Super flumina - Quadriclavio · fondevano, creavano piano improvvisi ed altrettanto improvvisi...

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Mauro Biagiotti Super flumina «suuuperfluminaa….» L’attacco dei bassi veniva corretto dal maestro Oznerol: «No! No! NO!... Gli accenti. State attenti agli accenti: questo è un ritmo-non ritmo. Si fa così: SÙuuper FlÙminaa… Ci vuole un po’ di colore.» « SÙuuper FlÙminaa…» «Ecco, così va bene.» L’11 gennaio del 2006, tra i bassi che tentavano il ritmo-non ritmo, esordiva Oruam Ittoigaib, balbettando le prime note da corista, senza la minima idea della melodia, confuso da quella fluviale magia corale…. «…Ba-aa-by-lòo-nis…. il-lic sé-di-mus et…» «Bambini, fate silenzio! Oggi studiamo a memoria una poesia di Quasimodo. Ripetete: E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore» La classe rispondeva in coro«E CO-ME PO-TE-VA-MO NOI CAN-TA-RE / CON IL PIE-DE STRA-NIE-RO SOPRA IL CUO-RE.» « No! No! NO!... Non siamo mica allo stadio! Ci vuole un po’ di sentimento.» «E come poteeeevaamo noooi cantaaare / con il piede stranieeeero sopra il cuooooore.» «Adesso non esageriamo.Mi prendete in giro?» «NO, SIGNORA MAESTRA!», rispondeva la classe in coro, e poi: «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore.» «Ecco, così va bene. » Nel gennaio del 1961 – non potremmo dire che fosse proprio l’11, ma nemmeno escluderlo, e comunque era caduta la prima neve. Sulla lavagna c’era il titolo del tema da fare a casa: LA PRIMA NEVE – la classe IV A delle elementari “Viscardi” affrontava i versi – «da mandare a memoria, mi raccomando, ragazzi» – del famoso poeta vincitore del prestigioso premio Nobel, Salvatore Quasimodo. «Pss, Erasec… che premio ha vinto questo qua?», chiedeva Oruam al compagno davanti, Erasec, il cervellone della classe. «Il Nobel» «Cos’è, come l’Oscar?» «Mi pare. Lo danno per la pace.» Prima che la maestra urlasse «piantala Oruam!», Ouram s’era già dato del cretino da solo: “se la maestra ha detto prestigioso, che ti frega?” «Andiamo avanti: fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento. Qui vedete, ragazzi, gli stranieri sono i tedeschi, i morti sono gli italiani trucidati dalla barbarie nazista. Di quali anni stiamo parlando?» «Mi ha detto mio papà che dal ’43 al ’45 l’Italia era occupata dai nazisti che ammazzavano i partigiani, aiutati dai fascisti», rispondeva a raffica Erasec con la mano alzata. «Bravo, Erasec!» Braaaavo, Eraaaaaaasec”, ripeteva mentalmente in coro il resto della classe, storcendo il naso mentale nel disprezzo del secchione ruffiano. «Avanti: ripetete.» «fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento» «d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio» « d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio» «crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto,» «crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto,» «Ehi, Erasec, ma quanto è lunga?»

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Mauro Biagiotti Super flumina «suuuperfluminaa….» L’attacco dei bassi veniva corretto dal maestro Oznerol: «No! No! NO!... Gli accenti. State attenti agli accenti: questo è un ritmo-non ritmo. Si fa così: SÙuuper FlÙminaa… Ci vuole un po’ di colore.» « SÙuuper FlÙminaa…» «Ecco, così va bene.» L’11 gennaio del 2006, tra i bassi che tentavano il ritmo-non ritmo, esordiva Oruam Ittoigaib, balbettando le prime note da corista, senza la minima idea della melodia, confuso da quella fluviale magia corale…. «…Ba-aa-by-lòo-nis…. il-lic sé-di-mus et…» «Bambini, fate silenzio! Oggi studiamo a memoria una poesia di Quasimodo. Ripetete: E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore» La classe rispondeva in coro«E CO-ME PO-TE-VA-MO NOI CAN-TA-RE / CON IL PIE-DE STRA-NIE-RO SOPRA IL CUO-RE.» « No! No! NO!... Non siamo mica allo stadio! Ci vuole un po’ di sentimento.» «E come poteeeevaamo noooi cantaaare / con il piede stranieeeero sopra il cuooooore.» «Adesso non esageriamo.Mi prendete in giro?» «NO, SIGNORA MAESTRA!», rispondeva la classe in coro, e poi: «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore.» «Ecco, così va bene. » Nel gennaio del 1961 – non potremmo dire che fosse proprio l’11, ma nemmeno escluderlo, e comunque era caduta la prima neve. Sulla lavagna c’era il titolo del tema da fare a casa: LA PRIMA NEVE – la classe IV A delle elementari “Viscardi” affrontava i versi – «da mandare a memoria, mi raccomando, ragazzi» – del famoso poeta vincitore del prestigioso premio Nobel, Salvatore Quasimodo. «Pss, Erasec… che premio ha vinto questo qua?», chiedeva Oruam al compagno davanti, Erasec, il cervellone della classe. «Il Nobel» «Cos’è, come l’Oscar?» «Mi pare. Lo danno per la pace.» Prima che la maestra urlasse «piantala Oruam!», Ouram s’era già dato del cretino da solo: “se la maestra ha detto prestigioso, che ti frega?” «Andiamo avanti: fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento. Qui vedete, ragazzi, gli stranieri sono i tedeschi, i morti sono gli italiani trucidati dalla barbarie nazista. Di quali anni stiamo parlando?» «Mi ha detto mio papà che dal ’43 al ’45 l’Italia era occupata dai nazisti che ammazzavano i partigiani, aiutati dai fascisti», rispondeva a raffica Erasec con la mano alzata. «Bravo, Erasec!» “Braaaavo, Eraaaaaaasec”, ripeteva mentalmente in coro il resto della classe, storcendo il naso mentale nel disprezzo del secchione ruffiano. «Avanti: ripetete.» «fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento» «d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio» « d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio» «crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto,» «crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto,» «Ehi, Erasec, ma quanto è lunga?»

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«Basta, Oruam! Lo sai cosa fa la Minore!» La Minore era la maestra Rosa Minore. In caso di indisciplina, e il suo confine della disciplina era molto, molto stretto, usava il righello nero per punire il colpevole a bacchettate sulle mani: sulle palme, in caso di mancanza lieve, sulle nocche, per i casi più gravi. Esisteva anche la bacchettata in testa, che scattava improvvisa, senza particolari cerimonie. In classe non volava una mosca, tranne la voce di Oruam, che era un moscone: aveva un timbro talmente basso che più parlava sottovoce e peggio era, per il rimbombo. Questo privilegio si traduceva in bacchettate. Era un segno, ma dovevano passare quarantatre anni prima che Oruam sapesse decifrarlo. «anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento» «anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste evento» «Cretini! Vento, no evento!» «anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento» «Bene! Per domani, la voglio tutta a memoria!» Non era cattiva, la Minore, e i ragazzi le volevamo bene. Alta, mora, magra. Sono passati più di quarant’anni, ma dalla foto ricordo vi fulmina ancora col suo sguardo. «suspendimusorganananos…» «Ehi, ehi, ehi… dove correte? Com’è che avete accelerato così il ritmo?» Oznerol si parava davanti alla vociferazione. Entrata sbagliata. Per la verità, Oruam che se ne stava coll’orecchio incollato al canto del vicino come un pappagallo al karaoke, non sapeva bene dove fosse l’errore. Ma tant’è. «Suu-spen-dimus orrrr-ga-na nos-stra…» «Ecco, che ci vuole? Cercate di seguirmi», guidava Oznerol. Salmo 137: Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevamo deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!» Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Quando, studiando per l’esame di Italiano III, capitò ad Ouram d’imbattersi in questa citazione, per la gioia gli venne quasi un accidente: la Minore! Non li aveva più recitati quei versi dal gennaio del ’61, eppure dopo dodic’anni gl’erano rimasti stampati in testa come una preghiera: Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese… Alla sorpresa, seguirono due riflessioni su Quasimodo. Nell’ordine: • Quasimodo è un copione (qui emerge il lato moralistico-tignoso); • beh, no: pregevole, se non geniale, il parallelo schiavitù degli ebrei/oppressione nazista; andare

a prendere poi un canto sacro e riciclarlo in funzione civile, eppur sempre sacrale… Bravo Salvatore (qui emerge il lato creativo).

Ecco perché, passati altri trentratre anni, Oruam trasalì, allorché un canto in Si Minore lo riportò indietro di secoli, lungo i fiumi della Mesopotamia, nello splendore dell’infanzia.

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Antonio Scognamiglio La prima volta che incontrai un coro La prima volta che incontrai un coro era l’agosto del 1982. Mi trovavo per caso, o quasi per caso, a Pian del Voglio, sull’Appennino, da dove sarei partito pochi giorni dopo con mia moglie per un avventuroso giro d’Italia in Alfasud. Era un bel pomeriggio d’estate, in una di quelle giornate in cui il sole tramonta molto, molto tardi, e noi si passeggiava per il paesino in festa per la sagra (se ben ricordo) di San Luigi. Sulla piazzetta si esibiva uno scalcagnato complessino (Gli Scoiattoli, se la memoria non m’inganna) di quattro elementi che eseguiva con paesana diligenza gustosi pezzi di liscio, inoltrandosi di tanto in tanto in accenni di proto-rock italiano, con il bassista che conosceva solo una sequenza tonica-dominante che reiterava con composta serietà. Dopo che gli Scoiattoli ebbero sgomberato il palco dalla loro strumentazione, apparve un gruppetto di una ventina di persone vestite in modo uniforme, seppure senza una vera uniforme. Tutti avevano l’aria di persone normalissime. Si disposero ad arco e diressero gli sguardi su un sacerdote abbastanza anziano, comparso nel frattempo, che in lunga tonaca nera fronteggiava il palco. Nella piazza si fece silenzio. Ad un cenno del prete, i coristi emisero un sommesso accordo maggiore. Pausa di silenzio. Un altro cenno, un po’ più deciso, e iniziò un canto. Bellissimo. Non ricordo cosa fosse, ma non importa. Era una canzone popolare, forse antica, in un dialetto padano di quelli che Fo utilizza per il suo grammelot. Le voci si inseguivano gioiosamente, si incastravano, si sovrapponevano e si fondevano, creavano piano improvvisi ed altrettanto improvvisi fortissimo che davano alla musica colore e profondità. E loro si divertivano. Si leggeva chiaramente sui loro volti il piacere di fare quello che stavano facendo. Io e Claudia seguimmo rapiti tutto il concerto applaudendo di slancio alla fine di ogni brano. Dopo il bis, andammo verso il sacerdote-direttore per complimentarci. Arrivammo alle sue spalle e io dissi “siete bravissimi”, tendendo la mano per stringere la sua quando si fosse voltato. Lui, che non ci aveva mai visti prima, si voltò verso di noi, ma quasi senza guardarci in faccia, e senza dire niente ci prese a braccetto, me da una parte e Claudia dall’altra, e si incamminò, portandoci con sé. Pochi passi dopo parlò, con assoluta naturalezza: “Son tutti dei bravi ragazzi, ci piace cantare, e ci piace soprattutto stare insieme e far del casino. Il coro è bello, ma il momento migliore, ricordatevi, è il dopo-coro.” (il pronome ci di ci piace era naturalmente riferito alla terza persona plurale). Arrivammo ad una grande tavolata. Il prete ci indicò una panca. Ci sedemmo. Prima di allontanarsi ci disse “Adesso si sfogheranno a cantare le cose che non possono cantare in parrocchia. Non fateci troppo caso. Dio li perdona”. E andò a sedersi ad un tavolo vicino. In pochi minuti fummo circondati dai coristi e dai loro amici. Tutti ci sorridevano tranquilli e ci servirono con abbondanza vino rosso, pane e salame. Durante la cena, partiva ora da un tavolo ora da un altro una voce solitaria che intonava un canto, ed era il via per una stupenda esecuzione corale autogestita di canzonacce popolari oscene, dove i doppi sensi si sprecavano ed ogni testo inneggiava gioiosamente ad una libera ed intensa vita sessuale. Il vino, il salame, la compagnia ed i canti creavano un’atmosfera incredibile. Il ricordo di quella serata, ma in particolare delle sensazioni che provai, è ancora vivo. Solo tredici anni più tardi, in modo del tutto casuale, entrai anch’io a far parte di un coro. Lo dirigeva mio figlio. Ma questa è un’altra storia.

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Mauro Biagiotti Note note Fra Do e La c’era stata buona armonia fino al giorno in cui Do disse: «Sai La, ho una mezza idea di entrare in un coro di musica sacra.» Una mezza idea, significava che Do aveva già telefonato alla segretaria del coro, fatto il provino, versato la prima rata d’iscrizione, forse addirittura partecipato a due/tre prove. Ma non era questo il punto. La lo conosceva: allo stato nascente o già eseguite che fossero le mezze idee di Do, meglio non obiettare, a meno di non volersi intruppare in una piacevole polemica senza quartiere, con recriminazioni su di lei, sui figli, sui suoceri e sui parenti fino al quarto grado. «Musica sacra?» La perplessità significava che La non riusciva a decodificare il secondo fine. Era questo il punto. Beh, per la verità nemmeno il primo: musica sacra? Do aveva buttato là la mezza frase mentre procedevano adagio/allegro ma non troppo in coda verso il mare sulla loro Croma grigia. I figli, dietro, erano impegnati in questioni fraterne: Si (otto anni) e Re (dieci) s’accordavano sui giochi da fare in spiaggia. Nell’ordine: racchettoni, pallavolo, calcio balilla. Fa (quattro anni e mezzo) frignava: «E io? Sempre voi due! Io mai.» «Fa non rompere» rispondevano in coro Si e Re. «Ma’, pa’: Si e Re non mi fanno giocare» (ricorso in appello). «Fa, ma tu sei piccina: prepara la pappa per Cicciabella (n.d.r.: la bambola grassa, l’ultima moda delle bambole)» «Ecco, Fa: preeepaaara la paaappa per Cicciabella», la canzonavano i fratelli. «Pa’, fermati, voglio scendere: ho la pipì» (rappresaglia) «Sì, Fa. Puoi tenerla fino all’autogrill. Un quarto d’ora?» «No» (rappresaglia a tappeto) «Va be’, mi fermo» Nell’atto di accostare, Do aveva buttato là la mezza frase. La, lì per lì, c’aveva fatto mezzo caso. Espletate le funzioni igienico-materne. Rimessasi in moto l’auto e la colonna. Ristabilito lo status quo, La s’era concentrata sulla anomalia: «Non sapevo che t’interessasse la musica sacra. Non vai nemmeno in chiesa.» «Tanto per cantare, La.» La, tra sé : “È sempre stato un po’ strano”, e poi al marito: «Ma perché non facciamo insieme un corso di rock-and-roll, che mi piacerebbe tanto ballarlo. Ma sai: ci vuole un compagno fisso, affiatato. Vuoi che vada a cercarlo fuori casa?» (minaccia di rappresaglia) «Ma La: a me ballare non mi piace. Sono un manico di scopa. Cantare, invece, sapessi com’è bello» (qui La sospettò che il marito avesse già dato corso alla mezza idea). «Contento te.» La passione di Do per la musica non dipendeva dai nomi, che non erano quelli veri, ma affettuosi abbreviativi come s’usa tra innamorati: «Ti voglio bene, La» (La = Lavinia) «Come ti voglio bene? Non si dice Ti amo? Eh, Do?» (Do = Domenico) «Ti voglio bene, Ti amo: è la stessa cosa.» «Stai scherzando, vero?» «Perché: che differenza ci sarebbe?» «Lascia stare. Cretino, Domenico: è la stessa cosa» Do non era abituato a prendere le cose di petto. Quello che non capiva, lo lasciava cadere e non si può dire, in tutta onestà, che avesse risolto l’equazione della moglie. E poi, per lui cretino non era l’offesa peggiore. Era meglio di stupido, perché il cretino puoi anche farlo per scherzo, mentre se sei stupido, sei stupido e non c’è rimedio.

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Così Domenico e Lavinia s’erano accorciati in Do e La trascinando nell’atrofizzazione, man mano che venivano al mondo, pure i figli, i quali risultavano essere all’anagrafe: Renato, Simone e Fabiola. In casa, dopo pochi giorni erano stati uniformati al pentagramma di famiglia. Quando Lavinia sentì echeggiare per la casa i primi gorgheggi del marito, pensò: “Cos’è questa lagna?” e glielo disse: «Do, non credo alle mie orecchie: cos’è questa lagna?» Domenico pensò: “Ignorante!”, ma non glielo disse e con una risposta di tipo tecnico, tesa volutamente ad ignorare il sarcasmo bensì incapace, lo sapeva, di spegnere le perplessità laviniesche, e atta semmai di rinfocolarle, si limitò a dire: «Locus iste di Bruckner.» Tutto si chiarì la sera della prima. Lavinia e sua sorella (Licinia) aspettavano sedute tra il pubblico che affollava la chiesa. Non avevano mai sentito una roba del genere. Il primo coro, le Orsoline di Maria Immacolata, era composto per metà di suore. Aveva eseguito Bach, Mendelssohn, il Rossini sacro. Sembrava di essere alla messa. Lavinia non riusciva a comprendere da dove provenisse quella improvvisa, imprevista, sospetta passione mistica domenicana. Il secondo coro, le Stelle Alpine, passò senza danni, anzi con qualche delizia montana (“Lassùùùùùùù, sulle montaaaagne / amor, ho coooolto / questi fiiiiiiiior per teeeeee). Fu il terzo coro, Four Keys, a squarciare il velo. Al posto delle diafane suorine o dei robusti alpini, si pararono davanti all’incredula Lavina tre file di bellezze in nero, che pareva d’essere alle selezioni di Miss Italia. Lavinia non vide nemmeno gli uomini, che stavano dietro e tra i quali si sgolava Domenico, tanto era occupata nel vivisezionare la schiera delle rivali canterine. «Domenico! Tu domani passi nel coro delle Orsoline, vero?» Fu il primo e unico commento all’esibizione del marito. «Lavinia, che dici? Le coriste non sono belle perché sono belle. Sono belle perché cantano. È una bellezza interiore.» «Smettila, Do. Guarda che quella è una bellezza che si vede. Quella interiore io non l’ho mai vista.» Lavinia s’era convinta d’aver scoperto il secondo fine del marito e non saremo certo noi a contraddirla. Del primo fine, non s’era nemmeno data pensiero. Eppure era il più importante e non saremo certo noi a svelarlo: lo conosce chi canta in un coro.

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Cetty Barberio Un segno del destino…… Mi destai già perfettamente "carburato", senza neppure avvertire la necessità di stropicciarmi gli occhi o sbadigliare... e lo specchio mi restituì un'immagine già perfettamente, quanto inspiegabilmente, distesa. In quel mattino, per noi così denso d'aspettative e promesse, potevo eravamo tutti iperattivi, elettrizzati e freneticamente impegnati nei preparativi per il debutto previsto per la sera stessa. Avremmo finalmente avuto un pubblico vero, tutto nostro! I sacrifici fatti spremendo le nostre pur vuote tasche per poter acquistare gli strumenti e la stanchezza per le lunghe, estenuanti ore spese a provare e riprovare i brani dei geni della musica di tutti i tempi trovavano, alla fine, una giustificazione plausibile in quel desiderio comune e ricco d’ansia di una platea, che apprezzasse e godesse dei nostri sforzi appassionati e al contempo ci rendesse la meritata soddisfazione dei consensi, degli apprezzamenti e degli applausi. L'ondeggiamento ritmico e lieve da "Andante - poco mosso" del pavimento non rendeva necessario l'ancoraggio dei flauti e degli altri fiati; non si rese necessario almeno fino a quando, nel pomeriggio, un violento, improvviso rullio non inclinò troppo la parete alla mia destra facendo rotolare fin sul lato opposto quanto vi era stato appoggiato. Il caos che ne seguì creò non poco scompiglio nella sala dei ricevimenti. I ragazzi si precipitarono a raccogliere quanto si era disordinatamente sparso in terra mentre io mi catapultavo fuori sul ponte per cercare di capire cosa stesse accadendo e la violenta folata che m'investì in pieno mi avvertì che stavamo per infilarci in una tempesta paurosa!!! Lo scricchiolio sinistro delle giunture della nave non lasciava presagire nulla di buono. Era già quasi buio quando il grido straziante della sirena diede l'allarme all'intero natante. Diedi un ultimo, fugace sguardo alle percussioni mestamente ammucchiate intorno al pianoforte ed ad esso ora inutilmente assicurate grazie ad una spessa fune... ed un attimo dopo mi ritrovai sul ponte, tra le grida dei passeggeri spaventati a morte e l'urlo agghiacciante del vento che ci schiaffeggiava i volti con sferzate d'acqua gelida. Tra l'agitazione generale qualcuno dell'equipaggio gridò, appena udibile nel frastuono della tempesta, "TUTTI ALLE SCIALUPPE!!!". Le donne ed i più giovani s'imbarcarono per primi e le scialuppe furono calate in acqua tra lo scricchiolio dei paranchi che dovevano sopportarne il gran peso. Per tutta la notte combattemmo col vento, l'acqua, il buio e, non ultimo, il freddo, fino a che la spossatezza ed il sonno non ebbero il sopravvento su noi tutti che, stremati, ci arrendemmo all’oblio……….. Amorevolmente cullato dalle onde ed udendo appena il leggero sciabordio della risacca tentai di aprire gli occhi, desistendo quando la piena luce del sole mi abbagliò. Dovetti attendere qualche istante prima di poter dare un'occhiata al di là dello scafo. La sabbia fine e bianca della spiaggia mi diede il benvenuto assieme alla conferma che ci trovavamo proprio sulla terraferma! Strapazzai un po’ i compagni più restii a tornare fra i vivi, quindi, pur a fatica, ci tirammo su…... A cinque giorni dal naufragio avevamo costruito dei ripari di fortuna, ci nutrivamo dei frutti che la vegetazione rigogliosa elargiva e da qualche pesce che fiocine rudimentali ci consentivano di rubare all'oceano. Non lo sapevamo ancora, ma gli altri superstiti del naufragio erano approdati su altre isolette di quello che era un piccolo arcipelago. Lì eravamo tutti e soli i componenti della nostra orchestra... un'orchestra senza strumenti! La nostra vita era la musica e quella che la natura poteva fornirci era troppo scarna e rudimentale per chi, come noi, era abituato ad una complessità di suoni… ora solisti, ora sapientemente miscelati, appena udibili prima e maestosi poi in un crescendo travolgente. Tentavamo di mantenere vivo il ricordo della musicalità dei nostri strumenti, avvolti dalla tristezza causata dalla mancanza e dalla nostalgia di quel legno pregiato, di quell'ottone lucido di quelle corde tese e vibranti.

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A svegliarci, il mattino seguente, ci pensò il richiamo di Marco, uno dei nostri violoncelli, che gridava d'aver avvistato qualcosa che, fluttuando leggero, s'avvicinava alla riva... Immergendoci fino alle ginocchia facemmo a gara per recuperare quella che, ad uno sguardo più attento, sembrava essere una valigia. Irriconoscibile, per aver trascorso tanto tempo in acqua pur avendoci galleggiato sopra, si rivelò essere uno dei nostri bagagli... e più esattamente quello che conteneva i nostri numerosi spartiti! Distribuitili a caso mi accorsi che ognuno di noi, rileggendoli, li ripassava nella mente ed a voce bassa. Quella notte, come del resto molti di noi, mi addormentai con uno di essi in mano e non so più se lo sognai o ci pensai durante il dormiveglia... fatto sta che mi destai aprendo di colpo gli occhi con in mente un'idea precisa ... Chiamai a raccolta i miei compagni e spiegai loro la mia idea per riappropriarci della “nostra” musica, pur mutilati dei nostri strumenti: se avessimo utilizzato al loro posto le nostre voci…????!!!!! Il consenso generale, dopo un attimo appena di riflessione, confermò le mie aspettative… Votammo per quale brano avremmo eseguito per primo e, spartiti alla mano, iniziammo a provare ognuno cantando, in base alle caratteristiche della propria voce, ciò che leggevamo sulla partitura di ogni strumento. Riuscimmo così a ricomporre l'orchestra senza usare gli strumenti costruiti dall'uomo ma gli strumenti che l'uomo ha a disposizione, naturalmente e sin dalla nascita... le nostre corde vocali!. Nei mesi che seguirono diventammo sempre più consapevoli delle nostre capacità e riuscimmo ad ottenere risultati sempre più soddisfacenti, ma altrettanta consapevolezza avevamo nel sapere che probabilmente avremmo dovuto tenere tutto quello solo per noi……. Dopo un periodo indefinibile (avevamo rinunciato a tenere il conto dei giorni), un mattino avvertimmo d'un tratto un ronzio lontano, insolito.... tutti insieme ci lanciammo l’un l’altro uno sguardo interrogativo, che aveva paura di crearsi false illusioni... ma non ci volle molto a capire che quello che stava avvicinandosi era un velivolo (forse fuori rotta). Senza perder tempo e senza bisogno di pronunciar parola demmo subito fuoco alle sterpaglie preparate sulla spiaggia già da lungo tempo e proprio nella speranza di una simile eventualità!!!!. Due giorni dopo fummo raggiunti dai soccorritori che ci imbarcarono e ci consentirono il ritorno a casa; ci dissero di aver recuperato altri naufraghi sopravvissuti su altre isole relativamente vicine alla nostra. Dopo alcuni giorni dal nostro rientro, necessari per recuperare forze ed abitudini, ci riunimmo nel locale che usavamo per le prove d'orchestra (ora desolatamente vuoto per la mancanza degli strumenti, inabissatisi ed irrimediabilmente perduti) per discutere del nostro futuro artistico. L'assicurazione dell'Armatore ci avrebbe rifuso del valore degli strumenti musicali, affondati con la nave, ma nessuno di noi si sentì di proporre il riacquisto dell'attrezzatura orchestrale, forse perchè adesso ognuno si sentiva più propenso a partecipare con i soli propri mezzi ad un nuovo tipo di orchestra, un'orchestra alleggerita da ingombranti e pesanti strumenti da trasportare ogni volta al proprio seguito, soggetti a rigature, ammaccature e, ahimè, ad affondare miseramente nell’oceano, un'orchestra capace di provare e far provare emozioni forti, antiche e coinvolgenti, un'orchestra diversa... "un CORO"! La musica d’orchestra è capace di dare forti emozioni e grandi gioie, ma ci eravamo resi conto che cantarla ci coinvolgeva di più: suoni, parole, fiato, suggestioni, emozioni…. tutto un fluttuare intorno a ciascuno di noi, avvolgente fuori e dentro, un far vibrare le proprie corde dell’anima traendo sentimenti più intimi e profondi. Lo strumento può accompagnare, ma non sostituire la voce, e chissà se la parola stessa ”coro” ha una assonanza casual,e o piuttosto non rappresenti qualcosa di più vicino, alla parola “CUORE”?!

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Antonio Scognamiglio Dies irae Naturalmente qui dentro nessuno saprà della mia morte. Ogni tanto, semplicemente, qualcuno non si presenta più a tavola, o a messa, o al tavolo della briscola, e nessuno, per una convenzione non scritta ma assolutamente rispettata, chiede ad alta voce che fine abbia fatto. Quanto ai suicidi, credo che tutti vengano tranquillamente classificati come decessi naturali o incidenti. Un vecchio un po’ suonato può ben dimenticare la quantità esatta di pillole di sonnifero da ingerire, o dimenticarsi di averne appena ingerito una identica quantità pochi secondi prima. Anche la Bernardi, che l’anno scorso è atterrata nel cortile dalla finestra del terzo piano, è ufficialmente scivolata in seguito ad un malore. L’hanno portata via alla svelta, senza svegliare nessuno dal sonnellino pomeridiano (ha avuto il buon gusto di avere l’incidente verso le quattordici e quaranta). Quindi anche la mia scomparsa non desterà sorpresa né curiosità. E non si disturberanno di certo a farmi una lavanda gastrica autoptica per capire perché la mattina del 16 novembre non mi sarò svegliato più. E’ possibile, da vivi, decidere lucidamente e serenamente di uccidersi senza che questo abbia l’inevitabile sapore della fuga e della sconfitta? L’idea, sarò sincero, me l’aveva suggerita quel film americano, Harold e Maude. E lei, per altro, era una pimpante ragazzina di ottant’anni. Io il 15 novembre di quest’anno ne compirò novanta. Non mi lamento, in linea di massima posso dire di stare bene, di essere in discreta forma. Però non mi diverto più. Sento la fatica prevalere in modo soverchiante sul piacere. Avverto ancora qualche profumo inebriante, colgo qui e là qualche immagine emozionante, qualche sapore intenso, ma la maggior parte della mia vita è ormai solo fatica. E sento che la mia curiosità intellettuale si sta spegnendo in modo irreversibile. Per cui, come Maude, ho previsto un cocktail farmacologico (da allungare con un bicchierino di whisky di qualità superiore) per brindare al mio prossimo compleanno, prima di coricarmi. Il Requiem di Mozart mi ha sempre sconvolto, per l’intensità, la dolcezza, la forza, la profondità, la bellezza sensuale. Le parti scritte dal buon Süssmeyr sono pure graziose, ma quelle scritte personalmente da Mozart sono immense. E la mia passione è il Dies irae. Soprattutto le otto battute iniziali. L’attacco è un semplicissimo accordo di re minore. Ne si può ottenere uno uguale con un barré vuoto, ovvero stendendo il dito indice sulla tastiera, sul decimo tasto di una chitarra, pizzicando la corda bassa e i tre cantini. Solo i soprani accennano ad una melodia cambiando nota. Ma il secondo accordo è sconvolgente. Soprani, contralti e tenori urlano un la settima, mentre i bassi insistono incredibilmente su quel re. Dio mio, che meraviglia. Che squarcio nel cielo, che esplosione. E’ questo che voglio per me. Non è stato facile reclutare i coristi. Qui a Villa San Rocco qualsiasi attività collettiva che esuli dalla partita a briscola in quattro viene vista con sospetto, come possibile nucleo di sovversione. Padre Bruno veglia coscienziosamente sulla nostra condotta. Eppure sono riuscito a convincerlo che l’esperimento che volevo tentare non era pericoloso. In fondo sono un vecchio musicista. E mi ha concesso persino l’uso della cappella per le prove. E’ stato più difficile trovare i cantori. La maggior parte dei miei compagni sono sordi, o quasi. E converrete che è un grosso limite. Alcuni sono irrecuperabilmente stonati. Altri sono tanto svaniti da non poter mandare a memoria neppure otto battute. Però alla fine ce l’ho fatta. Ho selezionato otto persone equamente suddivise in due per sezione..

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L’esecuzione sarà sui generis. Innanzitutto sarà a cappella. Immagino cosa state pensando: il Requiem senza orchestra è come il jazz senza contrabbasso. Ma devo arrangiarmi con quello che ho. E poi, vi assicuro che l’effetto dirompente di quel secondo accordo resta intatto anche senza accompagnamento strumentale. Poi ho dovuto abbassare tutto di un tono, per motivi che potrete facilmente intuire. Certo, in do minore è un po’ meno incisivo, ma nessuno ci farà caso. Ho due mesi di tempo. Sono riuscito a strappare un impegno regolare di tre prove settimanali, per cui ho in tutto ventiquattro prove. Per otto battute dovrebbero essere sufficienti anche qui. L’Andreina e la Sgarzi, negli acuti, fanno fatica ed accentuano la coloritura vagamente ovina del timbro, ma nel complesso sono due soprani efficaci, considerata l’età (la Sgarzi ha appena compiuto ottantasette anni, anche se ne dimostra una quindicina in meno). Per i contralti non c’è problema. Ho trovato due belle voci mature nella Vanni e nella Spagnoli. Quest’ultima mi ha raccontato di aver fatto parte di un coro piuttosto prestigioso solo fino a trent’anni fa. Trovare i due tenori è stata un’impresa. Comunque, cantando in do minore, posso avvalermi di Giuseppe, mio tradizionale compagno al tavolo da gioco (io conto i punti degli avversari e lui tiene dietro ai carichi e alle briscole), e del dottor Benassi, che ha un timbro niente male. I bassi sono il punto di forza. Saguatti e Francesco. Scusate la disomogeneità della presentazione, ma in questo luogo ognuno è conosciuto o con il nome di battesimo o con il cognome. Mai con entrambi. La Spagnoli, che ha una qualche familiarità con la musica, darà le quattro note ai coristi prendendole dall’armonium della cappella. E darà anche gli attacchi, con le braccia magrissime e le dita inanellate. Le prove procedono bene. Nonostante il ridotto numero di coristi, capita a volte che qualcuno sia assente, per momentanea indisposizione o perché un qualche figlio lo ha sequestrato per qualche ora. Però si va avanti. E quando proviamo, nel silenzio riverberato della cappella i miei otto ragazzi esplodono dal nulla nel loro Dies in do minore, e poi cantano quello straziante irae con i bassi che calcano quel do insistito sotto il sol settima, io provo tutte le volte un piccolo brivido. Le mie istruzioni sono chiare. La prima domenica mattina che io non mi presentassi alla messa, dopo che padre Bruno avrà pronunciato le parole “La messa è finita, andate in pace”, i miei otto cantori si alzeranno in piedi e, al comando della Spagnoli, intoneranno le prime otto battute del Dies irae. E’ sabato 15 novembre. Mi sento rilassato e tranquillo. La mia piccola corale è ormai pronta al debutto. Sono soddisfatto. Oggi non andrò a giocare a briscola. Me ne starò in camera ad ascoltare i notturni di Chopin leggendo Xenia di Montale, che piaceva tanto ad Angela, mia moglie. E anche a me. La mia camera è in ordine. Troveranno tutto in ordine. Anche me, perfettamente disteso sul letto, con il copriletto verde oro, gli occhiali appoggiati sul comodino sopra al libro, la luce spenta. Mi sento come quando, da giovane, dopo una lunga giornata di lavoro andavo finalmente a letto, stanco ma con la sensazione di non aver lasciato cose in sospeso. E dormivo di gusto. Requiem aeterna dona mihi, Domine. Alla messa di domenica 16 novembre c’erano, come sempre, quasi tutti gli ospiti della Casa. Ne mancava, in particolare, uno. Questa assenza era un segnale per la signora Spagnoli e per altri sette ospiti. Al termine della messa, tutti e otto si sono alzati e si sono radunati presso l’armonium. La signora Spagnoli ha suonato un accordo poi, dopo un breve silenzio, ad un cenno delle sue braccia è iniziato un breve canto di straordinaria bellezza. “Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla”. Sulla seconda parola, “irae”, padre Bruno ed alcuni ospiti presenti hanno avvertito un piccolo brivido.

