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20 La mattanza dei Salassi Montecrestese La Brigata Estense Il “paesaggio” ritrovato Viva Maria! Le insorgenze antigiacobine in Liguria La filosofia padana del Medioevo 20 Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno IV - N. 20 - Novembre-Dicembre 1998

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20La mattanza dei Salassi

Montecrestese

La Brigata Estense

Il “paesaggio”ritrovato

Viva Maria! Le insorgenze antigiacobine in Liguria

La filosofia padana del Medioevo

20Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana

Anno IV - N. 20 - Novembre-Dicembre 1998

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La Libera

Compagnia

Padana

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contri-buti di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.

Cordelia non cadrà un’altra volta - Brenno 1La mattanza dei Salassi- Joseph Henriet 3Montecrestese - Gilberto Oneto 7La politica estera dei Veneti antichi - Carlo Frison 13La Brigata Estense - I fedelissimi nella sventura - Alina Mestriner Benassi 18Il mondo spirituale dei Liguri e dei Celti - Alberto Lombardo 27Viva Maria! Le insorgenze antigiacobine in Liguria - Flavio Grisolia 29Cenni sulla filosofia padana del Medioevo - Andrea Rognoni 31Il “paesaggio” ritrovato - Per una riappropriazione dell’identità locale - Giulia Caminada Lattuada 36“La Sonajada”: una curiosa abitudine della prima notte di nozze - Mariella Pintus 40Il capitalismo a un bivio: morte o “ri-nascimento”? - Cristian Merlo 42Dal Principe Germoglio agli Uomini Verdi - Davide Fiorini 49Una grande impresa di ingegneri del XV secolo sulle AlpiMarittime - 1479: il primo traforo alpino - Massimo Centini 51Diritto di resistenza - Alessandro Storti 53I nomi della nostra gente 55Biblioteca Padana 58

Periodico Bimestrale Anno lV - N. 20 - Novembre-Dicembre 1998

Quaderni PadaniCasella Postale 55 - Largo Costituen-te, 4 - 28100 NovaraDirettore Responsabile:Alberto E. CantùDirettore Editoriale:Gilberto OnetoRedazione:Alfredo CrociCorrado GalimbertiFlavio GrisoliaElena PercivaldiAndrea RognoniGianni SartoriCarlo StagnaroAlessandro StortiGrafica:Laura GuardinceriCollaboratoriGiuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fa-brizio Bartaletti, Alina Benassi Me-striner, Claudio Beretta, Daniele Ber-taggia, Dionisio Diego Bertilorenzi,Diego Binelli, Roberto Biza, GiovanniBonometti, Romano Bracalini, NandoBranca, Ugo Busso, Giulia CaminadaLattuada, Claudio Caroli, MarcelloCaroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Ce-cotti, Massimo Centini, Gualtiero Cio-la, Carlo Corti, Michele Corti, GiulioCrespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’A-mico Panozzo, Corrado Della Torre,Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti,Leonardo Facco, Davide Fiorini, Al-berto Fossati, Sergio Franceschi, Car-lo Frison, Giorgio Fumagalli, MarioGatto, Ottone Gerboli, Giacomo Gio-vannini, Michela Grosso, JosephHenriet, Thierry Jigourel, Matteo In-certi, Eva Klotz, Alberto Lembo, Pier-re Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri,Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, SilvioLupo, Berardo Maggi, Andrea Ma-scetti, Pierleone Massaioli, Ambro-gio Meini, Ettore Micol, Renzo Miotti,Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna,Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Ales-sia Parma, Giò Batta Perasso, Mariel-la Pintus, Daniela Piolini, FrancescoPredieri, Ausilio Priuli, Igino Rebe-schini-Fikinnar, Giuliano Ros, SergioSalvi, Lamberto Sarto, Massimo Sca-glione, Laura Scotti, Silvano Straneo,Candida Terracciano, Mauro Tosco,Nando Uggeri, Fredo Valla, GiorgioVeronesi, Antonio Verna, Alessio Vez-zani.Spedizione in abbonamento postale:Art. 2, comma 34, legge 549/95Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041Arona NORegistrazione: Tribunale di Verbania:n. 277

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L’anno 70 d.C., dopo la distruzione di Ge-rusalemme, un gruppo di Zeloti si eratrincerato nella fortezza di Massada, una

rocca a picco sul panorama del Mar Morto, pertentare una ultima disperata resistenza controla repressione che gli invasori romani (sempreloro ...) stavano portando a terminecontro il tentativo di rivolta degliEbrei. Nella fortezza si erano rifugiate967 persone, al comando di EliezerBen Yair. La decima legione (Freten-sis), guidata da Silva, si incaricò di or-ganizzare scientificamente l’assediocostruendo una serie di campi fortifi-cati e una muraglia che circondava iltutto e impediva ogni contatto dei di-fensori con l’esterno.

La resistenza durò tre anni. Essa ces-sò quando i Romani riuscirono a co-struire una rampa di accesso in terrache gli avrebbe permesso di penetrarein forze all’interno della rocca supe-rando il dislivello naturale. Poco primache i lavori di questa opera gigantesca(ancora visibile dopo duemila anni)fossero portati a termine, i difensori siresero conto di non avere speranza e,conoscendo fin troppo bene il tratta-mento che sarebbe stato loro riservatodai portatori della luminosa civiltà lati-na, decisero di suicidarsi in massa.Nessuno fu trovato vivo e, quel lontano73 d.C. i Romani dovettero contentarsidi celebrare la conquista di una fortez-za svuotata di ogni forma di vita, di uncimitero di eroi che avevano preferitomorire da uomini liberi che vivere daschiavi.

Oggi l’esercito di Israele manda lesue giovani reclute a giurare a Massadadi difendere la loro patria rinata e ri-trovata con la formula Mezadà lo tipòlshenìt (“Massada non cadrà un’altavolta”).

La Padania ha molte cose in comunecon Israele: è una nazione che è statacancellata per molti secoli dalla storia

visibile per opera dello stesso nemico romano,è una nazione che stà ritrovando oggi la suaidentità e vuole libertà e indipendenza, è unacomunità che riscopre la sua cultura e la sualingua. Come Israele, ha un fortissimo legamecon la terra che risale all’alba del mondo: que-

Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 1

Cordelia non cadrà un’altra volta

Gallo suicida con la moglie. Copia in marmo di un ori-ginale in bronzo della seconda metà del III secolo a.C.Roma, Museo Nazionale Romano

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sta è la nostra terra promessa, la terra da sem-pre abitata dai nostri antenati Celti e Liguri, laterra che Alboino ha ammirato dal Monte Re (oMatajur) un giorno di primavera del 568, pro-prio come Mosè aveva guardato la terra di Ca-naan dalle pendici del monte Abarim.

Ma c’è anche un altro forte segno di similitu-dine simbolica.

L’autunno del 25 a.C., i difensori salassi diCordelia preferirono darsi collettivamente lamorte piuttosto che cedere ai Romani.

Cordelia era l’ultima capitale dei Salassi, sor-geva su una altura nei pressi di Aosta (dove og-gi c’è Saint Martin de Corleans), era una cittàfortificata e dotata di una serie di cunicoli ecollegamenti sotterranei dove si erano rifugiatigli ultimi strenui difensori. Tutto attorno lipressavano gli aguzzini romani della quinta le-gione (Alaudae) guidati dal sanguinario AuloTerenzio Varrone Murena. I Salassi sapevanobene, dopo decenni di sanguinaria “pulizia et-nica” cosa li avrebbe aspettati e preferironomorire e uccidersi in massa.

Cordelia era una delle ultime città padane aessere ancora libera. Alla sua caduta resisteva-no a Roma solo poche vallate alpine: i regni deiMonti Pallidi, le comunità Retiche, il regno deiCozii, i Leponzi dell’alta Ossola e pochi altriscampoli di Padania montana. Tutto attorno il“faro di civiltà” diffondeva intolleranza, corru-zione, devastazione ambientale, sfruttamentoeconomico e oppressione militare.

Neanche la caduta di Cordelia, proprio comequella di Massada, ha però costituito la fine del-la voglia di libertà delle nostre comunità. Persecoli i nostri montanari hanno continuato aresistere agli invasori fino alla liberazione daparte dei fratelli Germani.

Quel giorno i Romani trovarono solo morte e

desolazione: era il loro normale biglietto dipresentazione.

Tacito ha scritto: “Rubano, massacrano, rapi-nano e, con falso nome, lo chiamano impero;infine, dove fanno il deserto dicono che è la pa-ce” (Agricola, 30/32).

Oggi non gli eredi dei Romani che si sonoestinti, ma quelli dei loro schiavi siriaci e ma-grebini vogliono schiacciare la rivolta di libertàdegli eredi di quei popoli liberi e fieri. Ma non èpiù la guerra del maggiore impero del mondocontro tribù povere e divise. È uno staterellosatrapico e sudaticcio che si accanisce contropopoli che stanno ritrovando unità e identità.Non sono legioni sanguinarie ma efficientiquelle che percorrono la nostra terra ma tormedi burocrati corrotti e lascivi, non sono condot-te da centurioni, duri veterani di cento batta-glie, ma da piccoli miserabili ladruncoli cre-sciuti strisciando fra sacrestie e sottobotteghedi partito. Della prima Roma hanno conservatol’avidità e l’odio per ogni libertà ma non hannopiù la forza né la spina dorsale.

Tutto questo li fa più rancorosi, subdoli e ca-naglieschi e perciò la nostra azione deve essereattenta, incisiva e determinata. La nostra batta-glia è buona e giusta e non possiamo più per-metterci di perderla: questa volta dobbiamo fa-re in modo che Cordelia, la Massada delle Alpi,non debba finire ancora nelle mani della fuffarigurgitata dal Mediterraneo e che attraversal’Appennino con la cadenza di una pestilenza.

Cordelia è il simbolo della nostra plurimille-naria voglia di libertà e di autonomia ma è an-che il segno della nostra ritrovata unità e deter-minazione.

Coraggio Padani: Cordelia non cadrà un’altravolta!

Brenno

2 - Quaderni Padani Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998

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I popoli alpini furono gli ultimi, assieme ai po-poli pirenaici, a cadere sotto la dominazioneromana. Le ragioni sono almeno tre:

- il territorio alpino anche se rappresentava unindubbio interesse logistico per recarsi nelleGallie già conquistate non era così appetibile peri razziatori latini come altre parti d’Europa, ca-ratterizzato com’era da una scarsa densità di po-polazione che viveva molto poveramente;- la fierezza e la bellicosità delle popolazioni al-pine e le difficoltà di muovere le legioni in terri-torio montano avrebbe comportato molte diffi-coltà alla conquista per cui la sottomissione de-gli alpini fu rimandata fino all’epoca di Augusto.- la differenza culturale e antropologica dei po-poli alpini, restati ancora prevalentemente pre-indoeuropei, anche se accettarono e fecero pro-prie le tecnologie dell’età del ferro, li rendevafuori dagli schemi e più ostici da trattare (i pa-dani della pianura completamente celtizzati ave-vano una visione del mondo comunque moltopiù simile ai conquistatori meridionali, fatto cherendeva evidentemente più facili i contatti, siadi guerra che di pace, anche se evidenti erano ledifferenze di comportamento etico: onesti e lealii primi, senza progetti di conquista stabile; in-fingardi, sleali e guerrafondai i secondi, con pro-getto di stabile oppressione delle genti e dei ter-ritori sottomessi).

Che i popoli alpini abbiano conservato unapreindeuropeicità evidente fino alla cristianizza-zione (i pirenaici lo sono ancora in parte: i Ba-schi) è oramai fatto appurato da molte branchedella scienza. Il linguista Dominik Woelfel parladi manifesto substrato basco nella toponimia al-pina; molte radici linguistiche che fino a pocotempo fa venivano attribuite alla non ben defini-ta lingua celtica sono ormai da tutti consideratibaschici. Gli scavi archeologici mostrano una si-tuazione alpina (facies archeologica) originale ediversa da quella delle pianure sottostanti. Perfinire non bisogna dimenticare che già gli scrit-tori latini, come Livio, fanno netta distinzionetra Galli montani e Galli tout court. È poi utilerammentare qui che il radicale GALLO-ALLO si-

gnifica semplicemente straniero, diverso, comela parola barbaro presso i greci e poi saracenonel Medioevo.

I popoli alpini rappresentarono una spina nelfianco dei colonizzatori romani per lunghi seco-li, fino ad Ottaviano, che appena nominato Au-gusto, ormai quasi tutta l’Europa conquistata,volle finalmente risolvere drasticamente la que-stione alpina; egli, nei tre decenni precedenti lanascita di Cristo, lanciò diverse campagne mili-tari contro i montanari, l’ultima delle quali, co-me vedremo, fu decisiva.

