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1 Giulia Martelli – Francesco Tassinari Bonifica mine: Faenza e dintorni Sminatori alleati al lavoro Introduzione Il secondo conflitto mondiale ebbe inizio il 1° settembre del 1939 a seguito dell’invasione nazista della Polonia. Nell’estate del ’40 anche l’Italia, guidata da Mussolini, intervenne schierandosi dalla parte dei tedeschi. Si pensava che la guerra sarebbe durata pochi mesi, invece ci si trovò ad affrontare un lungo periodo bellico che sembrò non aver più fine. La resistenza dell’Inghilterra si prolungò più del previsto e, ciò nonostante, Hitler, nell’estate del ’41, si lanciò nell’avventata campagna di Russia, subito seguito da Mussolini. A partire dal ’42, la situazione per Germania e Italia si fece via via più critica ed il fascismo incontrò sempre minor sostegno fra la popolazione italiana, che, già dall’inizio della guerra, conosceva una condizione di dura ristrettezza che si fece poi miseria sempre più profonda. Fu così che dopo la perdita dell’Africa settentrionale e lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, il 25 luglio del ‘43 il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Mussolini ed il re lo fece arrestare. Con la caduta del fascismo anche Faenza, come le altre città italiane, vide gli abitanti scendere in piazza per manifestare la loro gioia nella speranza che la guerra fosse ormai finita. Purtroppo, dopo l'armistizio dell'8 settembre, la situazione precipitò ed i tedeschi occuparono buona parte del paese. A Faenza fecero la loro comparsa dalla Via Emilia, mentre le caserme faentine, come del resto quelle di quasi tutta la penisola, si svuotavano e i nostri soldati cercavano di fare ritorno alle loro case. Dopo pochi giorni, poi, Mussolini fu liberato dai paracadutisti di Hitler dalla sua prigione sul Gran Sasso e fondò la Repubblica di Salò, lasciando a ciascun italiano la difficile scelta di appoggiarlo, arruolandosi nelle Brigate Nere, o di tentare di sfuggirgli, nascondendosi, o di combatterlo, entrando nella neonata Resistenza. Tra i primi gruppi o “bande” di partigiani che si

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Giulia Martelli – Francesco Tassinari

Bonifica mine: Faenza e dintorni

Sminatori alleati al lavoro

Introduzione Il secondo conflitto mondiale ebbe inizio il 1° settembre del 1939 a seguito dell’invasione nazista della Polonia. Nell’estate del ’40 anche l’Italia, guidata da Mussolini, intervenne schierandosi dalla parte dei tedeschi. Si pensava che la guerra sarebbe durata pochi mesi, invece ci si trovò ad affrontare un lungo periodo bellico che sembrò non aver più fine. La resistenza dell’Inghilterra si prolungò più del previsto e, ciò nonostante, Hitler, nell’estate del ’41, si lanciò nell’avventata campagna di Russia, subito seguito da Mussolini. A partire dal ’42, la situazione per Germania e Italia si fece via via più critica ed il fascismo incontrò sempre minor sostegno fra la popolazione italiana, che, già dall’inizio della guerra, conosceva una condizione di dura ristrettezza che si fece poi miseria sempre più profonda. Fu così che dopo la perdita dell’Africa settentrionale e lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, il 25 luglio del ‘43 il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Mussolini ed il re lo fece arrestare. Con la caduta del fascismo anche Faenza, come le altre città italiane, vide gli abitanti scendere in piazza per manifestare la loro gioia nella speranza che la guerra fosse ormai finita. Purtroppo, dopo l'armistizio dell'8 settembre, la situazione precipitò ed i tedeschi occuparono buona parte del paese. A Faenza fecero la loro comparsa dalla Via Emilia, mentre le caserme faentine, come del resto quelle di quasi tutta la penisola, si svuotavano e i nostri soldati cercavano di fare ritorno alle loro case. Dopo pochi giorni, poi, Mussolini fu liberato dai paracadutisti di Hitler dalla sua prigione sul Gran Sasso e fondò la Repubblica di Salò, lasciando a ciascun italiano la difficile scelta di appoggiarlo, arruolandosi nelle Brigate Nere, o di tentare di sfuggirgli, nascondendosi, o di combatterlo, entrando nella neonata Resistenza. Tra i primi gruppi o “bande” di partigiani che si

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formarono, ci fu quella che si raccolse attorno al faentino Silvio Corbari, a cui appartennero molti di coloro che faranno poi parte delle squadre di sminatori della zona. Nella primavera del ’44, mentre gli alleati risalivano lentamente la penisola incontrando una durissima resistenza tedesca, sulla città di Faenza s’intensificarono i bombardamenti aerei, a causa dello strategico snodo ferroviario che la collegava sia con Bologna e Rimini, che con Firenze e Ravenna. A maggio e durante l’estate la città venne più volte duramente colpita, soprattutto nelle zone nei dintorni della stazione, ma, data la scarsa precisione dei bombardamenti d’allora, un po’ tutte le zone furono coinvolte con numerosi morti e feriti. La battaglia di Faenza, combattuta tra il 3 ed il 16 dicembre, fu l’ultima dell’offensiva iniziata dagli alleati fin dall’estate del ’44 contro la Linea Gotica, la possente rete di fortificazioni, trinceramenti e campi minati preparata dai nazisti tra la Spezia e Pesaro lungo i crinali dell'Appennino Tosco-Emiliano. I tedeschi, sopraffatti, il 17 dicembre si ritirarono oltre il fiume Senio, dove si trincerarono fino alla ripresa dell’offensiva alleata nell’aprile del ’45. Faenza rimase così sulla linea del fronte per quasi quattro mesi e questo spiega l’enorme concentrazione di armi ed esplosivi che si registrò nell’area. Cessati i combattimenti, il principale problema da risolvere fu dunque quello degli ordigni inesplosi e dei residuati bellici ancora pericolosamente disseminati ovunque e disposti nelle maniere più impensate e nei luoghi più disparati, in grado di scoppiare al minimo urto e causare gravi danni. Le bombe d’aereo inesplose, seppur potenti per la loro notevole dimensione, erano però più facili da individuare e gli inesperti, prudentemente, le evitavano. Ma le mine, di piccole dimensioni e nascoste, spesso collegate in serie con trappole dei più vari tipi, rappresentavano ancora un costante pericolo per la popolazione, soprattutto per i bambini e i ragazzi che, giocando nei campi, rischiavano, più di altri, d’incapparvi accidentalmente.