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Francesco Settanni

Aveva ragione mio nonno

Brand New Bononia, 7 Aprile 2043 Nonno Alfio aveva previsto tutto. Lo diceva sempre, lui : “le Corporations si stanno mangiando il mondo, e quando lo avranno digerito, quello che cacheranno non avrà più niente di umano !” Ai suoi tempi nonno Alfio era stato un uomo brillante, colto, divertente, aveva girato il mondo in lungo e in largo, ed era un piacere per tutti starlo a sentire. A casa nostra c’era sempre un gran viavai di gente, venivano a trovarci i suoi colleghi di lavoro ed i suoi amici, e le loro famiglie. Ma poi, negli ultimi anni, questa storia del governo occulto del mondo lo aveva preso sempre di più, era diventata un’ossessione : non parlava d’altro. Così, un po’ alla volta, le visite a casa si diradarono. Anche gli amici più cari cominciarono, educatamente, ad evitarlo. Fino a che, anche in famiglia nessuno era più disposto ad ascoltarlo… Persino nonna Livia, che lo adorava, e gli era stata accanto per più di sessant’anni, diceva “Oddio, ecco che ricomincia”, e filava in giardino a curare i suoi fiori… L’unico a cui piaceva stare ad ascoltare il nonno ero io. Ero un bambino allora, e i suoi racconti di viaggio in paesi lontani erano magnifici. Eppoi, questa storia che il mondo non era governato da quelli che si vedevano alla televisione, ma da altri, che nessuno conosceva, mi intrigava un sacco… Passavo con lui i miei pomeriggi dopo la scuola e, durante l’estate del 1995 - la sua ultima estate - fummo inseparabili. Sono passati quasi cinquant’anni da quel pomeriggio di settembre in cui, dopo avermi amorevolmente ammonito sulle scelte fondamentali della vita, nonno Alfio morì. Da allora, un po’ per volta, le sue previsioni cominciarono a dimostrarsi esatte. Era il 1997, quando la Monsanto brevettò le prime piante geneticamente modificate. Ve lo ricordate? Quelle piante avevano una caratteristica speciale : producevano semi sterili. Quello che è successo dopo, lo sappiamo : da decenni nessuno al mondo è più libero di produrre autonomamente i semi per il proprio campo; se vuoi seminare, devi comprare gli unici semi fertili, quelli brevettati Monsanto. E questo fu solo l’inizio. Oggi, per ognuno di noi è normale comprare l’aria da respirare dalla Oxygen Worldwide. Del resto, hanno il brevetto per l’ossigenazione dell’atmosfera, è tutto legale, in fondo…o no? E quanti anni sono che compriamo le parole da dire dalla Word Universal ? Gli aggettivi sono diventati talmente cari che ci si esprime solo per concetti essenziali, oramai. I poveri, poi, stanno zitti e basta. E nei circoli clandestini che frequento assiduamente da qualche anno – dove si parla e si scrive a sbafo - si sussurra che la Divine Media Conglomerated stia lavorando per mettere sotto brevetto le facoltà di pensiero… Così, visto che vivo una buona parte della mia vita in clandestinità, da qualche tempo ho deciso di dar retta all’ultimo consiglio che nonno Alfio mi ha voluto dare, prima di abbandonare definitivamente il suo corpo ormai esausto : “Rammenta, mi disse, che l’anima dell’uomo non sarà sconfitta, fino a che saprà coltivare in sé un’arte !” E’ per questo motivo che, sfidando il pericolo delle retate della Global Security Corporation, mi riunisco ogni mercoledì in un luogo segreto con una trentina di pazzi sovversivi come me. E sapete cosa facciamo ? Cantiamo !

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Francesco Settanni

Uscita di sicurezza Non ricordo come sono arrivato alla stazione di polizia. Veramente, non ricordo nemmeno il mio nome, ora come ora. Al tenente, qui, non importa un fico dei miei problemi, comunque. Lui vuole solamente chiudere la grana entro la fine del turno, così può tornare da Betty. Le ha promesso che stasera non avrebbe fatto tardi, e sarebbero andati al cinema, insieme. E con Betty non si scherza. L’ultima volta che le ha telefonato per dirle ‘Betty tesoro scusami non è colpa mia, il capitano ha detto che devo andare nel South Bronx stanotte, è una faccenda grossa, sai…’ lei gli ha tenuto il muso per un mese. E’ una tosta, Betty. Strano, però : non so chi sono, ma riesco a leggere i pensieri di questo poliziotto di mezza età come se fossero scritti a caratteri grandi su un foglio grande…è proprio strano ! “Non lo so cosa sono queste macchie sui pantaloni – gi dico - non mi ricordo niente… …quale coltello ? E chi è Mary Jane ??” Accidenti, adesso è proprio imbufalito, è convinto che lo sto prendendo in giro… Vedo chiaramente quello che sta pensando : per colpa di questo testadicazzosenzadocumenti la mia Betty non me la darà per un altro mese! Per colpa di questo figliodiputtana Betty mi farà dormire di nuovo su quel cazzo di divano! Adesso gli faccio vedere io come si interrogano i furbacchioni al Quattordicesimo Distretto ! “Tenente stia calmo – gli dico mentre mi trascina verso la saletta sul retro – forse ho preso una botta in testa, non mi ricordo un accidente! Davvero ! E poi Betty capirà, in fondo sta con un poliziotto, ormai lo sa come vanno queste cose, no ?” (Oddio, come mi è uscita questa cosa su Betty !?) Il tenente William J. Burglar – si chiama così, non chiedetemi come lo so : lo so e basta - si volta di scatto, e premendo la canna della sua 38 Special sul mio zigomo sinistro, ringhia : “Cosa sai tu di Betty, eh ? Cosa cazzo sai della mia Betty, eh ??? “Betty Bluefield – dice una soave vocetta da archivio computerizzato attraverso la mia bocca – villetta con giardino sulla Kensington, 36 anni, vegetariana, occhi blu, due gran tette, si scopa il macellaio sulla Quindicesima, ecco quello che so”. Un lampo accecante, poi il buio totale. Neanche il tempo di avere paura. E finalmente mi sveglio, marcio di sudore, avvinghiato alle lenzuola del mio letto. Un giorno o l’altro, uno di questi incubi mi farà secco. L’altra settimana il dottor Simpson, dopo che gliene ho raccontati un bel po’, ha emesso la sua sentenza :

1. cambiare lavoro 2. palestra almeno due volte alla settimana 3. trovarmi una fidanzata fissa 4. basta cetrioli

La fa facile, Simpson ! Me lo trova lui, un altro lavoro ? E chi la sopporta una fidanzata fissa ? Per la palestra, poi, non ho né tempo, né voglia. Con i cetrioli ho chiuso, ma sento che non basterà… Mi servirebbe una boccata d’aria, un’uscita di sicurezza, come quelle per gli incendi, sapete… Che ne so, magari studiare canto….In fondo, mi ha sempre fatto bene, cantare…

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Dora Calabrese Presto con fuoco Il marciapiede era rovente, nel tempo d’estate, quando l’afa si fa insopportabile e il desiderio anche. Le scarpe erano state sempre la sua ossessione. Si può capire molto dalle scarpe che si indossano. Si può arrivare persino a capire il carattere e quanto pulsa la passione e se è tenuta al guinzaglio. Come se si capissero gli esseri umani osservandone semplicemente i piedi. Scarpe a punta…mmmmhhhh, carattere insidioso. Scarpe rosse, ohh ohhh, sensualità che si spirigiona. Clark, oddiomio, casual improvvisato, poca lettura di sé. Così, lo incontrò per le sue scarpe. Di cuoio, color beige, anonime, punta squadrata, come la sua vita. Lacci! Oddio! I lacci…segno di costrizione, ingabbiamento. Quasi a voler stringere le emozioni, a volerle contenere attraverso quei lacci. Lei, invece…infradito! Il piede messo alla berlina, ai commenti del mondo. Non ne aveva mai temuto le conseguenze. E dunque la messa a nudo dell’emozione, a partire dal piede. Si stupì del fatto che, nonostante i lacci della sua scarpa, spinse lo sguardo oltre il ginocchio, e su e su fino agli occhi. E, stranamente, questi non corrispondevano alla stretta del piede. I suoi occhi erano dissociati. Come se appartenessero ad altra persona. In quegli occhi vi lesse tutto. Un presto con fuoco. Il restringersi dell’inchiostro in quel breve spazio della pagina, a voler comprimere il tempo, farlo stare tutto tra quelle righe esitanti e quegli spazi irregolari. Quasi a voler sottrarre l’unicità musicale di un tempo ritmico che appartiene solo a Chopin, quell’unica scrittura che si esprime attraverso la responsabilità attribuita ad una croma, ad uno svolazzo di pausa. Una specie di calligrafia delle passioni che, via via scivola verso un Andante très expressif, quasi calmato, morendo Jusqu’à la fin. Fu facile strappargli un caffè. Ristretto, come la sua vita. In lui vedeva un pianoforte, un sistema di leve e martelletti complicato e sofisticato, con i tasti bianchi e neri. Leggeva l’espressione un acciaccatura improvvisa che presto rientra nelle righe di un pentagramma già scritto. Si emozionò nello scoprire che al di là delle scarpe è racchiuso un mondo nuovo, diverso, tutto da scoprire e si convinse che le sue infradito erano demodé, fuori posto dove la complessità delle passioni spinge, a volte, a portare stivali anche d’estate. Così, degustando lentamente il suo caffè, pensò che era maturo il tempo per acquistare un paio di scarpe nuove, alla faccia dello spreco. Entrò in un negozio e, approfittando dei saldi consueti per quella stagione, ne acquistò tre paia: un paio di stivaletti, non troppo alti, ma sufficienti per contenere almeno la caviglia; un paio di scarpe rosse con il tacco, perché…non si sa mai; un paio di sandali, per non perdere l’abitudine a viversi completamente.

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Simona Zanichelli Letterina di Natale ai miei compagni di coro Natale dell’anno del Signore, di Vita e Musica Duemilasei Ancora Natale. E ancora terra devastata dalla guerra, e ancora fame e violenza che mietono raccolti bambini. Quanti uomini, ancora, sono quelli della pietra e della fionda. Noi lontani dalla fame e dalla violenza, gravati dal peso di faticose inutili cose e da una fretta che consuma e sbriciola le nostre esistenze, ci aggiriamo resi miopi dalle troppe luci e frastornati dai troppi rumori cercando di ritrovare il Natale nelle vetrine che sottilmente invitano ad abbordabili felicità. Che importa se non si vede più il cielo fra gli angusti corridoi di vuoto che separano i tetti delle case, che importa se nessuno parte più per seguire la stella. Stella? Ma quale stella? Povera cometa, come fare e vederti…. Ci sono tante luci attorno a noi, tante insegne e neon e semafori e fari di macchine e finestre e vetrine e decorazioni che vogliono parlare di festa e allegria. E poi, che diamine, siamo così impegnati, ma così impegnati, ma quante cose abbiamo da fare. Come ci fa paura il buio. Come ci fa paura il silenzio. Buio e silenzio che si fanno pausa e pensiero. Tempo che si fa attenzione a chi si ama e ricordo di chi è ormai solo nostalgia. Tempo che si fa riflessione su ciò che è davvero importante. Forse non a caso nel presepe tutto è buio e silenzio. Un microcosmo immobile, gesti congelati e come sospesi in un’attesa, i volti assorti. E’ tutto lì. Concetti di vita trasformati in pochi centimetri di terracotta. Nel presepe c’è chi fa. E sono tutti personaggi immobili, i gesti fermi in un’attività precisa, statica. C’è l’acquaiolo che spartisce l’acqua con mestoli minuti, il pescatore con la piccola rete di corda, la donnina che impasta il pane, il vecchio che spacca la legna, e i loro visi sono seri, gli occhi rivolti verso il basso. Devono fare. Devono lavorare. Non hanno tempo per le sciocchezze. Non hanno orecchie per richiami che sottilmente si insinuino nella loro quotidianità e la stravolgano. E nel presepe c’è chi non fa nulla, perché non ha nulla da fare, perché non sa fare nulla, perché è stanco e non ce la fa più: pastori sfiniti dal troppo andare, mendicanti, bambini, vecchi, i più poveri vestiti di stracci. E sono le figure in movimento, piccoli piedi e vesti mosse come da un passo di vento, i volti protesi verso l’alto, gli occhi che cercano di forare il buio, visi attenti e come meravigliati e tesi nella percezione di qualcosa… una luce, un messaggio, una voce, ma che cos’è? Cosa può essere mai che rompe il silenzio e l’oscurità di una notte qualsiasi dove tutto è come sempre, le pecore che dormono e un povero fuoco a cui riscaldarsi, e nulla da fare se non attendere un altro giorno? Dimmi, cielo buio, di’ a chi non ha lavoro né casa né vino da dividere con gli amici, di’ a chi è povero e solo e vecchio e ammalato, di’ a chi ha solo te a cui chiedere conforto e compagnia, dimmi, cosa succede mai? C’è qualcosa lassù. C’è una stella cometa nel cielo. E nell’aria fina e fredda la sua luce si spande come un’eco incontenibile, un richiamo ancestrale che, dalla notte dei tempi in cui la luce era ancora un bene promesso e lontano, chiama con una forza sottesa ed irresistibile. Che cosa incredibile. Meravigliosa. Che evento. Chissà mai dove ci porterà. Ora finalmente sapremo dove andare, sapremo qual è la risposta ai perché della morte, della sofferenza, della solitudine, dei tradimenti. Parlami, stella chiara e lucente, guarda come sono teso al tuo richiamo, dimmi dove devo andare, mostrami la strada e io ti seguirò…pensano i pastori e i mendicanti i bambini i vecchi i più poveri vestiti

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di stracci e i loro occhi sono pieni di speranza e l’argilla delle piccole statue ancora ridiventa carne e sangue. E i gesti si sciolgono in un passo che diventa fede e fiducia. Dall’alto la stella si fa voce che canta, rubando la voce ai soprani alle allodole al vento fra le canne. Pace in terra agli uomini di buona volontà… Come sarebbe a dire la pace? Tutto qui? Dopo tanto silenzio, tanto buio, tanta strada, tanta attesa? Ma cara stella cometa, io volevo…io pensavo che tu ci donassi ricchezza, e potere e onori, e salute, e soddisfazioni e le mille felicità che non ho mai avuto…pensano i pastori e i mendicanti i bambini i vecchi i più poveri vestiti di stracci. Ma la stella non si commuove, non si corrompe. Et pax in terra hominibus bonae voluntatis. Null’altro. Un Dio che nasce si fa luce e promessa di pace, ciò che si chiede per i morti in quello splenda ad essi la luce perpetua e riposino in pace, quasi che vita e morte fossero la medesima realtà, entrambe bisognose di un’unica valenza interpretativa. Oh Dio, come è tutto chiaro, ed insieme lontano e oscuro. E inarrivabile. Forse perché così semplice, e bambino. Forse basterebbe che solo per qualche attimo, solo per il tempo di un respiro di un bacio dello scorgere una stella cadente si potessero spegnere tutte le luci della città, tutte le insegne e neon e semafori e fari di macchine e finestre e vetrine e decorazioni che vogliono parlare di festa e allegria. Forse basterebbe che solo per qualche attimo, solo per il tempo di un respiro di un bacio dello scorgere una stella cadente smettessimo di correre, di fare, fare e fare. Nel buio e nella quiete potremmo allora prenderci per mano ed insieme alzare gli occhi al cielo, su fino a quella notte profonda ed infinita, e fermi, tranquilli, senza fretta e rumore insieme guardare ed attendere: tutti insieme, unica umanità ammalata d’amore e solitudine e spaventata dalla morte e dalla sofferenza, forti delle stesse gioie e segnata dai medesimi dolori, grande nel suo essere specchio divino e fragile del destino di ciò che è umano. Così stretti insieme, forse davvero potremmo vedere la stella. E sentendo le campane che si sciolgono tutte insieme rimbalzando sui tetti antichi e rossi di questa nostra città fatta di acqua e terra, vedendo angeli non più dubitati e stanchi che spargono cesti di fiori bianchi e promesse di pace potremmo guardarci finalmente negli occhi e ridendo dire oh sì amico mio, fratello mio, amato mio, mondo intero mio, non vedi la stella? Non senti le campane?E’ Natale. E’ ancora Natale. Sì, è ancora Natale. Ancora una volta. Nonostante tutto. C’è ancora speranza. C’è ancora amore. C’è ancora un futuro di compassione e redenzione. C’è ancora strada da percorrere, e tempo da dividere. E allegria e fiori di ciliegio e giorni di primavera. E commozioni improvvise, libri da amare e notti di parole e sogni. E progetti ed entusiasmi, sete di giustizia e voglia di un mondo migliore. E con voi musica da cantare insieme e quell’emozione che corre lungo le vene quando tutte le voci si fanno un unico sussurro, leggero e perfetto, o un’onda potente che pare poter frangere la volta di ciò che è per arrivare in alto, sempre più in alto, fino a quel cielo buono tante volte tradito ma che pulsa più del cuore più del sangue più della vita stessa. Ciao tutti i soprani e contralti dududu, se sapeste come sono belle le donne che cantano. Ciao tenori e bassi, vorrei stare un po’ di più con voi, e parlare e conoscervi. Ciao Lorenzo con cui in certi attimi di musica mi sento un unico sentire ed emozione. Com’è bello cantare con voi. Stare con voi. Ma soprattutto com’è bello camminare con voi, e con voi seguire la stella. Con amore, buon Natale Simona per destino e con grande gioia contralto della Corale Quadriclavio

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Simona Zanichelli

L’ottavo giorno

In principio era il cielo e la terra, e poi la luce che generò i giorni.

Nel primo fu un firmamento chiamato cielo; ed un altro giorno dal firmamento del mare nacque la

terra.

Ed in essa mise piante e semi e ogni frutto secondo la propria specie, e quel cielo nero lo dipinse di

ogni stella e luminaria che fosse luce e poesia per quella terra.

E poi popolò i firmamenti chiamati cielo e mare di ogni essere vivente: e di nuovo fu sera, e di

nuovo fu mattina.

Nella terra in attesa mise altri esseri, ancora ognuno secondo la propria specie.

E di nessuna specie, ma solo a sua immagine creò un essere che fosse re e dominasse sopra tutto e

tutti.

Di nuovo fu sera, e di nuovo fu mattina: ed era il sesto giorno.

Nel nuovo spazio di tempo circoscritto dal sole dalla luna cessò ogni opera e contemplò tutto

quello che aveva fatto: ed era il settimo giorno.

Fu sul fare di quella nuova sera, in quell’ora in cui le stelle già si avvertono fra l’ultima luce del

sole, che avvertì un bisogno di qualcosa, un inconcepibile senso di incompletezza che non poteva

esistere perché egli era perfezione e tutto ciò che compiutamente può esistere ed è.

Eppure egli che era sapienza e quindi non poteva non capire, nel cuore che non aveva perché egli

stesso era il cuore capì cosa mancava, e qual’era il suo nome, e sospirò.

Sospirò forte ed il cielo conobbe i temporali, i mari le tempeste e le madri i cuccioli sbranati dalle

belve: la notte non schiariva, perpetuata ai limiti del tempo da quella sottilissima pena.

Ma tutto, ormai, era compiuto e aveva cominciato ad essere.

Egli che era l’eternità prese in sé a dipanare il trascorrere di quel tempo senza nome e continuò a

svolgere chiarori e oscurità, raccolti di orzo e nebbie incollate alla terra, giallo di anemoni e neve su

terre bruciate dal gelo.

Intanto il suo re designato srotolava il suo cammino, e si faceva uomo.

Dagli incendi dei boschi rubò il fuoco e ne fece calore e compagnia, sparse il suo seme e ne raccolse

prìncipi e spighe, dai mari raccolse conchiglie che colmò di acqua per la sua sete.

Nell’oscurità sentiva il respiro affamato delle belve e lo strisciare dei grandi serpenti da incubo ma

imparava a non avere paura, perché lui era il re ed era stato chiamato a dominarli e vincerli.

E di nuovo furono chiarori di quel tempo che non si compiva, dove tutto era come sospeso.

Quale momento fu, in quello scorrere negato dalla storia in cui tutto era passato e futuro, che il re

predestinato divenne uomo? In quale amaca di millenni o istanti si alzò sulle gambe, alto e vincitore

sulla terra e sulla materia, e guardò su, su fino a quel cielo stellato e infinito e si sentì parte vitale e

alfa e omega, cuore e pensiero di lui e unica cosa con lui?

E in quale istante di quel giorno avvertì il suo stesso senso di vuoto, quel bisogno di qualcosa che

non aveva nome?

Ma che importa saperlo.

Quello che è certo è che da quel preciso istante il re incominciò a cercare quel qualcosa che non

sapeva.

Lo cercò nelle pozzanghere che riflettevano cielo e immagini.

Lo cercò sul limitare confuso dei pensieri che si affacciavano sul sonno e confondevano il reale.

Lo cercò nel silenzio che silenzio non era.

E fu lì, nel ritmo forte del suo cuore che batteva e nel vento che frusciava fra le cime degli alberi,

nel bramito dei cervi in amore, nel frangersi delle onde sugli scogli e nel tuono che si avvicinava

improvviso, nel canto alto degli uccelli di prima mattina e nel pianto acuto dei bambini spaventati

che gli sembrò di trovare qualcosa.

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Confuso, indistinto, ma sì, c’era.

E incominciò ad aprire la bocca e cercare di riprodurre quei suoni, e poi li mischiò, e cercò di

cambiarli e ne inventò di nuovi, prima esitanti e rochi poi sempre più precisi.

E si sentì così bene, ma così bene come fino ad allora non era stato mai.

E per la prima volta ebbe voglia di saltare e ballare, e quella sera intorno al fuoco raccontò a tutti

cosa aveva trovato e tutti lo ascoltarono e poi presi da quella sua stessa frenesia incominciarono ad

imitarlo, dapprima anche loro esitanti e rochi poi sempre più e decisi e forti e sicuri.

E il fuoco doveva ancora spegnersi che già c’era chi faceva nitriti di cavalli e il battere della pioggia

sulle pietre e il frinire delle cicale e il basso ansito del bufalo.

Voci che finalmente sapevano di sofferenza ed allegria, che erano passione e solitudine, e sapore di

donna e dolcezza di miele e sangue di parto, e nostalgia e speranza e figlio tenero stretto fra le

braccia e paura della morte, e cuore che batte mano che accarezza occhi che cercano la cima più

alta, e mare da navigare e sofferenza e tutto.

Sì, che meraviglia, così, proprio così.

Prima piano, poi più veloce, poi piano ancora, quasi un fare l’amore.

…una melodia semplice prendeva sempre più consistenza e vita propria.

E tutti, ma proprio tutti, ebbero voglia di saltare e di ballare, e si sentirono così bene, ma così bene

come fino ad allora non erano stati mai.

L’uomo era preso da una confusione, da un’emozione così forte che non capiva più niente, se non

solo che sì, era esattamente quello che riempiva il suo bisogno di quel qualcosa che gli mancava, di

quello che al tutto mancava, di quello che a lui mancava.

Lo chiamerò cantare, pensò.

Egli lo sentì salire fino a lui, caldo e sottile e struggente come fumo alla sera, e finalmente

contemplò la sua opera che naturalmente altro non poteva essere che perfetta, con l’essere di

nessuna specie fatto a sua immagine che in sé aveva la sua capacità di creare.

Si versò una coppa di un qualcosa di forte e buonissimo, si accese un grosso sigaro che là sulla

terra divenne un nebbione denso e fumoso, e pensò che sì, si sentiva proprio da Dio.

E fu l’ottavo giorno.

E tutti gli altri a venire.

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Francesco Settanni

Fuga in Re minore

Il coro è schierato, l’orchestra è pronta. I solisti attendono in piedi, immobili sul proscenio. Finalmente, dopo una pausa che sembra non finire mai, il Maestro fa il suo ingresso. L’applauso si trasforma in un boato, e nessuno sembra notare che il frac lo copre, ma certamente non lo veste. Come sempre, il nodo del papillon ha qualcosa di surreale nella sua asimmetria, e la giacca gli pende dalle spalle come un sacco senza forma. Ma a nessuno importa. La gente ha imparato a non dar peso al suo aspetto poco ortodosso: persino i critici più malevoli, che avevano bollato il suo modo di vestire come uno studiato vezzo d’artista, alla fine si sono ricreduti. Il pubblico ha finito per riconoscere in lui un interprete formidabile, capace di portare il suo gruppo di giovani musicisti fino alle vette più impervie, e poi ancora oltre, nel cielo più alto, negli spazi aperti…. C’è grande attesa per il concerto di questa sera. Molti giornali e televisioni ne parlano da settimane: coloro che sono riusciti ad avere un posto per questa Prima si sentono - e certamente sono - dei privilegiati. Questa sera, per la prima volta, il Maestro dirigerà la sinfonia forse più difficile che mai sia stata scritta per coro ed orchestra, nota soprattutto per la celebre fuga: dopo un inizio sommesso e solenne, la fuga man mano si espande, acquista velocità e infine, preso un respiro profondo, si avventa come un uragano, sfidando gli esecutori ai limiti delle capacità umane. Diversi maestri di fama internazionale hanno tralasciato, nelle loro lunghe e celebrate carriere, di affrontare questo Everest dell’esecuzione musicale. Qualcuno ha dichiarato di non amare particolarmente quest’opera. Altri hanno persino evitato di rispondere a domande sull’argomento. In verità, non c’è musicista al mondo cui non tremino i polsi dinanzi a quelle altezze vertiginose, nel timore di cadere nell’abisso. I pochi che hanno affrontato la sfida hanno riferito di come sia difficile dirigere e mantenere uniti coro ed orchestra, nel furioso crescendo del finale della fuga. Di quei pochi, coloro che sono arrivati in fondo senza danni evidenti si possono contare sulle dita di una mano. Di questi ultimi, nessuno ha voluto provare una seconda volta. Dopo il lungo applauso, nella grande sala si fa silenzio. Un silenzio assoluto, carico di sottile, trepidante tensione. Quanto a me, sto immobile nell’ultima fila, schierato tra i miei colleghi, indistinguibile nella massa imponente e silenziosa del coro. Quanto a me, si tratta adesso di affrontare la battaglia decisiva, quella in cui in palio è la mia stessa vita. Sono passate forse due ore dal momento in cui, con un brivido freddo lungo la schiena ho letto, sul referto clinico, la mia condanna. Eppure, non ho paura. Mi sento come un legionario che se ne sta in piedi, schierato con i suoi commilitoni. In attesa, di fronte alle orde dei barbari germanici…. Il campo di battaglia è vasto, aperto di fronte a noi. Fa freddo. Il vento ci sferza, gettandoci sul viso un nevischio gelido e secco. Le narici dei cavalli da guerra fumano ritmicamente. I grandi zoccoli battono, pesanti, sul terreno gelato. In lontananza, come un’onda d’oceano, si distingue la massa grigia e minacciosa dei guerrieri che dovremo affrontare. Uomini forti, avvezzi alla fatica, che non conoscono la paura. Non è la nostra prima battaglia, questa. Quanti scontri, quanto sangue, quante privazioni ci hanno preparati a questo momento. Tra poco i corni suoneranno, e allora si scatenerà l’inferno…. Ecco, il Maestro solleva la bacchetta. Ecco, il Comandante alza al cielo la daga. Siamo pronti. Ancora una volta, affronteremo il Drago. Ancora una volta, ci batteremo con onore.

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Mauro Biagiotti e Francesco Settanni Le avventure di un CD (Corista Depresso) Il Corista Depresso canta nel coro da due anni. Due anni? Beh, facciamo un anno e mezzo. In questo anno e mezzo sono successe molte cose. Ci sono state tre trasferte all’estero. La prima volta il coro è partito per Amburgo, ma ben presto la diritta via era smarrita. Mentre il pullman s’aggirava tra monti e valli d’or, il CD ha preso d’un tratto coscienza di una cosa importante : si era innamorato di una DVD (Donna Veramente Donna !) che cantava nel coro. Il problema era ovvio : quando mai si è visto che una DVD abbia ceduto alla corte di un CD ? Ma lui non ci ha pensato neanche un attimo : si sa, l’amore è cieco! Così, perduto il suo già scarso senso del ridicolo, si è lanciato in un furioso corteggiamento. Oddio, furioso : tutto è relativo…. Quanto coraggio ha dovuto mettere assieme per fare il suo primo tentativo di avvicinamento ! Erano in un bar sperduto tra le montagne austriache, esausti dopo ore di vana ricerca della strada per Amburgo. Il CD, vista la splendida DVD che si avvicinava al banco, già affollatissimo di coristi, si è lanciato : «Posso offrirti un cappuccino?» le ha detto con voce grottescamente arrochita, mentre il suo volto avvampava verso il lilla intergalattico. «Certo, grazie!» gli ha risposto la DVD con voce limpida e cristallina, «intanto vado un attimo alla toilette», e si è avviata col suo passo aggraziato e sicuro, da pantera. Il CD, con un lampo di folle determinazione negli occhi, si è gettato nella mischia per raggiungere la rubiconda barista austriaca . Passando davanti alla fila di colleghi di coro con una faccia tosta mai vista, si è parato davanti alla transalpina, e ha ordinato con tono ultimativo : «Zwei Kappuccinen, Schnell!» L’austroungarica non ha fatto una piega. Si è limitata a schiacciare un pulsante rosso su una macchinetta che sembrava una obliteratrice per i biglietti del treno. Il CD vide un liquido color fango uscire da una fessura della caffetteriera-obliteratrice, e finire in due tazze bianco-sporco. Era teso come una balestra, sudava freddo, ma non c’era più tempo per riflettere : la DVD era già dietro di lui ! Come un automa, il CD afferrò le due tazze e le posò su un tavolino di formica, mentre una voce che sembrava provenire dalla sua cistifellea mugolava : «Sediamoci, vuoi?» In un primo momento, il CD ha pensato che le sue papille gustative fossero state prosciugate dall’amore, ma l’espressione della DVD non lasciava dubbi: era proprio una ciofeca. Mentre valutava se il cappuccino austriaco fosse l’approccio migliore, la comitiva risaliva sul pullman, itinerante a casaccio, finché l’autista non si è fermato davanti al cartello «STRASBURGO» e si è rifiutato di proseguire: «Cantate qui, − ha detto – è lo stesso: finisce in -burgo». Così il coro ha cantato a Strasburgo. E alla fine è andato tutto bene. Tutto bene? Per la verità, il viaggio si è allungato un po’ troppo e, siccome non c’era più tempo per le soste, qualche corista che doveva fumare, si è fumato addosso. La seconda volta il coro è partito per Vienna. Per stare tranquilli, si è scelto il treno, ma la ferrovia era interrotta e i coristi sono stati costretti a scendere a Ravenna. Il CD ne ha approfittato per offrire alla sua DVD una piadina alla Nutella. «Cantate qui, − ha detto il capostazione – è lo stesso: finisce in -enna». Così il coro ha cantato a Ravenna ed è stato un successo inaspettato, perché la corale ha intonato polke, mazurke e l’immortale Romagna mia. L’ultimo viaggio avrebbe dovuto portarli a Liverpool, ma siccome l’aereo è stato dirottato dai Lupi Grigi, sono atterrati ad Istanbul. «Cantate qui, − hanno detto i dirottatori – è lo stesso: finisce in -ul». Il CD ha provato a far notare l’equivoco lessicale.