La vittoria di Augusto non fu però definitiva,comportò, come già avvenne con i Liguri Apen-ninici, deportazioni in massa di Salassi, Retici eLeponzi, ma sacche di resistenza continuaronoad esistere per tutta la durata dell’impero roma-no: consideriamo che gli Ossolani furono con-quistati solo sul finire del I secolo; le rivolte deinon bagaudi (forse montanari del massiccio delBauges, in Savoia) imperversarono a intervalliquasi regolari e le scorrerie dei non ben definitialemanni (probabilmente bande di alpini chepiù tardi saranno chiamati saraceni) giunserofino a Pavia dove impegnarono addirittura l’im-peratore Aureliano nel 271.

La sottomissione dei popoli alpini è documen-tata dal famoso Trofeo delle Turbie, nelle vici-nanze di Monte Carlo, dove vengono citati qua-rantacinque popoli alpini; accanto ai Camuni,Venosti, Vindelici, Isarni, Briscenti, Leponzi, fi-gurano i Salassi. Furono questi che, nei due se-coli prima di Cristo, diedero ai romani più filoda torcere; furono essi forse quelli che più di al-tri inflissero duri colpi al progetto di conquistaromana della Padania occidentale e delle Alpi;non a caso Augusto, per celebrare la sofferta vit-toria su questi indomiti, eresse nel loro territo-rio un importante arco di trionfo che ancora og-gi possiamo vedere ad Aosta.

I Salassi occupavano tutto il Canavese, fino alPo, e le valli alpine che da esso si dipartono; par-te dell’attuale Biellese fino nei pressi di Torino:una regione molto ricca. La loro capitale era Ca-nava o Canapa che diede il nome a tutta la re-

Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 3

La mattanza dei Salassidi Joseph Henriet

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gione circostante: il Canavese appunto. Cometante altre città della Salassia, Canava ha unaetimologia preindoeuropea e si spiega attraversola lingua basca, ultimo scampolo di linguapreindoeuropea ancora esistente in Europa: si-gnifica ai piedi dei monti. Anche il nome concui i Romani chiamarono questo fiero popolo èspiegabile attraverso la lingua basca: Salassi oSalaci, da SAL (forte, coraggioso) + ATZ (casta,tribù), significa popolo forte; caratteristica che iconquistatori ebbero ben modo di verificare. Al-tre città importanti della Salassia dovevano esse-re Yporeia-Ivrea (col significato simile a quellodi Canava, sotto i monti, in greco antico), Can-dia (la regione delle colline, in basco), Lessona(acqua stagnante), Etcheibasso-Chivasso (lacittà sul grande fiume), Orio (l’acqua), Etche-berriona-Chiaverano (le case nuove vicino al-l’acqua).

I Salassi prima di venire a contatto coi Roma-ni, si opposero alle invasioni celtiche obbligandoInsubri, Boi, Lingoni, Cenomani ed altri, cheben volentieri avrebbero voluto occupare le loroterre, a continuare la loro ricerca e stabilirsinella Padania centro-meridionale (V ÷ IV secoloa.C.). Già questo fatto ci fa capire che i Salassierano un popolo che non si lasciava calpestaretanto facilmente. Non sappiamo però nulla delleinevitabili battaglie che i Salassi dovettero soste-nere contro questi invasori.

I Salassi vissero in assoluta libertà fino allametà del II secolo a.C. quando si scontraronoper la prima volta con le legioni romane: nellabattaglia di Verolengo, a sette chilometri da Chi-vasso, i Romani subirono una atroce disfatta: la-sciarono sul campo 10.000 soldati. Fu una car-neficina. L’avvenimento scosse la capitale Romadove tutti si chiesero il motivo di questa cocentesconfitta. Gli aruspici dissero che la campagnacontro i Salassi non era stata ben preparata conadeguati sacrifici agli Dei e che questi avevanocosì voluto punire la leggerezza dei romani. Ladisfatta fu uno schoc tremendo per Appio Clau-dio che comandava i legionari. Roma volle im-mediatamente cancellare l’onta della sconfittasubita approntando un immenso esercito che,tre anni dopo, nel 140 a.C., nella battaglia diMazzé, nei pressi di Caluso, piegò i Salassi in unaltrettando sanguinoso scontro. I nostri furonosconfitti e lasciarono sul campo seimila guerrie-ri. Al comando delle legioni c’erano Appio Calu-dio e da Cecilio Metello. Fu senz’altro in questaoccasione che i romani distrussero Canava, lacapitale dei Salassi. Non meno ingenti furono

però, a Mazzé, le perdite dei romani, visto chead Appio Claudio fu negato il trionfo nelle vie diRoma, trionfo che automaticamente veniva ac-cordato ai comandanti che in qualunque batta-glia uccidevano almeno 5.000 nemici: aveva sìvinto la battaglia, ma il prezzo era stato troppogrande. Forse anche i Romani lasciarono sulcampo altrettanti morti: i Salassi dovetterocombattere fino all’ultimo uomo, scegliendo lamorte piuttosto che la fuga e la salvezza. Non sispiega altrimenti il diniego del trionfo ad AppioClaudio e a Cecilio Metello. Il sacrificio dei Sa-lassi per difendere la loro terra, immensamentepiù grandioso della morte dei trecento spartanidi Leonida alle Termopili, è ricordata dalla tradi-zione canavesana come La Mattanza.

Al sacrificio dei guerrieri nelle campagne diMazzé bisogna senz’altro aggiungere la distru-zione della Capitale e la barbara esecuzione didonne, vecchi e bambini restati indifesi in Cana-va: gli abitanti della capitale, invece di arrender-si e finire schiavi e violati, come i loro padri emariti, preferirono morire nel fuoco dell’incen-dio, sotto le macerie delle loro abitazioni. Cana-va però risorse e viene ancora citata verso il XIIsecolo; ma poi se ne persero le tracce ed il pro-blema di localizzarla è ancora irrisolto. Sembrache sorgesse non lontano dall’attuale Cuorgné, aRivarotta, nei pressi di Salassa, dove sono venu-te alla luce anticamente molte iscrizioni romanee tracce di monumenti antichi, come ci dice lostorico Jacopo Durandi.

Dopo questa tremenda battaglia i Romani en-trarono in possesso della fascia del Basso Cana-vese ed ebbero così libertà di movimento per re-carsi nelle Gallie attraverso il Moncenisio. Il Ca-navese propriamente detto, con Canava e Ypo-reya restavano dei Salassi ma questi, consci chela lotta contro i Romani sarebbe continuata,spostarono il loro centro politico e amministra-tivo in Valdaosta, fondando una nuova capitale acui diedero il nome di Cordelia, che significa lacittà fortificata (da GORDE-ILLI-A), nel luogodove attualmente in parte sorge la città di Aosta.Ne fecero una città inespugnabile, collegata conl’esterno da gallerie lunghe chilometri, secondoquanto narra la leggenda.

Passò un secolo nel quale i Salassi, signori in-contrastati dei monti, permettevano sì il transi-to nel loro territorio ai romani, ma a prezziesorbitanti. Ciò portava questi a scegliere, perattraversare le Alpi, quasi sempre la via del Mon-cenisio, dove Donno di Susa, capo delle tribùdelle Alpi Cozzie, si era lasciato facilmente e ver-

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gognosamente corrompere dai conquistatori.Intanto i Romani, al fine di meglio controllare ilterritorio, fondarono Eporedia, nel 100 a.C.,probabilmente sulle rovine dell’antica Yporeia,conservandone evidentemente l’appellazione.Nel frattempo, i Salassi, assieme ai vicini Veragridel Vallese svizzero e ai Ceutroni della Taranta-sia savoiese, continuavano a restare signori delleloro terre. Creando a piacere e con straffotenzadifficoltà d’ogni sorta ai ro-mani, concedevano comun-que loro di tanto in tantolasciapassere attraverso illoro territorio.

Ecco quanto ci raccontaStrabone:

“Ancora in tempi recentiora combattendo ora inter-rompendo le guerre controi Romani tramite la stipu-lazione di tregue continua-vano, nonostante tutto, aconservare la loro potenzae con la loro inclinazioneal brigantaggio provocava-no danni rilevanti a coloroche percorrevano il loroterritorio per valicare imonti. Così quando Deci-mo Bruto scappò da Mode-na pretesero da lui e daisuoi uomini il pagamentodi una dracma a testa equando Messala svernò neiloro paraggi dovette pagarein contanti la legna da ar-dere e gli olmi necessariper i giavellotti e le armida esercitazione. Questiuomini arrivarono perfino una volta a rubare ildenaro di Cesare Augusto e a rovesciare dei ma-cigni su colonne di soldati, con la scusa di co-struire strade o gettare ponti sui torrenti.”(Trad. Luigi Bessone)

Anche Cesare nutrì il sogno di domare i Salas-si e aprirsi la via del colli delle Alpi Graie per re-carsi più velocemente in Europa centrale, mafallì nel suo scopo, lasciando ad Augusto il com-pito di risolvere la questione salassa. Cercò disottomettere i Veragri pensando che, conquista-to questo territorio, l’attacco ai Salassi avrebbepotuto essere portato di fronte e alle spalle; a ta-le proposito inviò nell’inverno 56 ÷ 57 a.C. illuogotenente Servio Galba contro il popolo del

basso Vallese che valorosamente difese la sua in-dipendenza.

Ma ora veniamo allo scontro decisivo. Nel 35a.C., Ottaviano incaricò Antistio Vetere di fare ilpossibile per neutralizzare i Salassi. La campa-gna durò due anni durante i quali il generale ro-mano impiantò guarnigioni nei punti nevralgicidel paese allo scopo di impedire la circolazionedelle merci ed in particolare quella del sale. An-

che questa tattica fallì. Alcuni anni dopo Messalla Corvino (forse l’an-

no 30 a.C.) tentò lo stesso esperimento, ma do-vette anche lui rinunciare. Né Antistio Vetere,né Messalla Corvino erano generali qualunque:Messalla, fulgentissimus iuvenis, fu console or-dinario, ai vertici dello stato, nel 31 a.C. etrionfò sui Galli nel 27 a.C.; Antistio appartene-va ad una famiglia prestigiosa e fu governatoredella Spagna citeriore.

Il casus belli che scatenò la decisiva campagnadel 25 a.C. contro i Salassi sembra essere la rapi-na delle casse del denaro di Augusto, destinato asovvenzionare la guerra oltralpe, ad opera dellapopolazione della Coumba Freida (Valle del

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Gran San Bernardo). Proprio a Etroubles infattisi ritrovò nel 1856 un deposito di monete d’ar-gento le più recenti delle quali riportano la datadel 29 a.C.

Augusto affidò questa volta la campagna mili-tare al più esperto Terenzio Varrone Murena. Ilgenerale godeva di ottime conoscenze a Roma,era fratellastro di Proculeio, intimo amico del-l’imperatore, e diventerà consul ordinarius ecollega di Augusto nel 23 a.C.

Varrone, con un agguerrito esercito, entrò inValdaosta dove ad attenderlo c’erano circa qua-rantamila guerrieri montanari; non certo soloSalassi visto che la popolazione della Valle, cheammontava forse a 60.000 abitanti, non potevaschierare un esercito così imponente. È certoche ad aspettare i romani fu un esercito di con-federati: Salassi, Ceutroni e Veragri. Non si saesattamente come si svolsero i fatti ma sembrache con l’inganno e il tradimento Terenzio feceprigionieri i capi Salassi convocati per un sum-mit. Con la promessa di riconsegnare i prigio-nieri riuscì a circondare l’esercito dei confedera-ti e a obbligarli alla resa. Fece trentaseimila pri-gionieri. Subito dopo assediò Cordelia ottima-mente difesa da una parte dei confederati. Nonsarebbe arrivato ad espugnarla se non dopo lun-go assedio. Ma, con l’aiuto di consiglieri salassitraditori, immaginò uno stratagemma: deviò leacque del torrente Buthier fino a farle entrarenelle gallerie che collegavano Cordelia, comeabbiamo visto, con l’esterno. I soldati che nellegallerie assicuravano la difesa della capitale mo-rirono eroicamente cercando di arginare il tor-rente d’acqua che devastava la città. A questopunto l’attacco alle mura fu un gioco da bambi-no. I difensori di Cordelia però non si abbassaro-no a essere fatti prigionieri. Tutti morironocombattendo. Tutti, verosimilmente come suc-cesso a Canava, furono trucidati e lasciati fra le

rovina della gloriosa capitale. Fu questa la MAT-TANZA di Cordelia che ancora oggi viene ricor-data dalla tradizione valdostana.

Dei trentaseimila prigionieri fatti da TerenzioVarrone, seimila scelsero di entrare nelle legioniromane; trentamila non scesero a patti e furonoportati al mercato degli schiavi di Ivrea dove fu-rono venduti come schiavi con il vincolo di nonessere liberati se non dopo vent’anni di schia-vitù. I lotti maggiori furono acquistati da Brut-tiani, cioè da mercanti dell’attuale Calabria.

