidae che, per il loro numero fondamentale, rappresentano in qualche modo un ponte fra i Lemuridae e i Lorisidae (hanno infatti un numero fondamentale che varia fra 61 e 94).

La variazione straordinariamente grande nel corredo diploide nelle due specie Galago originariamente studiate ( Galago senega-lensis 2n=38 e Galago crassicaudatus 2n= 62) poteva sugge-rire un meccanismo di diploidia all'origine di questa variazione. Tuttavia le ricerche condotte in seguito hanno dimostrato: a) l'esi- stenza di polimorfismo cromosomico dovuto a fenomeni di fu-sione centrica in Galago senegalensis; b) l'esistenza di un numero cromosomico diploide 2n = 58 in Galago demidovii e 2n = 40 in Galago alleni; c) e infine l'esistenza di un identico contenuto in DNA nelle due specie di Galago a 38 e 62 cromosomi. Pertanto resta definitivamente esclusa l'ipotesi di meccanismi di poliploidia. Questi dati inoltre sostengono la possibilità di una più stretta relazione tassonomica fra Galagidae e Lorisidae e aprono il campo a una estesa indagine sui vantaggi di un tale polimorfismo cromo-somico nei Galagidae.

Il fatto che anche nel genere Lemur (vedi tab. 81) esista un polimorfismo dovuto a meccanismi di fusione centrica, con ori- gine anche di possibili sottospecie, aumenta ancora l'interesse per il vantaggio adattivo di queste variazioni e per il peculiare mecca-nismo di speciazione.

3. I cromosomi delle Scimmie Platirrine.

Il numero diploide dei cromosomi delle Scimmie Platirrine finora studiate varia da 2n=20 a 2n=62 (vedi tab. 8.111).

Le varie specie studiate nell'ambito della famiglia dei Cal-lithricidae presentano una notevole uniformità nel numero (da 44 a 46) e nella morfologia dei cromosomi. Essi rappresentano un gruppo di specie particolarmente compatto. Le variazioni che hanno portato alla diversificazione del numero dei cromosomi possono essere tutte ricondotte a meccanismi di fusione centrica.

La famiglia Cebidae include una decina di generi tutti abba-

stanza ben studiati e presso i quali si ha una enorme variabilità del numero dei cromosomi da 2n =20 a 2n =62.

Fra Cebidae e Callithricidae vi è Callimico goeldii, unico rap-presentante dei Callimiconidae, con 48 cromosomi.

In che modo si è realizzata questa eterogeneità nel numero dei cromosomi?

La costanza nel contenuto nucleare in DNA indica che queste variazioni nel numero dei cromosomi (2n=20—>62) sono da im-putarsi solamente a rimaneggiamenti del materiale cromosomico: meccanismi quindi di fusione o fissione centrica. Fra questi tut-tavia è più facile pensare a meccanismi di fusione. Il cariotipo ancestrale comune all'intero subordine doveva avere quindi più di 60 cromosomi.

Si può poi pensare che una riduzione indipendente del nu-mero dei cromosomi a 46 e 48 rispettivamente sia avvenuta nelle famiglie Callithricidae e Callimiconidae. Nei Cebidae, invece, probabilmente sono avvenuti più processi riduttivi. Callicebi-nae, Aotinae, Pithecinae e forse Saimirinae ebbero una comune riduzione del numero dei cromosomi inizialmente a 54. Riduzioni successive mediante fusioni centriche avrebbero poi portato Cal-licebus a 50, 46 e 20 cromosomi; Aotes ad un polimorfismo cro-mosomico tuttora evidente coi numeri da 54 a 48 cromosomi; Pithecia e Cacajao a 46 cromosomi; Alouatta a 44 e Ateles e Brachyteles a 34. La fig. 8.1 cerca di illustrare questo possibile processo e le possibili incertezze. Le applicazioni delle tecniche di bandeggiamento dei cromosomi potranno in futuro migliorare tale interpretazione.

Tuttavia questa possibile filogenesi dei Primati del Nuovo Mondo si basa sull'assunto di un'origine unica dell'intero grup-po, assunto questo che si basa sulla teoria che le Scimmie del Sud-America si siano originate da un gruppo di Proscimmie nor-damericane, gli Omomyidae, alcuni rappresentanti del quale avreb-bero migrato dal Nord al Sud-America. Tuttavia la recente revi-sione della teoria della deriva dei continenti permette di ipo-tizzare una possibile migrazione di alcuni Primati primitivi diret-tamente dall'Africa al Sud-America, verso la fine dell'Eocene. Questa ipotesi potrebbe stimolare altre interpretazioni per meglio comprendere le differenze cariologiche in questo gruppo.

172 173

Page 93: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

CALLETHRICIDAE

>z! {3), -fe 2 a d ....E t

44 44 E Si - -1

46 46 46

CALMI - CONDAE 5 sE

(5)'

a- (44).44 44

6 46 12) 48

I(48) ce 4 22

50 0 g_ 59

51 2

53 54 54

52 1E o

52 52 Il 53

54(54)

R

c'cì 62

34 62

c. CEB1DAE 8 o 20

Fig. 8.1 Rappresentazione schematica di una possibile filogenesi del ca-riotipo nei Platirrini. I numeri racchiusi in un circolo nei punti di biforcazione dei rami indicano gli ipotetici numeri cromosomici delle forme ancestrali. I numeri cromosomici delle forme viventi appartenenti allo stesso genere sono incolonnati, preceduti dal nome del genere. Questa disposizione non indica necessariamente che gli attuali numeri cromosomici si siano originati direttamente uno dall'altro secondo l'or-dine riportato nella figura. I numeri cromosomici riportati in parentesi non sono stati finora riscontrati, ma potrebbero esistere. Per dare un'idea del grado di riduzione nel numero cromosomico nei diversi generi, i numeri diploidi delle forme attuali sono disposti in ordine decrescente. (Da De Boer).

174

TABELLA 8.1V Contenuto nucleare in DNA in spede diverse di Pri-mati. (Da Manfredi-Romanini, 1972).

Specie DNA (gg) Specie DNA

(119)

Lemux carta 5.91 Cercocebus galeritus 8.11 Galago senegalensis 6.78 Macaca, mulatta 5.39 Tarsius syrichta 9.19 Papio hamadryas 6.05 Cebuella pygmaea 5.97 Colobus polykomos 6.18 Cebus albifrons 6.83 Nasalis larvatus 7.41 Saimiri sciureus 5.65 Hylobates lar 5.02 Alouatta palliata 6.22 Symphalangus syndactilus 5.11 Ateles geoffroyi 5.57 Pongo pygmaeus 7.03 Cercopithecus aethiops 5.05 Pan troglodytes 6.60 Cercopithecus cephus 6.06 Gorilla gorilla - 6.12

Homo sapiens 6.00

4. I cromosomi delle Scimmie Catarrine.

I cromosomi delle Scimmie Catarrine ci interessano di più perché questo gruppo è più strettamente imparentato all'Uomo. Nella tab. 8.V sono sintetizzati i dati numerici finora noti per í cromosomi dei diversi generi.

Il numero dei cromosomi in questo gruppo varia da 2n=42 a 2n=72, con un massimo di frequenze per il numero 42.

Tutte le specie del genere Macaca presentano un numero diploide di cromosomi pari a 42. Le differenze fra il cariotipo delle diverse specie sono di piccola entità e sono riconducibili a riarrangiamenti strutturali come inversioni e traslocazioni. Il me-desimo numero di 2n =42 cromosomi è caratteristico dei generi Papio, Theropithecus e Cercocebus. Nel genere Papio si hanno piccole differenze fra i cromosomi delle diverse specie, che, come nel caso di Macaca, possono essere ricondotte a variazioni struttu-rali del tipo della traslocazione e dell'inversione. Lo stesso av-viene per le diverse specie del genere Cercocebus. Il genere Thero-pithecus, rappresentato dalla sola specie T. gelarla, presenta un cariotipo morfologicamente molto simile a quello delle varie specie del genere Papio (fig. 8.2).

In tutte le specie dei generi Macaca, Papio, Cercocebus e Theropithecus, il cromosoma Y è molto piccolo e, quando risulta

175

Page 94: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

TABELLA 8.V Dati numerici sui cromosomi delle Scimmie Catarrine. (segue Tabella 8.V)

T 2 à a

Macaca

2n S-M A X

M. silenus 42 40 S S

M. nigra 42 40 S S

M. sylvana 42 40 S S

M. arctoides 42 40 S S

M. maura 42 40 S S

M. sinica 42 40 S S

M. radiata 42 40 S S

M. cyclopís 42 40 S S

M. mulatta 42 40 S S M. fuscata 42 40 S S M. nemestrina 42 40 S S

M. fascícularis 42 40 S S M. assamensis 42 40 S S

Papio P. hamadryas 42 40 S S P. ursinus 42 40 S S P. anubis 42 40 S S P. cynocephalus 42 40 S S P. papio 42 40 S S P. sphinx 42 40 S S P. leucophaeus 42 40 S S

Theropithecus T. gelada 42 40 S S

Cercocebus C. galeritus 42 40 S S C. torquatus 42 40 S S C. aterrimus 42 40 S S C. albigena 42 40 S S

Cercopithecus C. aethiops 60 34 24 S A C. cynosuros 60 36 22 S A C. sabaeus 60 C. cephus 66 46 18 S A C. diana 58 42 14 S A C. l'hoesti 58-60 48 14-16 S A C. preussi 66 C. mona 66-68 46 18-20 S S. A C. campbelli 66-68 46 18-20 S S, A C. denti 66 C. petaurista 66

Taxa 2n S-M A X

C. neglectus 58-62 44 46 12-14 S S C. nictitans 66-70 46 18-22 S A C. ascanius 66 C. mitis 72 44-52 22 S A, S C. nigroviridis 48 46 S A C. talapoin 54 38 14 S A C. hamiyní 64 50 12 S A

Erytrocebus E. patas 54 36 16 S A, S

Presbytis P. entellus 44 40 2 S A P. senex 44 40 2 S A P. obscurus 44 40 2 S A

Pygathrix P. nemaeus 44 42 S A

Nasalis N. larvatus 48 46 S ?

Colobus C. polykomos 44 42 S ? C. badius 44 42 C. kírkii. 44 42 S A

Hylobates H. lar 44 42 S S H. agilis 44 42 S S H. moloch 44 42 S S H. concolor 52 44 6 S A H. hoolock 44 42 S S

Symphalangus S. syndactilus 50 46 2 S S

Pongo P. pygmaeus 48 26 20 S S

Pan P. troglodytes 48 34 12 S A P. paniscus 48 34 12 S A

Gorilla G. gorilla 48 30 16 S S

Homo H. sapiens 46 34 10 S A

Page 95: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

15 101 6A Ki li §A

g'd Ba BR XX in( 8%

14 19 20 X Y

Macaca assomensis

possibile individuare il centromero, appare metacentrico. Caratte-ristica comune a tutte queste specie è inoltre quella dí possedere un cromosoma di media dimensione, con un'ampia regione acro-matica su una delle braccia, sormontato da un satellite lineare.

Il comune corredo cromosomico lascia supporre che questi quattro generi della famiglia Cercopitbecidae abbiano avuto un'ori-gine comune. Il successivo isolamento geografico ed ecologico avrebbe poi portato a minime differenziazioni nei cariotipi.

Le similitudini cariologiche sono poi convalidate in modo so-

stanziale dalla continuità idioplasmatica, tuttora esistente fra le

TABELLA 8.VI Numero diploide dei cromosomi nelle diverse specie del genere Cercopithecus.

Specie 48 54 56 58 60 62 64 66 68 70 72

C. nigroviridis C. paras C. talapoin C. diana C. l'hoesti C. neglectus C. aethiops C. cephus C. ascanius C. mona C. nictitans C. rnitis

U Itt ié Alt 53 il 31i Ai r 11 agi Ah Ah 1 13

ii 211 lx xx 14 19 20 X Y

Popio homadryas

il D n n 11 1ú U dA t?

(51 X3 lig ijt XY

Theropithecvs gelado

il i! II hi XI u ié it 13

31) SA XX si n sa 14 19 Cercocebus torquotus ci

Fig. 8.2 Cariotipi di Papitnae.

178

varie specie specie di questo genere. Infatti sono stati frequentemente descritti in cattività ibridi fra individui di differenti specie di questo gruppo, mentre ciò non risulta per gli altri (fig. 8.3). La presenza di ibridi è un'informazione di estrema importanza per il sistematico in quanto dimostra l'esistenza di omogenità gene-tica fra due specie. Se poi questi ibridi risultano fertili è dimo-strata anche l'identità completa o pressoché completa nell'orga-nizzazione dell'informazione genetica sui cromosomi.

Le specie del genere Cercopithecus, fra le quali deve essere incluso anche l'Erytbrocebus, presentano invece un numero di cromosomi variabile e compreso fra 48 e 72 (fig. 8.4). Come si vede nella tab. 8.VI, talvolta in una medesima specie si sono riscontrati più numeri cromosomici (C. neglectus, C. nictitans).

Si potrebbe pensare che questa variabilità numerica dei cro-mosomi sia dovuta a meccanismi di fusione centrica avvenuti a più riprese partendo da una specie a numero cromosomico più elevato, cosa che abbiamo già rilevato a proposito di alcune Proscimmie. Tuttavia questa ipotesi, per essere giustificata, ri-chiede come condizioni: a) che il numero dei cromosomi acrocen-trici sia in relazione con il numero totale dei cromosomi; b) che la lunghezza totale del genoma si mantenga costante. Entrambe queste condizioni però non si verificano. Infatti il numero totale dei cromosomi non è assolutamente in rapporto col numero dei

179

t* 4 i

20 XY

Page 96: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Cercocebus torquatus R hamadryas P papi° • doguera • cynocephalus

comatus 7ucophaeus • sphinx

M. niger M. mauro M. irus

r M. solco. M. radiata Al. nernestnna M. $110170.5 M ~latta M. specioso M sylvana

44

d<01 Mac a c Pa pio

fl

O

C. t

o.:

Y

A A 28 29

fl Ibridi interspecifici O Ibridi intergenetici 1- ig. 8.3 Rappresentazione grafica dei dati ibridologici noti nella letteratura

peri Cercopithecidae.

il Wh Ai hA 3K él AA Ai Al

53 XX 8X sx xis 14 19

dé Oh hd A dé des ?4, a. 20 25 26 XY Cercap'thecus tolopoln

MI A§ N ón n6 il n'A Al 8s At lilp1881 xx xa xx xx

Òrì AD Aò bit en AA 18

Cercopithecus aethiops 01

ig 4A)Alin Né la in àlí AVi 13

kr:« 3X ZX 10 xx xx 23

Ah 1(11 Ah MI ito 24 31 32 XX Cercopithecus mona

Fig. 8.4 Cariotipi oli Cercopithecinae.

16 Mi AS 13

cromosomi acrocentrici e la lunghezza totale del genoma è diretta-mente proporzionale al numero dei cromosomi. La presenza, inoltre, in tutte le specie del genere Cercopithecus, come in tutte le altre Catarrine (Antropoidi e Uomo esclusi), di una sola coppia di cromosomi con regione acromatica estesa, rende inverosimile la postulazione di un fenomeno di poliploidia avvenuto in un antenato comune a tutte le specie del genere Cercopithecus. Ap-pare eventualmente più plausibile l'ipotesi che siano avvenuti fenomeni di reduplicazione di alcuni cromosomi di volta ín volta diversi, ma che non avrebbero mai coinvolto il cromosoma con regione acromatica. L'analisi morfologica dettagliata dei cromo-

180

somi somatici e ancor più lo studio dei cromosomi meiotici delle specie suddette, dovrebbero chiarire il modo d'origine delle varia-zioni in questo gruppo dei Primati e far luce sulla cronistoria evolutiva di questo genere, che tuttora si presenta molto contro-versa.

Ma a parte l'interesse sistematico ed evolutivo per il gruppo in sé, la chiarificazione del modo di insorgere di queste varia-zioni cariologiche potrebbe aiutarci a capire i meccanismi che permettono la differenziazione del cariotipo di una specie. Tali ricerche dovrebbero essere condotte con urgenza prima che i

181

Page 97: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

11 Fil Si n a 8It gx 12

13 N 88 Si id xx ■• it )15

13 21 XY Presbytis obscurus

Killigivichi kin ), SS kag

13 20 Colobus polymmos 9

(la 21

waih 409 XX

2 15 23 Nasalis larvatusri)

18 la Ma alt xx 1 8

) i IS lIng alt 24

sfit 21 XY

YIC I% xx tA Xi 17 21

Al AA 22 23 Gordla ci

XY

1111 XX XX nx 18 21

*IO 541 22 23 Pongo pygrnaeus d

h, XY

Fig. 8.6 Cariotipi dell'Uomo e delle Antropomorfe.

AI I) 21 22 Homo sapiens d

11{ 1(1)} 88 SK 5

hg 1(5 Ah Mi 12 6 I

Mi Ai hì h6 Ad 12 16

Kn ) xa 17 21

L Ah Al. XY 22 23

Pan trogladyies d XY

XI M ?III 31 il 6 10

tifi riA Al Ah Ah AA 11 17

LH% &I ah lig

9 8t 31 gg Di 18 Rit )9t Hylobates aqi /is d'

Fig. 8.5 Cariotipi di Colobidae e di Hylobatidae.

Cercopíteci si estinguano a causa della distruzione dell'habitat provocato dall'estendersi della cosiddetta civilizzazione nelle fore-ste africane.

Nessun dato si ha per i generi Rhinopithecus e Simias, specie ormai estremamente rare, ma capaci forse di fornire importanti informazioni cariologiche. Pygathrix ha 44 cromosomi tutti meta-centrici o submetacentrici.

182

Il cariotipo di Cotobus (C. polykomos), 2n=44, ha molte caratteristiche in comune con quello di Presbytis ( P. obscurus), presentando ugual numero di cromosomi, alcuni dei quali appaiono morfologicamente simili fra loro (fig. 8.5). Il genere Nasalis pre-senta un numero diploide 2n= 48 cromosomi, la morfologia dei quali è molto simile a quella dei generi Cotobus e Presbytis_

Tutte le specie del genere Hylobates finora studiate presen-tano un numero diploide dí 2n=44 cromosomi, e cromosomi fra loro molto simili. Il genere Symphalangus invece presenta un numero diploide di 2n = 50 cromosomi, e morfologia generale abbastanza simile a quelli di Hylobates. Il genere Nomascus (2n=52) ha un cariotipo in generale simile a quello di Hylobates.

Questi dati e altri, di cui diremo appresso, danno adito a critiche sull'organizzazione tassonomica tradizionale che pone i

183

Page 98: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Colobidae tra i Cercopithecoidea e gli Hylobatidae fra gli Homi-noidea.

Il numero e la morfologia dei cromosomi degli Antropoidi e dell'Uomo sono ormai noti in dettaglio. Il numero dei cromo-somi delle tre specie di Antropoidi viventi è 48. L'Uomo ha 46 cromosomi.

L'esame comparativo dei cromosomi delle tre Antropomorfe e dell'Uomo ha permesso di ricostruire, con probabile verosimi-glianza, molte delle tappe che hanno condotto alla differenziazione dei cariotipi e alla formazione del cariotipo umano. Vi sono in-fatti diversi cromosomi molto simili, per misura e per aspetto, fra le diverse specie, che permettono di stabilire delle relazioni indicative. 11 cariotipo dell'Orango (Pongo pygmaeus) presenta 12 paia di cromosomi submetacentrici e 11 paia di acrocentrici o subacrocentrici. Il Gorilla e lo Scimpanzé ( Gorilla gorilla, Pan troglodytes) presentano entrambi un cariotipo formato da 10 pala di submetacentrici, 5 paia di metacentrici e 8 paia di cromosomi acrocentrici o subacrocentrici (fig. 8.6).

Il cariotipo umano, com'è noto, è caratterizzato da 13 paia di cromosomi submetacentrici, da 4 paia di metacentrici e da 5 paia di acrocentrici o subacrocentrici (fig. 8.6). Ma a parte queste classificazioni grossolane della morfologia dei cromosomi, anche a un'osservazione sommaria, facendo astrazione dal differente grado di spiralizzazione, appaiono evidenti le similitudini fra alcuni cromosomi dell'Uomo con alcuni di quelli dello Scimpanzé, del Gorilla e dell'Orango.

Con una certa approssimazione si può ritenere che, durante l'evoluzione di queste specie, alcuni cromosomi non siano andati soggetti a variazioni; avrebbero subito tuttalpiù piccole muta-zioni che non ne avrebbero alterato le dimensioni e la morfologia (inversioni paracentriche e piccole traslocazioni). Gli altri cro-mosomi, invece, possono aver subìto riarrangiamenti di maggior entità.

Un esempio di riarrangiamento cromosomico, dovuto proba-bilmente a una inversione paracentrica, è quello che ha condotto al differenziamento del cariotipo delle due specie di Scimpanzé (Pan troglodytes e Pan paniscus). Queste due specie sembrano infatti differenziarsi per almeno un paio di cromosomi: il 120 ed il 22°, che in Pan paniscus risultano un po' più metacentrici che in Pan troglodytes.

184

5. Revisione della sistematica delle Catarrine sulla base dei dati cariologici e interpretazione filogenetica di questi ultimi.

I dati prima esposti sul numero e la morfologia dei cromo-somi delle Catarrine, inducono a intraprendere una revisione dei raggruppamenti tassonomici specialmente a livello sopragenerico.

I generi Macaca, Papio, Theropíthecus, e Cercocebus per aver cariotipo pressoché identico e produrre ibridi fra loro devono essere separati dalle specie appartenenti al genere Cercopithecus e raggruppati in una differente sottofamiglia alla quale potrebbe essere dato il nome di Papinae, mentre il nome dí Cercopitbe-cinae potrebbe essere lasciato alle sole specie appartenenti al genere Cercopithecus.

Ancora niente di definitivo può essere detto per le Colobinae benché appaiano un gruppo cariologicamente abbastanza omo-geneo.

I tre generi in cui si raggruppano i Gibboni ( Hylobates, Sym-phalangus, e Nomascus) devono essere rimossi dalla superfamiglia Hominoidea ed inclusi eventualmente nella superfamiglia dei Cercopithecoidea e costituire una famiglia a sé stante.

La superfamiglia Hominoidea deve essere ristretta alle Antro-pomorfe (Pongo, Gorilla, Pan) e all'Uomo. Fra questi l'Uomo è chiaramente distinguibile per il numero dei cromosomi e può essere classificato nella sottofamiglia a sé degli Homininae, men-tre le tre Antropomorfe costituiranno la sottofamiglia Ponginae.

Nella sottofamiglia Ponginae, tuttavia, il cariotipo dell'Oran-go può essere chiaramente distinto da quello del Gorilla e dello Scimpanzé. Questa differenza può essere tenuta in conside-razione a livello sopragenerico per distinguere l'Orango dalle Antropomorfe africane. L'Antropomorfa il cui cariotipo appare più simile a quello dell'Uomo è lo Scimpanzé.

Per quanto concerne l'interpretazione filogenetica di questi dati, conviene ricordare di nuovo che le variazioni morfologiche nei cromosomi delle differenti specie sono il risultato di differenti meccanismi, i più comuni dei quali sono l'inversione e la traslo-cazione. Da un punto di vista filetico, tuttavia, le variazioni del numero dei cromosomi sono più facilmente apprezzabili. I mec-canismi che conducono a queste variazioni numeriche sono, come si è detto, la fusione centrica, la fissione centrica e, ove possibile, la polisemia.

Quale di questi meccanismi è responsabile delle variazioni

185

Page 99: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Fig. 8.7 Possibile relazione fra i diversi generi di Primati del Vecchio Mondo.

numeriche in questo gruppo di specie? Qual era il numero cro-mosomico originario dell'antenato comune a tutte le Scimmie del Vecchio Mondo, ammesso che vi sia stato un solo antenato comune? I numeri cromosomici nelle cellule somatiche delle specie viventi dei Primati del Vecchio Mondo variano da 42 a 72, ma la maggior parte della variabilità è propria delle diverse specie del genere Cercopithecus (da 48 a 72). Incerta è ancora l'inter-pretazione del modo di originarsi di questa ampia variazione fra le differenti specie di un singolo genere, che d'altra parte è molto omogeneo da un punto di vista anatomico e fisiologico. È. pertanto impossibile formulare un'ipotesi sul momento in cui questo gruppo si è separato dalle altre specie di Primati del Vecchio Mondo o sul gruppo di Cercopithecoideae con il quale è più strettamente correlato.

Nelle altre specie di Scimmie del Vecchio Mondo il numero dei cromosomi varia da 42 a 52. Il numero originario dei cro-mosomi del possibile comune antenato alle Scimmie del Vecchio Mondo deve probabilmente essere ricercato nell'ambito di que-

186

ste dieci paia di cromosomi. Il fatto che gruppi di generi tasso-nomicamente diversi e filogeneticamente antichi come Presbytis, Colobus, Pygathrix e Hylobates abbiano 44 cromosomi potrebbe suggerire che questo sia stato il numero dei cromosomi delle specie che, nell'Eocene medio, circa 50 milioni di anni fa, dette origine perlomeno alle attuali Papinae (42), Colobinae (44) e Hylobatinae (44). Una fusione centrica fra due paia di cromosomi acrocentrici o una doppia traslocazione potrebbe essere stata re-sponsabile della riduzione da 44 a 42. Per interpretare il numero cromosomico 48 in Nasalis, 50 in Symphalangus e 52 in Nomascus bisogna ricorrere a meccanismi di fissione centrica o di polisomia.

Probabilmente per numero e morfologia dei cromosomi le Antropomorfe e l'Uomo non sono direttamente connessi con le specie prima menzionate. La morfologia generale del loro cario-tipo è molto diversa e se c'è stato un comune antenato deve essere stato in un tempo molto lontano.

Da un punto di vista cariologico pertanto possiamo distinguere tre separate linee evolutive nell'ambito delle Scimmie Catarrine (fig. 8.7): una comprendente il gruppo delle specie di Cerco-píthecus; un'altra i vari generi Macaca, Papio, Theropithecus, Cercocebus, Pygathrix, Presbytis, Colobus, Symphalangus, Hylo-bates e Nasalis; e l'ultima comprendente le tre forme di Antro-pomorfe e l'Uomo.

La connessione fra queste tre linee evolutive è mal definita e discutibile. Ma forse il cromosoma marcato può servire da chiave per stabilire una correlazione fra queste tre linee evolutive. In questo cromosoma infatti la omologia delle posizioni acroma-tiche fra le diverse specie è verosimile poiché essa risulta essere la regione nucleolo organizzatrice.

Un paio di cromosomi con regione acromatica è presente in tutte le specie di Cercopitbecinae, Papinae, Colobinae e in quasi tutte Ie Hylobatinae ed è invece assente nelle Ponginae e nel-l'Uomo.

Il fatto che questa regione acromatica è importante come nucleolo organizzatrice (e pertanto deve essere una caratteristica costante nella cellula) stimola a cercare la sua possibile localizza-zione nelle specie che apparentemente sono prive di questa re-gione e di conseguenza a stabilire possibili omologie fra i cromo-somi coinvolti.

Nel cariotipo umano le regioni nucleolo organizzatrici sem-brano essere localizzate nelle terminazioni acromatiche dei cro-

187

Page 100: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

1 2 3 6

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gruppo G

gruppo D Fig. 8.8. Ipotetiche relazioni fra i cosiddetti cromosomi marcati dei Pri-

mati del Vecchio Mondo i. Cercopitbecus, 2, Papinae, 3. Hylobates, 4. Syntpbatangus, 5. Nomascus, 6. Hominoidea.

mosomi acrocentrici 13, 15 e 21 e in cromosomi similari nelle Antropomorfe. Una comparazione diretta del cosiddetto cromo-soma marcato dei Cercopitheroidea con questi cromosomi degli Hominoidea può sembrare avventato, ma a una più accurata osservazione può risultare plausibile (fig. 8.8) anche perché po-trebbe spiegare la possibile assenza di satelliti nel cromosoma acrocentrico di Symphalangus e la presenza dei tre cromosomi piccoli acrocentrici in Nomascus. É possibile, come si diceva, che questo cromosoma sia la chiave per stabilire possibili relazioni fra i vari gruppi, ma ulteriori ricerche dovranno confermare que-sta ipotesi.

6. L'origine del caríotipo umano.

La comparazione a livello morfologico dei cariotipi delle An-tropomorfe con quello dell'Uomo, mette immediatamente in evi-denza che il - cariotipo dell'Orango è il più diverso, quello dello Scimpanzé il più simile a quello dell'Uomo. Anzi si può affermare che il cariotìpo dello Scimpanzé, a prima vista, è difficilmente distinguibile da quello dell'Uomo. Le possibili omologie di queste strutture fra le Antropomorfe e l'Uomo possono essere studiate in modi diversi. Anche la semplice comparazione morfologica può dare un'idea approssimativa delle più grossolane differenze (per esempio: differente numero di metacentrici, submetacentricì o acrocentrici, differenti dimensioni, ecc.).

Attualmente tuttavia le tecniche si sono tanto raffinate da

Fig, 8.9 I cariotipi dell'Uomo e dello Scimpanzé trattati con mostarda di quinacrina e le relative curve fotodensimetriche di assorbimento. Alcune di queste curve sono assai simili, altre meno o solo per alcune parti, altre sono assolutamente diverse.

188

Page 101: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Pa I 7 Incremento Bande G 13, 14, 22, Y

permettere la comparazione delle caratteristiche di singoli cro-mosomi dopo speciali trattamenti come quelli che producono bande (quinacrina, trattamenti enzimatici, agenti denaturanti di-versi, ecc.) (fig. 8.9).

In generale risulta che cromosomi come 1'1, 3, 11, 12, 14 e l'X dello Scimpanzé e del Gorilla posseggono un tipo di bandeg-giamento simile a quello dei corrispondenti cromosomi umani. I cromosomi 6, 8, 10, e 13 dello Scimpanzé hanno pure un tipo di bandeggiamento molto simile a quello dei cromosomi umani omologhi. Morfologicamente il cromosoma 2 dello Scimpanzé appare simile a quello umano, ma il tipo di bandeggiamento è chiaramente diverso. La medesima cosa è vera per í cromosomi 4, 5, 15, 16, 17, 18, 19 e per l'Y. Essi non sembrano avere una controparte nel cariotipo umano. É possibile che qualche cambia-mento strutturale sia avvenuto in questi cromosomi durante la divergenza fra l'Uomo e lo Scimpanzé.

Pongo %l Pongo (b) Gorilla Pan t. Pan p. Homo s.

NOR 15,14 NOR 1 Pe I • De 14 ReI 8, 10,

Pa 1 16

ex 5,17 Pe I 4 Re I • De 15

Dupl. 13?

Pe i 2p

Pe l 9 Pe I 5 Pe I 4

- satellite 11 *assoc. 5 Me C

Pe 1 2g Pe 112 Pe I 16 Bande terminali C

- NOR 15

Pe 1 7 Pe I 7 Pe 1 3 Origine di O . bande brillanti Inclusa la Y Perdita di 2 NOR

Origine degli Acrocentric) Siti multipli di DNA Satelliti I • IV 7 Pe I 5 Pa I 6 %aloni

Fig. 8.10 Possibile filogenesi degli Hominoiclea, su base cariologica. Non c'è riferimento alcuno alla scala dei tempi. Cx=camhiamento complesso; De = delezione; Pa=inversione paracentrica; Pc = inversione pericentrica; 5-MeC=5-metilcitosina.

Ma la differenza più appariscente fra il cariotipo dell'Uomo e quello delle Antropomorfe sta nel numero di cromosomi. L'Uomo ha 23 paia di cromosomi, le Antropomorfe 24.

L'ipotesi più verosimile per spiegare queste differenze nel numero dei cromosomi è quella di una fusione centrica fra due cromosomi acrocentrici che potrebbe essere avvenuta in un « Pre-ominide ancestrale » (fig. 8.10) producendo una importante di-stinzione fra il cariotipo delle Antropomorfe e quello dell'Uomo.

La similitudine fra il tipo di bandeggiamento di due cromo-somi del gruppo G dello Scimpanzé con il cromosoma 2 del-l'Uomo ha avvalorato l'ipotesi formulata nel 1962 su sole basi morfologiche dall'autore che questo sia il cromosoma originatosi nell'Uomo per mezzo di una fusione centrica fra due cromosomi di tipo G in un antenato dell'Uomo.

Ma in che modo e quando una tale trasformazione può essere avvenuta e può avere differenziato così. profondamente il cario-tipo umano da quello delle Antropomorfe? Le frequenze di tali mutazioni non sono rarissime. L'esame del cariotipo di popola-zioni umane attuali ha messo in evidenza casi di fusione centrica fra due cromosomi acrocentrici, con la formazione di un cariotipo di 45 cromosomi. Se due di questi individui si accoppiassero, si otterrebbero figli con 44 cromosomi, probabilmente perfettamente normali. Ma in una popolazione attuale, questo è difficile che avvenga. Individui con cariotipo dí 45 cromosomi per fusione centrica sono piuttosto rari e una mutazione del genere viene dispersa facilmente.

Per comprendere come questo possa essersi realizzato in un preominide ancestrale, va considerata innanzitutto la dimensione demografica dei nuclei comunitari che costituivano le popolazioni d'allora. Essi non dovevano superare la ventina di individui. Erano clan familiari molto spesso dominati da un solo maschio che godeva del dominio assoluto sulle femmine del gruppo. Nep-pure doveva essere infrequente che alcuni maschi si accoppiassero con le proprie figlie. La leadership in un gruppo di Scimpanzé infatti sembra durare anche più di dieci anni e la maturità ses-suale della femmina è raggiunta a otto anni.

Un maschio con una tale mutazione, cioè con un cariotipo di 47 cromosomi, aveva quindi due possibilità di affermare questo nuovo cariotipo completando la riduzione del numero dei cromo-somi in 46: quella di accoppiarsi con le varie femmine del

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gruppo, producendo così prole per metà con 47 cromosomi, e dando quindi alla generazione successiva la possibilità di com-pletare questa riduzione; oppure quella di accoppiarsi con le sue figlie mediante una sorta dí reincrocio. In questo caso il processo di riduzione del cariotipo sarebbe stato ancora più rapido e potrebbe essere avvenuto nel volgere di una decade. In ogni caso non avrebbe coinvolto più di due generazioni, al massimo quindi trent'anni, considerando il più breve tempo di acquisizione della maturità sessuale in questi nostri antenati.

La possibilità di affermazione di una tale mutazione è ovvia-mente condizionata, oltre che dall'esistenza di piccole comunità riproduttive, anche dal potere intrinseco di affermazione che questa mutazione deve aver posseduto.

Ovviamente poco si può dire a questo livello, tuttavia il blocco di più geni in un medesimo cromosoma può aver rappre-sentato un qualche vantaggio selettivo ín un certo momento del- l'evoluzione degli Ominidi (fig. 8.11).

Ma quando è avvenuto questo evento? È ancora impossibile dirlo con esattezza, ma stime preliminari basate sulla frequenza di mutazioni cromosomiche in popolazioni naturali e sul tempo di generazione, permettono di individuare in 5-6 milioni di anni il tempo di separazione del phylum umano; 200-250 mila gene-razioni separerebbero quindi l'Uomo dall'antenato comune alle Antropomorfe africane.

1. Generalità.

Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di individuare i mec-canismi per mezzo dei quali le varie specie di Primati possono essersi differenziate da possibili comuni capostipiti. Non abbiamo però portato finora nessuna prova concreta a sostegno di questa tesi. Abbiamo visto come possono insorgere e affermarsi piccole variazioni o come possono stabilirsi relazioni sistematiche fra gruppi anche distanziati di specie, ma non abbiamo ancora portato prove della reale esistenza di forme intermedie, di « anelli di con-giunzione », fra di esse. L'ordine classificatorio proposto nel cap. IV non è arbitrario; è basato su caratteri significativi di tipo anatomico, funzionale e genetico che permettono di consi-derare tale ordinamento come naturale, cioè basato sulle reali somiglianze fra i diversi gruppi di Primati.

Le prime informazioni che ci permettono di stabilire relazioni fra gli organismi si basano sulla morfologia comparata. Le somi-glianze denunciano una parentela, una derivazione comune, una filiazione da comuni antenati. Le forme più vicine del sistema na-turale presentano anche maggiori somiglianze, come maggiore somiglianza vi è fra nonni, genitori, figli, e nipoti che possiedono un patrimonio ereditario più o meno comune. Tanto maggiore è la somiglianza quanto più stretta è la consanguineità.

Un sistema naturale completo, comprendente cioè anche le forme fossili, corrisponde a un albero genealogico; se fosse per-fetto dovrebbe informarci dettagliatamente del corso seguito dal-l'evoluzione in un certo gruppo di viventi, Solo con i reperti fossili l'ordinamento tassonomico diviene filetico. Le prove incon-futabili dell'evoluzione sono quindi date dai reperti fossili, cioè

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Capitolo nono

I DATI PALEONTOLOGICI COME PROVE DELLA DIFFERENZIAZIONE DELLA SPECIE

Page 103: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

dallo studio dei resti degli esseri che vissero in tempi remoti e le cui spoglie possiamo trovare inglobate nelle rocce sedimentarie.

Purtroppo la documentazione di questi resti non è sempre completa, anzi molto spesso è frammentaria e solo per brevi tratti filetici si ha la possibilità di una seriazione completa. Molto spesso non mancano solo singoli « anelli di congiunzione », ma tratti interi di catene.

La paleontologia, da sola, non può dare una dimostrazione di come sia avvenuta l'evoluzione, ma inconfutabilmente dimostra che l'evoluzione c'è stata, non foss'altro perché c'informa che gli esseri viventi del passato erano diversi dagli attuali, tanto più diversi quanto più indietro si risale nei tempi. Ma per una cor-retta interpretazione dei resti fossili si devono adottare molte cautele.

2. Problemi e cautele nella comparazione dei resti fossili.

Nella comparazione dei caratteri morfologici è innanzitutto necessario tenere nella dovuta considerazione la loro complessità. Senza dubbio molte delle divergenze fra autori diversi nel con-siderare le relazioni intercorrenti fra gli Ominidi e fra gli altri Primati sono dovute alla differente valutazione dei singoli ca-ratteri. È impossibile affermare con certezza che un singolo det-taglio strutturale, o una misura, possa di per sé essere accettata come prova che un certo resto fossile appartenga a un Ominide e non a un altro Primate.

La sola presenza di una spazio (diastema) fra il canino e l'in-cisivo nella mascella non è di per sé una prova sufficiente per determinare che un frammento di mandibola appartenga a un Antropoide fossile anziché a un Ominide. Vi sono infatti altera-zioni dovute a forme particolari di canini o allo spostamento late-rale del primo premolare, che mascherano l'assenza e la presenza del diastema.

In secondo luogo è da tenere presente la possibilità di un'evo-luzione convergente o parallela di alcuni caratteri, in gruppi diversi di animali. In altri termini, può avvenire che due o più specie, che presentano una iniziale similitudine di struttura e il mede- simo tipo di adattamento, abbiano poi un susseguirsi ricorrente di mutazioni analoghe che conducono a un'evoluzione parallela

e talvolta convergente. Abbiamo a questo proposito visto l'esem-pio dell'Aye-aye e degli Apatemydae a p. 148.

Una terza grossa difficoltà, per altro non intrinseca al mate-riale, consiste nella moltitudine di nomi (generici e specifici) che i vari paleontologi attribuiscono a reperti anche molto frammen-tari di Primati. Il gruppo delle Australopitecine è un esempio tipico di questa moltiplicazione della nomenclatura. Al primo re-perto fossile fu attribuito dal Dart il nome specifico di Australo-pithecus africanus. Successivamente diversi ricercatori trovarono molti altri resti di individui, appartenenti al medesimo gruppo, che distinsero in quasi altrettanti generi e specie diversi (Plesian-tbropus transvaalensis, Parantbropus robustus, Parantbropus cras-sidens, Telanthropus capensis, ecc.). Più recentemente un altro nome, Zinjanthropus boisei, è stato attribuito a un resto trovato nell'Africa orientale. È opinione corrente che non vi siano ragioni sufficienti per distinguere questi reperti a livello generico, e anche il numero delle specie deve essere ridotto a due o tre al massimo.

Poca considerazione è stata finora data alle differenze sessuali nelle caratteristiche scheletriche degli individui. Molto spesso la presenza o l'assenza di creste ossee, la diversa morfologia dei denti, la differente struttura di una porzione del cranio, può essere dovuta a differenze sessuali. Molte differenze non solo quantitative, ma anche qualitative esistono infatti fra il cranio di un Gorilla o di un Babbuino maschio e quello delle rispettive femmine. Una reínterpretazione di molti resti fossili che tenesse conto di queste differenze farebbe certamente ridurre di molto, per esempio, la nomenclatura!

Infine, per rendere oggettiva la comparazione dei caratteri morfologici sono stati fatti, a più riprese, tentativi per valutare il grado di somiglianza su basi quantitative. Questi tentativi, di per sé apprezzabili, spesso non tengono nella dovuta considera-zione l'importanza relativa dei diversi caratteri in tassonomia e le difficoltà di adeguata misurazione che molti di questi reperti presentano. In generale la comparazione statistica delle misure totali e degli indici è utilissima per stabilire gradi di affinità fra forme certamente imparentate. Questo tipo di dati ha tuttavia minore valore pratico quando le relazioni fra le varie forme da comparare sono più remote.

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3. La serie evolutiva degli Equidi.

Come esempio di una serie evolutiva ben conosciuta nell'am-bito dei Mammiferi, accenniamo a quella degli Equidi.