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«Scusi, signor Lupo Grigio, guardi che c’è un equivoco. La pronuncia è la stessa, ma si scrive in modo div…» Il Lupo Grigio non gli ha fatto finire la frase e lo ha picchiato in testa con il calcio della pistola. Cinque volte. Con la testa bendata e dolorante, il CD ha offerto dei falafel alla sua DVD, gentilmente respinti da questa, non tanto per l’impressione delle bende inzuppate di sangue (beh, anche per questo), ma perché non sapeva che accidenti fossero i falafel. Mentre cantavano ad Istanbul, il CD pensava: “1 mi ama, 2 mi vuole bene 3 prova simpatia 4 siamo amici 5 non mi sopporta?”. Gli istanbulesi hanno apprezzato la musica, ma hanno preteso qualche modifica ai testi. Per esempio, non Ehre sei Gott, ma Ehre sei Allah, oppure non Locus iste, ma Sulle piste. Il concerto è andato bene. Bene? Beh, insomma.

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Luciana Panzeri Musica e canti della mia dolce primavera.

Sono tanti i canti e le musiche che affollano la mia mente e il mio cuore e il raccontarli li rende molto meno intensi di quanto io li senta nel mio animo; risvegliano ricordi nostalgici e a volte malinconici, per ciò che non esiste più o che non sono più in grado di percepire. Abitavo in una frazioncina di Lecco, a metà via di una collinetta che domina il lago; noi, purtroppo, non eravamo contadini, ma l’ambiente che ci circondava era quello rurale. Al mattino, la prima musica che mi svegliava era il canto dei galli, che riecheggiava di pollaio in pollaio; mi faceva sorridere e mi bastava mettere la testa sotto il cuscino per riprendere a sognare. A volte, invece di riaddormentarmi, mi ponevo in ascolto e seguivo il susseguirsi delle diverse voci: l’abbaiare festoso dei cani, che indicava il risveglio dei contadini, il pigolare dei pulcini e il chiocciare amorevole delle loro mamme; poco lontano, il muggito dapprima gentile e poi prepotente delle mucche chiedeva aiuto perché fossero munte e fosse portato loro il pasto mattutino; sentivo poi le voci dei contadini che le chiamavano per nome (Bionda, Mora, Bigia) e le tranquillizzavano. Seguiva il suono dei carretti sull’acciottolato accompagnato dal calpestio degli zoccoli dei muli, che li trainavano verso i campi vicini. Qualche contadino si attardava ad affilare le lame delle falci con un martellare sicuro e continuo (ma gradevole) sul ferro dell’attrezzo, appoggiato su un cuneo, tenuto ben saldo da una fenditura di un grosso sasso. Più tardi, la falce fu sostituita dal tagliaerba a motore: la macchina era avviata con un motorino azionato da una cordicella e cantava scoppiettando per parecchio tempo, prima che il motore si risvegliasse. Il tagliaerba era manovrato a mano dal contadino, che lo conduceva a piedi, con passo cadenzato; lo seguiva una fila di bambini, davanti i più grandicelli e dietro i più piccoli, che tentavano di tenere lo stesso passo del contadino. Al tramonto, l’erba tagliata, che durante il giorno era rimasta stesa al sole ad asciugare, veniva raccolta in filari e, a sera, in grossi mucchi, che erano la gioia di noi bimbi. A questo punto accorrevano le galline, che

razzolavano allegramente nei punti dove prima c’era l’erba e si gettavano ingorde sui vermetti che, ormai nudi, perché spogliati dell’erba, cercavano inutilmente d’infilarsi nel terreno; le chiocce, da brave mamme, li spezzettavano e li ponevano davanti ai pulcini, che si avvicinavano fiduciosi.

Noi bimbi, appena il contadino se ne andava, prendevamo la rincorsa e saltavamo al di là dei mucchi. Sembravamo cavallini sbrigliati, al salto degli ostacoli. Spesso, accidentalmente, o di proposito, finivamo sopra quei cumuli d’erba morbida e profumata con nostra grande soddisfazione.

Sono andata fuori tema, come mi dicevano i professori, e cerco di rientrare. Un’altra musica meravigliosa era (e lo è ancora a saperla ascoltare) il canto dei ruscelli di

montagna (anzi rii, più che ruscelli): un canto delicato, leggermente gorgogliante e, a volte, nelle cascatelle, anche un po’ prepotente. Se mi fermo a pensare a quel canto, lo sento ancora vivo, dolcissimo come allora e mi commuovo, forse anche perché è legato a tanti altri ricordi. Nei giorni di festa, zaino in spalla, il babbo, mio fratello ed io ci avventuravamo sulle alte montagne che emergono dal lago. In primavera partivamo per raggiungere i Piani d’Erna a 1500 metri: ci alzavamo presto di mattino, verso le cinque e camminavamo di buon passo per circa tre ore; poi ci fermavamo per una seconda colazione sulla sponda di un ruscelletto e ci dissetavamo con quell’acqua pura, fresca, buona, migliore di ogni altra bevanda. Quindi ripartivamo verso la nostra meta: distese di prati verdeggianti punteggiati da innumerevoli stelline bianche dal cuore giallo: i narcisi selvatici, dal buon profumo intenso; ne raccoglievamo alcuni mazzi, che il babbo legava con uno spaghetto e trasportava fino a casa, penzolanti dallo zaino. Il giorno dopo, li regalavamo ai nostri morti, al cimitero; il mazzo più bello alla mamma.

E così, tutto questo (e tanto altro ancora) fa parte della musica che conservo in fondo al cuore, assieme a quella del nostro bel coro, naturalmente.

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Simona Zanichelli Il provino Ma cosa avete tutti da guardare, cos’è quel risolino? Io ho un appuntamento col maestro direttore. Io sono qui per il provino. Io sono soprano solista. Io posso cantare qualsiasi cosa. Arie liriche e ballate, litanie e salmodie, Gloria Kyrie e Ave Marie, gli stornelli toscani e i canti gregoriani, intermezzi e serenate, passacaglie e sonate, sonetti e Venditti, mottetti minuetti e il rap di Jovannotti, gagliarde, pavane e canzoni partigiane. Ninnenanne per bambini, i live della Nannini e le marce degli alpini, gli inni di partito e i cori di Battiato, madrigali medioevali e le canzoni di Leali, le sambe e le rumbe dai ritmi più strambi. Luciano Ligabue, gli assoli degli U2, le operette e le gavotte, gli spirituals e i gospels, Baglioni e Viadana, Bach e i Nirvana, i cori ortodossi, il rock di Vasco Rossi e le romanze di Bocelli con tutti i ritornelli. Sì, ho un po’ la voce grossa che spesso mi si spezza, e diventa fessa. Pure il respiro ho corto, e con un forte rantolo perché ho il catarro in circolo. E’ perché soffro di tonsillite, laringite, rinite, faringite, adenoidite, sinusite, asma, tisi e bronchite. Alle corde vocali ho noduli vari e anche quattro polipi che sembrano calamari. La mia nota più alta è un sol di prima ottava, non sempre ce la faccio e a volte mi si stona. Però la voce è a posto, non tema, di di direttore. Sì, a volte mi impappino, balbetto e m’intartaglio, se la dizione è un’arte, io non l’ho avuta in sorte. Ma guardi, direttore, la mia presenza scenica. E’ unica, titanica, a volte quasi magica. Io da sola reggo un’opera, un concerto, un oratorio misto per il pubblico più vasto. Per essere pignoli con la gamba destra zoppico un pochino, sono stata messa sotto da un vecchio motorino. Anche quell’altra è storta, ma quella è di natura, sono nata con il forcipe perché ero prematura. Per il resto ho tutto a posto, a parte un dente guasto. Poi, va bè, ho un braccio più corto, il fegato marcio, la gobba, la gotta, la rabbia, la scabbia, l’artrite e la borsite, i segni del vaiolo e spesso un orzaiolo. Sono emofiliaca cardiopatica e diabetica, sono in dialisi e in analisi, ho la malaria, varie carie e l’ematuria, l’allergia, l’aritmia e l’astenia. Ho poco di mio. Il gomito è del tennista, il ginocchio della lavandaia, il piede d’atleta, lo strabismo è di Venere, il morbo del legionario, la mia spalla è di titanio e il fuoco di sant’Antonio. Ah sì, ho anche un occhio di vetro e la protesi all’anca. In fin dei conti, direttore, è roba da poco, cos’è che mi manca? Se lei mi fa cantare, direttore, farò la sua fortuna, diventerò una stella che le darà la fama. Mi faccia cantare. State quindi in campana, soprani già arrivati, con voci prevedibili e i begli abiti scollati, bellocce che campate di acuti senza forza, avete l’apparenza ma non è che scorza. Godetevi il successo, godete finché dura, che presto arrivo io, e dovrete aver paura. Io sono musicale, geniale, celestiale, io del canto sono la vestale. Io sono rara, vera, sincera, io sono la più pura, e la mia voce è un dono di natura che sa di primavera, degli angeli il sospiro, del cielo quel respiro che il cuore fa leggero, il domani meno nero, il destino non più avaro. Le altre stanno a terra, così come i maiali: che si tengano le ghiande, il canto mio ha le ali. Tornate a casa, nane, levatevi davanti, che il mio talento unico lo intendono i giganti.

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Il mio canto è un incanto che strega, svaga e intriga, rapisce e stordisce, conquista e ridesta, avvolge e travolge il cuore che si stringe, commuove soave come acque sorgive in cui l’anima annega legata da note di maga. Io sono un soprano. Io col mio canto tocco con la forza di una spada. Questa è la mia strada. E non mi fermo, non mi abbatto, continuo le salite. Che a ben pensarci, quello che importa, in fondo, è la salute.

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Rita Barbieri Dimenticanza Noi tutti, purtroppo, apprezziamo le cose che abbiamo solo quando le perdiamo Anch'io mi sono accorta di lei solo quando mi ha abbandonato. Quella mattina, mi preparai con la stessa meticolosità di sempre; qualche esitazione solo davanti al guardaroba aperto. Indossai dapprima l'abito di finta seta che avevo acquistato il giorno prima, attratta dalla sua leggerezza, ma poi mi pentii e optai per il solito tailleur di velluto marron, più classico e più consono al colloquio con i genitori che avrei dovuto avere nel pomeriggio. Ancora una volta la prudenza ebbe la meglio. Eppure c'era stato un tempo in cui il gioco seduttivo mi era appartenuto e la mia voce mi era stata complice. Era ancora viva l'immagine di me bambina legata con un vecchio scialle al sedile della macchina, accanto a mio padre che guidava . Lui mi chiedeva di cantare e io e la mia voce civettavamo con Lili Marleen.ma poi sorrido e penso a te/ a te Lili Marleen che avevo appreso dalla nonna; a casa poi i miei fratelli e i loro amici me ne suggerivano una loro versione; io la cantavo come loro l'avevano adattata, non capivo certe parole e non le ricordo, ma so che la loro malizia mi apparteneva. Nessuna incertezza invece a scuola. Mi piaceva la mia scuola, mi piacevano le mie colleghe, le chiacchiere che si facevano prima di trascinarci in classe. L'argomento di quella mattina era stato il provvedimento di Fioroni sull'uso dei cellulari." Che intervento didattico lungimirante!E' dunque questo che s'intende per educare all'uso corretto dei cellulari?"ironizzò la Fava, scatenando un turbinio di voci. Si parlava di tutto tra noi: di film di libri di malattie di mostre di genitori di figli di politici di gente comune di mariti di compagni. Mai di amanti. Erano ormai sette anni che insegnavo in quella scuola e molte delle mie colleghe erano lì da più tempo. Non cercavamo l'intimità di uno scambio e, anche quando ci si chiedeva Come stai?, avremmo trovato di cattivo gusto sentirci rispondere Sono infelice. Eppure le nostre discussioni, anche quella sul provvedimento Fioroni, potevano far supporre altro, ma di questo altro, come in un sottomarino, non emergeva che un affaccio. E di questo ero a loro, in un certo senso, riconoscente: io, che godevo la gioia e il vuoto della mia vita da single, sentivo il loro calore, le loro voci, che tuttavia non riuscivano a penetrare in quelle parti di me che avrebbero potuto percepire il dolore. Solo oggi mi accorgo di quanto fosse falso tutto ciò: la ricerca di ordine, l'attenzione ai particolari, le gelide, buone maniere e pure le parole che sto scrivendo ora, allineate lungo una perfetta linea orizzontale, nessuna lettera più grande delle altre, nessuna che si spinga senza paura di corrompersi in basso, nessuna pressione diversa della penna, nessuno strappo che riveli un improvviso slancio. Credo che tutto ciò sia incominciato quando avevo 12 o 13 anni; per la prima volta provai vergogna del mio corpo che stava cambiando. Da qualche tempo mi ero accorta che gli uomini mi guardavano; i loro sguardi mi turbavano, ma furono le parole di mio padre a farmi sentire la vergogna. Disse solamente" Non indossare più questi pantaloncini così corti! ". Io avvertii che i pantaloncini erano il mio corpo che cambiava, i giochi schietti e talvolta scomposti e la mia voce, capace di dire la gioia, il dolore, la paura, capace anche di sedurre. Così non indossai mai più quei pantaloncini e da allora non cantai più e la mia voce diventò, a poco a poco, un semplice e docile strumento per vivere .. in una realtà che sembrava apprezzare in me unicamente i toni garbati, l'ordine, la razionalità. Fino a quel pomeriggio, quando, per un attimo, ebbi voglia di gridare alla madre di Fabbri tutta la mia rabbia. Le avevo appena comunicato il voto dell'ultima interrogazione.

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"Scusi professoressa, ma come mai mio figlio ha preso insufficiente nella verifica di scienze? Le assicuro che ha studiato tutto il pomeriggio!". Avrei voluto gridarle Basta! E finiamola con questo dar addosso all'insegnante! Hai chiesto a tuo figlio perché ha fatto un compito da schifo?Glielo hai chiesto? Proprio tu che te ne sei sempre fregata . L'unica tua preoccupazione è il voto, come uno dei tanti fronzoli che ti metti addosso!! Era la seconda volta in una settimana che provavo un impulso nuovo ad usare la mia voce. Solo due giorni prima avrei voluto dire a Sandro che ero stanca di passare le domeniche da sola mentre lui si dedicava alla sua splendida famiglia. Lo lasciavo libero di dedicare a moglie e figli anche ogni altro santo lunedì. Ma io non ne fui capace. Volevo che nulla nella mia vita potesse cambiare e anche dal rapporto esile con Sandro mi sentivo protetta. Così anche quel pomeriggio dominai la rabbia, sorrisi, apprestandomi a giustificare alla signora Fabbri l'insufficienza del figlio, ma uscì solo un sibilo. Il viso, in uno sforzo disperato alla ricerca di un suono, era ormai una maschera .. ma solo sibili. Poi un rantolo osceno. I medici mi hanno diagnosticato un'afasia da stress ma non capiscono perché, a distanza di due anni, io non parli ancora. Io sola ne conosco la vera ragione. Avevo un talento, la mia voce, non ho saputo difenderla, per questo lei mi ha abbandonata.

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Marta Galli

La messa di voce

Una schiuma bollente gli usciva dalla bocca, spargendosi lentamente sui gradini inondava la fila dei

tenori e dei bassi sgocciolando in quella dei soprani e dei contralti. I coristi, con i piedi annegati

nella schiuma, continuavano a cantare. Per guardarsi i piedi qualcuno si perse qualche battuta, ma lo

spartito richiamava all’ordine e il Maestro aveva detto che guardarsi i piedi era proibito. Chi fosse

stato scoperto anche solo a un piccolo sguardo sarebbe stato segnalato al Grande Guardiano.

-Concentrati, concentrati, la musica non è nei piedi, è lì sul naso, in mezzo agli occhi, una puntina,

uno spillo.-

Giovanni si concentra, stacca la mente dalla schiuma che gli accarezza i piedi e arrota le “erre” ben

bene. Si era allenato a casa e sua moglie gli aveva assicurato che veniva una erre portentosa ;

avevano anche provato, si sentiva fino in fondo al corridoio e il cane si era associato festoso

abbaiando ma poi l’aveva presa come una provocazione e aveva reagito masticandosi il CD

didattico con la sconveniente conseguenza che ora abbaiava tutto il giorno il Patrem

Omnipotentem.

Aveva quasi dimenticato i piedi, ma ora la schiuma si era fatta morbida e tiepida . Giovanni non

poteva guardare ma avrebbe giurato che era anche molto bianca. Sta salendo lungo le gambe, la

sente già al ginocchio.

- Benedetta, mi potria far ben ai genocci!, che gai il genoccio del corista che me tiene sveglio la

notte! No se macchierà la divisa nova no? .G’avemo meso delle settimane a tor na decision! E la

camisa e la cravatta, e la cravatta i strozza la nota! Occia ! la messa di voce! Questa la faccio ben.-

Parti piano, Giovanni, piano, la senti la calamita che ti attira e ti si gonfia la voce come un pallone

che ti solleva e ti porta nell’universo?

- Maria Vergine come me sento ben.-

Giovanni sta volando sopra le nuvole bianche spumose soffici. Ma, ma … non sono nuvoleee, è la

schiuma. E’ salita fino a lì. Sta volando nella schiuma, un bel vantaggio, non si fa fatica a cantare, è

lei che ti porta su e giù tra le note.

Si è lasciato andare troppo, la messa di voce è finita e la schiuma l’ha riportato giù.

- no, non sul fagotto, avem sbaglià la traiettoria. Si adess! Dentro al basso tuba.-

La schiuma voleva giocare e se lo portava a spasso per tutta l’orchestra.

- dolce stò fagotto, i violini, non vorrei dir, me sembrano un pò tesi, come li tocchi si risentono,

permalosi vè. Nooo in mezzo ai piatti no, schiuma non farlo, ti riduco in bolle di sapone se non mi

rimetti giù.-

- lasciati andare Giovanni-

- schiuma, tu parli?-

- Canto, Giovanni, canto. Sono io il tuo canto.-

Il corista riprende il suo posto, nessuno si era accorto del suo volo, il concerto andava avanti e lui

non aveva mai smesso di cantare, pare.

Adesso la schiuma avvolge tutto il coro, i coristi sono avvolti nel manicotto spumoso. Il suono

diventa morbido e soffice. Il Maestro gongola soddisfatto.

- A…..men!-

- Il maestro si volta verso il pubblico ma questo è entrato in risonanza. Centinaia di

protoplasmi vibrano immersi nella neve.

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Annamaria Ramazza

Libere riflessioni di un cantore non professionista Devo cercare di ricordare da dove è partito tutto questo… e soprattutto se quando è cominciato eravamo consapevoli… Fu Padre Santucci che in uno dei suoi primi ( purtroppo di una lunga serie) ricoveri ospedalieri espresse un desiderio: poter ascoltare fra le volte della chiesa, che è stata le sua casa per più di 60 anni, eseguire la Messa in si Minore di J.S.Bach , la più grande fra le grandi opere di musica sacra polifonica. Detto da Lui sembrava una delle cose più naturali per un coro che, per quanto formato da persone capaci, era pur sempre un coro amatoriale…. A proposito… Lo hanno anche scritto sui giornali,che non conosciamo la musica, e qualcuno fra le file dei cantori se ne è risentito. Certo che non si può dire che siamo dei professionisti, né che la gran parte dei coristi sia così abile da leggere uno spartito a prima vista, se no non avremmo impiegato due anni per potere affrontare questa avventura: cantare Bach in una delle sue composizioni più complesse. Due anni! Sono volati! eppure la fatica delle prove delle ultime due settimane si è dissolta nel momento preciso in cui l’ultimo orchestrale ha preso posto davanti al suo leggio, e il primo cantore ha varcato la piccola soglia dell’ingresso all’altare maggiore per prendere posto di fronte al pubblico già numeroso e in attesa. Ma quanti sono? Non si vede la fine delle file di panche e sedie… e ancora c’è gente che entra. Attenzione ragazzi quante volte abbiamo provato l’ingresso!!! Fermarsi alla base dei gradini dell’altare, aspettare che il tuo compagno di fronte all’altra porticina sia pronto, poi farsi un cenno d’intesa e avviarsi su per i gradini assieme, il più possibile simmetricamente. E lo spartito chiuso nella mano destra per tenori e soprani, nella mano sinistra per bassi e contralti. Il prof. Mioli ha terminato il suo intervento introduttivo, ne ho potuto sentire solo pochi spezzoni. Peccato sembrava dicesse cose interessanti. Tocca a noi. speriamo di non inciampare e trovare abbastanza spazio… siamo in 118 in un spazio che di solito ne conta la metà! I passi, uno dietro all’altro, le luci, gli applausi, un lievissimo capogiro, solo un attimo, poi la posizione…. dovrebbe essere circa qui il punto a metà dei gradini… vai! ora bisogna girarsi verso il pubblico… Santo cielo! “Aspettativa ” Questo è il messaggio che ci arriva dalla platea arrangiata sulle scomode seggioline pieghevoli in legno. Però applaudono… sembrano carichi, quasi felici di essere qui. Si apprestano ad un ascolto impegnativo tanto quanto l’esecuzione, e ne sembrano anche consapevoli. Entra Lorenzo, ha un look disinvolto, è senza cravattino, lo ringiovanisce e allo stesso tempo lo fa più maturo. Gli applausi si fanno più intensi, ma è un segnale convenzionale, presto il fardello della prova sarà tutto sulle nostre spalle. Silenzio. Incredibile come tanta gente riesca a produrre un silenzio così intenso, ma la visione e la percezione della presenza del pubblico va via dissolvendosi, mentre 118 paia di occhi si apprestano a fondersi in quelli del maestro che sorride un po’ teso al primo violino e guarda gli orchestrali che al contrario sembra che stiano bevendo un caffè in Piazza Maggiore. Che non stia proprio lì la differenza fra professionisti e dilettanti?

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Noi cantori amatoriali siamo agitati, tesi, tirati, gli orchestrali sembra che non facciano altro che stare davanti ad un pubblico colto e preparato, e le violiniste hanno nel maneggiare i loro strumenti la stessa calma e disinvoltura che aveva mia nonna quando “metteva su” il ragù. Sono questi i pensieri che si affollano, strani, i più disparati e impertinenti, ma ecco… Lorenzo ha stretto la mano al primo violino, si gira verso il pubblico e adesso verso di noi. E’ il momento. Bravi… nessuno ha aperto lo spartito prima del segnale del maestro, ecco….! ora possiamo. Vicinissimi, tensione a trasmissione, adrenalina pura, si possono percepire le vibrazioni del tuo compagno vicino.. Respiro… ecco l’attacco! E il miracolo: la prima nota ! giusta, di tono, di colore, di intensità, tutti l’hanno fatta così ! Ed è sembrata una sola. Il primo scoglio per i soprani secondi è alla terza battuta: Attente all’ intonazione! Siamo sguarnite anche dell’orchestra, calare in questo punto è quasi più naturale che riuscire tenere l’intonazione.. comunque è andata , e già passata, e le battute, le note, le pause si susseguono una dietro all’altra. Gli uomini… bravi, ma dove l’hanno tirata fuori quella voce? Alle prove non si sentivano! E un pezzo è andato! Attacca il secondo e … va , lentamente si srotola il pentagramma ma senza intoppi. Gli attacchi sono precisi, il tempo si sente, si riesce a tenere, forse è un pochino lento ma va bene cosi. Ci siamo assestando. Adesso possiamo anche permetterci di ascoltare la nostra voce e godere della la sensazione straordinaria che si prova nel momento in cui sai che la melodia che le tue orecchie percepiscono, viene emessa dalla modulazione delle tue corde vocali, spingi in alto e la voce esce, e produce esattamente il suono che la tua mente aveva progettato un milionesimo di secondo prima. E’ necessario mantenere la concentrazione, non distrarsi, nemmeno mentre cantano i solisti, e un brano via l’altro, si dipana la composizione più grandiosa , dicono, della storia della musica corale La sensazione che una grande macchina vocale funziona e mantiene la tenuta è appagante e ed è preludio di gioia e soddisfazione, ma non bisogna distrarsi adesso: c’ è “ Pleni sunt coeli” la fuga . È stato un delirio impararlo, il tempo è implacabile e la sequenza dei vocalizzi è una trappola ad ogni battuta … attenzione bisogna ascoltarsi… Dove hanno chiuso i tenori che dobbiamo raccogliere le nota che hanno lasciato ..? Ed è prossimo il momento in cui i violinisti alzeranno l’archetto segno che il capolavoro è terminato e che il pubblico può finalmente applaudire ( se lo riterrà opportuno… speriamo). Ed è uno scroscio! Standing ovation! Le luci si accendono, la gente si alza, ma non si dirige verso l’uscita, bensì si avvicina all’altare, ancora applausi, D’accordo, l’opera era sicuramente impegnativa, ma noi abbiamo cantato in maniera di sicuro non eccellente! Sembra davvero tanto l’entusiasmo del pubblico… sarà perché sono persone gentili… Fa piacere, ma il vero premio è stato la riuscita nella consapevolezza della fatica dell’ impegno che abbiamo speso tutto sommato per soddisfare il desiderio di un vecchio frate che pensava di essere prossimo alla fine dei suoi giorni, o alla soddisfazione della nostra personale ambizione, chissà. Non me ne ero resa conto ma sono spossata, e percepisco la stessa stanchezza anche fra le mie compagne, sento qualcuna che dice: “ E’ stato magnifico! Lo rifaresti?” “ Piuttosto vado a S.Luca scalza sui ceci”

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Antonio Scognamiglio

Lettera di Antonio Calante alla Corale

Saluto affettuosamènte a ttutti i cantanti della Corale Quadriclavio.

Mi chiamo Antonio Calante, tenore baritonale del coro di Maria Addolorata a Montecalvario diNapoli

Il nostro gruppo è stato specializzato per anni nell'attività di animazione dei contesti urbani diaggregazione transitoria. Sostanzialmènte ci esibbivamo nelle stazzioni della metropolitana.

Poi il parroco ci ha richiamati al dovere e da ormai tre anni cantiamo alle funzioni. Oltre ad undiscreto repertorio di musica diciamo così classica, abbiamo sviluppato un repertorio fatto da noi,grazie in particolare a due membri del coro, Giggi 'o scupatore, che di mestiere farebbe appunto lospazzino, ma vista la situazione diciamo così di stallo tiene parecchio tempo libbero per lacomposizione musicale, e Saverio 'o scannapuórc', che sebbene lavori in un mattatoio di suini tieneun animo estremamènte poètico e cura i testi.

Così abbiamo un sacco di pezzi molto apprezzati dal pubblico, che ci vengono espressamènterichiesti per le varie occasioni.

Ad esempio, ai funerali, spesso anziché 'o Requiem ci fanno cantare i pezzi nostri, come Te l'aviv'ritt' 'e nun fuma', un brano di ispirazione gregoriana, e Ti faceva male l'aria condizzionata, ma maiquanto quella pallottola, che è un canone a quattro voci ispirato da un fatto di cronaca veramèntesuccesso a Forcella.

Ai matrimoni i canti più richiesti sono Che ssì vvenut' a ffa'?, un brano in tre quarti ma ricco diemiòlie, e Ma l'hai guardata attentamènte?, uno dei pochi pezzi con il testo in italiano.

Ai battesimi, invece, resta molto richiesto un classico del secolo scorso, Tammurriata nera.

Recentemente abbiamo fatto proposte di collaborazzione ad alcuni artisti partenopei di grandespicco.

Il primo a rispondere è stato Pino Daniele, che ci ha offerto un arrangiamento a cappella di Je so'ppazz'. Quando gli abbiamo detto che nunn era cosa, ha detto "Capisco, è per la frase finale...". Noigli abbiamo spiegato, "Pino, quella 'a frase finale è il meno. Qui non si passa oltre il primo verso.Con l'acustica della nostra chiesa appena i bbassi cantano Je so' ppazz', per dieci minuti riecheggiaper le navate azz... azz... azz.... Credi, Pi', nunn è ccosa".

Il secondo che ci ha contattato è stato Giggi D'Alèssio. Si è offerto di comporre appositamente pernoi una Messa in si bbemolle, ma a condizione che ci facevamo fare la parte del soprano solista allaTatangelo. Ora nel nostro coro ci stanno diverse coppie, basso con soprano, tenore con contralto,basso con contralto, tenore con soprano, e tutte le voci femminili di queste coppie si sono levateall'unisono: "'a Tatangelo accà nun ce tras'".

Per ultimo ci ha chiamati Nino D'Angelo, che voleva riadattare il "Magnificat" sulla musica di 'Namagliètta e nu bblugginz. Non ce la siamo sentiti di prenderci l'impegno.

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Per un certo periodo si era unita al nostro coro il sindaco di Napoli, Rosa Russo Jervolino.Inizialmente l'avevamo collocata fra i soprani, ma non ci azzeccava tanto. Allora l'abbiamo spostatatra i contralti, ma pure là ci azzeccava poco. Abbiamo provato a metterla fra noi tenori, ma il timbronon era adatto. Alla fine l'abbiamo messa coi bbassi. Lei si è lamentata, dice "le note sono troppobbasse, non ci arrivo". E noi: "E dove sta il probblema? Statt’ zitta!".

Nel nostro coro cantiamo prevalentemente in napoletano, ma pure in latino e in italiano. L'italianoper noi è un po' come il latino: il latino è una lingua morta e l'italiano da noi non è mai nato.

Un momènto di grande visibbilità della nostra corale è stato in occasione dell'elezione dell'ultimogoverno Berlusconi. Nu juórn è arrivato Bberlusconi personalmènte e ha fatto ripulire la stradaprincipale e ppoi ha chiammat’ a Canale 21, a tivvù 'e Napule, pe cce fa' veré quant’era statobbravo. Noi allora abbiamo convocato 'o cameraman int' o vicolo accanto, addo' ce steva 'ncora nucuófan' 'e munnezza. Simm' sagliut' 'n copp' 'a munnezz' e abbiamo cantato "Alleluja, alleluja. Menomale che Silvio c'è". A quattro voci, a cappella, ‘nu successone!

Stàtev bbùon

Il vostro

Antonio Calante

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Giuliano Bonomi

The scarf

La sua bella chiesa si stava svuotando lentamente. Solo un paio d'ore prima era colma di calore umano,

di musiche e canti,di amore e di propositi altruistici, natalizi, forse un po' retorici. Ma lui Don Erotanes,

prete croato giunto da lontano, ma promosso - da ben settanni - alla guida della importante parrocchia

di San Lorenzo, era al colmo della felicità. Va be’, c'era anche un bel po' di vanità ma, santi Dei, uno

che si impegna e vede i suoi sforzi aver successo, ha ben diritto ad un pizzico di vanità! Anche il suo

collega Don Oinotna, croato pure lui, gli aveva dato per certo che dopo il Vaticano II°, quello non era

più considerato neppure alla stregua di un peccato veniale.

Stava andando verso la sacrestia e il veder attraverso la grande porta spalancata un astuccio per

violoncello, un paio di sacche per abiti, insomma il solito quadro della smobilitazione della compagnia

coral strumentale, gli fece ricordare gli appena cessati, calorosissimi applausi che l'esibizione di

musiche natalizie, da lui voluta, aveva ottenuto.

Chiamò il sacrestano Webbio, mantovano purosangue, e gli fece le solite raccomandazioni: assicurarsi

che tutti i fedeli fossero usciti, anche quelli più ostinati che restavano a complimentarsi col Direttore e

con l'Autore delle musiche (alcuni sfacciati ne volevano gli autografi), chiudere e sprangare le porte,

raccogliere i tanti pieghevoli-programma che restavano sui banchi, spegnere le luci e le candele.

Alt! un momento: come sempre, a bassa voce, gli raccomandava di lasciare accesa la candela a sinistra

dell'altare. Desiderava così ricordare la sua povera mamma che sempre gli diceva: "tu che fai il

missionario, accendi una candela per me in tutte le chiese in cui vai.” E per dar peso alla richiesta lo

apostrofava con un solenne " tu, mio caro Sacrista". Ma Webbio, accanito frequentatore di siti web (tal

quale Don Erotanes) ben sapeva che il titolo Sacrista era dovuto solo al prelato che sosteneva l'ufficio

di Sacrestano nel Palazzo Pontificio! Lo faceva per adularlo e sottolineare il suo desiderio.