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Lo sminamento

• Scuola In una prima fase, man mano che l’Italia veniva liberata dalle forze alleate, le operazioni di sminamento furono condotte dalle “Compagnie militari dei rastrellatori di mine”, gruppi di soldati che, seguendo il fronte, venivano impiegati dall’esercito per le opere di bonifica. I loro interventi erano d’urgenza e furono perciò parziali ed affrettati, localizzati soprattutto nelle zone d’uso pubblico e solo eccezionalmente in proprietà private. Proprio per questo motivo, possidenti e contadini iniziarono le operazioni di bonifica privatamente, nell’urgenza di tornare al lavoro e rimettere in produzione i campi. Ma tali operazioni, già di per sé pericolose, anche per i soldati esperti, si rivelarono spesso fatali per questi improvvisati rastrellatori ed alto fu tra loro il numero delle vittime. Ci si trovò così di fronte a un problema gravissimo sia dal punto di vista delle risorse umane che economiche: l’inagibilità dei campi, infatti, impediva la produzione agricola e oltre a causare gravi danni finanziari ai produttori, contribuiva al peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini, privandoli di una sana alimentazione. Inoltre le mine costituivano un pericolo per il patrimonio zootecnico ed impedendo l’utilizzazione degli impianti e delle infrastrutture, sempre minate dai tedeschi in ritirata, rallentavano la ripresa delle più normali attività. Questi problemi, che nell’urgenza dei combattimenti furono affrontati in un’ottica d’emergenza in modo spesso casuale e superficiale, con l’evidenziarsi della loro gravità, richiesero un intervento più efficace ed organizzato. Furono perciò istituite le scuole B.C.M. (Bonifica Campi Minati), per addestrare personale adatto a questo difficile compito. Esse vennero aperte, a partire dalla fine del ’43, su tutto il territorio nazionale man mano liberato, da parte del Genio Militare dell’Esercito Italiano in collaborazione con gli alleati. Esse ebbero sede nelle città più importanti, di solito i capoluoghi di provincia, ma compito del Genio era anche quello di selezionare ed organizzare gruppi di aspiranti sminatori per renderli operativi nei comuni circostanti, al fine di ripartire meglio le operazioni di bonifica. La scuola in cui fu addestrato il gruppo di sminatori faentini venne istituita a Forlì nel novembre 1944, appena liberata la città. Il tenente Salvadori, del Genio, ne era il responsabile sia per l’insegnamento, di cui teneva la maggior parte dei corsi, coadiuvato da ufficiali e sottufficiali americani, sia per l’organizzazione delle operazioni di bonifica dell’area. Per formare il gruppo di Faenza, Salvadori contattò Francesco Spada, un giovane di soli 24 anni che, dopo essersi diplomato presso l’Istituto Tecnico «Oriani», aveva preso parte alla resistenza partigiana. Spada radunò un gruppo di 38 uomini, tutti faentini, con i quali partecipò, in qualità di caposezione, alle lezioni della scuola forlivese, dove lui e i suoi compagni si recavano solitamente in bicicletta o, comunque, con mezzi di fortuna: «Il gruppo nacque da un incontro fra il Comitato di liberazione di Faenza, il governo alleato e il tenente Salvadori, comandante zona campi minati di Forlì, B.C.M. Così fui incaricato di formare un gruppo fra i cittadini faentini; radunai circa 40 persone. Tutti noi partecipammo alla scuola a Forlì, dove ricevemmo una serie di lezioni sulle mine e sui metodi per disinnescarle»1.

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Manifesto di apertura per le iscrizioni della scuola B.C.M. di Forlì (manifesto I, 1945 o busta 28, fascicolo l, 1945).

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Per la scelta dei componenti della squadra vennero fatte proposte soprattutto a ex soldati o partigiani perché avevano già una conoscenza di base degli ordigni bellici ed alcuni di loro possedevano una sommaria conoscenza sui criteri di disposizione delle mine all’interno dei campi. Ma non furono i soli, come ci ha testimoniano Primo Palli, anch’egli sminatore faentino: «Per la maggior parte eravamo ex soldati, ma c’erano anche alcuni contadini che, magari dopo aver tentato di sminare per proprio conto i campi e rendendosi conto della pericolosità dell’azione, si iscrivevano alla scuola.»2. Ma c’erano anche degli studenti, come Claudio Bonetti che, come racconta nella sua intervista a Bettoli, già nel ’44, seguendo un corso da pioniere, aveva ricevuto un primo addestramento sulla bonifica dei campi minati; questa esperienza lo portò poi «nel 1945, a seguire un corso per aspiranti sminatori, che si teneva a Forlì. Questo corso consisteva in insegnamenti teorici e prove pratiche; in ogni caso fu piuttosto breve, durò solamente tre settimane.»3 Inizialmente, infatti, i corsi d’addestramento erano brevi e non davano che un’«infarinatura» generale sulle tecniche di sminamento, sui principali tipi di mine e sui comportamenti da adottare nelle eventuali situazioni di pericolo. Sicuramente fornivano una preparazione insufficiente e la stessa attrezzatura di cui furono provvisti gli sminatori per le opere di bonifica risultò da subito inadeguata. Anche se, come ricorda Bonetti, s’organizzavano prove pratiche nella periferia forlivese, la maggior parte delle lezioni si tenevano all’interno della scuola, dove ci si limitava ad istruzioni teoriche o a montare e smontare mine per mostrarne le varie componenti. Solo più tardi, valendosi dell’esperienza, purtroppo sanguinosa, fatta sui lavori eseguiti, vennero elaborate ed insegnate norme tecniche e metodi più adatti per affrontare sistematicamente e con maggior sicurezza i campi minati.

• Specifiche su mine e strumenti Come si è detto, durante i corsi della scuola B.C.M., agli allievi erano mostrati i tipi più comuni di mine e ne venivano spiegate le componenti e i metodi di disinnesco. Il loro compito si limitava infatti alla sola bonifica dei campi minati ed era coordinato dal Genio, mentre spettava all’Artiglieria Militare occuparsi direttamente degli altri residuati bellici, comprese le bombe aeree inesplose. Circa le caratteristiche delle mine impiegate, innanzi tutto bisogna ricordare che esse si dividevano primariamente in mine anticarro e mine antiuomo. Le prime erano di misura e potenza maggiore, dovendo distruggere carri armati e mezzi corazzati, ma per uno sminatore non costituivano un pericolo poiché la pressione necessaria ad attivarle era di circa 180 kg. Per far saltare in aria le seconde bastava invece una pressione di appena 200 o 300 grammi, perché, come già indica il nome, altro era il loro scopo: quello di uccidere o di provocare un grave danno fisico alle persone, come la perdita di arti o altre importanti lesioni. Un’altra distinzione va fatta per quanto riguarda la nazionalità delle mine. Infatti oltre a quelle tedesche, man mano che il fronte alleato si spostava, si aggiungevano quelle anglo-americane ed italiane. Mine di diversa nazionalità presentavano differenti caratteristiche e quindi diversi metodi di disinnesco. Di solito i campi erano minati da un solo un tipo di mina, ma capitava a volte d’imbattersi anche in campi minati e "riminati" da eserciti differenti, come sempre accade nei luoghi in cui questi, per un certo tempo, si fronteggiano da posizioni fisse: proprio come avvenne sulla linea del Senio nell’inverno ‘44-45. Tutte le mine, comunque, avevano in sé un alto grado di pericolosità, ma in modo particolare lo erano quelle “antimagnetiche”, non rilevabili dai “metal detector” perché costruite in legno, vetro, materiale plastico, calcestruzzo o cartone pressato e catramato e le “bombe a farfalla”, collocate soprattutto in superficie, di colore e forma facilmente confondibili con il terreno e micidiali per i bambini e gli animali. Tutte presentavano un innesco detto “accenditore”, che veniva avvitato in ogni specifico ordigno; questo era a sua volta munito di un “occhiello di

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strappo”, un piccolo ferretto che sporgeva e che, abbassandosi, fungeva da percussore e di una “coppiglia”, una sicura che, inserita trasversalmente, ne impediva l’azionamento. Disinnescare una mina, per lo più ed in linea di principio, significava svitare l’“accenditore” senza muovere l’“occhiello di strappo” che faceva esplodere l’ordigno. Ma spesso l’operazione era ben più complicata, come appare dalle specifiche delle mine più diffuse distribuite agli allievi delle scuole BCM. e qui sotto riportate. Vi erano infatti circa una sessantina di tipi di mine e per ognuno venivano fornite raccomandazioni particolari. I principali modelli erano i seguenti:

- Teller: antiuomo tedesche a forma di padella, rivestite in metallo e dotate di un manico per il trasporto; spesso presentavano trappole per il disinnesco. Veniva raccomandato di non svitarne il tappo ma di estrarle intere dal terreno facendo molta attenzione al manico.