Nel sottordine degli Ippomorfi, quella degli Equidi è la fa-miglia più importante, rappresentata oggi da tre gruppi di specie: il Cavallo ( Equus), la Zebra ( Hippotigris) e l'Asino ( Asinus), che posseggono tuttora una certa continuità idioplasmatica, dimostrata dalla possibilità di ottenere ibridi da specie diverse, anche se la maggior parte di essi sono poi sterili. Li accomuna, fra le altre, la caratteristica di avere un solo dito per ogni piede (per questo essi vengono classificati nell'ordine dei Perissodattili), la corpo-ratura piuttosto agile e una dentatura molto specializzata.

Sono tutte forme molto bene adattate alla corsa in prateria. A causa del tipo di alimentazione, basato principalmente sulle

graminacee, e della relativa masticazione, hanno dentatura costi-tuita da tre grandi incisivi, un canino rudimentale seguito da un ampio diastema, un primo premolare anch'esso rudimentale, tre premolari e tre molari a crescita continua, con creste masticatorie complicate, di forma semilunare.

Le forme più antiche differivano radicalmente da quelle delle specie attuali ed è solo dagli stadi intermedi che si può capire come queste siano in relazione con le attuali.

La filogenesi degli Equidi è assai ben conosciuta. Essa è avve-nuta essenzialmente nell'America settentrionale, da dove, a più riprese, alcune specie sono passate in Eurasia, e dal Pliocene in poi anche nel Sud-America (fig. 9.1). Il più antico genere noto è l'Eohippus dell'Eocene inferiore, di dimensioni pressoché simili a quelle di una Lepre: esso presentava dentatura completa con diastema appena accennato e con premolari e molari ancora poco o punto specializzati. L'arto anteriore poggiava su quattro dita, quello posteriore su tre, il dito medio era fornito di unghia a zoccolo e la deambulazione era fatta appoggiando le dita. Questa forma, che probabilmente viveva nei boschi brucando le foglie degli arbusti, si diffuse anche in Eurasia ove sviluppò un gruppo di forme molto interessanti ( Hyracotheriurn), che però non hanno niente a che fare con il phylum degli Equidi attuali. Dall'Eohip-pus del Nord-America derivano, attraverso numerosi rami filetici, moltissime specie (350 circa).

L'Eohippus in America si sviluppò in una forma delle di-mensioni di una Capra ( Mesohippus) durante l'Oligocene; il Me-

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Fig. 9.1 Albero evolutivo degli Equidi brucatori e relazioni delle varie forme di piede con il variare dei tipi di alimentazione a) brucatori, b) pascolatori. (Da Simpson, modificata).

Page 105: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

sohippus ha tre dita delle quali solo quello centrale tocca il terreno. I suoi denti sono ancora brachiodonti, ma tutti, eccetto gli incisivi, hanno assunto l'aspetto di molari. Durante il Miocene questa forma si sviluppò in un gran numero di tipi, con denti sempre più grandi. Fra le altre, una di queste forme ( Hipparion), delle dimensioni dí un Pony, raggiunse l'Europa con una nuova corrente migratoria all'inizio del Vallesiano, ove visse fino al Pleistocene. Essa era molto simile al Cavallo attuale e per molto tempo fu considerato un suo precursore. Tuttavia l'antenato del. Cavallo attuale è il Pliohippus, anch'esso americano. L'Equus arrivò in Europa seguendo una nuova corrente migratoria al-l'inizio del Pleistocene. Per ragioni sconosciute, probabilmente un'epidemia o un'azione di cacciatori, i Cavalli scomparvero in America alla fine del Pleistocene e vi sono stati reimportati solo negli ultimi secoli dall'Uomo.

A questa linea principale di evoluzione si aggiungono varie ramificazioni collaterali, con specie che hanno avuto limitata sopravvivenza.

Nella linea principale, il progresso evolutivo ha condotto man mano ad un migliore adattamento alla corsa e alla pastura prativa. Le più importanti modificazioni che si sono realizzate durante l'evoluzione interessano l'aumento di taglia, l'allargamento del metapodío, la riduzione e la scomparsa delle dita laterali, l'allun-gamento del muso, la trasformazione dei premolari in molari, la complicazione della superficie triturante dei denti e la chiusura del margine posteriore dell'orbita, con conseguente separazione della cavità orbitaria della fossa temporale, dovuta alla necessità di un migliore attacco dei muscoli masticatori. Nell'Oligocene, Mesohippus e Miohippus poggiavano ancora sul terreno tre dita e probabilmente brucavano ancora foglie da arbusti. La vita della prateria e la pastura di graminacee si inizia durante il Miocene con il Parahippus, nel quale il secondo e il quarto dito hanno ancora un piccolo zoccolo, il peso del corpo grava ormai tutto sul terzo.

Il Cavallo attuale è separato dal piccolo Eohippus da un in-tervallo di tempo di circa 50 milioni di anni. L'Eohippus rappre-senta una copia in miniatura dell'Equus. Le differenze fra queste due forme sono annullate da una moltitudine di forme intermedie, sviluppatesi in questo lasso di tempo.

Con gli stessi metodi usati per il Cavallo, sono state rico-struite le varie tappe della storia evolutiva dell'Elefante, di molti

Ungulati e di altri animali di prateria. Per la storia evolutiva dei Primati, come vedremo, ci sono maggiori difficoltà. Essi infatti, a causa della loro vita nelle foreste, hanno lasciato rari resti fos-sili e perlopiù mal conservati; per questo bisogna far tesoro di ogni informazione, anche se frammentaria, e cercare di collocare ogni resto nel giusto periodo di tempo.

198

Page 106: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Capitolo decimo

IL TEMPO NELL'EVOLUZIONE DEI PRIMATI E DELL'UOMO:

METODI DI MISURA E SUA SUDDIVISIONE

1. Le suddivisioni stratigrafiche e la scala dei tempi nell'evolu-zione dei Primati.

Finché noi consideriamo intervalli di tempo che ci sono abi-tuali, come gli anni e i secoli, la nostra percezione è immediata. Quando invece consideriamo intervalli di tempo al di fuori di questi limiti, non ne abbiamo una percezione immediata, ma dobbiamo riflettere e molto spesso ricavare le nostre impressioni attraverso una scala ridotta di tempi. Così ad esempio, fa più effetto, se riduciamo a due mesi il periodo di tempo dalla com-parsa dei primi Vertebrati a oggi, dire che l'Uomo è giunto al-l'ultima ora, anziché dire che i primi Vertebrati sono comparsi sulla Terra 600 milioni di anni fa e l'Uomo solo 5-600 mila anni fa.

Ma com'è possibile ricostruire la successione delle diverse forme di vita sulla Terra? Una prima informazione ci viene for-nita dalle successioni regolarmente stratificate di rocce sedimen-tarie. Infatti, in una serie ordinata e indisturbata di rocce d'ori-gine sedimentaria, le età relative degli strati sono calcolate se-condo un principio semplice e chiaro, che si chiama legge della sovrapposizione. Lo strato più basso dev'essere il più antico, quello più alto il più recente, La legge della sovrapposizione è alla base sia del calcolo dell'età geologica, sia delle teorie del-l'evoluzione dei viventi, giacché per mezzo di essa è possibile dimostrare la successione dei fenomeni e lo sviluppo della vita attraverso i tempi geologici.

Tuttavia la successione degli strati non è sempre regolare. Fenomeni naturali diversi possono aver alterato questo ordine, rovesciando l'intera serie di strati o comunque provocandovi delle discordanze. In tal caso un aiuto molto valido ci è offerto da resti fossili di viventi, che vengono chiamati fossili guida. Ogni gruppo

201

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di strati, infatti, presenta la caratteristica di contenere un tipico gruppo di fossili che non è reperibile identico in nessun'altra formazione né al di sopra, né al di sotto. I fossili guida, nell'iden-tificazione degli strati geologici, hanno la stessa importanza che hanno le monete, il vasellame e gli utensili nel definire la suc-cessione delle epoche di una civiltà che in passato si sia svilup-pata su una determinata area.

Tutte le tracce reperibili dí vita, nelle rocce, sono fossili: ani-mali, piante, orme, impronte di corpi, gusci, scheletri. In gene-rale le parti molli si decompongono e scompaiono; restano solo le parti dure e non sempre in buono stato.

Come un determinato tipo di monete, trovato in regioni distanti, indica che gli strati che le contenevano devono aver accolto contemporaneamente le medesime influenze culturali, così il reperimento di un medesimo tipo di fossile in due strati di-stanti può indicare la corrispondenza cronologica fra di essi.

Per mezzo della legge di sovrapposizione e attraverso l'esame delle discordanze e delle associazioni di fossili, è stato possibile costruire una serie geologica che comprende un periodo di più di 1.000 milioni di anni. Una tale serie geologica che rappre-senta la storia della vita sulla Terra è stata suddivisa in volumi, sezioni, capitoli, ecc. che per i geologi sono le ere, i periodi, ecc. A noi interessano le ultime due ere: la terziaria e la quaternaria. Il Terziario, in cui si è avuto lo sviluppo dei Mammiferi, è durato circa 70-80 milioni di anni e si suddivide in cinque periodi: Paleocene, Eocene, Oligocene, Miocene e Pliocene; il Quaternario, in cui noi viviamo, ha avuto inizio circa 2 milioni di anni fa ed è suddiviso in Pleistocene e Recente.

TABELLA 10.1 Divisione e durata del Terziario (Cenozoico) e del Quaternario.

Durata di ciascuna Iniziata X milioni (in milioni di anni) di anni fa

Terziaria Paleocene 23 78 Eocene 21 55 Oligocene 12 34 Miocene 17 22 Pliocene 3-4 5-6

Quaternaria Pleistocene e Recente 2 2

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I ritrovamenti di fossili di Primati coprono l'intero Terziario (o Cenozoico) (tab. 10.1).

2. La ricerca di una cronologia assoluta: il metodo delle varve e dell'accrescimento annuale delle piante.

Per tentare una valutazione cronologica assoluta, viene spon-taneo considerare gli spessori dei depositi sedimentari come indi-catori di durata. La valutazione del tempo sarebbe automatica se la velocità di sedimentazione fosse stata dovunque e sempre co-stante e se noi conoscessimo quale spessore di sedimento si accumula in una qualsiasi unità di tempo. Ma la velocità di sedi-mentazione varia entro limiti troppo vasti, perché un calcolo di questo tipo possa dare risultati attendibili. Non è quindi per questa via che si arriverà a determinazioni attendibili dell'età assoluta dei sedimenti.

In qualche caso particolare tuttavia la durata della forma-zione di uno strato è rilevabile dalle dimensioni dei granuli e la regolarità di queste variazioni, ripetute molte volte, può essere attribuita a ritmi regolari di durata nota. Quando il ritmo della sedimentazione ha un'oscillazione annuale, ne risulta la forma-zione di strati che prendono il nome di varve.

La parola « varva » deriva dallo svedese varvig che significa " ciclo ", ed è entrata nella terminologia geologica con signifi-cato di « strato sedimentario formatosi nel volgere di un anno ». Ogni varva è costituita di una parte inferiore di sabbia finissima e di una superiore più argillosa, di colore più scuro. Un sottile velo di argilla neras tra separa nettamente una varva dalla succes-siva. I depositi di questo tipo sono discontinui. Essi si trovano specialmente nella Svezia e nella Finlandia, paesi nei quali il ritiro della calotta glaciale è avvenuto durante gli ultimi 10.000 anni circa. I depositi più antichi si trovano sulle sponde più meridionali del Baltico, i più recenti progressivamente spostati verso nord.

Lo studio delle varve consiste appunto nello stabilire corre-lazioni di tempo tra le serie di varve di un luogo e altre serie dí luoghi più vicini e più lontani. Lo spessore assoluto di una varva ha scarso significato; interessano di più le differenze relative fra molte varve contigue. Le varve maggiori hanno più spessa e più chiara la parte che rappresenta la sedimentazione estiva.

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Pertanto varve relativamente grosse rappresentano estati calde o particolarmente lunghe, mentre varve sottili denotano estati brevi e poco calde. Lo spessore quindi varia con un ritmo che dipende dalle differenze meteorologiche e climatiche delle varie annate. Questi dati possono essere riportati in diagramma: si ottiene cosi una spezzata che rappresenta un interessante docu-mento di meteorologia fossile, ossia la registrazione naturale del carattere di tante estati consecutive quante sono le varve ripor-tate (fig. 10.1).

Le correlazioni si formano paragonando diagrammi di luoghi diversi. Qualche volta si hanno varve formate non da limo gla-ciale, ma dal successivo stagionale sovrapporsi di gusci di Diato-

Fig. 10.1 Varve lacustri annuali (da depositi della Svezia) e procedimento con cui se ne ricava il diagramma (a destra). (Sec. De Geer et al.: da Trevisan e Tongiorgi, 1958).

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Fig. 10.2 Diagramma illustrante la cronologia basata sugli anelli di crescita annuale delle piante. A) albero vivente; B) trave da un edificio recente; C) tronco recuperato da una costruzione più antica. Per confronto e so-vrapposizione di esemplari rinvenuti in antiche rovine e scavi, si estende via via la datazione a ritroso nei tempi preistorici. (Da F. Fedele).

mee. Per un particolare modo di riprodursi delle Diatomee, le generazioni che si susseguono nelle varie stagioni hanno gusci di grandezza diversa. Nelle varie parti di ogni singola varva è possibile così studiare statisticamente le dimensioni dei gusci e riconoscere le generazioni primaverili, quelle estive e quelle autunnali. Anche nel caso delle varve lacustri è evidente che lo spessore del deposito annuo è in qualche modo connesso con le variazioni climatiche.

In Italia esistono complessi dí strati che, con tutta probabi-lità, possono considerarsi varve annuali. Durante la parte me-diana del Quaternario, quando i vulcani del monte Amiata e di Bolsena erano attivi, esistevano in queste regioni numerosissimi laghi, nei quali la sedimentazione si svolgeva in condizioni am-bientali particolarissime; essa era esclusivamente formata dai gusci silicei di Diatomee, che in quelle acque trovavano un am-biente eccezionalmente favorevole alla moltiplicazione. Gli strati hanno spessore di 1-2 centimetri, e constano di due lamine: una bianca costituita da gusci di Diatomee e pressoché puri; e una

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di colore bruno, costituita da gusci di Diatomee misti a sostanza organica. Talora nella lamina scura si possono riconoscere im-pronte di foglie, che verosimilmente rappresentano il deposito autunnale.

La sezione trasversale di una pianta ci informa, al medesimo modo delle varve, sulla successione annuale, nell'ambito di un determinato periodo, del clima in cui è vissuto. Come per le varve, è possibile, entro certi limiti, correlare cicli annuali in piante diverse e ricostruire la successione degli anni anche per lunghi periodi di tempo (fig. 10.2).

3. Metodi di cronologia relativa: la fluorina, il radiocarbonio e altri metodi fisici.

Ma la cronologia basata sulle varve e sull'accrescimento an-nuale delle piante è limitata nello spazio e nel tempo. Solo occa-sionalmente è possibile attraverso queste informazioni ricostruire una continua e ampia successione di tempi. Al paleontologo ne-cessitano invece metodi che abbiano valore generale e che per-mettano di datare in senso assoluto singoli oggetti. Uno di questi possibili metodi è offerto dallo studio dell'accumulo di fluoro nelle ossa dei Vertebrati.

Se non vi sono stati rimaneggiamenti del terreno, le ossa di un individuo rimangono sepolte nel medesimo suolo ove esse vennero a trovarsi al momento della morte. Qui esse sono in continuo contatto con soluzioni più o meno ricche di fluoro che, penetrando nelle ossa, può ivi fissarsi in quantità sempre mag-giori, a seconda della durata del tempo in cui l'osso è esposto all'azione della soluzione. Il meccanismo di penetrazione del fluoro nelle ossa implica un processo di sostituzione del gruppo OH dei fosfati delle ossa [idrossiapatite, 3Ca3(PO4)2.Ca(OH)2], con la conseguente formazione di un composto pressoché inso-lubile [ fluoroapatite, 3Ca3( PO4)2. CaF2] .

È abbastanza intuitivo che, in questo caso, il rapporto fra il tempo e la quantità di fluoro presente nelle ossa fossili non può mantenersi costante. Il numero dei gruppi OH suscettibili di sostituzione diminuisce infatti a mano a mano che la sostituzione procede. Il fenomeno, relativamente ampio all'inizio, diviene perciò sempre più lento in seguito, secondo una legge che va determinata regione per regione, in dipendenza anche del con-

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tenuto in fluoro che hanno le acque circolanti nel sottosuolo. Quando la quantità di fluoro delle acque circolanti è relativa-mente bassa e la regione non è soggetta a forti evaporazioni, il contenuto in fluoro delle ossa fossili raggiunge il valore dí satu-razione in circa mezzo milione di anni. Entro questo limite di tempo sì possono pertanto differenziare fra loro campioni che, sulla base del contenuto di fluoro, esprimono la loro diversa età. In altre condizioni, il limite di applicazione del metodo si abbassa a meno di 20.000 anni.

Il metodo più sicuro è quello di determinare il contenuto in fluoro di vari campioni di una regione, per alcuni dei quali sia già nota l'età per altra via e determinare poi per confronto quella dei campioni di età ignota. Pur nei limiti posti da questa situazione, il metodo si presta a numerose applicazioni, ed è particolarmente utile quando si abbiano dei dubbi sulla prove-nienza di alcuni esemplari. A questo proposito si può ricordare la clamorosa scoperta di quell'imbroglio scientifico che è stato iI cranio di Piltdown (Eoanthropus dawsoni), che fu possibile grazie al metodo del fluoro.

Il metodo del radiocarbonio offre vantaggi per una maggiore precisione per epoche relativamente recenti.

Il carbonio ordinario (C12 ) costituisce il 98,9% di tutto il carbonio terrestre; il restante 1,1% è costituito da vari isotopi di cui il C" è quello più frequente in natura. In natura il C'4

si forma continuamente dalla collisione di neutroni con atomi di azoto.

I470 • I --t 14r n I 6%.4 1 7 -Vi O ‘-

Negli strati superiori dell'atmosfera infatti, i neutroni, pro-dotti dalla collisione dei raggi cosmici con elementi dell'atmo-sfera, originano il

C14 a partire dall'N.

Il C' così ottenuto reagisce con l'ossigeno atmosferico dando luogo a CO2 radioattivo, che entra nella compagine di tutta la materia vivente.

Nel 1946, Libby emise l'ipotesi di un equilibrio radioattivo del C" secondo la quale la percentuale del C" disintegrato do-vrebbe essere uguale alla percentuale del C" prodotto nell'atmo-sfera.

Da questa ipotesi deriva che, al cessare della vita, nell'interno delle piante e degli animali cessa pure il processo di acquisizione di C", mentre continua quello di disintegrazione del C" ín N14

207

Page 110: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

per attività p, per cui la concentrazione in C" decresce propor-zionalmente al tempo.

Basandosi sulla validità di queste ipotesi fu misurata la vita media del C14 (costante di trasmutazione) che è di circa 5.580 anni. La formula dí cui ci si serve per la determinazione dell'età di un materiale è la seguente:

Io e t

dove: I è il valore della radioattività del materiale che si sta misu-

rando; lo è l'attività specifica (per grammo e per minuto) del materiale (C vivo) misurata su sostanze organiche;

t è il tempo; è la vita media globale, che è una costante pari a 5.600

(costante di trasmutazione). Mediante questa formula è stato possibile costruire la curva

di decadimento del C" (fig. 10.3')'. Sul medesimo grafico sono stati

15

7 1000 3000 5000 7C0C

In anni

Fig. 10.3 11 grafico riporta la curva dí decadimento del C14 e le determi-nazioni fatte su campioni la cui età è nota per altra via, al fine di mostrarne la coincidenza.

208

riportati i valori determinati in campioni di età conosciuta, tro-vando un perfetto accordo con i dati teorici.

La precisione del metodo è inversamente proporzionale all'an-tichità del reperto e dipende da diversi fattori tecnici; il suo limite di validità, secondo il Libby, è di circa 20-25.000 anni; secondo altri di circa 32-35.000 anni, e in casi eccezionali può arrivare a datare materiale più antico (50-70.000 anni),

Il metodo del radiocarbonio per i suoi limiti temporali è un metodo che ha valore più che altro archeologico. Agli antropo-logi interessano anche metodi che permettano datazioni oltre il milione di anni.

Come il C", tutti gli elementi radioattivi possono essere uti-lizzati per datazioni. Basta infatti tenere in considerazione il rap-porto fra elemento radioattivo e il suo prodotto di decadimento per calcolare l'antichità della roccia che lo incorpora. Immagi-niamo, per esempio, di avere un minerale che al momento della sua formazione abbia contenuto un solo elemento radioattivo, il torio 232, senza tracce di piombo. Il tarlo con l'emissione di particelle a dà origine a piombo 208; pertanto dopo un certo periodo di tempo questo minerale si arricchisce in piombo. Poi-ché la quantità di piombo presente è condizionata dalla legge del decadimento radioattivo del torio (4,98 X 10-n anni), è facile calcolare l'età della roccia.

Il medesimo discorso vale per le rocce contenenti uranio radioattivo.

Con questi metodi sono state ottenute numerose determina-zioni di età che vanno dai primi tempi dell'origine della Terra fino alle prime fasi dell'era Terziaria (70 milioni di anni fa). La precisione di questi metodi tuttavia è inversamente proporzio-nale all'avvicinarsi delle epoche attuali e inoltre non permette buone datazioni per i materiali del Terziario e del Quaternario che più interessano per l'evoluzione dei Primati.

Un metodo che dà risultati particolarmente interessanti a que-sto fine è quello del potassio-argo. Il potassio naturale è formato da tre isotopi (39, 40, 41) dei quali il potassio-40 radioattivo rappresenta lo 0,0119% e decade in argo-40 e calcio-40; ha cioè un doppio decadimento.

Dei due nuclidi formati, solo l'argo-40 è utilizzato per misure di età. Il calcio-40, infatti rappresenta l'isotopo più abbondante del calcio naturale e quindi riesce impossibile distinguere il

209

Semiperiodo C: 5568±30 anni

i Legno, 1072

• Legno. 580

Legno. 575

Bibbia, 100±100 A.C. Tolomeo, 2000150 A.C.

Legno rosso, 879352 A.C.

Sesostu. 180() A.C.

• Zoser,2700± 75 A.C.

Età storica, 2625±75 A.C. • Hemaka, 2850,20 A.0

o Oggi

Page 111: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

calcio-40 radiogenico da quello già presente nel minerale a meno che questo non ne fosse originariamente privo.

Il rapporto argo-40/potassio-40 è invece largamente utilizzato per misurare l'età specialmente di campioni abbastanza recenti. Il metodo è giunto a un grado di precisione e di raffinatezza estreme e i suoi limiti sono ormai rappresentati esclusivamente dalla natura del campione di roccia in esame.

La quantità totale di argo-40 contenuta in un certo minerale, è la somma dell'argo-40 radiogenico (r) e dell'argo-40 contenuto nell'atmosfera (a). Per misurare la quantità di argo radiogenico, basta quindi essere in grado di distinguere l'argo-40 (r) da quello proveniente dall'atmosfera e determinarne la quantità.

L'argo è presente nell'atmosfera terrestre per circa l'1% ed è composto da tre isotopi: 40, 48 e 36 in proporzione costante tra di loro; il più abbondante è l'argo-40. Il rapporto argo-40/ argo-36 è uguale a 295,5. È proprio la costanza di questo rap-porto che permette, misurando l'argo-36 contenuto nel campione in esame, di calcolare la quantità di argo-40 (a). Si ha quindi la possibilità di eseguire la correzione necessaria per avere l'esatto valore della quantità di argo-40 radiogenico.

Se questi sono i princìpi teorici, in pratica la misurazione della quantità di argo non è così semplice.

Nonostante queste difficoltà pratiche, tuttavia il metodo po-tassio/argo resta fra i più validi per materiali del Quaternario e del tardo Terziario che siano inclusi in rocce contenenti argo e potassio.

Altri metodi si basano sulle modificazioni determinate in un minerale da un bombardamento di particelle u originate da tracce dí elementi radioattivi in esso contenuto. Si possono; in questo modo, determinare dei difetti nel reticolo cristallino rilevabili mediante il riscaldamento del campione e l'emissione di energia luminosa. L'energia luminosa sembra infatti dipendere dall'entità dei difetti; pertanto, se è noto il contenuto in elementi radio-attivi, potrà essere valutato il tempo durante il quale essi hanno agito.

4. I resti dei prodotti della cultura umana come mezzo di studio del succedersi cronologico delle popolazioni umane.

Lo scopo di questo e dei precedenti paragrafi è di individuare ogni mezzo atto a datare in senso relativo o assoluto ogni reperto

210

fossile. Oltre ai resti scheletrici, sono pervenuti in quantità no-tevole i prodotti dell'attività umana. È possibile utilizzare questi materiali per ricostruire, anche se in modo largamente incompleto per ora, la storia di antichissime popolazioni.

Le più antiche popolazioni pre-umane quasi certamente usa-vano bastoni e ossa come oggetti di difesa e di offesa. Anche alcune Antropomorfe attuali usano bastoni e rami come utensili e senza dubbio le Australopitecine usavano dei femori e altri frammenti ossei per uccidere gli animali di cui si cibavano. Tuttavia questi oggetti non sono pervenuti fino ai nostri tempi e l'uso di essi è soltanto supposto. I prodotti dell'attività umana che hanno avuto maggiori possibilità di conservazione fino ai nostri tempi sono le pietre lavorate. Certamente i primi Uomini, come molti attuali e come le Antropomorfe, hanno usato singoli ciottoli come arma di difesa e di offesa. Ma i ciottoli non mo-strano nessuna traccia che ne riveli l'uso da parte di quei nostri antenati. È solo quando troviamo pietre artificialmente scheggiate che possiamo pensare che siano prodotte dall'attività umana.

È ancora incerto se questo tipo di attività sia stata sviluppata da Uomini del Terziario, sebbene qualche traccia esista (Ipswich, Inghilterra). Per quanto riguarda invece i ritrovamenti pleisto-cenici (Quaternario), nessun dubbio può sussistere circa l'origine umana di certe pietre scheggiate.

Gli strumenti hanno un aspetto ben definito e insieme con essi si ritrovano i resti degli animali che l'Uomo cacciava e le tracce dei fuochi che egli accendeva. Le culture umane non si pre-sentano uniformi durante tutta la preistoria; anzi, a seconda dell'età a cui risalgono e del luogo in cui si svilupparono, mo-strano variazioni evidentissime. Col susseguirsi dei tempi, le in-dustrie umane, da grossolane, nel loro insieme, tendono a essere sempre più perfezionate e differenziate. Questo perfezionamento tuttavia non è, o è solo occasionalmente, graduale in un medesimo luogo. Il più delle volte si assiste al succedersi di vere ondate culturali che, giungendo da regioni non facilmente precisabili, si sono via via sovrapposte alla facies delle culture preesistenti, sommergendole e sostituendosi ad esse. Col passare del tempo si assiste a una sempre maggiore brevità di ciascuna facies. Le più recenti sono brevissime rispetto alle antiche.

Dallo studio delle industrie umane preistoriche e delle faune che le accompagnano attraverso le diverse fasi culturali, possiamo schematicamente distinguere una fase più antica di popoli esclu-

211

tua am TrIevi

Page 112: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

SOLUTREANO

CCP

(Bulini e arponi ossei) PERIGORDIANO

PALEOLITICO SUPERIORE

PALEOLITICO SUPERIORE

Lama Levalloisiana

ACHEULEANO MEDIO

MUSTERIANO TIPICO (Punte e raschiatoi)

pebble tool CLACTONIANO

(scheggia) ABBEVILLIANO (amigdala)

PALEOLITICO INFERIORE-MEDIO

Fig. 10.4 Tavola sinottica delle principali tradizioni di utensili Miei e ossei del Paleolitico in Europa. (Da F. Fedele).

sivamente cacciatori (Paleolitico), alla quale segue una fase di popoli allevatori e agricoltori (Neolitico). Durante tutto il Paleo-litico, l'Uomo vive della caccia e della raccolta di frutti. Non conosce affatto l'agricoltura né l'addomesticamento degli animali. La sua esistenza è legata alle grandi mandrie di animali (Bisonti, Mammuth, Renne), che con lui convivono e che è costretto a seguire nelle loro migrazioni, dovute principalmente al mutare del clima e della vegetazione. Il succedersi delle facies culturali diverse nelle nostre regioni è probabilmente dovuto al variare delle condizioni climatiche.

Gli strumenti di questo periodo sono costituiti da pietre va-riamente lavorate per scheggiatura (fig. 10.4); da ciò il nome di « periodo della pietra scheggiata ». Il Paleolitico si chiude con la fine del Pleistocene.

L'epoca geologica attuale, Olocene, coincide col sorgere di un nuovo periodo che viene detto Neolitico. Esiste un « periodo di transizione », non sempre individuabile tipologicamente, che viene detto Mesolitico. L'avvento del Neolitico coincide con un radicale mutamento dell'economia nelle società umane.

Le nuove popolazioni somaticamente diverse che giungono nelle nostre regioni, si sovrappongono ed eliminano le popola-zioni paleolitiche, apportando nuovi elementi culturali che in breve si propagano ovunque. Si sviluppano. in questo periodo l'addomesticamento e l'allevamento, si cominciano a costruire abitati di capanne e villaggi su palafitte, si afferma l'uso della ceramica e della tessitura, si inizia l'utilizzazione dei metalli e dalla preistoria si passa alla storia.

212

Page 113: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Capitolo undicesimo

IL CLIMA DURANTE L'EVOLUZIONE DEI PRIMATI E LA COMPARSA DELL'UOMO

1. Importanza del clima e fattori climatici.

Il clima è un fattore importante nell'evoluzione di una specie. Variazioni repentine del clima, ad esempio per eccessi di tempe-ratura o di umidità, possono condurre alla estinzione di una po-polazione o di una intera specie. La diversa distribuzione delle specie vegetali o animali nel globo è, essa stessa, in larga misura una funzione del clima. L'unica specie distribuita su tutto il globo è la specie umana.

Nella storia dell'umanità, il clima è certamente stato un fat-tore importante nel determinare grandi migrazioni, variazioni nella struttura economica, guerre. Ma, a parte quest'azione selettiva o di spinta migratoria che ci riserviamo di discutere in altra occa-sione, il clima ha anche un'azione determinante sulle caratte-ristiche di una specie. Per quanto riguarda la nostra specie, ha selezionato determinati genotipi più resistenti al freddo o al caldo, al clima arido o a quello ricco di umidità; ne è prova, come abbiamo visto, la particolare distribuzione del colore della pelle, del colore dei capelli, della forma del naso, ecc.

I fattori che determinano il clima di una regione sono: l'ir-radiazione solare; la posizione astronomica della Terra (orbiù, inclinazione dell'asse, ecc.); la topografia della superficie terrestre e i suoi rapporti con il mare o con i territori circostanti. Nel corso della storia della Terra questi fattori hanno subìto varia-zioni talvolta assai notevoli.

Prima dí esaminare quali variazioni ha subito la superficie della Terra durante il Terziario e il Quaternario, vediamo come essi influenzino il clima attuale.

La parte superiore dell'atmosfera riceve una irradiazione so-lare media valutata in 2 calorie per cm2 e per minuto. Questa

215

Page 114: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

quantità di irradiazione, in tempi recenti, ha subìto variazioni lievi; non si hanno dati per il passato.

Attualmente l'asse della Terra è inclinato sul piano del-l'eclittica di 23° 30'. Si devono a questa inclinazione le differenze di stagione e le differenze di temperatura fra l'equatore e i poli. L'atmosfera, con il suo contenuto in vapor acqueo e in CO2, trattiene e diffonde l'energia irradiata dal Sole. Il differente spes-sore che essa presenta all'incidenza dei raggi solari per l'inclina-zione dell'asse terrestre è causa delle variazioni termiche sta-gionali.

L'ineguale distribuzione della terra e dei mari esercita una considerevole influenza sulle variazioni (o « escursioni ») delle temperature nel nostro globo. Al centro dei continenti si hanno le massime variazioni diurne e stagionali della temperatura (climi continentali). Le temperature variano anche notevolmente nelle regioni montane, diminuendo con l'aumentare dell'altitudine di 0,5-0,6 UC per ogni 100 metri. I mari, invece, riducono le varia-zioni termiche (clima marittimo o oceanico). Mentre in un tipico clima continentale, come quello della Siberia, si hanno delle escur-sioni termiche annue che raggiungono valori spesso superiori ai 50-60 °C, nella zona equatoriale dell'oceano Atlantico l'escursione annua non supera i 3 °C. Le correnti marittime poi regolano le temperature dei mari e quindi il clima delle terre adiacenti. Vi sono poi differenze fra le temperature dell'emisfero Sud e del-l'emisfero Nord, in quanto il rapporto fra i mari e le terre emerse nei due emisferi è differente.

Il vento è un altro importante fattore climatico. La sua dire-zione è in parte dovuta alla rotazione della Terra e in parte alla distribuzione dei mari, delle terre emerse e dei grandi rilievi montuosi. La piovosità, altro fattore essenziale del clima di una regione, dipende da numerose cause, le principali delle quali sono: i venti, i rapporti di vicinanza col mare, le correnti oceaniche, la presenza di catene montuose, la vegetazione.

2. La ricostruzione dei climi del passato.

Per ricostruire il clima del passato è necessario avvalersi di dati dí natura indiretta. Fra questi, í più importanti sono gli indizi geologici e paleontologici, come i resti di piante o di ani-mali che hanno strette relazioni con quelli attuali o che comun-

216

que abbiano determinate peculiarità ecologiche e fisiologiche. Particolare importanza per ricostruire i climi del passato hanno i metodi fisici, come quello basato sugli isotopi dell'ossigeno (016, 018).

Vediamo ora quali sono le principali indicazioni di tipo geo-logico e paleontologico per la ricostruzione dei climi, con riguardo, soprattutto ai giacimenti delle ere terziaria e quaternaria.

a) Climi caldi e climi freddi. A prescindere dal grado di umidità, vi sono sedimenti che

testimoniano climi di tipo caldo (come le lateriti). Fra le rocce sedimentarie di origine biologica marina, certamente quelle ori-ginate da Coralli stanno a indicare un clima di tipo tropicale. Ma per il nostro studio interessano maggiormente le indicazioni de-ducibili dagli animali e dalle piante terrestri.

I Mammiferi sono animali adattabili e pertanto il ritrova-mento dello scheletro di una specie che attualmente vive in un clima caldo non è di per sé indicativa di una equivalente tem- peratura nel passato. Di maggiore importanza paleoclimatologica sono alcuni Vertebrati a sangue freddo. Per essi la vita in climi freddi è molto difficile; per quelli di maggiori dimensioni, come per esempio i grossi Rettili, anche le zone temperate rappresen-tano habitat inusitati. I Rettili quindi si trovano unicamente in prossimità dell'equatore e in climi caldo-umidi. Per quanto con-cerne la vegetazione, si può innanzitutto affermare che nelle aree tropicali si trova un numero di specie più abbondante che nelle regioni a clima freddo.

La comparazione con gli habitat delle specie attualmente esi-stenti fornisce una buona possibilità dí valutazione paleoclimato- logica dei reperti fossili. Comparando, per esempio, l'habitat delle palme e di altre piante del Terziario con i rappresentanti attuali delle medesime specie, è stato possibile stabilire le tem- perature del Terziario in Svizzera. Le sequoie hanno un'area di distribuzione attualmente limitata alla California, mentre nel Terziario questa specie era molto più diffusa (come mostra la fig. 11.1). Questa è una indicazione che in quelle regioni, in passato, doveva esistere un clima più caldo.

I ghiacciai e le morene costituiscono ovviamente un'ottima indicazione di clima « glaciale ». Piccoli ghiacciai isolati si tro vano anche ai tropici, ma soltanto su alte montagne, come iI monte Kenya e il Kilimangiaro. La presenza dì antichi ghiacciai

217

Page 115: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

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Hippophae EmPitrum

Fig. 11.2 Illustrazione schematica della distribuzione post-glaciale del pol-line in deposito dello Jutland. Lo spessore delle bande nere rappresenta la percentuale dei granuli pollinici delle specie trovate negli strati. Questo diagramma ci informa del tipo di vegetazione presente nella regione. (Da Schwarzbach, 19b3, semplificato).

( Myodes), dalla Volpe artica (Canis lagopus), dalla Lepre antica (Lepus variabilis), dalla Renna (Rangifer tarandus) e dal Bue muschiato ( Ovibos moschatus); in tale periodo vissero inoltre grossi Mammiferi attualmente estinti, come il Mammuth (Ele-phas primigenius) e il Rinoceronte lanoso (Rhinoceros thycorhinus).

Le fasi interglaciali sono invece caratterizzate dalla presenza di fauna del tipo di quella attuale assieme con specie estinte, ma sempre adattate a clima temperato, come il Rhinoceros mercki e l'Elephas antiquus. Importanza notevole per la determinazione del clima hanno inoltre alcune specie di Gasteropodi.

b) Climi aridi e climi umidi. Vi sono poi indicazioni geologiche e biologiche per dedurre

informazioni sul grado di umidità dì una determinata regione in passato.

L'accumulo di sabbia sotto forma di dune di tipo desertico, per esempio, è indicazione di clima arido e ventoso. Così la pre-senza di resti di piante xerofite è caratteristica del clima arido.

220

La presenza dell'Alce irlandese ( Megaceros hibernicus) con i suoi quattro metri di corna ramificate esclude poi l'esistenza di fo-reste fitte.

La presenza di foreste fitte e di piante con foglie ricche di stomi sono d'altra parte indicative di clima umido. Con una certa approssimazione si possono anche stabilire per i tempi passati altre caratteristiche del clima, come la forza dei venti, la pres-sione atmosferica e la frequenza e la distribuzione di fenomeni meteorologici come temporali.

3. Variazioni climatiche stagionali e variazioni pluriennali.

La determinazione di variazioni climatiche stagionali è utile sia per se stessa, sia ai fini delle datazioni. Nel precedente capi-tolo abbiamo visto il cosiddetto metodo delle varve. Altre infor-mazioni sulle variazioni climatiche annuali possono venirci dagli anelli legnosi di accrescimento delle piante o dalle linee di accre-scimento dell'esoscheletro di molti Gasteropodi. Le valve dei Gasteropodi sono particolarmente interessanti, in quanto conten-gono carbonato di calcio e possono quindi prestarsi nel contempo alla datazione radiocarbonica e alla determinazione delle diverse temperature alle quali esse si sono formate utilizzando il me-todo dell'O18.

Questo metodo si basa sul rapporto fra O” e O" (per esempio nel carbonato di calcio), che dipende dalla temperatura ambien-tale a cui il composto ossigenato si è formato. In questo modo è pertanto possibile determinare la temperatura del mare o di laghi in cui si sono formate le conchiglie di vari Molluschi.

Oltre alle variazioni annuali possono anche essere rilevate variazioni secolari o cicliche che si estendono per dieci, cento o anche molte migliaia di anni. Per il Quaternario è stato possi-bile riconoscere alternanze cicliche undecennali del clima, messe da alcuni in relazione con i cicli undecennali delle macchie solari.

4. Il clima nel Terziario.

I dati climatici delle ere precedenti il Terziario possono essere ricostruiti solo superficialmente, e comunque poco interessano l'evoluzione dei Primati.

221

Page 116: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

v Cocoodrilt,

Palmizi

Regioni arde

Foresta r.emderata e f'esca

a Ghiacr.iaic

• Cliria montano {Montagne)

Corrente fredda

Co,rerne calda

A D

L

A

c A

All'inizio del Terziario, circa 70 milioni di anni fa, il clima era più caldo dell'attuale. Durante questo periodo la temperatura diminuì con regolarità finché all'inizio del Quaternario, circa un paio di milioni di anni fa, essa finì per essere pressoché uguale all'attuale.

Una temperatura più elevata agli inizi del Terziario era ca-ratteristica di tutto il globo. Le palme crescevano in Alaska (lat. 62° N) e nell'est della Russia (lat. 55° N), e non solo durante il Pliocene, ma anche durante il Miocene, come dimostrano gli strati miocenici della Germania, ricchi dí resti di palme. Resti di flora caldo-umida si hanno poi nel Giappone settentrionale, nella Nuova Zelanda e ín Cile. Nei primi periodi del Terziario i Coccodrilli infestavano gli acquitrini del Nord-America, del- l'Inghilterra e della Mongolia, mentre ora non superano il nord della Florida e il nord dell'Africa. Termiti incluse in ambra sono state trovate in strati oligocenici inferiori della Russia.

Un importante fattore. che certamente ha avuto influenza sulla temperatura in Europa durante il Terziario iniziale è stata l'esi- stenza di un'ampia comunicazione fra il Mediterraneo e l'oceano Indiano, di gran lunga più caldo. La figura 11.3 mostra la distri-buzione delle terre emerse e del clima durante il Terziario inferiore.

Il graduale decremento della temperatura durante il Terziario è dimostrato dalla distribuzione della flora e della fauna. Nel- l'Europa centrale, da una temperatura media annua di circa 21 °C durante l'Eocene, si passa nel Pliocene a una temperatura non superiore ai 14 °C. Durante il Pliocene si ebbero delle oscillazioni climatiche del tipo di quelle del Quaternario: Io dimostrano le tracce sedimentarie di glaciazioni e le variazioni faunistiche e fiori s tiche.

È certo che durante i primi periodi del Terziario le regioni polari non erano occupate da calotte glaciali. La differenza di temperatura fra i poli e l'equatore doveva essere minore del-l'attuale e il clima su tutto il globo più uniforme. Poi la tempe-ratura a poco a poco si è abbassata e sono comparsi i primi ghiacciai nelle regioni artiche e più tardi anche sulle catene di alte montagne.