Pian piano anche gli ultimi suonatori e cantori se n'erano usciti attraverso le grandi porte absidali. La

chiesa era completamente vuota e buia.... ma il candeliere d'argento era lì a far luce con la sua bella,

lunga candela. Una chiesa vuota e buia e, come da disposizione generale, lasciata assolutamente senza

alcun riscaldamento, stava raffreddando rapidissimamente il candelabro di argento massiccio. Lui, il

candelabro, ne sapeva di fisica. Primo: l'argento è un metallo, quindi ottimo conduttore di calore. Ma

Cris.. (perdono!) io cedo il calore all'aria rapidissimamente! Secondo: uno direbbe " ma c'è la candela

che ti riscalda". Già, ma la candela scalda l'aria che "per convezione" se ne va su a riscaldare il soffitto,

non me. Capito? Insomma comincio ad avere un freddo cane!

L'argenteo candelabro comincia a guardarsi attorno, per distrarsi, per non pensare ai suoi brividi. E gli

casca l'occhio sulla sacrestia. Nella quale un po’ di luce c'era. Sì perché il Don e il Sacrista erano

davanti allo schermo luminosissimo del loro computer parrocchiale. Ai tempi nostri una parrocchia non

nel "web" è perduta, è fuori dal mondo. "Accidenti, per loro due ora comincia una seconda, divertente

parte della serata e io qui a reggere il moccolo! " Quella del candeliere era una riflessione ingiusta:

infatti il Don era membro della associazione "Preti on Line": loro ascoltano le confessioni on line,

aiutano i poveri peccatori e - direte voi - danno le assoluzioni on line: no, questo non è permesso.

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Anche Webbio poteva usare il web. Ma il Don gli aveva posto una preliminare conditio sine qua non:

doveva chiudere nella sua stanza, fin da prima della funzione natalizia, suo cugino, ospite occasionale.

Il quale era un solenne guardone e spiava le coriste e le suonatrici che cambiavano abito attraverso ben

note fessure dei tavolati della sacrestia.

"Loro si divertono e stanno al calduccio e io qui m'annoio e congelo, porc....!"

Però, aguzzando la vista (aveva anche la voce, una voce ovviamente argentina, ma ben sapeva che mai

il Don gli avrebbe permesso di cantar sul serio, il nostro candeliere), vide e osservò attentamente una

sciarpa rossa, di color vivacissimo, posata su di un inginocchiatoio. Chiaramente dimenticata da una

corista. Cominciò a cercare di attrarre la sua attenzione. Nessun cenno di risposta. Allora le rivolse la

parola e canticchiò: " Sciarpetta vezzosa, che fai sola lì? Dài, fammi tu caldo e vola ben qui!" Non era

il massimo, né per rime, né per musica, ma la sciarpetta rispose alzando le braccia. Disse: “come

faccio?” E pensò: “ma non sarà sconveniente scaldare un candelabro con candela? Al che il nostro

l’ammonì: " Volere è potere!".

Allora la sciarpetta si rizzò su una estremità e cominciò a volare. E pensava “sempre meglio che una

notte sola soletta!” E, battendo le ali raggiunse il nostro candeliere e gli si arrotolò attorno. E fu così

che quella notte diede calore caritatevole a chi non se l'aspettava.

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Valeria Bianchini

Il coro della Befana (titolo)

Voglio il tailleur nero (sottotitolo)

Immaginate...

Il 1° di gennaio ricevo una telefonata per partecipare ad un concerto. Si fa il Gloria di Vivaldi. Lo

conosco, lo posso fare, l'ho imparato a Bologna anni fa. La maestra lo sa che lo so e insiste. Il

concerto è il 6, ma domani, 2 gennaio c'è la prova generale a Cesena. Che faccio? Vado, provo ad

amalgamarmi. Le dico di si.

Il due gennaio è una giornata del cavolo, assemblea in azienda, discussioni, litigate. Resteremo

senza stipendio per molto, forse si sciopererà, forse si rientrerà sacrificando un altro stipendio. Però

stasera mi faccio il Gloria pensavo....Il pomeriggio è intenso, rincaso velocemente e senza cenare

mi preparo di corsa per uscire ancora.

L'appuntamento è alle 19, chiesa di San Mauro in Valle, il numero civico mi preoccupa,

millequattrocentoqualcosa, guardo su googlemaps, memorizzo quanto posso perchè il navigatore

non ce l'ho.

Durante la telefonata la maestra mi ha spiegato velocemente la strada, indicandomi anche la divisa

per il concerto.

Piove che dio la manda. Bene, faccio l'autostrada, poi un poco Cesena la conosco ma senz'altro

arriverò con qualche minuto di ritardo. Non so, ho una strana sensazione, ma le prove erano alle 19

o alle 21? che strano, la telefonata è stata così veloce. Comunque vado, chiedo, giro...comincia a

nevicare, no piove, sbaglio strada, torno indietro, invio un sms, fumo nervosamente, stringo gli

occhi per leggere meglio le indicazioni stradali. Poi finalmente ci azzecco, arrivo giusta giusta.

L'organista è ancora sulla porta. Mi guarda un po' perplesso, sussurro un ciao, mentre mi soffio il

naso. Lo credo che è perplesso, penso, non mi hanno mai vista alle prove, mica è carino arrivare

così all'ultimo, e quelli che si sono fatti un mazzo tanto per mesi??

Frega nulla, mi hanno chiamata loro, cioè la maestra. Entro....ecco entro...percorro la chiesa...

MERDA!!! Sono tutti schierati....si si tutti in ordine, in divisa!!!

In DIVISA!

A febbraio ho visto una prova generale alla Scala, una prova diretta da Barenboim. Me lo ricordo

benissimo, giuro, erano tutti in jeans e maglioncino!! e perdippiù durante la prova il direttore si

fermava, commentava, chiedeva attenzione, cambiava le posizioni degli orchestrali. Sul palco

c'erano bottigliette d'acqua, spartiti sparsi, qualcuno chiacchierava tra una esecuzione e l'altra.

Insomma una prova seria ma informale. Bellissima.

A Cesena no. Le prove generali si fanno in divisa, per provare anche i vestiti, penso. Donne in nero,

giacca e pantalone. Sottogiacca nero. Trucco perfetto, labbra lucide, messe in piega inamovibili. E

l'immancabile sciarpino grigio, un po' lucidino, con logo della corale ben in evidenza. Uomini belli

tirati. Tutti in completo perfetto, camicie perfette, barbe perfette. Il papillon sfavillante. C'è anche

una specie di Giuseppe Verdi romagnolo.

Merda! Mi vengono una serie di imprecazioni. Ma sono in chiesa.

LORO

Loro prima di uscire si sono docciate, spalmate, truccate, vestite e profumate. Al mattino hanno

stirato i pantaloni con la piega, hanno appoggiato la sciarpina sulla giacca appesa alla gruccia. E

l'hanno guardata durante tutto il tempo dei loro gorgheggi di quel sabatoduegennaioduemiladieci.

IO

Io sono io. Un po' arruffata, piumino nero, maglioncino verde, jeans chiari, stivaletti di pelo!!! mi

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manca solo il cappellino della cgil.

Mi salutano, mi accolgono, mi fanno posto: prima fila, all'estrema sinistra. Ma come si fa?? Ho un

problema. Non ho il cambio nella macchina, ma loro non lo sanno. Spostiamo quel candelabro? Si

lo mettiamo davanti a me? Brucerò, non importa. Intanto canto il primo pezzo della sera, che poi è

l'ultimo, il Cum Sancto Spiritu. Tutto bene. Mi amalgamo abbastanza. Riesco a sentire tutti. La

maestra, ehm la direttrice, sistema le tre stelle di natale ai nostri piedi, un po' più a destra, si ancora

un po', ecco sono perfettamente allineate. Penso che ne voglio due, due per nasconderci i miei

stivaletti di pelo!! L'altra la buttiamo, si?

Mi sento come Bridget Jones, come un pesce fuor d'acqua, come una barca nel bosco. Non ci posso

credere.

Avviso la maestra del mio “problema” che, stordita, dice “ma come?? non te l'ho detto??”. No,

cazzo, m'hai detto che era una prova, una prova generale. Dice di non preoccuparmi e che

rimedieranno. Dice di cantare, di provare, che tanto la prova generale col pubblico è alle 21. Ecco,

mi sembrava.

Retroscena.

E' la pausa, tra la prova e il concerto. Anzi no, tra la prova piccola e la prova generale. C'è silenzio,

concentrazione, anche qui si sussurra su come entrare, su come tenere la cartellina. Sempre verso il

pubblico certo....ma...sono tutte bianche... e la mia è nera. Che sfiga, vabbeh, io ho ben altri

problemi!! Se ne ricordano e...mi guardano. Avvampo. Che faccio scappo?? No dico, siete

elegantissimi! Non è necessario davvero! Vi ascolto volentieri.

Mi prendono, mi danno un cappottone nero, lungo che copra i jeans, perlomeno è della taglia giusta.

Spunta una sciarpina anche per me!! Faccio cagare, ma mi sento accolta. Comincio a sorridere, a

ridere...ma dentro. Canticchio e penso a voi. Che forza, che fortuna, siete li con me!

In scena.

Entriamo e io sono l'ultima, si proprio l'ultima. Ah! C'è la presentazione. Un ragazzo, un giovinetto,

molto stiloso, modaiolo insomma. Di quelli che anche con jeans e scarpe tenis sono eleganti. Ed è

palesemente gay. Olè. Ci presenta, parla di cultura, di eventi importanti (è una prova cazzo!!), fa i

dovuti ringraziamenti, sottolinea la bellezza della chiesa e..ogni tanto.. si gira verso il coro...

Sono terrorizzata, ma sorrido, gentilmente, guardo in alto fintamente ispirata e...lo osservo di

sottecchi. Penso, ora si gira, si gira, mi vede e inorridisce. Penso che gli prenderà un colpo, un

attacco isterico e che mi caccerà con ignominia, che voglia chiamare parrucchieri o estetiste. Invece

non succede nulla.

Si canta. Cerco di ricordare tutte le vostre voci e sovrappongo i gesti di Lorenzo a quelli della

maestra, la posso guardare sempre perchè la so a memoria e i colori sono facili da indovinare, al

diavolo la cartellina nera!

Va tutto abbastanza bene per essere una prova generale ufficiale in divisa, anche se l'Et in terra pax

è bello quanto la mia di divisa e l'organo non è proprio a posto. Facciamo più figura delle soliste

che però sono elegantissime. Certo ho sentito molti applausi sui pezzi che ho creduto peggiori.

Meglio così, mi ripeto che è una prova.

Finale

Si esce ed io continuo a vergognarmi, però mi chiedono come è andata. Mi sento lusingata e mentre

si parla dei vestiti delle soliste un'anziana signora mi sorride, le dico “beh non ho dato gran esempio

di stile stasera” e lei, dolcissima, “con la volontà si fa tutto”.

Però mi serve un tailleur nero...

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Buon anno a tutti!!

Valeria

Tranquilli, temo ci sia anche il video!

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Giovanna Babina

Il dramma del mercoledì 6 Gennaio 2010

Mmmmm, senti che pace! E’ incredibile… è mercoledì sera e nonostante tutto riesco a sentire la

tivù in pace, non devo alzare il volume, posso conversare amabilmente con mia moglie che è di là

in cucina, sento distintamente se il mio telefono suona, percepisco perfino con un certo piacere il

rumore dei passi del mio vicino del piano di sopra. Di mercoledì, non ci posso credere. Ah, come

amo le vacanze di Natale! E’ uno dei pochissimi momenti, per non dire l’unico, in cui vengo

allietato da questo agognato silenzio. In estate si starebbe in pace solo d’agosto e io, giustamente,

sono in ferie… Scusatemi, non mi sono nemmeno presentato, perso com’ero nei miei silenziosi

pensieri. Mi chiamo Massimo Rispetto (siete banali, avete sorriso, ah ah ah. Provate a conviverci

per una vita, poi ne riparliamo, spiritosoni), ho 45 anni e sono lo sfortunato proprietario

dell’appartamento che confina con le sale parrocchiali della Chiesa di S. Bartolomeo della

Beverara.

Se penso a quanto mi era piaciuta questa casa, la sua posizione, l’affaccio su un poco di verde…

mi sono spinto fino a chiedere un mutuo per comperarla. Io, che, con il massimo rispetto (azz…

sono vittima di me stesso…) non ho mai fatto una rata in vita mia, esattamente come mio padre.

I primi anni sono stati magnifici, pochi appartamenti, vicini tranquilli e cortesi, ogni tanto qualche

festa organizzata dalla parrocchia che portava un po’ di movimento, ma, che diamine, mica sono un

orso. Era tutto accettabilissimo. Poi, da qualche anno a questa parte, il mio mondo tranquillo ha

subito uno scossone… tutti i mercoledì che Dio manda in terra, dalle 21 alle 23 arrivano loro.

IL CORO. E mi si alza la pressione, anche se non me la provo lo so, lo sento che mi si alza, mi va

a mille. Come quelli iniziano a cantare, io inizio ad aggirarmi per le stanze nel tentativo di

sfuggire a quello strazio.

Sono certo che mi sì è anche deprezzato l’appartamento a causa loro. Invendibile e ho ancora

qualche anno di mutuo da pagare.

Ma voi avete un’idea di cosa vuol dire due ore di lamenti, ripetizioni, strilli, acuti, ripetizioni,

lamenti? Suuuuuuuper flumina!!!! Super fulmina, altroché flumina, mai che un fulmine togliesse la

corrente a quella stramaledetta pianola che la suona uno che forse ha preso il diploma al CEPU.

E la lagna natalizia di quest’anno? Vogliamo parlarne? Ma chi vi consiglia il repertorio a

voialtri?!?!

Per non parlare della buona stagione, oh mamma mia! Con i primi caldi, quelli lì, in preda agli acuti

vengono assaliti dai bollori e alé, tutte le finestre aperte, per farsi sentire meglio e per farmi sentire

peggio. I soprani sembrano galline starnazzanti, i contralti miagolano senza requie, i tenori fanno

finta (almeno loro disturbano poco) e i bassi fanno tremare il pavimento. Una vita rovinata (la mia).

Così alla mezzanotte del 31 dicembre, stappando lo spumante per il brindisi di inizio 2010, come

tutti ho fatto il mio proponimento, anzi due, per l’anno nuovo: primo, appena quelli ricominciano

vado a dirgliene quattro. Secondo, mi trovo qualcosa da fare il mercoledì che mi tenga fuori casa. In

questo caso si può dire “orecchio non ode, cuore non duole”…

***************

****

7 Gennaio 2015

Mmmmm, che meraviglia è mercoledì!! Se cinque anni fa mi avessero detto una cosa del genere

non solo non ci avrei creduto, ma avrei dato del pazzo furibondo incosciente insensibile a

chiunque, anche a mia moglie se soltanto avesse osato anche solo ventilare

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una simile ipotesi… ed invece eccomi qui tutto contento davanti alla prospettiva di stasera. Non

vedo l’ora, dopo cinque anni sono ancora pieno di entusiasmo per questo hobby che mi sono

trovato. Ho scoperto che, con il massimo rispetto (ormai ci rido su, anche questo

è un cambiamento!) per gli altri, sono proprio bravino e sono apprezzato anche per la mia simpatia

e questa è stata forse la sorpresa più bella.

In effetti ho scoperto che quando si fa qualcosa che dà così tanta soddisfazione, libera dai pensieri,

porta alla luce capacità che non credevi di possedere e crea amicizie durature, anche il carattere

migliora.

Eh, sì! La vita è davvero bizzarra a volte…

Scusatemi, come al solito mi sono perso nei miei pensieri lasciandovi nell’ansia di sapere quale

attività ho poi intrapreso cinque anni fa per liberarmi dall’ossessione di quel coro. In ballottaggio

c’erano la bocciofila, il biliardo e il calcetto, che avevo praticato in gioventù. Stavo ancora

meditando sulla scelta da fare quando, mercoledì 13 gennaio, QUELLI, hanno ricominciato con le

loro litanie. Memore del proponimento fatto l’ultimo dell’anno, mi sono messo il cappotto e sono

uscito per andare a dirgliene quattro.

Mentre salivo le scale che portano alla sala delle prove, quell’insopportabile guazzabuglio di suoni

improvvisamente ha iniziato ad essere un po’ più melodioso… beh, dài, fa meno schifo di quello

che credevo, ma da casa mia è uno strazio. No no, adesso vado su e ne parliamo!!

Ho aperto la porta ed improvvisamente una quarantina di facce si sono voltate all’unisono

(d’altronde è un coro, sono abituati!) guardandomi dapprima interrogativamente e poi sorridendomi

calorosamente fino a quando il tipo che suonava la tastiera con il diploma del CEPU, mi fa cenno di

entrare esclamando:- Buonasera!!! E’ un nuovo corista? Venga qui che facciamo un paio di scale (io

mi guardo intorno, ma di scale nemmeno l’ombra e

penso “questo è più suonato della sua maledetta pianola”). Venga avanti, conosce Fra

Martino?-

Io avrei voluto rispondere che a stento sapevo che faccia avesse Don Nildo, figuriamoci Fra’

Martino, ma l’espressione amichevole e sorridente del tipo mi ha talmente colpito che mi sono

ritrovato, ancora oggi mi chiedo come, a cantare una canzoncina da asilo scoprendo in modo del

tutto sorprendente di essere un tenore, intonato, con una voce discretamente potente…

Oggi, cinque anni dopo, il tipo della pianola è il mio direttore e devo dire che è anche decisamente

bravo, QUELLI, sono il mio coro, sono i miei amici, sono quelli che mi hanno trasformato

contagiandomi con il loro entusiasmo e la loro passione, in una persona nuova, più socievole,

simpatica, libera e serena. Soprattutto il mercoledì!!

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Carla Vanti

La seconda voce

Ai suoi occhi di bambina, il teatro era enorme e minaccioso. Lei sola, sul palcoscenico.

Silenzio. Poi nel buio della sala si udì quella nota che veniva dal vecchio pianoforte nero un po’

scordato. Una nota troppo alta. La suora, forse a causa del buio, aveva sbagliato il tasto e l’Astro del

ciel cantato a cappella iniziò decisamente in salita.

La bambina sapeva che arrivata al “luce dona alle menti”, la fatica di arrampicarsi così in alto si

sarebbe tradotta in un fallimento. Tremava, nel vestito lungo e bianco da angelo. Tremavano anche

le sue trecce, fermate da nastri rigonfi. E fallimento fu. La voce, già incerta per l’emozione, si

produsse in un suono roco e stridulo. Il concerto di Natale si concluse tristemente, con lacrime di

vergogna a cadere sul raso candido.

La bambina capì che non sarebbe mai potuta arrivare agli acuti tanto squillanti che sentiva da sua

mamma, mentre preparava la cena. La sua voce era più simile alle note piene e profonde di suo

padre. Quel giorno sentì che avrebbe cantato sempre in basso. E che avrebbe evitato ogni altra

brutta figura.

La palestra della scuola era abbastanza grande da contenere i genitori, ma talmente fredda da

imporre, sotto il vestito uguale per tutti, la maglia a maniche lunghe di lana. I contralti stavano a

destra, i soprani a sinistra. E in prima fila c’era lei, da un lato l’amica un po’ stonata e che cantava

piano, dall’altro quella più intonata, ma che attaccava sempre in ritardo.

A lei piaceva cantare. Il ritmo della musica riusciva a sciogliere quella fatica nell’articolare le

parole che era iniziata quando insegnanti poco attenti la vollero rieducare, o per meglio dire

violentare, perché usasse la mano destra invece che la sua amata sinistra. L’insicurezza nel parlare e

l’incapacità di disegnare con una mano che non era quella giusta la rendevano sempre nervosa. Ma

quando si metteva in prima fila nel coro, attenta a non sbagliare e fiera di portarsi dietro le amiche

meno sicure, ogni rabbia scompariva.

Ai suoi occhi di ragazza ribelle, con i capelli rigorosamente corti e l’abbigliamento mascolino,

cantare in latino era fuori moda. Nelle chiese moderne c’era finalmente spazio per chitarre o tastiera

elettronica e la voce resa roca dal fumo delle prime sigarette si spalancava in modo un po’ sguaiato,

come nei canti delle mondine e degli operai.

Ma lei era sempre quella della “seconda voce”. Non la voce del canto, riservata a chi poteva salire

tutti i gradini della scala musicale senza alcuna fatica. Lei stava sempre sotto, era incaricata delle

poche variazioni, ma doveva proseguire diritta e sicura sulla propria linea, attenta a non farsi

trascinare fuori tono. Perché, poi, la chiamavano “seconda voce”? Era forse meno importante della

“prima”? Cosa sarebbero stati, senza la seconda voce, i pezzi più belli degli anni settanta?

La sala era gremita e il calore insopportabile. Dall’ultima fila vedeva lo schieramento imponente di

coristi, molti adulti suoi coetanei, che si apprestavano ad eseguire lo Stabat Mater. Scorgeva meno

bene il giovane direttore e gli strumentisti, ma non le importava. Iniziò il concerto, le si sciolse

l’emozione in corpo. Gola stretta, batticuore, lacrime di commozione mescolate al sudore. Molto

più di quanto si sarebbe aspettata. E quando, terminato l’ultimo applauso, andò un po’ titubante a

complimentarsi, uno sguardo sorridente e una voce gentile le fecero capire che anche lei avrebbe

potuto essere parte di quella emozione, che aveva l’occasione per provarci.

Ora, ai suoi occhi disincantati di cinquantenne, la chiesa non è poi così tanto grande né tanto fredda,

ma nel suo vestito lungo e nero lei trema ugualmente. Come tanti anni prima.

Silenzio. Poi nella penombra della navata si ode una nota di violino. Questa volta la nota giusta. E

lei sente, non senza commuoversi dentro, che questa volta il concerto di Natale si potrà concludere

con gioia.

Soprattutto perché non è più sola a cantare.

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Giovanna Babina

Dalla nostra inviata al matrimonio del secolo

18 settembre 2011

A tutti i coristi, da brava ex segretaria, ora tesorino di una tesoriera, eccomi a voi con un

succinto (non parlo del mio vestito!!!) resoconto del dopo-cerimonia.

La "tantezza" o la "tantità" dell'evento, mi hanno impedito di cimentarmi già ieri sera. In effetti,

ad ogni gesto che compivo mi uscivano da dovunque tartine, strigoli, sformatini, zampilli di

lambrusco, rivoli di gelato e mascarpone. E' stata dura, ma come dicevano i Blues Brother

"quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare". E Franz ed io abbiamo giocato con

molta partecipazione.

Andiamo con ordine.

Seguendo gli inconfondibili capelli dell'Annamaria, resi ancora più riconoscibili da un bel fiore

azzurro, io ed il mio squisitissimo compagno di rappresentanza Francesco, autista provetto,

ascoltatore paziente e garbatissimo cavaliere, siamo giunti nei pressi del castello in cui gli sposi

avevano organizzato il ricevimento. In loro assenza, le locuste in abiti eleganti avevano già

attaccato i tavoli imbanditi con giusto giusto qualche stuzzichino... tigelline, crescentine,

piadine, cubetti di salame, salsiccia passita, ciccioli, mortadella, scaglie di grana, tocchetti di

formaggi vari. Olive ascolane, mozzarelline fritte, fiori di zucca fritti, zucchine fritte, un altro

coso fritto che non ho capito cos'era ma era buono. Tartine di ogni forma, colore e sapore,

crostini con paté di funghi e di fegato. Forse ho dimenticato altre tre o quattro cose, ma dopo un

paio di bicchierini di prosecco e un impazzare di musica anni '80 mi scuserete se la memoria ha

qualche defaillance.

Tutti già ripieni come dei tacchini, abbiamo timidamente domandato ad un cameriere se la cosa

finiva lì sperando in una risposta affermativa ed invece con lieve sgomento apprendiamo che

quello era solo l'apertivo. Intanto gli sposi sono arrivati ed hanno ovviamente intrattenuto gli

ospiti, fatto fotografie, stretto mani, baciato guance, abbracciato quà e là (secondo me hanno

abbracciato anche qualche cameriere nella confusione).

Francesco e io però, avevamo una missione... consegnare il regalo della Corale agli sposi, quindi

con tutta un'abile strategia di appostamenti, richiami, spintarelle, attese, spintarelle e richiami,

siamo riusciti ad isolarli in angolino graziato da un livello di decibel sopportabile e abbiamo

portato a termine l'incarico. Peccato che i fotografi che te li ritrovavi perfino nella toilette,

ovviamente lì hanno brillato per la loro assenza, perché credetemi, la faccia di Lorenzo davanti

al mega-biglietto della Dani era da immortalare per i posteri! Era raggiante e commosso, ha

detto che siamo assolutamente unici. E tutti e due non sono rimasti indifferenti nemmeno al

contenuto della scatola...

Finalmente verso circa le 15,00 (non è un errore di battitura, erano proprio le tre), mentre fuori

imperversava una versione appenninica del diluvio universale, siamo saliti nel salone dove

erano stati allestiti i tavoli che portavano i nomi di alcuni compositori e di alcuni pittori. Noi

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siamo stati destinati al tavolo "Beethoven" in compagnia della Lella (senza Bibi perché troppo

stanco era rientrato a Sasso) e di un altro paio di persone sconosciute ma molto cordiali.

Lì, siamo sopravvissuti ad una serie micidiale di rounds che hanno visto comparire nell'ordine:

rosette di sfoglia con prosciutto cotto e formaggio, strigoli con pomodorini di pachino, speck e

ricotta salata, sformatino delicato di verdure, filetto di manzo e tortino di patate. Acqua, vino

bianco, vino rosso, vari tipi di pane e chiacchiere femminili non-stop hanno accompagnato il

tutto.

E visto che Lorenzo non beve poi sempre e solo Coca-Cola, non vi posso dire i siparietti di cui si

è reso protagonista... schitarrate alla Bruce Springsteen e cavalcate pazze con il filetto in bocca

come un cane da riporto. Per poi finire cavalcioni in braccio ad un uomo che non ricordo più se

era il suo abituale compagno di scorribande conviviali Giovanni Montanaro o suo cognato

Federico. Onore al merito per la sua fresca sposa Patrizia che non solo non si è scomposta ed

incazzata a morte come noi-sappiamo-chi avrebbe fatto, ma ha schitarrato anche lei con pari

entusiasmo. Meno male!!

Verso le 18,00 ormai ridotti a palle di cibo, gonfi come otri, con la lingua quasi incapace di

articolare suono e le gambe a rischio cedimento improvviso, siamo ridiscesi al piano terra per il

KO definitivo. La torta nuziale. Un mega cuore di gelato artigianale della Sorbetteria Castiglione,

assolutamente divino. Come dire di no?

A questo punto, chiunque avrebbe pensato che la faccenda fosse giunta felicemente, seppur

faticosamente, al suo epilogo... E INVECE NO!!! Le diaboliche menti dei cateringhisti (si dirà

così?), quasi volessero perpetrare uno sterminio di massa a suon di trigliceridi e colesterolo

facendoli esondare oltre ogni soglia di sicurezza, avevano predisposto anche il colpo di grazia,

così da poter stroncare anche il più resistente focolaio di sobrietà alimentare. Quest'ultima

arma letale si chiamava Buffet dei Dolci e della frutta. Ciotolone ricolme di morbido

mascarpone e di gelato alla crema da rendere ancora più maialosi con una cascata di frutti di

bosco, terrine di creme caramel, vassoi di torta tenerina al cioccolato, melone, ananas, kiwi già

puliti e affettati e ancora uva bianca e nera. Uf, mi torna un senso di pienezza incredibile solo a

citare tutta questa roba!

Gli sposi poveretti, sono stati encomiabili. Sempre sorridenti, gentili e carini con tutti

nonostante una stanchezza che secondo me era tre volte quella degli invitati. Pensate che

Lorenzo era in diretta da Roma sabato sera ed ha viaggiato la notte con Bibi e l'autista per

essere ieri lì.

Alla consegna delle bomboniere e di un biglietto di ringraziamento con foto (che domani

scannerizzo e posto così rimane "agli atti") i piccioncini hanno nuovamente ringraziato tutto il

coro con un affetto davvero speciale e Ciccio ha promesso che non questo mercoledì, ma il

prossimo viene alle prove così potrà farlo di persona.

Alla fine, tutto ha una fine. Stremati dalla stanchezza e dal mal di piedi Francesco e io abbiamo

ripreso la strada per la città, sperando di essere stati all'altezza del compito di rappresentare il

gruppo delle persone più fantastiche che c'è in circolazione. Ciao Quadri, a mercoledì!

Giovanna

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Francesco Settanni

Prova Generale

1. Introitus

Questa storia ha molti personaggi – siamo più di quaranta, nel Coro.

Ciascuno di loro è una persona unica e speciale, e sono certo che vi piacerebbe sentire le storie che

li riguardano…ma ve le racconterò un’altra volta, forse.

Per questa volta, ve ne descriverò soprattutto quattro.

Una è Caterina Retzner, Soprano. Meglio conosciuta come “Caty la Pazza”.

È tutt’altro che pazza, intendiamoci. Ma, se consultate un buon manuale sui Temperamenti alla

voce “Collerico”, forse non ci sarà la sua fotografia, ma di sicuro troverete una descrizione che le

somiglia molto.

Caty é dominata dall’impulso ad agire. Deve intervenire su tutto ciò che attira il suo interesse, e lo

fa subito, con determinazione implacabile. Il suo processo decisionale è istantaneo, la sua azione

diretta e penetrante. La sua lingua, affilata.

Dopo che ha “asfaltato” qualcuno – a volte le basta un’occhiata – la sua ira si placa

immediatamente, e riemerge la sua natura entusiasta, allegra, leggera. Non di rado la vittima del

momento, mentre ancora sanguina per le sciabolate da poco subìte, si sente chiedere: “Cos’hai

oggi? Hai una faccia…”. Se pensate che Caty si stia prendendo gioco del capro che ha appena

sgozzato, vi sbagliate. Il fatto è che nella sua memoria non rimane traccia dei colpi che ha inflitto,

né del motivo che ha scatenato l’attacco. Ora che la sua strada è di nuovo sgombra, “come

dev’essere”, procede tranquilla. E si chiede, con genuino stupore, perché ci sono quei corpi

disseminati ai lati della Via, e perché, poveretti, hanno un’aria tanto sofferente.

Amata da molti, da altri segretamente detestata, Caty è una delle colonne del Coro. Per parte mia,

con lei mi diverto un mondo, e sono certo che senza la sua energia e il suo spirito di iniziativa il

nostro gruppo non sarebbe mai arrivato dove è oggi.

Il secondo dei nostri personaggi è Marcello Imbonati, Tenore.

Attempato rappresentante di una famiglia di alto lignaggio, e di oramai scarso patrimonio, Marcello

è uno dei membri più autorevoli ed amati del Coro: colto, amabile, la sua compagnia è

straordinariamente gradevole. Metodico, pondera ogni suo passo con grande attenzione. Nel

catalogo dei Temperamenti, lo collocherei senz’altro alla voce “Flemmatico-Malinconico”.

Da che mi ricordo, Marcello lavora dietro le quinte, fornendo un sostegno continuo a tutte le attività

del Coro. Se non ci fosse lui, il gruppo potrebbe addirittura non esistere più.

Il terzo è Andrea Castellari, Basso.

Anche Andrea mi è molto caro: in lui affiorano, in misura uguale, ingenuità e saggezza. Profondo e

svagato, attraversa la vita con slancio, come possono fare solo le anime protette dal Cielo.

Sul manuale, il suo Temperamento risulta Sanguinico. Il Sanguinico si sofferma su una cosa con

passione totale, ma non duratura. Creativo e imprevedibile, vola senza sosta, di fiore in fiore.

Il quarto, infine, é Sofia de Ybarra.

Una Contralto eccezionale, ma non è questo il punto. Sofia è una forza della natura.

È venuta in Italia quando aveva vent’anni. Ufficialmente, per frequentare l’Università.

Effettivamente, per affrancarsi da suo padre.

Lo conosco bene, suo padre.

Don Ignacio Benedicto De Ybarra, ultimo rappresentante della dinastia dei primi - e più illustri -

allevatori di cavalli Arabi di Spagna. Don Ignacio, come suo padre e suo nonno prima di lui, è un

Patriarca: esige il dominio assoluto sul suo territorio – terra, persone, cavalli – come diritto di

nascita.

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L’ho incontrato, la prima di tante volte, a Jerez de la Frontera.

Lì a Maggio, per una tradizione che risale alla fine del XIII secolo, si radunano per un’intera

settimana professionisti ed appassionati di cavalli da ogni parte del mondo.

Lui ed io ci capimmo subito su una cosa: il cavallo Arabo di pura razza, così elegante e nobile nel

portamento, non è che una manifestazione del Divino, scesa sulla terra per educare l’umanità.