- Schuh:, antiuomo tedesche rivestite di legno, con circa 200g di tritolo, si innescavano pestando un percussore che sporgeva. Esplodevano sotto una pressione di 3 Kg e si raccomandava di non toccarle nel caso avessero la coppiglia avvitata; spesso presentavano trappole e fili che, una volta toccati, potevano farle esplodere.

- R.M.I. 43: antiuomo, costruite utilizzando ben 10 Kg di pentrite, erano le più pericolose; la caratteristica principale di queste era che al loro interno presentavano 400 sfere di detriti metallici e vitrei che nel momento dell’esplosione venivano scagliati per un raggio di circa 1,20 m. L’unico modo per difendersi da queste, era gettarsi a terra per evitarne le schegge. Data l’alta pericolosità, compito degli sminatori non era disattivarle, ma picchettarne l’ubicazione, delegando il compito di farle brillare al caposezione.

- Holz: antiuomo tedesche, dopo aver controllato attentamente la coppiglia e il coperchio, era necessario sfilare il blocchetto di legno che teneva fermo i 200 g di tritolo che contenevano.

- Anticarro italiana in legno: queste erano le mine anticarro più sensibili tali da essere pericolose anche per un uomo, infatti bastavano solo 45 Kg di pressione per farle scoppiare; erano poi spesso dotate di trappole.

- Stock: antiuomo; con esse era necessario fare attenzione ai fili di strappo, che andavano tagliati solo nel caso fossero tirati.

- T. Mi 4531: antiuomo; potevano presentare trappole collegate da fili al manico o al tappo e quindi era necessario estrarle prima dal terreno per rilevare questi trabocchetti.4

Sminare non era quindi un’operazione facile. Al di là del semplice disinnesco, che poi semplice non era, un altro grande problema fu, infatti, la presenza delle trappole, che spesso collegavano in serie varie mine. Inoltre, agli ordigni venivano di frequente attaccati dei fili che facevano esplodere le mine anche solo girandoci attorno. Mine che venivano collocate ovunque: nei campi, nelle case, nelle finestre, nelle porte, e persino nei mobili. Non di rado, poi, insieme alla mina collocata in casa, venivano poste anche granate o altri esplosivi, tali da distruggere l’intero edificio. Questa estrema pericolosità è inoltre testimoniata dalle regole di comportamento da tenere sul lavoro raccomandate agli sminatori e che riportiamo integralmente dal materiale didattico BCM:

- prestare totale rispetto e obbedienza al caposquadra, essendo responsabile della disciplina di lavoro necessaria per garantire la sicurezza;

- lavorare con la massima attenzione e, in caso di stanchezza, chiedere subito al caposquadra il permesso per un breve riposo;

- non fumare, non parlare, non pensare ad altro; - prima di iniziare le operazioni, studiare fuori dalla zona pericolosa il terreno insieme al

caposquadra; - prima di iniziare la bonifica, preparare i mezzi per segnare il terreno (nastri, picchetti e

cartelli); - assicurarsi che tra il proprio settore e quello dei compagni intercorrano sempre più di 30

metri;

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- dopo aver scoperto la mina, prima di disattivarla, è necessario avvisare i compagni affinché si pongano a distanza di sicurezza; avvertirli quando la disattivazione è completa;

- se si scopre una mina che presenti particolari difficoltà o comunque sia sospetta, non tentare mai alcun tipo di azione, essere quindi sempre prudenti e chiamare il caposquadra.4

All’inizio, gli strumenti di cui gli sminatori della BCM erano dotati per rivelare gli ordigni, risultarono molto rudimentali. Usato in un primo periodo fu il “fioretto da scherma”, poi, fu la volta del “punzone”, che era un’asta con una punta di ferro all’estremità, con il quale si «punzecchiava» il terreno per individuare la mina. Lo si usava affondando la punta metallica nella terra, muovendola lentamente sino a che non si percepiva la presenza di un oggetto. L’attenzione e la freddezza in questi momenti erano, a dir poco, fondamentali, o meglio, vitali. Solo più tardi, s’iniziò ad usare il “detector-mines” per individuare gli ordigni metallici: uno strumento che possedeva una centralina, posta nella schiena dello sminatore, che emetteva un sibilo di sempre maggiore intensità man mano che lo si avvicinava alla mina.

• Ubicazione mine Per quanto riguarda la disposizione delle mine, c’era una regola, non sempre rispettata e valida solo per le mine anticarro, che venivano disposte a scacchiera ogni 5 metri. Mentre le antiuomo non avevano quasi mai un ordine preciso. Molti erano, infatti, i così detti “campi di disturbo o arresto”, che avevano lo scopo di rendere più difficoltosa l’avanzata dei soldati e ardua la vita degli abitanti del luogo e per questo creati senza alcuna regolarità geometrica. Ovviamente, in questi casi il lavoro di sminamento era molto più pericoloso. Ma non solo ai campi bisognava fare attenzione. Come ci ricorda Palli «un altro rischio era quello delle mine nelle porte delle case, collocate nelle case disabitate durante la notte; non vi era un modo per vederle, così, oltre ai civili, molti minatori rimanevano feriti ancor prima di entrare nella casa.»2 Sono state individuate5, sul territorio italiano, cinque zone particolarmente soggette alla presenza di mine e ordigni: - zona di Capua; - zona di Roma; - zona della Toscana; - zona di Bologna e dell’Emilia

Romagna; - zona di Genova e della Liguria. Cartina che mostra le zone con maggior concentrazione di ordigni bellici

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La zona che qui ci interessa, quella di Bologna, era una di quelle considerate a più alto rischio, sia per la dura lotta di liberazione che vi si svolse, sia perché il fronte vi si fermò per un tempo particolarmente lungo. I primi sminatori, usciti già nel novembre del ’44 dalla scuola BCM di Forlì, furono perciò avviati subito al lavoro nel territorio immediatamente confinante con la linea dei combattimenti, in quel momento ancora ferma a sud-est di Faenza, sul torrente Cosina.

Cartina della zona di Faenza e dintorni in cui è evidenziata la zona di bonifica degli sminatori locali Nel mese successivo, con l’avanzare del fronte, le operazioni di bonifica vennero gradualmente estese anche alla zona di Faenza. A metà dicembre, infatti, il fronte «romagnolo» si spostò sul Senio, snodandosi dalle sorgenti del fiume, ubicate nei pressi di Palazzuolo, fino alla confluenza col Reno, presso le tenute del conte Orsi Mangelli nella zona di Alfonsine, attraversando o sfiorando, oltre ai già citati, anche i centri abitati di Casola Valsenio, Borgo Rivola, Riolo

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Terme, Campiano, Tebano, Castel Bolognese, S.Severo, Cotignola, Lugo e Fusignano. Gli ordigni individuati e bonificati erano per lo più collocati sulle sponde del fiume. Di tutta questa zona si occupava il gruppo faentino, che operò inoltre anche nella zona del Lamone, dove le operazioni si concentrarono nei centri di Casale, Fognano, Brisighella, Quartolo, Faenza, Ronco, Reda, Pieve Cesato, Boncellino e Russi. La zona di Forlì-Cesena fu invece gestita dal gruppo forlivese, mentre in seguito, passato il fronte e potenziata l’organizzazione con la nascita della prima scuola di Comando Zonale dell’Emilia e l’apertura di un’altra scuola B.C.M. a Imola, furono i nuovi rastrellatori imolesi a bonificare la zona del Santerno. Ovunque si ebbero interventi grandiosi per il numero delle mine recuperate, per l’estensione dei terreni bonificati e per le importanti opere pubbliche che poterono essere così ripristinate o ricostruite.6 Riportiamo di seguito i risultati complessivi delle operazioni di bonifica sia a livello nazionale che locale (zona della sezione faentina):