Cause di queste variazioni climatiche furono grossi cambia-menti dell'assetto geologico. L'aumento di aridità nella parte continentale del Nord-America, per esempio, fu dovuto all'ori-ginarsi di catene montuose. Altre variazioni sono dovute a mo-

222

— Terre

• Aummulli

♦ Corni',

Fig. 11.3 Carta del clima del Terziario inferiore. (Da Schwarzbach, 1946).

vimenti tettonici anche di piccola entità, ma localizzati in posi-zioni chiave, come la chiusura della connessione fra il Mediter-raneo e l'oceano Indiano.

5. Il clima del Quaternario.

Benché relativamente breve (forse un paio di milioni di anni), il Quaternario è un periodo estremamente complesso dal punto di vista climatico. Fasi glaciali si sono susseguite a periodi tem-perati o caldi, in tutto l'emisfero nord dell'Eurasia e nel Nord-America, come dimostrano i vari depositi morenici.

Come si è detto nel precedente capitolo, il Quaternario è suddiviso da molti autori in Pleistocene e in Olocene; quest'ul-timo rappresenta il periodo postglaciale. Il Pleistocene può essere

223

Page 117: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Fig. 11.4 Massima estensione dei ghiacciai del Pleistocene nell'emisfero boreale.

poi suddiviso in Glaciali e Interglaciali. L'Olocene copre solo gli ultimi 10.000-15.000 anni. Prima di addentrarci nelle sud-divisioni climatiche del Pleistocene vediamo come doveva essere il clima durante le fasi glaciali e durante le fasi interglaciali.

L'enorme distribuzione dei ghiacci durante il Pleistocene in tutta l'Europa, il Nord-America, il nord dell'Asia, il Sud-America e su molte catene montuose (fig. 11.4), fu causata da una dimi-nuzione della temperatura. Di queste glaciazioni abbiamo molte tracce geologiche e geomorfologiche: per esempio, massi erratici, morene, rocce levigate, valli glaciali. Incerte e problematiche sono invece le cause che le hanno prodotte. Il paesaggio piatto del-l'Eurasia settentrionale e del Nord-America indica come in pas-sato in quei luoghi si estendesse un'ampia coltre di ghiaccio. Nelle catene montuose, poi, le prove della passata esistenza di ghiacciai si possono riscontrare, per esempio, nelle tipiche valli ad U. In-torno al perimetro dei ghiacciai si riscontrano speciali fenomeni connessi con l'esistenza delle masse di ghiaccio, come i depositi di loess o le valli asimmetriche.

A queste indicazioni di tipo geologico si possono aggiungere le indicazioni di tipo biologico, come l'alternanza nella distribu-zione delle flore (individuabile specialmente per mezzo dei poi-

224

lini) e delle faune. Il Bue muschiato, il Mammuth e il Rinoce-ronte lanoso, per esempio, sono tutti adattati alla vita in clima freddo. Da queste indicazioni si può stabilire che nell'emisfero nord la temperatura, durante il massimo acme della glaciazione Wiirm, doveva essere dí 15-16 °C inferiore all'attuale. Poiché le zone glaciali erano ancora più estese durante le fasi glaciali pre-cedenti, il calo della temperatura nei periodi corrispondenti doveva essere stato anche maggiore.

Il decremento della temperatura durante l'estate deve essere stato un po' diverso da quello invernale. Infatti il limite polare attuale delle piante di alto. fusto coincide generalmente con l'isoterma di 10 °C di luglio. Sulla base di questi dati e di altri, si può calcolare che le temperature durante il massimo acme della glaciazione Wiirm dovevano essere di 8 °C più fredde delle attuali in luglio e di 12 °C in gennaio.

Per l'ultima fase della glaciazione wiirmiana si può anche ricostruire la direzione dei venti prevalenti in molte parti d'Eu-ropa, mediante lo studio delle particolari distribuzioni di depositi eolici paragonabili a dune.

Se queste erano le condizioni climatiche delle regioni setten-trionali dell'emisfero durante le fasi glaciali, non è da credere che queste ondate di freddo abbiano risparmiato le regioni lati-tudinalmente più a sud e le zone ora aride. Durante le fasi glaciali la linea nivale si abbassò dovunque, anche all'equatore, al di sotto dell'attuale. Secondo qualche autore essa scese di circa 1.300 metri sul Kilimangiaro e di 1.400 sulle Ande.

All'equatore la temperatura media annua doveva essere per-lomeno di 4 °C inferiore all'attuale, ossia di circa 23 °C. Questa diminuzione di temperatura su tutto il globo e, in special modo, nelle zone equatoriali, portò come conseguenza un'alterazione del regime generale dei venti, con la conseguenza di una maggiore piovosità nelle regioni desertiche e pertanto una riduzione note-vole di esse. Le fasi glaciali delle regioni polari corrispondono quindi, nelle zone vicine all'equatore, alle cosiddette fasi pluviali, concomitanti a riduzioni della temperatura.

Vi sono prove dell'esistenza dí queste fasi pluviali nelle re-gioni attualmente desertiche. Sulla costa mediterranea della Spa- gna, per esempio, le fasi pluviali a clima caldo-umido sono distin-guibili da una colorazione rossiccia; i periodi caldo-secchi delle fasi interglaciali (di un clima simile all'attuale) sono invece rap-presentati da depositi calcarei. In Asia durante le fasi pluviali

225

Page 118: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

TARDO WORM

MEDIO

TARDO

WISCONSIN MEDIO

LAUFEN PORT TALBOT

WISCONSIN ANTICO

WURM ANTICO

ILLINOIANO RISS

KANSANO MINDEL

NESRASKIANO GUNZ

TEMPO 'T EMPERATURA

oc) (secondo Emiliani)

21 25 30

3

TERMINOLOGIA CRONOLOGICA

EUROPA AMERICA

RECENTE (OLOCENE)

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MINDEL

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X 1000

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2000?

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Fig. 11.5 Quadro sintetico delle principali informazioni cronologiche, cli-matologiche e paleontologiche sul Quaternario. La cronologia assoluta è ispirata ai dati ottenuti con il metodo K/Ar. La curva delle tempera-ture della superficie oceanica alle basse latitudini è basata sui lavori di C. Emiliani.

226

il Mar Caspio era connesso con il Mar di Arai. e con il Mar Nero. Il Mar Morto era 400 metri più alto dell'attuale e il livello delle acque era più alto dell'attuale anche nei laghi africani della Rift Valley.

Durante le fasi interglaciali, invece, il clima deve essere stato pressoché uguale all'attuale o leggermente più caldo. Per questo si hanno evidenze floristiche e faunistiche, oltre che dati geo-logici. Quasi certamente durante le prime fasi interglaciali il clima era più caldo dell'attuale. Ne è prova il ritrovamento di una Scimmia, la Macaca fiorentina, in un deposito del primo inter-glaciale in Olanda, quando l'unica regione europea dove questi animali vivono attualmente è Gibilterra, per non parlare delle molte altre specie di animali e di vegetali ora non più presenti in Europa, ma allora molto diffuse.

Poiché il Quaternario ci interessa direttamente per studiare gli ultimi stadi della differenziazione delle diverse specie di Primati e l'origine della nostra, potrà essere utile seguire le variazioni climatiche avvenute in vari continenti in questo periodo.

Secondo dati recentemente raccolti in Tanzania, Kenya ed Etiopia meridionale, il limite inferiore o comunque il momento di inizio del Quaternario dovrebbe essere fatto arretrare almeno a due milioni e mezzo di anni fa. L'intero Quaternario andrebbe quindi suddiviso in una prima parte di un milione e mezzo di anni, in cui si è avuto un periodo freddo probabilmente accom-pagnato da una glaciazione — la cosiddetta glaciazione Villafran-chiana avvenuta circa 2 milioni di anni fa — seguito da un altro periodo freddo, la cosiddetta glaciazione di Diinau, circa 1,5 mi-lioni di anni fa, e in una seconda parte che va da circa un milione di anni fa a oggi (fig. 11.5).

Durante questa seconda parte del Quaternario vi furono in Europa tre grandi centri glaciali: uno in Scandinavia, - uno nelle Isole Britanniche, un altro sulle Alpi. Le aree glaciali della Scan-dinavia e delle Isole Britanniche per qualche tempo si estesero a tal punto da unirsi a formare un'unica estesa regione glaciale (fig. 11.6). Si calcola che nel centro della Scandinavia lo. spessore dei ghiacciai a quell'epoca abbia raggiunto anche i 13.000 metri. Nelle Alpi, come si è detto, la linea delle nevi eterne era più bassa di 1.200 metri di quella attuale e tutta la catena montuosa doveva essere ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio, ove, qua e là, sporgevano le cime delle montagne più alte. I ghiacciai

227

II

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Fig. 11.6 Zone climatiche in Europa dopo la glaciazione Wtirm (Sec. Biidel e Woldstedt, da Schwarzbach, 1963).

poi si estesero a sud e a nord ai piedi delle catene montuose con le loro lingue glaciali a formare le valli glaciali.

Durante il Quaternario si susseguirono quattro fasi glaciali ben conosciute (seguite da altrettante fasi interglaciali). Esse sono state denominate da altrettanti affluenti del Danubio ove furono per la prima volta descritte: Gunz, Mindel, Riss, e infine la più vicina a noi, Wiirm (fig. 11.7).

Anche ín America vi furono diversi centri glaciali separati. Il maggiore di questi fu il cosiddetto « Laurenziano » che origi-nariamente sorse negli altipiani del nord-est dell'America setten-trionale, a nord dell'attuale Quebec, nella zona del Labrador, nella terra di Baffin. A poco a poco esso si estese verso ovest. Durante il massimo acme glaciale i ghiacciai si estesero dalla Cor-digliera alla California, formando un'intera coltre glaciale che ricopriva quasi tutti gli Stati Uniti con uno spessore anche di 2300 o più metri. Durante la glaciazione Wisconsin, la cappa di ghiaccio nello stato dí New York, per esempio, doveva essere alta almeno 1.000-1.300 metri,

Anche nell'America settentrionale possono essere individuate quattro fasi glaciali principali: Nebraskan, Kansan, Illinoian e Wisconsin, separate da altrettante fasi interglaciali che prendono il nome di Aftonian, Yamouth e Sangamon. Anche qui l'ultima glaciazione è stata quella che ha determinato la conformazione del paesaggio attuale e la formazione dei bacini dei Grandi Laghi. Molto meno nota è la stratigrafia pleistocenica di altre regioni.

228

L'unica cosa certa è che in ogni luogo ove sono state condotte ricerche accurate, sono state ritrovate tracce di diverse e indi-pendenti fasi glaciali. Le correlazioni con le fasi glaciali europee e nordamericane sono tuttavia ancora incerte, Ancora più incerte sono le correlazioni fra le suddivisioni pluviali dell'Asia meridio-nale e dell'Africa e la successione delle glaciazioni europee.

Le glaciazioni del nord dell'Asia (Siberia) sono certamente collegate con la calotta glaciale scandinava.

In Africa, come in Australia, i ghiacci durante il Pleistocene devono aver avuto una dimensione assai modesta. Più estesi, invece, devono essere stati in Tasmania e nella Nuova Zelanda. La catena delle Ande nell'America meridionale in quel periodo doveva essere ricoperta fino a 26° di latitudine sud da un'intera coltre di ghiaccio, la quale si deve essere estesa anche su tutta la pianura della Patagonia.

Una conseguenza diretta delle glaciazioni sono i cosiddetti movimenti eustatici del mare, cioè le variazioni del livello marino dovute alle grandi quantità di acqua sottratte al mare e accu-mulate nei ghiacciai. Si calcola che durante l'ultima glaciazione il livello del mare si sia abbassato di circa 90 metri rispetto al livello attuale. Queste variazioni di livello del mare durante le fasi glaciali e Ia successione di spiagge, alle quali hanno dato

MINDEL RISS D WORM

Fig. 11.7 Estensione dei ghiacciai wiirmiani sul territorio alpino (in bian-co), in tratteggio sono rappresentate le avanzate del Riss e in nero le punte massime dell'avanzata del Mindel.

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Foresta mista decidua

EM Macchia mediterranea

INESteppa

Tundra

Linea di. costa nella fase glaciale

Ghiacciato continentale

• Tundra arborata

• Foresta subpolare Betulla

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Fig. 11.8 Limite delle nevi permanenti in Norvegia negli ultimi 12.000 anni. (Da O. Liestol: in Holtedahl, 1960).

origine, sono state studiate particolarmente nell'area mediter-ranea e prendono il nome di Siciliano, Milazziano (interglaciale Gunz-Mindel), Tirreniano I (interglaciale Mindel-Riss), Tirre-niano II (interglaciale Riss-Wiirm), e Flandriano per il tipo re-cente. 2 chiaro che un abbassamento del livello del mare di 89-90 metri può trasformare completamente la geografia di un continente.

Solo 10.000 anni circa sono passati da che i ghiacci dell'ul-tima glaciazione (Wiirm) hanno completato il loro ritiro. Que-st'ultimo Glaciale e il successivo periodo post-glaciale sono par-ticolarmente interessanti perché sono i periodi durante i quali si sono svolte le ultime fasi dell'evoluzione dell'Uomo ed è iniziata la vita cosiddetta « civile » della nostra specie.

In Europa, con il ritira dei ghiacci, il clima non è migliorato in modo costante, ma è andato soggetto a fluttuazioni più o meno grandi. Si possono stabilire le seguenti successioni di eventi, par-ticolarmente ben datati., con il metodo delle varve o del radio-carbonio (C') (fig. 11.8). In un primo momento vi è stato un graduale regresso del nucleo glaciale scandinavo che ha condotto intorno al 10.000-9.000 a. C. ad un optimum climatico che ha preso il nome di fase d'Alleròd. Durante questo periodo, nel-l'Europa centrale si doveva avere una temperatura media di luglio di circa 4 °C più fredda dell'attuale. A questa è succeduta una nuova fase di deterioramento climatico, fase detta « Dryas recente », con acme intorno al 9.000-8.000 a. C. Durante questo periodo, le temperature nell'Europa centrale debbono essere scese a livelli di 7-8 °C inferiori alle attuali. Successivamente i ghiacci hanno ripreso a ridursi di estensione con notevole rapidità in tutte

le aree montane o nordiche. La temperatura media annuale e la piovosità sono aumentate. Questo è definito come l'optimum cli-matico post-glaciale (circa 5.000-3.000 anni a. C.). Tin nuovo ab-bassamento della temperatura ha condotto infine alle condizioni climatiche attuali.

Intorno agli anni 2.300, 1.200 e 600 a. C. si hanno indica-zioni di forti siccità in tutta Europa. Il clima degli ultimi duemila o tremila anni appartiene all'epoca storica.

Variazioni climatiche concomitanti sono registrate per il con-tinente nordamericano, mentre variazioni climatiche di tipo di-verso hanno avuto luogo in Africa e in Asia. Prima dell'optimum climatico di cui si è detto, sia nel Sahara che nelle regioni transcau-casiche il clima doveva essere pressoché simile a quello dell'Eu-ropa libera da ghiacci. Circa 8.000 anni fa queste regioni hanno cominciato a diventare aride.

Come si è detto, eventi di questo genere hanno certamente influito sulla selezione dei tipi umani e animali e sulle loro caratteristiche, nonché sulle migrazioni di intere popolazioni da una regione all'altra.

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2. La scissione del Pangea.

Negli anni scorsi geologi e geofisici sono stati obbligati dal-l'evidenza dei fatti ad abbandonare il vecchio dogma che voleva la crosta terrestre fissa e stabile. La nozione che i continenti possano compiere moti di deriva lungo percorsi di migliaia di chilometri durante poche centinaia di milioni di anni è ora accettata universalmente.

È molto probabile che ad un certo momento della storia della Terra le superfici emerse fossero tutte raccolte in un continente unico, il cosiddetto Pangea. Il concetto originale di Pangea (che significa appunto « tutte le terre ») fu proposto dal geofisico tedesco Alfred Wegener. Anche se all'antropologo interessa solo la situazione delle terre emerse durante il Terziario (gli ultimi 70 milioni di anni) per meglio comprendere questi fenomeni è necessario ricordare, sia pure sommariamente, la storia delle terre

Fig. 12.1 Il Pangea, il continente unico come doveva apparire circa 200 milioni di anni fa. Il Panthalassa, che lo circondava, era l'oceano Pa-cifico primordiale. La Tetide, il Mediterraneo primordiale, sí è formata da una grande baia che separava l'Africa dall'Eurasia. Le posizioni relative dei continenti, fatta eccezione per l'India, sono basate sull'in-castro ottenuto con il calcolatore usando, per definire i limiti dei conti-nenti attuali, l'isobara corrispondente ai 2.000 metri di profondità.

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emerse durante gli ultimi 200 milioni di anni, quando appunto le terre emerse erano ancora unite in un unico continente.

Secondo l'ipotesi di Wegener il Pangea era un vastissimo continente dai contorni irregolari circondato dal grande oceano del Panthalassa: il Pacifico primordiale (fig. 12.1). A oriente la Tetide, un grande golfo triangolare, separava l'Eurasia dall'Africa (l'attuale Mediterraneo è ciò che resta della Tetide). A nord l'oceano Artico primordiale, qui definito come Sinus Borealis, si insinuava fra il futuro Nord-America e l'Eurasia; a sud il Sinus Australis separava la futura India dall'Australia. L'intera super-ficie del Pangea così ricostruito è di circa 200 milioni di km2, il che equivale press'a poco all'area dei continenti attuali.

Quando i continenti facevano parte del Pangea, essi erano generalmente più a sud e più a est della loro posizione attuale. La distribuzione delle terre emerse nei due emisferi all'incirca si equivaleva; oggi invece i due terzi di tutte le terre emerse si trovano a nord dell'equatore. L'evento che ha avuto come ri-sultato la scissione del Pangea e la deriva dei suoi frammenti deve essersi verificato non più di 200 milioni di anni fa. In que-st'epoca due grandi fratture iniziarono a svilupparsi nel Pangea: da esse risultò l'apertura degli oceani Atlantico e Indiano pro-vocando verso la fine del Triassico, circa 180 milioni dí anni fa, una situazione come quella presentata nella figura 12.2.

La frattura settentrionale spaccò il Pangea da est a ovest lungo una linea poco a nord dell'equatore e creò il Laurasia, costituito da America settentrionale ed Eurasia. Il Laurasia deve aver ruotato in senso orario (vedi frecce nere del disegno di fig. 12.2) generando quello che sarà il Golfo del Messico e il Mar dei Caraibi.

La frattura meridionale staccò dal restante blocco continen-tale (il cosiddetto Gondwana) la parte che successivamente darà origine all'America del Sud e all'Africa, mentre il rimanente costituirà l'Antartide, l'Australia e l'India. Non molto tempo dopo, se non contemporaneamente, l'India si staccò dall'Antar-tide a causa di una frattura più piccola e iniziò la sua rapida deriva verso nord.

Durante il Giurassico, compreso fra 180 e 135 milioni di anni fa, la deriva continuò. Gli oceani Atlantico e Indiano erano in comunicazione attraverso il Mediterraneo. L'America setten-trionale proseguì il moto di deriva in direzione nord-ovest. L'Atlantico neoformato superò i 1.000 km di ampiezza e pro-

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Fig. 12.2 Dopo 20 milioni di anni, alla fine del Triassico, circa 180 mi-lioni di anni fa, si era separato un gruppo di continenti a nord, chiamato Laurasia, da uno a sud, chiamato Gondwana. Quest'ultimo incominciò a frammentarsi: l'India si separò a seguito di una frattura a Y, che fra l'altro innescò il meccanismo che doveva poi isolare la massa dell'Africa e America meridionale da quella dell'Antartide e dell'Australia. La fossa della Tetide (zona tratteggiata) corre da Gibilterra fino al Borneo. Le linee e le frecce nere indicano le zone di grandi attriti e le zone di slittamento ai limiti fra le zolle erogali. Le frecce individuano il vettore del movimento quando è iniziata la deriva.

Fig. 12.3 Dopo 65 milioni di anni, alla fine del Giurassico, circa 135 mi-lioni di anni fa, gli oceani Atlantico settentrionale e Indiano si erano aperti considerevolmente. Lo sviluppo dell'Atlantico meridionale co. minciò da una frattura tra Africa e America meridionale. La rotazione della massa continentale eurasiatica cominciò a chiudere la Tetide alla sua estremità orientale. La zolla indiana in questo periodo si trovò a pas-sare al di sopra di un centro termico (circoletto bianco) dal quale defluì il basalto che formò lo scudo del Deccan. Più tardi, dallo stesso centro termico, si sviluppò la dorsale Chagos-Laccadive nell'Oceano Indiano.

babilmente rimase in collegamento diretto con il Pacifico e la frattura atlantica si estese verso nord delimitando le coste del-l'attuale Labrador e dando inizio all'apertura del Mar del La-brador fra l'America settentrionale e la Groenlandia.

La Tetide, precursore del Mediterraneo, andò man mano chiu-dendosi alla sua estremità orientale. La Tetide, oltre a essere una fossa, era anche una zona di attrito lungo la quale l'Eurasia slittava verso ovest rispetto all'Africa: la compressione, asso-ciata con la fossa della Tetide, provocò lo sviluppo di catene montuose.

Alla fine del Giurassico, circa 135 milioni dí anni fa, iniziò anche la separazione fra l'America meridionale e l'Africa. La frattura, a cominciare da sud, si spinse fra le due masse conti-nentali, per poi aprirsi gradualmente a formare la sede di una

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massa d'acqua (fig. 12.3). Alla fine del Cretaceo, circa 70 milioni di anni più tardi

(e circa 65 milioni di anni fa), la separazione dell'America meri-dionale e dell'Africa era completa (fig. 12.4), anche se le distanze fra i due continenti rimasero per diversi milioni di anni esigue. Nello stesso tempo la frattura nordatlantica si era spinta dal mar-gine occidentale della Groenlandia fino al suo margine orientale, delineandone la forma. L'Africa aveva completato un movimento di deriva verso nord di circa 10° e continuato la sua rotazione in senso antiorario, mentre l'Eurasia ruotava lentamente in senso orario. I due moti opposti finirono col chiudere la Tetide al suo estremo orientale.

A questo punto tutti i continenti attuali erano delineati nelle loro forme generali con l'eccezione delle connessioni fra la Groen-

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Fig. 12.4 Dopo 135 milioni di anni di deriva, alla fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa, l'Atlantico meridionale sí era aperto divenendo un oceano. Una nuova frattura staccò il Madagascar dall'Africa. La frattura nord-atlantica delineò il margine orientale della Groenlandia, mentre ormai il Mediterraneo era già chiaramente riconoscibile. L'Australia era ancora unita all'Antartide.

landia e l'Europa settentrionale e tra l'Australia e l'Antartide. Ma già verso la fine del Cretaceo l'Australia aveva iniziato a separarsi dall'Antartide e a compiere il suo moto di deriva verso nord, mentre l'Antartide continuava la sua rotazione verso ovest.

Nel Cenozoico e nel Quaternario, da 65 milioni di anni fa ad oggi, i continenti hanno continuato nel loro moto di deriva fino a raggiungere le posizioni attuali. Questi movimenti dí frat-tura o di espansione, di connessioni e di interruzioni fra le terre emerse durante queste ere sono dí fondamentale importanza per ricostruire la storia evolutiva di molti Vertebrati e le reazioni adattative di molti Mammiferi, fra cui i Primati.

anni esse hanno subito molti mutamenti, sia per posizione che per connessioni (fig. 12.5).

La frattura medioatlantica si propagò fino al bacino artico distaccando definitivamente la Groenlandia dall'Europa (nella re-gione dell'attuale Inghilterra) durante l'Eocene medio (40-50 milioni di anni fa) e si realizzò definitivamente alla fine del-l'Eocene. La comunicazione dell'oceano Artico con l'Atlantico ebbe un effetto importante nell'abbassamento della temperatura della regione atlantica procurando una crisi evolutiva in molti gruppi di Vertebrati. Il Nord-America e l'Asia nordorientale in-vece rimasero in contatto pressoché ininterrotto durante tutto il Cenozoico, compreso il Pleistocene, attraverso la regione del-l'istmo di Bering che servì come passaggio per molte forme

3. I movimenti delle terre emerse durante il Cenozoico (Ter-ziario) e il Quaternario.

Anche se all'inizio del Terziario le masse continentali ave-vano la conformazione di oggi, durante gli ultimi 65 milioni di

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Fig. 12.5 , Il mondo cosi come appare oggi si è formato durante gli ultimi 65 milioni di anni nel Cenozoico e nel Quaternario. All'incirca metà dei fondali dell'oceano sono stati creati in questo periodo geologica-mente breve. L'India completò un suo spostamento verso nord andando a collidere con l'Asia, mentre una frattura separava l'Australia dall'An-tartide. La frattura nord-atlantica, infine, penetrò nell'area dell'oceano Artico, spezzando il Laurasia. L'apertura recente tra America meridio-nale e Africa è delineata con precisione dalle dorsali vulcaniche prodotte dal centro termico di Walvís.

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animali. Le glaciazioni lo resero impervio nel tardo Pliocene e a più riprese nel Pleistocene. L'Asia intanto premeva sull'Europa dalla quale era separato dal Mare Uraliano che si occluderà solo alla fine dell'Oligocene.

Il Nord-America e il Sud-America vennero in contatto breve-mente all'inizio del Cenozoico (nel Paleocene) nella regione del-l'attuale istmo di Panama per fenomeni di vulcanesimo e per sollevamento del mantello terrestre; poi questo contatto si inter-ruppe per ristabilirsi alla fine del Cenozoico (nel Pliocene circa 5 milioni di anni fa). A causa di questa riemersione, molte nuove specie di animali invasero il Sud-America, il che condusse all'estinzione di molte delle specie precedentemente adattatevisi.

Questa competizione però non interferì con le varie forme dei Primati che erano perlopiù arboricole; anzi alcune di esse, muo-vendo da sud verso nord, tornarono ad invadere parte dei terri-tori a nord dello stretto di Panama, ove vivono tuttora.

A parte il problema della possibile connessione fra Africa e Sud-America e il movimento dell'isola di Madagascar, che saranno trattati più avanti, i movimenti di maggior rilievo sotto l'aspetto antropologico sono quelli delle regioni equatoriali, che coinvol-gono l'Africa, l'Eurasia e l'India.

La massa continentale indiana, che si era staccata dall'Africa fin dal Triassico (fig. 12.6 a e b), concluse il suo viaggio verso nord durante l'Oligocene e il Miocene entrando ín collisione con l'Asia. Nella collisione fra India e Asia, il margine settentrionale dell'India si inserì sotto la zolla asiatica, facendo sorgere la ca-tena dell'Himalaya. Il sorgere di questa catena montuosa modi-ficò in modo drastico il clima a nord, che divenne più freddo e arido, riducendo la sopravvivenza di quegli animali che, come i Primati, erano più indifesi dai rigori del clima.

Fig. 12.6 a 75 milioni di anni fa, dopo l'allontanamento dal primitivo su-percontinente Gondwana, la piattaforma portante l'India iniziò a muo-versi rapidamente verso il Nord-Est.

Fig. 12.6 b 35 milioni di anni fa l'India si spostò circa 4.000 chilometri a nord a una velocità variante fra 16 e 7 cm. per anno. Fu in questo periodo che la direzione dei movimenti delle maggiori placche cambia-rono drasticamente producendo il complicato fondo oceanico che si può osservare oggi. L'Australia si staccò dall'Antartide e iniziò a muoversi nella direzione in cui attualmente si trova. In questa epoca la Penisola araba non era ancora divisa dall'Africa.

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Attraversando l'equatore, il margine occidentale dell'India, che all'inizio del Cenozoico proseguiva il suo movimento verso nord, entrò in contatto con un fronte di magma basaltico che dal man-tello terrestre saliva fino in superficie. Grandi masse di magma eruppero attraverso la crosta e si estesero sopra una larga regione del subcontinente indiano dando luogo allo scudo basaltico del Deccan. Questa eruzione di magma continuò a fluire sul fondo oceanico anche dopo che l'India si era portata a nord producendo la dorsale Chagos-Laccadive che, a seguito di un fenomeno di subsidenza entro l'Oceano Indiano, si coprì di coralli. Questa serie pressoché ininterrotta di isole è possibile che abbia per un certo tempo facilitato la migrazione di forme diverse di animali.

Da ultimo (circa 20 milioni di anni fa) un ramo della frattura dell'oceano Indiano separò l'Arabia dall'Africa, creando il Golfo di Aden e il Mar Rosso. Una derivazione di questa frattura si estese sinuosamente verso ovest e verso sud nel continente afri-cano.

Mentre l'Atlantico continuava a espandersi a settentrione, il moto verso nord-ovest della massa euroasiatica si fermò e si invertì, invertendo così contemporaneamente anche il suo moto relativo rispetto all'Africa. Questa nuova direzione di attrito ha influito in modo determinante sui caratteri tettonici del Medi-terraneo e del Medio Oriente.

L'Australia, durante tutto il Terziario, non ha avuto nessun legame di terraferma né con l'Africa né con l'Asia: per questo nessun Primate vi giunse fino a che non arrivò l'Uomo durante l'ultimo Pleistocene.

4. Le connessioni fra Africa e America del Sud e il problema dell'origine dei Primati del Nuovo Mondo.

Come si è già detto, l'origine dei Primati del Sud-America ha dato luogo a ipotesi divergenti. Fino a qualche anno fa in-fatti si riteneva che tutti i Primati del Sud-America fossero de-rivati da un gruppo di Proscimmie che originariamente abitarono il Nord-America ( Omomyidae). La possibile esistenza di una connessione relativamente recente fra Africa e Sud-America po-trebbe suffragare l'ipotesi di una provenienza africana di almeno alcuni degli antenati delle attuali Scimmie Platirrine.

L'espansione del fondo oceanico atlantico è un fatto confer-

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mato dallo studio dei sedimenti che sono sempre più antichi man mano che ci si allontana dalla dorsale altantica. Il fenomeno deve essersi iniziato circa 150 milioni di anni fa e deve essersi svi-luppato con una media di 4 cm l'anno. I dati stratigrafici dimo-strano che il mare raggiunse le coste dell'Africa del sud-ovest 120 milioni di anni fa, il Congo circa 10 milioni di anni dopo e la Nigeria 105 milioni di anni fa. Questo insinuarsi del mare non fu costante ed ebbe espansioni diverse anche nell'interno dell'Africa e fu intorno a 92 milioni di anni fa che una frattura si realizzò fra la protuberanza dell'Africa e il nord del Brasile.

All'inizio del Cenozoico (circa 75 milioni di anni fa), la distanza che separava il Sud-America dall'Africa meridionale do-veva essere di circa 3.000 km, ma questo non vuoi dire che una qualche connessione non esistesse nelle regioni più a nord. È pos-sibile anche che questa si sia mantenuta sotto forma di una serie di piccole isole di origine vulcanica, durante l'Eocene (50-60 mi-lioni dì anni fa). I dati raccolti con i metodi del paleomagnetismo sembrerebbero confermare questa possibilità (fig. 12.7).

Fig. 12.7 La configurazione dei continenti 60-100 milioni di anni fa, ri-costruita basandosi solo sulle evidenze paleomagnetiche. (Da Tarling e Tarling, 1971).

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ZONE DELLE- RIF T

5. La separazione dell'isola del Madagascar.

La storia della separazione dell'isola del Madagascar dal-l'Africa è piuttosto complessa e interessante. Questa zolla di crosta terrestre certamente non ha migrato con la stessa velocità con cui si è mosso il subcontinente indiano, né il suo movimento deve essere iniziato contemporaneamente al movimento dell'India. Il primo movimento del Madagascar verso l'oceano Indiano deve essere avvenuto piuttosto tardi, poiché la massa dell'Africa si muoveva nella medesima direzione e le due masse, quella del-l'Africa e la zolla del Madagascar, devono aver mantenuto una certa coesione per un lungo periodo di tempo. Una separazione attiva deve essere iniziata nei tardo Cretaceo e deve essere ter-minata nel Miocene medio con una velocità di separazione di circa 1,3 km ín 200 anni. L'ampiezza del canale del Mozambico, nei punti di maggiore vicinanza fra il Mozambico e il Madagascar, all'inizio dell'Eocene doveva essere approssimativamente di 80 km, all'inizio dell'Oligocene di 250 km, fino a raggiungere gli attuali 400 km nel Miocene medio.

A parte possibili brevi intermittenti contatti durante l'Eocene inferiore, l'isola di Madagascar deve essere rimasta completa-mente separata dalla terraferma africana dall'Eocene medio in poi, cioè da 40-50 milioni di anni fa. La fauna terrestre africana pertanto o era già presente o deve aver invaso quella che ora è l'isola di Madagascar nel primo Terziario, al massimo agli inizi

Fig. 12.8 Successione dei cambiamenti geografici avvenuti nella regione del canale del Mozambico durante i seguenti periodi: 1. Giurassico su-periore, 2. Cretaceo medio, 3. Cretaceo superiore, 4. Eocene. Le terre emerse sono rappresentate in bianco; il mare, punteggiato.

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dell'Oligocene (34 milioni di anni fa) per mezzo di ponti di terre mobili (fig. 12.8). Da quell'epoca nessun animale che potesse competere con la vita arboricola dei Lemurì arrivò più nel Madagascar, fino a che l'isola non fu raggiunta dall'Uomo circa duemila anni fa.

6. Il sistema delle Rift Valleys.

L'Africa orientale è percorsa da un esteso sistema di valli e depressioni con fiumi, laghi e pianure desertiche generalmente chiamate Rift Valleys (fig. 12.9). Questo sistema va dal Nilo e dal Mar Rosso a nord, allo Zambesi e all'Oceano Indiano a sud.

Fig. 12.9 D sistema delle Rift Valleys nell'Africa orientale.

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Le valli sono larghe da 40 a 80 km e sono generalmente delimi-tate da pareti di rocce quasi verticali, tanto da costituire delle vere e proprie. barriere geografiche per molte forme di animali.

Questo sistema di spaccature della crosta terrestre dell'Africa orientale si è sviluppato durante il Miocene e il Pleistocene (cioè fra i 22 e i 2 milioni di anni fa) ed essendo ancora in attività è prevedibile che in futuro l'intera Africa orientale si sposterà verso nord-est.

7. L'essiccamento del Mediterraneo alla fine del Miocene.

Il movimento verso nord del continente africano e la sua ten-denza alla rotazione antioraria, dopo aver provocato la sua colli-sione con l'Eurasia nella regione orientale, con la conseguente chiusura della Tetide (il « paleomediterraneo.») all'Oceano In-diano, alla fine del Miocene provocò anche una obliterazione del canale che dal Mediterraneo immetteva nell'Atlantico, all'altezza dell'attuale regione di Gibilterra.

Questa obliterazione ha provocato in breve tempo un pro-sciugamento quasi completo del Mediterraneo. Infatti la sua perdita annua d'acqua per evaporazione è di circa 45.000 km3. Soltanto un decimo di tale perdita è compensato dall'afflusso di acque meteoriche e di acque dolci dei fiumi. Il Mediterraneo riesce attualmente a mantenere il suo livello e la sua salinità tramite un continuo travaso dí masse d'acqua dall'Atlantico. Con una tale evaporazione, se fosse chiuso al livello dí Gibilterra, il Mediterraneo si asciugherebbe in meno di mille anni (fig. 12.10).

Infatti quando le comunicazioni con l'Atlantico si interrup-pero, in breve tempo il Mediterraneo si essiccò. Questo fenomeno può essere avvenuto a intermittenza più volte. Inoltre nella re-gione dell'Europa orientale, in questa medesima epoca, si doveva essere formato un grande lago, il « Lac Mer » di cui gli attuali Mar Nero, Mar Caspio e Mar d'Arai sono i residui. Quando, agli inizi del Pliocene, l'occlusione fra l'Atlantico e il Mediterraneo deve essersi definitivamente riaperta, una enorme cascata d'acqua deve aver reinvaso il Mediterraneo.

Queste trasformazioni geografiche della regione mediterranea devono aver avuto anche delle importanti conseguenze sull'intera superficie del globo. Innanzitutto l'essiccamento del Mediterraneo deve aver provocato un incremento del livello delle acque su tutti

246

Fig. 12.10 La geografia dell'Europa, 7 milioni di anni fa, era differente da quella attuale. La maggior parte dell'Europa nord-orientale era co-perta da un vastissimo lago costituito da acque dolci o salmastre che si estendeva dalle adiacenze di Vienna verso est fino al Mar d'Arai.. Questo grande lago interno è stato chiamato Lac Mer. A quel tempo il Mediterraneo era già separato dall'Atlantico. Poco prima del solleva-mento dei Carpazi, avvenuto circa 7 milioni di anni fa, il Lac Mer entrò in comunicazione con il Mediterraneo, fornendo le acque dolci e sal-mastre necessarie a formare una serie di grandi laghi interni, dei quali restano, come traccia, numerosi depositi di diatomee. Alla fine i Carpazi si sollevarono e formarono una barriera che chiuse le comunicazioni fra Lac Mer e il Mediterraneo e quest'ultimo si trasformò in un grande deserto. I grandi laghi si ridussero gradualmente a laghi soprasalati, a ptayas. (Da Hsu, 1973).

gli oceani di forse 10 metri. La risommersione del Mediterraneo agli inizi del Pliocene deve aver d'altra parte prodotto un sostan-ziale cambiamento del clima.

In relazione con queste alterne vicende, i paleobotanici hanno infatti scoperto in Europa un profondo mutamento del clima durante il Miocene superiore, diretto verso condizioni di maggior aridità e temperatura: le foreste viennesi si mutarono in steppe e le palme crebbero in Svizzera. Nel Pliocene invece il clima ri-divenne umido con il ritorno delle acque marine nel bacino me-diterraneo e iniziò la sua degradazione fino alle prime fasi delle grosse glaciazioni che già si estesero alla fine del Terziario (gla-ciazione di Dónau).

In conclusione la storia dei Primati e certe peculiarità della loro distribuzione possono trovare spiegazione nella formazione e nella eliminazione di « ponti », talvolta di breve durata, fra i continenti o fra i continenti e Ie isole.

247

Page 128: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Capitolo tredicesimo

I PRIMATI FOSSILI

1. Introduzione.

Nei capitoli precedenti abbiamo parlato della durata dei tempi geologici, delle condizioni climatiche in cui si è svolta la vita nel nostro pianeta, negli ultimi periodi del Terziario e durante il Quaternario, e dei mutamenti che le terre emerse hanno subito in queste epoche. Si è anche visto che attraverso i reperti fossili è possibile ricostruire la storia biologica dí tutti gli animali, e per meglio dimostrarla abbiamo citato l'esempio delle trasformazioni che dal minuscolo Eohippus hanno condotto all'attuale Stallone. Tuttavia i documenti fossili non sono sempre cosa abbondanti. Questo dipende, in buona parte, dalla maggiore o minore possi-bilità che lo scheletro ha avuto di subire processi di fossilizza-zione e di giungere fino a noi.

Sfortunatamente, per i Primati abbiamo soltanto dati scarsi e frammentari. Vivendo per la maggior parte sugli alberi e nelle foreste, i Primati hanno infatti scarse probabilità che il loro sche-letro subisca processi di fossilizzazione e venga quindi conservato. In luoghi caldo-umidi e ricchi di vegetazione, in breve l'intero cadavere si decompone e anche le ossa vengono distrutte. I più difficili a essere distrutti sono i denti. Ecco perché per i Primati si dispone in abbondanza di questo tipo di reperti fossili; i denti come reperto sono peraltro molto importanti perché morfologica-mente omogenei nell'ambito di ciascuna specie e stabili nelle dimensioni, una volta fuoriusciti dall'alveolo. Anche i denti, tuttavia, non sempre si conservano a lungo in un terreno corro-sivo come quello delle foreste tropicali.

La maggior parte degli strati contenenti fossili di Vertebrati corrisponde a formazioni sedimentarie di mare poco profondo, di estuario o di laguna, dove le spoglie e i resti scheletrici sono spesso

249

Page 129: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Multituberculata o Allotheria

Marsupialia

Eutheria

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pervenuti per trasporto. Qui è avvenuta una sedimentazione piuttosto rapida e hanno così potuto aver luogo i processi di fossilizzazione.

Ciò si è verificato raramente per i Primati; solo per alcuni generi, che vivono in zone di savana, si ha una certa abbondanza di resti fossili. Anche i più antichi Orninidi vivevano sulla terra e all'aperto; successivamente alcuni di essi trovarono comodo vi-vere nelle caverne. Solo 50.000 anni fa l'Uomo cominciò a sep-pellire i morti; da quel momento in poi si hanno reperti abba-stanza frequenti per la nostra specie.

2. 1 Mammiferi mesozoici e i precursori dei Primati.

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Trituberculata o Pantotheria

Fig. 13.1 Le tre principali linee evolutive di mammiferi già presenti fin dal Giurassico (tra i 18 e i 140 milioni di anni fa): i Multituberculata ca-ratterizzati da denti con più di tre radici e con corone dentarie a sei cuspidi; i Triconodonta con denti a tre cuspidi coniche e appuntite e allineate in una serie unica antero-posteriore; i Trituberculata o Pan-totheria, con denti caratterizzati da tre cuspidi coniche appuntite, ma ordinate a forma di triangolo con la punta verso l'esterno per i denti della mandibola e verso l'interno per i denti della mascella.