Entrambi conoscevamo la storia, narrata nella notte dei tempi dall’Emiro Abd-El-Kader,

sull’origine di questo nobilissimo essere: “Quando Dio decise di creare il cavallo, disse al Vento del

Sud: "Voglio farti diventare una Creatura. Condensati" e il Vento si condensò. Subito apparve

l'Arcangelo Gabriele, prese una manciata di quella materia e la presentò a Dio, che ne fece un baio

oscuro, dicendo: "Ti chiamerò cavallo. Ti farò Arabo, e ti darò il colore della formica. Ho appeso la

felicità sul ciuffo che ti ricade sugli occhi. Sarai il signore degli animali, e gli uomini ti seguiranno

ovunque andrai. Sarai abile nell' inseguimento e nella fuga, e sulla tua schiena dimoreranno le

ricchezze del mondo. Per tramite tuo, giungerà la fortuna. Poi, Egli mise sul cavallo il segno della

gloria e della felicità: un segno bianco in mezzo alla fronte.”

In quel Maggio di tanti anni fa, mentre da giorni tentavo di convincere Don Ignacio a cedermi un

sauro a cui tenevo molto, vidi per la prima volta sua figlia Sofia: una diciassettenne sfrontata, che

montava con la noncuranza di un gaucho. Mi fu subito chiaro che, se un giorno un uomo avesse

voluto starle al fianco, doveva disporre di potenza e grazia almeno pari a quelle del magnifico

animale che lei stava cavalcando.

Otto anni più tardi, rimasi a bocca aperta nel vederla entrare nella grande sala dove proviamo con il

Coro: era una giovane e bellissima donna oramai, ma irradiava la stessa energia d’impulso di

quando era una ragazzina.

Bene, veniamo a noi.

Tutto ebbe inizio quando Don Ignacio, falliti molti tentativi di far tornare a casa la figlia, che non

vedeva da anni, alla fine trovò la soluzione.

Decise di dare una festa memorabile per il suo sessantesimo compleanno: il culmine della giornata

sarebbe stata l’esecuzione della Grande Messa in Si minore BWV 232 di Bach. Per il Concerto

avrebbe ingaggiato la Real Filarmonica di Galicia al gran completo.

Il Coro, manco a dirlo, era il nostro.

Il minuto stesso che gli venne in mente questa idea, eccitatissimo, mi telefonò: ”Amico mio, devi

pensare tu a tutto quanto, avete quasi sei mesi per prepararvi. Vedrai, sarà un grande successo! E

Sofia, come sta Sofia?”

“Ignacio – gli dissi, cercando di prendere le distanze dalla responsabilità di un simile impegno –

Sofia sta bene, ma…non credi che sia meglio ingaggiare un coro di professionisti?”

“Esto es ridìculo! – strillò lui, come mi aspettavo – yo te digo que serà maravilloso! Penserò io a

lanciarvi! Vi inviteranno dappertutto, dopo questo concerto!”

Discutere con lui è sempre stato uno spreco di energie. In questo caso poi, non lo avrebbe convinto

neanche Bach in persona.

Il nostro giovane Maestro diede l’annuncio ai coristi con comprensibile emozione: ci saremmo

esibiti con una delle più importanti orchestre d’Europa, davanti ad un pubblico di altissimo livello,

in un pezzo di grandissima difficoltà.

Tra gli invitati i Reali di Spagna, e il Gotha dell’industria e della finanza internazionale. I soli che

potevano permettersi cavalli come quelli della Crìa Ybarra.

Quanto a me, ero seriamente preoccupato: un concerto così poteva portare con sé solo due cose: il

trionfo, o un sempiterno svergognamento.

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Così, convocai una riunione di emergenza.

Alle nove di sera del 4 Dicembre, mentre fuori nevicava forte, intorno al mio tavolo da pranzo

sedevano Marcello, elegante e compassato, Caty, eccitata e impaziente – come sempre, quando si

presenta una sfida degna di questo nome – e Andrea, con l’aria trasognata di chi si trova lì per caso.

Il Maestro non c’era: era a Napoli, per certi suoi impegni – e forse era un bene, per quella volta, che

non fosse con noi.

Avendo convocato la riunione, toccava a me aprire le danze. Tacqui per un po’, mentre i miei

commensali, un calice di vino tra le mani, mi osservavano. Cercavo le parole: ai miei occhi, la

questione era della massima serietà.

Un attimo prima che Caty esplodesse, parlai.

“Vengo subito al punto. Conosco Ignacio, e non c’è modo di tiraci indietro”

“Tirarci indietro?” scattò Caty, alzandosi in piedi.

“Caty. Ti prego.”

Sedette con riluttanza, con gli occhi che sprizzavano fiamme.

“…Dicevo, in nessun caso Ignacio permetterà che ci tiriamo indietro. Quindi, siamo in ballo.

Perciò, vediamo di esaminare la questione…Prima cosa, gli Ingovernabili. Ci vuole un piano che

funzioni, stavolta.”

“A loro penso io…” mormorò Caty.

“No. Sai come la pensa il Maestro. E poi, non possiamo permetterci il minimo errore: tanto per

darvi l’idea, la Filarmonica di Galicia questo sabato suona alla Carnegie Hall, diretta da Morales!

Non so ancora chi saranno i solisti, ma Ignacio è capacissimo di ingaggiare i migliori del mondo. La

faccenda è molto, molto seria”.

Mi fermai un momento, per bere un sorso d’acqua.

“Poi c’è l’altra questione. Lei non sa ancora niente.”

“Potrei parlargliene io” disse, calmo, Marcello.

“Te l’avremmo chiesto noi,” gli risposi con evidente sollievo “solo tu puoi affrontare l’argomento

con lei. Ma dobbiamo pensare bene a cosa le dirai: potrebbe reagire molto male.”

All’una passata, la neve aveva coperto la casa, il prato, il mondo intero. E noi eravamo ancora lì.

Non era una cosa facile.

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2. Il Piano

Andrea ed io prendemmo l’impegno di occuparci di quelli che tra noi, affettuosamente,

chiamavamo “gli Ingovernabili”: alcuni membri del Coro che, per motivi diversi, in passato

avevano creato qualche problemino durante i concerti. Il piano d’azione che elaborammo era

piuttosto complesso, ma secondo noi aveva buone possibilità di riuscita.

Caty si assunse l’incarico di tenere in tiro tutti gli altri, con l’aiuto del Maestro e degli elementi più

affidabili delle quattro sezioni. Obiettivo: assicurare un ritmo di studio e una concentrazione tali da

garantire un’esecuzione all’altezza delle nostre migliori capacità. Ero certo che ce l’avrebbero fatta,

come ogni volta.

Marcello, invece, sarebbe andato a parlare con Sofia. Era il compito più delicato.

Discutemmo a lungo, quella notte, su come si poteva presentarle la cosa. Esaminammo tutte le

ipotesi possibili, compresa la più assurda: cercare di darle a bere che l’idea del concerto era nata da

noi, e che Don Ignacio aveva solo accettato di sponsorizzarla.

Alla fine, convenimmo che Marcello, nel momento in cui se la sarebbe trovata davanti, le avrebbe

detto quello che gli suggeriva il cuore.

Lei era Losanna, a studiare per il suo Dottorato. L’avrebbe raggiunta là.

Chiedete a Marcello, se volete, come è andata.

Alla fine, comunque, Sofia ha deciso di venire con noi, e di incontrare di nuovo suo padre.

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3. I Preparativi

Il Concerto è stato fissato per il 18 di Maggio. A fine Aprile, eravamo pronti: sono arrivati i biglietti

aerei, i Security Pass, i voucher per le auto che ci avrebbero portato dall’aeroporto di Cordoba a

Malind de La Alameda, la tenuta di Ignacio.

Abbiamo studiato tanto, e con tale impegno, che potremmo eseguire la Grande Messa incatenati in

fondo a un pozzo.

Il 7 Maggio, mi arrivò la telefonata: “Devi venire qui subito, ti mando un elicottero!” “Ignacio,

cosa c’è? Non posso venire adesso, ho il mio lavoro, la famiglia…” “Non te lo chiederei, se non

fosse importante! Domani! Vieni domani! D’accordo?”

Devo avere qualche grave difetto nel carattere, visto che non riesco ad oppormi, quando mi si

interpella in questo modo. Fatto sta che l’indomani, di primo mattino, salii sul taxi che mi portava

all’aeroporto militare di Pratica di Mare. Là, sulla pista lucida di pioggia, un Sikorsky era in attesa

con i rotori in movimento. Appena salito a bordo, un uomo in mimetica mi allacciò la cintura,

mentre il grosso elicottero si sollevava in un turbine d’acqua, virando verso il mare.

La Alameda era nel caos. Per prima cosa, fui perquisito dagli uomini dei Servizi. Erano lì per la

sicurezza dei Reali e delle altre personalità: più Ignacio strillava che garantiva lui per me, e che mi

lasciassero subito andare, più loro facevano finta di niente, e continuavano imperterriti.

C’era gente al lavoro ovunque.

Una squadra montava la grande vela bianca destinata a proteggere lo spazio per il buffet all’aperto;

altri stavano trasformando il maneggio coperto dove si addestrano i cavalli in una sala da concerto:

il fondo di terra e sabbia era già stato coperto da un pavimento di tavole di legno.

Ignacio mi indicò i due giganteschi pannelli concavi in fondo alla sala, progettati per migliorare

l’acustica.

“Non mi hai fatto venire di corsa fin qui per farmi vedere i lavori. Dimmi cosa c’è”.

“D’accordo. Andiamo dove possiamo parlare.”

Seduti al riparo del grande patio, sul lato sud dell’edificio principale, potemmo finalmente guardarci

negli occhi.

“Sofia sta a Roma, in Svizzera, in America. Ovunque, meno che qui! Sono quattro anni che cerco di

farla venire a casa. A Settembre sono venuto io in Italia, ma qualcuno deve averla avvertita, e non si

è fatta trovare. Tra pochi giorni arriverà – non ha cambiato idea, vero?”

“No. Ha detto che viene, e verrà. Ora dimmi cosa c’é.”

“C’é che sono nei guai. Fino al collo.”

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4. La Famiglia

Nel 1982, Don Ignacio de Ybarra aveva sposato Doňa Alma Cifuentes de Heredia.

Alma, nata da una delle più antiche famiglie di Spagna, era la più giovane di tre sorelle. Una donna

fragile, raffinata, di una bellezza antica.

Fin dai primi mesi del loro matrimonio, e anche dopo, quando già era nata la loro unica figlia Sofia,

Ignacio continuò la sua vita di sempre: nel solco dei suoi antenati, considerava la moglie la più

preziosa delle sue immense proprietà: le tenute, i cavalli, e le molte amanti. Tutto il mondo che

conosceva orbitava, invariabilmente, nel suo formidabile campo gravitazionale.

Sulla figlia Sofia Ignacio proiettava le sue ambizioni, senza fare il minimo sforzo per scoprire chi

lei fosse veramente.

Lei, venuta su un po’ come un maschio, a 15 anni si ribellò con una rabbia ed un coraggio degni di

una vera Ybarra.

Il padre reagì investendola con tutta la sua forza, certo di poterla piegare alla sua autorità.

Per Sofia, il padre era stato una specie di divinità; da allora, divenne il suo Avversario.

In tutto questo, Alma si andava estraniando sempre di più dal marito, dalla figlia, dal mondo.

Quando Sofia era una bambina, e aveva un grande bisogno di lei, Alma le dispensava cure,

attenzioni, cautele. Mai il calore vero di una madre.

Durante la sua adolescenza faticosa, Sofia cercò più volte il suo abbraccio, o il suo rimprovero.

Non ottenne l’uno, né l’altro.

All’alba del 14 Novembre 2005, il mattino dopo la festa per il ventunesimo compleanno di Sofia,

Alma lasciò La Alameda in auto, e scomparve nel nulla.

Ignacio usò ogni mezzo a sua disposizione per trovarla.

Chiese aiuto a tutti gli uomini di potere che conosceva. Ricorse anche al Generale Alexander, allora

Direttore della National Security Agency americana, suo abituale compagno di scorrerie. Per oltre

due anni le due più potenti agenzie private del mondo, e un’intera squadra della NSA, hanno

indagato con ogni mezzo possibile – legale o illegale – senza arrivare a niente.

Alla fine, le autorità Spagnole hanno dovuto emettere un certificato di morte presunta.

Al gigantesco cumulo di mancanze che imputava a suo padre, Sofia aggiunse questo ulteriore,

pesantissimo fardello.

Da allora, fece di lui il suo Nemico.

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5. Guai Grossi

“Che genere di guai, Ignacio?”

“Ti ricorderai di Hernando Palacio, l’Ambasciatore di Spagna in Svizzera.”

“Certo. Il fanatico del polo.”

“Il mese scorso si è presentato qui senza preavviso, con quattro uomini di scorta, e mi ha chiesto di

custodire qualcosa per lui. Due valigie d’acciaio, con serrature molto sofisticate. Mi ha aiutato

molto, quando cercavo Alma, e non potevo dirgli di no.

Così, ho fatto riporre le valigie nel caveau, senza fare domande.

Mercoledì scorso mi telefona, agitatissimo. Mi chiede di andare subito al Miraflores di Torres

Cabrera, e di chiamarlo al numero che mi avrebbe dato il proprietario del locale. Quando siamo di

nuovo al telefono, mi dice che nelle valigie ci sono documenti che compromettono alcune persone

molto potenti, e che lui deve sparire: deve partire il giorno stesso. Mi raccomanda di fare molta

attenzione. Provo a fargli delle domande, ma lui riattacca, senza nemmeno salutare. A quel punto,

dovevo sapere con esattezza a quali rischi andavo incontro. Ho fatto cercare un esperto, che alla fine

è riuscito ad aprire le serrature.

Poi, la situazione è precipitata.

……Ecco, guarda. Questa è arrivata l’altro ieri.”

Prese da una borsa una busta gialla, e ne estrasse una fotografia: si vedeva l’Ambasciatore seduto in

poltrona, con un foro di proiettile in mezzo alla fronte. La parete dietro di lui era schizzata di sangue

e materia cerebrale.

Scritta a penna sulla foto, una semplice frase: Manderemo a prendere ciò che ci appartiene.

“Ignacio, che senso ha parlarne con me? Devi chiamare la polizia!”

“Già. La polizia.”

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6. I Documenti

Nella stanza centrale del caveau, sul lungo tavolo di palissandro, stavano quattro grossi fascicoli. Ci

sedemmo, e Ignacio ne aprì uno. Era intestato

“Procura Generale di Zurigo – Inchiesta Clearings International”.

La compensazione (in inglese, Clearing) è un meccanismo che permette alle banche e agli operatori

finanziari, clienti di una stessa Società di Clearing, di regolare tra loro i rapporti di dare ed avere

generati da transazioni effettuate sui mercati internazionali. Una transazione si realizza mediante

l'acquisto di una parte, e la vendita di una controparte, generando così un debitore e un creditore. La

compensazione si compie aggregando tutte le posizioni di acquisto e di vendita avvenute sui

prodotti o sui titoli detenuti da ciascuna delle due parti, e calcolando il saldo netto che ogni parte

deve dare o ricevere, cercando di minimizzare lo scambio finale di denaro, titoli, o altri beni.

Un tempo lo scambio avveniva fisicamente, in una stanza convenuta: la chiamavano Camera di

Compensazione. Oggi tutto passa attraverso canali digitali. Lo scambio, comunque, non avviene

direttamente tra le due parti, ma tramite la Società che gestisce la Camera, la quale, in cambio di

una lauta percentuale, si pone come garante della transazione, assumendosi per intero il rischio di

insolvenza. Il rischio è a sua volta coperto da una serie di polizze assicurative, il cui costo equivale

a circa il quindici per cento del compenso pattuito. Il margine di profitto è molto elevato.

Ignacio mi guidò rapidamente al punto: nel 2006 la Procura di Zurigo aveva aperto un’indagine

riservata, a seguito del fallimento di un’azienda petrolifera Uzbeka: la Mezhkontinental.

Quel fallimento, a sua volta, aveva generato il crac della Clearings International, garante di un

debito della Mezhkontinental nei confronti del Governo Russo, per un ammontare di 6,4 miliardi di

dollari.

Il management di Clearings International assicurava il rischio presso società consociate, pagando

premi inferiori a quelli di mercato, e intascando la differenza (si spartivano circa 12 milioni di

dollari l’anno, grazie a questa trovata).

Tutto funzionò a meraviglia, fino al giorno in cui fu chiaro che la Mezhkontinental non era in grado

di onorare il suo debito.

A loro volta le società assicuratrici consociate non poterono onorare le polizze, visto che si erano

riassicurate in modo fittizio presso società di comodo, a Panama.

Il gioco era finito. Il fallimento fu inevitabile.

Dall’inchiesta era emerso che alcuni grossi finanzieri si erano associati, allo scopo di drenare

denaro dalla Mezhkontinental: ottenevano avalli su crediti inesistenti, per prestazioni mai erogate,

da due Primi Ministri europei, e da un certo numero di loro esponenti di governo e di sottogoverno.

Nelle carte c’erano nomi, date, cifre. I documenti provavano ogni transazione, e i beneficiari dei

trasferimenti di fondi.

Visto che nulla era ancora trapelato sulla stampa, nel 2007 Hernando Palacio, Ambasciatore

Spagnolo a Berna, che da gran tempo era sul libro paga di quel gruppo di finanzieri senza scrupoli,

ricevette l’incarico di corrompere le poche persone che erano al corrente dell’inchiesta, e di far

sparire la documentazione dagli archivi cartacei ed informatici della Procura di Zurigo.

Così, Palacio attivò immediatamente la sua “squadra speciale”: tre ex agenti dei servizi militari

spagnoli, un colonnello della Riserva, e una decina di mercenari. Le sue disposizioni furono

eseguite con rapidità ed efficienza.

Sembrava tutto a posto, quindi.

Ma a Gérard Mathieu, fondatore ed azionista di maggioranza di Clearings International, e a Peter

Schmidt, suo socio di riferimento, non sembrava affatto tutto a posto. Dopo il crac della Società,

entrambi avevano visto sfumare gran parte dei loro patrimoni, e il futuro si presentava loro fosco ed

incerto.

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Perciò, decisero di utilizzare parte dei loro notevoli fondi di riserva per pagare degli investigatori, e

sapere finalmente a chi dovevano dire grazie.

Avevano scelto investigatori di prim’ordine; quindi, alla fine, lo seppero.

Ma saperlo non fu loro di grande giovamento: in una bella giornata di sole, il taxi che li portava

dall’aeroporto al centro di Ginevra improvvisamente uscì di strada, si capovolse, e prese fuoco. Le

cause dell’incidente non furono mai chiarite.

Palacio, dopo aver portato a termine questo ennesimo delicato incarico, certo di meritare di più di

quanto finora aveva ricavato, ebbe la brillante idea di batter cassa dai suoi committenti.

Di certo non aveva riflettuto bene sul fatto che quei Tali, per proteggere i loro interessi, non

avevano esitato a commissionargli corruzione, concussione, e più di un omicidio.

Così, quei documenti che Palacio avrebbe dovuto distruggere, e che lui pensava di utilizzare come

strumento di persuasione, diventarono il suo salvacondotto per l’aldilà.

E adesso, quegli stessi pericolosissimi soggetti stavano per mandare i loro cani da combattimento a

La Alameda.

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7. Contromisure

“D’accordo, Ignacio, è vero: sei in un mare di guai. Cosa ti aspetti che faccia?”

“Che mi aiuti a ragionare. Sei sempre stato bravo a ragionare.”

“Bene. Allora ragioniamo! Di chi ti puoi fidare?”

“La polizia locale prende la stecca da chiunque sia disposto a pagare. Il Comandante della Guardia

Civil e i suoi due vice sono coinvolti in un giro di fondi neri.

Ai Servizi non ho più amici da parecchio tempo. Alexander è malato, e l’NSA lo ha tagliato fuori.

Le agenzie private sono sul mercato, al migliore offerente.

Insomma: in questa faccenda posso contare su Diego, sui suoi figli, e su di te.”

“Oh, magnifico!” dissi io.

Diego Santamaria gestisce La Alameda da più di trent’anni. Prima di lui, c’era suo padre a mandare

avanti l’allevamento. Diego è il tipo d’uomo che nessuno, potendo scegliere, vorrebbe mai avere

come nemico. Addestrato da decenni di lotte con puledri e stalloni, ha la forza di un leone di

montagna, e la tempra di un guerriero. Nestòr, suo primogenito, è della sua stessa razza: solido

come la pietra. Miguel, invece, ha preso dalla madre: magro e asciutto, lavora molto più di testa che

di braccia. Ha occhi penetranti, e cervello fino.

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8. Si avvicina il Concerto

Gli orchestrali ed i coristi sono arrivati la sera del 14. La mattina dopo sono iniziate le prove nella

grande sala dell’ex maneggio coperto.

Già il pomeriggio stesso il nostro Maestro, con i suoi modi tranquilli, e il suo magnifico sorriso, si è

guadagnato l’attenzione e il rispetto dei musicisti.

Da quel momento, orchestra e coro hanno iniziato a viaggiare insieme, come un solo gigantesco

respiro.

Al termine della prima giornata di prove, ho convocato Caty, Marcello e Andrea in camera mia, per

metterli al corrente della situazione. Abbiamo convenuto di non coinvolgere il Maestro: aveva un

lavoro importante da fare, e non doveva essere distratto per nessun motivo.

Il 16 sono arrivati i solisti, e hanno subito iniziato a provare con noi e con l’orchestra.

Intanto, decine di addetti alla sicurezza setacciavano gli edifici e il terreno circostante con i

rilevatori di esplosivi, e i cani da polvere da sparo, mentre i loro capi non smettevano un attimo di

parlare al telefono.

Sofia stava con il gruppo del Coro: lei e Ignacio si erano visti, ma sempre in presenza di molte

persone, e non si erano ancora parlati. Si tenevano d’occhio, a prudente distanza l’uno dall’altra.

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9. Prova Generale

E arrivò il 17. Il giorno della Prova Generale.

C’era agitazione nel Coro, soprattutto nelle sezioni femminili.

Andrea ed io ci adoperammo per persuadere le nostre amate compagne che sarebbe andato tutto

bene, e che avremmo fatto una bellissima figura.

Loro, come al solito – un po’ per non discutere troppo, un po’ perché “per voi maschi va sempre

tutto bene” – fecero finta di crederci.

Ignacio, alla fine, aveva deciso di parlare con Sofia dopo il concerto. E mi aveva fatto promettere di

essere presente anch’io. “Nel caso che qualcosa vada storto”, disse.

L’azione si svolse molto velocemente, e ne ho un ricordo un po’ confuso. Cercherò di riferire i fatti

nel modo più fedele possibile.

Eravamo radunati nella grande sala allestita dietro il palco principale: coristi da una parte,

orchestrali dall’altra. Mancavano circa dieci minuti all’inizio della Generale, e avevamo appena

finito di fare i vocalizzi di riscaldamento, sotto la guida attenta ed esperta di Marco, uno dei vice del

Maestro.

Come faccio ogni volta nelle occasioni importanti, a fine mattinata mi ero raccomandato con tutti di

fare silenzio negli ultimi minuti prima della prova, per cercare di concentrarci al meglio: un’altra

delle mie battaglie senza speranza.

Appena terminati i vocalizzi si formarono i capannelli di rito, e le chiacchiere impazzavano.

Forse è proprio vero che per noi maschi ‘va sempre tutto bene’: vidi due sconosciuti entrare in fretta

nella sala, e pensai che fossero gente di Ignacio, scartando subito il dubbio che mi aveva

attraversato la mente quando notai la loro espressione dura e determinata.

Distolsi perciò lo sguardo per tentare, appunto, di raccogliermi un po’.

Dopo un attimo qualcosa mi costrinse a voltarmi,e la scena che vidi mi sconcertò: i due avevano

afferrato le braccia di Sofia dai due lati, e lei strillava con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre

loro la trascinavano verso una delle porte di uscita. Quello che successe subito dopo, non potrò mai

più dimenticarlo.

Quattro coriste, tutte di età intorno ai cinquanta, balzarono addosso ai due aggressori come leonesse

inferocite, facendoli rotolare a terra insieme a Sofia.

Non potevo immaginare con quale rapidità e decisione sono in grado di reagire delle donne non più

giovanissime, quando si tratta di proteggere una cucciola del branco!

Solo allora gli altri – me compreso – si svegliarono dallo stato di stupefatta paralisi in cui l’evento li

aveva gettati, e ci muovemmo in molti.

In un attimo, almeno una dozzina di coristi e coriste si lanciarono sopra i due, immobilizzandoli a

terra, e alcuni di noi rimisero in piedi Sofia, che sembrava decisamente più arrabbiata che

spaventata.

Contemporaneamente, un terzo componente della banda di rapitori, che tentava di guadagnare la

porta, fu placcato da una professoressa di matematica (tra l’altro, formidabile cuoca), un ingegnere

informatico e un violoncellista, e subito dopo fu immobilizzato da un numero imprecisato di coristi

ed orchestrali.

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Non vi racconterò cosa successe dopo: il parapiglia generale, l’Ignacio Furioso, la polizia, i

giornalisti….

Forse, ve lo dirò una prossima volta.

O forse lascerò che immaginiate voi, seguendo le inclinazioni del vostro animo, com’è finita tra

padre e figlia, com’è andato il concerto, come si è conclusa la faccenda dei documenti.

C’è un’altra cosa però, che vi voglio dire: quello che ho sentito io quando, ancora un po’ stordito,

ho lasciato tutti e sono andato in camera mia, per stare un po’ da solo.

Ho sentito che siamo un gruppo formidabile. Un vero gruppo.

In tanti, ciascuno a modo suo, abbiamo agito per proteggere uno di noi.

Senza pensare, senza valutare.

Per noi c’era una sola scelta, e l’abbiamo fatta.

Era la nostra Prova Generale.

Ed è stata un grande successo.

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Carla Vanti

Tracce di lacrime sullo spartito

Primo atto. La voce mancante

Era una notte buia e tempestosa … così mi sarebbe piaciuto iniziare questo racconto.

Invece, a dire la verità, è una sera come tante altre durante l’anno, sera calda ed umida dedicataall’ultima prova prima del concerto .

La mail arrivata la settimana precedente era stata chiara: presenza tassativa, pena l’esclusione! Matutti sapevano che certe regole sono fatte per essere infrante, i soliti assenti con il sorriso piùsmagliante si sarebbero presentati all’ultimo momento, e nessuno avrebbe avuto il coraggio dimandarli via proprio prima dell’esibizione.

L’impresa in cui il coraggioso direttore aveva coinvolto la corale era davvero rischiosa. Si trattavadell’esecuzione completa della Passione secondo Matteo di Bach, un’opera molto complessa, cheavrebbe messo a dura prova le capacità dei coristi. Per questa volta, non ci si poteva permettere ilsolito clima goliardico e scanzonato: vista l’eccezionalità dell’evento, fra gli spettatori del concertoci sarebbero state persone molto, molto importanti.

Incominciano le prove. Un po’ di riscaldamento della voce, giusto cinque minuti, per non stressaresubito le corde vocali appesantite dalla giornata di lavoro. Poi inizia il ripasso del coro finale. Perprimi, i bassi. Come al solito, i bassi hanno studiato e vanno via lisci come l’olio. Belli, pieni,profondi.

Poi i tenori. Stasera sono pochi, e non sembrano neppure d’accordo sulle note e sul tempo.Qualcuno ha studiato, canta sicuro, si sente bene la sua voce inconfondibile; gli altri sono incerti etremolanti. Oddio, chi ci procura qualche altro tenore?

E’ la volta dei contralti. Senza infamia e senza lode: le vocali troppo aperte, i respiri rumorosi, gliattacchi un po’ in ritardo … i soliti problemi. Ma questa sera sembra che la sezione sia fin troppodebole. Do’ una rapida occhiata e mi accorgo che stranamente manca un contralto secondo, unacorista che è sempre presente, puntuale ed affidabile, canta bene e sostiene le vicine. Assente, senzanemmeno aver avvisato!

Mentre provano i soprani, e come al solito scambiano il piano per il mezzo forte e il forte per ilfortissimo, mi chiedo cosa sarà successo. Lo domando sottovoce alla mia amica, che non sa nulla ea sua volta lo chiede alla sua vicina e nonostante il passaparola che si trasmette di posto in posto, difila in fila, nessuno riesce a dare notizie.

Viene l’intervallo. Per fortuna questa sera non c’è nessun compleanno da festeggiare e la pausadurerà un tempo ragionevole. Esco per prendere qualcosa dalla tasca della giacca appesa fuori, edecco che mi pare di sentire proprio la sua voce, la voce della contralto assente, che dal fondo dellescale mi invita a raggiungerla. Un po’ perplessa, un po’ spaventata, scendo.

Scatoloni di vestiti, libri usati, manifesti del catechismo, le solite cose. Di lei nemmeno l’ombra.Eppure, quella voce inconfondibile … sarà stata la stanchezza, cosa vado a pensare. Torno suinsieme ai fumatori, ma per il resto della prova mi continuano a frullare per la testa quella assenza equella voce.

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Secondo atto. La sparizione

Nessuno ne sapeva nulla. Una scomparsa in piena regola, così, dall’oggi al domani. Impensabile,conoscendo la nostra amica, seria e affidabile sul lavoro come in ogni altro suo interesse. Sparita allavoro, alla famiglia, agli affetti, come volatilizzata.

La polizia si informa, indaga …. nulla. L’automobile è nel parcheggio, la borsetta con soldi edocumenti è in casa, i vestiti tutti a posto. Ultimo segno della sua presenza, lo spartito aperto sultavolo e una matita a fianco.

Si accavallano ipotesi e congetture: i maligni parlano di un amante segreto così importante da farleabbandonare tutto, altri le attribuiscono la decisione di cambiare radicalmente vita, altri ancoraipotizzano un misterioso delitto senza prove, consumato in chissà quale angolo della casa …. masono tutte idee senza fondamento.

Non riesco a capacitarmi della sua scomparsa e non posso togliermi dalle orecchie l’eco della suavoce, udita giù dalle scale dell’oratorio, in quella calda sera di settembre. La mia mente logica sirifiuta di seguire idee irrazionali, ma le indagini non stanno portando a nulla e con il passare deigiorni si rafforza l’ipotesi di una sparizione voluta, o provocata da un delitto.

L’ultima sua traccia è proprio lo spartito che forse stava studiando prima di scomparire. Che siaquello la chiave del mistero? Era mai capitato che dei cantanti, dilettanti o professionisti, sparisseromentre studiavano un brano musicale?

Non sapendo come approfondire questo abbozzo di idea, chiedo aiuto a uno dei miei amici del coro,un saggio e valente professore in pensione. Forse insieme a lui troverò la chiave per rispondere allemie domande, o per mettermi definitivamente il cuore in pace.

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Terzo atto. L’altra dimensione

L’amico professore per prima cosa mi chiede se ho assunto qualche sostanza o il mio tasso alcolicoè fuori norma. “Ma come, proprio tu che brilli sempre per raziocinio, mi vieni a dire che potrebbeessere scomparsa mentre cantava, o a causa di ciò che cantava? In primo luogo il canto non favolatilizzare le persone, in secondo luogo non stiamo studiando pezzi che nascondono messaggicifrati: si tratta di Bach! La musica di Bach, anche se contiene abbondanti simbologie, non èpericolosa! Comunque, giusto per accontentarti, cercherò di indagare in merito”.

Così mi ritrovo liquidata in quattro e quattr’otto, con l’aggravante di aver dato l’impressione di averperso la bussola. Ha ragione lui, devo proprio mettermi il cuore in pace.

E invece … dopo due giorni mi telefona tutto agitato e mi chiede di incontrarlo di persona, perchédeve dirmi qualcosa di molto importante. Indagando sui numerosi attributi della musica, acominciare dagli anfratti della storia greca, ha letto racconti di viaggi in siti soprannaturali comel'isola che non c'è, luogo privilegiato di suoni con i quali viene comunicata la felicità. Nei raccontigreci le persone narrano di “aver volato su ali di farfalla” e di aver raggiunto luoghi che sono inun’altra dimensione, ma vicina e sovrapposta alla nostra.

In tempi molto più recenti, i sopravvissuti alla morte parlano dell’esistenza di un luogo vicino a noi,ma che non riusciamo a percepire perché ha frequenze diverse dalla nostra, possiede uno spazio eun tempo tutto proprio e lo si raggiunge solo con lo spirito. Quindi, mi dice l’amico, potremmoazzardare questa ipotesi: quando i suoni procurano un’intensa emozione e lo spirito si eleva al di làdi tutto, in casi eccezionali anche il corpo potrebbe andare a raggiungere questi luoghi di un’altravita. Ipotesi fantasiosa, ma non impossibile.

Il canto di note troppo struggenti potrebbe aver portato la nostra contralto in un’altra dimensione: sequesta dimensione è parallela e speculare alla nostra, per riportarla indietro dovremmo invertire ciòche ha fatto lei. Mi mostra lo spartito del coro 68, poi lo mostra di nuovo mettendolo di fronte allospecchio, e allora capisco. Prima bisognerà ripercorrere il suo stesso viaggio, lasciandosi trasportarecorpo ed anima da quella musica, poi cantare le note in ordine inverso, come in un canoneretrogrado, per tornare alla dimensione precedente.