Sulle rovine di Cordelia, Augusto, di passaggioin Valdaosta nell’anno 11 a.C., farà costruire unanuova città sul modello di Roma, con Terme,Foro, Teatro e Anfiteatro. Invierà ad abitarla tre-mila pretoriani giunti alla pensione. La cittàverrà chiamata Augusta Pretoria. Attualmente sichiama Aosta. Ma gli abitanti della Valle conti-nuano a chiamarla Veulla, da HILLIA, parte del-l’antico nome di Gorde-ILLI-A: La Capitale.

La leggenda dice che nelle viscere dell’attualecittà, nuovamente ancora colonizzata da “Ro-ma”, si ritrovano immense gallerie, in parteostruite da terra e sedimenti, dove si rinvengonoossa umane di grandezza spropositate. Sono iresti dei nostri gloriosi antenati morti per difen-dere la loro Patria. Nelle viscere di Aosta viveparte degli antichi e indomiti Salassi. Vive il lorosolare esempio di amore per la LIBERTÀ.

Bibliografia❐ Bessone Luigi, Tra Salassi e Romani, Musu-meci Edit, Aosta❐ De Tillier J.B., Historique de la Vallée d’Aoste,Imprimerie ITLA, Aosta❐ Durandi Jacopo, Della Marca d’Ivrea, B. Bar-beris Stamperia, Torino❐ Mochet J.C., Porfil Historial, Imprimerie Mar-guerettaz, Aosta❐ Krutwig-Sagredo F., Garaldea, Bilbao

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IRomani entrano per la prima volta a Mediola-no (principale centro della Gallia Cisalpina)nel 222 a.C. guidati dal console-macellaio

Marco Claudio Marcello a cui resistono fino al-l’ultimo i guerrieri insubri posti a difesa dellesacre insegne della città, le Immobili. La presen-za oppressiva dei Romani ha quella prima voltabreve durata: quattro anni dopo vengono infatticacciati e non vi rimetteranno piede che nel 196a.C. e a prezzo di lotte sanguinose e di tradi-menti. Solo dopo avere sconfitto definitivamen-te Annibale (e i suoi fedeli alleati Cisalpini) a Za-ma, i Romani possono infatti riprendere la sot-tomissione della Padania. Con molta fatica allar-gano le loro conquiste in pianura, con operazio-ni militari, con eccidi di massa, con distruzionisistematiche del territorio e con la costruzionedi strade concepite in funzione strategica (so-prattutto l’Emilia e la Postumia). La loro pene-trazione nelle zone di collina e di montagna èancora più difficile e (per loro) dolorosa: unacontinua serie di attacchi, scorrerie e azioni diguerriglia bloccano i Romani e ne rendono insi-cura la presenza. Augusto è costretto a profon-dere enormi energie per mettere fine alle resi-stenze dei popoli alpini: nel trofeo de La Turbiecelebra le sue vittorie e quelle del figlio Druso

ed elenca le popolazioni sottomesse fino al 14a.C.. Fra queste ci mette anche i Leponzi. Inrealtà si trattava però spesso solo di sottomissio-ni formali giacchè molte delle tribù che abitava-no le valli alpine (Leponzi, Liguri, Salassi, Retieccetera) non si sono mai veramente assoggetta-te alla tirannia romana, e rivolte e ribellionihanno assunto carattere endemico. Sull’arco al-pino occidentale, il regno dei Cozi finisce for-malmente solo nel 64 d.C. con la formazionedella omonima provincia romana, mentre la co-siddetta provincia Vallis Poenina (che compren-deva anche il Vallese e l’alta Ossola) è stata isti-tuita solo nel 100 d.C..

La valle d’Ossola segue lo schema generale diquegli avvenimenti: i Romani compaiono nellabassa valle attorno alla fine del II secolo a.C. mai loro tentativi di penetrazione sono frustrati an-che dall’arrivo dei Cimbri che (evidentementeappoggiati dalle popolazioni locali) mettono infuga nel 101 a.C. il console Lutazio Catulo e isuoi sgherri. Non si hanno sicure notizie circa ladata dell’arrivo dei primi Italiani nell’alta vallema si suppone che sia avvenuto attorno all’ulti-mo decennio prima di Cristo. In ogni caso, va ri-cordato che l’alta Ossola significativamente nonè mai stata compresa nella Regio XI Transpada-

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Montecrestesedi Gilberto Oneto

Il complesso megalitico di Croppola

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na ma nella regione Rae-tia, assieme al Tirolo eall’attuale Baviera, e cheperciò è stata (assieme aparte del Tirolo e allaValle d’Aosta) la sola por-zione della Padania geo-grafica che non ha maifatto parte in epoca ro-mana della cosiddettaItalia. I Romani se ne so-no rimasti presumibil-mente asserragliati alfondo valle stando beneattenti a non uscire dailoro campi fortificati se non di giorno e nume-rosi. Un famoso monumento celebrativo ricordaa Vogogna l’apertura della strada del Sempioneavvenuta solo nel 196 d.C. ma qualche studiososostiene addirittura che il valico non sia mai sta-to veramente aperto ed agibile in età romana. (1)Occorre ricordare che solo alla fine del III secolosi è verificata una vera fusione fra le due culturee limitatamente alle zone di pianura (come atte-sta anche l’unione fra la città celtica di Mediola-no e il castro romano che l’ha militarmente pre-sidiata per più di tre secoli) (2) e che questa siaavvenuta soprattutto in virtù di una sorta di “ri-celtizzazione” della regione, significativamenteattestata dall’elevazione di Milano a capitale del-l’Impero di Occidente. Ma questo processo nonha quasi per nulla toccato le nostre genti dimontagna. Le rivolte infatti continuano e assu-mono connotazione endemica: è nota la storiadella Legione Tebana, inviata dall’imperatoreMassimiano Cesare sulle Alpi occidentali a com-battere la resistenza locale. La truppa aveva risa-

lito il Vallese combattendo fra il 285 e il 286 daAgaunum (St Maurice) a Octodurum (Martigny)a riprova che tutto l’interno era in rivolta e i va-lichi alpini di collegamento con la Padania nonerano accessibili. (3) La fine ufficiale della op-pressione romana avviene nel 476 ma i primi li-beratori barbari (Visigoti e Burgundi) eranocomparsi nella valle già all’inizio del V secolo egli Ostrogoti alla metà dello stesso secolo. Sipuò perciò dire che Roma da queste parti ci siastata ben poco e solo con rapide e contrastatecomparse che non hanno inciso granchè sullacultura locale.

Dalle evidenze archeologiche degli scavi di Or-navasso si legge - ad esempio - il carattere di

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(1) Tibiletti, “La civiltà del Ticino fra geografia e storia, in Si-brium, XII, 1973-75, pagg. 5 ÷ 45(2) Gilberto Oneto, “Milano, centro della Terra di Mezzo”, suQuaderni Padani, n. 9, gennaio-febbraio 1997, pagg. 14 ÷ 21(3) Claudia Bocca e Massimo Centini, Le vie della Fede attra-verso le Alpi (Ivrea: Priuli e Verlucca, 1994), pagg. 49 ÷ 51

Complesso di Castelluc-cio (Montecrestese):prospetto e sezioni (Ri-levamento Bianchini,Giozza, Negri)

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una società poco romanizzata eancora fortemente celto-ligure. Lascarsa incidenza dell’occupazioneromana è provata anche dalla ric-chezza di segni celtici per tutta lavalle d’Ossola. (4) Sappiamo percerto che i Romani devastavanosistematicamente tutti i segni cel-ti, ne romanizzavano le manifesta-zioni religiose per paura che isimboli potessero rappresentareelementi di forza identitaria e diresistenza politica. In effetti e inparticolare, nelle antiche comu-nità celtiche la figura del druidoassommava ruoli magico-religiosi,funzioni taumaturgiche, cono-scenze scientifiche e poteri politi-ci, ma era soprattutto il depositodella cultura tribale, del senso dicomunità, dello spirito di un po-polo. Non è un caso che propriocontro i druidi di sia scatenata lapiù sanguinaria opera di repres-sione. Per eliminare ogni occasione di riconosci-mento culturale e quindi politico, i Romani siaccanivano contro i druidi e contro tutti i segniad essi collegabili di riconosciuta sacralità delterritorio: diroccavano megaliti, cancellavanocostruzioni sacre, abbattevano boschi, interrava-no sorgenti e uccidevano tutti coloro che eranodepositari della cultura orale dei celti, che eranouna sorta di archivi e biblioteche viventi. (5) Lastessa opera è stata più tardi continuata dallaparte più retriva e romana della Chiesa che te-meva ogni manifestazione di religiosità pagana,guardata con sospetto soprattutto in epoca con-troriformista per l’incombente vicinanza dellevalli protestanti. L’Ossola è stata teatro di famosiprocessi contro la stregoneria che non sonoperò riusciti a scalfire presenze antiche eprofonde nella cultura popolare tant’è che anco-ra nell’Ottocento la valle è stata percorsa da sus-sulti ereticali e pauperistici. (6) Non va neppuredimenticato che Frà Dolcino era forse originariodi Trontano.

La scarsa incisività dell’occupazione romana equi provata dalla particolare abbondanza di mol-ti elementi fisici legati alle culture antiche deinostri padri sono sopravvissuti alle devastazionidegli oppressori: la valle è piena di massi coppel-lati, vi si trovano numerosi residui megalitici ealcune belle presenze iconografiche, come il fa-moso mascherone di pietra ollare di Vogogna-

Dresio. (7) Moltissime altre presenze antiche so-no poi sopravvissute sotto una discreta patina dicristianizzazione: devozione mariana, immaginidi santi, cristianizzazione di culti ed elementi li-tici, e permanenze di immagini specifiche comele decorazioni architettoniche antropomorfe chericordano l’antico culto celtico delle “teste ta-gliate”.

In questo panorama generale Montecrestesegioca un ruolo particolare. Posto in una posizio-ne elevata, rappresenta una sorta di fortezza na-

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(4) Su questi argomenti, si vedano:AA.VV., “Megalitismo in Ossola”, su Oscellana (n. 4, ottobre-dicembre 1990), pagg. 209 ÷ 240Paola Piana Agostinetti, “L’Ossola preromana”, su Oscellana(n. 4, ottobre dicembre 1991), pagg. 193 ÷ 262(5) Del processo di distruzione dei Druidi si è di recente oc-cupato:Riccardo Taraglio, Il Vischio e la Quercia (Grignasco: Edizio-ni L’Età dell’Acquario, 1997), pagg. 426 ÷ 458(6) Della vitalità dei movimenti ereticali e pauperistici nel-l’ottocento ossolano si è occupato:Roberto Gremmo, Il nuovo Messia e la Madonna rossa (Biel-la: Storia Ribelle, 1997)(7) Si vedano:Ausilio Priuli, Incisioni rupestri nelle Alpi (Ivrea: Priuli eVerlucca, 1983)Paola Piana Agostinetti, op. cit., pagg. 218 ÷ 219Pierangelo Caramella e Alberto De Giuli, Archeologia del-l’Alto Novarese (Mergozzo: Antiquarium, 1993)Fabio Copiatti e Alberto De Giuli, Sentieri antichi (Domo-dossola: Grossi, 1997)

La torre dei Picchi di Roldo come appariva nel 1972 (fotoPessina)

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turale che si affaccia sulla valle dell’Isorno che èsempre stata di difficile accesso: i Visconti lachiameranno “valle impossibile” per non esseremai riusciti a penetrarvi.

Non è eccessivo, alla luce di queste nozioni,ipotizzare che Montecrestese-Muncrestés nonsia mai stata occupata dai romani o che questi viabbiano al massimo fatto delle veloci capatinepieni di timore. In ogni caso è certo che si trattadell’ultimo scampolo di terra padana a esseremai finita sotto Roma, davvero o anche solo for-malmente. Non è perciò sbagliato associareMontecrestese al “villaggio di Asterix” descrittoda un celebre fumetto, di cui sarebbe una sortadi versione padana.

Questa sua particolare fortunata condizione

sarebbe all’origine di una serie di elementi chepossono essere rintracciati in tutta l’area dell’al-ta valle ma con particolare frequenza e entitàproprio sugli affascinanti rilievi di Montecreste-se che ritengono anche nelle loro fattezze fisi-che forti immagini di sacralità e di suggestione,per l’incredibile commistione di rocce e di bo-schi, di chiusure e di aperture sul paesaggio.Questi elementi sono toponomastici e di tipo ar-chitettonico e artistico.