250

Strutturalmente i Primati sono mammiferi relativamente pri-mitivi e generalizzati: pertanto le loro origini devono essere ri-cercate fra le forme più primitive di mammiferi, di cuí troviamo tracce per la prima volta in strati del Triassico (da 230 a 180 milioni di anni fa) come forme emergenti dalla subclasse dei Rettili Theriodonta. Il più antico mammifero conosciuto è rap-presentato da un cranio pressoché completo di Tritylodon trovato

Fig. 13.2 Crusafontia cuencana (Dryolestidae). Un Trituberculatum del Cre-taceo inferiore trovato in Spagna (Urla). Veduta esterna e interna della mandibola,

251

Page 130: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

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ín strati triassici del Sud-Africa, ma più noti sono i resti di Am-phitherium trovati vicino a Oxford, in strati del Giurassico. La mandibola dell'Amphitherium differisce dalla mandibola dei Ret-tili per essere formata da un solo osso che si articola direttamente col cranio e per avere 16 denti da ogni lato, differenziati in inci-sivi, canini, premolari e molari.

Nel Giurassico si erano quindi differenziate e distinte già tre linee evolutive di mammiferi: i Multituberculata, i Triconodonta e i Trituberculata o Pantotheria (fig. 13.1); ma i Triconodonta si estinsero nel tardo Cretaceo e i Multitubercolata, dopo un grande sviluppo durante il Paleocene, si estinsero nell'Eocene, I Panio-theria o Trituberculata (fig. 13.2) invece si differenziarono in Mar-supialia ed Eutheria nel tardo Cretaceo. Gli Eutheria durante il Paleocene acquistarono grande sviluppo e da essi si differenziarono numerose forme di Primati con caratteristiche molto simili a quelle degli attuali Insettivori.

Questa origine comune e affinità dei Primati con gli Insetti-vori è in qualche modo suffragata dall'ancora incerta posizione sistematica delle Tupaie, che alcuni zoologi considerano Primati mentre altri li attribuiscono agli Insettivori. D'altro canto, poiché filogenetícamente le Tupaie rappresentano una linea evolutiva che poco ha interferito con gli altri Primati, se ne può trascurare una trattazione specifica, dal punto di vista paleontologico.

3. Le prime forme di Proscimmie, la loro dispersione e molti-plicazione.

Già in depositi del primo Terziario sono stati scoperti resti fossili ascrivibili a 55 generi di Proscimmie. Questa grande diffe-renziazione di forme è dovuta, come si è detto, alla frammenta-zione delle terre emerse, ma anche alla diversificazione e al diffondersi delle angiosperme sulle quali le diverse forme di Pro-scimmie si adattarono a vivere (fig. 13.3). Dal punto di vista eco-

Fig. 13.3 Tentativo schematico della dispersione dei Primati nel tempo e nello spazio. 1 = Forme più ancestrali di Primati (? Paromomyidi); 2 = Omomyidae; 3 = Lemuroidi; 3a = Lemuridi; 3b = Lorisidi; 4 = Tarsiidae; 5 = Ada-pidae; 6 = Notharctidae; 7 = Scimmie sud-americane; 8 = Scimmie del Vecchio Mondo. N.A. = Nord-America; Eu. = Europa; As. = Asia; S.A. = Sud-America; Af. = Africa; M. = Madagascar. La parte punteg-giata indica connessioni intermittenti. (Da A. Walker, 1972).

252

1. Dal tardo Cretaceo al medio Paleocene. Le forme più antiche dí Primati (? Paromomyidi) erano pre-senti in Africa, Europa, Nord-America e probabil-mente in Asia. La più antica forma di Primate co-nosciuta è degli strati del tardo Cretaceo nel Nord-America. Non ci sono evidenze per gli altri conti-nenti.

2. Dal tardo Paleocene al primo Eocene. Diversifi-cazione delle prime forme di Primati che danno ori-gine alte famiglie Tupaiidae, Phersacolemuridae, Ple-siadapidae, Notharctidae, Adapidae, Anoptomorphidae e Omomyidae. Probabilmente perlomeno gli Omo-myidae e i Phenacolemuridae erano presenti in tutte le masse continentali anche se non si hanno docu-menti per l'Africa. Essi erano comunque presenti nel Madagascar e nel Sud-America in questo periodo.

3. Dal tardo Eocene all'Oligocene inferiore. La de-finitiva affermazione degli Adapidae e dei Tarsiidae in Eurasia e dei Notbarctidae e Omornyidae in Nord-America.

4. Dal lardo Oligocene al Miocene inferiore. In questo periodo il gruppo dei Primati africani dà origine alle forme ancestrali di Cercopitecoidi con i maggiori gruppi (Parapítecidi, Ilobatidi e Pongidi); i Lorisidi erano già rappresentati da molte specie e la loro stretta relazione con i Lemuroidi del Mada-gascar è provata da molte importanti caratteristiche morfologiche e comportamentali.

5. Dal Miocene medio ad oggi. Il libero e attivo movimento della fauna per la chiusura del Tetide durante il Miocene, come prima conseguenza ebbe la diffusione in Europa ed Asia dei Primati ad habitat forestale. Pongidi, Ilobatidi, Oreopitecidi e Cercopi-tecidi si diffusero fuori dell'Africa anche se alcune specie per ciascuna famiglia rimasero nel continente africano. Oggi solo rappresentanti dei Pongidi e dei Cercopitecidì sopravvivono in Africa a causa della competizione risultata dalla forte radiazione adattiva delle Cercopitecine. Alla fine del Miocene anche gli Ominidi dall'Africa estesero il loro territorio in Eurasia.

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Tarsioidea Ceboídea Cercop. Hominoidea

Fig. 13.4 Albero filogenetico dei Primati basato sui resti fossili. (Da Hoff-stetter, 1974).

logico l'adattamento delle prime forme dí Primati alla vita arbo-ricola può essere motivato dalle abitudini alimentari che questi nostri antenati dovevano avere. Durante il Cretaceo, con lo svi-lupparsi delle grandi foreste di latifoglie, si ha il proliferare di molte forme dí insetti che, a differenza di loro lontani antenati, vivevano fuori dell'acqua e sugli alberi anche durante lo stadio larvale. Questo è stato uno degli incentivi perché alcuni Inset-tivori e alcune forme di Primati seguissero il loro cibo preferito sugli alberi.

Tutte le forme fossili post-eoceniche di Primati possono essere

254

raggruppate nei quattro gruppi dei Lorisiformi, Lemuriformi, Tar-siformi e Simiformi. Sembra quindi che i rappresentanti dí questi gruppi si siano differenziati all'inizio del Terziario, con la possi-bile eccezione dei Lorisiformi e dei Lemuriformi che si differen-ziarono più tardi (Oligocene-Miocene).

Le forme più antiche erano già presenti durante il Paleocene. All'insieme di forme eoceniche e paleoceniche viene dato il nome di Paromomiformi. I Paromomiformi sono rappresentati dalle fa-miglie dei Parontomyidae, dei Microsyopidae, dei Plesiadapidae, dei Carpolesiidae e dei Picrodontidae. Ad esse viene aggiunto, forse un po' artificialmente, il genere Purgatorius, l'unico Pri-mate conosciuto in strati del tardo Cretaceo e del Paleocene inferiore (fig. 13,4).

Questo gruppo di forme ebbe origine probabilmente nel-l'attuale Nord-America e di lì si diffuse nell'attuale Europa; non in Asia che in quei tempi era ancora separata dall'Europa dal mare Uralico, mentre il Nord-America era un tutto unico con l'Europa.

255

Lori - Lemu- Ada- soidea roidea po idea

Fig. 13.5 a) Frammento di mandibola di Pbenaco-lemur frugivorus (Palco-cene, Nord-America). b) Cranio di Plesiadapis: veduta laterale sinistra. c) Anaptomorphus demu-lus: veduta laterale sini-stra della mandibola. (Da Genet-Varcin 1963).

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Fig. 13.6 Scheletro di Notbarctus osborni (Eocene medio, Nord-America), ricostruito. (Da Genet-Varcin, 1963, ridisegnato).

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Fig. 13.7 Cranio di Adapis magnus: a) veduta laterale sinistra; b) veduta in norma superiore.

Fin dall'inizio dell'Eocene nel Laurasia compaiono poi due gruppi nuovi di Primati: i Tarsiformi e i Lemuriformi, entrambi probabilmente da forme specializzate di Paromomiformi. I Tarsi-formi si estinsero in Asia, i Lemuriformi dall'Africa passarono in Europa e, da qui, in Nord-America.

È impossibile al momento decidere ove fosse il centro gene-tico di queste forme, ammesso che sia esistito un centro genetico unico. All'inizio dell'Oligocene molte delle forme sviluppatesi nell'Eocene (Notharctidae, Plesiadapidae e molte altre specie di Paromomiformi) si estinsero, forse perché erano troppo specializ-zate e in competizione con i Roditori e i Lagomorfi. Tuttavia, le forme appartenenti agli Adapidae e agli Anaptomorpbidae (com-prendenti anche gli Ornomyidae e Microchoerus), non avendo atti- tudini roditori, devono la loro continuità di esistenza proprio alla mancanza di specializzazione. La Daubentonia, che è l'unica Proscimmia vivente con specializzazione da roditore, ha proba-bilmente acquisito solo di recente questa caratteristica.

Resti di Adapidae sono stati ritrovati in strati Eocenici e Oli-gocenici dell'Europa, Asia e Nord-America. Gli Adapidae erano forme simili ai Lemuri (per questo dette anche « Protolemuri »),

257

Page 133: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

non specializzate, con cervello relativamente ridotto e formula dentaria.

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Pm, —3 — 2 1 4 Esse rappresentano probabilmente le forme ancestrali dei Lorisi-dae e dei Lemuridae attuali, o sono comunque loro stretti parenti, e non hanno niente a che fare con le forme che hanno dato ori-gine alle Scimmie e, quindi, all'Uomo; si estinsero nel medio Oligocene. Resti fossili dí Lorisidae sono stati trovati, dal Mio-cene ad oggi in Africa e dal Pleistocene ad oggi in Asia; resti di Lemuroidea, dall'Oligocene ad oggi in Madagascar.

La mancanza di resti fossili del Terziario nel Madagascar ci impedisce di conoscere quando e da dove gli antenati degli attuali Lemuriformi raggiungessero il Madagascar. È comunque quasi certo che essi provenivano dall'Africa. Tutte le forme fossili e viventi di Lemuriformi possono essere descritte come Strepsirrhini che si differenziano anatomicamente e fisiologicamente dagli Ha-plorrhini, a cui si ascrivono i Tarsiformi e i Simiformi (vedi cap. VII).

4. Gli Haplorrhini, le loro dicotomie e l'origine dei Simiformi.

La dicotomia degli Haplorrhini in Tarsiformi e Simiformi è molto antica e risale all'Oligocene inferiore.

Gli Anaptomorphidae infatti, con forme nel Nord-America e in Europa (l'Asia era ancora separata dall'Europa dal mare Ura-lico) erano forme non specializzate, del tipo dei Tarsi che niente avevano a che fare con gli Adapidae. Dagli Anaptomorphidae o dagli Omomyídae si presume abbiano preso origine tutte le forme attuali di Scimmie prima che gli antenati degli attuali Tarsi si specializzassero. Forme diverse di Tarsiformi sono note in strati dell'Eocene superiore del Nord-America e dell'Europa e succes-sivamente compaiono in Asia: una distribuzione quindi unica-mente laurasica.

La famiglia degli Omomyidae ebbe una grande espansione durante l'Eocene, mentre in periodi successivi sono stati reperiti pochi rappresentanti, tutti in Nord-America. I Simiformi costi-tuiscono fra tutti i Primati l'infraordine che ha avuto maggior successo. L'unità del gruppo è stata messa in dubbio a più riprese

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per ragioni paleogeografiche e si è tentati di proporre origini indi-pendenti per le Scimmie del Nuovo Mondo (Scimmie Platirrine) rispetto alle Scimmie del Vecchio Mondo (o Scimmie Catarrine). Studi recenti sulla possibile origine africana delle Scimmie Platir-rine tendono invece a rendere questo gruppo più compatto e a valorizzarlo come unità tassonomica e filogenetica.

Le regioni a nord del Teti (il Laurasia), nonostante le molte ricerche fatte, non hanno fornito resti di Simiformi in strati ante-cedenti al Miocene. È quindi nelle regioni meridionali che si deve cercare l'origine dei Simiformi; e infatti essi compaiono in strati del primo Oligocene ín Africa (a Fayum) con tre famiglie (Para-pithecidae, Pongidae e Hylobatidae) e in Sud-America (Bolivia.) con il genere Branisella (fig. 13.3).

Il Sud-America non ha per il momento fornito altri resti e in genere si tende a pensare che gli antenati delle Scimmie Pla-tirrine siano arrivate in Sud-America inseme con i Roditori e i Caviomorfi attraverso passaggi diversi all'inizio dell'Oligocene o in tempi ancora precedenti. Anche se sino ad oggi non si sono trovati resti antecedenti all'Oligocene, è molto probabile che le prime forme di Simiformi sí siano originate in Africa, forse nel-l'Africa Centrale. Una possibile traccia di forme di Simiformi antecedenti all'Oligocene proviene da strati del tardo Eocene di Burma (dalle sabbie di Pondaung), ove sono stati trovati resti fossili con caratteristiche che da alcuni paleontologi vengono at-tribuite ai Primati. Benché i caratteri di tali reperti non siano ben definiti, in base a questi resti sono stati descritti due generi: Poundangia (Pilgrim 1927) e Amphipithecus (Colbert 1937). È probabile che l' Amphípithecus sia veramente un Primate con ca-ratteristiche simiformi, ma per collocare questi fossili con le altre forme di Primati sarebbe tuttavia importante conoscere le con-nessioni di questa regione con le altre terre emerse durante l'Eo-cene, la cui storia è però attualmente ancora incerta.

5. L'origine delle Platirrine.

Le forme fossili di Platirrine sono poche e frammentarie se si eccettuano quelle dell'ultimo Quaternario del Brasile. Questo fatto è dovuto quasi certamente all'habitat di foresta neotropi-cale, che, come si è detto, non facilitò certo i processi di fossiliz-zazione. Le forme fossili note possono essere ripartite in 7 generi

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Page 134: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

4 Antenati 5 delle scimmie 6 del Nuovo

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scimmie, né di Tarsiformi precedenti all'Oligocene, si deve pen-sare che i Simiformi siano pervenuti in questo continente dal Nord-America o dall'Africa. Il Branisella ha caratteristiche di un Cebide molto primitivo con caratteri dentari che in qualche modo lo avvicinano agli Omomyidae.

La presenza di Omomyidae in Nord-America farebbe presu-mere che i Simiformi sudamericani si siano originati dalle forme di Omornyidae nordamericani. Tuttavia dal Paleocene in poi, fino al Pliocene, l'America del Nord era separata dall'America del Sud da un ampio oceano, certamente più grande di quello che durante l'Eocene e il primo Oligocene separava il Sud-Ame-rica dall'Africa. Inoltre la traversata su zattere naturali (tronchi d'albero, per esempio) di una barriera marina è condizionata non-solo dalla distanza da percorrere, ma anche dalla direzione delle correnti marine. Ora, durante l'Eocene e l'Oligocene, le correnti equatoriali dovevano sfiorare il canale dell'America centrale da est a ovest, costituendo così un ostacolo per un attraversamento nord-sud, mentre favorivano il convogliamento dall'Africa al Sud-America, in modo unidirezionale, dei materiali affioranti. Così nel continente sud-americano entrarono dall'Africa i Roditori, i Caviomorfi e i Primati. Ciò non significa che il trasporto fosse facile. La maggior parte di questi tentativi dovette fallire, ma un solo successo può essere stato sufficiente allo sviluppo di una popolazione di Scimmie africane tale da colonizzare il Sud-Ame-rica e per iniziare una evoluzione locale che ha dato origine alle diverse forme di Scimmie Platirrine. La biologia dei gruppi attual-mente viventi può stabilire se questi arrivi furono uno o più di uno.

Fig. 13.8 Le due Americhe intorno a 40 milioni di anni fa separate da un ampio mare percorso da correnti provenienti dal mar Tetide. Nell'Ame-rica meridionale sono indicati i luoghi di rinvenimento dei vari fossili di Primati.

ascrivibili al primo Oligocene della Bolivia (Branisella, Hoffstet-ter 1969) al tardo Oligocene della Patagonia ( Dolichocebus, Kraglievich 1951), al primo Miocene della Patagonia ( Homuncu-.1us, Anneghino 1891), al tardo Miocene della Columbia (Cebupi-thecia, Stirton 1951; Neosaimiri, Stirton 1951; Stirtonia, Hersko-vits 1970) e al sub-recente della Giamaica ( Xenothrix, Williams e Koopman 1952). Non essendovi nel Sud-America resti di Pro-

260

6. L'origine e l'espansione delle Catarrine.

Anche se la documentazione è lungi dall'essere completa, la quasi totalità dei dati è a favore di una origine africana dei Si-miformi in generale, e delle Scimmie Catarrine in particolare. Tutte e sei le famiglie di questo gruppo sono, o sono state, pre-senti in Africa. I Parapitheeidae sono localizzati unicamente in questo continente in strati del primo Oligocene. I Pongidae tro-varono i loro primi ascendenti nell'Aegyptopithecus e nell'Oti-gopithecus del primo Oligocene, dei quali cí sono rimasti reperti fossili.

261

Page 135: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Gli Hylobatidae trovano il loro antenato più antico nell'Aelo-pithecus dell'Oligocene. I Cercopithecidae nel Victoriapithecus e nel Prohylobates del Miocene. Gli Oreopithecidae nel Mabokopi-thecus e nell'Oreopithecus del Miocene. Gli Hominidae nel Ra-mapithecus del Miocene o comunque nelle Australopithecinae del Plio-Pleistocene. È quindi ovvio considerare sicura l'origine afri-cana delle Catarrine. Dal punto di vista filetico rimangono tuttavia aperti diversi problemi come le relazioni dei Para-pithecidae e degli Oreopithecidae con le altre famiglie, la posi-zione dell'Apidium e l'antichità e origine della linea filetica degli Hominidae; come anche il modo in cui queste forme di Simiformi si sono disperse dall'Africa all'Eurasia. Scambi di fauna con la piattaforma indiana possono essersi verificati anche prima del Miocene. Dal Miocene in avanti tuttavia si stabili una co-municazione terrestre almeno in modo intermittente fra Africa ed Eurasia, con il risultato di un massiccio scambio di fauna al quale parteciparono anche le Scimmie Catarrine. La loro espan-sione è ampia a ovest fino alla Spagna e a est fino all'Indonesia e al Giappone, ma le loro peculiari esigenze climatiche non hanno permesso alle Catarrine di usare lo stretto di Bering per invadere l'America del Nord dall'Asia.

Gli Hylobatidae compaiono dapprima in Europa con il Pito-pithecus (medio e tardo Miocene) e solo più tardi in Asia (nel Pleistocene). I Pongidae sono fra le prime forme ad invadere l'Eurasia nel tardo Miocene con le forme di Dryopithecus seguite dai generi asiatici di Gigantopithecus e Pongo. Anche l'ominide Ramapithecus raggiunge l'Asia durante il tardo Miocene.

Stranamente i Cercopithecidae sembrano essere fra gli ultimi arrivi e sono sconosciuti in Eurasia prima del Pliocene. Gli Oreo-pithecidae hanno fatto incursioni limitate sia nel tempo che nello spazio nel tardo Miocene della Toscana dove dovevano essere arrivate direttamente dall'Africa quando il Mediterraneo era privo, o quasi, di acqua.

È difficile dire se i -Cercopithecidae abbiano o no rappresen-tato uno stadio nell'evoluzione deì Pongidae e degli Hominidae o se entrambi questi gruppi si siano evoluti indipendentemente. Oltre alle differenze di pastura e di locomozione ve ne sono altre molto importanti, come per esempio la differenza nel tipo di pla-centa: i Cercopithecidae hanno una placenta a due dischi, mentre quella delle Antropomorfe e dell'Uomo ne ha uno solo. Forse il resto di Amphipithecus (fig. 13.9) trovato a Burma può essere

262

e hyp..d C

Fig. 13.9 Cranio di Necrolemur antiquus: veduta laterale destra: M = mo-lari; P = premolari; C = canini. Parapithecus fraasi (Oligocene, Egitto), mandibola con denti in veduta superiore: met.d = metaconide; hyp.d = hypoconulide; pr.d = protoconulide; ent.d = entoconide. Arnphipithecus mogaungensìs (Eocene superiore, Burma): frammento di mandibola in veduta laterale destra, con M,, P3, P,. (Da Genet-Varcin, 1963).

la chiave per risolvere questo problema, ma altri fossili sono necessari prima di poter provare queste relazioni.

7. Forme fossili di Parapìthecidae, Cercopithecidae e Hylobatidae.

Non tenendo conto dei Parapithecidae, che si sono presto estinti e non sembra abbiano avuto relazioni filetiche con le altre forme di Catarrine, il primo resto, certamente attribuibile a un antenato di Cercopithecidae, è stato trovato nell'Africa orientale in terreni del Miocene superiore ed è stato chiamato Mesopi-thecus (fig. 13.10). Altri esseri appartenenti al medesimo genere, o a generi simili, sono stati trovati in Germania, in Cecoslovacchia

263

Page 136: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

B

Fig. 13,10 Afesopitbecus pentelici: A) scheletro; B) veduta laterale sinistra del cranio. (Da Genet-Varcin, 1963).

e nell'Iran, in strati da attribuire al tardo Miocene o al primo Pliocene. Di essi il più completo è quello trovato a Pikermi, in Grecia.

Esso è certamente un antenato delle Colobinae, in quanto il cranio, la mandibola e i denti rassomigliano a quelli dei rappre-sentanti asiatici di questo gruppo. L'apparato masticatore è net-tamente di tipo vegetariano. Il resto dello scheletro è tuttavia

264

meno specializzato di quello delle Colobinae attualmente viventi e più simile a quello delle Macache e dei Babbuini. Il femore è più lungo dell'omero. L'ischio ha un'area ampia e composita che fa presupporre l'esistenza delle callosità ischiatiche tipiche delle Macache e dei Babbuini. Per queste e altre ragioni si può ritenere che questa scimmia vivesse prevalentemente in terra. Il suo resto può pertanto essere considerato come intermedio fra i due gruppi dei Cercopithecidae viventi (Cercopithecinae e Colobinae), pur avvicinandosi maggiormente alle Colobinae.

Il Mesopithecus sopravvisse con forme diverse fino al Pliocene in India e al primo Pleistocene in Francia.

Fino ad oggi non si sono trovati resti di Cercopithecinae fos-sili da attribuire a periodi anteriori al Pliocene, quando diverse specie di Macache ( Macaca primi e altre) apparvero in Francia, Olanda e Italia. Altri resti fossili di Macache sono stati trovati in altre località dell'Europa, Indocina e Cina, in terreni apparte-nenti al Pliocene. Gli antenati dei generi Papio e Theropithecus per la prima volta comparvero nel tardo Pliocene o nel primo Pleistocene dell'Africa orientale: ne sono prova i resti di Sitnopi-tbecus. Il genere Cercopithecus compare in strati del Pleistocene inferiore dell'Etiopia (Valle dell'Orno).

Il più antico resto fossile finora trovato, somigliante agli attuali Gibboni, è il Propliopitbecus. La mandibola è circa 2/3 di quella di un Gibbone vivente e da ciò si deduce che questo primitivo Ilobatide doveva avere dimensioni di poco superiori a quelle di un grosso gatto. La mandibola è a forma di V e per-tanto molto simile a quella di una Proscimmia. I rami ascendenti sono più alti di quelli degli attuali Gibboni, il che fa pensare ad una faccia più lunga. I molari hanno cinque cuspidi e i premo-Iati due. Sebbene i canini siano danneggiati, è presumibile che

Fig. 13.11 Limnopithecus macinnesi: veduta laterale sinistra della faccia esterna della mandibola.

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Fig. 13.13 Lo scheletro di Oreopitbecus bambolii rinvenuto nella miniera di Baccinello (Grosseto) il 2 agosto 1958, così come risulta ora preparato nel Museo di Paleontologia dell'università di Firenze ove è conservato l'originale.

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avessero la lunghezza di quelli dei Gibboni attuali; iI primo premolare non è completamente diviso; gli incisivi mancano. La mandibola è massiccia.

Un altro reperto con caratteri gibbonoidi è stato trovato in strati databili complessivamente al Miocene inferiore, nell'isola di Rusinga nel Lago Victoria (Kenya) e ad esso è stato dato il nome di Limnopithecus (fig. 13.11). 11 reperto consiste di fram-menti di mandibola, denti e ossa lunghe. I canini sono più corti di quelli degli attuali Gibboni e i premolari inferiori meno spe-cializzati, gli incisivi sono un po' più piccoli e la mandibola più robusta. Lo scheletro degli arti è, per molti caratteri, intermedio fra quello dei Cercopithecidae e quello degli Hylobatidae. Gli arti inferiori sono più corti di quelli dei Gibboni viventi e l'in-tero cingolo toracico meno specializzato per la brachiazione.

Nel Miocene medio e superiore, un'altra forma ancestrale di Gibboni è vissuta in Europa (Cecoslovacchia). Ad esso è stato attribuito il nome di Pliopithecus (fig. 13.12). La dentizione del Ptiopithecus è molto simile a quella del Liinnopithecus. La mandibola ha in parte la forma a V, e fa ricordare quella delle Proscimmie. La distanza interorbitaria è più grande e la regione nasale più ampia di quella degli attuali Gibboni. Lo scheletro del corpo presenta molte sirnilitudini con quello dei Gibboni attuali, sia per dettagli della pelvi sia per alcune caratteristiche

Fig. 13.12 Cranio di Pliopitbecus proveniente da Neudorf (Cecoslovacchia): veduta frontale e veduta laterale sinistra. (Da Zapfe, 1958).

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delle vertebre. Lo sterno è ampio e piatto come quello dei bra-chiatori e dell'Uomo, ma la clavicola è a forma di S come quella delle Antropomorfe. Il tronco e gli arti presentano caratteri co-muni con i Gibboni, i Cercopitecidi e altre Antropomorfe. Questi dati fanno si che il Pliopithecus si possa considerare un brachia-tore solo parziale.

I resti di Litanopithecus e Pliopithecus provano dunque l'esistenza di forme ancestrali di Gibboni, durante il Miocene, in Europa ed in Africa. Fin dal Miocene, quindi, i Gibboni si separarono dal gruppo delle altre Catarrine e cominciarono a di-stinguersi dagli antenati delle Antropomorfe vere e proprie e dagli antenati dell'Uomo.

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Fig. 13.14 Mandibola di Apidium phiornens (Oligocene: Fayum, Egitto).

8. Gli Oreopithecidae.

Un altro reperto fossile la cui attribuzione è molto discussa per le sue caratteristiche, da alcuni considerate da ominoide e da altri da cercopitecoide è l'Oreopithecus bambolii (fig. 13.13).

I primi resti dell'Oreopiteco (una mandibola incompleta gio-vanile e qualche frammento di altre ossa) furono scoperti da Cocchi, nel 1871, nelle ligniti della miniera di Montebàmboli, da cui îl fossile prese nome. Altri resti furono trovati a Ribolla e a Baccinello, sempre nel Grossetano. A parte l'ultimo sche-letro trovato completo o quasi, si tratta prevalentemente di diverse mandibole, di tre mascelle, dell'estremità prossimale di un'ulna e di quella di un femore.

Il Gervais, che studiò i primi reperti (1872), li descrisse come

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quelli di una Antropomorfa; successivamente altri studiosi rile-varono, specialmente nel terzo molare, alcune somiglianze con le Cercopithecinae e classificarono l'Oreopiteco tra questi. Più di recente Hiirzeler lo ha ricollocato sulla linea evolutiva degli Ominidi facendolo così risalire al Pliocene inferiore.

L'Oreopiteco visse intorno a 12 milioni di anni fa. La sua statura era di poco superiore al metro e doveva pesare intorno a 40 Kg. La lunghezza delle braccia dimostra che doveva essere un ottimo brachiatore, ma questa caratteristica non gli dovette impedire di muoversi di tempo in tempo anche sul terreno come dimostra la forma e la larghezza del bacino, la brevità del suo corpo e la morfologia dei femori. La faccia è corta; la capacità endocranica di circa 400 cc.

È probabile che questa forma non abbia nessun rapporto con le Dryopithecinae, né con le altre forme che abbiamo descritto, ma che rappresenti un distinto ramo evolutivo, staccatosi dal gruppo principale prima del Miocene. Forme simili all'Oreopi-thecus sono state trovate anche in Bessarabia.

I denti di questi resti, poi, presentano molte similitudini con i resti di Apidium, trovati negli strati oligocenici dell'Egitto (fig. 13.14). Poiché nei depositi oligocenici dell'Egitto sono stati trovati, oltre ai resti di Apidium, anche i resti del Parapithecus (la forma assai discussa di cui già si è detto), del Propliopithecus (preteso precursore dei Pongidi) e del Mesopithecus (il possibile precursore delle Cercopitecine), i tre gruppi dei Cercopitheci-dae, dei Pongidae e degli Oreopithecidae dovevano essere già a quel tempo distinti come gruppi indipendenti. Mentre i Cerco-, pithecidae e i Pongidae hanno ancora dei rappresentanti viventi, gli Oreopithecidae scomparvero nel Pliocene inferiore. La loro estinzione è probabilmente da mettere in relazione alla reinva-sione delle acque nel Mediterraneo e ai profondi cambiamenti che a seguito di questo evento si ebbero nella regione all'inizio del Pliocene, intorno a 12 milioni di anni fa (vedasi cap. pre-cedente).

9. Gli antenati dei Pongidae viventi.

Niente, purtroppo, possiamo dire degli antenati pleistocenici sia del Gorilla che dello Scimpanzé. Solo per l'Orango abbiamo alcuni denti che ci illustrano la sua immediata preistoria.

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Fig. 13.15 Carta di distribuzione delle Dryopithecinae (Miocene e Pliocene iniziale). I fossili sono indicati sulla carta con grandi punti neri. Sulla carta sono riportati pure i luoghi di rinvenimento del Ramapithecus e del Kenyapithecus. (Da Simons, 1964).

Questa assenza di reperti è dovuta al genere di vita forestale di questi Primati il cui scheletro viene rapidamente decomposto nell'humus acido del suolo dopo la morte.

Invece la linea evolutiva che conduce alle attuali Antropo-morfe è molto ben tracciata per gli ultimi periodi del Terziario (Miocene e Pliocene), come testimoniano numerosi resti reperiti in Europa, Asia ed Africa (fig. 13.15).

Durante il Miocene, periodo nel quale apparvero i primi an-tenati dei Gibboni, comparvero anche gli antenati dello Scim-panzé (Pan) e del Gorilla ( Gorilla), derivanti probabilmente dal medesimo ceppo originario. Resti di possibili antenati miocenici dell'Orango (Pongo pygmaeus), invece, fino ad ora non sono stati trovati.

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Alcuni autori classificano queste forme ancestrali di Antro-pomorfe come una subfamiglia a sé, le Dryopithecinae, e chia-mano le loro discendenti attuali, Ponginae; tuttavia esse, più che essere forme distinte, sono collegate fra loro per discendenza, e quindi i termini Dryopithecinae e Ponginae stanno ad indicare in sostanza stadi evolutivi successivi.

La più antica di queste forme è il Proconsul, con distribu-zione africana. Esso è ora considerato sottogenere del genere Dryopithecus. Resti di questo pongide furono trovati nell'isola di Rusinga nel Lago Victoria, nel medesimo deposito dove furono trovati anche i resti del Limnopithecus. Questi resti possono

Fig. 13.16 Veduta frontale del cranio di Proconsul africanus. A fianco la mandibola vista dal lato sinistro. (Da Le Gros Clark e Leakey, 1951).

essere differenziati in tre specie, diverse per dimensioni: il Dryo-pithecus (Proconsul) africanus, poco più grande di un Gibbone; il Dryopithecus (Proconsul) nyanzae, delle dimensioni di uno Scimpanzé; e il Dryopithecus (Proconsul) major, delle dimensioni di un Gorilla. Morfologicamente invece essi si presentano molto simili fra loro.

Il Dryopíthecus (Proconsul) africanus è il più conosciuto, per l'abbondanza dei resti che sono stati rinvenuti (fig. 13.16). Nel complesso appare essere stato un buon brachiatore. La testa è rotondeggiante. La fronte presenta un angolo di 55° con il piano passante per le cavità orbitarie e il meato uditivo (per il Gorilla il valore di questo angolo è di 350, per l'Uomo di circa 90°). La capacità cranica non è stata misurata direttamente, ma può essere considerata intermedia fra quella degli attuali Gibboni (circa

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200 cc.) e quella degli attuali Scimpanzé (circa 400 cc.). La parte frontale della cavità endocranica presenta molte caratteristiche più simili a quelle delle Catarrine che a quelle delle Antropo-morfe. La distanza interorbitaria è grande e le orbite sono dispo-ste un po' lateralmente per cui è presumibile che questi animali non avessero una visione stereoscopica completa. La mandibola è piuttosto minuta e conserva in parte la forma di V. Glí attacchi muscolari non sono massicci come nelle Scimmie inferiori. I denti incisivi hanno le dimensioni di quelli umani; il cranio è più grande, ma non come quello di un'Antropomorfa attuale, e sulla parte mascellare della faccia vi è una piccola depressione (fossa canina) che è presente nell'Uomo, ma non nelle Antropomorfe. Il primo premolare inferiore presenta la cuspide divisa in più parti, come quella delle Antropomorfe attuali. L'arto superiore è particolarmente interessante per dirimere la questione del-l'eventuale condizione brachiatrice di questi animali. L'omero, il

Fig. 13.17 Veduta laterale sinistra della faccia esterna della mandibola di Dryopithecus lontani. (Da Genet-Varcin, 1963, ridisegnato).

Fíg. 13.18 brapiihecus indicus: veduta laterale destra del mascellare. (Se-condo Pillonn, 1927).

Fig. 13.19 Macellare di Ramapithecus brevirostris: veduta laterale destra. (Da Situ i% 1.961. .

l'Europa, dove questo genere sopravvisse fino a tutto il Pliocene, nell'Asia meridionale e in strati di lignite della Cina. Nei primi decenni del nostro secolo sono poi stati trovati un gran numero di denti e di mandibole di Dryopithecinae in un deposito fossi-lifero del nord dell'India (le colline Siwalik). Questi resti, già classificati in diversi generi (Sivapithecus, Sugrivapithecus, Bra-mapithecus, Ramapithecus e Paleosimia), sono tutti da attribuire al Pliocene inferiore. Di essi, il gruppo facente capo al Sivapi-thecus (fig, 13.18), viene ora descritto carne sottogenere del genere Dr:opithecus, come d'altra parte è avvenuto per l'afri-cano Procou%111; mentre il Ramapithecus (fig. 13.19) e gli altri pochi affini sono raggruppati in un genere a sé.

Il fossile elle presenta più caratteristiche in senso « ominide » è quello climi finto col nome di Ramapithecus. Esso, o qualche cosa di simile, è certamente alla base dell'evoluzione degli Homi-

radio e l'ulna, le ossa carpali e metacarpali e le falangi mostrano che questo animale, pur avendo qualche caratteristica dei Primati quadrumani arboricoli, presenta nette caratteristiche di buon bra-chiatore. Non è stata invece riscontrata nessuna delle caratteri-stiche tipiche delle Scimmie quadrumani terrestri del tipo della Macaca e del Papio.

Contemporaneamente alle forme africane ora menzionate, molte altre simili vivevano e' si differenziavano in Europa e nel-l'Asia. Il nome dell'intero gruppo deriva anzi dal primo di questi reperti: una mandibola trovata in Francia nel 1856 in strati del Miocene medio ( Dryopithecus fontani) (fig. 13.17). Resti di Dryopithecus sono stati inoltre trovati in diverse altre parti del- Fig. 13.20 Mandibola di Gigantopithecus.

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nidae, il cui centro di origine è stato posto da alcuni studiosi nell'Asia orientale.

Nel gruppo delle Dryopithecinae asiatiche possono essere clas-sificati anche i resti del Gigantopithecus, anche se si differenziano per alcune caratteristiche e per essere più recenti (Pleistocene), (fig. 13.20). È certamente una delle più grosse forme di Primati finora esistite. Originariamente fu descritto sulla base di pochi denti scoperti da van Koenigswald in una farmacia cinese. Solo di recente (1956) è stata scoperta una mandibola in strati del-l'antico e medio Pleistocene della Cina meridionale. I canini sono più piccoli di quelli di ogni altra Antropomorf a e, a parte la sua grossa taglia, appare più simile all'Uomo che non alle Antro-pomorfe viventi. Più di recente, sono state raccolte altre due mandibole incomplete, ascrivibili al medesimo tipo, che gli sco-pritori, gli antropologi cinesi Pei e Li, attribuirono al Villafran-chiano, a un periodo cioè precedente al Pleistocene medio.

Denti attribuibili a forme di Gigantopiteco sono state tro-vate in India e in Pakistan, oltre che in Cina, in giacimenti databili fra i 10 e i 2 milioni di anni fa.

Nel prossimo capitolo svilupperemo il discorso del Ramapi-thecus e vedremo come da questo gruppo di resti o da forme simili a questi si può far originare la linea evolutiva degli Ominidi.

Capitolo quattordicesimo

GLI OMINIDI E LA LORO EVOLUZIONE

1. _1" Pongidi, gli Ominidi e il «Ramapithecus ».

Due fondamentali caratteristiche fisiche distinguono gli Ho-minidae dai loro parenti più prossimi, i Pongidae, entro la super-famiglia degli Hominoidea: la postura e i denti. Infatti gli Nomi-nidae, per definizione, hanno stazione eretta, camminano con le braccia sollevate dal suolo e hanno canini piccoli che non spor-gono oltre la linea di occlusione degli altri denti; essi inoltre non presentano diastema fra il canino e il primo premolare superiori. I Pongidae invece hanno una deambulazione quasi sempre qua-drumane, hanno canini grandi che sporgono oltre la linea di occlu-sione degli altri denti e presentano diastema fra il canino ed il primo premolare superiore.

Ma quando e in che modo questo gruppo di forme si è dif-ferenziato e ha iniziato ad avere sue caratteristiche proprie? Le opinioni a questo riguardo sono ancora molto diverse. Nume-rose caratteristiche, specialmente dentarie, fanno riconoscere nel Ramapithecus, il possibile antenato terziario degli Ominidi. I resti finora scoperti indicano che deve trattarsi di un essere piut-tosto piccolo, di 25-30 kg di peso, con la faccia alta, una tozza mandibola grossa fornita di potenti muscoli masticatori. I denti molari e premolari sono grossi, i canini e gli incisivi piccoli, serrati gli uni contro gli altri. Tutto indica una alimentazione coriacea, fatta dí leguminose, di erbe e di semi.

La fauna e la flora associate rivelano un paesaggio di foreste e di praterie. Pertanto il piccolo Ramapiteco doveva ancora abitare la foresta, ma la lasciava per nutrirsi e si avventurava nella savana.

Per molte caratteristiche il Ramapithecus sí differenzia dalle Driopitecine e si avvicina alle Australopitecine anche se per dimensioni è molto più piccolo di queste. Ai resti di Ramapithe-

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cus punjabicus scoperti nel 1934 dal Lewis nei depositi Plioce-nici di Siwalik si devono ora aggiungere i resti di un altro fossile con caratteri molto simili, trovato da Leakey nel 1961 a Fort Ternan in Kenya, e al quale fu dato il nome di Kenyapithecus wickeri. Le due forme, oltre ad avere molte caratteristiche in comune, sono coeve. Infatti mentre per il Ramapithecus di Siwa-lik si hanno datazioni fra i 15 e gli 8 milioni di anni fa, il Kenya-pithecus di Fort Ternan è datato con esattezza a 14 milioni di anni. Per queste caratteristiche comuni le due forme sono da raggrupparsi nel medesimo genere e forse anche nella medesima specie che Pilbeam propone dí chiamare Ramapithecus wickeri. Di queste due forme, probabilmente quella africana è la più antica; ed è possibile pertanto che anche per gli Ominidi si debba riconoscere nell'Africa la culla delle loro origini. La forma indiana d'altra parte è quella più avanzata. Con il Ramapithecus si ha, comunque, un plausibile antenato degli Ominidi pleistocenici.

Von Koenigswald, prendendo spunto dalla equidistanza del-l'India dall'Africa orientale, ove si trovano tutti i resti di Au-stralopitecine, e da Giava, ove si trovano resti di Australopite-coidi (il Meganthropus e i Pitecantropi) ha elaborato una teoria secondo la quale il gruppo di reperti di Ramapithecus trovati nella regione di Siwalik sarebbe il possibile antenato comune a entrambe le forme. Resti di Ramapithecus sono infatti presenti in regioni molto diverse, dalla Cina all'Europa e all'Africa, in depositi databili tra i 7 e i 20 milioni di anni, ma è molto pro-babile che la forma di Ramapithecus sensu stricto ' della regione di Siwalik abbia dato origine a un progenitore di Australopite-cina che si è poi distribuito ad est e a ovest migrando in Africa e nel Sud-Est dell'Asia (fig. 14.1). A supporto di questa ipotesi, von Koenigswald propone la distribuzione dell'elefante Stegodon, tipico del Pliocene in Asia e coevo quindi a queste forme di Ominidi, che da questa regione avrebbe migrato in Africa e nel-l'Asia orientale. Gli Ominidi avrebbero seguito il medesimo itinerario.