Valori nazionali Valori locali Mine estratte 12.000.000 8.000 Ufficiali e sottufficiali

180 2

Sminatori 3.000 38 Morti 393 15 Feriti \ mutilati 527 10

• Squadre al lavoro

Appena finito l’addestramento gli sminatori venivano suddivisi in squadre di quattro o cinque persone, dirette da un capo1. Il caposquadra, oltre a coordinare e a ripartire il lavoro, riceveva un salario leggermente più alto: 20 £ in più al giorno7. Al di sopra dei capisquadra vi era poi il caposezione, che nell’area di Faenza era Francesco Spada, a cui facevano riferimento tutte le operazioni di sminamento della zona, affidate ormai ai soli civili militarizzati, i quali, una volta passato il fronte, gestivano autonomamente le operazioni.8 Si lavorava dal martedì al sabato per circa otto ore al giorno ed il pranzo veniva offerto dal proprietario del luogo da bonificare. La sezione faentina iniziò le operazioni di sminamento quando il fronte si trovava ancora sul Senio e nella città. I primi a venir bonificati dagli ordigni furono gli orti, situati prevalentemente sul Lamone, in modo da consentire la rapida ripresa della produzione di verdure ed ortaggi necessari alla popolazione. Ma gli ambienti di lavoro potevano essere i più disparati: terreni agricoli, boschi, torrenti, ponti, strade, ferrovie, ecc. Innanzi tutto era necessario rilevare l’ubicazione dei campi minati o delle mine isolate e stabilire l’estensione del territorio da bonificare. Di questa prima operazione se ne occupava il Comune, che riceveva richieste, normalmente sotto forma di missive, da coloro che abitavano o che lavoravano in zone da bonificare, ma anche dai comuni di Lugo e di Russi, i cui territori rientravano nell’area di competenza degli sminatori faentini. Le richieste, sia pubbliche che private, venivano poi inoltrate al caposezione.

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Pratiche per la denuncia dei campi minati (busta 16, fascicolo I, inserto VI, 1945 e manifesto 17, 1947) Come racconta Palli: «Eravamo una sezione unica che copriva Faenza e la zona circostante, suddivisa a sua volta in più squadre; ogni squadra doveva coprire una determinata area in un determinato numero di giorni. Il coordinatore, Francesco Spada, riceveva dal Comune indicazioni sui luoghi da bonificare, e poi suddivideva il lavoro fra le squadre a sua discrezione. Inoltre si ricevevano spesso anche richieste direttamente da contadini incontrati sul posto di lavoro che non potevano andare nei propri campi a causa della presenza di mine.»2 Si procedeva quindi al vero e proprio lavoro di sminamento. S’iniziava alla mattina presto dividendo ogni area individuata in campi, assegnati ciascuno ad una squadra e a loro volta frazionati in strisce regolari, che venivano bonificate in parallelo, mantenendo tra i diversi sminatori all’opera una distanza di sicurezza che poteva variare dai 50 ai 100 metri a secondo del tipo di mine individuate. Man mano che il lavoro procedeva, ogni squadra depositava le mine disinnescate in un unico punto chiamato “fornello”, mentre quelle il cui disinnesco appariva più problematico venivano solo segnalate con una bandiera colorata. Intorno a mezzogiorno, Spada passava da ciascuna squadra e, dopo aver collocato sul bordo della strada più vicina al campo un uomo con la bandiera rossa a segnalare il pericolo, dava l’ordine di fare brillare tutte le mine ammucchiate nel fornello e quelle segnalate sul terreno. In alcuni casi, dopo lo sminamento, veniva fatto un collaudo, cioè veniva arato il campo con trattori o mezzi simili, ricontrollando così il lavoro eseguito. Questo, ovviamente, in presenza di sole mine antiuomo e solo nei campi privati, su richiesta del proprietario.

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Esempio di segnalazione con richiesta di sminamento in territorio privato (busta 16, fascicolo I, inserto VII, 1945) Spada conferma inoltre che «le operazioni ci erano pagate sempre dal Comune, mai privatamente», ma aggiunge poi che «alcuni di noi, illegalmente, si occupavano di richieste private per guadagnare qualche soldo in più.»1 Ed infatti, alcuni sminatori, seppur fuori dalla legge, svolgevano anche privatamente la loro professione: qualcuno si limitava a lavorare nei giorni festivi su commissione, altri, imparato il lavoro, non entrarono nemmeno a far parte delle squadre e vendevano i propri servizi di sminamento a minor prezzo rispetto a quelli comunali: servizi certamente meno professionali e sicuri ed, infatti, le vittime non mancarono.

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Divieto di lavoro di sminamento in proprio (manifesto 63, 1946)

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Non era di certo un lavoro facile anche perché le squadre dovettero affrontare una molteplicità di problemi legislativi ed organizzativi che complicarono ulteriormente operazioni già di per sé difficili. Oltre all’impreparazione generale della prima fase, si trovarono inoltre ad affrontare grosse difficoltà nel reclutare un numero sufficiente di bonificatori a causa della pericolosità del mestiere; senza mezzi di trasporto militari, dovettero arrangiarsi ricorrendo ad automezzi civili, per niente facili da reperire nella difficoltà del momento e registrarono una costante carenza di strumentazione adeguata, dovuta alla mancanza di materie prime per la costruzione degli apparecchi necessari. Da un punto di vista economico, ebbero notevoli difficoltà per il finanziamento dei lavori, che spesso risultò insufficiente e fu garantito solo dopo molto tempo, grazie a nuove disposizioni legislative in materia. Infine, la mancanza, almeno iniziale, di una specifica ed articolata normativa volta a regolare un’attività nuova e gravosa come quella dello sminamento, fu fonte di numerosi problemi ed ostacoli. Non c’erano infatti norme di sicurezza specifiche ed obbligatorie, oltre che mezzi di trasporto (i lavoratori si spostavano con le loro biciclette o comunque con mezzi privati reperiti al momento) e strumentazione. Solo dopo un certo tempo, grazie alle insistenti richieste di Spada, ogni squadra venne fornita dal Comune di un camioncino che, oltre a portarla nei campi di bonifica, era dotato di materiale di soccorso e di un infermiere. Purtroppo però gli incidenti furono frequenti. Cause principali risultarono la disattenzione, l’eccessiva fiducia delle proprie capacità e comunque, sempre, una certa dose di sfortuna unita ad un altissimo grado di pericolosità. Un tragico incidente, che mette in risalto le carenti condizioni in cui le squadre erano costrette a lavorare, ci è stato raccontato da Spada: «Avvenne in Villa Bestini, vicino al cimitero, nei pressi di un orto; uno sminatore fu colpito da una mina in un piede proprio nel momento in cui stavo arrivando io; prontamente strappai una fettuccia bianca di stoffa che delimitava il campo, poi corsi da lui passando sopra i suoi passi segnati nel terreno, la legai alla sua gamba per bloccare la fuoriuscita di sangue; ci dirigemmo subito in ospedale, con una jeep di un militare che casualmente si trovava nei paraggi.»1