Toponimi come Isorno, Roldo, Croppo, Chez-zo e Agaro (e lo stesso Crèst, presente nel nomedel capoluogo) sono - soprattutto se letti nellaloro versione locale - altrettante testimonianzedi sopravvivenze culturali antichissime liguri eceltiche.

I secondi riguardano invece la grande presen-za di coppelle e - soprattutto - di siti e monu-menti megalitici e la straordinaria ricchezza di“teste tagliate” negli elementi decorativi dellearchitetture religiose. (8) La tenace resistenzadell’antichissimo culto delle teste mozze ha pro-dotto nell’architettura locale una incredibile fio-ritura di queste presenze (allo stesso tempo in-quietanti e famigliari) che provengono soprat-tutto dalla primitiva chiesa romanica del XII se-colo, poi ripresi nelle successive ricostruzionidella chiesa parrocchiale locale, in alcuni edificicivili e in altre chiese dell’area. (9)

Ma le presenze fisiche più importanti sono co-stituite da una serie di cromlech e da una co-struzione in pietra, nota come il tempietto diRoldo.

I cromlech di MontecresteseCon il termine bretone di cromlech si indica-

no i cerchi di pietre, quei monumenti megaliticiche sono costituiti da megaliti di varie dimen-sioni infissi nel terreno (menhir) a formare deicerchi più o meno regolari. I cromlech più fa-mosi sono in Inghilterra (Avebury, Stonehengeeccetera) ma complessi di questo genere si tro-vano diffusi in tutta l’Europa nord-occidentale.Spesso la disposizione dei megaliti è organizzatasu orientamenti astrali o privilegia allineamenticollegati con i solstizi e gli equinozi; in alcunicasi sono dei veri e propri “calendari di pietra”costruiti con straordinaria competenza e preci-sione. Spesso i cromlech fanno parte di allinea-menti più complessi che interessano vaste por-zioni di paesaggio secondo schemi di sacralizza-zione basati su traguardazioni lineari. Molti ditali monumenti risalgono a epoche molto lonta-ne (anche al terzo e quarto millennio prima del-l’era cristiana) ed è perciò inesatto attribuirne(come spesso avviene) la costruzione ai popoli dicultura celtica che sono apparsi sullo scenariostorico molto più tardi. Il loro collegamentonell’immaginario popolare con la cultura e la re-ligione celtica (si pensi alla simpatica immaginedi Obelix come produttore e trasportatore dimenhir) è però in larga parte giustificato dalriutilizzo che i Celti hanno fatto di tali antichimonumenti e dalla costruzione di opere analo-

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(8) Tullio Bertamini, “Crevoladossola e la sua chiesa”, suOscellana (n. 2, aprile-giugno 1998), pagg. 67 ÷ 75(9) Tullio Bertamini, Storia di Montecrestese (Domodossola:Edizioni di Oscellana, 1991), pagg. 145 ÷ 156

Isolamento, mediante taglio fotografico, deltempietto dal contesto della torre di Roldo

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ghe da loro stessi intrapresa. Ilriconoscimento del potere ma-gico della pietra e dei suoi fortisignificati di collegamento sim-bolico fra la terra e il cielo e frale espressioni sacrali tellurichee celesti era uno degli elementidi più robusta riconoscibilitàdelle espressioni religiose deipopoli celtici. In particolare, aicromlech è stato attribuito an-che il valore di Nemeton, di re-cinto sacro nel quale sviluppareriti di forte contenuto sacrale eierofanico. Non è neppure uncaso che gran parte dei cromle-ch si trovassero in aree elevate oin mezzo ai boschi (luogo sacroper eccellenza) o che essi stessifossero la rappresentazione sim-bolica dei boschi di pietra: unafunzione che riprenderanno ipilastri e le decorazioni a motivivegetali delle cattedrali gotiche.

In ogni caso tutte le popola-zioni antiche dell’Europa occi-dentale hanno attribuito ai me-galiti forti valenze sacrali e sim-boliche e anche per questa ragione essi sono sta-ti sistematicamente abbattuti dai Romani (chevi vedevano centri di identificazione comunita-ria e politica) e dalla Chiesa cattolica (che li in-terpretava come segni di resistenza di culti pa-gani). Questo accanimento è stato particolar-mente forte in Padania, dove i monumenti me-galitici sono stati sistematicamente spazzati viae nella quale essi dovevano essere presenti alme-no con la stessa densità che si trova negli altripaesi dell’Europa garalditana e celtica.

I megaliti residui ancora presenti in Padaniasono oggi concentrati soprattutto nelle aree dimontagna: si segnalano soprattutto menhir equalche rarissimo dolmen. I cromlech conosciu-ti si possono invece contare sulle dita di unamano. Il più famoso è sicuramente il cerchio delPiccolo San Bernardo. Alcuni dei più interessan-ti complessi si trovano proprio nel territorio di

Montecrestese. Ne sono stati ritrovati e docu-mentati due in località Croppole e tre nella loca-lità denominata Castelluccio. Si tratta di insiemidi muri e camere megalitiche e di gruppi dimenhir, allineati o disposti a cerchio, che for-mano disegni di poche decine di metri. Tutti icomplessi sono addossati alla collina e guardanoverso il fondo valle. I siti più interessanti sonoquelli chiamati Croppole I e Castelluccio I, perdimensioni dei megaliti, per la loro disposizionee conservazione, e per il loro rapporto con lecamere ipogee e con i terrazzamenti. (10)

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Un gruppo di teste in pietraserpentina e di gusto “orienta-leggiante” appartenute allafacciata della chiesa romanicadi Montecrestese

(10) AA.VV. “Megalitismo in Ossola”, op. cit., pagg. 220 ÷ 224Tullio Bertamini, Storia di Montecrestese, op. cit., pagg. 33÷ 46Ottone Gerboli, “Ecco i cromlech della Val d’Ossola”, su LaPadania (23-24 agosto 1998), pag. 18

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Il tempietto leponzio di RoldoCome è noto, la maggior parte delle costruzio-

ni di epoca celtica era eseguita principalmentein legno o in legno con fondazioni di pietra. Siha però memoria anche di edifici realizzati com-pletamente in pietra con copertura in lastre dipietra o - molto più frequentemente, in paglia.Alcuni esempi di tali edifici sono rimasti in Ir-landa, Bretagna, Occitania e Galizia.

Nella frazione di Roldo a Montecrestese si tro-va invece un piccolo edificio costruito intera-mente in pietra lavorata con una certa maestriae legata a calce. Esso si trova inglobato in mezzoad altre costruzioni e a rovine di edifici, in unacondizione di complessivo degrado. Si tratta diuna costruzione rettangolare dalle misure ester-ne di 5,50 m di lunghezza e di 3,60 m di lar-ghezza. All’interno è diviso in due piccoli vani:una cella di 2,45 m per 2,90 e un atrio di 2,45 mper 1,10. Il tutto è illuminato da una piccola fi-nestra, posta sul fondo, di 45 cm per 58. La cellaè coperta da una volta a botte impostata a 2,85m di altezza ed alta, al centro, 4,10 m. La coper-tura era di lastre di pietra sagomate a tegolonied è stata nascosta da una sopraelevazione, pre-sumibilmente eseguita attorno al 1200, che neha fatto una torre di osservazione. Il tetto inbeole di tale torre è crollato all’inizio degli annisettanta ed è stato maldestramente sostituitocon una copertura in lamiera. L’edificio è statoscoperto e studiato da Tullio Bertamini nel 1975e dalle sue pubblicazioni sono tratte tutte le no-tizie tecniche che vengono qui riportate.

Dall’accurato esame dei materiali e delle tec-niche costruttive, l’edificio è stato datato al pri-mo secolo dell’era cristiana in un periodo nelquale gli influssi culturali romani (se mai ce nesono qui stati) erano ancora lungi dall’essere ar-rivati in forma consistente. Che si trattasse diun edificio di culto è dimostrato dalle tecnichecostruttive, dalla posizione e dall’orientamento.

Sappiamo - come già detto - che le costruzioni“normali” dell’epoca erano in legno o in legno epietra e che solo per edifici di una certa impor-tanza si usava esclusivamente la pietra. L’accu-ratezza della costruzione, l’uso dei materiali (lecornici della finestra e delle porte sono in mar-mo di Crevola) e la pianta interna a doppia cellaattestano un uso sacrale “importante”.

L’edificio sorge in cima a uno sperone da cui sivede l’intera alta valle e da essa è perfettamentevisibile: una sorta di importante caposaldo vi-suale e paesaggistico, forse addirittura un puntodi riferimento. Esso è poi stato costruito su una

grande roccia che è stata scavata per ospitarnele fondamenta e tutto lascia pensare che fosseproprio tale roccia la prima origine del culto suquel sito. La forza sacrale della pietra è ricordataanche da una strabiliante analogia con il sitomegalitico del Piccolo San Bernardo: accanto aquel cerchio di pietre sono state ritrovate le fon-damenta di un edificio dalle forme e dalle di-mensioni assolutamente analoghe a quelle diRoldo. L’edificio è poi perfettamente orientatolungo l’asse nord-sud mentre i templi romanierano orientati sulla linea est-ovest e anche que-sto dimostra che era un edificio sacro ma non diimpronta mediterranea. L’altezza dell’unica fine-strella rispetto al pavimento interno fa si che laluce solare penetri direttamente nell’edificio so-no nel periodo compreso fra l’equinozio di au-tunno e quello di primavera (23 settembre - 21marzo) e che l’illuminazione massima si abbia amezzogiorno del solstizio d’inverno (22 dicem-bre), quando il raggio del sole attraversa l’interotempietto. Questo connubio di sole e di pietra èuna sicura prova di sacralità celtica e non è deltutto azzardato supporre che il tempio fosse de-dicato al dio solare Belenos. (11)

Come già detto, per tutta una serie di circo-stanze storiche e di presenze fisiche, Montecre-stese può essere considerato una sorta di versio-ne padana dell’irriducibile villaggio di Asterix. Inquesta sua veste, esso è sicuramente entrato nel-l’immaginario popolare. (12) Una sorta di consa-crazione di questa sua funzione simbolica si èavuta il 5 settembre del 1998, quando proprio LaLibera Compagnia Padana ha celebrato a Mon-tecrestese il 1522° anniversario della caduta del-l’impero romano. (13) In quella occasione è statoanche eretto un moderno menhir, davanti allachiesetta del Viganale, a segno di una continuitàstorica e simbolica, a ricordo di una antica e glo-riosa resistenza e a incoraggiamento nella eternalotta per la libertà della gente padana. (14)

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(11) Tullio Bertamini, Storia di Montecrestese, op. cit., pagg.57 ÷ 70Tullio Bertamini, “Tempietto lepontico a Montecrestese”, suOscellana (n. 1, gennaio-marzo 1976), pagg. 1 ÷ 11Ottone Gerboli, “Il tempietto leponzio di Roldo”, su La Pa-dania (26 agosto 1998), pag.18(12) Gilberto Oneto, “Pozione magica anche in Padania”, suLa Padania (2 settembre 1998), pag. 18(13) Elena Percivaldi, “Così rovinò la Babilonia romana”, suLa Padania (2 settembre 1998), pag. 18(14) L’avvenimento è stato descritto da:Ottone Gerboli, “Come nel villaggio di Asterix”, su Il Soledelle Alpi (3 ottobre 1998), pagg. 66 ÷ 67

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Pressoché nessun avvenimento interno del Ve-neto antico è stato tramandato, probabilmenteper obbligo politico di non divulgare le notizie.Le nostre limitate conoscenze riguardano i rap-porti esterni e ci fanno supporre contrasti traanti e filoromani fino al tempo di Cesare e inseguito il dolore dei patrioti per la dominazioneromana.

Il Veneto antico prima dell’ingerenza romanaIl segreto come strumento di governo

Nella ricca Padania antica il Veneto era emi-nente. L’agricoltura era fiorentissima e le greggitransumavano dalle Prealpi alla frangia perila-gunare. I contatti con l’Egeo erano intensi findall’età dei micenei. Eppure, pare che i commer-ci non abbiano favorito la conoscen za delle vi-cende del Veneto presso gli storici antichi. Giu-lia Fogola ri osserva: “È singolare che al fioriredella civiltà dei veneti nella nostra regione lefonti classiche non dedichino alcun accenno.Presso gli scrittori più antichi si fa solo menzio-ne delle origini, della ubicazione di questo popo-lo, dei suoi famosi destrieri. Possiamo spiegarlocon la mancanza di fatti singolari, con lo svilup-po di una storia tranquilla, priva di grandi eventibellici?”

La mancanza o scarsità di notizie permane pertutta la storia del Veneto antico. Sembra che gliantichi non abbiano lasciato di proposito memo-

rie sui veneti, e che tra i veneti vigesse la normadel divieto di discutere pubblicamente sull’ope-rato delle loro autorità. La caratteristica di po-poli senza memoria storica è propria delle so-cietà di agricoltori matriarcali. Le loro tradizio-ni sono ricche di miti, superstizioni, norme dicomportamento, ma prive di leggende storiche.Queste ultime, assieme alle genealogie e allacronologia, si trovano presso i popoli patriarcalinomadi allevatori.