La più antica forma di Hominidae, il Ramapithecus, si sa-rebbe quindi sviluppato in India 8-10 milioni di anni fa? Ma la sua differenziazione dal ramo dei Pongidae deve essere prece-dente e deve essere avvenuta nel Miocene superiore o nel Plio-cene inferiore cioè circa 15-10 milioni di anni fa, probabilmente da una forma del tipo delle Driopitecine con caratteristiche poco specializzate. Da questa forma potrebbe essersi originato il ramo

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Fig. 14.1 Distribuzione delle Australopitecine. L'India con la regione di Siwalik al centro. S indica la distribuzione di un tipico elefante asiatico, lo Stegodon, abbastanza comune in Asia, raro invece in Africa. Da notare la posizione centrale della regione indiana. (Da von Koenigs-wald, 1967). A = Australopithecus> Z Zinjanthropus, M = Meganthropus, H = Ile-rnanthropus.

che ha dato origine ai Pongidae attuali, specializzati al livello dei canini e per un migliore adattamento alla vita arboricola, e il ramo degli Hominidae che seguirono però una specializzazione opposta, cioè la riduzione dei canini e l'acquisizione della sta-zione eretta per speciale adattamento alla vita terrestre. Molte informazioni paleontologiche infatti inducono a pensare che l'adat-tamento alla vita terrestre per le diverse forme di Primati si sia realizzato tardivamente (non prima del Pliocene) e che i primi a tentarlo siano stati proprio i nostri antenati.

Questo adattamento alla vita terrestre fu certamente causato da una variazione climatica iniziata intorno a 20 milioni di anni fa. Per una diminuzione di umidità nelle zone tropicali in certe regioni si produsse una riduzione della foresta con la com-parsa di un nuovo tipo di paesaggio: la savana. In questo nuovo ambiente alcune forme di Australopitecine si adattarono e si trasformarono, come vedremo, acquisendo la postura eretta, libe-rando la mano e incrementando la capacità cranica.

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KOOBI FORA

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KANAPOI BARINGO

PENINJ

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MAKAPA NSGAT

STERKFON T El N SWARTKRANS

KROMD RAAI TAUNG

2. Gli Ominidi del tardo Pliocene e del primo Pleistocene (« Australopithecus » e « Homo habilis »).

Con il nome di Australopitecine viene designato un gruppo di resti fossili, certamente sulla via della evoluzione degli Ominidi. i✓ un gruppo piuttosto numeroso ed eterogeneo di resti fossili i cui primi ritrovamenti furono fatti a partire dal 1924 nell'Africa australe (da cui il nome) e più precisamente nel Transvaal, quasi tutti nelle vicinanze di Johannesburg (fig. 14.2). A questi sono stati aggiunti alcuni dei più antichi resti di Ominoidi trovati nel Tanganica (Olduvai), denominati in un primo tempo Zinjan-thropus, e i resti recentemente trovati in Abissinia, specialmente nella Valle dell'Orno. Un'area quindi molto più estesa di quanto il nome non voglia significare.

La consistenza e il luogo d'origine del materiale più famoso del Sud-Africa finora trovato, è il seguente:

— Australopithecus africanus: studiato da Dart, 1925 — sco-perto a Taung. Un cranio giovanile.

— Plesianthropus transvaalensis: Broom 1936 — Sterkfon-

Fig. 14.2 Le principali località pleistoceniche dell'Africa in cui sono stati rinvenuti fossili classificati con certezza come Australopitecine o attri-buiti a questo gruppo. Cinque località si trovano nel Sud-Africa, tre in Tanzania, tre in Kenya e una in Etiopia.

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teín. Frammenti di cranio; 141 denti; diverse ossa dello sche-letro, tra cui quelle pelviche.

— Australopithecus prometeus: Dart 1947 — Makapansgat. Frammenti di cranio, 28 denti, diverse altre ossa, tra cui quelle pelviche.

— Paranthropus robustus: Broom 1938 — Kromdraai. Vari frammenti; 17 denti permanenti, 6 denti da latte. Il materiale è ascrivibile a circa 70 individui.

— Paranthropus crassidens: Broom 1949 — Swartkrans. Frammenti di diversi crani, due di essi con evidente cresta sa-gittale, 273 denti permanenti e 28 decidui, una mandibola completa.

Sfortunatamente è difficile stabilire l'età geologica esatta dei luoghi di rinvenimento delle Australopitecine sud-africane, poiché essi sono costituiti da depositi di minerali e ossa in cavità di rocce più antiche. Manca poi ogni possibilità di parallelismo con la cro-nologia europea. Le datazioni sono quindi basate principalmente sulle informazioni paleoclimatologiche e paleofaunistiche. I più antichi sembrano essere i resti di Sterkfontein e di Taung, che forse sono compresi fra i 2,5 e i 2 milioni di anni. Gli altri inse-diamenti sarebbero più recenti. Il riempimento della cava di Sterkfontein deve essere avvenuto con un clima probabilmente un po' più secco dell'attuale.

Dal materiale finora ritrovato nel Sud-Africa, si possono desumere alcune caratteristiche generali. Il cranio è piccolo, sia in senso assoluto sia in relazione alle dimensioni corporee, le capacità (stimate) vanno da 500 a 650 cc., con un possibile mas-simo di 750 cc. per uno dei crani di Paranthropus crassidens_ La faccia è grande con forte prognatismo, il mento sfuggente, i denti sono talvolta più grandi di quelli di un Gorilla (P. crassidens), quasi mai il canino supera in altezza il piano di masticazione. Il forame occipitale è in posizione più anteriore rispetto a quello delle Antropomorfe, il che fa presupporre una tendenza alla sta-zione eretta. La dentatura è di tipo umano; i canini non sopra-vanzano gli incisivi, manca il diastema e le superfici taglienti e trituranti dei denti non sono specializzate.

L'osso dell'anca si discosta dalla morfologia umana. L'ala del-l'ileo è espansa come nell'Uomo, mentre negli Antropoidi è molto più stretta; essa inoltre, mentre negli Antropoidi giace su un piano quasi ortogonale rispetto al piano di apertura del-l'acetabolo, nelle Australopitecine si trova su un piano quasi

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Fig. 14.3 Ricostruzione del cranio di Australopithecus boisei, il più robusto tra le Australopitecine, trovate nel Bed I delle gola di Olduvai. (Da Tobias, 1968).

parallelo a quest'ultimo: condizione questa che si avvicina molto a quella umana. Altra caratteristica importante della pelvi delle A ustralopitecine è la presenza, come nell'Uomo, della spina ilincit anteriore-inferiore (che ha rapporto col legamento ileo-femorale e quindi con la stazione eretta); questa formazione è assente negli Antropoidi. Poiché la morfoIogia delle ossa dell'anca è in stretto rapporto con la postura, è verosimile che gli Australopiteci del Sud-Africa fossero dotati di stazione eretta,. o semieretta. La statura di questi esseri doveva variare fra i 120 e 150 cm, con un peso corporeo compreso fra i 30 e i 60 kg.

Anziché generi diversi, tutti i resti trovati nel Sud-Africa rappresentano, con le loro diverse caratteristiche, varianti locali di un unico genere polimorfo, con una distribuzione geografica più estesa. Altri resti ascrivibili a questo gruppo di forme sono stati trovati in altre zone dell'Africa orientale: nella gola di Olduvai, nel nord della Tanzania in una serie di depositi pleisto-cenici, a sud-ovest del lago di Turkana (ex lago Rodolfo nel

Fig. 14.4 Cranio dell'Australopithecus africanus, il primo reperto descritto da Dart e trovato a Taung nel 1924. (Da Tobias, 1968).

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Fig. 14.5 Cranio dell'Australopiteco più gracile di Sterkfonteín (Su 5), scoperto da R. Broom e J. T. Robinson il 18 aprile 1947. (Da Tobias, 1968).

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Kenya) e, più recentemente, nella Valle dell'Orno nel nord-ovest dell'Abissinia e a Peninj vicino al lago Natron (Tanzania).

In questi giacimenti lungo le Rift Valleys, depositi saltuari di origine vulcanica permettono un buon numero di datazioni assolute mediante il metodo del potassio/argo.

Il più antico resto attribuibile ad un'Australopitecina è un frammento di mandibola portante ancora un premolare, scoperto a Lothagam, nel giacimento a sud-ovest del lago Turkana, e datato fra i 5,5 e i 6 milioni di anni. Un molare inferiore appartenente anche quasi certamente ad un'Australopitecina è stato raccolto in un giacimento del bacino del lago Bavingo del Kenya e datato intorno a 6,5 milioni di anni. Un molare superiore ancora più antico (intorno a 9-12 milioni di anni) e appartenente con molta probabilità a una forma di Australopitecina è stato trovato a N'Gonova, sempre in Kenya.

Ma a parte questi rinvenimenti interessanti per l'antichità dei giacimenti in cui sono inclusi, altri sono famosi per la buona qualità di conservazione. Questo il caso dei resti trovati nel gia-cimento di Afar nell'est dell'Etiopia: tale giacimento presenta strati che vanno da 2 a 4 milioni di anni, con materiali perfet-tamente ben conservati. Fra i resti scoperti nel giacimento vi è uno scheletro pressoché intero di una giovane Australopiteca, risalente a circa 3 milioni di anni fa (52 parti ossee e frammenti ancora in connessione anatomica!) (fig. 14.6).

Altro sito di particolare interesse è quello della Valle dell'Orno, nel sud-ovest dell'Etiopia, I primi rilievi del sito furono effet-tuati da una spedizione di esploratori francesi all'inizio del secolo. La prima spedizione paleontologica fu tuttavia condotta nel 1932-1933 sotto la guida di Camillo Arambourg. Una seconda e più ampia campagna internazionale fu avviata nel 1967, con una col-laborazione franco-americana guidata da Ives Coppens e Clark Howell. Si tratta di un sito con sedimenti sabbiosi e argillosi dí particolare potenza (più di 1000 metri), che per i movimenti tettonici subiti si presenta quasi interamente in affioramento orizzontale.

In questi strati si rinvengono ogni sorta di documenti fossili (ossa di Vertebrati, conchiglie, legni ecc.) che comprendono un

Fig. 14.6 Scheletro di giovane Australopiteca dí 20 anni, risalente a 3 mi-lioni di anni fa, rinvenuto nel giacimento di Hadar, Afar (Etiopia) nel 1974.

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arco di tempo di oltre 3 milioni di anni (da circa un milione a più di quattro milioni di anni fa), associati a resti di Ominidi fossili e ai loro utensili (i più antichi finora conosciuti). Questi giacimenti hanno permesso di ricostruire con buona approssima-zione l'ambiente semiforestale in cui vivevano gli Australopiteci e quello, più di savana, in cui sí originarono i primi uomini.

Numerosi strati di cenere vulcanica intercalati fra i vari sedi-menti hanno permesso di ottenere, mediante il metodo del po-tassio/argo, una serie eccezionale, di datazioni assolute. Inoltre misure sul magnetismo terrestre hanno permesso di ricostruire una scala cronologica complementare.

Per le sue peculiari caratteristiche il giacimento della Valle dell'Orno è considerato un importante elemento di riferimento per questo periodo nella evoluzione degli Ominidi. Nell'ambito dei reperti trovati sì distinguono almeno due specie di Australopi-teci: una forma robusta ( Australopithecus robustus) e una forma più gracile ( Australopithecus africanus).

La forma più gracile doveva avere una statura di 1-1,25 mt e pesare dai 20 ai 30 kg. Come gli altri Australopiteci, doveva avere un possente apparato masticatorio; in lui si manifesta per la prima volta una tendenza all'alimentazione onnivora, che si traduce in un maggior sviluppo relativo degli incisivi rispetto ai canini, con riduzione dei premolari e molari.

La sua faccia doveva essere ancora sporgente in avanti; le sue arcate sopraorbitali, moderatamente sviluppate, sorreggono una fronte modesta, ma presente. Il volume del suo cervello varia da 430 a 500 cc nelle forme sud-africane, ma raggiunge i 600 cc nelle forme del deposito dell'Orno.

La forma più robusta doveva avere invece una statura di circa 1,5 mt e pesare dai 40 ai 60 kg. Era fornita di un possente appa-rato masticatorio destinato alla triturazione di grani, di radici e di frutta che dovevano costituire il suo alimento abituale. Viso, concavo; fronte, assente; volume del suo cervello oscilante fra i 500 e i 550 cc. Mentre questa forma presenta caratteristiche stabili, quella gracile presenta maggiore variabilità ed è da quella gracile che si devono essere originate le forme successive di Ominidi.

In qualche modo i resti reperiti dal Leakey sulle rive orien-tali del lago Turkana sembrano darne conferma. Tali resti sono attribuibili a un periodo compreso fra i 3 e i 4 milioni di anni fa.

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Essi dimostrano che questo Ominide doveva avere una taglia superiore a quella dell'Australopiteco gracile, un volume cere-brale variante fra i 500 e gli 800 cc e una dentatura adattata a un regime onnivoro. I resti di questo Ominide sono stati tro-vati, come si diceva, a est del lago Turkana, in un giacimento che si estende per circa 200 km2. I primi resti fossili del giaci-mento furono segnalati da militari durante l'ultima guerra mon-diale, ma la prima spedizione paleontologica data solo al 1968. Fu allestita e diretta da Richard Leakey, figlio del famoso Louis Leakey. I depositi sedimentari della riva est del lago Turkana sono da attribuire, come quelli della Valle dell'Orno, a un periodo fra 4,5 e I milione di anni. Essi hanno fornito un numero im-pressionante di resti di Ominidi dei quali una mezza dozzina di crani di Australopiteci e resti attribuibili a Homo habilis (fig. 14.7).

In questi depositi infatti sono stati trovati anche abbondanti resti di industria laica. Alla base della formazione v'è infatti una industria litica databile fra 1,8 e 1,6 milioni di anni. L'in-stallazione umana è attestata da diversi frammenti di ossa, da schegge, da raschiatoi e da ciottoli appositamente trasportati e collocati intenzionalmente.

Fig. 14.7 Horno habilis, Est Turkana, Kenya (N° 1813).

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Si tratta quindi dei resti più antichi di Ominidi ai quali con proprietà possiamo attribuire il nome generico di Homo. Infatti, dal momento che usavano attrezzi (forse li fabbricavano) e ave-vano postura eretta o semieretta, Louis Leakey, Phillip Tobias e John Napier nel 1964 proposero di attribuire a questi resti della gola di Olduvai il nome generico di Homo e di dargli una più grande prospettiva paleontologica per farvi entrare fossili vicini ma più primitivi che i loro omologhi attribuiti a Homo erectus (Pitecantropi) e, nello stesso tempo, più evoluti dei resti attribuiti agli Australopiteci. Il nome specifico di habilis fu poi attribuito appunto per indicare la capacità di utilizzare o forse fabbricare utensili.

Il giacimento di Olduvai in Tanzania si presenta come una lunga gola con 100 metri di spessore di depositi. Esplorata ini-zialmente da ricercatori tedeschi nel 1911, questa gola fu visi-tata con particolare intensità e cura a partire dal 1931 dalla famiglia Leakey. Il ritrovamento dí un cranio di Australopiteco (Zinjanthropus) nel 1959 ha messo in moto una serie dí cam-pagne di scavo che ha fatto scoprire la più antica industria di pietre scheggiate (industria Olduvaiana), risalente a i milione 900 mila anni fa. Molte dí queste pietre si presentano scheggiate su due facce in maniera da ottenere una lama (« pebble tools », « chopping tools »). Oltre ai molti resti di pietre più o meno scheggiate grossolanamente, sono stati raccolti utensili in osso e in avorio. Si tratta di strumenti robusti spaccati longitudinal-mente e utilizzabili da entrambe le estremità. Essi costituiscono la conferma della cosiddetta cultura .« osteocheratica », intuita già da Dart a livello delle Australopitecine del Sud-Africa.

Negli strati successivi l'industria si fa sempre più complessa, come dimostra la presenza di bifacciali sempre in maggior numero via via che si sale nello strato e che sembrano preannunciare uno stadio pre-acheuleano.

I ritrovamenti del primo livello di Olduvai, come si è detto, consistono in numerose ossa diverse, ma, cosa particolarmente importante, in parti più o meno complete di mani e in un piede quasi completo. Lo studio dei reperti permette di stabilire che si trattava certamente di individui a stazione eretta che utilizza-vano le mani per lavorare la pietra. La capacità cranica stimata per questi resti di Homo habilis è di 657 cc, che è di poco supe-riore alla media delle Australopitecine.

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Fig. 14.8 Schema della evoluzione degli Ominidi in Africa. Gli ovali rap-presentano popolazioni di resti fossili di Ominidi disposti in ordine siste-matico e organizzati cronologicamente. Le sovrapposizioni dí forme indi-cano i momenti di divergenza. (Da Tobias, 1975).

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I ritrovamenti del livello II sono della medesima natura, anche se molto più completi. Si ha quindi l'impressione che un unico gruppo di forme, che si sono succedute nel tempo — da circa 2 milioni a circa 500 mila anni fa — abbia occupato la gola di Olduvai.

Viene quindi immediatamente da pensare che tutte queste forme costituiscano un continuum evolutivo in successione tem-porale e disperso nello spazio. Ma la discordanza fra le caratte-ristiche dei resti di Ziniantropo con quelli trovati in strati anche preéedenti nella gola di Olduvai pone il problema della even-tuale coesistenza spazio-temporale di forme diverse di Ominidi.

Come si è detto, le Australopitecine, anche se rappresentano un ramo collaterale, sono certamente da considerarsi uno stadio verso la condizione umana, nel quale sí è già realizzata, o si sta realizzando, una delle caratteristiche essenziali dell'umanità: la stazione eretta. Ed è essa che condiziona strettamente l'evoluzione delle capacità intellettuali; Aristotele già lo aveva intuito affer-mando che la stazione eretta era la conditi° prima del pensiero. I resti di Australopitecine dimostrano che delle due più pecu-liari caratteristiche specifiche dell'Uomo, stazione eretta e grande capacità cranica, la stazione eretta si è realizzata filogeneticamente prima.

Per chiarire la posizione tassonomica delle Australopitecine nell'ambito di altri Ominidi, può essere utile a questo punto con-siderare l'evoluzione di un altro gruppo di Mammiferi: gli Elefanti. Vi sono due specie di elefanti: l'indiano e l'africano, con distri-buzione geografica molto diversa. Linneo originariamente incluse entrambe nel genere Elephas, dato che esse hanno moltissimi caratteri in comune: le dimensioni sono pressoché le medesime, entrambe sono dotate di zanne, hanno la stessa conformazione generale di corpo. L'elefante indiano ha, tuttavia, le orecchie più piccole di quello africano.

Lo studio dettagliato dello scheletro, e in particolare dei denti, ha invece dimostrato che i due tipi rappresentano differenti stadi evolutivi, e inoltre che devono essere attribuiti a due generi diversi: e cioè al Loxodonta africana e all'Euelephas indicus. Il genere Loxodonta è caratterizzato dall'avere denti più corti e con minor numero di prominenze (al massimo circa 12 contro le 24 dell'ultimo molare superiore e le 27 dell'ultimo molare inferiore dell'elefante indiano). L'elefante indiano è pertanto

molto più differenziato. Nonostante questa disparità di differen-ziazione, essi hanno un antenato comune nell'Archidiskodon del Pleistocene inferiore.

Queste differenze si sono realizzate in un periodo di circa 500.000 anni, un tempo cioè equivalente a quello che sarebbe intercorso fra la differenziazione evolutiva delle forme delle Australopitecine e quella dei Pitecantropi, di cui diremo appresso, da un comune antenato del Pliocene.

3. Gli Ominidi del medio Pleistocene (« Homo erectus »).

Con il nome di « Pitecantropo » il medico olandese Eugene Dubois indicò un Primate di cui aveva rinvenuto i primi resti fossili nel 1891 presso Trinil, nell'isola di Giava. Anche in questo Primate, come nelle Australopitecine, appaiono associati caratteri pitecoidi e caratteri umani. Scavi, per lungo tempo infruttuosi, eseguiti a partire dal 1936 ad opera di von Koe-nigswald, hanno portato al ritrovamento di altri reperti mor-fologicamente assai eterogenei, che egli distinse provvisoriamente in tre specie: Meganthropus palaeojavanicus, Pithecanthropus mo-djokertensis (P. robustus) e Pithecanthropus erectus.

I depositi medio-pleistocenici di Giava (Djetis e Trinil) sono da far risalire a due distinti periodi faunistici. Quello di Djetis è più antico; quello di Trinil più recente. Al di sopra del depo-sito di Trinil uno strato di lava è stato datato col potassio/argo a circa 500 mila anni; i resti sono quindi antecedenti. Le tectiti al di sopra del deposito di Djetis sono state datate sui 710 mila anni; la base del deposito è stata datata 1,9 milioni di anni.

Dopo Dubois (1889-1892) e von Koenisgwald (1931-1941) che raccolse resti diversi delle località di Ngandong e di Sangiran, una ricerca sistematica nella località di Sangiran è stata condotta recentemente da Jacob (1952-1972). Il primo periodo fruttò 11 individui, il secondo perlomeno 22, e il terzo fra 13 e 16. La maggior parte dei ritrovamenti proviene da Sangiran (20 in-dividui), seguita da Ngandong (14 individui), Trinil (7), Ke-dungbrubus (2), Wajak (2), Perning (1) e Modjokerto (1).

Questi resti sono ascrivibili a un susseguirsi di forme che vanno progressivamente dal Megantropo al Pitecantropo ( Homo erectus) all'Homo sapiens.

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Fig. 143 Frammento di mandibola dí Meganthropus II (1941). (Per gentile concessione di G. H. R. von. Koenigswald).

Il Megantropo (fig. 14.9) è rappresentato da due frammenti di mandibole, di cui il secondo è grosso come la mandibola di un Gorilla. I tre denti presenti sulla mandibola sono enormi e hanno una struttura umana, sebbene la successione delle di-mensioni dei premolari e molari sia di tipo pitecoide. Il canino manca, ma le dimensioni dell'alveolo fanno pensare a un dente molto grande. Questi frammenti di mandibola presentano note-voli somiglianze con resti analoghi di alcune Australopitecine (Parantropo).

Il Pitecantropo di Modjokerto (fig. 14.10) è rappresentato dalla parte posteriore di un cranio, da gran parte di un mascellare superiore, da altri vari frammenti di cranio e da numerosi denti. Il cranio ha, nell'insieme, caratteri molto primitivi, anche se la grandezza appare superiore a quella del Pitecantropo eretto. Il toro occipitale è enorme e si continua con un notevole rilievo sagittale. Il profilo facciale anteriore è concavo come nell'Orango, con forte prognatismo. I canini sorpassano di poco gli altri denti e sono preceduti da diastemi, Gli altri denti sono primitivi, di grosse dimensioni e taurodonti.

Del Pitecantropo eretto, rappresentato da più abbondanti resti di entrambi i sessi, non si hanno sfortunatamente crani completi, ma solo calotte. Queste mostrano dimensioni assai piccole, specialmente in larghezza e altezza, rispetto ai crani umani. La capacità endocranica è valutata a circa 900 cc nel ma-schio e 750 cc nella femmina (Pitecantropo II). Essa risulterebbe

Fig. 14.10 Nuova ricostruzione del Pithecanthropus modjokertensis. Capa-cità cranica 750 cc., cranio maschile; Sangiran (Giava), (Per gentile con-cessione di G. H. R. von Koenigswald).

quindi intermedia fra la media degli Australopiteci (600 cc) e le più basse medie delle popolazioni umane .viventi (1.200 cc).

Il cranio, considerato nella norma superiore, mostra come caratteri peculiari un forte restringimento retroorbitale e un ri-lievo sagittale. 'Questo rilievo non ha valore di carattere goril-loide (collegato alla inserzione dei muscoli temporali), bensì me-ramente morfologico (lofo), e si trova anche nel Sinantropo (vedi più avanti), e in alcuni gruppi primitivi (Fuegini, Esquimesi). In norma frontale e laterale il cranio mostra un forte aggetto sopraorbitario, e una fronte bassa e sfuggente che somiglia a quella dello Scimpanzé. In norma posteriore è da rilevare l'esi-stenza di un « toro occipitale » che sembra continuare, come accade negli antropoidi, a differenza dell'Uomo attuale, nelle creste sopramastoidí; a questa caratteristica Sergio Sergi attri-buisce molta importanza.

La mandibola è rappresentata da due frammenti. È molto grossa, senza mento, con caratteri prevalentemente pitecoidi. I denti sono grossi, taurodonti e hanno dimensioni progressiva-mente crescenti dal primo al terzo molare. Lo scheletro delle membra è rappresentato dal femore sinistro e da cinque fram-

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menti di altre ossa lunghe tutte di tipo umano e comprese nei limiti di variabilità morfologica dell'Uomo attuale. Il femore intero conduce ad una stima della statura di 165-170 cm.

Queste tre forme, pur presentando differenze notevoli, pare si possano collegare alla medesima linea evolutiva, di cui il Me-gantropo (detto anche Prepitecantropo) rappresenterebbe la forma più antica e primitiva. Non si ha conoscenza di alcun resto di industria sicuramente associato a resti di Pitecantropo. Negli strati di Sangiran (Djetis), ma a un livello leggermente superiore a quello dei resti di Pitecantropo II e di Megantropo, sono stati trovati frammenti di calcedonio e alcuni oggetti simili ad arponi; è tuttavia dubbio che questi reperti abbiano rapporto con i resti dei Pitecantropi. Mentre i resti del Megantropo somigliano molto da vicino a quelli delle Australopitecine, quelli dei Pitecantropi sono forme chiaramente riferibili all' Homo erectus. È possibile quindi che in questa regione si abbia una continuità dí gradi evolutivi verso l'ominazione; e, poiché è indubbio che il Megan-tropo sia il più antico dei resti finora trovati, questa è una ipotesi cronologicamente valida.

Può valere la pena, a questo punto, di cercare di sintetizzare le differenze nelle caratteristiche dello scheletro e della denti-zione, che distinguono le Australopitecine dai Pitecantropi e cer-care di individuarne le rispettive tendenze evolutive (tab. 14.1).

Oltre alle forme trovate a Giava, Monto erectus è rappre-sentato in Asia dai resti del Sinantropo trovato nei pressi di Pechino (Sinanthropus pekinensis), in Europa dall'Eurantropo tro-

Fig. 14.11 Sinantropo: cranio della donna adulta di Pechino (Chou-kou-tien), secondo il restauro di Weidenreich, visto lateralmente e di fronte.

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TABELLA 14.1 Differenze nella struttura dello scheletro e nella denti-zione fra Australopitecine e Pitecantropi, e rispettive tendenze evo-lutive. (Secondo van Koen.igswald, 1962).

Auatralopitecine Pitecantropi

Ossa craniche sottili. Ossa craniche spesse.

Apertura nasale del tipo di quella Apertura nasale di tipo umano. dello Scimpanzé.

Arcata sopraccigliare (generalmente) Arcata sopraccigliare pronunciata. poco pronunciata.

Secondo molare superiore più gran- Secondo molare superiore più pic- de del primo. colo del primo (salvo che nei tipi

più antichi).

Premolare inferiore posteriore con Premolare inferiore posteriore con due radici. una sola radice.

Dimensioni del cervello (probabil- Dimensioni del cervello fortemente mente) in aumento. in aumento.

Tipi più recenti (Swartkrans, 01- Anche le forme più antiche (pre- duvai) con cresta mediana. sumibilmente) senza cresta mo-

diana.

Notevole aumento delle dimensioni Riduzione delle dimensioni dei mo- dei molari e dei premolari. lari e dei premolari.

Canini e incisivi considerevolmente Canini e incisivi meno marcata- ridotti. mente ridotti.

Denti di latte molarizzati. Denti di latte rimangono primitivi.

vato a Mauer presso Heidelberg ( Homo heidelbergensis) e dal-l'occipitale trovato a Vértesszóllós in Ungheria ( Homo paleohun-garicus); in Africa dall'Atlantropo dell'Algeria ( Atlanthropus mari ritanicus). Sergio Sergi raccoglie questo insieme di forme nel gruppo cosiddetto dei Protoantropi. I resti attribuiti al Sinantropo (fig. 14.11) provengono dai depositi fossiliferi che riempiono al-cune cavità e fenditure del calcare carbonifero che costituisce le colline prossime al villaggio di Chou-kou-tien, posto a circa 50 km a sud-ovest di Pechino. Il primo reperto era costituito solo da tre denti che Black nel 1927 riferì a un tipo umanoide da lui chiamato Sinanthropus pekinensis. Una vasta campagna di scavi compiuta tra il 1927 e il 1930 condusse alla raccolta di una grande quantità di ossa craniche più o meno frammentarie (calotte, man-

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dibole, frammenti di mascellari, denti) e da una minore quantità di ossa lunghe; un complesso di residui scheletrici cioè attribui- bili a più di 30 individui, di cui una quindicina giovani. Insieme furono raccolti manufatti litici, nonché segni evidenti dell'uso del fuoco (carboni, ceneri, pietre affumicate).

La datazione dei reperti, rispetto alla cronologia fondamen-tale basata sulle glaciazioni europee, è resa difficile dal fatto che in Cina si distinguono chiaramente due soli stadi pleistocenici: uno antico e uno recente. Le ossa del Sinantropo appartengono certamente allo stadio più recente, ma sono accompagnate da fauna prevalentemente calda, con qualche rappresentante di clima umi-do, e si trovano in un deposito primario formatosi lentamente. L'opinione più probabile è che i resti del Sinantropo ascendano alla fine della glaciazione Mindel, cioè alla fine del Pleistocene medio europeo, per cui risulterebbero più recenti del Pitecan-tropo di circa 200-250 mila anni. Sarebbero pertanto databili intorno a 450 mila anni.

Le caratteristiche morfologiche del Sinantropo sono state ri-levate fondamentalmente su 6 crani, più o meno incompleti, su un mascellare sinistro, su una mezza mandibola d'adulto e una parte di mento di bambino, su 7 frammenti di femore, 2 fram-menti di omero, 1 frammento di radio, e su oltre 50 denti isolati. Per tutti i caratteri studiati, appare evidente un forte dimorfismo sessuale.

Il cranio del Sinantropo ha la medesima forma birsoide di quello del Pitecantropo, ma il restringimento retrorbitario è un po' meno pronunciato. Le dimensioni del cranio sono leggermente superiori a quelle del Pitecantropo, soprattutto per larghezza e altezza. La capacità calcolata varia tra 850 e 1.220 cc, con valore medio di circa 1.000 cc; essa, con i suoi massimi, raggiunge quella di alcune popolazioni umane viventi (Andamanesi, Vedda, Neoguineani) ed è pertanto intermedia tra quella del Pitecan-tropo (a cui è molto vicina) e quella dell'Uomo attuale. Nella norma laterale il cranio risulta, in media, alto quanto nel Pite-cantropo. Il toro sovraorbitario è simile a quello del Pitecantropo e ugualmente il toro occipitale, ma questo non continua nella cresta sopramastoide. L'osso frontale, pur restando sfuggente, tende a formare un'angolatura simile a quella che si nota nel-l'Uomo di Neanderthal.

Lo scheletro facciale è stato ipoteticamente ricostruito sulla base della morfologia di un mascellare sinistro. Ne risulterebbe

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una regione nasale larga e piatta, orbite basse, zigomi alti, assenza di fossa canina.

Della mandibola si conservano parecchi frammenti i quali ri-velano, in quest'osso, grande variabilità. Alcune mandibole somi-gliano a quelle dell'Uomo attuale, altre se ne discostano molto. La curva dell'arcata dentale e la conformazione dei condili, per esempio, sono di tipo umanoide, mentre la regione della sinfisi è pitecoide. I denti superano in grandezza quelli dell'Uomo at-tuale. Le cavità della polpa sono molto profonde (taurodontia); îl canino superiore evidentemente doveva essere straordinaria-mente forte e appuntito, mentre l'inferiore era spatolare come quello dell'Uomo attuale. Dello scheletro postcraniale si possie- dono solo pochi frammenti di ossa lunghe. Nonostante qualche particolare di tipo scimmiesco (ravvisabile per esempio nell'appiat- timento antero-posteriore della diafisi femorale), esse appaiono perfettamente umanoidi e indicano che il Sinantropo era certa-mente dotato di stazione eretta. La sua statura doveva essere piuttosto bassa: 150-160 cm nel maschio.

A causa della grande similitudine morfologica e per sottoli-neare il probabile rapporto filogenetico con il Pitecantropo, alcuni studiosi hanno proposto di cambiare il nome di Sinanthropus in Pithecanthropus erectus pekinensis. Restano tuttavia delle diffe-renze, per le quali il Sinantropo parrebbe da situare a un livello evolutivo superiore rispetto al Pitecantropo, come la capacità cranica e la netta separazione esistente fra cresta occipitale e cresta sopramastoide. Usando invece per tutte queste forme il termine più generico di Homo erectus il problema risulterebbe a priori risolto.

Oltre a questi resti dell'Estremo Oriente altri fossili simili per morfologia e coevi sono stati trovati in Europa ed Africa.

In un deposito di sabbie fluviali quaternarie, dovute all'antico letto del Neckar, a Mauer, presso Heidelberg (Baden settentrio- nale), venne trovata nel 1907 una mandibola umana (fig. 14.12) accompagnata da fauna molto antica. Alcuni di questi resti (Ri- noceronte etrusco) farebbero pensare all'interglaciale Gunz-Min-del, altri (Elefante antico) al Mindel-Riss. La maggior parte degli studiosi preferisce attribuire la mandibola a quest'ultimo periodo, cioè circa 400mila anni. Essa rappresenta certamente la più antica forma umana finora trovata in Europa.

La mandibola è completa e conserva tutti i denti, salvo la perdita della corona da parte dei premolari e dei primi molari.

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Fig. 14.12 Mandibola di Mauer, faccia esterna destra.

di sinistra. É una mandibola molto voluminosa, con rami ascen-denti larghi, dotati di piccola incisura sigmoide, di apofisi coro-noide arrotondata, di superficie articolare condiloidea molto grande. Il corpo della mandibola è dotato di grande spessore; manca di mento, e tutta la regione della sinfisi è, nella parte inferiore, come spostata indietro, con un profilo di tipo più pite-coide che umanoide. Accanto a questi caratteri pitecoidi vi sono netti caratteri umanoidi come la forma parabolica dell'arcata al-veolare, l'assenza di díastema, la riduzione dei canini, la cui corona non supera il livello degli altri denti, la riduzione di volume del terzo molare rispetto agli altri due; anche il sistema delle cuspidi è di tipo umano. Per meglio sottolineare l'impor-tanza di questo resto, sia in senso geologico che per le caratte-ristiche morfologiche, sarebbe forse più opportuno chiamarlo Paleanthro pus anziché Euranthro pus, come propose il Bonarelli nel 1909.

In Europa altri resti (un occipitale e alcuni denti) risalenti alla fine della glaciazione Mindel, cioè a circa 400mila anni or-sono, sono stati trovati di recente in Ungheria a Vértesszóllas. Si tratta di diversi denti e di un osso occipitale associato a resti di industria del tipo dei « chopping tools ». L'occipite è spesso, anche se con un angolo fra la base e la squama, meno acuto del tipico Homo erectus, per cui il resto potrebbe costituire l'esem-pio di una forma di passaggio verso la forma Homo sapiens, anche per la sua capacità cranica stimata in 1.400 cc.

L'Atlantbropus, infine, è rappresentato da tre mandibole, un parietale e qualche dente, trovati a Ternifine, presso Orano (Al-

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geria) nel 1954. I reperti sono accompagnati da una fauna data-bile all'inizio del Pleistocene medio (Kamasiano africano).

Due di queste mandibole (fig. 14.13) sono complete o quasi e somigliano in linea di massima a quelle del Sinantropo e del-l'Eurantropo, ma ricordano anche i Pitecantropi, le Australopi-tecine e il Megantropo per la loro robustezza. Cronologicamente l'A tlantropo si fa ascendere alla fine del Mindel (400.000 anni fa) e potrebbe essere contemporanea del Sinantropo e forse di poco posteriore alla mandibola di Mauer.

I resti erano accompagnati da strumenti litici amigdaloidi di tipo abbevilliano. A questo gruppo di reperti possono eventual-mente essere attribuiti altri resti di denti pitecantropomorfi trovati a Rabat (Marocco).

Fig. 14.13 Veduta laterale destra della mandibola di Ternifine I (A) e di Ternifine III (B). (Da Day, 1965).

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La continuità evolutiva di questo ultimo gruppo di reperti (i Protoantropi) con quello dei Pitecantropi è quasi certa. Essi pro-babilmente rappresentano la fase di espansione di quel gruppo di forme ascrivibili all' Homo erectus i cui più antichi rappre-sentanti sarebbero stati i Pitecantropi, i quali, a loro volta, avreb-bero avuto antenati in comune con le Australopitecine. Non è detto tuttavia che alcune delle forme più recenti di Australopi-tecine non abbiano contribuito, con una specie di ibridazione introgressiva, alla composizione dei caratteri delle mandibole del-l'Atlantropo.

4. Gli Ominidi del tardo Pleistocene: l'« Homo neandertha-lensis ».

In depositi dell'interglaciale Riss-Wiirm e delle prime fasi della glaciazione Wiirm di tutto il Vecchio Mondo (Europa, Asia e Africa), sono stati trovati resti fossili di tipi umani che si assomigliano per molte caratteristiche e che possono essere de-scritti con un certo dettaglio, data la frequenza e la completezza dei ritrovamenti.

La maggior parte di questi resti sono stati rinvenuti in Eu-ropa, perché in quest'area si è maggiormente concentrato l'inte-resse dei ricercatori, ma praticamente in tutto il Vecchio Mondo (Asia e Africa) si sono trovati resti attribuibili a questo tipo di forme in qualche modo intermedie fra l' Homo erectus e l' Homo sapiens attuale. Le caratteristiche generali di questo gruppo di reperti sono:

1. una particolare bassezza del cranio cerebrale (platicefalia); 2. una fronte sfuggente e appiattita che termina, nella parte

anteriore, con un forte rilievo (toro sopraorbitario), che si estende a guisa di visiera a limitare in alto l'apertura delle orbite;

3. un forte restringimento retrorbitario della volta cranica, unito a un particolare rigonfiamento della regione posteriore del cranio. Visto dall'alto, esso assume, pertanto, la forma di una borsa (forma birsoide);

4. la faccia molto grande sia ín dimensioni assolute, sia in rela-zione col cranio neurale;

5. le ossa zigomatiche appiattite e dirette alquanto obliqua-

mente in avanti, le mascelle rigonfie, tanto da dare all'insieme l'apparenza di una specie di muso;

6. le orbite assai grandi; 7. l'apertura nasale larghissima; 8. il dorso del naso prominente; 9. la regione alveolare molto ampia;

10. la mandibola massiccia con mento assente o appena inci-piente;

11. i molari grandi, con cavità della polpa profonde (taurodon-tia); i premolari e i canini non più grandi di quelli di un Uomo attuale;

12. l'apofisi spinosa delle vertebre cervicali prominente all'in-dietro;

13. il torace ristretto e profondo; 14. il bacino stretto e alto; 15. le ossa degli arti tipicamente umane, pur presentandosi più

voluminose e con alcuni caratteri particolari di primitività. Se le impronte trovate nella grotta ligure della Bàsura a Toirano, presso Savona, appartengono veramente a un uomo neanderthaliano, esso doveva avere un piede simile a quello dei Neo-caledoniani attuali, cioè con pianta molto larga e alluce divaricato;

16. la statura media o bassa (la statura dell'uomo di La Chapelle è stata calcolata di 161 cm; quella media dei Neanderthaliani conosciuti di 163 cm);

17. la capacità endocranica raggiunse un valore di circa 1.600 cc nel cranio di La Chapelle, valore sensibilmente superiore alla capacità media degli europei odierni (1.450 cc). Altri reperti presentano capacità cranica inferiore. In generale la capacità cranica dell'uomo di Neanderthal doveva essere di 1.400 cc, con una variabilità compresa fra i 1.350 e 1.735 cc;

18. la morfologia generale delle circonvoluzioni encefaliche, pur presentando caratteristiche generali simili a quelle degli uo-mini attuali, se ne discosta per la maggiore semplicità. In alcuni luoghi i resti di questo tipo umano furono rinvenuti

insieme a manufatti litici musteriani. Questo fatto fa presumere che gli uomini di Neanderthal siano gli artefici delle industrie musteriane. Alcuni ritrovamenti inoltre ci informano che questi uomini, oltre che dí vegetali, si cibavano di prodotti della caccia e della pesca, erano in qualche caso antropofagi, e conoscevano

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Fig. 14.14 Distribuzione geografica dei più importanti resti di Paleantropi: 1. Neanderthal; 2. Spy; 3. La Chapelle-aux-Saints; 4. Le Moustier; 5. La Ferrassie; 6. La Quina; 7. Gibilterra; 8. Krapina; 9. Saccopastore; 10. Broken Hill (Uomo di Rhodesía); 11. Saldanha; 12. Monte Car-melo; 13. Shanidar; 14. Teshik Tash; 15. Solo; 16. Ma-Pa.

il fuoco. Alcuni gruppi abitavano all'imboccatura di caverne e ne frequentavano saltuariamente l'interno, oppure si accampavano nei ripari sotto rocce; seppellendo i propri morti, davano loro posizioni speciali e ponevano nelle tombe oggetti di pertinenza del defunto e offerte votive.

Per tali aspetti culturali molti autori preferiscono classificare queste forme come sottospecie della specie Homo sapiens: H. sapiens neanderthalensis. Il nome di Neanderthaliani deriva dalla valle di Neander presso Diisseldorf (Renania) ove fu trovata nel 1856, insieme con altre ossa dello scheletro, la calotta di un cranio, che subito divenne famosa per le discussioni alle quali diede origine. Le forme più antiche del gruppo provengono da strati dell'interglaciale Mindel-Riss e dal Riss iniziale (circa 200 mila anni fa). Si tratta del cranio di Steinheim (Wiirttemberg), dei resti trovati a Tautabel nei Pirenei orientali e del cranio dí Swanscombe (Kent).

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Il cranio di Steinheim ha caratteristiche generali neandertha-liane; è lungo, stretto, non molto alto, con una capacità cranica di circa 1150 cc; la faccia è larga e non molto prognata, con arcate sopraorbitarie pronunciate. L'occipitale è arrotondato.