A questo punto sono io a pensare che il professore, nonostante l’età avanzata, abbia iniziato adassumere sostanze, tanto la sua interpretazione è azzardata, ma in fondo cosa mi costa provare? Sitratta di un semplice tentativo di viaggio in una dimensione parallela …

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Quarto atto. La ricerca

La stanza in cui mi ritrovo è buia e misteriosa e non so cosa potrò scoprire negli angoli dove la lucenon arriva. Mi incammino verso l’altra dimensione, il luogo dove i vari universi si sovrappongono.Apro la porta ed inizio ad avvertire gradevoli profumi, canto di uccelli, suono di vento fra gli alberi,musica lieve prodotta dalle piante, dagli animali e da misteriosi strumenti musicali. Questo insiemedi suoni e di sensazioni mi fa piombare in una specie di estasi di felicità, in cui i confini del miocorpo si fanno impalpabili e la mia identità diventa tutt’uno con ciò che mi circonda.

Questo pericoloso dedalo di sensazioni rischia di farmi perdere il senso del tempo, dello spazio esoprattutto della mia missione, del motivo che mi ha condotto fin quaggiù. A quale appiglioattaccarmi, per non essere inghiottita a mia volta in questa oasi soprannaturale?

Le parole del professore erano state chiare: l’unico modo per risalire alla dimensione precedente èdi continuare a cantare quelle note in ordine inverso, senza perdere l’intonazione, senza modificarela durata e le pause, con costanza e decisione. Avrei dovuto cantare, cantare e continuare a cantare,chiedere alle mie corde vocali di sopportare un enorme stress fisico, insieme a quello emotivo chetutto il mio essere provava.

Mi volto indietro. La porta da cui ero entrata è scomparsa. Non ci sono alternative, la sfida deveiniziare. Mentre imbocco un corridoio che si fa sempre più largo e continuo ad avvertire i suoni e lamusica che mi circondano, attacco le prime note. Escono un po’ incerte e titubanti, la gola stretta, labocca chiusa. No, così non va bene, sto sbagliando tutto! Se continuo in questo modo, fra mezz’orasarò già stanca e la mia voce roca: non raggiungerò il mio obiettivo e non riuscirò a riemergere.Cosa diceva il mio maestro? Busto eretto, sguardo fiero, spalle abbassate, obliqui ben tesi, golarilassata, bocca aperta, suono ben proiettato.

Già è difficile quando sei in piedi, fermo e concentrato: io intanto devo camminare, non confonderele note, non modificare la durata, e cercare il fantasma di lei fra la miriade di spettri che mi siavvicinano. Coraggio: ricordati di non calare, pensa le note sempre in alto, in alto, in alto, e vai,vai…

Oramai io e le mie note siamo diventati una cosa sola, un’ossessione che diventa ad ogni passo piùpotente ed avverto sempre meno la musica che mi circonda, i suoni degli strumenti e il canto degliuccelli: sento che la mia forza aumenta ma non so se sarà sufficiente a trascinare anche lei, perrisalire insieme verso la dimensione del reale.

Visi, ricordi, immagini del passato mi tornano alla mente scorgendo persone da tempo perdute,un’amica che ha lasciato troppo giovane la vita, mia nonna con il suo sguardo dolce ed austero, suomarito con i capelli bianchi e la catena dell’orologio che penzola dal taschino, e in fondo a tutti ilcammino sicuro di mio padre, che guardandomi fisso negli occhi mi raccomanda di riferire allamamma che è sereno e sta bene … ma dopo un attimo scompare.

La tentazione di smettere di cantare è troppo forte, so che se lo farò potrò abbracciarlo, parlargliancora, dirgli che ho seguito i suoi consigli, raccontargli che sua nipote è diventata una donna bellaed affidabile, come lui avrebbe voluto. Ma invece no, sono qui per altro, devo cantare, cantare,cantare. Ancora suoni, ancora le mie note a rovescio, ma sento che stanno diventando più incerte, lagola incomincia a stringersi, la mandibola a serrarsi, il respiro a farsi più corto.

Prima che lo sconforto mi assalga, finalmente scorgo la sagoma inconfondibile di lei, la posturadecisa, i lunghi capelli biondi. Tiene per mano una persona più vecchia ma non ancora veramenteanziana, con lo stesso naso e il medesimo fare autoritario ed energico.

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Ecco la ragione della scomparsa, ecco perché quando ha cantato con tutto il suo trasporto “Wirsetzen uns mit Tränen nieder und rufen dir im grabe zu: ruhe sanfte, sanfte ruh!” (“Ci sciogliamoin lacrime e a te nel sepolcro diciamo: riposa in pace, in pace riposa!”) è stata portata in questadimensione, a ricongiungersi con la persona che più di tutte voleva riposasse in pace, e di cuisentiva ancora una dolorosa mancanza.

Solo uno sguardo, alza la testa, butta di lato i capelli e con un sorriso mi dice: “Ce ne hai messo deltempo per arrivare, ma sapevo che avresti capito!”. Cara amica mia, non posso risponderti con leparole, posso solo continuare a cantare e portarti con me fra queste note a rovescio, fino a che nondiventano le tue note, inizi a cantarle con tutta la forza che hai e insieme possiamo riemergere versola dimensione da cui siamo venute.

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Quinto atto. Epilogo

Lo spartito è lì davanti a me, gli appunti a matita ben chiari, la mia parte evidenziata, ma nei righidell’accompagnamento la carta è increspata da alcune lacrime. Risollevo la testa che mi era caduta,muovo il collo dolorante, sento un brivido per la schiena e lungo le braccia.

Il PC continua a suonare e alla fine del brano riprende ogni volta, da capo, “Wir setzen uns… “. Lamia gola è secca, la voce stanca, il corpo trapassato da un’emozione profonda.

Non potrò mai più cantare queste pagine di Bach senza commuovermi.

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Maria Grazia Spada

E’ un’altra musica

1

Camminare sotto i suoi lunghi portici, seguirne i vicoli stretti e poi perdersi.

Mi sono ritrovata in una Bologna vibrante, lontano dal quadrilatero austero della sua piazza dacartolina; finalmente l'ho trovata la città, nascosta fra i mattoni rossicci dei palazzi e le volte deiportici e l'ho sentita. Bologna rilascia musica e basta solo soffermarsi ai cartelloni pubblicitari coiprogrammi per non sapere più cosa scegliere fra i tanti mondi musicali che vi pullulano.

Sotto i suoi portici la musica si studia, si sperimenta, si prova con tutti gli strumenti, con i piùdiversi spartiti e si espande per tutta la settimana fra i suoi ritrovi nei vari teatri, nei bar, nellecantine, nelle osterie.

E’ un’altra musica quella a cui mi sono avvicinata da qualche anno, più classica; ed è stata unapiacevole scoperta per me che non abito in città. Si sono aperte così le porte di piccoli scrigni diindicibile bellezza quali gli Oratori di San Rocco e di Santa Cecilia mirabilmente affrescati. E sel'austera Sala Bossi del Conservatorio G.B. Martini accoglie sempre intenditori appassionati, SanColombano, il cui ciclo di affreschi si estende in una successione di finte aperture sulla paretemuraria, con la Collezione di clavicembali e spinette antiche, impreziosite anche da pitture dipaesaggi e scene mitologiche, non può che far sognare.

Continuare a camminare, inseguendo le note che si rincorrono su un arco o sopra un tasto, che siliberano dai fiati o dalle percussioni, come in un pellegrinaggio per le tante chiese e i chiostri nellabella stagione, per i cortili interni dei palazzi antichi.

Sono arrivata. Sotto l’alto e imponente porticato all’entrata del Teatro Comunale sono in attesadelle mie amiche.

<<Avete già preso i biglietti?>>

Non ci sono problemi; la fila alla biglietteria non è molto lunga in questa domenica pomeriggio. Lamaschera all’ingresso della platea ci invita ad accomodarci al palco in primo ordine.

Resto in piedi ancora un attimo, poi lentamente le luci si abbassano fino a spegnersi per lasciarespazio al buio e al più completo silenzio. I riflettori sono puntati sul palcoscenico.

Gli applausi annunciano il direttore d’orchestra, poi si apre il tendaggio vellutato del sipario e iniziail primo dei quattro atti; la scena ci mostra l’alba di un lontano Medioevo che illumina lievementeun villaggio delle Fiandre.

Guardo l’orologio dopo qualche ora: il tempo è passato in fretta piacevolmente. Ormai il pubblico èdefluito dopo l’ultimo applauso e l’inchino degli artisti chiamati alla ribalta.

Le luci si spengono anche nel foyer e le porte stanno per chiudersi alle nostre spalle.

<<Cosa facciamo adesso? Perché non andiamo a prendere un aperitivo qui vicino?>> La propostadi Luana viene subito accolta.

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Non siamo le uniche ad aver avuto la bella idea e a stento riusciamo a trovare un posto a sedereall’interno del bar- ristorante così accogliente negli arredi e provvisto di un pianoforte a coda.

<<Ciao ragazze. Come va?>> Ci saluta cordialmente la titolare: è suo il gusto creativo che si rifletteanche nei piatti proposti, negli aperitivi e soprattutto nei dessert. Si rivolge poi a Luana:

<<Cosa ti porto bella signora?>> La bionda ristoratrice conosce i suoi clienti e per ciascuno ha inserbo sempre una stuzzicante novità.

<<Fai tu. I tuoi salatini sono favolosi>>. Dice la mia amica, mentre l’altra si allontana a vedere sulretro del locale la terrazza che si affaccia sul canale delle Moline; è un angolo molto romantico erimanda ad antiche suggestioni della città medievale. L’acqua torbida scorre lenta fra le vecchiecase e poi se ne perde la vista, come imbottigliata e messa in cantina: torna là dove si interseca larete dei canali sotterranei. Di sera in questa stagione i tavolini restano deserti e la nostra amicarientra velocemente a riscaldarsi, ordinando al banco una tazza di the.

<<Siete state a teatro? Cosa avete visto di bello?>>

<<C’è stata una rappresentazione di Edgar, un’opera di Giacomo Puccini. Molto bravo il tenore>>.Il colloquio si svolge soprattutto fra loro, Roberta e Luana, che si conoscono da lungo tempo, daquando Luana cantava nel coro del Comunale.

Intervengo io: <<Sono sincera, non la conoscevo proprio! Però davvero molto gradevole e belli gliallestimenti. Mi è piaciuta l'interpretazione della sfortunata Fidelia>>.

<<Beh, cara, stiamo parlando di un grande compositore. Anche se giovane si vede subito lastoffa!>> Dice Luana sorridendomi dolcemente, mentre ora assaggia un crostino fatto con polentaabbrustolita ricoperta da formaggio filante e porcino in umido.

Non passa molto che il locale si infittisce all’ora che vengono serviti gli aperitivi e la porta a vetri siapre nuovamente.

<<Ma che bella sorpresa! La Lodesani >>. Luana si alza e si fa incontro alla vecchia signora che sista togliendo il cappello alla ricerca di una sedia su cui appoggiarlo; si salutano, si abbracciano e poivengono al nostro tavolo: ci stringiamo e facciamo posto per lei e il suo accompagnatore, un signorealto e distinto.

Non si può che restare ad ascoltare i loro ricordi dei tempi passati; anche la Lodesani era unacantante lirica e i suoi occhi si illuminano mentre racconta della sua esperienza artistica avuta conun Luciano Pavarotti ancora agli esordi.

<<Beh, si è fatto tardi. Dobbiamo rientrare. Per venire all’opera abbiamo preso un taxi e oradobbiamo telefonare per prenotarlo>>. I signori si apprestano per pagare, ma Luana è pronta aoffrire anche a loro l’aperitivo e ad accompagnarli a casa con la sua auto.

<<Perché allora non andiamo tutti?>> Propone il signore.

Alloggiano alla Casa di Riposo per artisti drammatici Lyda Borelli; lasciati i viali, seguiamonuovamente i portici che accompagnano e abbelliscono la via Saragozza in leggera salita.

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Parcheggiata la macchina nel parco centenario che attornia la grande villa costruita all’inizio deglianni trenta e invitati dai nostri amici, saliamo i gradini che ci introducono all'ingresso sotto ilporticato fra alte colonne. La luce è soffusa e si diffonde verdastra nell’atrio che si adorna di piantedalle lucide foglie lanceolate; i busti in gesso che raffigurano due grandi protagoniste delle sceneteatrali sembrano guardarsi dalle specchiere dorate e così il fascino di Eleonora Duse e Lyda Borellialeggia e ci accompagna per quelle stanze arredate in stile Déco. La porta a vetri apre ad una saladalle pareti affrescate di verde ove spicca una grande raffigurazione del lago di Como che dona unarilassante sensazione di quiete; verso le vetrate, che danno l'affaccio alla terrazza sul giardino, duecolonne stanno a lati opposti a formare come un tempietto dove vi troneggia un pianoforte a coda.

<<Qui abbiamo fatto tante feste>> . Via via che i nostri amici ci invitano a seguirli nelle variestanze noto come tutto l’ambiente sia elegante e ben tenuto.

Mi rivolgo al gentile signore che durante la conversazione si è presentato come attore e registateatrale a riposo. Sono curiosa del suo parere: <<Maestro, le è piaciuta l’opera di Puccini?>>

<<Piacevole senz’altro. Certo fu un suo componimento giovanile e il meglio doveva ancora venire.Ma io prediligo Rossini>>. Allarga un sorriso: <<Mi definisco “rossinista” come lo era l’amicoBacchelli. Eh, di questo ne parlo proprio nel mio libro>>.

<<Ah, ma che bello! E’ qui che scrive? Questo luogo è sicuramente fonte di ispirazione>>.

Lui mi guarda con occhi vivi ed espressivi. Ci invita alla presentazione del suo nuovo libro inomaggio all’amico e collaboratore teatrale Riccardo Bacchelli.

Ho capito bene? Ci penso sopra un attimo prima di chiedergli timidamente:

<<L’autore del romanzo storico “Il mulino del Po” ? Lei lo ha conosciuto!?>>

<<Si mia cara, mentre tu lo studiavi sui libri di scuola>>.

Quanto entusiasmo nelle sue parole. E’ anche simpatico e arguto; si percepisce che la sua è statauna vita intensa e piena di soddisfazioni, ricca di incontri memorabili e momenti edificanti.

Continuo a guardare con curiosità i vecchi oggetti in mostra dentro alle vetrinette dei mobili: lastatuetta in ceramica, il vassoio ossidato da cui compare a tratti la reminiscenza di un scintilliod'argento; passiamo da una stanza all’altra.

<<Questa villa è davvero un museo degno di visita per gli appassionati con tutto il materiale storicoche vi è raccolto!>> Mi viene da dire, mentre mi soffermo davanti alla teca in vetro che custodisce ivecchi abiti di scena di proprietà di Antonio Gandusio.

Scorrono nei miei occhi gli oggetti lasciati in eredità alla casa dai vari ospiti durante la permanenza,ancor più preziosi in quanto mantengono in sé il ricordo dei loro proprietari.

<<Ecco la sala da pranzo>> . La Lodesani è euforica nel mostrarci la dimora.

<<E’ molto bella>>. Le dico dolcemente, mentre guardo con devozione i suppellettili cherimandano alla fragilità di un tempo passato, come se a toccarli dovessero improvvisamenteinfrangersi; il vecchio orologio solido e panciuto e ancora funzionante nel sottolineare col suorintocco la nuova ora ci esorta ad andare.

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<<Questa è la stanza dei ritratti, dico io>>. La Lodesani mi guarda sorridendo, mentre mi soffermorapita davanti ad una parete: <<Qui ci vuole più tempo per vedere bene tutto!>> A fatica proseguopoi insieme agli altri verso l’uscita.

<<Tornerete a trovarci? Ma lo sapete che qui c’è anche il teatro? Si potrebbe fare una bellacommedia, una rappresentazione >>. Lei mi trattiene ora la mano e mi guarda con gli occhi pieni disperanza ravvivata da questa sua bella idea. Mostra ancora lo spirito vivo e allegro di una ragazzinache ha qualcosa di nuovo da scoprire.

<<Sì. Sarebbe bellissimo. Dobbiamo rivederci>>.

L’abbraccio teneramente e sento che lei ne ha davvero bisogno. E’ strano come nel lasciarlasubentri in me un vago senso di malinconia; eppure ci siamo appena conosciute, ma quel suoaggrapparsi speranzosa a me e alla nuova idea mi commuove. Tornerò a trovarla.

2

La musica palpita nel cuore e Bologna accoglie con calore anche il neofita. La primavera scorsa un'amica che abita a breve distanza da casa mia mi ha invitato alla Basilica di San Domenico in centrostorico.

<< Bisogna arrivare presto per prendere i posti. L’ingresso è libero e ci sarà una marea di gente!>>Mi dice mentre attraversiamo in fretta la città.

Dal chiostro facente parte del complesso conventuale attiguo alla basilica, spazio alla musica nellagrande sala Bolognini adorna di migliaia di libri che sembrano messi lì apposta per migliorarnel’acustica.

<<Chi si esibisce questa sera?>> Mi lascio trascinare dall’entusiasmo di Carla.

<< La corale di cui ti ho parlato. Vedrai, ti piacerà. Fanno lo Stabat Mater di Rossini>>.

Stentiamo a trovare posto. La sala è gremita quando si accomodano gli orchestrali, segue il coro,entrano i quattro solisti e compare infine il direttore.

Silenzio. Da lontano allungando il collo riesco appena a vedere la bacchetta che dà l’attacco.L’esecuzione è toccante, rende partecipe in un crescendo che lascia sì senza fiato gli artisti, maanche l’intero pubblico che può liberare tutto il suo entusiasmo in un ripetuto applauso al terminedella grandiosa fuga finale.

<<Svelta, svelta. Andiamo! >> Con uno scatto repentino Carla è in piedi e mi trascina in avanti; ciimmergiamo nella folla e cerchiamo l’uscita che hanno preso i componenti del coro. Eccoli! Li vedogià in lontananza vestiti di nero; i cantanti e i musicisti insieme ancora frastornati da tanta ovazionestanno cominciando a cambiarsi nei locali interni. C’è un gran via vai di persone. <<Complimenti… Bravissimi!>> Si sente riecheggiare per i corridoi.

Noi ci avviciniamo al tenore che sappiamo essere uno dei referenti della corale Quadriclavio; èfacilmente riconoscibile dagli occhiali da vista con il telaio spesso e nero.

Dopo i convenevoli gli chiediamo informazioni per essere ammesse alle loro prove.

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Io e Carla abbiamo una passione in comune: il canto. Entrambe fin da bambine abbiamo coltivato ilsogno di poter far parte di un coro. Le nostre voci poi armonizzano molto bene fra loro, la sua daitoni più bassi di contralto con la mia che vuole sempre raggiungere la nota più alta. E ci piace ilrepertorio della corale, che esegue musica sacra e barocca.

In poco tempo siamo state inserite nell’organico; Lorenzo, il giovane maestro, dopo la miaaudizione alquanto stentata mi ha guardato incerto: << Che strano, non ti sento molto bene. Sei unsoprano … timido. E’ la prima volta che mi capita. Ti metto fra i soprani secondi, per adesso>>.

Il gruppo ci ha ben accolto e ci ha fatto posto dimostrandoci grande affiatamento. Io e Carla ciguardiamo sorridendo con aria di intesa alle battute spiritose del maestro e degli altri coristi; spessoi loro toni sono quelli goliardici di chi vuole divertirsi, nonostante l'impegno richiesto dal repertorioche viene eseguito e durante le prove c'è sempre un momento di vivace ricreazione.

Mi dice Giorgia, entrata nel coro anche lei da poco, mostrandomi lo spartito della Messe in H – Molldi Johann Sebastian Bach da studiare e scandendo bene le parole:

<<Lo vedi? Tutto quello che ha fatto questo signore è difficile!?>>

Lo vedo e ci credo appena mi metto a studiarlo. Non so come, ma dopo prove e riprove, oddio nonce la faccio, mi accorgo invece che Bach è nelle mie corde. Ed è bellissimo poterlo interpretare; ilgrande compositore riesce ancora una volta a compiere un miracolo nel modellare il timbro dellamia voce.

Io e Carla, partecipando con entusiasmo alle prove, studiando con impegno brani difficili -e maiavrei immaginato di cantare in latino la Krönungs - Messe e il Vesperae solemnes de confessore diMozart- abbiamo già potuto partecipare a diversi concerti in città e a Roma. E’ un’emozionegrandissima e piacevole far parte del coro: sentire la propria voce e quella degli altri dar vita a ununico canto che si rincorre e poi si amalgama durante l'esecuzione; soddisfare le richieste delmaestro. Quando lui ci dice:<<Dovete tenere gli occhi puntati su di me soprattutto quando vi do gliattacchi, se no cantate per i fatti vostri! Avete capito tutti, carissimi?>> sbatte le ciglia e allargal'occhio mostrando il suo bellissimo iride azzurro. Sempre brillante, sa strappare le risate di tutti; frai vari commenti che si vanno generando, a fatica riesce ad ottenere l'attenzione: <<E ora sopranieccomi a voi …. Fatemi sognare!>> e allarga le braccia prima di un piccolissimo accenno diattacco.

Sugli spartiti delle mie compagne – soprano, oltre ai segni di matita che rilevano stacchi, legature,messe di voci, noto disegnati tanti occhi.

E' un’altra musica quella che adesso posso ascoltare, è quella che sale dal profondo del mio cuore emi riempie di gioia.

3

A Bologna la musica unisce il mondo. Ieri sera Luana mi ha invitato a cena a casa sua. I porticisono diventati il mio punto di riferimento e seguendoli da Porta Saragozza verso l’Arco delMeloncello svolto nella stretta stradina di via Turati. Suono il campanello all'interno del cortile fra icaseggiati della vecchia Bologna e man mano che salgo lascio dietro ad ogni gradino un poco delrespiro di cui ho fatto provvista per arrivare fino al quarto piano: eppure, mi dico, quassù si canta.Luana mi apre la porta sorridendo e riceve il mio saluto ansimante:

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<<Buona sera.... Scusa ma non sono abituata a tutte queste scale! Però mi fa bene un po' dimovimento>>.

L'appartamento lo conosco già e mi muovo all'interno con disinvoltura. La tavola è imbandita: vispicca il verde nelle sue varie tonalità fra i riflessi dell'acqua nei vetri trasparenti; in cucina Luanasta preparando un menù alla toscana. Ci sono gli altri ospiti, una giovane coppia di sposi lui pianistaitaliano e lei brasiliana si sono conosciuti in Belgio. E poi c'è Katja, mezzo soprano, svedese.

Si parla di musica e di come sia sempre più difficile mettere su uno spettacolo, con costi diproduzione altissimi.

Ci guardiamo cupamente negli occhi e alziamo alti i calici per brindare all'arte e alla cultura. Katjaparla un italiano perfetto, ma la sua altezza e la chioma nordica la tradiscono:

<<Sono tanti anni che vivo qui, ho studiato musica e Luana mi è stata di grande aiuto nelsostenermi col canto; le voglio tanto bene>>.

Arrivata nel nostro Paese con una valigia e il biglietto di sola andata pagato dai genitori, ricorda itempi del conservatorio quando oltre al problema della lingua aveva quello di rapportarsi colprofessore; a sentir lui la sua voce era quella di una zanzara e non ci si sarebbe cavato niente dibuono. Katja in estate ritornò al suo paese in Svezia e per consolarsi comprò dei cioccolatini e nemangiò tanti, poi di ritorno a Bologna al conservatorio si presentò nuovamente al professore perun'altra audizione. Lui la guardò corrucciato da sotto gli occhiali: <<Ancora niente di buono conquesti vocalizzi>>.

Il gesto di Katja fu davvero di grande coraggio e di sfida al tempo stesso; aveva portato icioccolatini con sé forse per farne dono al professore o forse per addolcirsi un eventuale amaro inbocca. Sorride adesso nel raccontarlo:

<<Presi la scatola dei cioccolatini e la sbattei sul pianoforte e gli dissi che se in me non c'era nientedi buono, che li assaggiasse quei cioccolatini così squisiti; che se io non andavo bene qualcosa dibuono comunque in Svezia c'era!>>

Poi erano seguite le lezioni private, i tanti sacrifici e la voglia di riuscire a farcela. E ce la fece, conla caparbia di riproporsi al professore non più con dei vocalizzi, ma con brani da mezzo soprano: lavoce scaturì e non fu sibilo di zanzara, ma penetrante e sonora. Si iscrisse al conservatorio e diventònegli anni pupilla del professore.

Attorno alla tavola su cui è stata servita la crostata ai frutti di bosco e panna montata si ride e sicontinua a mangiare.

Si è fatto tardi e non resta che fare un ultimo brindisi:

<<Alla musica>> , <<al canto>> , <<alla poesia>>.

Luana mi trattiene ancora un attimo e si adagia sul divano accanto a me nello studio: sul pianofortedue damine in porcellana allargano la loro lunga veste colorata con armoniose movenze e silasciano ammirare.

Luana come sempre parla pacatamente e si nota il suo accento toscano tramandatole dai nonnimaterni, ma poi si mette a parlare della Scozia, suo paese di origine, e così vengono fuori altri colori

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e suoni della sua voce. La nostra amicizia è recente ma già solida ed è la musica che entrambeamiamo a far da collante.

<<Dai Luana>> le chiedo affettuosamente <<fammi sentire qualcosa, un pezzo>>.

Non è quello il momento e lei continua invece a raccontare del teatro, del coro del Comunale dovelavorava, delle tourneé in giro per il mondo e i suoi occhi risplendono luminosi.

C'è un gran silenzio intorno e la stanza sembra racchiuderlo tutto:

<<Questa è la mia scatola magica, il mio rifugio>> mi dice mentre stende le gambe sul tappeto;proprio davanti alla porta è appeso un quadro particolare che raffigura un uomo ammantato di rosso.Lo guardo e mi sembra fuori posto in mezzo a tutti gli oggetti dal gusto femminile che arredanol'ambiente.

<<Quello è un regalo di Chris Connell, il mio amico pittore. Rappresenta San Panteleimon con lasua scatola di strumenti da medico>>.

Non sono particolarmente interessata a quell'ora e mi si chiudono gli occhi: la voce di Luana,sempre così calma e dalle cadenze musicali quando risponde in inglese, sta diventando soporifera.

Faccio fatica a seguire il suo discorso....

<<E' il mio angolo rosso>>. Lei continua a raccontare in totale relax.

Cosa? Mi riprendo dal mio stato di torpore e nel tentativo di darmi un contegno mi alzo un attimo emi avvicino alla finestra. Da lassù si vedono i tetti ammantati di oscurità. Non vedo niente di rosso… o forse aveva detto russo.

<<Cosa mi dicevi, scusa?>>

Anche Luana sembra assorta e ripete con pazienza:

<<.E' il mio angolo rosso. L'icona. E' un’ antica tradizione russa averla in casa, proprio davantiall'ingresso e viene chiamato angolo rosso. In Russia nelle vecchie dacie le porte erano basse, cosìchi entrava si doveva abbassare con la testa e in tal modo faceva un inchino davanti all'icona. Era unatto di devozione, cara>>.

Ora capisco, sì , il quadro. Sono del tutto presente a me stessa:

<<Certo. Cosa rappresenta?>>

<<Te l'ho già detto... Dipende, può rappresentare un santo o il Cristo; il santo dipinto nel quadrocorrisponde al nostro San Luca. San Panteleimon si prodigò per gli ammalati, i sofferenti, glisfortunati e i bisognosi. Quando Chris mi fece scegliere, e parlo di tanti anni fa, fra i suoi quadri inmostra qui a Bologna indicai proprio quello, perché fui particolarmente attratta da quel soggetto>>.

Poi Luana mi puntualizza che Chris lo riprodusse da un’iconostasi in una piccola chiesa di Ciproche fu poi distrutta durante l’invasione turca.

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Dalla finestra, oltre i tetti il colle della Guardia svetta con l' imponente e famoso santuario dellaBeata Vergine di San Luca; arrivarci a piedi partendo dall'Arco del Meloncello, salendo i tantigradini sotto i portici che seguono l’erta strada non è più solo un pellegrinaggio votivo o unaprocessione liturgica, ma un percorso vita per i bolognesi.

<<Luana ti devo lasciare. Andiamo giovedì in Santa Cristina? C’è un bel duo, tenore e pianoforte.Dopo però subito a casa. Non facciamo così tardi! Un bacio ancora. Buona notte>>.

La saluto dopo essermi inchinata davanti all’icona; fatte le scale mi avvio velocemente attraverso ilcortile: tutto è buio e per strada non c’è nessuno. Sta cominciando a piovere e per i viali circolanopoche auto. I fari illuminano un paesaggio nebbioso appena la campagna mi avvolge silenziosa conla sua fitta rete di stradine e di fossati ai lati. Procedo guidando a venti all’ora protesa in avantiverso il volante: so quanto sia pericolosa la nebbia e in questa zona compare improvvisa e spessoavvengono degli incidenti mortali. Ripenso alla serata e al santo del dipinto chiedo in cuor mio diassistermi. E’ mezzanotte e trenta quando giro la chiave nella toppa e tiro finalmente un sospiro disollievo: grazie San Panteleimon per avermi fatto arrivare a casa.

4

A Bologna la musica indica la strada. Guardando in alto verso il cielo nel tempo del Natale, il fascioluminoso che evidenzia nel buio la torre degli Asinelli sembra aver catturato tante stelle su di sé. Nericordo ancora la magica atmosfera e mi rivedo con la veste in nero, emozionata dalle ultimealtissime note dell’Halleluja di Händel ancora in gola, scendere le scale dell'altare maggiore nellaBasilica di Santo Stefano seguita da una scia di applausi.

Attraverso la Piazza della Mercanzia dopo essermi dilungata per i caratteristici vicoli che si fannoesigui, provvisti come sono degli sporti che li restringono verso l’alto e con i beccatelli sporgenti adaltezza d’uomo. Nel pomeriggio ho fatto un giro per i negozi del centro in cerca di qualcheoccasione in tempo di saldi.

Ai piedi delle due torri -e la Garisenda sembra pendere sempre di più ogni volta che la osservo-imbocco in direzione della Porta una delle vie più importanti del centro storico; Strada Maggiorecoi prestigiosi edifici che vi si affacciano e incorniciata da una lunga teoria di portici si mostraquanto mai signorile al passante. Ai lati della strada noto i cumuli scuri della neve ghiacciata cherimandano un brivido di freddo in più. Stringo bene il cappotto e avvolgo la sciarpa dai pon pon dipelo grigio attorno al collo. Mi frulla per la testa e mi tiene compagnia un ritornello e quando passodavanti alla casa che ospitò nel milleottocento Gioachino Rossini, lo accenno in suo onore: <<… insempiterna, in sempiterna, in sempite erna … Amen … >> Forse il Maestro compose la sequenzaliturgica dietro quelle mura, e comunque sia i bolognesi poterono ascoltare la prima esecuzioneitaliana poco distante da lì, nell'Aula Magna dell'Archiginnasio.

Con Luana ho appuntamento per le venti e se giro per via Fondazza arrivo in pochi passi davantialla piazzetta Morandi; entrati nella chiesa illuminata a giorno ci sediamo accanto ad un signore conbarba e berretto e mentre aspettiamo vedo il pubblico che man mano prende posto nelle tante file dicomodi sedili disposti nell'unica navata; arriva anche Giorgia con un'amica e facciamo largo allegiovani. Il luogo è davvero suggestivo ed è caratterizzato dall'altare maggiore su cui spicca ilbellissimo dipinto di Ludovico Carracci che si illumina con l'Ascensione del Cristo; ai lati due portesormontate da finestre aprono sul coro, la stanza retrostante. Sarà l' attesa fra il rumorio dei passi, ilfruscio degli abiti, il vociare sommesso, un rimbombo, che è un'altra musica quella che mi sembradi sentire adesso: un sussurro. E’ il canto di preghiera delle monache camaldolesi che più di

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settecento anni fa si insediarono entro le mura di Bologna e fondarono qui il loro convento. O forsemi è parso....

Questa voce che si intromette nello scambio di saluti con l' amica bibliotecaria che mi hariconosciuto fra il pubblico mi sembra di averla già sentita: il signore con la barba è interessato ainostri programmi musicali e si presenta gentilmente, dichiarando con orgoglio le sue origini franco-longobarde. Ma sì, se escludo la barba forse questo signore l'ho già conosciuto e se non sbaglio erain Oratorio San Rocco ad un altro concerto.

Lo guardo con più attenzione e ora mi ricordo del suo cognome discendente dalla stirpe carolingia.