I più antichi racconti storici sono stati scrittidai semiti, originariamente pastori, e la lettera-tura storica greca è prodotta dagli indoeuropeinomadi alleva tori arrivati dal Nord, mentre ipreindoeuropei cretesi hanno trasmesso miti aigreci, ma nessun racconto storico. In Italia ilgenere storico è stato coltivato soprattutto dalpatriziato romano, formato da gentes di pastoripatriarcali che si imposero sui plebei agricolto rimatriarcali. A causa di mescolanze etniche escambi culturali normalmente si sono formatipopoli con tratti in parte matriarcali e in partepatriarcali.

Plausibilmente anche nel Veneto antico le dueforme economiche della pastorizia e dell’agricol-tura stanno a indicare la convivenza di una cul-tura patriarcale e una matriarcale. Il gruppomatriarcale traeva origine dalle culture agricolelocali dell’età del Bronzo, mentre quello patriar-cale era formato dai veneti, nomadi allevatorigiunti nella pianura della Padania orientale all’i-

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La politica estera dei Veneti antichidi Carlo Frison

Disegno di cinturone bronzeo paleoveneto (VIII-VII secolo a.C.)

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nizio del I millennio a.C. I veneti erano origina-riamente pastori, perché i loro affini venetolani,stabilitisi nel Lazio, sacrificavano animali du-rante le feste della Lega Latina. Ai caratteri ma-triarcali della società paleoveneta, dedu cibiliprincipalmente dai corredi funerari femminili,dovrebbe corri spondere una rilassatezza dei co-stumi; al contrario le donne padovane eranopresentate dagli scrittori latini come modello dimorigeratezza, caratteristica questa delle cultu-re patriarcali. Questa contraddizione sarebbespiegabile dalla posizione di prestigio riservataai pastori patriarcali.

La norma del silenzio sulle vicende politiche èinnanzi tutto dedu cibile dal fatto che nessunnome di capo veneto è stato tramandato al difuori di due personaggi mitici, Antenore, fonda-tore di Padova, e Pilimene, il re degli eneti (ve-neti della Paflagonia) emigrati assieme a Ante-nore fino al nord Adriatico. L’unico capo venetovissuto prima dell’assoggettamento a Roma vie-ne nominato dal poeta latino Silio Italico (I-IIsecolo d.C.), che allude alla partecipazione di uncontin gente di veneti nella battaglia di Canne(216 a.C.) comandati da Pediano. La notizia la-scia perplessi perché Silio Italico vi introduceun accenno anacronistico a un reparto di armatifornito da Aquileia, che al tempo della secondaguerra punica non era ancora stata fondata. Unaipotesi è che a Canne fossero presenti gruppi dimercenari veneti. Il nome Pediano del condot-tiero farebbe di lui un ascendente della casatapadovana degli Asconii, illustre a Roma nel I-IIsecolo d.C., cui proba bilmente apparteneva lostesso Silio Italico, il che pone in dubbio l’episo-dio.

Tito Livio avrebbe avuto almeno due occasioniper nominare dei capi veneti. La prima è quelladell’incursione nella laguna veneta delle navidello spartano Cleonimo nel 302 a.C. Livio ciracconta che il collegio dei capi padovani decisela strategia delle milizie da invia re contro Cleo-nimo, ma non cita nessun nome, né dei capi nédei condottieri delle milizie; e non ci aiuta nem-meno a comprendere quali scopi avesse Cleoni-mo o se avesse potuto contare del sostegno deicelti che premevano ai confini del Veneto. Sem-bra che il principio cui si attiene Livio sia di par-lare di fatti accaduti nel Veneto solo quando era-no implicati degli stranieri, Cleonimo nel sud-detto episodio e nell’altro il console Marco Emi-lio inviato dal Senato romano, su sollecitazionepadovana, nel 175 a.C. per dirimere una gravecontrover sia tra fazioni padovane. Livio tace sui

motivi della contesa e sui nomi dei capi delle fa-zioni. È stata avanzata l’ipotesi del contrasto trafavorevoli e oppositori dell’influenza romana.

Le mire di etruschi, celti e romani sul VenetoLo scivolamento verso l’alleanza con Roma

Il primo passo verso la trasformazione del Ve-neto in protettorato romano è deducibile dalladenominazione usata da Livio per la sua terra.Egli usa l’espressione venetorum angulus par-lando della fonda zione delle città etrusche anord del Po e litora venetorum nella descrizionedell’incursione di Cleonimo (302 a.C.), cioè inavvenimenti anteriori agli interventi romani nelVeneto, mentre usa Venetia sia a proposito dellaminaccia gallica che giustificò la fondazione del-la colonia romana di Aquileia nel 181 a.C., sianell’intervento del console Marco Emilio perplacare le tensioni interne a Padova nel 175 a.C.Ne dedurrei che il nome Venetia sia stato conia-to dai romani e che prima si usavano locuzionicol genitivo plurale per indicare il territorio deiveneti.

La reticenza di Livio sulla vita politica dellasua patria non arriva, tuttavia, a celare il suo do-lore per la perdita della libertà. Lodando la con-cordia tra i cittadini (“non vi può essere speran-za di salvezza, se non nella concordia dei cittadi-ni”) indubbiamente Livio condanna quel dissidiotra i padovani che permise l’intervento di Roma.Si crede comunemente che il collegio sacerdota-le dei Concordiali, peculiare di Padova, sia statointrodotto a seguito della composizione delle di-scordie interne del 175 a.C. L’importanza di que-sto intervento romano è tale che i padovani, apartire dall’età di Augusto, lo considerarono co-me data di inizio di una nuova era della lorocittà, ponendola a principio di un sistema localedi cronologia che compare in undici iscrizionifunerarie di epoca imperiale.

Nel II secolo a.C. ci furono altri interventi diproconsoli romani per far cessare delle contesedi confine tra i territori di Este e Padova e traEste e Vicenza, come apprendiamo dalle iscri-zioni in latino di tre cippi. Le iscrizioni riporta-no i nomi dei proconsoli che fissarono i confiniautoritariamente, dato che è usato il verbo iube-re. È stato notato che i cippi non hanno la ver-sione in venetico, tuttavia questa non avrebbeavuto senso se non fossero stati scritti i nomidei capi veneti accanto a quello del proconsole.

Non abbiamo nessun’altra notizia storica sufatti interni nel Vene to. Nemmeno nelle raccol-te di lettere scambiate tra gli scrittori latini ci

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sono cenni al Veneto. Per esempio, in una epi-stula ad filium Livio raccomanda la lettura Cice-rone, di Demostene e di quanti più si accostasse-ro a entrambi. Trattandosi di consigli a modo ditestamento spirituale, il fiero padovano avrebbedovuto presentare esempi di personaggi dellasua terra, se non avesse avuto timori insondabiliche la lettera poteva essere letta da chiunque.

Siamo costretti a cercare di intuire il pensierodi Livio dai fatti da lui taciuti. Egli non dice se laespansione verso nord degli etru schi sia statafermata militarmente dai veneti. Non accenna aalleanze tra veneti e romani contro i celti o con-tro Annibale, però nel raccon ta-re l’incursione di Cleonimo, diceper inciso che i padovani eranosempre in armi contro i galli.Forse tra veneti e etruschi sigiunse a accordi di buon vicinatoper cui era preferibile non ricor-dare le ostilità precedenti. La si-tuazione preoccupante era che ilVeneto sarebbe stato fatalmenteo invaso dai celti o assoggettatoda Roma. É intuibile che i veneti,non riuscendo a frenare la pene-trazione dei galli, accettarono laprotezione offerta da Roma. Lacocente delusione subita a causadella politica di Cesare, con la conseguente oc-cupazio ne del Veneto, potrebbe aver indotto Li-vio a tacere delle alleanze tra veneti e romanicontro i galli.

Cenni di alleanze veneto-romane antigallichesi trovano in Polibio, le cui narrazioni dipendo-no da fonti romane. Questo storico greco perònon ci narra nessuna vicenda interna veneta nénomina capi veneti. Si deduce quindi che il si-lenzio sulla storia dei veneti era sistematico ecorrispondeva a un atteggiamento culturale.Trovo eclatante il silenzio sul comportamentodei veneti nei confronti dei cimbri scon fitti da-gli eserciti di Gaio Mario e Quinto Lutazio Ca-tullo nel 101 a.C. in uno scontro avvenuto, se-condo l’opinione prevalente, tra Rovigo e Ferra-ra. Ci sono studiosi che danno per probabile lapartecipazione dei veneti accanto ai romani. Main questo caso il silenzio delle fonti romane sul-l’aiuto degli alleati veneti non è un atteggiamen-to amichevole.

Gli storici discutono sulla reazione dei venetialla politica di Cesare di assoggettare tutta la Ci-salpina mediante la concessione del diritto ro-mano alle città. Le fonti sono scarse e contra-

stanti. Il favore verso Cesare è testimoniato dauna notizia contenuta in un sommario del di-sperso libro 110 di Tito Livio: degli opiterginiaccer chiati dalle navi di Pompeo davanti a Du-razzo avevano preferito mori re, inabissandosi inmare con la loro nave, piuttosto di cadere prigionieri dell’avversario di Cesare. Un’altra noti-zia, anche questa contenuta in un brano persodi Livio, riguarda la profezia di un sacerdote del-la fonte termale di Abano che previde (o annun-ciò) la vittoria di Cesare su Pompeo nel 48 a.C. aFarsalo. Plutarco la riferi sce come fatto certo,invece Lucano, di idee repubblicane, la tratta

con un certo scetticismo. Alcuni vi vedono unamanifestazione di filocesarismo del veggente, al-tri notano che nulla nel racconto lo fa supporre.In realtà, la decisa scelta di campo dei veneti afavore del Senato, dopo l’assassinio del dittatore,ci fa capire che la maggio ranza dei padovani te-nesse in scarsa considerazione la cittadinanzaromana concessa loro grazie all’impegno di Ce-sare.

L’occupazione militare romana del VenetoLa resistenza civile non armata dei veneti

Le nostre idee sul grado di assoggettamentodel Veneto a Roma dipen dono fortemente dalleipotesi sulla datazione delle centuriazioni. Man-cando fonti storiche, si suppone, per esempio,che la centuriazione tra Verona e Vicenza in Vald’Illasi sia stata dedotta dopo la vitto ria di Mariosui cimbri (101 a.C.), in seguito alla quale i ro-mani considerarono spettante a loro il territoriotranspadano caduto tempo raneamente in manoai cimbri. Altre centuriazioni avrebbero comegenesi l’istituzione di colonie fittizie di dirittolatino, cioè colonie costitute non da nuovi colo-ni forestieri, ma dai vecchi abi tanti che conti-

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Frammento di lamina bronzea paleoveneta (IV secolo a.C.)

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nuavano a risiedervi, cui veniva concesso il di-ritto latino. Tuttavia non esistono fonti che atte-stino l’istituto della colonia latina nel Veneto. Leipotesi avanzate nascono dal presupposto - an-ch’esso un’ipotesi che però mi trova discorde -che i veneti coltivassero i campi senza centu-riarli.

Di sicuramente romane ci sono solo le centu-riazioni degli agri di Concordia e Este, ordinateda Augusto in seguito alla vicende belliche chelo opposero vittoriosamente a Antonio e al Sena-to. Il periodo seguente la morte di Cesare è statosegnato da tragedie e spoliazioni di cui poco

sappiamo dalle fonti contemporanee, ma che fu-rono traman date oralmente finché furono rac-colte da scrittori del IV-V secolo d.C. I padovanirimasero fedeli all’ideale repubblicano incorpo-rato dal Senato, e ebbero molto a soffrire daisuoi avversari. Cicerone tesse l’elogio dei pado-vani che “più di tutti gli altri transpadani sonoprodighi di armi, denaro e uomini” con il partitorepubblicano. La vendetta di Antonio si scatenòsui veneti, specie sui padovani, che vennero an-gariati e multati. Di qui la ribellione al generalemandato da Antonio nel Veneto, Asinio Pollione.I ricchi padovani rifiutarono di pagare i tributiimposti e si nascosero, affidando la custodia deibeni ai servi, i quali non rivelarono i nascondiglidei padroni e dei loro tesori neppure con la pro-messa della libertà. Il campano Velleio Patercoloricorda “le grandi e splendide azioni intorno aAltino e in altre città di quella regione” condotteda Asinio Pollione, formula faziosa che rivela le

angherie subite dei veneti.Più articolato è il giudizio sull’operato di Ot-

taviano. Il suo accorto senso politico gli consi-gliò di consolidare il potere senza esasperare i ri-sentimenti conseguenti alla guerra civile. Nelsuo testamento politico scrive a proprio vantoche: “neppure le assegna zioni di terra ai vetera-ni inflissero danno e turbamento ai proprieta ri,debitamente risarciti”. Questo potrebbe essere ilcaso delle colonie di Concordia e Este da lui vo-lute. Se non che Servio (V secolo d.C.), commen-tando Virgilio, dice che i padovani riscattarono leloro terre con denaro. É stato supposto che Ser-

vio si riferisse al-le vessazioni diAsinio Pollione.Però l’annotazio-ne di Servio sitrova accanto aiversi di Virgilioin cui il poeta la-menta l’espropriodelle terre man-tovane fatto daAugusto, quindi èpiù logico che ilriscatto pagatodai padovani siriferisca ugual-mente a Augusto.Per di più, negliantichi commen-ti a Virgilio lacacciata dei cam-

pagnoli mantovani dalle loro terre è vista comeun’ingiustizia nonostante i risarcimenti.