• Attività sindacale, assistenziale e propagandistica

In un primo momento, per gli operai bonificatori non esisteva nessuna forma di organizzazione sindacale, poiché le scuole BCM. erano sotto il comando dell’Esercito, che non prevedeva questo genere di rappresentanza. Con la formazione dei comandi di zona e con l’aumentare del personale civile volontario, sorsero le prime organizzazioni sindacali di categoria. Il primo sindacato risale al gennaio del 1945 e fu creato dagli sminatori e rastrellatori di Pisa. Nel marzo dello stesso anno, si venne a formare il sindacato provinciale di Roma e di lì, via via, ne nacquero un po’ in tutta Italia. Ma è solo nel ’47 che sorse la prima forma di organizzazione sindacale di livello nazionale: l’A.N.S.I (Associazione Nazionale Sminatori d’Italia). Questa promuoveva attività di assistenza agli sminatori e alle loro famiglie, oltre ad organizzare manifestazioni che dessero visibilità al lavoro dei propri iscritti. La quota d’iscrizione annua era di 500 £ (200 £ per i mutilati). L’organo supremo del sindacato era il Congresso nazionale, che deliberava al proposito delle variazioni dello statuto dell’A.N.S.I. e aveva potere decisionale per quanto riguarda le spese straordinarie. Spettava poi al Congresso la nomina del Comitato Centrale, l’organo esecutivo composto da un presidente, un vicepresidente, un segretario amministrativo e quattro consiglieri nazionali. La contabilità veniva tenuta dal segretario amministrativo che rispondeva direttamente al Congresso e al fisco. Vi erano poi sezioni provinciali formate da almeno 50 inscritti e ad esse facevano capo altri nuclei distaccati nel territorio.

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Le principali rivendicazioni di cui si fece carico il sindacato nazionale riguardarono soprattutto i diritti delle famiglie dei caduti e dei mutilati e grazie all’impegno esercitato in tal senso si riuscì a garantire loro gli aiuti economici e morali necessari a sostenerle, ottenendo, in molti casi, anche l’avviamento dei figli orfani e dei superstiti abili al lavoro ad attività remunerative sia presso enti pubblici, quali ospizi ed ospedali, sia presso imprese private e stabilimenti industriali. Tra le tante attività realizzate dal sindacato per sostenere lo spirito dei rastrellatori, ne vogliamo ricordare una in particolare, quella dello “SMINATORE”: un giornale interamente autofinanziato che visse circa un anno, il 1947, e che contribuì notevolmente a mantenere salda

la solidarietà che ancora oggi vive tra i superstiti di quella esperienza. Esso non presentava una struttura editoriale organizzata per sezioni specifiche ed uniformi, ma era un susseguirsi di scritti diversi, che variavano per forma e tema: poesie, articoli, messaggi augurali, vignette, barzellette, commemorazioni funebri in onore dei caduti sui campi e soprattutto richieste di tipo assistenziale e sindacale. Come sostiene Spada, dovunque, il personale organizzato ha dato prova, oltre che di fraterno e di reciproco affiatamento, di consapevole disciplina, di tenacia e di attaccamento al servizio ed il coordinamento sindacale è stato sempre equilibrato, intelligente e continuo. Questo giudizio sembra confermato dal fatto che ancora oggi vengono costruiti monumenti in onore di questi lavoratori e si celebrano giornate a loro dedicate, dove sono proprio i vecchi rastrellatori a pronunciare i discorsi commemorativi, come è avvenuto, per esempio, il 15 aprile 1985 a Castel Bolognese ed il 22 giugno 1996 a Faenza.

Pagina del giornale “Lo sminatore”

Conclusioni All’inizio di questa ricerca, una delle prime domande che ci siamo posti è stata: perché degli uomini, anche molto giovani, appena usciti da un durissimo periodo di guerra, scelsero volontariamente di divenire sminatori, d’intraprendere una professione così rischiosa? Prima di documentarci in merito, avevamo ipotizzato che la ragione principale di una simile scelta fosse stata quasi esclusivamente la prospettiva di un lauto guadagno. Con nostra grande sorpresa, tale ipotesi si è però rivelata, almeno in parte, errata. La paga nell’anno ‘47 era, infatti, di 1.059,80 £ per ogni giorno lavorativo (e quindi di circa 22.500 £ mensili), suddivise in questo modo: 259,80 £ di paga base, 300 £ d’indennità di rischio, 200 £ di caro vita, 300 £ d’indennità di trasporto e, solo in un primo periodo, 10 £ in più per ogni ordigno neutralizzato, che, vista la quantità di mine presenti, doveva costituire una cospicua integrazione. La paga era leggermente più alta per i capo-squadra che, come abbiamo già detto, guadagnavano 20 £ al giorno in più rispetto ad un semplice sminatore. Il loro salario mensile era quindi di poco superiore a quello di un operaio, il quale, a differenza di questi, non era a rischio di gravi incidenti: infatti nel ’48 (solo un anno più tardi), il salario di un semplice ferroviere di sesso maschile era, nella nostra area, di circa £ 28.0009 mensili.

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Certo, che in quel periodo, anche una busta paga leggermente più alta faceva la differenza. Se consideriamo che, oltre a un salario sicuro, poi, gli sminatori godevano sia di un premio per ogni mina bonificata sia del vantaggio di un’assicurazione che copriva tutti gli infortuni sul lavoro e di una, seppur minima, pensione, la motivazione economica non è da escludere come ininfluente, anzi. Ma questi incentivi economici non ci pare spieghino del tutto perché molti uomini, tra cui anche ragazzi di giovane età, rischiassero la propria vita in questo lavoro. Tale scelta presupponeva, quindi, anche altre motivazioni, in particolare di natura morale ed ideologica. E’ significativa la diversità dell’estrazione sociale di questi lavoratori. La maggior parte erano infatti ex soldati e partigiani già con una certa esperienza sul campo, per cui non sorprende che l’utilizzassero al fine di guadagnarsi il pane, ma molti erano studenti, figli di buona famiglia, le cui motivazioni, spesso, erano più da ricercarsi negli ideali patriottici che li muovevano e in uno spiccato senso del dovere nei confronti della comunità, come testimonia Bonetti quando ricorda che «la domanda che più mi infastidiva in seguito ad un incidente occorsomi sul lavoro, era: “Ma a te, chi te l’ha fatto fare?” Molta gente faticava a capire che il pericoloso mestiere dello sminatore, in fondo in fondo l’avevamo scelto (o per lo meno io lo avevo scelto) per un ideale, per il bisogno di unirsi a tutti gli altri e fare qualcosa per la rinascita del nostro Paese che era stato sconvolto da tante rovine e tanti lutti.»3 Certo è che l’aver vissuto un periodo di guerra così lungo e cruento, aveva cambiato la mentalità della gente e creato un nuovo e più profondo sentimento di appartenenza, per cui appariva ai più evidente la necessità di un intervento immediato e collettivo che permettesse di superare la criticità del momento con il ritorno ad una quotidianità più sicura e ad una stabile ripresa dell’attività economica. A questo proposito, riportiamo il seguente brano della poesia «Lo sminatore» di Alessandro Bruni, dove appunto predominano tali motivazioni:

Disinnescaron mine di ogni tipo e forma, con volontà e con passion veemente, togliendo al suol quell’insidia immonda, perché la terra tornasse alla sua gente. […] Perirono per noi nella migliore età, son morti per l’Italia, son morti per la terra, per un miglior futuro e per la società, or non ci son più e più ci sia la guerra.10