Anche lui è rimasto piacevolmente sorpreso nel rivedermi: <<Certo che ci siamo già incontrati altrevolte. Ho buona memoria per un viso come il suo. E se lei canta....>>

<<Allora mi avrà visto in Santo Stefano per il Concerto di Natale?!>>

Il nostro primo incontro avvenne casualmente qualche anno prima e in tal modo ci siamo ritrovatiquesta sera fianco a fianco.

<<Porta ancora il suo amuleto al collo?>> Gli chiedo andandogli a guardare sotto la sciarpa.

<< Eccolo qua, non me ne distacco mai. E' il simbolo della conoscenza, in antico aramaico. Questainvece è una croce longobarda con una pietra dura al centro>>. Innamorato della musica e profondoconoscitore non può che augurarmi un buon ascolto: la scelta è stata ottima.

Santa Cristina offre un programma musicale raffinato ed eccellente e stasera ascolteremo le note diFranz Schubert caratterizzare col suo Viaggio d’inverno le poesie di Wilhelm Müller. Mi guardoattorno: la chiesa è proprio bella con quattro cappelle per lato intervallate da nicchie ospitanti statuedi santi e il San Pietro, scolpito da un Guido Reni sorprendente scultore, con le sue chiavi dorate inmano sembra volerci illudere, nel tempo dell'esecuzione musicale, di poter essere ammessi inParadiso. Il Winterreisesta per iniziare e può contare su un'acustica perfetta. Mi sistemo meglioprima del totale irrigidimento del corpo. Solo il cuore potrà palpitare di più per avvicinarsi alsolitario protagonista del componimento nel suo eterno gelido viaggiare e infondergli poi un attimoimmaginifico di calore, con lo scrosciare dell' applauso.

A Bologna la musica compie il suo miracolo: inizia il concerto.

Le luci si abbassano ed è allora che Santa Cristina diversamente dalle altre chiese può risaltare nellasua piena eleganza, con le delicate tonalità del biscotto degli alti capitelli, trabeazioni e cornici inrilievo sulle candide pareti, intercalate dall'oro delle grandi ancone lignee dei dipinti. Scende ilsilenzio e il tenore si appoggia un attimo al pianoforte prima di un suo cenno al pianista. La vocegarbata attacca sottovoce e il Gute Nacht si eleva carezzevole fra le imponenti e bianche statue:stanno immobili, è vero, ma come fossero in attesa d'essere destate al susseguirsi delle intense enostalgiche suggestioni che i due eccezionali artisti sapranno ricreare.

5

A Bologna la musica confonde il tempo. Avevo fatto una promessa.

Un freddo febbraio sta per finire e il parco in alcuni angoli è ancora ricoperto di neve, dopo lelunghe precipitazioni dei giorni scorsi e una cinciallegra sbatte veloce le piccole ali e si fa spazio

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sotto gli aghi di un abete. Dalle finestre della grande casa di riposo per artisti su da via Saragozzafiltrano bianchi riverberi per far più luce nella stanza dei ritratti.

Le pareti sono tutte ricoperte da vecchie fotografie in bianco e nero, con dediche autografate.Ritraggono attori famosi che con la loro arte hanno punteggiato in teatro -e più avanti in televisione-le varie epoche del secolo scorso; e quando arrivavano in città con le compagnie teatrali nonmancavano di far visita ai colleghi, ospiti della casa di riposo. Un viso sembra fissarmi, un altro misorride ammaliante. Mi stupisco nel riconoscere una Ave Ninchi giovanissima, Gino Cervi, unabellissima Maria Melato e tanti altri.

<<Sono venuta fin quassù perché ho un invito da farvi per questa primavera. Sarà in maggio, didomenica, nel tardo pomeriggio; la mia Corale è stata invitata per celebrare una ricorrenzaecclesiastica molto importante al Convento dell’Osservanza>>.

<<Che bello … Non è distante da qui, solo qualche colle più indietro. Possiamo proprio venire asentirvi>>. Dice la Lodesani euforica.

<<Cosa eseguirete?>> Chiede con curiosità il nostro amico regista.

E’ il mio turno per gongolare soddisfatta:

<<Adesso le faccio una sorpresa, Maestro >>.

<<Bene, bene. Mi piacciono le sorprese!>>

Non credo quasi alle mie parole:

<< Lo Stabat Mater di Rossini! Ora capisco cosa intendeva a riguardo del suo compositore preferitocol suo stile fugato. Questo crescendo che non dà respiro ….

Pensavo che non ce l'avrei mai fatta>>.

6

A Bologna la musica si è fermata. E’ sceso il silenzio in Piazza Maggiore gremita di una follacomposta, i volti mesti, gli occhi arrossati nascosti da scuri occhiali da sole; il silenzio segue gliultimi attimi insieme al cantautore, musicista e poeta tanto amato in città e nel mondo. Il feretro tra ifumi dell’incenso e le preghiere si perde nel mare palpitante delle persone accorse per l’estremosaluto a Lucio Dalla, dopo che la morte lo ha raggiunto improvvisa. Lui diceva che la musica nondeve avere steccati. Alzo gli occhi ad un sole pallido quando il suo canto si disperde sopra i tettidella città. Ma non è ancora arrivato il tempo quando in cielo volano le rondini.

Scritto nel marzo 2012

E' gennaio 2013 e ho un altro desiderio.... è tra quelle righe... e sarebbe bello condividerlo con tuttivoi.

Il mio abbraccioMaria Grazia Spada

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Giovanna Babina

Amatori o Amadori? Jean Paul Sartre, nel suo “A porte chiuse” sosteneva che “L’enfer c’est les autres”. L’inferno sono gli altri o in senso più lato, l’inferno è qualcosa che viviamo qui, sulla terra, giorno dopo giorno, creato da noi stessi e da chi ci sta intorno, senza dover necessariamente aspettarcelo in un aldilà. Adesso non vorrei sembrare troppo melodrammatica. Magari non si tratta proprio di inferno. Ma di purgatorio sì, decisamente sì. E cercato ed inseguito con una costanza che in effetti ha dell’ulraterreno. Infatti viene da domandarsi cosa spinge delle persone normali, mediamente buone, corrette, oneste ad auto infliggersi simili trattamenti. E cosa blocca invariabilmente preti e frati mediamente (qui si potrebbe approfondire) caritatevoli, accoglienti e pietosi, di impedire alle persone di cui sopra questa flagellazione? Mah… Ho iniziato bene, con un pizzico di cultura ed uno di filosofia esistenziale. Ora però passiamo al concreto. Dopo che: ieri sera, nell’ennesima chiesa freddissima gelatissima, i miei piedi volevano ammutinarsi dal resto del corpo non sopportando più i maltrattamenti a cui li sottopongo da circa 16 anni, dopo che: - l’ennesima chiesa era anche mezza buia e non si riusciva a leggere lo spartito - lo spartito non si sarebbe potuto leggere comunque perché la sistemazione su due gradini profondi circa 10cm ci faceva stare ammassati come sardine e lo spazio per aprirlo non c’era - come sempre ha avuto luogo il rituale del “qui ci sono io da sempre” e “allora io non starò mai al centro?” e “ma tu ieri non c’eri” e “però l’altra volta ero qui” e “io vicino a lei non ci sto” - l’acustica era pessima e avrebbe fatto piangere anche Beethoven all’apice della sua sordità - l’acustica pessima ha indotto come al solito qualcuna a pompare con l’ugola assordando il circondario e provocando ore di mugugni - il prete, sotto i suoi sette strati di maglia e quattro di grasso, insensibile a tutto ci ha fatto stare in piedi un quarto d’ora in più per ascoltare un’inutile quanto imprecisa presentazione - presentazione caduta pressoché nel vuoto perché il prete, sotto i suoi sette strati di indolenza e quattro di pressappochismo non si era preoccupato di annunciare il concerto durante le Messe della settimana (troppo tempo impiegato per questuare, doveva tagliar corto) - l’accoglienza che ci hanno fatto ha brillato per la totale assenza del più basilare conforto (nemmeno pane e acqua come ai carcerati, forse la questua non era andata bene)

Insomma, trattati molto spesso come polli in batteria, tutti sul pullman, tutti giù dal pullman, tutti insieme senza spogliatoio, tutti a volte senza cesso, tutti in fila, tutti dentro in chiesa, tutti stipati, tutti farsela sotto, tutti (quasi) cantare, tutti sorridere, tutti fuori di chiesa, tutti sul pullman, tutti giù, tuttinautogrilltuttisulpullmantuttigiùsiamoarrivati… uf, magari è anche l’una o le due di notte… per fortuna che c’è la Cetty con le sue torte… ma chi ce lo fa fare, eppure lo facciamo sempre… mi sorge spontaneo un dubbio: non è che da qualche parte nella nostra presentazione sul sito ci siamo sbagliati e invece di scrivere CORO DI AMATORI, abbiamo scritto CORO DI AMADORI1?

1 L’autrice si riferisce ovviamente alla nota azienda Amadori di Francesco Amadori, nota per allevare intensivamente pollame cui viene tirato il collo a scopo alimentare.

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Simone Zanichelli La rà, la rà, la la, la rà Ripongo l’abito di raso forse finto, i gioielli falsi che pur hanno una brillantezza festosa e antica, i lunghi guanti di improbabili feste, e mi accorgo che vorrei avere uno di quei bauli di legno di cedro, con le borchie sottili di ottone, di quelli pensati per le traversate in mare sui bastimenti. Vi metterei anche il ricordo delle mie amiche belle come fiori di serra, i colori accesi delle cocorite in amore, i capelli lucidi di riccioli appena smossi dall’aria gentile dei ventagli. Vi metterei il passo elegante dei miei amici in marsina, alta la testa sotto i cilindri lucidi, e lo sguardo altero dei mattatori appena usciti, eroi, dall’arena tinta dal sangue dei tori e dalle mantiglie andaluse. E qualcosa mi canta nel cuore, con una malinconia sottesa che pur avverto come un piccolo dolore. Come una giostra che gira, i cavalli di legno intarsiato che si alzano e discendono alla cadenza ritmica dei carillons, senza senso e senza meta. E il vecchio gobbo, le rughe segnate da troppe risate amare, ha perso lo smalto irridente e i colori di corte, l’anima di padre è carne viva che pulsa, e fa male Ebben, piango... Miei signori.. perdono, pietate...�al vegliardo la figlia ridate...�ridonarla a voi nulla ora costa,�tutto al mondo è tal figlia per me. La giostra gira, il carillon si inceppa sulla voce incrinata dal pianto che l’abito da buffone rende grottesco. Azucena dagli occhi neri gli fa da eco, il fuoco dei falò dei gitani sono un tutt’uno con il rogo che ha bruciato madre e figlio, e la fa cantare con la voce scura come ciò che è profondo e nero, l’anima sprofondata in abissi antichi Stride la vampa…. giunge la vittima nero vestita, discinta e scalza...grido feroce di morte levasi… sinistra splende sui volti orribili la tetra fiamma che s'alza al ciel! Che storie lontane, al limite dell’assurdo. Inverosimili, macchinose. In un sacchetto di stoffa metto via il ventaglio e una stola di velo sottile, le ultime cose rimaste, e mi accorgo che lo faccio con una lentezza che non mi è usuale, quasi a non volere staccarmi da quel mondo fuori dal tempo che per una volta è stato anche mio, anche solo per un’avventura estiva. Forse sarà per la magia del racconto che ti prende, ti porta via in mondi lontani e meravigliosi, fuori dalla realtà di tutti i giorni che ti spegne e ti consuma Sì, cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi… Ti prego, ma quanto ti prego, cantami di grandi amori, di grandi avventure, di qualsiasi orrore o moto del cuore, purchè sia grande, grande da fare battere forte il cuore, fare volare e sognare e piangere. Sarò là, tra quei fior, presso a te sempre. Amami, Alfredo, amami quant'io t'amo! Addio! Cade riversa e come morta Violetta, redenta e resa immortale da quell’amore appassionato e la sua voce si alza pura e altissima come fumo alla sera, fino al cielo stellato di una notte d’estate. Ed è questo, ora lo capisco, che mi trattiene dal separarmi da tutto questo. Io che non amo la lirica. Non è la magia della favola, non il rimpianto del c’era una volta. Ma la forza dei sentimenti espressi, sviscerati, gridati, svenuti, cuori colpiti e sanguinanti di odio o di amore, che importa, ma tirati fuori e impietosamente esposti agli sguardi di tutti, ma liberati e liberi, esposti forse allo scherno ma anche alla condivisione e al conforto O quanto peni ma pur fa cor qui, soffre ognuno del tuo dolor, fra cari amici qui sei soltanto, rasciuga il pianto che t’inondò

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Sarà che faccio fatica a vivere nel mio tempo. In cui i grandi amori finiscono con un sms, si va a lavorare il giorno dopo che si è seppellito chi ti è più caro, si hanno centinaia di amici in Facebook ma a quanti di loro si è detto “Ti voglio bene. Per me sei importante”. Eppure siamo gli stessi. Qualcosa di Rigoletto, di Azucena, di Violetta è ancora in noi, e cerca le note per essere cantato. Forse prenderemmo qualche antidepressivo in meno. Forse, in certe notti, sentiremmo meno il peso della solitudine e l’angoscia di vivere. Forse. Perché il cuore c’è rimasto. Forse. Il cuore. La rà, la rà, la la, la rà……. Povero Rigoletto….. la rà, la rà, la la, la rà….. canticchio mica tanto sottovoce e alla fine non resisto e anche se non ci arrivo canto a tutto il quartiere Porto: Amami, Alfredo, amami quant'io t'amo! E ora posso chiudere non il baule di legno di cedro ma il mio banalissimo armadio, e tirare il sipario sulla mia avventura con il coro Quadriclavio per festeggiare il bicentenario della nascita del sior Pépén, come lo chiamava il mio papi che era di Parma e un loggionista sfegatato del Regio. Grazie a tutti voi di averla resa indimenticabile.

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L’apprendista

Dedicato a chi è partito, e non è ancora arrivato.

C’era una volta, molti anni fa, un Maestro dei Suoni. Il suo nome era Pende Chödak. Questa è la storia del suo apprendistato.

1. Il Primo Istruttore

Yeshe Osel era un allevatore di cavalli, come suo padre e suo nonno. Da più di cento anni la sua famiglia allevava cavalli thaki, di origine mongola. Gli stessi cavalli che, nel tredicesimo secolo, portarono l’orda azzurra di Gengis Khan alla conquista dell’impero. Piccoli e robusti, resistono alla fame, al freddo e alla fatica meglio di qualunque altra razza al mondo. Yeshe possedeva cento e otto magnifiche bestie, quando sua moglie Yurta partorì il suo terzogenito. Fin da ragazzo, i pascoli preferiti di Yeshe erano quelli intorno a Ramche, il villaggio dell’Himalaya Nepalese in cui era nato. Ma la notte in cui venne al mondo il suo terzogenito, la sua vita cambiò. Quella notte venne a lui un sogno molto speciale. Vajradhara, la più anziana e la più bella delle sue fattrici, la cavalla con il pelo color del miele e gli occhi d’ambra, stava proprio accanto al suo letto, e gli parlò. “Nel primo giorno di luna nuova partiremo verso oriente, e cammineremo, fino a che tuo figlio non avrà trovato il suo Primo Istruttore”. Vajradhara aveva parlato con voce soave e profonda, e Yeshe Osel prese molto sul serio le sue parole. Il mattino seguente portarono il neonato al monastero oltre le colline, per farlo benedire da Raytu Rinpoche. Il vecchio Lama gli appoggiò l’indice destro in mezzo alla fronte : “Il suo nome sarà Pende Chödak – disse - il vostro compito sarà aiutarlo affinché il suo destino si compia”. Così fecero tutti i preparativi, e all’alba del primo giorno di luna nuova, Yeshe e il suo primogenito Khadro-La guidarono la mandria verso est, in direzione delle montagne innevate. Sul carro c’erano le tende, le provviste, e Yurta, con i suoi due figli più piccoli. Era già luna calante quando attraversarono le colline Shiwalik, ed entrarono nel Darjeeling, Dorje-Ling, la Terra del Fulmine. Yeshe non aveva idea di come avrebbe potuto riconoscere il Primo Istruttore di Pende. Così, ad ogni nuovo villaggio che incontravano lungo il sentiero, chiedeva agli anziani se vi fosse, da quelle parti, un Maestro. Incontrò diversi Lama, ma nessuno di loro accettò di prendere suo figlio come allievo. Erano in cammino da oltre due mesi quando giunsero a Gangtok, non lontano dal confine meridionale del Tibet. Là, un vecchio monaco gli disse di provare al monastero di Lachung, a dodici giorni di marcia verso nord, e chiedere di Khumbu Rinpoche. Arrivarono che l’inverno era ormai iniziato: la terra cominciava a ghiacciare, e diventava sempre più difficile trovare pascolo per la mandria. Era notte, quando si accamparono sulla collina di fronte al monastero. Alle prime luci dell’alba Yeshe sellò un cavallo, e preso Pende con sé cavalcò verso il grande stupa con gli occhi dipinti che sovrastava gli edifici del monastero. Dietro una

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curva dello stretto sentiero, che si snodava pericolosamente sul ciglio di una gola molto profonda, d’un tratto l’Himalaya Tibetano apparve in tutta la sua magnificenza : le grandi montagne coperte di neve si vedevano per decine di miglia. Ad ovest, gli ottomila metri del Kanchen Junga, colorati dalla luce rosata dell’alba, si stagliavano contro il primo chiarore del cielo. “Guarda, Pende – sussurrò, come se parlasse a sé stesso – guarda!” Legò il cavallo nei pressi del tempio principale. Alcuni monaci, accovacciati davanti alla grande porta rossa, gli dissero che il Maestro stava preparando una Puja, e non poteva essere disturbato. Yeshe sedette sotto l’ampio portico di legno e si dispose ad aspettare, mentre il bambino, avvolto in una coperta di yak, dormiva. Passarono così molte ore, finché Pende, affamato, si svegliò, e cominciò a piangere. Piangeva forte, così forte! Piangeva talmente che ad un tratto la porta del tempio si spalancò, e in mezzo ad un gruppo di monaci apparve il Lama in persona. Aveva un aspetto terribilmente irato, e disse che la Puja era stata interrotta, ed era un cattivo presagio. Dovevano andarsene, subito! Con un gran peso sul cuore Yeshe tornò all’accampamento, e Pende non smetteva di piangere. Yurta provò ad allattarlo, ma lui rifiutava il seno, e continuava a piangere. Pianse tutto il giorno, e piangeva ancora quando calò la notte…. Il pianto di Pende era così forte che rimbombava sulle pareti delle montagne, e teneva svegli tutti i monaci del monastero. Yeshe era davvero afflitto : non aveva più avuto sogni, Vajradhara non gli parlava più, e Pende non mangiava, non dormiva. Piangeva. Pianse sette giorni e sette notti, senza requie. Fino a che, allo spuntare dell’ottavo giorno, qualcosa accadde. Una piccola finestra sotto il grande stupa si aprì, e ne uscì un unico, nettissimo suono. In quello stesso istante, Pende tacque. Poco dopo un gruppo di monaci arrivò all’accampamento con un messaggio da parte di Khumbu Rinpoche : il Lama mandava a dire che il bambino doveva essere portato da lui, per essere istruito. Per i primi tre anni Pende stette con la sua famiglia, e ogni mattina Yurta lo portava per un’ora nella stanza di Rinpoche. Là giocava tranquillamente, mentre il Lama gli faceva ascoltare il suono della sua campana e dei suoi cembali, e ogni tanto cantava per lui delle misteriose, incomprensibili canzoni. Dall’inizio del quarto anno, il bambino rimase stabilmente al monastero. I suoi genitori potevano vederlo una volta al mese, in occasione della Puja per la luna piena. Si era appena concluso il settimo anno, quando Khumbu Rinpoche riunì tutti i monaci e gli abitanti del villaggio, per un insegnamento pubblico. In queste occasioni neanche il grande Gompa era sufficiente, così l’insegnamento si svolgeva in un grande spiazzo all’aperto. Il Lama sedeva su un sedile di legno posto in alto, in modo che tutti potessero vederlo, e udire la sua voce. Un grande baldacchino coperto da tende colorate lo sovrastava. Intorno e davanti a lui sedevano gli oltre seicento monaci del monastero, e dietro di loro, un migliaio di persone : la gente del villaggio, e i pellegrini venuti da fuori. Tra questi, la famiglia di Pende al completo. Pende Chödak era seduto su un cuscino, alla sinistra di Rinpoche. Le vesti rosse e gialle da piccolo monaco Ghelupa gli stavano proprio bene. A quel tempo, avere un membro della famiglia in monastero era considerato un grande privilegio, e i suoi genitori erano molto fieri di lui. Il Lama suonò la campana. Mentre il suono si diffondeva nell’aria, il brusìo della folla poco a poco si chetò. Il silenzio era oramai totale, e il suono della campana, così lungo da sembrare senza fine, si udiva ancora. Per un momento su quella collina spoglia, intorno a quel baldacchino dai colori sgargianti, sembrò che il tempo si fosse fermato. Le grandi montagne innevate, gli immensi spazi deserti di quella terra dura e selvaggia sembrarono sospesi nel vuoto. Solo i falchi volavano, in alto, nel blu minerale del cielo.

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Poi il Ghesce più anziano, con la sua voce bassa e profonda, intonò la prima strofa delle Lodi a Tara. All’inizio della seconda strofa, tutti i presenti si unirono a lui. Quel canto antico, espressione di amore e di venerazione per la principale divinità femminile della tradizione tibetana, risuonò ancora una volta tra quelle valli pietrose, a rinnovare la memoria perduta dei mondi invisibili. Quando il canto finì, Khumbu Rinpoche si schiarì la voce, e cominciò il suo insegnamento. Noi esseri umani – disse – ci incarniamo sulla terra perché abbiamo un compito da svolgere. La maggior parte di noi, poco dopo la nascita, perde ogni contatto con le sue vite precedenti, e dimentica lo scopo per il quale si è incarnato. La memoria del nostro passato si dissolve, come un sogno al sorgere dell’alba. La condizione dell’essere umano ordinario, perciò, è di dover lottare per ritrovare il filo nascosto del proprio compito nel mondo. E, una volta ricordata la destinazione del proprio cammino, di lottare per portarlo a compimento. Un cammino pieno di inganni e sofferenze, lungo il quale è facile smarrirsi. Quante persone, vittime delle loro percezioni illusorie, arrivano a convincersi che l’esistenza umana non ha uno scopo, né un significato! Shakyamuni Buddha, e i Bodhisattva che hanno percorso il suo stesso cammino, ci hanno mostrato che una volta ottenuta una preziosa rinascita umana, noi abbiamo due possibilità : arrenderci, o lottare. Se decideremo di arrenderci, avremo inutilmente allungato il tempo delle nostre sofferenze, poiché l’ostacolo che rifiutiamo oggi, immancabilmente si presenterà di nuovo nel futuro. Se invece decidiamo di lottare per percorrere il sentiero verso la liberazione, allora dovremo affrontare degli Avversari. Oggi parleremo del ruolo degli Avversari nel compimento del nostro cammino verso la liberazione. Il primo Avversario che si fa incontro a colui che percorre il sentiero, è la Paura. Se sarà sconfitto da questo Avversario, l’uomo sarà condizionato per tutta la vita dalla sua paura, e non potrà avanzare di un solo passo sul sentiero verso la liberazione. Se invece si eserciterà pazientemente nel dominare la sua paura, e lo farà abbastanza a lungo da riuscire infine a convivere con essa senza più perdere la calma, allora acquisterà la forza di stare di fronte alle difficoltà del mondo. Questa realizzazione permetterà all’uomo di iniziare a muoversi, e percorrere il primo tratto del sentiero. Una volta dominata la paura, egli potrà osservare il mondo con una mente più chiara. Allora, incontrerà il secondo Avversario di chi percorre il sentiero : la Mente Chiara. Se sarà sconfitto da questo Avversario, l’uomo si affermerà nel mondo ordinario, grazie alle mirabili capacità della sua mente , e si sentirà appagato dalla propria percezione della realtà. Tuttavia, non potrà uscire dalla prigione che il suo stesso intelletto gli avrà costruito intorno, e non riuscirà a procedere oltre sul sentiero verso la liberazione. Se invece si eserciterà pazientemente, osservando la sua chiarezza mentale come fosse solo un puntino davanti ai suoi occhi, poco a poco la sua percezione si farà più ampia. E finalmente, dopo molto esercitarsi, il suo orizzonte si stabilizzerà ben oltre il confine dell’intelletto. Avendo ora a disposizione tutti i suoi mezzi di percezione e di azione, egli acquisterà potere. Allora, incontrerà il terzo Avversario di chi percorre il sentiero : il Potere. Se sarà sconfitto da questo Avversario, l’uomo crederà di essere invincibile. Avrà facilmente il dominio sugli altri uomini, e potrà essere tutto ciò che l’inclinazione della

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sua natura gli suggerirà : un mago, un tiranno, un dèmone, qualunque cosa. Nessun traguardo terreno gli sarà precluso. Tuttavia, sarà ammaliato dal suo stesso potere e, come un gigante legato da fili invisibili, non potrà procedere oltre sul sentiero verso la liberazione. Se invece si eserciterà pazientemente, osservando il suo potere come fosse solo un puntino davanti ai suoi occhi, allora, dopo molto esercitarsi, il velo che gli impediva di vedere si dissolverà. Ed egli finalmente potrà rimirare la realtà, così come essa é veramente. Se sopravvivrà all’urto terribile di quella visione, allora potrà, anche solo per un momento, conoscere sé stesso ed il mondo. Ed essere libero. Avendo riconquistato consapevolezza e libertà, egli avrà ora la forza per affrontare in piena coscienza l’ultimo, invincibile Avversario, la Morte. E saprà riconoscerla non più come la fine da cui fuggire, ma per quello che veramente è : una Soglia da attraversare. Come auspicio affinché questo cammino si compia, un giorno, per tutti gli esseri senzienti, recito il Mantra della Suprema Liberazione, il Mantra che non ha eguali:

Tahyata Om Gate Gate Paragate Parasamgate Bodhi Soha

Nel silenzio che seguì le sue parole, per un tempo si udì solo il mormorio del vento, che agitava gli stendardi in cima al grande stupa. Poi, i monaci presero a suonare le loro lunghe trombe, e iniziò la Puja di Lunga Vita, che durò fino al tramonto. Quando fu rientrato nella sua stanza, il Lama fece chiamare Yeshe e Yurta. Pende era lì, seduto su un cuscino vicino alla finestra. “Pende ha appreso l’Arte del Suono Che Placa - disse Khumbu Rinpoche - grazie ad essa, potrà aiutare gli esseri senzienti ad affrontare il Primo Avversario. Oramai non c’è altro che io gli possa insegnare. Vedete questo strumento?” disse mostrando loro una specie di piccola chitarra di legno intagliato. “Lo ha costruito lui. Ha una sola corda, ma ne può portare cinque. Per imparare a tendere la seconda, dovrà praticare con Satya Rinpoche, al monastero di Lang-Dho. Portate a Rinpoche questo dono da parte mia, e pregatelo di accettare Pende come allievo”. Ciò detto, mise nelle mani di Yeshe un fagotto di seta gialla, chiuso da un nastro rosso scuro. “Andate, ora”. Pende si alzò, e salutò il suo Primo Istruttore come si fa tra pari, toccandogli la fronte con la fronte. Glossario del primo capitolo :

Bodhisattva : Esseri Illuminati che hanno fatto voto di non abbandonare il Samsara (il ciclo di morte e rinascita) fino a che l’ultimo essere senziente non sarà liberato. Ghelupa : i Ghelupa, detti anche Berretti Gialli, rappresentano la continuità di tradizione di uno dei tre lignaggi di insegnamento del Buddhismo Mahayana, o Sentiero del Grande Veicolo. Ghesce : titolo che designa colui che ha completato l’intero di corso di studi in una Università Monastica. Gompa : la sala grande, in cui si tengono gli insegnamenti e le cerimonie rituali. Lama : titolo che designa qualcuno che, monaco o laico, ha dei discepoli, e dà insegnamenti. Mantra : manifestazione dell’energia spirituale attraverso il potere del suono. Mantra della Suprema Liberazione : Gate Gate [andato, andato] Paragate [andato aldilà] Parasamgate [andato completamente aldilà] Bodhi [sveglio] Soha [così sia] Puja : cerimonia della tradizione buddhista tibetana, durante la quale si cantano brani di scritture sacre al suono di particolari strumenti rituali, e si fanno offerte alle divinità protettrici. Rinpoche : titolo che designa colui che è stato riconosciuto come reincarnazione di un Maestro defunto. Stendardi : bandiere di stoffa leggera che recano mantra o scritture sacre. Si crede che il vento, agitandole, porti l’energia di ciò che vi è scritto in ogni luogo. Stupa : costruzione votiva che contiene reliquie. Alcuni stupa sono immensi, e si vedono da grande distanza.

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2. L’attraversamento della Grande Acqua

Occorrevano sei settimane di viaggio per arrivare a Lang-Dho. Yeshe ebbe così la sua prima occasione per iniziare suo figlio Pende all’arte di allevare cavalli. Era estate inoltrata, e cominciava la doma dei nuovi puledri. Khadro-La, fratello maggiore di Pende, a tredici anni era già molto esperto nel domare puledri selvaggi. La sua tecnica era semplice, e si tramandava da secoli : legato il muso del cavallo con una cavezza, si trattava di fargli capire chi comandava. Trattandolo con decisione e destrezza, nel giro di qualche giorno l’animale si rassegnava a fare ciò che l’uomo voleva. Yeshe, visti i risultati ottenuti dal primogenito, intendeva addestrare Pende nello stesso modo. Ma Pende non era d’accordo. Anzi, dopo essersi più volte rifiutato di strattonare un puledro con la cavezza e minacciarlo con il bastone per vincere la sua resistenza, disse: “Vi mostrerò un altro modo per domare un cavallo, state a guardare!” Entrò nel recinto di funi dove il puledro, terrorizzato, stava immobile, e sedette sull’erba, con il suo piccolo strumento in grembo. Rimase per un po’ così, con gli occhi socchiusi. Poi, cominciò a far vibrare la corda di budello intrecciato, ricavandone un suono molto particolare, che si avvertiva più con il diaframma che con l’udito. Faceva un effetto strano, molto rilassante. Yeshe e Khadro-La si trovarono seduti con la schiena appoggiata ai pali del recinto, senza nemmeno essersi accorti di aver cambiato posizione. E pure al puledro successe qualcosa : non aveva più gli occhi sbarrati; le orecchie, che prima teneva basse, erano tornate nella loro posizione naturale. Quel suono melodioso e struggente continuava, finché ad un certo punto il puledro si accovacciò; poi si sdraiò, ed infine cadde addormentato. Allora Pende si avvicinò, gli sedette accanto, e carezzandogli il muso prese a cantare sottovoce una nenia che aveva imparato al monastero. Cantò dolcemente per un po’ di tempo. Quando infine tacque, il cavallo riaprì gli occhi, si rialzò, e Pende poté sellarlo e mettergli i finimenti senza difficoltà. “Aprite il recinto” disse, e montatogli in groppa, si allontanò al piccolo trotto. Il padre e il fratello lo guardarono allontanarsi sul sentiero verso i pascoli alti, e non si resero conto che i loro sentimenti erano cambiati : quando Pende li aveva sfidati, erano pieni di irritazione, eccitazione e curiosità. Ora, contemplavano la scena con la mente vuota e tranquilla, come mai era stata prima.