Fig. 14.15 Cranio della Caune de l'Arago, Tautabel (Pirenei orientali). (Per gentile concessione di H. De Lurnley).

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L'emifacciale trovato a Tautabel dai De Lumley nel 1969 (fig, 14.15) presenta caratteristiche molto simili a quelle rileva-bili nel cranio di Steinheim anche se per alcune caratteristiche appare più primitivo di questo. Il cranio di Swanscombe in gene-rale appare molto simile a quello di Steinheim, con una capacità cranica stimata di 1.325 cc. Il calco endocranico non rivelerebbe nessuna differenza significativa rispetto al cranio di un neandertha-liano; le caratteristiche metriche, invece, lo rendono pressoché simile a quello di un uomo attuale, mentre lo distinguono netta-mente da quello di un neanderthaliano. Il cranio è stato trovato associato a fauna calda e ad industria acheuleana evoluta.

A Fontechevade, in Francia, in un deposito in grotta, databile all'interglaciale Riss-Wiirm, risalente a 90-70mila anni fa, sono stati trovati resti di ominidi con caratteristiche più tipicamente umane. I resti consistono nei parietali e in parte dell'osso fron-tale di un individuo, e in un osso frontale isolato. Le ossa sono tutte molto spesse e i parietali appaiono primitivi, ma i frontali non mostrano arcate sopraorbitarie e la fronte sembra meno sfug-gente. Queste caratteristiche al contempo primitive e avanzate dell'uomo di Fontechevade dimostrano una grande eterogeneità nell'ambito delle popolazioni del tardo Pleistocene in Europa.

Altri fossili classificabili come tipici neanderthaliani sono stati trovati in luoghi molto diversi dell'Europa. Ben note sono in

Belgio le località ove sono stati trovati due scheletri maschili incompleti; in Francia i siti di La Chapelle (ove è stato trovato uno scheletro di adulto sepolto intenzionalmente) (fig. 14.16); La Ferrassie (sei scheletri incompleti e frammentari di cui due di adulti e quattro di bambini sepolti intenzionalmente); Le Moustier (scheletro di adolescente sepolto intenzionalmente) e La Quina (scheletro femminile adulto e frammenti di altri individui); in Italia il cranio e la mandibola di Monte Circeo; a Gibilterra il cranio di Forbe's Quarry. Tutti questi siti sono delle prime fasi del Wiirm, cioè circa 70-50mila anni fa, e i resti fossili formano una popolazione piuttosto uniforme tipica per i caratteri men-zionati all'inizio di questo paragrafo.

A Krapina, in Jugoslavia, sono stati trovati frammenti di una dozzina di individui con caratteristiche neanderthaliane di tipo progressivo o presentanti una grande variabilità. Questi resti sono databili a un periodo di poco antecedente l'interglaciale Riss-Wiirm.

Dell'interglaciale Riss-Wiirm sono anche il cranio e le mandi-bole trovate in Germania a Ehringsdorf. I resti mostrano carat-teristiche relativamente moderne.

Altri due crani di periodo interglaciale Riss-Wiirm sono quelli di Saccopastore che presentano caratteristiche neanderthaliane meno classiche (fig. 14.18).

Fig. 14.16 11 cranio dell'Uomo di La Chapelle-aux-Saints. (Per cortesia del Musée de l'Homme, Parigi).

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lig. 14.17 Cranio del Circeo I, veduta laterale. (Per cortesia del Museo Pígorini, Roma).

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Fig. 14.18 Cranio di Saccopastore I e TI, veduta laterale. (Da Sergi, 1953).

Nonostante le caratteristiche comuni, da un punto clí vista morfologico si possono quindi distinguere almeno due forme: una più generalizzata, vissuta nell'interglaciale Riss-Wiirm (Fon-techevade, Krapina, Saccopastore); e una più differenziata, in senso neanderthaliano, vissuta durante il glaciale di Wiirm (Nean-derthal, Circeo, La Chapelle-aux-Saints).

La prima forma, detta anche « pre-neanderthal », aveva il cranio meno capace della seconda, e caratteri morfologici meno specializzati: angolatura del frontale, mancanza di chignon occípi-tale, presenza di fossa canina, naturale flessione della base cranica, mandibola con caratteri piuttosto arcaici (mento sfuggente, ramo montante largo), e molari leggermente taurodonti. Alla base di questo gruppo devono probabilmente essere collocati i reperti di recente descritti dai De Lumley presso Nizza, nel sud della Francia, e a Tautabel, nei Pirenei orientali.

La seconda appare altamente specializzata per l'adattamento a un clima freddo, molto omogenea e con i caratteri tipici, che abbiamo elencato, dei neanderthaliani.

La differenza nel grado di specializzazione è molto impor-tante. Il minor grado di specializzazione presentato dalla prima forma conferiva a questa maggior plasticità e possibilità di adat-tamento. L'alto grado di specializzazione e l'omogeneità della seconda sono forse le ragioni della minore vitalità di essa, che probabilmente si è estinta senza lasciare discendenze.

Se l'uomo neanderthaliano ha avuto una discendenza genetica in Europa, infatti, essa deve essere ricercata nel ramo più. antico.

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Resti fossili con caratteristiche neanderthaloidi sono stati trovati anche in Africa e in Asia. Questi resti per contrapposizione a quelli europei, vissuti in climi glaciali, vengono definiti " tro-picali ".

Nella Rhodesia settentrionale e precisamente in una caverna a Broken Hill, nel 1921, furono trovati un cranio quasi completo (fig. 14.19) e altre ossa umane, la cui attribuzione allo stesso individuo o a individui dello stesso tipo è tuttavia discutibile. Il cranio presenta caratteristiche neanderthaloidi molto pronun-ciate. Il reperto è relativamente recente, in quanto viene asse-gnato alla fine dell'ultimo pluviale africano (Gambliano), che corrisponde all'ultimo glaciale europeo, ad un'età cioè di circa 20.000 anni a. C. Esso è in genere considerato una forma « attar-data », che poté sopravvivere in circostanze ambientali favorevoli. La sua capacità cranica è di circa 1.300 cc. Al reperto è stato attribuito il nome di Homo rhodesiensis.

Sempre in Africa, lungo la costa sud-occidentale, nella baia di Saldanha, a 190 miglia a nord di Città del Capo, sono stati trovati altri resti, rappresentati da una calotta e da un piccolo frammento di mandibola. I resti erano accompagnati da una fauna molto antica e da un'industria di tipo acheuleano. Sulla base dei resti faunistici associati, il reperto dovrebbe essere attribuito

1 :g. 14_19 Cranio dell'Uomo di Broken l lill (1 lorno rb(glesiensis). ( Da rrunien, 1965).

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Fig. 14.20 Homo soloensts, Pleistocene superiore, Ngandong. (Per cortesia di G. H. R. von Koenigswald).

Fig. 14-21 Cranio del giovane di Teshik Tash (Uzbekistan, Asia centrale), veduta laterale. (Da Jullien, 1965).

all'ultimo interglaciale (circa 100.000 anni fa), mentre per l'in-dustria che lo accompagnava, secondo Coon, dovrebbe essere attribuito ad un tempo molto più recente (40-50.000 anni). Nel primo caso esso sarebbe contemporaneo ai pre-neanderthaliani, nel secondo ai neanderthaliani tipici.

L'industria associata a questo reperto, fra l'altro, lo farebbe ritenere l'ascendente più diretto dell'uomo di Rhodesia.

Nell'isola di Giava, nel giacimento fossilifero di Ngandong sul fiume Solo, a varie riprese (1932, 1937, 1939) sono stati portati alla luce undici crani, alcuni dei quali molto danneggiati, e due tibie. 11 giacimento corrisponde a un periodo piuttosto arido che potrebbe essere attribuito ad un periodo equivalente all'in-terglaciale Riss-Wiirm. La capacità cranica di questi reperti è compresa fra i 1.000 e i 1.255 cc. La fronte è più stretta e sfug-gente di quella dei neanderthaliani europei; presenta un forte chignon e processi mastoidei grandi, nonché una forte arcata sopraorbitaria. Per molti di questi caratteri e per la loro anti-chità, i resti dell'uomo dí Solo possono essere considerati i più primitivi fra i neanderthaliani, qualcosa di intermedio fra questi e i Pitecantropi. A questo resto è stato attribuito il nome dí Homo soloensis (fig. 14.20).

Sempre a Giava, a Wadjak, in una cava di breccia sono stati rinvenuti due crani con caratteristiche moderne. Il deposito corrisponde a un tempo equivalente all'ultima fase della glacía-

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zione di Wiirrn. É possibile che l'uomo di Solo e quello di Wadjak rappresentino stadi evolutivi di un'unica linea che ha condotto alle attuali popolazioni aborigene Australiane.

Oltre a quelli prima descritti, nelle regioni extraeuropee sono stati trovati i seguenti importanti resti di tipo paleoantropico: — L'Uomo di Crimea, rappresentato da resti scheletrici di un adulto e di un bambino. Ha caratteristiche tipicamente neander-thaloidi. — L'Uomo di Siberia, rappresentato dallo scheletro di un bam-bino trovato nel 1940 nella grotta di Teshik-Tash (Uzbekistan) (fig. 14.21). Lo scheletro è stato trovato circondato da corna di capra, disposte ordinatamente a coppie, per cui si pensa a una sepoltura intenzionale: presenta caratteri che lo avvicinano ai neanderthaliani europei.

Nel tentativo di proporre una sintesi, torniamo ora ai resti neanderthaliani dell'Europa e del Nord-Africa. Essi, come ab-biamo detto, possono essere grosso modo divisi in due gruppi: uno che tende a specializzarsi verso caratteristiche neandertha-liane tipiche; e un altro che tende a sviluppare caratteristiche più simili a quelle dell'Uomo attuale e viene considerato come una forma di transizione verso l' Homo sapiens.

Questo secondo gruppo, forse più interessante, consiste di vari reperti, il più antico dei quali è il cranio di Steinheirn.

Benché presenti una notevole arcata sopraorbitaria del tipo

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di quella del Sinantropo, la volta cranica è molto alta. La sua capacità cranica è compresa fra i 1.100 e i 1.200 cc. I molari sono piccoli. Le orbite sono distanziate e la radice del naso è infossata come nell'uomo attuale. L'attacco dello zigomo è diverso da quello degli altri neanderthaliani.

Per quest'intersecarsi di caratteri diversi, il cranio di Stein-heim rappresenta un punto importante nella evoluzione umana; sottovalutando i caratteri neanderthaliani, si può facimente clas-sificarlo fra i resti più antichi di Homo sapiens; sopravvalutando invece questi caratteri, è possibile classificarlo fra i neandertha-liani tipici. A questo tipo umano si ricollega poi tutto quel gruppo di reperti che Sergi indica col nome di Profanerantropi, considerandoli i precursori degli . Ominidi che si svilupperanno nel Paleolitico superiore e che, per essere dotati di morfologia simile a quella dell'Uomo attuale, sono stati da lui chiamati Fa neran tropi.

I più importanti rappresentanti di questo gruppo di Ominidi fossili corrispondono ai reperti di Swanscombe e dí Fonteche-vade, alla mandibola di Montrnaurin, al cranio dell'Olmo e al-l'occipitale di Quinzano. Dei reperti di Swanscombe e di Fonte-chevade si è già detto in precedenza.

Il reperto dell'Olmo, piccola località presso Arezzo, manca della faccia, pur comprendendo quasi tutto il frontale e parte dei parietali e dell'occipitale. Presenta una capacità dí 1.400 cc. Per l'insieme dei caratteri morfologici e specialmente per l'as-senza del toro sopraorbitario e per la fronte eretta, anche se bassa, somiglia molto di più agli uomini attuali che non a nean-derthaliani. Fu trovato insieme con alcune schegge di tipo muste-riano. Per quanto esistano forti dubbi sulla stratigrafia esatta, sembra che il reperto sia contemporaneo almeno agli ultimi nean-derthaliani.

Il reperto di Quinzano, località alla periferia di Verona, è rappresentato da una porzione di occipitale, che per forma, spes-sore e dimensioni somiglia ai reperti di Swanscombe e Fonte-chevade.

Altro reperto interessante è la mandibola di Montmaurin, nell'alta Garonna, che secondo Vallois risalirebbe all'interglaciale Mindel-R i ss

Oltre a questi reperti d'Europa, si ha un'importante serie di scheletri in Palestina: essi dimostrano indirettamente l'esi-stenza dei primitivi sapiens nel Medio Oriente, commisti a tipi

Fig. 14.22 Cranio di Skul V, ricostruito. (Da Jullien, 1965).

nettamente neanderthaloidi (fig. 14.22). Essi provengono princi-palmente dalle grotte del monte Carmelo, nei pressi di Haifa, e dalla Galilea. Si tratta di reperti ben documentati; molti sono stati trovati in uno strato caratterizzato da una fauna di tipo caldo e con industria ritenuta affine a quella musteriana (Levallois-musteriano). I reperti sono fatti ascendere ai primi stadi della regressione marina, corrispondente agli inizi del Wiirm.

Sono notevoli soprattutto per la grande variabilità che pre-sentano e per l'associazone, nei diversi individui, di caratteri neanderthaloidi e fanerantropici. Così, accanto al toro sopraorbi-tario, alla platicefalia, al prognatismo totale, all'assenza o ridu-zione della fossa canina e del mento, si possono osservare una fronte più curva, la tendenza del toro sopraorbitario a dividersi, la presenza di fosse canine, un mento ben disegnato e soprat-

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RESTI FOSSILI OMINOIDI

AFRICA ASIA EUROPA

2: NEANDERTHAL

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Fig. 14.23 Tentativo dí localizzazione cronologica dei principali Ominidi del Pleistocene.

tutto una volta cranica notevolmente più elevata e arrotondata. Per spiegare questa grande variabilità si possono invocare

due ipotesi: o il tipo neanderthaloide era diventato instabile e stava per trasformarsi in sapiens, o i resti di monte Carmelo sono una mistura dei due tipi. Entrambe le possibilità sono state considerate da vari esperti. La seconda sembra tuttavia più vero-simile, specialmente se si considera il tipo di cultura cui i resti erano associati.

La variabilità è comunque una indicazione importante della continuità genetica dell'Uomo di Neanderthal con l'Uomo attuale.

5. I Fanerantropi.

Al secondo stadio dell'espansione glaciale wiirmiana corri-sponde in Europa, come in Asia e in Africa, un profondo muta-mento dei tipi umani. I Paleantropi, di cui si è detto, si estin-guono e compaiono tipi umani con caratteristiche differenti. La loro comparsa sembra sia avvenuta nello stadio preistorico noto come Paleolitico superiore. Queste nuove forme sono certamente in connessione con le forme neolitiche e con l'Uomo attuale; possiamo pertanto attribuire loro il nome di Homo sapiens fos-sílis.

Tuttavia, fra la scomparsa delle forme neanderthaloídi e la comparsa delle fanerantropiche sembra esservi uno hiatus tempo-rale: i resti fanerantropici più antichi non sono anteriori ai 30.000 anni a. C. mentre gli ultimi neanderthaliani si fanno ri-salire a 70-60.000 anni fa.

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Capitolo quindicesimo

LA POSTURA DEI PRIMATI E L'ACQUISIZIONE DELLA STAZIONE ERETTA NELL'UOMO

1. La postura dei Primati.

Le modalità di locomozione degli individui di una specie è in primo luogo in stretta relazione con la nicchia ecologica da essi occupata e, in secondo luogo, in dipendenza della mole corporea e della struttura degli organi locomotori.

La pastura delle diverse specie di Primati dipende pertanto dalle condizioni dell'ambiente in cui sono adattati a vivere, dalle loro dimensioni e dalle capacità adattative degli organi motori.

Solo pochi generi di Primati sono terricoli; per lo più essi sono legati alla vita arboricola (fig. 15.1).

La Tupaia vive nelle foreste tropicali e si muove sui rami con un movimento a compasso del tronco che si flette in corri-spondenza della tredicesima vertebra toracica. Per questa spe-ciale funzione la tredicesima vertebra ha il bordo della superficie prearticolare curvo ventralmente. Inoltre l'alluce, opponibile alle altre dita, consente la presa su rami sottili.

In ambiente analogo, buona parte delle proscimmie si è adattata alla locomozione arboricola, scegliendo prevalentemente supporti verticali (rami e tronchi). Tale adattamento, che in al-cuni generi come nel Tarsio si accompagna alla attitudine al salto, è stato definito dal Napier vertical clinging and leaping' (adesione verticale e salto) e costituirebbe l'adattamento postu-rale specializzato originario dei Primati dal quale sarebbero de-rivati gli altri.

Il tipo di vita prevalentemente arboricolo, che è• tipico delle Proscimmie, è stato probabilmente quello caratteristico di tutte le forme più antiche di Primati in un'epoca in cui sul terreno avrebbero potuto subire la violenza dei primi Carnivori e la con-correnza dei primi Roditori e Lagomorfi.

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Fig. 15.1 Differenti tipi di postura nei Primati. A) Tupaia, un tipo pri-mitivo di pastura arboricola nei Primati; B) Saguinus, adattamento ar-boricolo, quadrupede; C) Hylobates, specializzazione arboricola, brachia-tore; D) Macaca, specializzazione terrestre; E) Pan, adattamento semi-terrestre con clinogradia; F) Ominide, incipiente pastura eretta; G) Homo, deambulazione eretta.

Della specializzazione locomotoria delle due famiglie di Scim-mie Platirrine abbiamo già parlato nel capitolo quarto.

Per studiare l'origine della pastura eretta dell'Uomo interessa in particolare esaminare le abitudini posturali delle Scimmie Catarrine.

I Babbuini e le Macache vivono in savana, o comunque in luoghi privi di vegetazione alta, e si muovono su tutti e quattro gli arti. La loro andatura è di tipo quadrupede, anche se possono usare gli arti sìa superiori che inferiori in funzione prensile.

I Cercopiteci vivono prevalentemente sugli alberi e usano i quattro arti per arrampicarsi e mantenersi ín equilibrio sui rami. L'andatura è di tipo quadrumane, ma essi adoperano prevalen-temente gli arti inferiori per la presa e i superiori per afferrare il cibo.

Il Gibbone ( Hylobates) si arrampica sugli alberi usando quasi esclusivamente gli arti superiori (che sono anche notevolmente più sviluppati degli inferiori), mentre usa gli arti inferiori per muoversi in senso orizzontale sui rami, a mo' di equilibrista. Il Gibbone è pertanto da definirsi un brachiatore a postura preva-lentemente eretta.

Le Antropomorfe presentano una notevole differenza fra di

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loro. L'Orango è maggiormente adattato alla vita arboricola e ha pertanto un adattamento più simile a quello del Gibbone; il Go-rilla e lo Scimpanzé sono più adattati alla vita terrestre e hanno un comportamento posturale più simile a quello dei Babbuini. L'Uomo ha stazione bipede eretta e ha le mani completamente libere e utilizzabili.

Ovviamente queste diverse condizioni comportano differenze strutturali notevoli negli apparati scheletrico e muscolare e a livello degli organi dell'equilibrio, a partire da un tipo di vita quadrumane arboricolo.

L'adattamento terrestre dei Babbuini, di alcune Macache, del Gorilla e parzialmente dello Scimpanzé è da considerarsi succes-sivo, dovuto probabilmente al ritiro delle foreste e alla conse-guente invasione dí un nuovo habitat: quello della savana; op-pure alla mole del loro corpo che rendeva difficile e faticosa la vita arboricola. È dimostrativo, a questo riguardo, il fatto che la femmina del Gorilla e i Gorilla più giovani, e perciò meno massicci, organizzino giacigli notturni sui rami degli alberi, men-tre i maschi, di solito voluminosi e pesanti, organizzano il loro giaciglio ai piedi degli alberi.

Si presume che la stazione eretta sia una conquista secondaria alla condizione quadrumane, del tipo di quella delle Antropo-morfe africane (Gorilla, Scimpanzé). Ricerche condotte special-mente ad opera del Kortlandt (1960-70) dimostrano come lo Scim-

Fig. 15.2 A) Uno Scimpanzé maschio, adulto, mentre in pastura eretta sta affrontando con un bastone un leopardo imbalsamato; B) una femmina con piccolo mentre brandisce un bastone lungo quasi due metri imme-diatamente prima di colpire il leopardo impagliato. (Da Kortlandt e Kooij, 1963).

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panzé, in condizioni di necessità, possa camminare anche a lungo ritto sugli arti inferiori. Fra queste, due esperienze sono partico-larmente dimostrative. Una prima volta il Kortlandt mise in un territorio recintato un gruppo di Scimpanzé e a una certa distanza un leopardo impagliato. Gli Scimpanzé, dopo aver tentato invano la fuga, si organizzarono, e in gruppo, avanti i maschi e le fem-mine più anziane, dietro i più giovani e le madri, si prepararono a una vera e propria carica contro il leopardo. Via via che pro-cedevano verso la fiera, gli Scimpanzé raccoglievano bastoni, sassi e ogni possibile oggetto che rinvenivano sul terreno. La loro andatura, da quadrumane, divenne semieretta, e in queste condi-zioni si disposero per la carica finale (fig. 15.2).

Un'altra volta il Kortlandt mise un giovane Scimpanzé in un ambiente particolarmente difficile, sia per il reperimento del cibo che per le altre condizioni di vita. Una volta lo Scimpanzé trovò una ventina di noci di cocco, banane e altre ghiottonerie. Col desiderio di portare queste cibarie in un nascondiglio sicuro, lo Scimpanzé si riempì prima la bocca, poi le mani e poi gli arti inferiori, ma in questo modo aveva grande difficoltà a muoversi. A un certo momento, come còlto da un bagliore inventivo, piegò uno degli arti superiori accostandolo verso il corpo. Fra l'arto e il torace sistemò le noci di cocco e nell'altra mano prese altri frutti; quindi, semieretto sugli arti inferiori, si diresse di corsa verso il nascondiglio.

Il bisogno di difesa e le necessità connesse con il cibo sono stimoli importanti per l'acquisizione della postura eretta negli Scimpanzé.

2. La conquista della stazione eretta: l'esame dello scheletro postcraniale delle Australopitecine.

Se nelle Antropomorfe la stazione eretta è occasionale, nel-l'Uomo essa è la norma. Come si è realizzata?

Fra i più antichi rappresentanti noti del phylum degli Orni-nidi si annoverano le Australopitecine. Di esse, come abbiamo visto, esiste un gran numero di reperti, anche di ossa lunghe: è quindi possibile stabilire quale sia stato il loro tipo di postura.

Innanzitutto, le cinque o sei località dove sono stati trovati i resti di questi Ominidi, non erano grotte, ma luoghi più o meno appartati dove essi probabilmente soggiornavano solo occasional-mente e dove raccoglievano le prede e le mangiavano. Lo di-

mostra la grande quantità di resti di animali rinvenuti in questi luoghi. A Makapansgat, per esempio, il 92% dei resti erano costituiti da ossa di antilope di varie dimensioni e dí diverse età, 1'1,27% da ossa di babbuino e solo lo 0,26% da resti di Austra-lopitecine.

Inoltre il Dart ha riscontrato che un'altissima percentuale dei resti di babbuino rinvenuti presentava sul cranio una depressione tale da far pensare che fosse stata provocata da un corpo con- tundente, verosimilmente un grosso femore di Ungulato. È quindi molto probabile che le Australopitecine praticassero la caccia.

Non esistono dati sicuri per affermare che gli Australopiteci si servissero di oggetti di osso, di legno o di pietra, anche se molto si è discusso della esistenza di una industria osteocheratica Dart). Si hanno tuttavia prove dell'avvenuto trasporto di pietre.

Una tale attività, come già la caccia, può essere praticata da un Ominide solo se le mani sono libere dalla funzione di appoggio, se ha stazione eretta e può camminare e correre. Ma una stazione eretta stabile e un adattamento alla corsa comportano molte tra- sformazioni nello scheletro postcraniale, che devono essere rile-vabili anche in reperti fossili. I resti di questa parte dello sche-letro delle Australopitecine sono, per nostra fortuna, abbondanti e possono essere pertanto studiati in dettaglio.

Il numero e la morfologia delle vertebre lombari sono signi-ficativi a questo riguardo. Esse sono nelle Australopitecine in numero di 6, mentre nell'Uomo sono 5, nello Scimpanzé 4 e nel Gorilla 3 o 4. La loro morfologia permette di distinguere la curvatura tipicamente umana della colonna vertebrale.

La pelvi è una parte dello scheletro particolarmente impor-tante per la stazione eretta, costituendo l'impalcatura ossea su cui deve poggiare l'intero corpo. Si hanno 4 reperti pressoché com-pleti di pelvi di Australopitecine, due appartenenti ad individui giovani e due a individui adulti,

Comparando le ossa pelviche delle Australopitecine con quelle dello Scimpanzé e dell'Uomo, si vede chiaramente che tutti e quattro i reperti assomigliano a quelli dell'Uomo nella forma generale e in molti dettagli, come per esempio la spina iliaca anteriore-inferiore; ma differiscono da quelle dell'Uomo per al-cuni particolari (fig. 15.3). Le differenze consistono principal-mente nell'assenza di rilievi ossei per gli attacchi dei muscoli glutei sulla regione esterna dell'osso iliaco, e in una notevole variabilità delle dimensioni della tuberosità ischiatica. Questi dati

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c

hanno permesso a vari autori di emettere l'ipotesi che questi Ominidi avessero una stazione semieretta o che avessero una stazione eretta, anche se non costante. La variabilità riscontrata potrebbe sottolineare il fatto che sí tratti di tentativi per raggiun-gere la stazione eretta.

Comunque, se le Australopitecine riuscivano a cacciare, a portare a distanza delle pietre e a trasportare le prede, dovevano avere una stazione per lo più eretta, dovevano poter correre e avere gli arti superiori particolarmente agili e mobili. Ma, per correre stando eretti sul tronco, è necessario avere un arto infe-riore adatto a questo scopo.

Purtroppo si hanno pochissimi resti di femori: un paio di parti prossimali e una parte distale. Le parti prossimali rivelano che l'area trocanterica, pur avendo una conformazione pressoché simile a quella umana, non presenta gli attacchi muscolari cosi

Fig. 15.3 Comparazione della forma delle ossa pelviche tra Scimpanzé (A), Australopiteco (B) e Uomo attuale (C).

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sviluppati come nell'Uomo. La parte distale è piuttosto piccola, ma di tipo nettamente umano, robusta a sufficienza per sopportare l'intero peso del corpo, non solo per qualche tempo ma costante-mente. Non esistono resti dí tibie e di fibule. Tra le ossa del piede, l'astragalo è una delle più importanti in quanto, essendo interposto fra la gamba e il piede vero e proprio, può presen-tare indicazioni di rigidità o mobilità dell'arco piantare. Nella

Homo Krorndraoi Olduvoi Pan Proconsul

F -ig. 15.4 L'astragalo degli Australopiteci e di altri Primati: A) Homo sapiens; B) Kromdraai; C) giovane dí Olduvai; D) Scimpanzé; E) Pro-consul nyanzae. L'angolo del collo dell'astragalo con il suo asse mag-giore nelle Australopitecine ha valori intermedi fra quelli dell'Uomo e quelli delle Antropomorfe e dei Babbuini. (Da Coon, 1962).

fig. 15.4, ove sono comparati gli astragali delle Australopitecíne con quelli dell'Uomo e di altri Primati, l'angolo collo-asse è in-termedio tra quello dello Scimpanzé e quello dell'Uomo.

Ma per cacciare, oltre alla stazione eretta e quindi alle mani libere, è necessario che anche gli arti superiori siano particolar-mente agili e mobili. Nei resti di Australopitecine il cingolo tora-cico è rappresentato solo dai frammenti di una clavicola e da una scapola, che presenta una spina lunga e di conformazione umana. L' acromion si presenta sporgente, come nell'Uomo e nelle An-tropomorfe; ma, a differenza che in queste ultime, è sottile e piatto come nell'Uomo. La zona della cavità glenoidea si presenta naturalmente robusta e conformata come nelle Antropomorfe, il che denota una notevole potenza muscolare (fig. 15.5). L'arto superiore è rappresentato solo da frammenti di omero e da alcune falangi. L'omero fa presumere una lunghezza di circa 30 cm ed è di conformazione intermedia fra quella umana e quella delle Antropomorfe. Le falangi presentano segni di notevole agilità.

In generale, quindi, lo scheletro postcraniale degli Australo-piteci presenta un aspetto intermedio fra quello umano e quello

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Homo Sterkfontein Pongo Cercop i !mous

R R Fig. 15.5 L'osso della scapola nell'Uomo, nelle Australopithecinae e in altri Primati.

Incisura scapolare

Processo —tue coracoide

Spina

glenoide

delle Antropomorfe, ma di tipo prevalentemente umano. Dal-l'esame di esso risulta evidente che questo essere aveva stazione eretta e deambulazione bipede, pressoché simile a quella del-l'Uomo attuale.

3. Posizione relativa e orientamento del /oro occipitale nel pro-cesso di ominazione.

Altre importanti indicazioni sulla stazione eretta delle Austra-lopitecine vengono dallo studio della posizione e dell'orienta-mento del foro occipitale. Esso, nella evoluzione della postura da quadrupede a bipede, tende a passare da una posizione poste-riore (Cane) a una posizione inferiore (Uomo). Questo passaggio nei Primati è graduale. Negli Ominidi si effettua contemporanea-mente all'acquisizione della stazione eretta e all'ingrossamento del cranio neurale.

La posizione del foro occipitale può essere valutata per mezzo di un indice proposto da Zuckerman (fig. 15.6). Si orienta il cranio secondo il piano di Francoforte, si traccia la lunghezza massima orizzontale dell'insieme cranio-facciale e si proietta su questo segmento il punto di mezzo dei condili occipitali; il rap-porto fra la parte posteriore e la parte anteriore di queste lun-ghezze dà il valore dell'indice.

Così se P è il punto anteriore (rappresentato dalla proiezione verticale del prosthion), O il punto posteriore (rappresentato, nell'Uomo, dalla proiezione verticale dell'o pisthiocranium) e C la proiezione dell'asse dei condili, l'indice OC: PC moltiplicato 100.

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Fig. 15.6 Valutazione della posizione del foro occipitale. RR = sezione del piano orizzontale parallelo al piano di Francoforte; P = proiezione del prosibion; C = proiezione del punto dei condili; O = proiezione del. I'opisthiocranium. Il piano di Francoforte è quello passante per il punto più alto del meato uditivo esterno e il punto più basso della cavità orbitale.

Per questo indice, lo Zuckerman trova nell'uomo valori sempre superiori a 60, negli Antropoidi dei valori uguali o infe-riori a 30, e nelle Australopitecine un valore di 40.

Il significato delle diverse intensità presentate dall'indice, si può esprimere anche sotto forma di rapporti numerici OC : PC.

Uomo OC :PC = 3 :5 Antropoidi OC : PC = 1,5 : 5 Australopitecine OC :PC = 2 :5

Si vede in questo modo che la distanza dell'asse condilare dall'estremo posteriore del cranio (occipite), negli Antropoidi è circa la metà che nell'Uomo; e che gli Australopiteci occupano posizione intermedia, pur avvicinandosi di più agli Antropoidi. Appare quindi evidente che le Australopitecine, pur avendo una postura semieretta o eretta del tipo di quella dell'Uomo, non avevano ancora raggiunto la erezione completa delle vertebre del collo. Le Australopitecine rappresentano comunque uno stadio del processo evolutivo che ha condotto alla stazione eretta di tipo umano.

É stato questo uno dei primi e più importanti gradini verso la ominazione. L'agente stimolante, con molta probabilità, è stato la necessità di reperire il cibo in un ambiente, quale doveva essere quello della savana, reso difficile dalla competizione ad opera di altri Mammiferi, in special modo di Carnivori.

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Vediamo ora quali sono le più importanti variazioni che le diverse porzioni scheletriche hanno subito durante questo com-plicato processo.

4. Verticalizzazione della colonna vertebrale.

Sebbene il termine ' colonna vertebrale ' sia di uso generale, esso ha un significato aderente alla sua funzione soltanto se rife-rito ad esseri a stazione verticalizzata, come l'Uomo. Nei qua-drupedi in realtà si dovrebbe soltanto parlare di trave verte-brale in quanto il loro scheletro assile assume, dal punto di vista meccanico, soltanto quest'ultima funzione. L'asse della trave vertebrale dei quadrupedi è situata in condizioni normali in po-sizione parallela al suolo e quindi perpendicolare alle linee di forza del campo gravitazionale terrestre. Esso è dunque sotto-posto, anche in condizioni statiche, a forze di flessione e di taglio. La trave è sensibilmente rigida, in quanto la coesione dei suoi elementi (vertebre) è determinata dalla compressione esercitata sui corpi in senso longitudinale dai muscoli e di conseguenza le forze suaccennate si scaricano più o meno uniformemente sugli arti anteriori e posteriori, a seconda della particolare architettura posturale di ciascuna specie (fig. 15.7).

La situazione è invece alquanto diversa nei Primati clino-gradi, cioè a stazione più o meno obliqua, come le Antropomorfe, in quanto l'appoggio, e quindi lo scarico delle forze, avviene prevalentemente sul treno posteriore, mentre quello anteriore ha solo la funzione di appoggio secondario. Dal punto di vista meccanico, il rachide è pur sempre una trave, ma una parte delle forze gravitazionali vengono a scaricarsi longitudinalmente per effetto dei piani inclinati che costituiscono le facce dei corpi ver-tebrali. Nell'Uomo, la situazione è completamente diversa, poiché manca l'appoggio dell'arto anteriore (che diventa così superiore), e quindi lo scarico di tutte le forze deve in definitiva avvenire lungo l'asse longitudinale del rachide. Esso è quindi una vera colonna che ha per base la faccia superiore del sacro e per ca-pitello l'atlante, che regge, quale architrave, il capo. In questo caso hanno influenza sui corpi vertebrali non soltanto le forze determinate dalla compressione esercitata dai muscoli, ma anche quelle gravitazionali ed eventualmente quelle inerziali longitu-dinali.

322

c

Fig. 15.7 La « trave vertebrale » e la « colonna vertebrale »: indicazione delle forze cui sono sottoposte. Al Cane, B) Scimpanzé, C) Uomo. (Per cortesia di M. Masali).

Di conseguenza, se la colonna vertebrale fosse un corpo rigido e geometricamente colonnare, dovrebbe avere dimensioni, coe-sione e resistenza alla compressione notevolmente maggiori di quelle che essa in realtà possiede. I sistemi di curve, sagittale e laterale, che interferendo l'uno con l'altro dànno al rachide una struttura elicoidale, consentono invece ad esso una reazione ela-stica alle sollecitazioni e permettono di scaricare orizzontalmente una parte dell'energia cinetica, dissipandola attraverso le forma-zioni muscolari, tendinee e ossee del tronco e facendo sì che la risultante non sia rigorosamente perpendicolare ai corpi vertebrali (figg. 15.8 e 15.9). Ne conseguono importanti modificazioni nella grandezza e nella forma delle vertebre in rapporto all'acquisizione

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Fig. 15.8 Statica della colonna vertebrale nell'Uomo e relazione con í si-stemi di curve sagittale e laterale; le curvature sono state accentuate per maggior chiarezza. (Per cortesia dì M. Masali).

Fig. 15.9 Modello meccanico dello scarico delle sollecitazioni meccaniche nello scheletro dell'Uomo. (Per cortesia di M. :gasali).

della stazione eretta. Mentre nei quadrupedi ciascun corpo ver-tebrale deve reggere, in condizioni statiche, soltanto le forze di compressione necessarie a mantenere la rigidezza del rachide, nella stazione eretta ciascuna vertebra deve anche sostenere il carico delle masse che scaricano il loro peso sulle vertebre sottostanti. Dalle cervicali alle lombari assistiamo a un progressivo aumento delle dimensioni di ciascuna vertebra. La colonna vertebrale ha quindi, nel tratto libero, l'aspetto di un tronco di cono. Ciò non appare, e ad ogni modo non sembra necessario, nei quadrupedi, ed è meno evidente nei clinogradi.

L'adattamento alla funzione colonnare comporta, come mani-festazione più evidente, l'accorciamento dei corpi vertebrali in

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senso cranio-caudale e l'aumento del diametro trasverso. Le ver-tebre delle Scimmie quadrupedi sono infatti allungate partico-larmente nella regione lombare, nelle Antropomorfe tendono ad avere l'altezza del corpo pressoché uguale al diametro trasverso, mentre nell'Uomo risultano prevalentemente più larghe che alte.

Anche la regione sacrale subisce interessanti adattamenti alla stazione eretta. La funzione del sacro è quella di scaricare sulla pelvi le sollecitazioni meccaniche a cui viene sottoposto il rachide. Nei quadrupedi il sacro è disposto al di sotto dei margini mediali dell'ileo ed è destinato a reggere il peso del rachide e dei visceri addominali, ad esso direttamente o indirettamente legati. Il peso della regione toracica si scarica invece sul cinto scapolare. Di

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n

Fig. 15.10 Norma sagittale e trasversale della seconda e terza vertebra lombare di Primati a differente postura: A) Cercopithecus, B) e C) Homo. (Da Delmas, 1958).

conseguenza, l'osso sacro appare generalmente esile, allungato e poco differenziato dal resto del rachide. Nelle Scimmie, invece, esso va sempre più allungandosi e incuneandosi fra gli ilei, finché nell'Uomo appare nella tipica forma di cuneo, del quale assume anche in pieno la funzione.

Fig. 15.11 Statica della pelvi nel:il:orno. (Per cortesia di M. Masali).

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In posizione eretta il sacro trasmette all'osso dell'anca tutte le sollecitazioni che gravano sulla colonna vertebrale (il peso del tronco, degli arti superiori, del capo, la trazione dei muscoli della regione lombare, oltre ai carichi delle forze e alle sollecitazioni inerziali occasionali che vengono ad interessare la parte superiore del tronco). A causa della particolare conformazione del sacro, le forze F, trasmesse verticalmente attraverso il rachide, vengono suddivise in due risultanti (una obliqua F' ed una verticale F"), per effetto dei piani inclinati costituiti dalle facce articolari ileo-sacrali. Questo meccanismo consente la distribuzione uniforme dei carichi agli arti inferiori.

5. Processo di brachipelvizzazione.

Con l'adattamento alle nuove condizioni del sacro e della colonna vertebrale, compare una nuova morfologia della pelvi

Scimpanzé Australopiteco Uomo

Fig. 15.12 Disposizione ed estensione dei muscoli glutei nello Scimpanzé, nell'Australopiteco (per ricostruzione interpretativa), e nell'Uomo.

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direttamente correlata con la stazione eretta. Nei quadrupedi i visceri addominali risultano sospesi alla pelvi, mentre nell'Uomo essi sono calati in un bacino ' formato dalle ossa pelviche stesse. Quindi anche il termine di ' bacino ' riferito alle pelvi può essere usato correttamente soltanto se riferito ad esseri ortogradi.

La pelvi dei quadrupedi, oltre alla funzione di locomozione, ha, come si è visto, quella di sostenere e scaricare sugli arti po-steriori il carico della regione superiore del corpo ed è coadiu-vata dalla funzione statica della cintura toracica. Nell'Uomo la pelvi assume un ruolo fondamentale nella statica e nella dinamica della, stazione eretta, particolarmente per la inserzione dei glutei, che assumono una particolare configurazione. Essi appaiono par-ticolarmente vasti e presentano una prevalenza della larghezza sulla lunghezza, contrariamente a quanto si ha nei clinogradi e nei quadrupedi (fig. 15.11).

I muscoli glutei, che nello Scimpanzé hanno una funzione quasi esclusivamente locomotoria (secondo Sperino), nell'Uomo svolgono in prevalenza la funzione di mantenere eretto il tronco; tali muscoli si estendono fino a coprire le tuberosità ischiatiche.

Per mantenere eretto il tronco è necessaria una grande forza muscolare, che non deve però essere ottenuta attraverso una tonicità muscolare troppo elevata, altrimenti la stazione eretta risulterebbe troppo faticosa. Per questa funzione, í muscoli larghi e relativamente corti sono i più efficienti. La conseguenza, dal punto di vista osteologico, è un aumento in larghezza delle ossa iliache e un contemporaneo ridursi della loro lunghezza (fig. 15.12).

Capitolo sedicesimo

LA DIFFERENZIAZIONE DEGLI ARTI INFERIORI E SUPERIORI NEI PRIMATI E L'ACQUISIZIONE

DELLA OPPONIBILITA DEL POLLICE NELL'UOMO

1. Differenziazione degli arti in relazione al tempo di brachia-zione.

Considerando la funzione analoga del treno anteriore e poste-riore nella locomozione, vediamo ora come, dallo schema basilare dell'arto dei Tetrapodi, gli arti dei Primati si specializzino in relazione aí diversi adattamenti locomotori, realizzatisi in questo gruppo tassonomico. Tutte le specie di Primati sono caratteriz-zate da un tipo di specializzazione locomotoria.

Nell'ambiente arboricolo la differenziazione degli arti è legata alla tecnica di arrampicamento e alla massa del corpo. Eviden-temente una Scimmia piccola ha minori necessità di differenzia-zione degli arti rispetto a un grosso Antropoide. Se è possibile per la prima una locomozione quadrupede sui rami, questa diventa certamente problematica per un Gorilla. Nelle Scimmie più grandi, infatti, si realizza frequentemente la brachiazione in so-spensione, con l'aiuto dell'arto inferiore o senza. Durante la bra-chiazione, il peso dell'animale è sostenuto particolarmente dal-l'arto anteriore, mentre quello posteriore funziona soprattutto da appoggio e da spinta. Da qui la notevole differenziazione in ro-bustezza o in lunghezza dell'arto superiore dei brachiatori veri ( Orango, Gibbone), í quali hanno questo arto molto più lungo di quello inferiore, mentre quelli con tempo di brachiazione minore (Gorilla e Scimpanzé) presentano una differenziazione meno accentuata.