Credo che Augusto non abbia mai perdonato ilsostegno a Pompeo della maggior parte dei pa-dovani. Anche in vecchiaia rinfacciava a Tito Li-vio il suo “pompeianismo”. La grandezza del-l’Impero romano non era motivo sufficiente percancellare il rimpianto per la perdita della li-bertà del Veneto. Tito Livio non si curava di na-scondere la sua avversione a Cesare, e veniva ri-cambiato col rimprovero di peccare di patavini-tas, formalmente a causa dell’uso di varianti ve-nete dei termini latini, ma implicito era il sensodella contrapposizione politica dei padovani al-l’impero.

La situazione si fece pesante con i successoridi Augusto, meno disposti a tollerare gli spiritiliberi, come dimostrano alcuni suicidi di pado-vani a Roma. Trasea Peto per l’integerrimità deicostumi era considerato il capo dell’opposizione

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Sviluppo grafico di elmo bronzeo paleoveneto (da Oppeano)

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a Nerone in Senato. Non temeva di manifestareil suo sdegno di stoico per la condotta dell’impe-ratore. Alla richiesta di partecipare ai ludi Gio-venali voluti da Nerone, si rifiutò vantandosi in-vece di aver declamato a Padova nei ludi Cetastiistituiti da Antenore. La risposta suscitò l’iradell’imperatore che lo condannò; sicché TraseaPeto preferì uccidersi. Arria Maggiore morirà colmarito, Cecina Peto, che era stato condannato amorte da Claudio per aver partecipato a unacongiura: la donna si confisse un pugnale nelpetto e lo porse sanguinante al marito, per pre-cederlo nella morte. Tra i sostenitori del Senatosi annoveravano altri padovani, come QuintoAsconio Pediano che non era timoroso di scrive-re in età neroniana un commento alle orazionidi un conservatore filosenato rio com’era statoCicerone. Questi esempi fanno emergere l’anta-gonismo latente tra Roma e Padova.

Una singolare testimonianza dell’astio dei ve-neti per i triumviri proviene da un piccolo oro-logio solare cilindrico conservato al Museo diEste, trovato nella tomba di un medico farmaci-sta della seconda metà del I secolo d.C., in cuimancano i nomi dei mesi di luglio e agosto. Per

il primo di questi mesi si potrebbe anche pensa-re a una mancanza di spazio date le piccole di-mensioni dell’orologio, ma non per il secondo.L’ipotesi è che l’orologio sia stato prodotto dopoche i nomi Quintilis e Sextilis di questi mesierano stati cambiati in Iulius (nel 44 a.C.) e Au-gustus (nell’8 a.C.) e che il costruttore li abbiatralasciati per protesta.

Bibliografia❐ AA.VV. Il Veneto preromano e romano, su Sto-ria della cultura veneta, vol. I, Vicenza 1976.❐ Giulia Fogolari, La protostoria delle Venezie,su Popoli e civiltà dell’Italia antica, Roma 1975.❐ Cesira Gasparotto, Patavium, su Padova. Gui-da ai monumenti ., Venezia 1961.❐ William V. Harris, The Era of Patavium, suZeitschrift fuer Papyrolo gie und Epigraphik,Bonn 1977.❐ Franco Sartori, Padova nello stato romano, suPadova antica, Trieste 1981.❐ Clizia Voltan, Le fonti letterarie per la storiadella Venetia et Histria, su Ist. veneto SS.LL.AA.Memorie, vol. 42, Venezia 1989.

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… La Storia trasmetterà alle generazionifuture questo esempio così raro di fedeltà

e di onore; e qualunque esser possa la sorte indi-viduale di questi prodi: ciascuno di essi potràandare fiero di aver appartenuto alle truppe du-cali; poiché anche le persone che professano dif-ferente opinione politica, onorano quelle virtùche sono indipendenti dall’esito dei fatti e deivantaggi personali …”.

Supremo Comando Truppe Imperiali, Ordinedel giorno - Settembre 1863

La negligenza della storiaCi sono degli eventi, in tutte le epoche, sotto

qualunque regime, che la storiografia ufficialeha sistematicamente manipolato o, addiritturaoccultato, per il semplice motivo che non pote-vano essere inquadrati in una sorta di rigida vul-gata di comodo, intesa a cancellare troppe realtàche avrebbero potuto mettere in discussione l’e-sistenza stessa di uno Stato. Così anche in Pada-nia, “Storia, radici, cultura e identità sono statemanomesse, negate e lordate da decenni di pro-paganda ipnotica che hanno cercato di far crede-re alla nostra gente di essere qualcosa di diversoda quello che effettivamente è (1)”.

Oggi, più che mai, costatata l’innegabile crisidello stato nazionale, ci appare pressante la ne-cessità di riscrivere la nostra Storia. Dare risaltoa tanti episodi, sepolti nella dimenticanza dauna tartufesca storiografia, equivale a reagire al-lo sradicamento culturale, cui siamo sottopostida secoli, favorendo al contempo il riemergeredi sensibilità peculiari all’anima padana:

“ Perché è nel passato che si collocano e sicomprendono le radici del presente” (2).

Modenesi con le radiciIn questa chiave di lettura va ricordato il caso

di quel contingente di 3.500 uomini che segui-rono, in volontario esilio, l’ultimo Duca d’Este,loro legittimo sovrano. Soldati coraggiosi, rigo-rosamente fedeli al loro principe, anche se cadu-to in disgrazia, questi modenesi seppero affron-tare volontariamente un incerto futuro: “Furo-no le modenesi le sole milizie in Italia a seguireil sovrano nell’avversa sorte, lasciando i beni e lafamiglia, senza la benché minima costrizione…”(3), rimanendo quattro anni con il loro Duca,senza una sicura garanzia di una, se pur mode-

La Brigata EstenseI “fedelissimi” nella sventura

di Alina Mestriner Benassi

Copertina del Giornale della Brigata Estenseedito a Venezia nel 1866

(1) G. Oneto ne la Padania, 31 marzo ‘98(2) E. A. Albertoni, ne la Padania, 22 marzo ‘98(3) L. Amorth, Modena Capitale, 1967

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sta, paga, o di una qualunque opportunità ven-tura. La Reale Brigata, non ostante tutto, sistrinse, ogni giorno di più, intorno al suo sovra-no, non rinunciando mai, si dice, alla speranzaed alla ferma volontà di ritornare in patria perripristinare l’antica legittimità. “… Blandizie,promesse e minacce non intaccano il giuramen-to d’onore prestato, anzi le rare diserzioni natu-ralmente verificatesi e le vacanze causate daltermine del periodo di coscrizione, da malattie oda morti vengono oltremodo compensate dallacontinua affluenza di tanti giovani che giungo-no volontariamente dal Ducato scegliendo diservire il loro re e di combattere la battaglia perl’indipendenza del loro paese, anziché essere ar-ruolati nell’esercito usurpatore e divenire italia-ni per forza” (4).

Lo scenarioLa vicenda della cosiddetta Brigata Estense

s’inserisce nella complessa fase finale del regnodi Francesco V: dall’inizio della, si fa per dire,Seconda Guerra di Indipendenza, quel fatidico1859, al settembre 1863, quando fu congedata, aVilla Capello di Cartigliano Veneto, nei pressi diBassano del Grappa, dall’ormai ex Duca di Mo-dena.

La nascita dell’esercito degli Este È necessario tuttavia fare un passo indietro, al

lontano 1796, epoca in cui verosimilmente fuformato l’esercito degli Este dal Duca Ercole III,in fuga a Venezia (5) al sopraggiungere di Napo-leone (6). Inizialmente ci troviamo di fronte un“Battaglione di Linea più i Dragoni per la poliziapolitica e le Guardie urbane per quella civile”. (7)In seguito, dopo il 1830, Francesco IV arricchiràla compagine militare di una Compagnia di Fu-cilieri e di una di Granatieri e, creando ex novoil Corpo Volontario, potenzierà i Dragoni e leMilizie Ausiliarie. Il suo successore, nel 1859,porterà la Brigata a 176 ufficiali e 3.479 uominidi truppa, con 860 di Riserva. Gli ufficiali delSupremo Comando Generale e la Guardia Nobi-le d’Onore, tutti patrizi del luogo, avranno fun-zioni operative, amministrative e di rappresen-tanza, mentre il Reale Corpo dei Trabanti e ilReale Corpo dei Dragoni, così come il Genio egli Artiglieri, verranno selezionati in base allaprestanza fisica. (8)

Francesco V, Duca di Modena Morto Francesco IV, che, dalla serenità degli

ultimi anni della sua vita e dal trattato, concluso

nel novembre del 1844 con il futuro Duca diParma ed il Granduca di Toscana (9) per ottimiz-zare i rapporti diplomatici, aveva tratto l’illusio-ne di lasciare al figlio un Ducato tranquillo e fe-lice, Francesco V, a ventisei anni, salì sul tronodegli Este. Modenese di nascita, ma di mentalitàaustriaca, Francesco aveva modi gentili e, a dif-ferenza del padre, un carattere mite; si facevaapprezzare anche per l’onestà innata e l’amoreper la giustizia, per la semplicità e la sobrietàdel suo agire. “Bel giovine, di svelta figura, dibella carnagione” (10), piaceva molto alle donne,anche se amò, per tutta la vita, la moglie Adel-gonda, figlia di Luigi I di Baviera, che aveva spo-sato, prima di ereditare il Ducato, il 30 marzo1842. Tuttavia la rigida educazione ricevuta, deltutto conforme ai principi paterni, lo indusse anutrire una fede sincera ed incrollabile nell’au-torità divina del sovrano, tanto da dichiarare ungiorno che avrebbe preferito “Rendersi caporalein Russia” piuttosto che diventare un principecostituzionale. Nell’imperatore egli ravvisava,in effetti, il capo della dinastia che, nel restituirelo stato al legittimo sovrano, illegittimamenterimosso, compiva opera d’assoluta legalità e or-dine, rimediando alle tragiche conseguenze del-le nuove idee rivoluzionarie. Ciò non ostante,“Fu aperto ad una qualche maggiore larghezzaper merito dell’insegnamento dello Scozia e perinflusso della buona ed intelligente Adelgonda diBaviera … come fu più sensibile alle questionidel tempo di tutti gli altri sovrani conservatoriitaliani …” (11).

(4) F. Izzo, L’identità e l’oblio, Ascoli Piceno. 1997(5) Ercole III aveva cercato di soffocare, all’interno del suoDucato, ogni iniziativa favorevole alla Francia rivoluziona-ria, aiutando anche l’Imperatore d’Austria con armamenti(12 cannoni con le relative munizioni) e denari (un’impostafeudale dovuta in caso di guerre, più un prestito, con inte-resse al 4 per cento di 750.000 zecchini). (6) B. Manicardi, L’esercito del Ducato di Modena durante ilRisorgimento (1814-1863) in Aspetti e problemi del Risorgi-mento a Modena, STEM Mucchi, Modena 1963. (7) B. Manicardi, op. cit.(8) B. Manicardi, op. cit.(9) Nel Trattato venivano modificati i confini fra i tre Stati:Parma rinunciava a Guastalla e ad alcuni territori sulla de-stra dell’Enza in cambio di quelli sulla sinistra del fiume edella Lunigiana con Pontremoli, Modena cedeva Barga e Pie-trasanta e la Toscana rettificava i termini del territorio luc-chese. Il Trattato era stato anche riconosciuto dall’Austria edal Piemonte.(10) L. Bosellini, Francesco IV e Francesco V di Modena, Tori-no, Unione Tip. Ed., 1861 (11) A. M. Ghisalberti, La seconda Restaurazione, Storia d’Ita-lia, UTET Torino, 1959

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La “questioneitaliana”

Francesco eraancora in attesadi salire sul tro-no, quando intuìl’improrogabilenecessità di trova-re una soluzionealla “questioneitaliana” e lo fecepensando a unaconfederazione distati collegata al-l’Austria: “Questoè il solo mezzoper rendere possi-bile con qualchedignità l’esistenzadegli stati italiani,che se no non avranno alternativa fra il divenireantinazionali o antiaustriaci (12).” Il Duca nonriuscì mai a realizzare questo sogno, che forseavrebbe potuto scrivere una storia diversa per ilnostro paese, anche a causa dell’atteggiamentoostile dei Savoia nei confronti di qualunque ideasi contrapponesse alle loro mire espansionisti-che.