Il Suono Che Placa vince la Paura Il Suono Che Ispira dà spazio alla Mente Il Suono Che Agisce porta alla Soglia Il Suono Che Libera attraversa i confini del Mondo Il Suono Che Illumina dà accesso allo Spazio Racconto di Francesco Settanni

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Simona Zanichelli Tornare Chiara guardava Luca, steso, immobile, innaturalmente bianco, il corpo così abbandonato da sembrare privo di ossa. Il suo bambino che aveva voluto anche se il padre se n’era andato. Luca dai capelli ad onda, Luca con quelle mani sottili e gli occhi chiari come l’acqua quando è chiara, Luca che ride forte e suona sempre. Luca con il suo conservatorio, farò il direttore di coro diceva, con le sue montagne di spartiti, sempre attaccato al pianoforte alla chitarra alla batteria a tutto purché suoni, che importa. Luca sul suo motorino così truccato, sempre di corsa, sempre in ritardo. Coma. Coma. La parola maledetta le si attorcigliava nello stomaco, le confondeva la testa. Il dolore era un grosso pitone che stritolava ogni fibra del suo corpo, e Chiara si contorceva senza respiro in una spirale di orrore. Non è possibile. In coma a diciassette anni. Eppure il coma se l’era preso, in quella sera come tante, tradito da quel suo motorino truccato come una di quelle, diceva lui ridendo con quei denti bianchi da lupo giovane. Non è possibile. No. No. No. Riusciva solo a pensare no. E odiava avrebbe voluto fare morire chi le diceva rassegnati. Mai. Mai finché avrebbe avuto un solo respiro di vita. Mai. Attaccarsi ad internet, il tunnel con in fondo la luce, la voglia di percorrerlo ma. Ma i richiami giù, intorno a quel corpo che si riconosce proprio ma è già un’altra cosa fuori di sé, perché piangi mamma, caro, amore mio se io sto così bene, c’è quella luce in fondo che mi aspetta. La solita trafila. Ore a parlargli. Milioni di parole mentre gli accarezzava le mani, il rosario della sua vita ti ricordi quando ti ho regalato il pianoforte, ti ricordi quel giorno al mare quando abbiamo preso la barca a vela, ti ricordi ti ricordi….. La sua musica incisa sul registratore, Bach,Verdi, Beethoven, Rossini, a fargliela ascoltare senza soste senza pause senza remissione. E Mozart e Palestrina e Orff, i suoi preferiti. Al conservatorio a registrare le lezioni e quell’inimitabile caos di corni e tamburi e organi e trombe, e le voci dei ragazzi negli intervalli. Le patate fritte di Mac Donald la pizza coi carciofini la benzina le scarpe da calcetto le Marlboro tenute per ore sotto il suo naso, odori di quella vita che amava tanto che anche loro chiamavano. Torna. Torna. Torna, Luca. Torna. Chiara lo pensava in continuazione, ed era una litania e un urlo muto ininterrotto, dalle frequenze altissime. Quando era in ospedale nelle continue ore di macchina per andare da lui nelle notti bagnate di sudore che non passavano mai nei pasti che erano solo un buttare giù qualcosa senza senso. Se esiste la forza del pensiero, quel torna era continuo, duro come un filo di ferro che trattiene un palloncino colorato che vuole volare via.

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Ma la mano di Chiara non si apriva, non lo mollava, dura e serrata come una morsa. (Luca - ovviamente? - era lì, tranquillo in pace senza dolore, all’inizio del tunnel in fondo al quale c’era quella luce bianca e bellissima. Sì, che bello andarci, sentiva un richiamo forte, una gran voglia di percorrerlo fino in fondo e annegarsi in quella luce. Ma c’era quel disturbo continuo, appena un ronzio dentro alle orecchie, fastidioso come una mosca d’estate, che chissà come lo tratteneva. Un torna che si mischiava con il Requiem di Verdi gli amici al Mac Donald l’odore di saponetta di sua madre le ragazze con quelle magliette sottili che si vedeva tutto le notti in giro con gli amici i Carmina Burana il torneo di calcetto il Super flumina di Palestrina il motorino truccato come una di quelle belli e forti quei suoni dei corridoi del conservatorio. Domani vado. Giuro. Domani la faccio finita con ‘sta mosca. E vado.) Altra notte bagnata di sudore, il sonno che non arriva nel girarsi e rigirarsi in quel letto sfatto. Ma sì. Che stupida, Chiara, sei stupida, continuava a pensare. C’è una sola cosa a cui Luca non può resistere. Perché non ci hai pensato prima. Indietro. Indietro. Ti riporto a casa, Luca. Mille obiezioni, mille problemi. Ma con i soldi si risolve tutto. La casetta di Moena svenduta in fretta e furia, ma chi se ne frega, il filo si sta allentando, lei lo sentiva. Il circolo Berlinguer, pensionati che vanno a passare quel tempo che non passa mai fra gare di briscola sigarette senza filtro bicchieri di rosso ginnastica dolce e confidenze di malattie delle donne. Chiara parla, spiega, convince. Un torrente in piena fra curiosità e un vago interesse, ma la carta vincente sono i 10 euro a prova per ciascuno, in un mese quasi un’altra pensione, chi può resistere a un’opera buona per cui ti pagano pure. Balsamo per l’anima e il portafoglio. Grazie casetta di Moena. Buona anche per convincere quelli della struttura di assistenza, che poi sì, è una gran seccatura tutto quel trambusto, ma hai visto mai che funzioni, ci scappa pure una pubblicazione scientifica. Prova del coro alle cinque del pomeriggio, orario comodo post pennica. Direttore il signor Gino, ex flautista della banda Puccini. Nove coristi: 3 soprani (Pina, Elvira e Maria), 3 contralti (Anna, Nerina e Marisa), 2 bassi (Walter e Luigi) e Aldo, tenore. Rumore di seggiole spostate, il disagio commosso di vedere quel ragazzo così bianco e fermo, il parlottare un po’eccitato per quella cosa nuova, odore di naftalina del paltò dell’Elvira del sigaro di Aldo della lacca della Pina di fritto antico del signor Gino. I primi accordi. I bassi tengono il do, i contralti il mi, soprani e tenore il sol. E poi via così. Giorno dopo giorno. Ogni giorno.

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Gli accordi diventano brani semplici, il Signore è il mio pastore, l’Ave Maria di Arcadelt. Voci di gola, Aldo che stona, pronunce aperte e le a spampanate degli alleluia, ma il signor Gino si impegna, migliorano e alle prove ci sono sempre tutti, ci hanno perfino preso gusto, e poi si sentono così buoni e sorprendentemente felici. Gli euro corrono, ma che importa, presto presto bisogna fare in fretta, prove anche alla domenica. (Voci di gola, bassi intubati, i soprani calano e il tenore che stona accidenti a lui se stona. Gli attacchi sono tutti sfasati. E poi continuano a rallentare. Il disturbo era diventato una sofferenza vera e propria, uno spasmo allo stomaco. La mosca era diventata uno sciame di zanzare che continuavano a pungere. E quella luce non è poi così bianca, e neanche così bellissima.) Successe al Regina Coeli di Aichinger, tenori in controtempo. Il signor Gino non riusciva a tenere il coro a tempo, in più Aldo sbagliava la nota e attaccava in battere invece che in levare. Quel No, porcoboia, no! che Luca sussurrò con un filo di voce roca in una pausa di silenzio ottenne lo stesso effetto dello scoppio di una bomba. Urla di gioia, pianti, abbracci, tutti attaccati al telefono per urlare al mondo l’incredibile. Solo Chiara rimase tranquilla, ad accarezzarlo in silenzio, come estraniata, colomba stanca e pallida che chiude le ali. Lei non era stupita. Lei lo sapeva che sarebbe tornato. Il maestro Luca Solmi consegnò le sue disposizioni testamentarie al notaio Mari. Era un vecchio bello, con occhi come acqua chiara, i capelli mossi che portava lunghi e che quando dirigeva gli ballavano intorno al viso. O forse era la sua fama di musicista e quel suo inimitabile carisma che lo rendevano così bello. Il genio buono della musica. Il deus ex machina della Fondazione Chiara Solmi, che aveva fatto diplomare in direzione corale tanti ragazzi con gravi handicap. Mi raccomando l’ultima clausola, disse sorridendo al notaio. Quella che proibiva di suonare al suo funerale il Regina Coeli di Aichinger. Non si sa mai. Tornare ancora da te, mamma. Tornare da te. 

 

 

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Roberto Losi L’uomo che odiava la musica Nacqui nel 1685, a Londra. Mio padre, ufficiale della flotta di sua Maestà, il buon re Guglielmo, non trovò nulla di meglio che farsi uccidere dai Francesi, che siano tutti dannati, nella grande battaglia di Barfleur del 1692. Questo cambiò non poche prospettive nella mia vita. Mia madre morì un anno dopo. Ed io venni adottato dalla famiglia di un collega del mio defunto genitore. Si trattava dell' ufficiale medico della maestosa Sovereign of the seas, una delle più belle navi della flotta. Crebbi studiando medicina e, cosa orribile, fui costretto, mio malgrado, ad imbracciare un violoncello. Non avevo il senso del tempo... del ritmo... e non riuscivo ad intonare una sola nota. Quelle lezioni erano un vero supplizio, cui si aggiungevano le frequenti punizioni corporali inflittemi per la sciattezza con cui trattavo il mio strumento... e per i frequentissimi ed inevitabili insuccessi esecutivi. All' età di 16 anni, secondo l' uso, fui imbarcato come allievo Ufficiale Medico. Inutile dire che, nonostante la dura vita di bordo non desse tregua... venivo ulteriormente torturato con spaventose sonate assieme al Primo Ufficiale, che possa dannarsi. Era un flautista spregevole. E grazie al mio basso continuo, lo spettacolo che offrivamo era davvero penoso. Non era la vita di bordo, per quanto durissima, a rendermi tutto così oneroso, ma quelle quotidiane torture musicali. Naturalmente cercavo in ogni modo di sottrarmi a quei dannatissimi concertini, ma non appena il Primo Ufficiale se ne avvide, non tardò a manifestare tutta la sua avversione. Pensava, che sia dannato, che io mi sottraessi al suo ululante flauto. Non era così. Non era solo il suo flauto ad essermi inviso. Anni di torture avevano sortito un odio talmente feroce che a fatica lo dissimulavo. Adoravo farmi spedire in coffa di maestra per sottrarmi al contatto con il resto dell'equipaggio, e soprattutto per evitare di dovermi deliziare con le odiate note, che siano dannate. Dopo cinque anni di duro servizio, ebbi la mia occasione. Avevamo avuto una bella discussione a suon di cannonate con una nave francese, invero ben più grande e armata della nostra, che sia dannata. Ero assieme al mio superiore, maestro e mentore, il dott. Billings, impegnato nella cura dei feriti. Il vento era caduto. Ce l'eravamo vista brutta, la nostra nave bruciava in più parti. Il nostro Capitano, astutamente, diede fondo all'ancora non visto dal Francese. E così, spinta dall'implacabile corrente della Manica, la nave nemica veniva trascinata lontana da noi senza poter far nulla per avvicinarsi ancora ed infliggerci il colpo di grazia. Grida in coperta. Mi precipitai alla grande finestratura al giardinetto quando un’esplosione violentissima mi sbalzò fuori bordo. La santabarbara, che sia dannata, era esplosa. La nave, o ciò che ne restava, affondò tra le fiamme in un paio di minuti. Grazie al cielo ero rimasto praticamente illeso. Non tardai a rendermi conto di essere l' unico superstite. Un moto di gioia selvaggia mi pervase. Il violoncello... il Primo Ufficiale ed il suo dannatissimo flauto... Gli spettatori dei nostri odiati concertini. Tutto distrutto! Le acque gelide del Canale mi avrebbero preso senz'altro se non fossi stato raccolto da un barca da pesca olandese attratta dal fumo dell'esplosione. Mi soccorsero, mi rifocillarono. Mi ridiedero la vita. Quando arrivammo a Rotterdam finsi di non rammentare più nulla... Chi si sarebbe interessato ad un mentecatto? In breve sparii. Ed iniziai la brillante carriera medica che tutta Europa riconosce. Non fu facile acquisire una nuova identità. Colsi la seconda grande occasione uccidendo e sostituendomi ad un tal ciarlatano... Il dott. Taylor. In breve, grazie alla mia superiore scienza

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medica, divenni famoso e rispettato. Il mio interesse era da sempre incentrato sui misteri dell'occhio. Odiavo l' orecchio e l' acustica. Ma l' occhio! Quali soddisfazioni dà lo studio dell'occhio!! Non capisco questo agitarsi per concerti, sonate, serenate, ballate, cantate, che sia tutto dannato! Ovviamente vi risparmierò i dettagli della mia carriera. Gli anni passarono. Siamo al 1750. Arrivai a Lipsia dopo esser sfuggito per il rotto della cuffia agli sgherri del duca di Baviera. Ciarlatani! Osavano forse mettere in dubbio la mia scienza? Effettivamente lo fecero. E, ad onor del vero, non furono gli unici. Anche la Serenissima Repubblica di Venezia mi aveva scacciato, dopo la morte di uno dei miei pazienti. Un altro di quegli odiosi fracassoni... un tale Tony (credo) Vivaldi.. Un prete papista, amatissimo dai suoi concittadini. Anche il Re di Francia aveva emesso una condanna a morte nei miei confronti. Esagerato. Solo perché i due terzi dei miei pazienti erano deceduti dopo l' operazione a cui li avevo sottoposti! È chiaro che la scienza richiede un piccolo prezzo alla conoscenza... Giunto in Sassonia, appresi della malattia che affliggeva il Cantor della Thomaskirche. Un tale... qualcosa tipo Back... o Bacch... non rammento. Non esitai a recarmi a Lipsia. In breve fui ammesso alla presenza del paziente. Avemmo una lunghissima discussione circa il mio onorario. L' uomo era un vero taccagno. In effetti aveva sulla groppa un tal stuolo di figli da non credere. La qual cosa dimostra quanto saggia sia stata la mia scelta di vita così solitaria! Ci accordammo per effettuare l'operazione la sera seguente. Avevo, nel corso della mia ultradecennale carriera, avuta l'occasione di sezionare moltissimi occhi. E sapevo quanto nella iposcopia dei vecchi fosse coinvolta quella lenticula che si trova all'interno del bulbo oculare. Il mio geniale sistema consiste infatti, con l'ausilio di una leva lunga oltre un braccio, di riposizionare tale lenticula. Certo talvolta, anzi spesso, sopravviene un' infezione anche mortale la cui origine mi è tuttora sconosciuta. Ma ogni volta ci vado più vicino. E cosa c'è di meglio se non eseguire tali esperimenti con pazienti sacrificabili? Tutto sommato si trattava soltanto di un altro odiosissimo fracassone!!! Non si può fermare la scienza! Lo operai. Il giorno dopo l' operazione il paziente stava decisamente meglio! E soprattutto, aveva riacquistato la vista! Un successo completo! Non esitai a richiedere il mio compenso e, adducendo le innumerevoli richieste delle quali il mio miracoloso metodo è inevitabilmente oggetto, me ne partii tra il giubilo generale. Sapevo che se mai fosse sopraggiunta l' infezione, avrei avuto almeno ventiquattro ore di vantaggio sugli inseguitori. La notizia della morte del fracassone mi giunse mentre oramai mi trovavo a Berlino. Sventuratamente non potei mettere le mani né su Quantz né su Hasse. Lo stesso Re Federico era un flautista! Il luogo più orribile che abbia mai visitato. Vi rimasi il tempo di farmi dimenticare. Me ne tornai in Inghilterra. Nessuno mi aveva più cercato dopo l' affondamento della mia nave oramai 46 anni prima! Paradossalmente, era l' ultimo luogo dove avrei pensato di ritornare. Londra non era più la stessa. Dopo la morte del buon Re Guglielmo, i nostri Lords avevano convinto quello stupido tedesco, che sia dannato, il Duca di Hannover, a prendere la corona d'Inghilterra. La città era piena di tedeschi più della stessa Germania. Ma oramai neppure io ero più lo stesso inglese che se era scomparso tanto tempo fa. Ero un medico di chiara fama! Conosciuto in tutto l'universo, e in altri siti! Effettuai cure ed interventi meno rischiosi. Ormai ero vecchio. Non potevo permettermi di farmi scacciare anche dalla mia nuova casa. Ma nel 1759 ebbi l' ultima occasione: un celebre fracassone, detto il nostro caro Sassone (in italiano nel testo), si ammalò di iposcopia. Era l' ultima grande occasione di una vita dedicata alla scienza!

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Il signor George Frederic Handel viveva in una casa agiata, ma non ricca. Era comunque una buona occasione di incassare denari freschi. Il fracassone non poteva più scrivere la sua schifosa musicaccia e mi implorò di rendergli la vista. Comunque fosse andata, il mondo era finalmente libero dal fastidioso fracasso di questo molestatore! La mia coscienza era tranquilla. Come rimedio contro l' infezione, escogitai un sistema geniale: avrei operato il paziente con una leva più lunga! Intuivo infatti di poter evitare l' infezione stando più lontano dal paziente. Anche il signor Handel in un primo momento stette meglio. Poi, come il signor Bak prima di lui, la febbre cominciò a salire con rapidità. Il paziente delirava. Spirò dopo poche ore. La mia opera era compiuta. Sfinito me ne tornai a casa. Ora che ho scritto queste note posso trapassare anch'io. Che io sia dannato! N.d.A: È effettivamente accertato che sia Händel che Bach vennero operati dal ciarlatano Taylor. Entrambi morirono di setticemia poco dopo l'intervento.

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Maria Luisa Farolfi

Quattro ragazze libere

Arrivo cinque minuti prima all’appuntamento. Lego la bici al lampione con una fatica sovrumana. Non è facile, con i guanti di lana, chiudere un lucchetto di bicicletta grosso tre dita. Mariasilvia è lì, in piedi davanti al cancello di ferro, con la sua pelliccia di visone lunga fino alle caviglie sottili e la sigaretta appena accesa tra le labbra fumanti vapore caldo. “Stai migliorando,piccola”, mi apostrofa bonariamente lei.

Mariasilvia Altigeri, fiorentina, insegnante di pianoforte da sempre, un curriculum di concerti infinito,quasi come la costruzione della Salerno- Reggio Calabria. Spegne la sigaretta.“Hai portato la carta d’identità, vero?” mi chiede preoccupata.” Certo che l’ho portata, ce l’ho sempre in borsa, insieme allo spray al peperoncino, al telefonino e ai fazzoletti di carta,” la rassicuro io.

Ci avviciniamo al cancello. La guardia di turno ci saluta con un cenno e ci fa segno di entrare. L’ enorme, monumentale cancello di ferro si apre lentamente, ci lascia passare e altrettanto lentamente si richiude. Un carabiniere ci viene incontro sorridendo. “Benvenute! Siete state gentili ad accettare l’invito. Vi aspetta il direttore del carcere”.

Percorriamo in un silenzio surreale il cortile dell’isolato. I tacchi di Mariasilvia scandiscono il tempo. Entriamo nella portineria. Una poliziotta si avvicina e con sorriso di circostanza si scusa: “Devo perquisirvi, perdonatemi, ma è la prassi”. Appoggiamo le borse e il mio cappotto su una sedia. La poliziotta passa prima una specie di spazzola metallica su di me, poi su Mariasilvia. La targhetta della pelliccia fa suonare un allarme. La poliziotta si schiarisce la voce e sussurra:”Dia a me, per cortesia”. E con cura sistema la pelliccia di Mariasilvia su un attaccapanni. Prendiamo gli spartiti e seguiamo la poliziotta.

Lungo il corridoio ci viene incontro un tipo tarchiato, sulla sessantina, molto gioviale, con due guardie carcerarie. “Che piacere avervi qui! De Sisto, piacere, abbiamo parlato sempre e solo al telefono”. Mariasilvia gli porge la mano e mi presenta al direttore della prigione. ”Faccio strada”, dice lui, e mentre ci precede Mariasilvia mi fa capire che le ha fatto schifo la sua mano sudaticcia.

Le guardie aprono un cancello. Passiamo tutti. Richiudono con rumore di ferraglia. Secondo cancello. Passiamo tutti. Richiudono. Terzo cancello. Passiamo tutti. Richiudono il cancello. Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi sembra un film. Lungo il corridoio ci sono celle con mani e braccia che escono dalle sbarre, centinaia di occhi che ci scrutano e un odore pungente di ruggine e sudore. Mariasilvia è pietrificata. So che si sta pentendo di aver accettato di suonare il piano in una prigione. Il direttore indovina i pensieri della mia collega, la prende a braccetto e le indica la strada, a passo veloce. E dice: “Perdonatemi se siamo passati di qui, ma era l’unica strada possibile”.

Veniamo condotte in una stanza grande, piena di sedie di plastica rosse. Una stanza con le inferriate sui finestroni che danno sul cortile interno. In fondo alla stanza c’è una pedana rialzata in legno con un sipario chiuso di color bordeaux sbiadito e un albero di Natale finto con le lucine rosse intermittenti sulla sinistra del palco. Sulla pedana, un pianoforte a coda nero. Bellissimo e fuori luogo. Mariasilvia si rianima. Apre il coperchio e inizia a suonare. “Che meraviglia! Ma come hanno fatto a portarlo qui?” “E’ mio, lo tengo nel salone di casa” confessa il direttore del carcere. Io

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e Mariasilvia lo guardiamo esterrefatte. ”Avete bisogno di qualcosa? Se volete rinfrescarvi la toilette è qui dietro. Vi porto due bottiglie d’acqua!” dice De Sisto, che si allontana, mentre Mariasilvia inizia a imprecare: ”Ma che diavolo ci è venuto in mente? Hai visto come ci guardavano quei galeotti? Come minimo sono dentro per stupro… e hai sentito che puzza? Mica si lavano, quelli! Tieni, prendi le salviette, le ho sempre in tasca, figurati se uso il cesso della galera!”

Mentre lei parla, io tiro fuori due collane bianche di plastica che tenevo in tasca e gliene porgo una. Mariasilvia è sorpresa: “Avevano detto niente gioielli”. “Infatti. Senti, è plastica. Ma il nostro pubblico avrà le perle!” “Come se fossimo alla Scala” conclude lei, ridendo. È da sempre il nostro motto.

In quel momento torna De Sisto con due bottiglie d’acqua e due bicchieri di plastica. “Appoggio qui”, dice, indicando un tavolino rotondo. “Tra dieci minuti facciamo entrare il pubblico. In bocca al lupo”. Esce. Io e Maria Silvia ci sistemiamo, lei appoggia gli spartiti sul piano e io apro il leggio. “Giusto perché è Natale e questo è uno splendido pianoforte tedesco!”sibila Mariasilvia. Poco dopo sentiamo un brusio, uno scalpiccìo, voci basse che parlano e uno spostar di sedie. Sentiamo passi sulla pedana e la voce di De Sisto che ci presenta. Entrambe ci facciamo il segno della croce, come da tradizione. Un applauso poco convinto ci accoglie e accompagna l’apertura del sipario. Quello che vedo resterà nella mia memoria per sempre.

Le due file di sedie sono occupate a destra dalle donne e a sinistra dagli uomini. Metà degli uomini sono presumibilmente rom e metà delle donne sono di colore. E si scrutano, si studiano, e solo a tratti ci gettano qualche occhiata indagatrice. Ai lati, guardie carcerarie in piedi. Mariasilvia da dietro il piano mi chiede, sottovoce: “Pronta a scatenare l’inferno, gladiatrice?”. In effetti la prima impressione è quella di un’arena dove io e lei siamo le vittime designate. Mi faccio coraggio, sorrido di circostanza e prendo un bel respiro. Il repertorio prevede canti natalizi, per lo più in inglese. Il pubblico si comporta bene, ascolta senza particolare entusiasmo, ma educatamente. Di tanto in tanto qualcuno esce ed entra nel salone, ma senza disturbare.

Ma quando eseguiamo “Swing low”, uno spiritual molto conosciuto, due giovani donne di colore in fondo alla sala si alzano in piedi e applaudono con enfasi gridando di gioia. Proprio in quel momento ho un’illuminazione. Mi giro verso Mariasilvia e le sussurro: “Facciamo Oh, happy day!”. Lei sbianca, sgrana gli occhi e mi dice, in fiorentino: “Ma cche tu se’ ‘mpazzita? Un lo facciamo da almeno tre anni!”. “Tre anni meno un giorno”, rispondo io. E con una gioia che io stessa non riesco a dominare mi giro verso il pubblico e annuncio:”Come conclusione del concerto, prima di congedarci, un brano fuori programma che, se volete, potete cantare anche voi”. Guardo Mariasilvia che mi fulmina con lo sguardo e respira dilatando le narici. Ma ormai è fatta. La sento respirare forte, poi suona l’incipit.

Mentre canto le prime note mi accorgo che non ho il coro a rispondermi. Ma mi sbaglio di grosso. Le due ragazze in fondo alla sala si alzano in piedi e mi rispondono come se avessimo provato insieme il brano per mesi. Tutta la sala, a poco a poco, inizia a battere le mani a tempo, le guardie controllano la situazione, ma tengono il ritmo con i piedi. Sta funzionando! Mi giro verso Mariasilvia e la trovo euforica. Suona con una gioia che non le ho mai visto prima. Quando il pezzo finisce esplode l’applauso della sala, le due ragazze in fondo agitano le mani felici, in segno di assenso, mentre Mariasilvia mi raggiunge , mi abbraccia e mi intima di fare l’inchino. Entrambe,

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poi, salutiamo le due ragazze da lontano e loro ci rispondono con cenni della mano. Una lacrima riga il volto di Mariasilvia. In quel momento penso che non sia importante chi siamo o cosa abbiamo fatto nella nostra vita. Sono invece convinta che quando si faccia musica si esprima libertà. E in quel momento, libere per davvero, lo eravamo tutte e quattro. Eravamo quattro ragazze libere.

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Leonello Solini

L’Albero Quel posto gli era sempre piaciuto. Negli anni dell’Università ci andava spesso. La mattina il parco era quasi vuoto e lui aveva scoperto quell’angolo tranquillo, silenzioso, in cui poteva sedersi a studiare su una panchina all’ombra di un grande ippocastano. Amava gli amici, la compagnia, ma quando si ritrovava là, solo, sentiva dentro di sé una grande pace e non avvertiva quel senso di vuoto che di tanto in tanto si affacciava nei suoi pensieri. In seguito aveva preso l’abitudine di tornarci ogni domenica, per restare un po’ solo e ripensare alla settimana trascorsa, alle persone incontrate, alle cose dette e ai silenzi dati e ricevuti. La domenica c’era qualche famiglia con i bambini, ma non tante: in genere venivano nel pomeriggio, così lui poteva godere comunque di quella tranquillità che andava cercando. Quella domenica non era diversa dalle altre, salvo per il fatto che i suoi pensieri erano dominati da un’idea fissa. Due giorni prima lo aveva chiamato nel suo ufficio il dottor Bassi, il capo divisione, proponendogli una trasferta di cinque anni nel nuovo stabilimento di Belo Horizonte. Si trattava di un’opportunità importante, per la quale si erano candidati diversi suoi colleghi. Lui non si era offerto: non amava i cambiamenti e non aveva ambizioni di carriera. Secondo Bassi però era la persona più adatta per quell’incarico e la sua insistenza aveva finito per incrinare la sua sicurezza. Mentre pensava agli incerti del futuro arrivò il suonatore di corno. Era un giovanotto magro, non troppo alto, che veniva spesso al parco per esercitarsi a suonare, forse per non disturbare i vicini o forse per sentirsi libero di trarre dal suo strumento tutto il suono dolce ma potente che può dare. Sedeva sempre in una delle panchine in fondo al parco, dove c’era meno gente, prendeva il corno dalla custodia e suonava, suonava… Anche se era lontano dal suo ippocastano, il suono arrivava nitido fin sotto l‘albero e lui, da sempre appassionato di musica, riconosceva la maggior parte delle melodie che attraversavano il prato ed il pendio fino alla sua panchina. Ora per esempio stava suonando la romanza del quarto concerto di Mozart e lui, cullato da quel motivo dolce, che quasi faceva da sfondo alla brezza di quel mattino di primavera, rifletteva su ciò che avrebbe potuto significare trasferirsi. Dentro di sé sapeva che molte delle cose che avrebbe dovuto abbandonare se fosse andato in Brasile non gli sarebbero mancate. Non gli sarebbe mancata Sara, che lo aveva sottoposto per mesi a un tira e molla estenuante. Un continuo prendersi, lasciarsi, riprendersi che gli aveva lasciato dentro l’amarezza di una storia fragile, incapace di resistere al minimo colpo di vento. Sara era così instabile, piena di dolori e sofferenze maturati nel suo passato difficile, piena di

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paure! Lei aveva cercato nella loro relazione un riscatto impossibile e, quando lui non era riuscito a riempire quel vuoto così grande, gli aveva riversato addosso tutto il dolore e la frustrazione che aveva dentro. Alla fine era stato lui a dire basta, perché aveva perso la speranza di una via d’uscita da quella situazione. Si era dato dello stupido per settimane, quando la mancanza di lei si faceva più assordante, poi poco per volta era riemerso dal suo dolore e aveva ripreso la sua vita. Certo, non era tornato il sorriso, non era più stato l’amico di tutti come una volta, ma dopo una storia importante durata quasi tre anni, si diceva, era anche normale. Tutto sommato nemmeno gli amici gli sarebbero mancati troppo. Gli anni erano passati per tutti e ciascuno di loro si era fatto la sua vita. Solo lui e Ernesto non si erano sposati, ma lui aveva avuto la storia con Sara. E Ernesto… beh, quello era un caso disperato. Gli altri si erano allontanati gradualmente, senza fare troppo rumore. Le uscite insieme che si diradavano, le telefonate che arrivavano sempre meno, i messaggi sempre più brevi e freddi. Poco per volta la vita ci porta via, senza chiedere il permesso a nessuno, senza riguardo per i sentimenti o i ricordi. Poi una mattina ti svegli e ti chiedi quando e perché ti sei allontanato così. E non riesci a risponderti. La sera, soprattutto, gli capitava di sentire un po’ di nostalgia. Gli mancavano quei momenti insieme, quelle risate, quella leggerezza di vita, ma ci aveva fatto l’abitudine: aveva sempre il suo posto, la sua panchina sotto l’albero. Suo padre, prima di morire, gli aveva detto che doveva imparare a guardare avanti. “Non puoi tornare sui tuoi passi, il tempo va in una direzione sola e tu non puoi fare altro che seguirla”. E lui aveva cercato di farlo. Ora però guardare avanti significava decidere. Anche se capiva di non avere poi molto da lasciarsi dietro le spalle, c’era qualcosa che sembrava trattenerlo. Immaginava il giorno del suo ritorno, dopo tanto tempo lontano. La vita va avanti, come diceva suo padre, e si aspettava di non trovare più nulla come lo aveva lasciato. Ma poi, tornare perché? In cerca di cosa? Di chi? Il giovane cornista terminò con poche note sussurrate la romanza, poi all’improvviso si lanciò nel terzo tempo del concerto, allegro, sorprendente, giocoso. E difficile: quel tipo non sbagliava una nota. Decisamente ci sapeva fare. In qualche modo quel repentino cambio di atmosfera interruppe il corso dei suoi pensieri e lui cominciò ad osservare le persone che poco per volta andavano popolando il parco man mano che la mattina domenicale si faceva più accesa di sole e di calore. Due giovani donne parlavano e ridevano a una trentina di metri da lui. Una spingeva un passeggino con una bimba, dentro, addormentata, l’altra ogni tanto gli lanciava una breve occhiata. Non era la prima volta che le vedeva al parco, e aveva già notato quella ragazza non tanto alta, rotondetta, ma con un sorriso luminoso e occhi grandi. Immaginava la scena. Lui sorride, lei risponde, un saluto, due parole e chissà. Ricominciare, costruire un’altra amicizia, magari una storia… magari una vita nuova, facendo tesoro dei suoi errori passati. Questa volta non avrebbe sbagliato. Questa volta prima di impegnarsi avrebbe cercato di guardare più in profondità nel cuore di lei, di comprenderla davvero. Avrebbero avuto un futuro insieme, un progetto, una vita, magari dei bambini…

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Il suonatore di corno in fondo al parco cambiò repertorio e lui sentì arrivare le note famigliari del “Quoniam” della Messa in si minore di Bach, un brano che conosceva fin dall’adolescenza. Gli era sempre piaciuta quella musica così precisa, geometrica e tuttavia ricca di creatività, originalità, calore. Il brano del corno sembrava fare da colonna sonora al divertirsi dei bambini nel prato… Dieci note lunghe, serie, maestose, seguite da una risata leggera, come a dirti che è tutto un gioco, uno scherzo fra amici, restituire un pizzico di ironia alla vita e scoraggiare chi si prende troppo sul serio. Poi subito dopo cominciava un rincorrersi di suoni che, come quei bambini, giocavano a rimpiattino fra loro. Nel brano originale lui ricordava bene quell’agilità divertita e gentile con cui si intersecavano le fioriture del corno, del basso e dei due fagotti. Lo colpì il pensiero che proprio gli strumenti e la voce con tessiture così gravi e solenni erano stati voluti da Bach in un brano capace di esprimere tanta leggerezza, subito prima che scattasse la frenetica e gioiosa fuga corale del Cum Sancto Spiritu. Leggero Tutto appariva leggero sullo sfondo di quella musica, sotto quell’albero antico. Le due donne si salutarono. Quella col passeggino si avviò in direzione dell’uscita. L’altra lungo il sentiero che attraversava il parco. La vide raggiungere la curva del sentiero, lanciargli un’ultima occhiata, e poi svoltare dietro la siepe che cingeva la collinetta su cui si trovava il suo ippocastano. Sorrise fra sé, pensando che la vita non attende che sia tu a inventarla, ma ti prende per mano e ti fa correre con lei, come quei bambini che giocavano nel prato sotto il sole di quella mattina di maggio, come quella musica che sembrava volerlo invitare a fare una passeggiata insieme, da vecchi amici. Si alzò e si avviò verso l’uscita, sentendosi leggero come se fosse tornato bambino anche lui. Giunto a pochi passi dal cancello si voltò a guardare per l’ultima volta la panchina sotto l’albero, sorrise e se ne andò, sapendo che quel posto l’avrebbe ritrovato ovunque la vita lo avesse portato.