Nelle Scimmie arboricole dí piccola dimensione e a coda pren-sile (Cebidi) si ha una certa prevalenza della lunghezza dell'arto posteriore. Nelle Scimmie quadrupedi terricole (Amadriadi) l'arto anteriore e quello posteriore si equivalgono in lunghezza.

Nell'Uomo (tempo di brachiazione nullo) compare ovviamente

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una differenziazione inversa. L'appoggio e la locomozione sono affidate esclusivamente all'arto inferiore, mentre quello superiore è deputato alla sola funzione di presa. Si ha quindi un rovescia-mento delle proporzioni, per cui l'arto inferiore risulta più robu-sto e più lungo di quello superiore. Anche la motilità viene a differenziarsi; mentre l'arto inferiore viene ad assumere una libertà di movimento limitata in pratica al solo piano sagittale (mecca-nicamente un solo grado di libertà), l'arto superiore estende il suo campo di azione alle tre direzioni fondamentali dello spazio (tre gradi di libertà). L'adattamento strettamente arboricolo delle Antropomorfe e la specializzazione terricola dell'Uomo presuppon-gono degli schemi evolutivi ben distinti; si deve quindi ritenere che l'« antenato comune » doveva essere indifferenziato, dal punto di vista locomotorio.

2. Adattamento dell'arto inferiore alla locomozione eretta.

Le modificazioni che ha subito il piede nell'adattamento alla stazione eretta, sono forse più evidenti di quelle della mano, anche se generalmente meno considerate.

Il piede dell'Uomo è tipicamente plantigrado; se Io si consi-dera come adattamento secondario rispetto al piede dei Primati arboricoli, dobbiamo constatare che i cambiamenti subiti sono notevoli (fig. 16.1). Il piede dei Primati arboricoli è adattato particolarmente all'arrampicamento: è quindi più mobile, pren-sile per opponibilità dell'alluce (spesso incompleta) e ha gli assi

Fig. 16.1 Forma del piede con speciale riguardo alla struttura e disposi-zione dell'alluce in diverse specie di Scimmie e nell'Uomo.

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Ilei calcagni convergenti verso il basso, in modo che la pianta tisulta rivolta medialmente. Tale configurazione garantisce un'ot-tima presa sui rami e sui tronchi, consentendo al piede di eser-i. i t are il massimo della spinta e coadiuvando così efficacemente l'arto superiore nella brachiazione.

Nell'Uomo il piede costituisce l'unico appoggio del corpo sul terreno, essendo l'arto inferiore lungo e colonnare mentre quello superiore è notevolmente più corto. Nel poligono di appoggio Iormato dai soli piedi deve infatti cadere la linea di gravità in condizioni statiche. In condizioni dinamiche i piedi devono poi reggere tutte le sollecitazioni inerziali che agiscono sulla massa del k orpo. La struttura del piede umano è quindi compatta; ma nello ',tesso tempo elastica. L'alluce non è opponibile, la motilità delle dita è scarsa o nulla, ma al tempo stesso la pianta arcuata con-sente di scaricare meglio sul terreno le sollecitazioni trasmesse dalla tibia, costituendo una sorta di molla di balestra. Gli assi dei calcagni convergono verso l'alto, in modo che la pianta del piede, contrariamente a quella degli Antropoidi, è rivolta un po' lateralmente. Questo fatto permette un migliore equilibrio « la-terale » sul terreno, riducendo tuttavia contemporaneamente le Potenzialità di arrampicamento.

La struttura tipica del piede umano risulta antica, ma alcuni karatteri, come la scarsa motilità dell'alluce e la convergenza degli assi delle dita sono di acquisizione recente. I Neanderthaliani infatti avevano, sotto questo aspetto (secondo Boule e Vallois), caratteri più prossimi agli Antropoidi arboricoli che all'Uomo attuale.

5. Adattamento dell'arto superiore alle prese di forza e di pre-cisione.

La vita arboricola, caratteristica anche dei Primati più antichi, ha determinato l'insorgere di particolari differenziazioni del loro arto superiore.

Esso perde le caratteristiche tipiche indotte dalla locomozione terricola dei Tetrapodi primitivi ed assume un particolare adat-tamento alla presa, il che comporta notevoli modificazioni a carico delle estremità. Si ha così la comparsa della caratteristica « ma-no » dei Primati, la quale è sempre organo di presa, anche quando assume la funzione di appoggio (fig. 16.2).

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Galago Tu paia Tarsius- —Indr i —Daubentonia

Pap io

Symphalangus

Pongo Pan Gorilla Homo

A B

C

Fig. 16.2 Mani e piedi di Primati. A) mani di alcune Proscimmie; B) piedi delle stesse Proscimmie; C) mani di Cercopithecoidea e di Hominoidea. (Da Biegert, 1964, ridisegnato).

Le caratteristiche della mano sono tali da permettere lo svol-gimento di numerose funzioni. La mano si sostituisce infatti in parte anche a funzioni specifiche, dell'apparato boccale, come l'afferrare e trattenere il cibo, nonché alle funzioni olfattive nel riconoscimento degli oggetti per mezzo del tatto. Tutti i Primati usano le mani in modo più o meno complicato; tutti ne hanno il controllo completo; talvolta manca invece il controllo indivi-duale delle dita o queste assumono specializzazioni differenti nei

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diversi gruppi. In alcuni Lernuri, per esempio, o nella scimmia americana Aluatta, gli oggetti vengono afferrati fra il secondo ed il terzo dito, mentre nelle Scimmie del Vecchio Mondo questo avviene generalmente in modo più semplice, con l'ausilio del pollice.

Vi sono poi alcune specie (Ateles, Colobus, Symphalangus) in cui il pollice è pressoché inesistente.

La funzione originaria della mano dei Primati è quella con-nessa con l'arrampicamento; la mano serve all'animale per arram-picarsi sui rami. Per questa funzione è però necessaria una presa particolarmente efficace, che consiste nel chiudere il 2°, 3°, 4° e 50 dito attorno all'oggetto, in modo da formare un gancio capace di sostenere tutto il peso dell'animale. Spesso si unisce alle dita sopracitate il pollice, che migliora la presa mantenendosi in oppo-sizione più o meno completa con le altre dita.

Questo tipo di presa è detto « presa di forza », in quanto 1 ' azione muscolare è sempre sovrabbondante e non richiede una line coordinazione neuro-muscolare.

Quando invece l'oggetto afferrate> è di piccole dimensioni e non richiede il massimo sforzo, si ha la « presa di precisione », nella quale è indispensabile l'intervento cosciente del sistema nervoso nel dosare l'azione muscolare e sono di massima impor-tanza la sensibilità tattile e l'attenzione esercitata anche attraverso l'organo della vista. Questi tipi di presa sono caratteristici di tutti i Primati, ma, mentre in quelli arboricoli prevale la presa di forza, in quelli terricoli a stazione eretta (Ominidi) prevale quella di precisione.

Come si è detto, la presa di precisione sostituisce in parte la funzione dell'olfatto nel riconoscimento del cibo e degli oggetti. Infatti generalmente un quadrupede macrosmatico in presenza di un oggetto sconosciuto lo annusa, mentre un Primate lo tocca, lo gira da ogni parte e lo guarda. Ciò presuppone un'alta sensi-bilità visiva e tattile che manca nei quadrupedi privi di veri polpastrelli e di visione binoculare.

Anatomicamente, l'adattamento precipuo alla presa di forza è caratterizzato dal pollice corto, più o meno opponibile, e dalle altre dita che sono invece molto allungate e capaci della « doppia chiusura », nella quale le falangette riescono a disporsi paralle-lamente aí metacarpi durante la chiusura del pugno. In queste condizioni la presa di precisione (Orango, Scimpanzé) avviene non tanto per opposizione del pollice alle altre dita, quanto per

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9

A

b

appoggio dí esso sulla falange dell'indice, a causa dell'eccessiva lunghezza delle ultime quattro dita e della brevità del pollice. La presa di precisione si attua in modo completo quando il pol-lice è perfettamente opponibile a tutte le altre dita e riesce quindi a formare con ciascuna di esse una sorta di pinza (fig. 16.3).

Fig. 16.3 I movimenti possibili della mano dell'Uomo. Da sinistra a destra: opponibilità, prensilítà, convergenza, e divergenza. (Da Napier, 1962).

La comparsa della stazione eretta induce una specializzazione della mano diversa da quella derivante dall'adattamento arbori-colo. Nella mano dell'Uomo la presa di forza è attenuata e com-porta generalmente l'opposizione completa del pollice, a seconda della grandezza dell'oggetto. La presa di precisione raggiunge il massimo della raffinatezza, sia per l'alta sensibilità e motilità della mano, sia per l'elevato coordinamento dei movimenti che è proprio della nostra specie (fig, 16.4).

4. I vari stadi dell'evoluzione del pollice.

Il differenziamento del pollice può essere considerato uno degli adattamenti più importanti nella storia dei Primati. Esso ha importanza sia per la vita arboricola che per quella terricola. L'autonomia funzionale del pollice, che è il fattore principale dell'abilità della mano umana, è stato, come tutti gli eventi evo-

Fig. 16.4 Schemi dimostranti le libertà di movimento delle dita e delle loro falangi nell'Uomo. A) movimento flesso-estensorio delle articolazioni interfalangee (a e b) e delle metacarpo-falangee dell'indice (c). B) Movi-menti di adduzione e abduzione delle dita lunghe sui metacarpi; a) am-piezza di movimenti di adduzione e abduzione delle quattro ultime dita; b) alcuni movimenti compositi di adduzione e abduzione di alcune dita. C) movimenti di adduzione e abduzione dell'articolazione carpo-metacarpica del pollice; a) proiezione dorsale dei movimenti di addu-zione e abduzione; b) movimenti di adduzione e opposizione ín proiezione ventrale. (Secondo Lanz e Wachstnuth).

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lutivi, un fenomeno graduale che si è sviluppato durante i 70 milioni di anni in cui è avvenuta l'evoluzione dei Primati.

Nello sviluppo del pollice, dal suo stadio primitivo in poi, Napier distingue quattro stadi: 1. convergenza; 2. opponibilità falangea; 3. opponibilità impropria; 4. opponibilità vera.

Anatomia e paleontologia comparata sono oggi d'accordo sul fatto che la Proscimmia Tupaia può servire, sotto certi aspetti, come esempio delle primissime fasi dell'evoluzione dei Primati.

La mano della Tupaia è abbastanza lunga, e le dita sono prov-viste di acuminati artigli. Essa è capace di convergere, cioè di compiere un movimento di flessione delle articolazioni metacarpo-falangee, che avvicina tra loro le punte delle dita al centro del palmo della mano, così da formare una specie di coppa. Il mo-vimento opposto è la divergenza che allarga le dita a ventaglio e forma una larga superficie portante. Una vera capacità pren-sile non esiste ancora, e gli oggetti possono essere tenuti stretti solo con l'aiuto di ambedue le mani. Due mani di tal genere equivalgono quindi, funzionalmente, ad una sola mano prensile. Un esempio di questo modo di utilizzazione delle mani è fornito dallo Scoiattolo. La Tupaia tuttavia è già un po' più specializzata, in quanto, dalla particolare disposizione dei muscoli palmari, è possibile riconoscere in essa le caratteristiche del pollice dei Primati.

Una vera capacità prensile presuppone che a tale scopo si possa avere un movimento del pollice non solo sul piano del palmo della mano (divergenza), ma anche ad angolo retto, per cui si forma insieme con le altre dita una parentesi. Una tale trasformazione del pollice è avvenuta in Vertebrati molto diversi come i pappagalli, le lucertole, i Marsupiali, e i Primati. Questi ultimi tuttavia devono essere passati attraverso due, se non tre, stadi, per sviluppare l'opponibilità del pollice (fig. 16.5).

La prima documentazione fossile di capacità prensile nei Pri-mati ci è offerta dalla mano del Notharctus, un Lemuride del-l'Eocene nordamericano. Interessante è il fatto che l'alluce di questo animale era molto più nettamente opponibile del suo pol-lice. L'opponibilità del pollice di Notharctus doveva essere molto simile a quella dell'odierno Tarsio. Il Tarsio tuttavia completa l'opposizione del pollice, non come avviene nell'Uomo per mezzo dell'articolazione carpo-metacarpica, ma mediante un movimento analogo dell'articolazione metacarpo-falangea. Nel Tarsio questa articolazione possiede una mobilità abbastanza buona di addu-

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Fig. 16.5 Mani di Primati viventi: a) Tupaia; b) Tarsio; c) Cebo; cl) Go-rilla. Il confronto mostra il rapporto tra le modificazioni evolutive della struttura scheletrica e l'aumento della destrezza manuale (indicata dalla facoltà di movimento del pollice). (Da Napier, 1962).

zione, di abduzione e di rotazione, che costituisce la base della capacità prensile.

Questo movimento viene denominato, dalla sua localizzazione, « opponibilità falangea »; essa si è conservata in molti esseri umani e gioca per costoro un ruolo importante nel meccanismo complessivo dell'opposizione del pollice.

Il Tarsio, che da alcuni studiosi viene considerato un discen-dente del ceppo comune da cui derivano sia le Antropomorfe sia le altre Scimmie, presenta nella mano un'altra importante spe-cializzazione: sulla superficie volare della punta delle dita si tro-vano larghe placche carnose ricoperte da dermatoglifi e sormon-tate ciascuna da un'unghia appiattita triangolare. Questi cuscinetti sono provvisti di nervi sensori e corrispondono ai polpastrelli umani.

Dopo la fase « tarsica » dell'evoluzione del pollice (opponi-bilità falangea), la prova paleontologica di una successiva evo-luzione è evidente in un'epoca posteriore di 30 milioni di anni. Nel Miocene medio dell'Africa orientale si ha il gruppo di reperti ascrivibili al genere Proconsul (Dryopithecinae). La mano di Pro-consul africanus è quasi completamente conservata ed è stata ri-costruita accuratamente. Sebbene manchi l'osso metacarpico del pollice, l'osso trapezoidale con cui esso si articolava indica che il pollice del Proconsul non aveva esteso la sua motilità all'arti-colazione carpo-metacarpica. Esso però non era ancora esatta-mente opponibile. La vera opponibilità richiede un'articolazione

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a sella nella connessione articolare carpo-metacarpica, che per-mette i normali movimenti di flessione-estensione, abduzione-adduzione, e inoltre un tipo di rotazione combinata come la circumduzione, per cui il pollice può essere mosso intorno al-l'asse del centro dell'articolazione ed essere contrapposto alla superficie palmare delle altre dita. Questo movimento si è realiz-zato solo più tardi nel corso dell'evoluzione.

L'opponibilità « impropria » del pollice del Procansul, sem-pre secondo Napier, assomiglia funzionalmente allo stadio rag-giunto da talune Scimmie americane (Cebi). L'opposizione im-propria del pollice di questi Primati si basa sul fatto che l'osso multangolato maggiore è rivolto verso l'interno e diretto verso il centro della mano. A ciò si aggiungono robusti tendini flessori, contenuti in un profondo canale carpicale.

5. L'acquisizione della opponibilità del pollice.

Il più antico esempio di opponibilità vera del pollice, nella linea evolutiva degli Ominidi, è dimostrabile nei resti di Ominidi trovati negli strati pleistocenici della gola di Olduvai (Tanza-nia). Fra le ossa della mano fin qui rinvenuti è presente un multangolato maggiore, che costituisce una chiara prova di oppo-nibilità vera, e una larga falangetta di pollice, che indica una mano funzionalmente affine (anche se non identica) a quella del-l'Uomo di oggi. Un altro esempio di opponibilità del pollice è offerto dai resti delle Australopitecine di Swartkrans, dove sono state rinvenute ossa metacarpiche di tipo umano, con un pollice però relativamente corto. Il rinvenimento di tali reperti costi-tuisce una prova indiretta della possibilità, almeno potenziale, per questi Ominidi, di produrre manufatti.

L'importanza dell'opponibilità vera del pollice per l'evolu-zione umana non potrà tuttavia mai essere valutata a sufficienza. Quando i nostri lontani antenati lasciarono i boschi per vivere in territori più aperti e un po' alla volta cominciarono a cammi-nare su due gambe, entrarono in azione le mani. Esse smisero di essere organi puramente passivi, utili solo per tener saldo o far penzolare il corpo dall'albero o per raccogliere e portarsi alla bocca malamente il cibo, e divennero mezzi che resero capace l'uomo primitivo di sostenere la lotta con l'ambiente e in defi-nitiva diventare « Uomo ».

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Fig. 16.6 Impiego dell'arto superiore nella lavorazione della pietra (A, B) e del corno (C) durante il Paleolitico. Esemplificazione dell'aumento di destrezza della mano. (Da Oakley e da una fotografia di D. Fisher, in Singer et al., 1961).

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Egli cominciò così ad adoperare le mani per procurarsi il cibo, per cacciare e per fare provviste. Ognuna di queste attività ri-chiede un alto livello funzionale della mano. Un predatore che non abbia gli speciali denti dei Carnivori, ha bisogno di armi per uccidere la preda e di arnesi per farla a pezzi; se è un raccogli-tore e non ha sacche buccalí, né stomaco capiente per fare prov-viste, deve costruire recipienti che rendano possibile la raccolta e il trasporto del cibo. In un'epoca successiva l'uomo utilizzò le mani per costruire alloggi, per accendere il fuoco, per confe-zionare abiti dalle pelli degli animali uccisi, per fabbricare armi e attrezzi più perfezionati, per mettere a punto arnesi con cui poter fare altri oggetti, fino ad arrivare alla nostra epoca dell'au-tomazione, ín cui si adoperano le mani per fabbricare arnesi con cui si possono automaticamente fabbricare altri arnesi (fig. 16.6). A un certo momento, nel corso di questa evoluzione, l'uomo in-dirizzò le sue capacità manuali e intellettuali dal puramente utile al decorativo: per dipingere le caverne, per plasmare figurine in terracotta, per fabbricare collane.

Il meccanismo di questo processo evolutivo può spiegarsi solo con la selezione naturale di forme di comportamento più vantag-giose per la sopravvivenza della specie. Con il progresso della deambulazione su due piedi, si perfezionarono le mani; ciò deter-minò, come vedremo, un analogo sviluppo del cervello, specie in quelle parti della corteccia motoria e sensitiva riguardanti le fun-zioni della mano e l'immagazzinamento di impressioni sensoriali e di abilità motoria. L'incremento della capacità cerebrale permise ulteriori sviluppi della capacità creativa manuale, da cui risultò una nuova e maggior necessità selettiva per il volume e la diffe-renziazione del cervello. Così si perfezionarono, in un continuo rinnovarsi di causa ed effetto, per parecchie centinaia di millenni, i tre attributi fisici che distinguono l'Uomo dagli altri Primati e lo rendono un essere a sé nella natura: deambulazione eretta, abilità manuale e cervello molto sviluppato.

Capitolo diciassettesimo

L'EVOLUZIONE DEL CAPO IN RELAZIONE ALLA STAZIONE ERETTA

1. Affinamento del senso della vista e specializzazione della mano.

Il comportamento arboricolo dei Primati ha, come prima con-seguenza, l'affinamento del senso della vista. Il rapido movimento tra i rami, il salto da un ramo all'altro richiedono una accentuata funzionalità visiva e la capacità di valutare esattamente le di-stanze. Di conseguenza appare evolutivamente vantaggiosa la vi-sione binoculare stereoscopica che si realizza con l'avvicinamento degli assi ottici al piano sagittale e con il loro parallelismo. Questa rotazione verso il piano frontale delle orbite può aver favorito un modesto aumento di ampiezza della scatola cranica. Contemporaneamente, lo svincolo della mano dalla funzione di appoggio porta a una specializzazione verso funzioni di presa, che si realizza con la comparsa delle unghie a lamina, in sostitu-zione degli artigli dei Primati più primitivi, e con la opponibilità più o meno completa del pollice. Conseguenza di queste trasfor-mazioni è la necessità di nuove strutture nervose, che insieme a un secondo e più intenso stimolo derivante dall'acquisizione della stazione eretta, daranno origine alla trasformazione della morfologia del cranio e all'incremento della sua capacità.

2. Postulato della giacitura costante dei canali semicircolari.

L'acquisizione graduale della stazione eretta determina un complesso di reazioni selettive, particolarmente nei riguardi della direzione del campo gravitazionale terrestre. Il campo gravitazio-nale è una componente ambientale poco appariscente in quanto praticamente costante, ma molto attiva nel plasmare gli orga-nismi. L'architettura del corpo di tutti gli esseri viventi deve

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infatti essere tale da neutralizzare l'azione delle forze di gravità. Un essere il cui corpo non si oppone adeguatamente e costante-mente all'azione delle forze gravitazionali non può sopravvivere. L'azione selettiva della gravità è pertanto fortissima.

Nel passaggio dalla stazione quadrupede — in cui l'asse mag-giore del corpo è orizzontale — alla stazione eretta — in cui l'asse è verticale — si verifica una sostanziale variazione dell'or-ganismo rispetto all'ambiente nella sua componente gravitazio-nale, e di conseguenza questo agisce selettivamente sugli orga-nismi.

Secondo Delattre, durante il processo di acquisizione della stazione eretta, l'organo dell'equilibrio (costituito principalmente dai canali semicircolari del vestibolo interno) deve aver mante- nuto costante il suo orientamento rispetto alla direzione del campo gravitazionale. Come è noto, i tre canali semicircolari individuano tre piani tra loro perpendicolari, detti « piani vesti-bolari ». In pratica i piani vestibolari sono stabiliti ín questo modo: 1. piano vestibolare orizzontale o fondamentale individuato dal

canale semicircolare esterno od orizzontale; 2. piano vestibolare sagittale, che è parallelo al piano sagittale

del cranio; 3. piano vestibolare frontale, perpendicolare ai primi due e pas-

sante per i centri dei canali semicircolari. L'intersezione di quest'ultimo con il piano orizzontale determina il cosiddetto « asse vestibolare » di Perez. Non è possibile ammettere durante la filogenesi l'esistenza

e la validità selettiva di individui o di specie aventi, in condizioni di postura normale, il piano vestibolare fondamen- tale con una giacitura diversa dall'orizzontale. Una simile situa-zione sarebbe ovviamente ancor più incompatibile con animali come i Primati, le cui attività motorie risultano sempre partico- larmente legate al senso dell'equilibrio. Di conseguenza si deve ammettere che il complesso dei canali, e con esso quella porzione della rocca perrosa del temporale che li contiene, deve aver man- tenuto una posizione costante durante la filogenesi, mentre il resto del corpo poteva ruotare nello spazio. I piani dei canali semicircolari hanno costituito quindi un elemento fisso al quale devono essere riferite le variazioni di postura avvenute nel corso dell'evoluzione.

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3. Variazioni delle ossa craniche in conseguenza della stazione eretta.

Nella postura quadrupede, l'architettura del cranio è tale che l'articolazione del cranio con il rachide avviene lungo un asse orizzontale. Di conseguenza, il piano del toro occipitale risulta verticale o quasi. Il capo è quindi unito al rachide con sospen-sione orizzontale. Nella postura eretta il capo < appoggia ' invece sulla colonna vertebrale e il piano del forarne occipitale ha gia-citura suborizzontale (angolo F della fig. 17.1). Il passaggio da una postura all'altra comporta notevoli modificazioni delle ossa craniche, poiché evidentemente non è possibile che tutto il cranio ruoti dei 90" necessari.

L'acquisizione della postura verticale negli Ominidi sí è rea-lizzata senza un allungamento della regione cervicale della co-lonna, bensì con una curvatura tendente alla concavità dorsale. L'insieme di questi meccanismi ha determinato durante la filoge-nesi notevoli modificazioni nell'architettura del cranio in quanto alcune parti hanno subito la rotazione conseguente al raddrizza-

17.1 Cranio di un Gorilla adulto orientato secondo tre piani. F = piano frontale, I-I = piano orizzontale (questi due piani passano per l'asse ve-stibolare), S = piano sagittale mediano o piano di simmetria, C = punto centrale del capo situato all'inserzione dei tre piani. (Da Delattre, 1958).

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mento mentre quelle, in relazione alle necessità dell'equilibrio, della visione orizzontale e della presa del cibo, non hanno potuto variare la loro giacitura spaziale. Ne è risultata una reazione plastica delle ossa craniche, che hanno gradualmente subìto l'adat-tamento alle nuove condizioni. L'angolo del foramen o di Perez (formato dalla intersezione sul piano sagittale del piano vesti-bolare orizzontale e della linea passante per il basion e Popistbion) è infatti di 90° circa nei Carnivori mentre varia da 15° a nel- l'Uomo. L'angolo « centro-iniaco », formato dalla linea che con-giunge l'inion con l'asse vestibolare di Perez e dalla intersezione del piano vestibolare frontale con il piano sagittale, è invero nullo o negativo nei Mammiferi inferiori e prossimo agli 80-90° nell'Uomo attuale (fig. 17.2).

Nei Primati attuali l'angolo di Perez supera raramente i 40°. Non si hanno dati per gli Otninidi fossili, in quanto non è stata fino ad ora praticata su alcun reperto la dissezione dei canali semicircolari.

La porzione basale dell'occipitale rispetto alla regione petrosa dei temporali, durante la filogenesi è rotata dí 90° circa. Secondo Delattre la rotazione della porzione basale dell'occipitale (ossia quella di origine cartilaginea) attorno all'asse vestibolare, è il principale fattore evolutivo che ha condotto alla forma attuale del cranio umano.

Fig. 17.2 Sezione sagittale di cranio di Uomo. Con le linee a tratto e punto sono rappresentati gli assi vestibolari. Con F è segnato l'angolo del foramen o di Perez, con P l'angolo palatovestibolare, con CI l'an-golo centro-iniaco. (Da Delattre, 1958).

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Prendendo in esame il cranio di un Carnivoro come prototipo di cranio primitivo, si può osservare che esso in pratica si trova tutto dislocato anteriormente al piano vestibolare frontale. La sutura parieto-occipitale si innalza obliquamente verso il vertei, mentre la petro-occipitale che ne è il prolungamento, si dirige verso il basso, in parte occultata dalla sutura squamo-occipitale. La linea determinata da queste suture costituisce un importante riferimento, che consente di seguire il processo di trasformazione del cranio durante l'evoluzione verso la stazione eretta.

Il processo di verticalizzazione si svolge infatti come se il basi-occipitale (« paleo-occipitale » di Delattre) venisse staccato lungo la linea suturale anzidetta e ruotato ' rispetto all'asse ve-stibolare con angoli via via maggiori. Nella porzione più elevata della sutura parieto-occipitale primitiva avviene il distacco ' del paleo-occipitale dai parietali, e lo hiatus, o lacuna virtuale, che così si forma, viene gradualmente occupato da un osso di nuova formazione, il neo-occipitale: questo costituisce anatomicamente la « squama » che ha, come è noto, origine membranosa. Con-temporaneamente i parietali, per reazione, aumentano la loro superficie lateralmente e posteriormente; mentre l'« inion », in-dicante la separazione tra il basi-occipitale e la squama, origina-riamente coincidente con il « lambda », viene ad essere graduai-mente separato e ruotato praticamente di 90° (vedi angolo centro-iniaco). La rotazione del lambda, determinata dall'estendersi dei parietali, è invece approssimativamente di 45°.

Nella regione laterale adiacente all'u asterion », lungo una stretta porzione della sutura parieto-paleoccipitale, non avviene il distacco. Il paleoccipitale tende allora ad allargarsi trasci-nando ' una parte del parietale. Si viene così a suddividere la lacuna neo-occipitale in due porzioni: una superiore o « sopra-asterica », una (bilaterale) inferiore o « subasterica ». Questa la-cuna sarà colmata dalla « lamina mastoidea », che è ben svilup-pata nei Primati, ed è in realtà una estensione all'indietro della piramide petrosa conseguente alla rotazione dell'occipitale. Tale lamina non è da confondere con l'« apofisi "mastoide » che da essa deriva.

Dall'una e dall'altra parte del forarne occipitale le suture petro-occipitali non subiscono il processo di distacco a livello dei « processi giugulari » dell'occipitale; pertanto i margini della rocca petrosa e del paleoccipitale ruotano insieme, adattandosi insieme alle nuove condizioni. Risulta evidente da queste osser-

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c

Fig. 17.3 Movimento della base del cranio realizzatosi in Mammiferi a diverso tipo di postura. Con M è indicata la posizione della sella turcíca. Lo hiatus è rappresentato in nero. La direzione del loramen magnum con una freccia. (Da Delattre, 1958).

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vazioni che, nel processo di rotazione del piano del foro occipi-tale, il cranio ha acquistato una notevole superficie addizionale. Tale superficie deriva sia dall'estensione della lacuna neo-occipi-tale, con la formazione della squama e della lamina mastoidea, sia dall'estensione in senso laterale del paléoccípitale. All'au-mento della superficie delle ossa craniche corrisponde l'accrescersi della massa e lo sviluppo della funzionalità dell'encefalo.

4. Reazioni delle strutture craniche alle nuove condizioni.

La base del cranio, che nella sua condizione primitiva appare allungata, rettilinea e sfuggente verso il basso (Carnivori), segue parzialmente l'occipitale nella sua rotazione. Mentre sull'occipi-tale la regione iniaca si abbassa nella regione basilare, il clivus tende progressivamente a innalzarsi. Ci possiamo rendere conto di questo meccanismo tenendo presente l'« angolo sfenoidale (basion - centro pituitario - punto cribroso posteriore), che espri-me la giacitura relativa del clivus e del planum.

Secondo l'esempio di Delattre (fig. 17.3) (accettabile come variazione meccanica, e non come relazione filogenetica), nel pas-saggio dall'architettura primitiva di Canis a quella più differenziata dí avis si ha, con una lieve rotazione del forarne, un innalza-mento globale della base cranica. L'angolo sfenoidale si mantiene infatti intorno ai 180°.

Neí Primati, insieme a una più accentuata rotazione dell'occi-pitale, compare una frattura ' tra planum e clivus. Si hanno così angoli minori di 180° (circa 140() in Macaca e 120° nell'Uomo). Il risultato è un avvicinamento della radice del naso al margine anteriore del foro occipitale e quindi una variazione della posi-zione della faccia rispetto al neurocranio.

Col variare dei rapporti reciproci tra le ossa, la rotazione del foro occipitale determina modificazioni notevoli anche sulle altre ossa del cranio, comprese quelle lontane dall'occipitale. I parietali raddoppiano in superficie e si estendono in alto e all'indietro. I temporali ruotano intorno all'asse vestibolare, mentre si estende la squama. In questo movimento il canale semicircolare orizzon-tale mantiene però una giacitura costante. L'aumento di super-ficie delle ossa della volta cranica determina un maggior volume della cavità cranica, ma poiché la volta viene ad allungarsi e a innalzarsi, la sua forma tende sempre più ad essere sferica. Per

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le proprietà geometriche di questo solido, l'aumento in volume viene quindi ad essere proporzionalmente più rapido dell'aumento in superficie.

Si deve però tener presente che, filogeneticamente, la forma sferoidale compare molto tardi, praticamente soltanto nell'Homo sapiens fossifis, mentre in precedenza era universale la forma birsoidale (byrsoides di Sergi), tipica anche dei Neanderthaliani e dell'Homo erectus, oltre che della maggior parte dei Primati supe-riori attuali e fossili. Esiste quindi un notevole ritardo tra l'ac-quisizione della stazione eretta e la globizzazione del cranio, mentre l'acquisizione di volumi elevati (1.500-1.600 cc) precede quest'ultimo avvenimento. L'Uomo di Neanderthal ha infatti ca-pacità corrispondenti alla media dell'Uomo attuale (crani di La Chapelle-aux-Saints e del Circeo); ma il suo cranio risulta estre-mamente disarmonico: i parietali e la squama dell'occipitale ap-paiono sviluppati completamente, mentre il frontale risulta stretto e sfuggente, con ampie arcate sovraorbitarie. La calotta risulta quindi bassa, larga e allungata.

Probabilmente questa architettura notevolmente disarmonica è, morfologicamente e statisticamente, da mettersi ín relazione alla grandezza ancora notevole dello splancnocranio, con conse-guente grossolanità della muscolatura masticatoria e di quella del collo.

Soltanto con il miglioramento delle condizioni di vita e di quelle ambientali, dovute da una parte al clima post-glaciale e dall'altra alle acquisizioni culturali, è possibile un processo selet-tivo di gracilizzazione delle ossa e dei muscoli del capo. A tale processo segue un'armonica ridistribuzione delle masse, con ri-duzione della faccia, verticalizzazione del frontale e accrescimento della calotta (fig. 17.4).

Fig. 17.4 Progressiva riduzione del muso dai Mammiferi fino all'Uomo. come può essere dimostrata dall'angolo facciale.

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Espressione particolarmente eloquente di questi cambiamenti è la variazione dell'angolo del mento che va progressivamente aumentando durante il processo di ominazione (fig. 17.5). Parti-colarmente interessante è il fatto che questo incremento si veri-fica anche durante l'ontogenesi umana. Il significato dell'acqui-sizione del mento nella nostra specie è ancora oggetto di studio. Tuttavia esso è certamente da mettere in relazione con il gene-rale riassestamento della faccia conseguente alla riduzione dello splancnocranio a seguito delle cambiate abitudini alimentari e all'avanzamento del foramen magnum e quindi del punto di equi-librio dell'intero cranio.

5. Variazioni nella muscolatura del capo.

Con l'acquisizione della stazione eretta si verficano profonde modificazioni nelle masse muscolari del capo. Ciò avviene ín relazione alle nuove condizioni dell'equilibrio meccanico, dell'at-tività prensile e masticatoria dell'apparato boccale, e dell'esalta-zione della funzione mimica. La rotazione del paleoccipitale, pre-cedentemente descritta, comporta una differente condizione sta-tica del capo. Nell'uomo esso appare infatti articolato sopra la colonna vertebrale a mo' di capitello, mentre nei quadrupedi è articolato all'estremità della trave vertebrale. La posizione oriz-zontale fisiologica (e gravitazionale) può così essere mantenuta con minore dispendio di energia muscolare nell'Uomo che non nei quadrupedi, in quanto la porzione occipitale agisce da « con-trappeso » alla porzione facciale rispetto al neurocranio. Questa situazione, tipica dell'Uomo attuale, è presente in misura decre-scente nei Neanderthaliani, nei Pitecantropi e nelle Scimmie a stazione più o meno obliqua (clinograde). Nei quadrupedi tutto il peso del capo deve invece essere controbilanciato esclusivamente dall'azione dei muscoli (fig. 17.6).

Queste variazioni si possono riconoscere facilmente anche sullo scheletro; ne è un esempio la riduzione delle linee nucali e della protuberanza occipitale esterna, in conseguenza alla gra-cilizzazione dei muscoli della regione nucale. Parallelamente a questa riduzione, tuttavia, si assiste a un maggiore sviluppo delle apofisi mastoidi, poco evidenti nei Primati non umani; esso è dovuto alle necessità meccaniche derivanti dall'equilibrio laterale del capo, per cui si sviluppa notevolmente il muscolo sterno-

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Fig. 17.6 Statica de cranio: posizione del foro occipitale e azione di « con-trappeso» dell'occipitale. Da sinistra a destra: quadrupede (Cane), Pon-gide (Gorilla), Uomo attuale.

cleido-mastoideo che nelle forme quadrupedi ha funzione scarsa o nulla.

Parimenti si osserva la riduzione del muscolo temporale, che nei quadrupedi ed anche in alcuni Primati superiori (come il Gorilla), si inserisce sulla cresta parietale sagittale, la quale è assente nell'Uomo. Nell'Uomo attuale tale muscolo si origina la-teralmente al livello delle linee temporali e di conseguenza invade soltanto di poco le regioni marginali laterali dei parietali e del frontale, per l'avvenuta riduzione delle dimensioni dell'arcata dentaria e per la gracilizzazione della mandibola. Nell'Uomo at-tuale un robusto apparato masticatore non è un carattere indi-spensabile per la sopravvivenza e non ha quindi valore selettivo positivo. Similmente al muscolo temporale, si riduce il muscolo massetere, e di conseguenza l'arcata zigomatica e le branche montanti della mandibola.

Legati all'aumento dello psichismo, si sviluppano e perfezio-nano invece i muscoli della faccia (mimici o pellicciai), mentre si riducono quelli del neurocranio.

6. Evoluzione dei caratteri psichici.

Dall'aumento della capacità cranica, che si viene a determi-nare con la rotazione del forarne intorno all'asse vestibolare, de-riva come conseguenza una maggiore possibilità di sviluppo del-l'encefalo. L'aspetto più semplice di questo sviluppo è rappre-sentato dall'aumento delle masse cerebrali.

La capacità in se stessa è però soltanto grossolanamente da mettersi in relazione con l'aumento dello psichismo. Più impor-

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tante è invece, come vedremo nel prossimo capitolo, la distribu-zione delle masse encefaliche e la possibilità di sviluppo della corteccia cerebrale, che si attua con l'aumento di superficie degli emisferi laterali. Il maggiore volume dell'encefalo consente più cornplesse circonvoluzioni e quindi un ulteriore aumento della superficie corticale ed imponenti variazioni delle proporzioni delle varie parti. Il lobo prefrontale occupa ad es. 1'8,3% della super-ficie cerebrale nei Lemuri, il 12,2% nei Cercopiteci, il .16,9% nello Scimpanzé e ben il 29% nell'Uomo. In sintesi si può affer-mare che il processo di acquisizione della stazione eretta com-porta particolarmente lo sviluppo del neopallio; la porzione, cioè, filogeneticamente più recente dell'encefalo.

Purtroppo non è possibile conoscere la morfologia dell'ence-falo degli Ominidi fossili, anche se qualche informazione può derivare dalla morfologia endocranica. È comunque un dato di fatto che, all'aumento della capacità e alla diversa distribuzione dei volumi, corrisponde una considerevole variazione delle mani-festazioni psichiche degli Ominidi, deducibili dal loro manufatti e dal loro più complesso modo di intervenire sull'ambiente.

Capitolo diciottesimo

LA CAPACITÀ CRANICA E IL SUO INCREMENTO DAI PRIMATI ALL'UOMO; IL DIFFERENZIAMENTO

E L'EVOLUZIONE DEL CERVELLO

1. Capacità cranica dell'Uomo e sue variazioni normali e pato-logiche.

La capacità cranica dell'Uomo attuale, in generale, si aggira intorno ai 1.400 cc, con capacità non patologiche comprese fra un minimo di 850 cc e un massimo di 2.000 cc. La donna ha capacità cranica inferiore a quella dell'uomo; la differenza corri-sponde a un valore compreso fra 1'86 e il 95% della capacità maschile. La differenza di peso esiste già alla nascita.

La capacità cranica si incrementa fino a circa i venti anni. Per avere un'idea del valore relativo dello sviluppo della capacità cranica si può considerare che essa rappresenta alla nascita poco più di un quarto (370-380 cc) di quello che sarà il suo valore nell'adulto, mentre il peso corporeo del neonato è circa un ven-tunesimo di quello dell'adulto.

I valori minimi della capacità cranica nelle popolazioni umane attuali si trovano fra gli Australiani, gli Andamanesi, i Vedda, i Boscimani (1.250 - 1.300 cc). I valori più elevati sono stati riscontrati fra le popolazioni mongole, presso le quali si riscon-trano medie anche superiori ai 1.500 cc.

Fig. 18,1 Comparazione in norma laterale della capacità cranica in Go-rilla (A), Pithecanthropus (B), e Homo (C), (Secondo F. Weidenreich).

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Page 181: Brunetto Chiarelli - L'Origine Dell'Uomo

Homo sapiens

Homo ereclus

Aus.lralopithecus Drioprthecus

10 milioni 1 milione 100 000 10 000 numero di anni fa (scala logaritmica)

TABELLA 181 Stime della capacità cranica e del peso medio del corpo dei resti di Ominidi comparate con quelle delle Antropomorfe e dell'Uomo.

Numero Capacità individui cranica misurati (in cc.)

Ambito di

variabilità

Peso corporeo (in Kg.)

Tempo (in anni)

Pongo 260 411 295-475 53 Pan 144 394 320-480 45 Gorilla 533 498 340-752 105 Australopithecus africanus 6 498 435-562 32 2.500.000 Homo habilis 4 604 560-657 43 1.500.000 Homo erectus javanicus 6 857 750-975 45 700.000 Homo erectus pekinensis 5 1043 915-1225 53 300.000 Homo europeus i pre-Wiirm) 9 1313 1170-1460 55 100.000 Homo neandertbalensis (Eur.) 10 1460 1220-1641 60 45.000 Home sapiens (Paleol. sup.) 30 1460 1293-1748 60 15.000 Homo sapiens 30 1457 60

Nessuna relazione certa è stata stabilita fra capacità cranica e sviluppo intellettuale. Alcuni scienziati, scrittori e artisti, come Kant, Byron e Volta, hanno avuto, invero, una notevole capacità cranica, ma ad essi fanno riscontro altri, dal Foscolo a Raffaello, dalle capacità craniche di gran lunga inferiori alla media.

come quelli di Cro-Magnon, Combe Capelle, Predrnost, Grimaldi, Chancelade, San Teodoro ecc, hanno capacità craniche variabili fra i 1.293 e 1.748 con una media di 1.460 cc. Anche i resti dei Neanderthaliani europei risalenti a circa 45.000 anni fa (Nean-derthal, La Chapelle-aux-Saints, La Ferrassie, Circeo, Le Moustier, Petralona ecc.) hanno capacità media di 1.460 cc.

Inferiore invece appare la capacità cranica di tutti i ritrova-menti di uomini pre-wiirmiani, esistenti in Europa intorno a 100.000 anni fa (Steinheim, Swanscombe, Fontechevade, Sacco-pastore, Krapina, ecc.) che presentano una media di 1.313 cc.