Il ruolo fondamentale della Reale DucaleBrigata nella vita di Francesco V d’EstePresagi di crisi nel Ducato

Quando a Torino, nell’aprile del 1859, VittorioEmanuele II annunciò, con il discorso della co-rona, che l’Austria gli aveva dichiarato guerra,ebbe inizio per Francesco V un lungo periodo digravi disagi che lo avrebbero, in seguito, costret-to ad abbandonare il trono.

Gravi presagi di crisi si erano già manifestatifin da gennaio, allorché i comandanti dei Drago-ni ducali subirono pesanti minacce da parte deirifugiati in Piemonte. Da febbraio in poi seguiro-no, a raffica, la decadenza dell’accordo sardo-estense relativo all’arresto dei criminali, l’emi-grazione di giovani dal Ducato, gli insulti indi-rizzati, a Carrara, contro soldati estensi, l’intro-duzione di volantini rivoluzionari, stampati a To-rino, e continue scaramucce, nel territorio delFrignano, tra gli uomini del Duca e bande di “vo-lontari” sardi, che culmineranno, il 12 maggio,nella battaglia della Piana di Iacopino (13). Quelgiorno, settanta valorosi della R. D. B. tennerotesta, per due ore, a una colonna di 400 soldatiben armati, e la vittoria scontata dei Piemontesi

non meritò certola medaglia com-memorativa dellacampagna del1859, che l’alloracolonnello IgnazioRibotti di Molièresottenne per i suoiCacciatori dellaMagra (14).

La guerra In meno di un me-se le guarnigioniducali furono co-strette ad abban-donare Massa, Car-rara, Avenza, Mon-tetignoso, Castel-nuovo Garfagnana,

Fosdinovo e quanto, nella Lunigiana, si potevaancora chiamare estense. Il Ducato di Modena,privato ormai irrimediabilmente dei possedi-menti al di là dell’Appennino, vulnerabili più de-gli altri alla propaganda patriottarda dei Savoia,fu esposto alle insidie e alle difficoltà che si mol-tiplicavano di giorno in giorno. In seguito, lasbrigativa dichiarazione di guerra del Governosardo costrinse il Duca a diramare una formaleprotesta a tutte le Corti e Cancellerie europee.Meno formali apparvero gli accelerati lavori difortificazione lungo il Po, voluti da Francesco V,che temeva di perdere i contatti con la Lombar-dia. Brescello fu dichiarata zona di guerra, an-che se, al momento, gli strateghi ducali temeva-no piuttosto un’invasione dalla parte ligure.

Stampa commemorativa della medaglia distribuita dalduca Francesco V in occasione dello scioglimento dellasua Brigata (Racc. priv.)

(12) Già nel 1841, Francesco V aveva redatto una memoria dioltre 200 pagine intitolata ìPiano per una confederazioneaustro - italica”, nella quale si prospettava l’idea di formarenell’Europa centrale un blocco di 60 milioni di uomini capa-ci di fronteggiare attacchi sferrati da oriente e da occidente.G. Panini. La Famiglia Estense da Ferrara a Modena. Ed.Armo - Modena 1996.(13) È questo il solo fatto d’arme, di un certo rilievo, in cui sitrovarono a fronte la Brigata del Duca di Modena, al coman-do del col. Casoni, ed un contingente sardo agli ordini delcol. Ribotti. Settanta fanti, guidati dal ten. Bianchi, partitida Fosdinovo per tentare un colpo di mano su Carrara,s’imbatterono invece in una colonna di 400 uomini, formatada truppe regolari sarde e toscane e da un distaccamento diCacciatori della Magra. A. Morselli, Gli ultimi giorni del Fri-gnano Estense 1959. (14) N. Giacchi, I Cacciatori della Magra nel 1859, Città diCastello, 1913. C. Cesari, Milizie estensi, Città di Castello,1914.

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Furono i Francesi invece, sbarcati il 23 maggioa Livorno, a dare, per primi, filo da torcere alDuca, che fu costretto a prendere provvedimentiimmediati atti a contrastare la non remota even-tualità che il cospicuo reparto nemico arrivassealle “Piramidi” (15) dell’Abetone e proseguisselungo la Via Giardini, verso Modena.

Per prima cosa, Francesco fece minare dueponti vicini a Pievepelago (Alto Frignano), pre-dispose un taglio della strada, al restringimentodi Barigazzo, e incaricò le sue truppe di fare quae là barricate, usando i tronchi degli alberi e tut-to ciò che la popolazione poteva fornire. Nellamalaugurata ipotesi che i Francesi avessero oc-cupato l’Abetone, un ufficiale della Reale Brigata,lasciato lassù in incognito, avrebbe segretamenteinviato, per mezzo di carri agricoli, in continuotransito, informazioni a Pavullo (16). In caso d’e-strema necessità, numerosi cavalieri, dislocati inpunti strategici, avrebbero trasmesso velocemen-te notizie e ordini. Il maresciallo dei Dragoni diSerramazzoni poi, avrebbe potuto, con dei ben-gala, fare segnalazioni, visibili dalla Cittadella diModena. Tutti questi provvedimenti miravanonon tanto a bloccare una invasione da parte delletruppe francesi, cosa del tutto impossibile, vistala disparità di forze (17), ma a contrastare corag-giosamente, il più a lungo possibile, la inelutta-

bile disfatta. Fu così che i Francesi, lo stessogiorno della battaglia di Palestro (18), disarmatipochi doganieri estensi, (19) s’impadronirono delvalico dell’Abetone.

L’invasione del DucatoA questo punto, l’invasione del Ducato di Mo-

dena fu un dato di fatto e anche per la città ebbeufficialmente inizio lo stato di guerra. France-sco V si apprestò all’estrema difesa, potendo di-sporre di forze assai modeste e con il limitato eprovvisorio sussidio di truppe austriache di pas-saggio. Fortunatamente, scesi i Francesi dall’A-betone indisturbati fino a Pievepelago, il tenenteBuniotti della R. D. B. attuò, senza indugio, leistruzioni stabilite per una simile evenienza. Dasolo, lasciata transitare la milizia estense in riti-rata, fece saltare i due ponti oltre Pievepelago,bloccando, almeno per un po’, gli invasori. Con-temporaneamente il Duca inviò un battaglionedel Reggimento di Linea (venti Dragoni a caval-lo, più un certo numero di artiglieri con duecannoni), al comando del colonnello Forghieri,a Pavullo, nell’estremo tentativo di strappare l’a-mato Frignano al nemico.

L’ordine del giorno, che il 2 giugno Francescoindirizzò al suo esercito (20), recitava: “Soldati!L’inimico minaccia di penetrare nel nostro Statodal lato dell’Abetone, ove ha spinto la sua avan-guardia. Il 1° Battaglione di Linea con una se-zione d’artiglieria ed un distaccamento di Dra-

Tenente Colonnello Armodio Cavedoni

(15) Le cosiddette Piramidi segnano il confine tra Emilia eToscana, a circa 95 Km da Modena, dove termina la via Giar-dini ed inizia la strada Ximenes. La Piramide toscana recal’iscrizione: Petrus Leopoldus Archidux Austriae MagnusAetruriae dux publicae libertatis et commerci restitutoviam hanc pistoriensem per montium juga facili ascensusternendam jussit ejusque fines in harum piramidum cen-tro - costruendos curavit - A. R. S. 1777, quella modenese ri-porta l’epigrafe, dettata dal Tiraboschi: Franciscus III Muti-nae Regii dux - excissis alpibus - commissis ponte flumini-bus - aggeribus substractis - nova militari via - a mantuanisfinibus - ad Etruscos - per LXXIV passuum millia - deductaGermaniam Aetruriae - jungebat. A. R. S. 1777 - MDCCLXX-VIII. (Chi scrive auspica che presto una nuova iscrizione se-gnali l’ingresso in Padania.)(16) Una linea telegrafica collegava Pavullo a Modena. A. Mor-selli, op. cit.(17) Ai Francesi sbarcati a Livorno si erano uniti parecchi sol-dati toscani.(18) 31 maggio 1859: gli Austriaci vennero sconfitti dall’eser-cito franco-piemontese di Vittorio Emanuele II di Savoia ecostretti a ritirarsi verso il Ticino.(19) T. Bayard De Volo, Vita di Francesco V. Modena, 1881.eGiornale della R. D. Brigata Estense, Venezia, 1866.(20) A. Morselli, op. cit.

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goni a cavallo avrà l’onore d’affrontarlo per pri-mo, ov’egli avanzi…. Soldati ! voi formerete l’e-strema avanguardia di un corpo che fra pochigiorni vi sosterrà efficacemente in questa pianu-ra e che sarebbe, se verrà il caso, testimone dellavostra bravura, della vostra fedeltà e della vostradisciplina. Io voglio che siano i soldati estensiche affrontino per primi lo straniero invasore

del Nostro territorio, che è pure Nostra e vostrapatria”.

Il giorno dopo, a Pavullo, si unì alla colonnaForghieri il generale Jablonsky, partito da Bolo-gna con tre battaglioni austriaci e, nel brevespazio di una giornata, liberarono Pievepelago.Il battaglione Gjulai, arrivato in aiuto di For-ghieri, servì a difendere gli sbocchi delle vallate.Il 6 maggio fu liberata anche Fiumalbo e lagrandezza morale di questa disperata resistenzaall’invasore straniero seppe infondere un fremi-to di fierezza anche al popolo della montagna, inquel momento, trepidante ed incerto. Se pur perun breve lasso di tempo, la stirpe dei valorosiFriniates ricordò come, anche nel 1799, avevasaputo difendere Montecuccolo contro le solda-taglie dell’odiato dominatore d’oltralpe.

La disillusione e l’esilioGli eventi del Frignano avevano attestato una

ripresa delle forze ducali: anche il morale di uffi-ciali e soldati era alto e già si approntavano pianiper riguadagnare i possedimenti al di là dell’Abe-tone, quando, inatteso, giunse da Modena l’ordi-ne di abbandonare la posizione e di retrocedereimmediatamente. Tre giorni prima, si era com-battuta a Magenta una grande battaglia, decisivaper tutta la campagna di Lombardia, e il Duca,non appena venne a conoscenza del suo esito, necolse subito le gravissime conseguenze. L’eserci-to austriaco aveva abbandonato la Lombardia e siera ritirato oltre la linea del Mincio. Obiettivoprimario per l’Imperatore era, al momento, la di-fesa del Veneto: le truppe austriache dovevanoconcentrarsi al Nord, anche quelle poche asse-gnate all’Este! Il Frignano poteva dirsi perduto,ma anche per il Ducato non si affacciavano gior-ni di gioia. Il Duca, l’undici di giugno, prese ladecisione di abbandonare Modena, e con la cittàanche il Ducato, pur mantenendo la speranza diun non lontano ritorno. Con regale, solenne di-gnità, si congedò dai modenesi “Suoi fedeli sud-diti”, circondato da affetto e dolore sincero. No-minò un reggente, poi rapidamente, a cavallo,raggiunse Piazza d’Armi, atteso dal suo piccoloesercito. Fece quindi leggere l’ordine del giorno,dopo aver passato in rassegna i suoi soldati.

“Voi mi avete dato nei mesi scorsi, in mezzo amille tentativi di seduzione, prove della più in-concussa fedeltà…Verrà giorno in cui il mondovi renderà giustizia; la vostra coscienza e la parteonorata della società ve la rendono fin d’ora…Ioconfido dunque doppiamente in voi nei presentigiorni, che sono di prova bensì, ma che potrannoessere insieme giorni di gloria…” (21). Accompa-gnato da oltre 3.500 “fedelissimi” della Reale Du-cale Brigata Estense, al comando del generaleAgostino Saccozzi (22), più 118 ufficiali e volonta-ri, Francesco V passò la frontiera tre giorni dopoe si attestò in quel di Mantova. Molte famiglie pa-trizie di Modena, rinunciando a tutti i loro beni,raggiunsero il sovrano.

La fedeltàVa rilevato come, in questo periodo, l’esercito

del Duca crebbe, fino a raggiungere il numero

Colonnello Ignazio Forghieri

(21) L. Amorth, op. cit.(22) “Portò con sé anche 80 ergastolani in catene, tutti fur-fanti matricolati, non volendo che essi, liberati poi camuffatida patrioti, arrecassero altri danni alla popolazione. Furonoassociati alle carceri di Mantova.”, G. Panini, op. cit.