Non stupisce poi nemmeno il fatto che, sebbene ai nostri occhi un lavoro simile appaia eroico, se non addirittura temerario, dalle interviste emerga come all’epoca la figura dello sminatore fosse sì stimata, ma sostanzialmente considerata alla pari degli altri lavoratori, al punto che, come testimonia il brano della rivista «Lo sminatore» qui sotto riportato, essi sentissero l’esigenza di difendere con forza la propria funzione ed i diritti che ritenevano derivarne:

«Ai rastrellatori tutti, nel formulare i migliori auguri per voi e i vostri cari, permettetemi di volgere il mio pensiero, che certamente è anche il vostro, a tutte le famiglie dei nostri caduti e mutilati, che trascorrono queste feste in condizioni non floride. Per loro dobbiamo lottare e fino in fondo, perché il loro nome non venga calpestato, perché i loro e i nostri diritti non vengano sabotati […] Oggi è più che mai necessaria la collaborazione di tutti, oggi più che mai dobbiamo far valere

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l’importanza del nostro lavoro. Dobbiamo aver fiducia in noi e nei nostri mezzi, ma soprattutto aver decisione nelle nostre azioni.»11

Ma assieme alla preoccupazione per la tutela dei propri diritti, emerge qui anche il forte e positivo sentimento di solidarietà che li legava quale frutto spontaneo del lavoro svolto sul campo, dove la cura reciproca veniva quotidianamente esercitata nei frequenti incidenti e nelle gravi conseguenze che ne derivavano, come quando Spada, per esempio, durante «un collaudo in un campo», mentre procedeva con la squadra «disposti su due trattori», vide esplodere quello che lo precedeva: «accidentalmente era stata lasciata indietro una mina, per di più, anticarro, così appena il trattore la pestò, saltò in aria e l’uomo [che lo conduceva] volò oltre il filare delle viti di fianco al campo. Io corsi subito in suo soccorso: lo caricai addosso e lo feci vomitare per evitarne il soffocamento, visto che si era rotto i denti; poi corsi fino alla casa del contadino, dove gli legai uno straccio al braccio ferito per fermare la fuoriuscita del sangue. Lo portammo subito a Lugo con una macchina del contadino e si salvò per pochissimo, dopo cinque trasfusioni.»1 Ma purtroppo anche la forte solidarietà risultò spesso inutile lasciando spazio solo alla paura e alla disperazione che continuarono a marcare l’esistenza di questa uomini ben oltre il tempo della loro impresa:

Intorno a noi vi erano altre mine che con trepidazione e paura mi accinsi a rastrellare, raccolsi quei giovani corpi straziati, e poi mi ritrovai a piangere e gridare.12

Bibliografia

- Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989. - Bettoli G., Faenza nella guerra dopo 50 anni di pace, Tipografia faentina, Faenza, 1994. - Billone P., La bonifica dei campi minati, Tipostampa Bolognese, Bologna, 1984; contenente

alcune pagine della rivista Lo sminatore. - Bandiera rossa, vol. 1945-46 della Biblioteca Comunale di Faenza. - Il Lamone, vol. 1945-46 della Biblioteca Comunale di Faenza. - Il piccolo, vol. 1945-46 della Biblioteca Comunale di Faenza. - Documenti dell’Archivio del comune di Faenza: manifesto I, busta 28, fascicolo l, 1945;

busta 16, fascicolo I, inserto VI, 1945 e manifesto 17, 1947; busta 16, fascicolo I, inserto VII, 1945; manifesto 63, 1946.

- Documenti dell’archivio di Spada Francesco – Faenza. - Sito internet: www.cronologia.it .

NOTE: 1 Vedi intervista a Francesco Spada in allegato. 2 Vedi intervista a Primo Palli in allegato. 3 Vedi G. Bettoli, Faenza nella guerra dopo 50 anni di pace, Tipografia faentina, Faenza, 1994, da cui abbiamo tratto l’intervista a Claudio Bonetti in allegato. 4 Informazioni tratte da l’opuscolo che veniva consegnato agli sminatori durante il corso della scuola B.C.M. 5 P. Billone, La bonifica dei campi minati, Tipostampa Bolognese, Bologna, 1984, pag.47.

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6 Per esempio a Castelbolognese, a Faenza, a Lugo, ad Alfonsine e a Cotignola si poterono individuare ed eliminare estesi sbarramenti di campi minati posti sul Senio. 7 Per un più completo quadro dei salari degli operai sminatori vedi il paragrafo “Conclusioni”. 8 A questo proposito è d’obbligo precisare che le fonti orali a cui abbiamo attinto sono in parte contraddittorie. Non è chiaro infatti se il lavoro degli sminatori potesse essere davvero condotto in piena autonomia, o se piuttosto ci fosse una qualche forma di controllo e di supervisione da parte dell’Esercito Italiano. Per Spada, infatti, l’unico referente era il Comune di Faenza da cui gli provenivano le richieste di intervento, mentre poi il lavoro veniva svolto del tutto autonomamente dalla sua sezione. Secondo Palli, invece, il tenente Salvatori continuò a mantenere un ruolo di supervisore ed anche i Carabinieri erano preventivamente informati delle richieste e delle operazioni di bonifica. Riteniamo perciò probabile che, seppur l’organizzazione e la gestione delle attività sul campo fosse svolta in piena autonomia dal gruppo di Spada, l’Esercito comunque mantenesse costantemente aggiornato lo stato dei lavori: una forma di controllo che, vista la particolarità delle operazioni, crediamo fosse indispensabile per gli organi dello Stato avere. 9 Alla fine degli anni quaranta si verificò un notevole aumento negli stipendi, dovuto al miglioramento della vita in seguito alla ripresa economica del dopoguerra, perciò ci è risultato difficile trovare valori coerenti e precisi riguardo ai salari operai. Facendo una media fra i salari italiani della seconda metà degli anni quaranta, il valore risulta all’incirca di £ 25.000, in accordo perciò con quanto da noi osservato in relazione al rapporto fra il salario di un operaio e quello di uno sminatore 10 Bruni A., “Lo sminatore”, Pisa, 20 ottobre 1977. 11 Sordi D. pubblicata nella rivista “Lo sminatore” (dicembre 1947, pagina 1). 12 Rainelli D., da “Nel campo”, pubblicata nella rivista “Lo sminatore” (novembre 1947, pagina 3).

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Interviste a) Primo Palli, sminatore faentino b) Francesco Spada, capo sezione sminatori di Faenza c) Claudio Bonetti, sminatore faentino1 1) Le condizioni "materiali" del lavoro: come si diventava sminatore? Io ho fatto un corso gratuito a Forlì che è durato quindici giorni, dopodiché ho iniziato subito a lavorare; a Forlì un ufficiale ci spiegò i diversi tipi di mine e i vari “trucchi” per bonificare le zone interessate. Infatti questo ufficiale conosceva all’in circa (studiando e immaginando il progetto dei “nemici”, i quali disponevano secondo un ordine preciso le mine, in modo tale da non rimanerne loro stessi feriti) la disposizione e il numero delle mine in ogni zona. Il gruppo nacque da un incontro fra il Comitato liberazione di Faenza, il governo alleato e il tenente Salvadori, comandante zona campi minati di Forlì, B.C.M., (bonifica campi minati). Così fui incaricato di formare un gruppo fra i cittadini faentini; radunai circa quaranta persone. Si crearono successivamente delle squadre di quattro o cinque persone con all’interno un caposquadra. Io invece avevo il ruolo di caposezione di tutta la zone di Faenza. Tutti noi partecipammo alla scuola a Forlì, dove ricevemmo una serie di lezioni sulle mine e sui metodi per disinnescarle. Nel 1944 fui condotto sulle rive del Piave per seguire un corso da “pioniere” durante il quale mi fu insegnato come fare e bonificare campi minati; questa esperienza mi portò poi, nel 1945, a seguire un corso per aspiranti sminatori, che si teneva a Forlì. Questo corso consisteva in insegnamenti teorici e prove pratiche (che venivano condotte presso la periferia forlivese). Questo corso fu in ogni caso piuttosto breve, durò infatti solamente tre settimane.Vi erano vari tipi di mine; inizialmente ci occupammo solo delle mine tedesche, delle quali avevamo iniziato ad acquisire una certa conoscenza, solo in un secondo momento ci occupammo delle mine piazzate degli alleati. I modelli di mine che più frequentemente venivano utilizzati erano: le teller (a forma di padella e rivestite in metallo) e le schuh (rivestite di legno). Le più pericolose erano però le R.M.I. 43; esse erano costruite utilizzando ben dieci chili di pentrite. Un altro grande problema era la presenza di trappole, che consistevano per lo più nell’ unire in serie varie mine, rendendo assai più ardua l’ operazione di bonifica del campo minato.