Un salto netto di quantità si ha poi per l'Homo erectus, sia per quello Pechinese, vissuto circa 300mila anni fa, che per quello di Giava vissuto circa 700mila anni fa. Essi hanno in media 1.043 e 857 cc rispettivamente.

Nell'Homo habilis la capacità cranica doveva essere intorno a 600 cc e nelle Australopithecinae intorno a 500 cc.

Fra le Antropomorfe e le Australopitecine non vi è quindi una differenza quantitativa nella capacità cranica. Ciò non vuol dire tuttavia che non vi fosse una differenza qualitativa (fig. 18.2).

Dalle medie riportate nella tabella 18.1 si può anche a prima vista notare che fra Australopithecus e Homo habilis in circa un milione di anni l'incremento della capacità cranica fu piuttosto modesto, di circa 100 cc. Questo fatto si può interpretare come dovuto a un rimaneggiamento strutturale ma non quantitativo dell'encefalo.

2. Capacità cranica degli Antropoidi e degli Ominidi fossili.

La capacità cranica delle Antropomorfe (Orango, Gorilla, Scimpanzé) si aggira intorno ai 400-500 cc. Nell'Orango il mas-simo è 475, nello Scimpanzé di 480, nel Gorilla di 752 (vedi tab. 18.1). Quella del Gibbone è di circa 90 cc; quella del Sinfa-lango raggiunge i 120; gli altri Primati hanno capacità ancora inferiori in relazione alle loro dimensioni corporee (fig. 18.1).

La capacità delle Antropomorfe è quindi circa un terzo di quella dell'Uomo attuale.

Fra i resti fossili certamente attribuibili alla nostra specie si hanno capacità simili a quelle reperibili nelle popolazioni vi-venti, e forse anche maggiori. I resti fossili del Paleolitico supe-riore e dell'Epipaleolitico in Europa, di circa 15.000 anni fa,

354

1500

10,

500

Fig. 18.2 Incremento della capacità encefalica dagli Ominidi più antichi all'Uomo attuale.

355

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Cervelletto

Ventricolo laterale

Organo parietale Organo pineale

Nesso coroideo

Plesso coroideo

Chiasrna ottico !pota amo

Bulbo olfattivo 4,

Paraflsi Corteccia o panico

ipofisi Infundlboto Midollo allungato

TELENCEFALO DIENCEFALO MESEN- N/1E7EN- PEFALO M1ELENCEFALO PROSENC EFALO CEFALO RO M BENCEFALO

Fig. 18.3 Principali suddivisioni e strutture dell'encefalo nello stadio a cinque vescicole in sezione sagittale mediana.

e chimiche (olfatto) provenienti da fonti lontane e di integrarle con informazioni sulla posizione dell'animale stesso nello spazio (orecchio), fornendo nel complesso grandi vantaggi adattativi.

Naturalmente, nel corso dell'evoluzione le parti differenti del sistema nervoso si sono modificate più o meno profondamente, in relazione al tipo di vita e alla posizione sistematica dell'animale.

In ogni Mammifero poi, si riesce sempre a distinguere: 1. Telencefalo: composto da corteccia cerebrale, dai gangli dei nuclei basali e dal rinencefalo. 2. Diencefalo: che funziona da centro di collegamento degli im-pulsi che provengono dai ricettori periferici e che sono diretti alle cortecce sensorie dei lobi parietali, temporale e occipitale. 3. Mesencefalo: è caratterizzato dalla presenza di centri di col-legamento per i riflessi connessi alle vie acustiche e visive, oltre che dai centri motori per il controllo di muscoli extraocularí (III e IV paio dí nervi cranici) e da importanti fasci di fibre discen-denti dalla corteccia, situati in corrispondenza della « crus cere-bri ». Una struttura caratteristica del mesencefalo, intimamente connessa alla funzione motoria, è il nucleo rosso. Questo è un centro che protrude in modo evidente dalla porzione ventrale del

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mesencefalo. Tale nucleo riceve fibre incrociate dal cervelletto, e non incrociate dai gangli basali e dalla corteccia e manda le sue fibre efferenti al midollo spinale sotto forma di tratto incro-ciato o rubro-spinale. 4. Mesencefalo: è costituito dal ponte e dal cervelletto. L'area dorsale del ponte corrisponde ai nuclei dei nervi cranici VI e VII, a una parte dei nuclei dei nervi cranici V e VIII e ad altri nuclei. La porzione ventrale del ponte, è parzialmente composta da nuclei le cui fibre, attraversato il piano sagittale, si dirigono alla cor-teccia controlaterale del cervelletto attraverso il peduncolo medio cerebellare. Il cervelletto nell'insieme è funzionalmente implicato nella coordinazione dell'attività motoria, nel mantenimento della postura e dell'equilibrio e nella particolare regolazione del tono del muscolo (sinergismo muscolare). Il cervelletto riceve impulsi dai recettori periferici, integra tali in-put con gli out-put nei centri corticali, ed emette fibre dirette ai centri corticali e a quelli spinali che coordinano la locomozione. 5. Mielencefalo: è il più caudale dei segmenti del cervello del-l'adulto ed è comunemente denominato midollo allungato. I nuclei dei nervi craniali IX, X, e XII sono situati nel midollo. Le fibre ascendenti posteriori spino-cerebellari passano lungo la superficie dorso-laterale del midollo per penetrare nel peduncolo cerebellare inferiore.

5. Differenziazione cerebrale e localizzazione dei centri corticali_

Il recente sviluppo delle tecniche neurochirurgiche ha per-messo di estendere le nostre conoscenze sulla localizzazione delle funzioni nel cervello umano. Secondo queste esperienze, per esempio, solo nell'Uomo la corteccia cerebrale, e precisamente la regione del Broca o area motoria del linguaggio, ha funzione di controllo nell'emissione dei suoni; negli altri Mammiferi e in molti Primati il controllo dei suoni avviene in regioni differenti del cervello (fig. 18.4).

Nel passaggio dalle Scimmie antropomorfe all'Uomo si. assiste a un aumento dell'estensione della corteccia temporo-parietale.

La ricerca delle omologie dei centri corticali fra le varie specie di Primati e l'Uomo è uno dei più affascinanti campi della neurofisiologia, ma fino ad oggi i dati sull'argomento sono carenti.

Durante il corso della filogenesi i centri nervosi hanno subito

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neoPoN. cor teccia v is.Va

o bulbo olfattivo

solco rimo

,obo piriforme

lobo fronlele

c

A

area poslcersrab

sciss laterale Sb al

Fig. 18.4 Aree sensitive motrici ed associative della corteccia cerebrale dell'Uomo con alcuni campi citoarchitettonici. 1, 2, 3, 4, 6, 8, 17, 41, sono aree citoarchitettoniche.

importanti cambiamenti sotto la pressione selettiva delle nuove nicchie ecologiche in cui le specie si sono adattate a vivere. Questa differenziazione è stata favorita dalla plasticità dell'organo.

Per gli Ominidi, inoltre, l'acquisizione della postura eretta e il bipedismo, la capacità di cultura e di linguaggio articolato hanno costituito poi un ulteriore stimolo alla differenziazione dei centri cerebrali, oltre che all'incremento delle masse encefaliche.

I resti fossili hanno fornito molte informazioni sulle modifi-cazioni a livello osteologico, correla te per esempio con l'evolu-zione del modo di locomozione. Molto poche informazioni invece possiamo ricavare sui cambiamenti avvenuti a livello delle carat-teristiche dei centri nervosi, poiché i calchi endocranici forni-scono solo informazioni superficiali. Si deve quindi ricorrere a informazioni indirette comparando la localizzazione dei centri nervosi delle diverse specie attualmente viventi.

I Tupaiodei, che secondo alcuni zoologi rappresentano una

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sorta di anello intermedio fra gli Insettivori e le Proscimmie, presentano un cervello più differenziato di quello degli Insetti-vori (fig. 18.5), ma non mostrano ancora, a differenza di quanto avviene per il corpo e in particolare per le estremità, nessuna delle caratteristiche proprie del cervello dei Primati. Il loro cer-vello è molto simile a quello di alcuni Insettivori e può essere considerato una forma di transizione.

Anche la forma originaria del cervello dei Lemuri non è nota. Le specie recenti dí questo gruppo mostrano un livello evolutivo molto vario, con forme molto primitive ( Microcebus) e forme più specializzate ( Daubentonia), le quali però non raggiungono ancora lo stadio caratteristico dell'encefalo delle Scimmie.

Le forme più primitive di cervello di tipo scimmiesco le troviamo nelle Callithricidae. A differenza dei Lemuri, il rinencefalo in questo gruppo è ridotto, il telencefalo ha un marcato angolo occipitale e una più evidente scissura di Silvio. Tutte le Scimmie superiori (fig. 18.5) hanno un neopallio più scanalato, e i lobi frontale, parietale e temporale sono più evi-

Fig. 18.5 Emisferi cerebrali di Tupaia (A), Macaca (B) e Uomo (C), por-tati alla medesima misura. Notare la variazione in estensione delle cir-convoluzioni della corteccia e le relative dimensioni dei bulbi olfattivi (oh) e della corteccia visiva (zona punteggiata). I lobi temporali e fron-tali del neopallio nascondono il lobo piriforme dell'archipallio nei Primati superiori, il quale è visibile qui soltanto nel cervello di Tupaia. La frec-cia mostra in ciascun disegno il solco centrale che separa i lobi frontale e parietale. Il solco ridico separa l'archipallio e il neopallio, ed il solco lunato o « scimmiesco fr> delimita la corteccia visiva. (Da Campbell, 1966).

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denti. Con la progressiva estensione del mantello cerebrale si ha una graduale rarefazione dei centri sensoriali, mentre aumentano e si pronunciano meglio i campi d'associazione che si formano fra questi.

La serie evolutiva dell'encefalo delle Scimmie antropomorfe e dell'Uomo è documentata da numerosi calchi della cavità endocra-nica di resti fossili. Per esempio il calco endocranico dell'Aegypto-pithecus, vissuto intorno a 25 milioni di anni fa, può per le sue caratteristiche essere comparato al cervello delle attuali Scimmie superiori, pur avendo dimensioni più ridotte. In questo calco è evidente l'espansione della regione corticale visiva, la riduzione del bulbo olfattivo e il solco centrale che separa la corteccia somato-sensoria da quella motoria. La precoce comparsa di queste caratteristiche suggerisce che queste devono essere state le prime tra gli adattamenti responsabili della differenziazione della linea delle scimmie superiori, anche se il lobo frontale nell'Aegyptopi-thecus era relativamente più piccolo.

Il calco endocranico del Dryopithecus (18 milioni di anni) mostra caratteristiche molto simili a quelle delle attuali Antro-pomorfe.

I cambiamenti morfologici avvenuti nel cervello degli Orni-nidi possono essere riassunti nelle seguenti fasi: 1. Espansione della parte anteriore del cervello e specialmente

del neopallio. 2. Aumentata fessurazione della corteccia neopalliale con la com-

parsa in particolare di una ben definita scissura di Silvio. 3. Espansione dei lobi occipitali i quali, aumentando nella parte

posteriore, si distinguono dall'adiacente area parietale per la formazione di un solco postcalcarino. In questo lobo sono elaborati e associati i dati della visione.

4. Elaborazione di una corteccia precentrale. Il lobo frontale è devoluto al controllo muscolare dell'apparato vocale; il lobo prefrontale è importante come regione di associazione.

5. Elaborazione del solco temporale, particolarmente nei Primati più evoluti. Ciò è associato al perfezionarsi della discrimina-zione sonora richiesta per la comunicazione vocale.

6. Elaborazione del cervelletto e instaurazione di sue connessioni con l'area motoria della corteccia cerebrale.

7. Riduzione relativa del rinencefalo. L'effetto generale dell'aumento delle circonvoluzioni della

corteccia cerebrale nei Primati è stato quella di subordinare il

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controllo dei centri inferiori del cervello. Questo fatto è parti-colarmente bene evidente per i centri che controllano i movi-menti. Se nel Gatto o nel Cane viene rimossa l'intera corteccia cerebrale, l'animale è ancora capace di stare in piedi e di cam-minare bene, quasi come un animale normale, grazie all'attività dei centri motori involontari extrapiramidali. Nei Primati, in-vece, la corteccia precentrale ha assunto la maggior parte del controllo della muscolatura scheletrica e la resezione degli emi-sferi cerebrali di una Scimmia è seguita da una paralisi pressoché totale. Con l'acquisizione di questo controllo dominante della corteccia, i Primati hanno ottenuto un elevato grado di coordi-nazione motoria.

6. Tentativo di interpretazione funzionale dell'evoluzione del-l'encefalo dei Primati.

La vita sugli alberi implica una completa consapevolezza della eterogeneità dell'ambiente. Questo fatto comporta un incremento dei messaggi informativi estero- e propriocettivi a livello degli organi di senso. Nella serie evolutiva dei Primati pertanto si assiste a un progressivo e armonico incremento dí quelle parti della corteccia cerebrale che sono in relazione con gli organi sen-soriali. Inoltre, poiché in un habitat così precario risulta neces-sario un perfetto e coordinato controllo dei movimenti e del-l'equilibrio, le aree corticali che controllano appunto i movimenti, e il cervelletto sono molto sviluppati.

Risultato di tutte queste esigenze è l'incremento della massa cerebrale. Tale fattore è già evidente nelle più primitive e antiche forme di Primati, come l'Adapis, in comparazione con gli Inset-tivori, e questo incremento tende a progredire attraverso tutto l'ordine, culminando nell'Uomo. Per mezzo dell'indagine neuro-anatomica, della stimolazione elettrica e della sperimentazione mediante resezione di parti di encefalo vivo, è possibile in molti casi identificare le funzioni delle diverse parti.

Nella figura 18.5 sono rappresentate le più importanti aree funzionali della corteccia cerebrale di Tupaia, di Macaca e del-l'Uomo.

L'evoluzione di queste differenti aree (olfattiva, visiva e udi-tiva) nei Primati può essere messa in relazione con il differen-ziamento dell'organo della vista, con l'involuzione di quello del-

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l'olfatto e con l'evoluzione dell'organo dell'udito, che nei Primati è associato alla funzione di equilibrio.

La vista. L'importanza della vista nell'evoluzione dei Pri-mati è ovvia: essa è in diretta relazione con l'ambiente della foresta in cui i Primati si sono evoluti e con la vita arboricola che li distingue dagli altri Mammiferi. Capaci di recepire energia radiante compresa fra lunghezza d'onda di 3.800 e 7.600 gli occhi raccolgono a distanza informazioni sulla dimensione, il colore, il movimento, la forma, le relazioni spaziali, e la lonta-nanza di un oggetto.

Vi sono tre momenti della funzione visiva, che devono essere considerati separatamente nell'evoluzione della vista: 1. la co-stituzione della retina, 2. le correlazioni nervose della vista e 3. le trasformazioni della regione orbitaria del cranio. Di questi tre aspetti i primi due sono senza dubbio i più importanti per l'in-terpretazione dell'evoluzione dell'encefalo.

Vi sono specie, anche di Primati (Proscimmie), che hanno sviluppata particolarmente la visione notturna. Questo implica una elevata densità nella retina di fotorecettori per basse lun-ghezze d'onda (rosso).

La quantità di informazioni ricevute dal cervello per mezzo degli occhi è comunque approssimativamente in relazione alle dimensioni del nervo ottico, o meglio al numero delle sue fibre. Il Cane e il Gatto hanno circa 150.000 fibre in ciascun nervo, l'Uomo ne ha 1.200.000.

Le differenze fra l'occhio dell'Uomo e quello delle altre Scim-mie in genere sono minime. Entrambi hanno una retina ricca di coni, specializzati per la discriminazione, più che per la semplice percezione, dí un oggetto. Questa caratteristica, che tra l'altro ci permette di leggere, è dovuta alla vita arboricola che i nostri antenati scimmieschi hanno condotto per milioni di anni.

Ma l'aspetto che più ci interessa, per comprendere l'evolu-zione delle porzioni encefaliche connesse con la vista, è l'evo-luzione della visione stereoscopica, che nei Primati comporta il cambiamento della posizione degli occhi, che da laterali diventano frontali, e della struttura e organizzazione del nervo ottico e quindi dell'encefalo.

Nell'Uomo, circa la metà delle fibre del nervo ottico che provengono da ciascun occhio passano dall'altro lato dell'ence-falo (fig. 18.6). Le informazioni raccolte da un occhio in questo

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modo sono distribuite egualmente in entrambe le parti del cer-vello, che riceve così una doppia immagine dell'ambiente. Questo comporta non soltanto una migliore percezione, ma anche una maggiore complessità nella struttura dell'encefalo.

L'evoluzione della vista dei Primati, infatti, implica una vasta espansione della parte dell'encefalo deputata alla elaborazione delle percezioni visive (la corteccia visiva dell'emisfero cerebrale).

Come è evidente nella figura 18.5, la corteccia cerebrale de-putata alla vista è già molto ben sviluppata nella Tupaia e questa espansione si mantiene costante in tutti i Primati. (Nella figura, si consideri che l'encefalo della Macaca e dell'Uomo dovrebbero essere ingranditi in proporzione.) Basta comparare l'area visiva della corteccia cerebrale di Tupaia con quella di un qualsiasi

Fig. 18.6 Diagramma del sistema visivo umano: r, retina; on, nervo ottico; ch, chiasma; otr, tratti ottici; Ign, corpo genicolato laterale; vis, tratto alla corteccia corticale. Fibre, che si originano nelle metà interne o nasali della retina, si incrociano nel chiasma così che la corteccia visiva di ciascuna parte riceve segnali, oltre che dalla stessa metà del campo vi-sivo, anche dalla metà opposta. I segnali pertanto rappresentano due im-magini leggermente diverse e sulla base di queste differenze sono per-cepite la profondità e la distanza. (Da Polyak, 1957).

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Insettivoro, per notare una differenza enorme. Tuttavia nella Tu-paia il senso della vista non ha ancora completamente rimpiazzato il senso dell'olfatto, come si può notare dalla grossa dimensione del bulbo olfattivo. Nei Primati più evoluti questa sostituzione è già avvenuta, anche se l'area visiva sembra più piccola, in rela-zione all'incremento generale dell'encefalo.

L'olfatto. La porzione di tegumento sensitivo che si trova esternamente al naso (rhinariurn), è un organo ancora bene svi-luppato nelle Proscimmie, e l'umidità che lo ricopre è certamente molto importante per aumentare la sua sensibilità e per stabilire la direzione degli stimoli.

Nei Primati, nei quali l'aria richiesta per la respirazione passa attraverso il naso e lambisce la mucosa contenente i recet-tori olfattivi, il senso dell'olfatto è ridotto, anche se ha una certa importanza nell'Uomo attuale. La funzione dell'olfatto è infatti in stretta relazione con l'alimentazione e con la stimola-zione sessuale. Nell'Uomo attuale l'odorato ha importanza come fattore selettivo nella scelta del cibo, ma un individuo nel quale questo senso è stato distrutto può sopravvivere senza difficoltà. In quasi tutti i Primati la stimolazione sessuale è operata dalla

Fig. 18.7 I meccanorecettori dell'orecchio interno sono un sistema di tubi intercomunicanti pieni di liquido. Essi sono qui illustrati con il loro corredo nervoso. Lat., il canale semicircolare orizzontale; Post. e Sup., i due canali verticali, ad angoli retti. Sono indicati utricolo (Utr.), sacculo e coclea. (Da Hardy, 1934).

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vista e l'olfatto gioca un ruolo di secondaria importanza, anche se la femmina umana attuale tende ad usare sempre più richiami olfattivi come stimolanti sessuali.

L'analisi degli impulsi olfattivi incomincia nel bulbo olfat-torio e da esso fibre nervose giungono alla parte laterale inferiore dell'emisfero cerebrale (il lobo piriforme), dove presumibilmente avvengono ulteriori associazioni.

L'udito. L'organo dell'udito e quelli con esso associati for-mano, nella testa, un complesso meccanico recettivo, che è sen-sibile alle onde del suono, alla gravità e al movimento.

Come la luce, le onde sonore si muovono in linea retta e per-tanto possono essere usate come indicatrici di direzione. Per questa ragione le orecchie sono separate (come gli occhi e a dif-ferenza dell'organo dell'olfatto) e possono funzionare come or-gano stereofonico. Esse possono fornirci informazioni sulla dire-zione, la frequenza e l'ampiezza delle onde sonore.

L'orecchio dí un Primate può essere suddiviso in: orecchio esterno, orecchio medio, orecchio interno, utricolo e canali se-micircolari (fig. 18.7).

L'orecchio esterno serve principalmente per convogliare le onde sonore verso il meato uditivo. L'orecchio medio riceve le onde sonore su un diaframma, il timpano, e le trasmette mec-canicamente alla coclea per mezzo di un secondo diaframma: la finestra ovale.

Le onde sonore, ridotte di intensità, vengono quindi trasmesse nell'orecchio interno, che è una cavità piena di liquido. Qui le vibrazioni stimolano meccanicamente, in modo selettivo, le cel-lule dell'organo del Corti. Queste cellule passano il segnale rece-pito alle cellule del ganglio di Corti, le quali, a loro volta, inviano impulsi al cervello per mezzo del nervo stato-acustico. In con-nessione con l'orecchio interno si trovano altre cavità piene di liquido: gli utricoli, i sacculi e i canali semicircolari che sono disposti nei tre piani dello spazio. Gli utricoli contengono mec-cano-recettori che trasmettono al cervello informazioni sulla po-stura della testa in relazione alla gravità; i canali semicircolari contengono cellule sensoriali che individuano la direzione e la velocità del movimento della testa.

È ovvio che un animale a grande mobilità, come un Primate, necessita di un senso del movimento e dell'equilibrio molto efficiente.

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Corteccia motoria

Frontale

Corteccia sensitiva

Corteccia

Parietale associativa

Prefrontale ccip4 Corteccia

visiva Temporale

Corteccia Arteria uditiva Cerebrale

Cervelletto

Nell'Uomo, poi, l'udito raggiunge un potere discriminante elevatissimo, che gli permette di percepire le complesse modu-lazioni del linguaggio e della musica. Il maggior potere discrimi-nante è certamente legato a una maggiore complessità della co-dea, ma anche, forse maggiormente, è dovuto a una maggiore evoluzione della corteccia uditiva (conseguente all'uso del lin-guaggio e quello della visualizzazione delle immagini).

Vediamo ora come l'evoluzione, o comunque il differenzia-mento di questi organi sensori nella serie dei Primati, abbia con-dotto a un differenziamento e a una complicazione delle diverse aree cerebrali. Iniziamo dal bulbo olfattivo.

Il bulbo olfattivo e il lobo piriforme sono interessati, come abbiamo visto, all'analisi degli stimoli olfattivi provenienti dal naso. I lobi piriformi sono costituiti da parte del paleopallio, che è la parte più arcaica della corteccia cerebrale. Il paleopallio è separato dal neopallio, che si trova posteriormente ad esso, dal solco rinico. Il neopallio concentra in sé, fra l'altro, l'analisi di tutti gli impulsi sensoriali in genere, eccetto quelli provenienti dall'organo dell'olfatto, che rimangono attribuzioni del paleo- e dell'archipallio. Nell'evoluzione dei Primati, come abbiamo visto, il senso dell'olfatto decresce di importanza, e con esso le dimen-sioni relative dell'archipallio e del paleopallio. Con l'aumentata importanza degli altri sensi, il neopallio si espande, il solco rinico si estende sotto i lati dell'encefalo e il neopallio, compren-dente il lobo piriforme, viene a disporsi inferiormente all'ence-falo anziché anteriormente.

Il lobo occipitale (posteriore) dell'encefalo, come abbiamo visto, è deputato all'analisi delle immagini visive: gli strati cor-ticali di questa regione formano la « corteccia visiva », la cui espansione è notevole in tutti i Primati. Quest'area è chiaramente delimitata da un solco, il « sulcus lunulatus », o, come spesso è più propriamente chiamato, « sulcus simiae ». Lo sviluppo della corteccia visiva è infatti una delle più tipiche caratteristiche del-l'encefalo dei Primati.

Anche il lobo temporale ha subito un grande sviluppo fin dai primi stadi dell'evoluzione dei Primati. Solo una piccola porzione della sua superficie comprende però la corteccia uditiva vera e propria (fig. 18.8); tutto il resto sembra essere deputato all'ela-borazione delle stimolazioni provenienti dalla vista e dalla me-

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Fig. 18.8 Veduta del lato sinistro del cervello umano, dove si vedono le maggiori suddivisioni della corteccia cerebrale insieme con le cortecce somato-sensoria e motoria. L'area punteggiata nella regione parietale posteriore inferiore mostra molto approssimativamente la « corteccia di associazione delle cortecce di associazione » discussa nel testo,

moria audio-visiva. Queste funzioni sono ovviamente molto im-portanti in un gruppo di animali la cui vita è sempre legata a una memoria visiva, più che al ricordo di altre sensazioni. Nel-l'Uomo, poi, la regione temporale acquisisce un'importanza ulte-riore, poiché in essa vengono memorizzate molte esperienze.

Il lobo frontale e i lobi parietali hanno anche subito durante la evoluzione dei Primati una grande espansione che ha netta-mente separato questa parte della corteccia dalle altre negli ultimi stadi dell'evoluzione dell'Uomo. È infatti la presenza di lobi frontali allargati che ha dato alla nostra specie, negli ultimi stadi della sua evoluzione, un neurocranio che si espande al di sopra delle orbite e che ha condotto alla formazione di una fronte verticale. Anche i lobi parietali, che giacciono dietro il lobo frontale, hanno avuto una grande espansione. Ma la superficie della corteccia nella nostra specie si è ulteriormente sviluppata e pertanto si è piegata in un complesso sistema di solchi. Nel-l'Uomo il 64% della superficie della corteccia si trova piegata in solchi, nelle Scimmie più primitive solo il 7%.

La funzione dei lobi frontali e parietali è in parte nota e in parte oscura. Parte della corteccia situata fra questi due lobi è chiaramente identificabile come « corteccia motrice » e come « cor-teccia somato-sensoria » (fig. 18.8). Tali aree sono dei punti

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nodali essenziali per la funzione di recezione ed elaborazione degli impulsi nervosi — operando in stretto rapporto con altre strutture —, e di invio di impulsi effettori o dí comando, per suscitare i movimenti. In queste aree sono localizzati i neuroni trasmettitori e ricevitori degli organi motori e somatoestesici del corpo (recettori sensoriali della pelle) (fig. 18.9 a e b). Que-st'area è cartografata mediante elettrostimolazioni (fig. 18.10).

Dinanzi alla corteccia motoria sono localizzati i lobi frontali con un'area prefrontale. Poiché nessuna chiara reazione è stata ottenuta per mezzo della stimolazione elettrica, quest'area è stata detta « silente ». L'unica evidenza di funzionamento deriva dai sorprendenti e complessi cambiamenti nella personalità degli individui che per un qualche incidente ne sono stati privati. La sindrome del lobo frontale è caratterizzata infatti da disturbi della personalità, come irascibilità, instabilità, incapacità di fare

Fig. 18.9 a) Diagramma di fibre nervose sensoriali (ascendenti). LS indica una fibra del sistema lemniscale che forma una linea quasi diretta con il nervo sensorio SN (per propriorecettori nel muscolo qui illustrato, ma anche per la pelle) e la corteccia somato-sensoria SC, per distribuire neuroni RN nel cervello, vicino al cervelletto C, e nel talamo T. RS in-dica una fibra reticolare che costituisce una linea relativamente indiretta col neurone sensorio e la corteccia. b) Diagramma di fibre nervose motorie (discendenti). CS indica una fibra corticospinale che nei Primati superiori forma una linea diretta con la corteccia motoria MC, e col neurone motore MN del midollo spinale. EP indica due delle fibre extrapiramidali che, mediante una complessa serie di neuroni distribuiti nel cervello, uniscono la corteccia cerebrale ai neuroni motori del midollo spinale (omessi i neuroni inter-comunicanti). (Da Noback e Moskowitz, 1963).

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Fig. 18.10 Diagramma schematico che combina una sezione trasversale della corteccia motoria (sinistra) e la corteccia somato-sensoria (destra) del-l'Uomo nel piano del solco centrale. Il diagramma mostra la sequenza motoria e sensoria della rappresentazione determinata dalla stimolazione elettrica di pazienti coscienti. Con più forti segnalazioni possono essere trovate larghe zone per una data parte, e vi sono considerevoli varia-zioni individuali. Si noti che l'area sensoriale da attribuirsi alle dita e alla mano è più grande di quella da attribuirsi alla più estesa superficie cutanea compresa tra l'avambraccio e la spalla. (Da Rasmussen e Pen-field, 1947).

previsioni e perseveranza in atteggiamenti inadeguati alla situa-zione del momento. Tali dati suggeriscono che in questa regione ha sede l'esercizio della volontà.

L'area prefrontale sembra sia responsabile dell'iniziativa e della concentrazione dell'attenzione nel comportamento dell'Uomo.

La capacità dell'Uomo di concentrarsi, e far anche durare a lungo l'attenzione su un particolare oggetto deve essere stata un'importante conquista nella sua evoluzione. Kortlandt (1965) ha dimostrato chiaramente che, di regola, i Primati non umani non riescono a concentrare su un oggetto la loro attenzione per più di un quarto d'ora. Questi limitazione contrasta con la capa-cità di attenzione prolungata dei Carnivori, che seguono le mosse di una preda per ore e anche per giorni. Ovviamente queste dif-ferenze si sono affermate perché presentano un vantaggio selet-tivo. Un Erbivoro che dovesse persistere nella ricerca di un tipo dí erba non facilmente reperibile potrebbe morire di fame, e il Carnivoro che si distraesse facilmente dalla preda adocchiata avrebbe scarse possibilità di sfamarsi.

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Cervelletto

Fig. 18.11 Diagramma di alcune connessioni intercorticali nel cervello della Macaca, recentemente messe in luce da Kuypers. Notare la densa con-nessione tra la corteccia visiva (nero) vicino alla corteccia di associa-zione (punteggiato) e il lobo temporale (tratteggiato). (Da Kuypers, 1964).

Quando l'antenato dell'Uomo, da arboricolo e vegetariano, divenne anche carnivoro e cacciatore, dovette sviluppare ed evol-vere nuove strutture cerebrali. Seguendo questo ragionamento ci si può rendere conto di come variazioni ecologiche e di compor-tamento, negli antenati della nostra specie, abbiano richiesto l'evoluzione di nuove forme di processi mentali, che hanno poi costituito i fondamenti della nostra cultura.

Le conoscenze che abbiamo sulla funzione dei lobi parietali sono di poco maggiori, ma dobbiamo ritenere che la loro espan-sione sia stata di grande importanza nell'evoluzione umana. In termini di funzione cerebrale le aree parietali della corteccia sono usualmente .denominate « corteccia di associazione », un termine descrittivo che vuoi significare che quest'area riceve connessioni intracorticali da tre aree sensorio-riceventi: la auditiva (nel lobo temporale), la somato-sensoria e la visiva (nel lobo occipitale), connesse rispettivamente con l'udito, il tatto e la vista. Nelle Scimmie, e in particolar modo nelle Antropomorfe, queste aree sono direttamente connesse con la corteccia circostante, cosicché le aree vicine sono dette di associazione auditiva, di associazione somato-sensitiva e di associazione visiva. Nell'Uomo, invece, si ha un'espansione del lobo parietale fra queste tre aree, che con-duce alla formazione di quella che è stata descritta come la e cor-teccia associativa delle cortecce associative ». Quest'area di asso-

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ciazione secondaria è molto piccola nelle Antropomorfe, _mentre è immensa nell'Uomo. Tutte le sue connessioni sono con la cor-teccia circostante piuttosto che con le parti centrali del cervello.

La corteccia associativa delle cortecce associative è la regione parietale infero-posteriore punteggiata nella figura 18.8. Partico-larmente interessante è il fatto che almeno parte di essa sembra coincidere con l'area maggiore del linguaggio articolato.

Il risultato dell'espansione dei lobi frontali e parietali negli ultimi stadi dell'evoluzione umana è tale che essi hanno coperto non solo l'archipallio (giro dell'ippocampo), ma anche in gran parte la corteccia visiva.

Infatti il solco scimmiesco, che delimita la corteccia visiva nelle Scimmie (fig. 18.5) e in particolar modo nelle Antropo-morfe, è pressoché obliterato nell'Uomo, e la corteccia visiva viene a giacere per la maggior parte sotto l'encefalo, piuttosto che sopra, ed è pertanto difficilmente identificabile.

Le aree motrici primarie, somato-sensoriali, visive e uditive, che occupano grande parte della superficie degli emisferi cerebrali

Fig. 18_12 Sezione sagittale mediale del cervello umano che mostra (parte superiore) la superficie interna (mediale) dell'emisfero cerebrale sinistro, sotto il quale giacciono le fibre trasverse del corpo calloso, che unisce i due emisferi (punteggiato). Il solco centrale CS separa le cortecce somato-sensoria e motoria, che continuano nella parte mediana dell'emi-sfero. Il bulbo olfattivo sinistro OB e il nervo ottico ON sono indicati alla base del cervello insieme al talamo T, l'ipotalamo H, e la ghiandola pituitaria P. Come il cervelletto e il bulbo, questi organi giacciono medialmente e in questo schema risultano in sezione. (Da Campbell, 1966).

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di una Scimmia (fig. 18.11), sono nell'Uomo stipate nei solchi. L'aumento delle aree corticali comporta un aumento anche

delle connessioni fra le varie aree. Questo è manifesto nel grande sviluppo del corpo calloso, che contiene l'insieme delle fibre che collegano i due emisferi cerebrali (fig. 18.12).

Dopo gli emisferi cerebrali, andiamo a considerare altre due parti dell'encefalo che hanno grande importanza: il talamo e il cervelletto.

Il talamo, in seguito alla grande evoluzione della neocorteccia, viene a trovarsi come cementato nella massa telencefalica; con- nessa alla evoluzione della neocorteccia è la comparsa di un'area neotalamica con funzione di stazione delle vie sensitive (lemni-schi) che si proietteranno nelle varie aree neocorticali.

Il cervelletto, che come la corteccia cerebrale si è particolar-mente sviluppato durante l'evoluzione, ha la funzione di coordi- nare l'azione dei muscoli scheletrici. Esso controlla la forza e il tempo di contrazione di ogni muscolo coinvolto in _un movimento. La sua attività è involontaria, in quanto non sottoposta alle diret- tive della corteccia degli emisferi cerebrali, ma di enorme impor- tanza nei Mammiferi, che necessitano di movimenti rapidi e per-fettamente controllati; i Primati, più di ogni altro Mammifero, per la loro vita arboricola necessitano di un elevato grado di coordinazione neuromuscolare. L'Uomo ha ereditato dai Primati non umani un cervelletto molto evoluto ed esso senza dubbio ha avuto grande importanza non solo nell'acquisizione della loco-mozione bipede e della stazione eretta, ma anche nei delicati controlli motori necessari per costruire utensili.

Da questa breve sintesi possiamo renderci conto di come le differenti parti dell'encefalo si siano espanse in un prosieguo continuo dall'Adapis sino all'Uomo. Ciascuna espansione è pre-sumibilmente in relazione con le nuove necessità funzionali dello stadio evolutivo che le ha acquisite e ciascuna ha giocato il suo ruolo nella creazione dell'Homo sapiens.

Fra di esse, tuttavia, lo sviluppo dei lobi temporali e parie-tali sembra abbia dato all'Uomo nuove possibilità di integrare le sue esperienze, come il lobo frontale gli ha dato un nuovo controllo sul comportamento. Ma è bene ancora sottolineare che non è l'encefalo che ha causato l'evoluzione del comportamento umano: tanto esso quanto il comportamento dell'Uomo si sono differenziati contemporaneamente in risposta a cambiamenti ambientali.

Il cervello delle Australopitecine non doveva essere più svi-luppato di quello delle Antropomorfe attuali, ma la postura eretta che ha permesso alle mani, non essendo più destinate esclusivamente alla brachiazione, di esercitare altre prensioni, ha anche determinato la formazione, in rapporto ad esse, di nuovi centri nervosi. Questo processo di interazioni, le nuove oppor-tunità di contatto con le cose e di sperimentarne l'uso, infatti, deve aver influenzato la moltiplicazione e l'abbondanza delle con-nessioni interneuroniche, le quali come conseguenza causarono un incremento nella percezione dell'intero ambiente circostante. In questo modo una serie di azioni e reazioni si innescarono e con-dussero allo sviluppo delle capacità tipiche della specie umana, una delle quali è la capacità di controllo dell'ambiente circo-stante: controllo e utilizzo dell'ambiente che si è sviluppato in modo esponenziale fino a raggiungere la situazione critica e in-stabile nei rapporti Uomo-Natura dei nostri giorni.

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EPILOGO

I Primati non umani viventi costituiscono gli elementi di base indispensabili per chiunque voglia affrontare problemi di biologia e di evoluzione umana. Infatti i futuri progressi della biologia molecolare, della immunologia, della citogenetica, della psicologia, dell'anatomia e della patologia della nostra specie, sono stretta-mente legati alla conoscenza della biologia delle diverse specie dei nostri parenti più prossimi. Il metodo comparativo è alla base di ogni nostra conoscenza. Le 180 specie dei Primati esistenti costituiscono un prezioso materiale per ricerche comparative che certamente condurranno a risultati del più grande interesse non solo per la biologia generale e per l'evoluzione della nostra specie, ma anche per una importante branca della biologia applicata: la medicina.

Sfortunatamente nel momento stesso in cui prendiamo co-scienza della unicità delle diverse specie di Primati, ci accor-giamo di come sia precario il loro futuro e di come la nostra civiltà tecnologica minacci la loro sopravvivenza. Negli ultimi 50 anni alcune specie si sono estinte e almeno la metà delle 180 at-tualmente esistenti sono in grave pericolo di estinzione. Non è certamente nell'interesse dell'umanità permettere che questi nostri parenti minori, questi insostituibili modelli biologici, scompaiano. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a questo sterminio.

Domani, molto più di oggi, i biologi e i medici avranno ne-cessità di Primati non umani per chiarire importanti aspetti della salute e della biologia della nostra specie. Sta quindi a noi fare ora del nostro meglio per proporre alle Autorità nazionali e in-ternazionali una politica di conservazione che assicuri la soprav-vivenza non di singoli individui, ma di abbondanti popolazioni delle diverse specie.

Un appello per la conservazione dei Primati non umani fu lanciato da un Advanced Study Institute di Biologia comparata dei Primati, tenuto nel 1972 a Torino.

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Il testo, per coloro che vi sono interessati, suona così:

APPELLO PER LA CONSERVAZIONE DEI PRIMATI NON UMANI

Gli scienziati di molte discipline e di differenti paesi, parteci-panti all'Advanced Study institute on Comparative Biology of Pri-'Dates, tenuto a Montaldo (Torino, 7-19 giugno 1972), consapevoli dell'eccezionale valore dei Primati non umani in quanto parenti stretti dell'Uomo e in quanto modelli utili alle scienze biologiche e mediche per il progresso della medicina, del benessere e della conoscenza umana; consapevoli della loro responsabilità di assicurare la soprav-vivenza dell'intero spettro delle diverse specie di Primati attualmente esistenti; consci che la espansione delle popolazioni umane e l'uso crescente dei Primati nella sperimentazione biomedica minacciano la sopravvivenza di alcune specie mentre altre si sono drasticamente ridotte, SOTTOPONGONO URGENTEMENTE alle Organizzazioni internazio-nali e nazionali le seguenti richieste: 1. Che gli scienziati siano selettivi nell'uso dei Primati non umani e impieghino altri animali quando questi siano utilizzabili e che impieghino le specie rare solo nelle ricerche in cui altre specie di Primati non umani non siano idonee. 2. Che gli scienziati contribuiscano alla conservazione dei Primati non umani:

a) introducendo e insistendo sull'uso di procedure umanitarie ed efficienti per la loro cattura, il trasporto e il mantenimento prima e durante il loro uso;

b) educando il pubblico sui pericoli che i Primati non umani possono costituire per la salute in quanto potenziali trasmettitori di malattie (particolarmente infezioni virali) e raccomandando che il loro uso come animali domestici o da divertimento sia proibito;

c) insistendo su leggi nazionali che assicurino il miglioramento dei metodi di cattura e di trasporto nei paesi di origine e l'osser-vanza internazionale di queste leggi;

d) promuovendo lo sviluppo delle conoscenze sulla distribuzione e sulla disponibilità di individui delle diverse specie nelle aree di origine e di metodi idonei che assicurino la loro sopravvivenza negli ecosistemi naturali, costituendo in tal modo fonti di risorse econo-nomiche e scientifiche per i paesi di origine;

e) promuovendo lo sviluppo di programmi permanenti di ripro-duzione in accordo con richieste a lungo termine di individui per le diverse specie;

f) incoraggiando la cooperazione e il sostegno finanziario da parte di istituzioni di ricerca, di industrie farmaceutiche o altre, per rea-

lizzare questi programmi al fine di assicurare la coni Innol *l'ho/vi venza e lo sviluppo delle popolazioni di Primati 11011 1.11111111i iltil lutti ecosistemi naturali, o in ambienti opportunamente scelti, etakeli0 fit

loro disponibilità a vantaggio della medicina e della biologia mola sia assicurata ai posteri.

L'appello, con poche modifiche, è stato approvato dalla So cietà internazionale di Primatologia al suo IV meeting a Portiand (Usa) nell'agosto 1972 e successivamente discusso in sedute nor. mali e straordinarie dell'Unesco, dell'Onu e della W.H.O. Ma che cosa si è fatto da allora? Cosa si farà?

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