2) Qual era la collocazione sociale e professionale degli sminatori e loro provenienza? Per la maggior parte eravamo ex soldati, ma c’erano anche alcuni contadini che, magari dopo aver tentato di sminare per proprio conto i campi e rendendosi conto della pericolosità dell’azione, si iscrivevano alla scuola. Siccome la nostra squadra comprendeva la zona di Faenza e Forlì eravamo tutti provenienti da queste due città o da frazioni vicine. Fra quelli che radunai io, erano tutti volontari: studenti (come Carlo Bonetti, universitario di Bologna), contadini, soldati, un po’ di tutti i ceti sociali. 3) Come era organizzato il lavoro? Eravamo una squadra unica che copriva Faenza e la zona circostante, suddivisa a sua volta in più squadre; ogni squadra doveva coprire una determinata area in un determinato numero di giorni. Francesco Spada, riceveva dal comune indicazioni sui luoghi da bonificare, e poi suddivideva il lavoro fra le squadre a sua discrezione. Inoltre si ricevevano spesso anche richieste direttamente da contadini incontrati sul posto di lavoro che non potevano andare nei

1 Tratta da G. Bettoli, Faenza nella guerra dopo 50 anni di pace, Tipografia faentina, Faenza, 1994.

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propri campi a causa della presenza di mine. Ogni squadra doveva coprire una determinata zona in un determinato numero di giorni; stava quindi via per un certo periodo, ricevendo dall’organizzazione cibo e un posto dove alloggiare. Noi, per esempio, ci occupammo della zona di Monte Mauro, e dovevamo permettere il passaggio agli alleati creando un varco fra le mine, impiegando circa una settimana. Noi dovevamo occupare tutta la zona dalla sorgente del Senio, fino a sud di Alfonsine, nella tenuta del Conte Mangelli (vicino alla foce del Senio). Il lavoro veniva assegnato da me e dal tenente Salvatori soddisfacendo richieste sia pubbliche che private (tramite il comune). Per ogni podere veniva quindi assegnata una squadra: ogni squadra collocava tutte le mine in un unico punto (chiamato fornello) e alcune, quelle che non si era sicuri su come agire, venivano solo segnalate (puntellate con un bandiera colorata); a mezzogiorno io passavo in ogni squadra e collocavo un uomo con la bandiera rossa (in segno di pericolo) nel bordo del strada vicino al campo, poi facevamo brillare tutte le mine ammucchiate e quelle segnalate. Per quanto riguarda la disposizione delle mine, c’era una regola (non sempre rispettata) solo per le mine anticarro: venivano disposte a scacchiera ogni cinque metri. Mentre le altre non avevano quasi mai un ordine preciso. Iniziammo la sminatura quando il fronte si trovava sul Senio, infatti aveva già disposto le mine intorno alla sorgente del Senio, ma in particolare nella zone chiamata di Nessuno. Nella città, la prima parte “liberata” dagli ordigni, fu quella degli orti, per dare la possibilità di produrre verdure e ortaggi per la popolazione; questi erano collocati in gran parte sul Lamone. Dopo lo sminamento,in alcuni casi (solo possedimenti privati), veniva fatto un collaudo, cioè veniva arato il campo con trattori o mezzi simili, ricontrollando, allo stesso tempo, il lavoro eseguito. Eravamo divisi in squadre formate ognuna da quattro o al massimo cinque elementi;il capo della sezione di Faenza era Francesco Spada, del quale ricordo la grande precisione e preparazione in materia. A ogni squadra erano assegnati precisi territori da bonificare.Una volta bonificato, il terreno veniva picchettato e delimitato on bande rosse e bianche; a quel punto si radunavano tutte le mine e si cercava di disinnescarle. Nel caso in cui il disinnesco degli ordigni fosse risultato impraticabile, le mine venivano “fatte brillare”, cioè scoppiare tutte insieme.

4) Quali erano gli strumenti? Usavamo, a volte una specie di metal – detective; ma spesso le mine non erano in metallo (quelle più grandi), ma erano di legno o di catrame, così usavamo uno strumento chiamato fioretto, con il quale si tastava il terreno per rilevare l’eventuale presenza di ordigni. Le più pericolose erano le Schuh, simili a scatole di legno con duecento grammi di tritoro, poiché si vedevano male e ci si poteva rimettere un piede o una gamba, pestando un precursore che sporgeva. Una volta trovata, in base al tipo di mina c’era un diverso procedimento, comunque di solito si doveva tagliare un filo. All’inizio c’erano strumenti molto precari: il primo era il fioretto da scherma, con il quale si tastava il terreno, poi usammo il punzone (un’asta con una punta di ferro nell’estremità), con il quale si “punzecchiava” la terra per individuare gli ordigni con più precisione. Poi iniziammo ad usare il detector-mines per quelle metalliche; questo possedeva una centralina, posta nella schiena del sminatore, che emetteva un sibilo che aumentava di intensità quando lo strumento era posto sopra alla mina. Per cercare le mine utilizzavamo spunzoni di metallo, io utilizzavo un vecchio fioretto da scherma. Si doveva affondare la punta del proprio strumento in metallo nel terreno, a questo punto si doveva continuare a muovere lentamente la punta sino a che non si percepiva la presenza di un oggetto. L’attenzione e la freddezza in questi momenti era a dir poco fondamentale, anzi, meglio, vitale. Bastava infatti una pressione appena superiore ai duecento o trecento grammi per far saltare in aria le mine antiuomo più sensibili. Le mine anticarro erano meno problematiche, esse erano infatti tarate per una pressione di almeno centottanta chili.”

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5) Quali erano i rischi concreti più frequenti e pericolosi e quali le norme di sicurezza? Purtroppo a volte vi erano degli incidenti: per esempio, una volta morì uno dei miei compagni, che prese su una bomba a mano, cercando di disinnescarla, ma non fece in tempo e gli scoppiò in mano. Un’altra volta, che non eravamo ancora in possesso del metal – detective, cercavamo le mine con il fioretto, ma ci accorgemmo che ne mancava ancora una; dopo averla cercata per un bel po’ di tempo, ci siamo accorti che un tasso era salito sopra la mina e poi questa era esplosa; così abbiamo trovato il corpo distrutto dell’animale. Fortunatamente quindi l’animale ha salvato la nostra vita. Pure io sono stato colpito da una mina, che mi ha causato la perdita della vista dell’occhio sinistro. Un altro rischio era quello delle mine nelle porte della casa, collocate nelle case disabitate durante la notte; non vi era un modo per vederle, così, oltre ai civili, molti minatori rimanevano feriti ancor prima di entrare nella casa. Non vi erano norme di sicurezze, ci avevano solo insegnato i “trucchi” per evitare (il più possibile) incidenti. I rischi più grandi riguardavano le trappole che mettevano i tedeschi nelle mine: attaccavano dei fili che facevano esplodere le mine anche solo girandoci attorno. Inoltre queste venivano poste veramente ovunque: oltre che nei campi, venivano collocate all’interno delle case, nelle finestre, nelle porte, persino in un pianoforte ne abbiamo trovate! Alcune volte, nelle case, mettevano sotto alle mine delle granate, in questo modo saltava in aria completamente tutta la casa. All’inizio non c’erano norme di sicurezza, poi ogni squadra aveva un camioncino con il materiale e un infermiere. Purtroppo gli incidenti erano frequenti; in particolare ne ricordo due, nei quali ho salvato la vita a due uomini. Uno avvenne in Villa Bestini, vicino al cimitero, nei pressi di un orto; uno sminatore fu colpito da una mina in un piede proprio nel momento in cui stavo arrivando io; prontamente strappai una fettuccia bianca di stoffa che delimitava il campo, poi corsi da lui passando sopra i suoi passi segnati nel terreno, la legai alla sua gamba per bloccare la fuoriuscita di sangue; ci dirigemmo subito in ospedale (che si trovava in Corso Saffi), con una jeep di un militare, che casualmente si trovava nei paraggi. L’altro incidente avvenne durante un collaudo in un campo: avevamo due trattori, in quello davanti al mio c’era solo un uomo; accidentalmente era stata lasciata indietro una mina, per di più anticarro, così appena il carro la pestò, saltò in aria e l’uomo volò oltre il filare delle viti di fianco al campo. Io corsi subito in suo soccorso:lo caricai addosso e lo feci vomitare (per evitare un soffocamento, visto che si era rotto i denti), poi corsi fino la casa del contadino, dove gli legai uno straccio al braccio per fermare la fuoriuscita del braccio. Lo portammo subito a Lugo con una macchina del contadino; si salvò per pochissimo, dopo cinque trasfusioni. 6) Quali i guadagni, i luoghi e le ore di lavoro, la durata complessiva dello sminamento? Il guadagno preciso non lo ricordo, ma era poco più alto rispetto a quello di un comune operaio. Il grosso vantaggio era che garantiva una pensione sicura. Di solito impiegavamo circa 8 ore per sminare un campo intero. All’incirca durò 4 anni l’intero periodo di sminamento, dal 1944 al 1948. Il lavoro si è protratto dal marzo 1944 fino al 1948, asportando in Romagna un totale di 3 milioni di mine (in Italia 13 milioni). Dopo il ’48 ha continuato ad esistere il Comando genio di Bologna (sezione B.C.M.), e tutt’ora esiste, ma ovviamente con pochissimi dipendenti. Si lavorava tutti i giorni circa otto o dieci ore giornaliere. I tempi cambiavano molto in base al genere di mina. In un secondo tempo invece si stava fuori anche una settimana per sminare una zona lontana da Faenza. I guadagni non era particolarmente ben pagato, diciamo equivalente circa a quello di un impiegato. Il guadagno giornaliero era di £ 1059, 80. Il compenso giornaliero per ogni sminatore era di £. 1059,80 suddivise in questo modo: £ 259,80 come paga di base (inizialmente era di sole £ 222, ma venne poi aumentata); £ 300 come indennità di rischio;

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£ 200 di caro vita; £ 300 come indennità di trasporto; £ 10 per ogni ordigno neutralizzato; vi erano inoltre £ 20 giornaliere in più per i capo-squadra. Il lunedì e la domenica erano giorni festivi ed erano pagati; il pranzo durante le operazioni di sminamento era a carico del padrone del podere nel quale si svolgeva il lavoro. 7) Si verificarono casi di sminamento appositamente fatto dai minatori per creare un nuovo lavoro e quindi avere maggior guadagno? No, io non ho mai saputo di niente di simile. Poteva capitare che alcuni lavorassero privatamente (e quindi illegalmente), ma non che appositamente collocassero mine. No, io non ho mai sentito di niente di simile. Accadeva che alcuni sminatori facevano il lavoro privatamente, illegalmente, magari di domenica, quando non c’era da lavorare, per esempio in casa di contadini. Spesso queste operazioni erano le più pericolose, perché eseguite con fretta e, a volte, con strumenti non molto adeguati. No, ma nei primi tempi, dopo aver acquisito una certa confidenza con le mine, molti di noi peccarono di imprudenza, non considerando tutti i rischi del mestiere, o mettendosi a lavorare in proprio come “liberi professionisti”. Questi liberi professionisti chiedevano compensi minori, ma spesso erano imprudenti e frettolosi nel loro lavoro, per questo molti di essi si infortunarono sul lavoro. 8) Quali erano le condizioni "psicologiche" e quali furono le motivazioni della scelta? Io ho scelto questo lavoro perché mi garantiva uno stipendio fisso; bisogna considerare la grande disoccupazione di quel periodo: la maggior parte della gente non poteva lavorare sempre perché non c’era lavoro continuativo per tutti), ma mi garantiva una protezione: nel caso avessi avuto un infortunio, avrei avuto una pensione sicura per tutta la vita ( una specie di assicurazione). Mentre noi facciamo fatica a immaginare i motivi della scelta di una lavoro così rischioso, ma per noi era molto più normale: provenivamo tutti da una guerra, avevamo visto di tutto, avevamo avuto per qualche anno la morte sempre davanti agli occhi. Il nostro lavoro era quindi un lavoro come qualsiasi altro, non eravamo visti come eroi, né avevamo privilegi nei confronti degli altri cittadini. La maggior parte della gente sceglieva questo lavoro perché era un problema che agli occhi di tutti risultava enorme e quindi da risolvere. Molti eravamo giovani così facevamo ciò con entusiasmo, credendo a dei valori e ideali. La domanda che più mi infastidiva in seguito ad un incidente occorsomi sul lavoro, era: “Ma a te, chi te l’ha fatto fare?”. Molta gente faticava a capire che il pericoloso mestiere dello sminatore, in fondo in fondo l’avevamo scelto (o per lo meno io lo avevo scelto) per un ideale, per il bisogno di unirsi a tutti gli altri e fare qualcosa per la rinascita del nostro Paese che era stato sconvolto da tante rovine e tanti lutti. 9) Quale il risultato psicologico ed esistenziale di tale esperienza? Credo di essere stato cambiato più dalla guerra che da questo lavoro; dopotutto il mio lavoro era una necessità civile della città poiché ne dipendeva la vita di migliaia di cittadini e anche il lavoro di questi (in particolare di contadini). Per me è stata certamente una bella esperienza, anche se di grande responsabilità. 10) Come eravate visti e considerati nella società e nel privato?

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La mia famiglia era sì molto preoccupata per me, però la situazione generale della guerra aveva ormai abituato tutta la gente a ogni tipo di sventura, certamente molto diverso rispetto a quello che sarebbe al giorno d’oggi. A casa mia erano sì preoccupati, ma la guerra aveva preparato tutta la gente un po’ a tutto. 11) Cosa ha fatto dopo la fine dello sminamento? È stato facile trovare lavoro? Finita la guerra ho trovato lavoro alla Cisa di Faenza come operaio, anche come altri di noi. Dopo ho fatto un concorso da capotreno e dopo 9 mesi di corsi, ho iniziato a lavorare come capo treno a Bologna; per me quindi non è stato un problema trovare successivamente il lavoro.