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complessivo di cinquemila soldati. Molti aveva-no scelto di militare con lui, piuttosto che con ilnuovo governo, se è vero che in occasione dellachiamata alla leva del Regno d’Italia, un cospi-cuo contingente di reclute disertarono e, oltre-passato il Po, si arruolarono sotto la bandieradell’ex Duca. (23) Mentre Luigi Carlo Farini, elet-to dittatore a Modena, con un proclama, invitavagli uomini di Francesco a disertare, con allet-tanti promesse di carriera agevolata e prebendevarie e minacciava la perdita dei diritti civili epolitici, nonchè processi, per lesa maestà e altotradimento, la milizia cresceva ogni giorno dipiù e così anche l’incondizionata lealtà nei con-fronti del proprio sovrano. Questi, da parte sua,identificava ormai la Brigata con la sua terra,con il suo Ducato perduto.

La R. D. Brigata, a Mantova, venne subito in-corporata nel II Corpo d’Armata austriaco delprincipe di Liechtenstein e “Salutata con fratel-levoli e fragorosi evviva dalle truppe imperiali”.(24) Aggregata alla divisione del tenente mare-sciallo Herdy, rimasta come riserva a Belfiore,“la fedelissima” non venne impegnata a Solferi-no: soltanto dopo l’armistizio di Villafranca,avendo i negoziati sancito il rientro sia delGranduca di Toscana, sia del Duca di Modenanei rispettivi Stati, la Brigata Estense, compattae minacciosa, si attestò non lontano dal Po, bendeterminata a un’azione offensiva per restituireFrancesco al suo Ducato. Buona parte dellacampagna e della montagna insorse contro lefragili strutture rivoluzionarie (25) e, inneggian-do al ritorno del legittimo sovrano, s’impadronìdelle armi della Guardia Nazionale, ammainatol’inviso tricolore. Il Farini stesso rimase ferito inun attentato e non fu possibile processarne gliautori perché il popolo li proteggeva e i soldatisi erano ammutinati. Da Pegognaga all’Alto Fri-gnano, tutti i rappresentanti di quella larva di“governo provvisorio”, furono cacciati.

La rinunciaFrancesco V, a questo punto, scelse di non tor-

nare. Il sovrano aveva lucidamente valutato ifatti e aveva tratto le debite conclusioni. Infor-mato su ripetuti viaggi di personaggi di spiccodel Governo Provvisorio a Torino, a Parigi e aLondra, per far sapere in giro, quello che noncorrispondeva al vero, e cioè che il popolo mo-denese voleva annettersi al Piemonte, il Duca,pur non temendo affatto un referendum, nonvolle che si attuasse una restaurazione che giàdiversi segnali annunciavano debole. A suo pare-

re, in quell’epoca di dissoluzione totale, l’esi-stenza di piccoli stati stava diventando, di fatto,impossibile. Inoltre l’Este non intendeva conce-dere riforme costituzionali o transigere conquanto la coscienza e l’onore gli dettavano: rite-neva disgustoso riconoscere Napoleone, sovranodi Francia.

Il Piemonte, dal canto suo, non volendo ri-nunciare alla consueta politica espansionistica,offrì, anche se non in modo palese26, il suo so-stegno al governo rivoluzionario del Farini, che,senza indugio, dichiarato decaduto il Duca, pro-clamò l’annessione. La cessione di Nizza e dellaSavoia guadagnò poi, com’è noto, la connivenzadei Francesi, tanto che Napoleone venne a di-chiarare, su Le Moniteur del 9 settembre, chegli Arciduchi non sarebbero stati “Ricondotti neiloro stati da truppe straniere”. Non ebbe poi al-cuna rilevanza o seguito alcuno, il fatto che, il10 di novembre, il Trattato di Zurigo avesse ri-badito, con l’art. 19, il buon diritto del Duca diModena e, con lui, del Granduca di Toscana e delDuca di Parma, a ritornare nei propri domini.

Pio IXPochi mesi dopo, in aprile, parve aprirsi uno

spiraglio per il Duca e la sua Brigata Estense: labenedizione di Pio IX alla truppa e l’incoraggia-mento dell’Imperatore d’Austria a predisporreuna spedizione a sostegno del Pontefice. Le for-ze controrivoluzionarie, che cercavano di orga-nizzare una resistenza contro il Piemonte e isuoi alleati, per ripristinare la legittimità, nonpoterono certo non prendere in considerazionel’utilizzo di quella milizia così fedele al suo so-vrano. Monsignor Nardi, in missione segreta aVienna, tramite l’Imperatore, prese gli opportu-ni contatti con il Duca. Si doveva però evitareche l’intervento potesse essere considerato unaingerenza di forze regolari straniere e, a tal fine,la Brigata avrebbe portato aiuto al Papa, non co-me tale, ma a livello dei singoli uomini, che sa-rebbero accorsi come volontari. Francesco sidiede subito da fare in tal senso, favorendo in-condizionatamente il progetto, pronto anche aconsiderare l’arruolamento della Brigata da par-

(23) G. Muzzioli, Modena, Laterza, 1993.(24) T. Bayard De Volo, op. cit.(25) Un decreto del Farini costringeva tutti i giovani ad ar-ruolarsi nella Guardia Nazionale.(26) Vittorio Emanuele ratifica i trattati con la formula limi-tativa “Per quel che mi concerne” favorendo, in questo lemosse dei rivoluzionari (F. Izzo, op. cit.)

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te del Papa come una regolare continuazionedegli obblighi assunti da essa nei confronti dellapropria persona: non avrebbe sciolto il giura-mento di fedeltà, anche una eventuale perma-nenza definitiva nello Stato della Chiesa. Le na-vi del Lloyd austriaco erano già pronte per tra-sferire la Reale Brigata, quando “La flotta nemi-ca dinanzi ad Ancona, l’irruzione sarda per ter-ra, l’ingresso di Garibaldi a Napoli resero impos-sibile la partenza (27).

Maria Sofia e Francesco di Borbone Un intervento della Brigata Estense fu preso

in considerazione anche alla Corte di Maria So-fia e Francesco di Borbone, in esilio a Roma: isoldati del Duca avrebbero potuto partecipare aun corpo di spedizione, destinato a dare manforte, nelle regioni del Meridione, alle innume-revoli rivolte antipiemontesi. Si accenna a que-sto progetto nel diario del legittimista Henri deCathélineau, nipote dell’eroe vandeano Jacques“il santo” d’Angiò (28), che, chiamato dal Borbo-ne a Roma, nell’agosto del 1861, per organizzarela guerriglia, ottenne il comando supremo delleforze lealiste. Le circostanze sembravano favore-voli: il Regno d’Italia si trovava in oggettiva diffi-coltà, dal momento che, fatta eccezione per l’In-ghilterra, tutte le altre monarchie europee esita-vano a riconoscerlo come tale, anche dopo lasua proclamazione a Torino, il 17 marzo 1861.Fu affidato dunque allo stesso Cathélineau e alMarchese di Kermel, suo cognato, il compito disaggiare la disponibilità dell’Este. Grazie allamediazione della duchessa reggente di Parma,della contessa di Chambord, sorella di FrancescoV, e della duchessa di Berry, i due consegnarononelle mani del Duca una lettera del re di Napoli.Ancora una volta Francesco si dichiarò disponi-bile, ponendo come unica condizione l’esclusivoricorso a forze legittimiste. Il Duca di Modenaoffrì, senza esitare, la sua Brigata e il suo patri-monio: preparandosi durante tutto l’inverno, aprimavera le bandiere della legittimità avrebbe-ro potuto nuovamente sventolare negli antichiregni. Non ostante l’operazione diplomatica fos-se stata condotta con estrema prudenza e riser-vatezza, qualcuno dell’entourage del Re di Napo-li parlò troppo e il Governo di Roma venne a co-noscenza di quanto si stava preparando. Il Bor-bone, preoccupato e intimidito, rinunciò pron-tamente a ogni progetto. In questo modo, percolpa di piccoli tradimenti e di grandi indecisio-ni, sfumò l’estrema opportunità di rivalsa di unDuca e della sua esigua, ma fedelissima armata.

Il mantenimento della Brigata e il Parlamentoaustriaco

L’anno seguente, a Vienna, prevalsero in parla-mento gruppi di pressione, facenti capo all’acca-nito Giskra, contrari al mantenimento di truppeappartenenti a un territorio ormai annesso alRegno d’Italia. Malgrado l’accorata difesa delrappresentante del Governo, Conte Rechberg,che non mancò di sottolineare come il dovere el’onore imponessero di prestar fede ai patti sti-pulati con il solo, tra gli alleati, che era rimastovicino all’Austria anche nelle disgrazie (29), ven-ne cancellata completamente, dall’esercizio fi-nanziario del ’63, la voce di spesa riguardante laBrigata. Le ragioni addotte dal parlamento libe-rale e costituzionalista austriaco, molto sensibi-le agli intrighi e alle lusinghe di Torino, volleroapparire più finanziarie che politiche: la spesapubblica sarebbe stata ridotta con la risoluzionedel Trattato del 24 dicembre del 1847. L’accordo,voluto soprattutto dall’Austria, istituiva una so-lidale difesa tra i due stati, dando all’Imperatoreil diritto di portare le sue truppe in territoriomodenese. Il 9 febbraio del 1847, fu anche ag-giunta una convenzione particolare in rapportoalle spese di mantenimento delle truppe, qualo-ra esse avessero dovuto agire l’una sul territoriodell’altra. (30) Francesco V, da parte sua, dopoaver lasciato Modena, nel ’59, aveva ottenuto ilmantenimento del suo contingente, fatto salvo ilrimborso, una volta ripristinata la legittimità, eimpegnandosi solennemente a condurre azionisempre concertate con le truppe imperiali.

L’odissea delle truppe modenesi in territorioaustriaco

Di fatto, da tre anni ormai, la R. D. Brigata sitrovava in territorio austriaco, agli ordini degliAustriaci. Prima di acquartierarsi stabilmente aBassano, l’esercito modenese, aggregato primaal X, poi al V Corpo d’Armata dell’Imperatore,aveva preso successivamente stanza nella pro-vincia di Padova, di Verona, di Vicenza, infine fua Marostica, Crespano e Asolo. Nel dicembre del1860 la R. D. B. fu accorpata all’VIII Corpo d’Ar-mata, sotto il comando di Sua Altezza ImperialeArciduca Alberto, fino allo scioglimento di que-

(27) Francesco V, Memorie, Modena 1981 (28) F. Izzo, op. cit.(29) F. Izzo, op. cit.(30) G. C. Montanari, op. cit., Les Troupes de S. A. R. Le Ducde Modène sur le Territoire Autrichien, Vienne 1862 opusco-lo dei Monaci Armeni di S. Antonio Abate.

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sto Corpo, il 16 settembre 1863. Nello stesso an-no, anche i Modenesi ricevettero il congedo.

Il congedoA risolvere definitivamente la questione della

spesa di mantenimento dell’esercito ducale, in-tervenne il decreto d’amnistia, emanato da Vitto-rio Emanuele II, il 21 settembre 1862, in cui siminacciava la perdita dei diritti civili e politici,nonché la decadenza del diritto di acquistare opossedere beni, percepire pensione o guadagnaregradi nell’esercito italiano. Ai “fedelissimi” siconcedevano sei mesi di tempo per abbandonaredefinitivamente il Duca e il territorio austriaco.

Nel febbraio del 1863, Francesco V autorizzòil congedo della milizia, che gli aveva donatotante prove d’incondizionata fedeltà, soprattuttoper evitare di sottoporla a ulteriori sacrifici e pe-ricoli. Il Duca riconobbe ai suoi uomini l’adem-pimento a ogni obbligo verso di lui e il diritto,nel caso di una eventuale restaurazione, a ri-prendere servizio con lo stesso grado lasciato.Pochissimi lasciarono la Brigata: in tutto dodiciufficiali, tra cui un ottantenne, e circa 160 trasottufficiali e soldati. Ormai sentendosi umilia-to, insieme alla Brigata, anche dal capo della suastessa famiglia, l’Imperatore d’Austria, su cui sa-peva di non poter più contare in alcun modo, (31)Francesco accolse, con grande dignità, la sen-tenza definitiva di scioglimento, nell’agosto del‘63. Possiamo leggere la delusione per la sortetoccata ai suoi uomini e la lucida rassegnazionedell’ex Duca, in una lettera a Bayard De Volo dipochi giorni dopo: “…La sorte dei vecchi soldatinon assicurati, è il punto scuro di tutto; fattoquesto si potrebbe tollerare il resto…. La disso-luzione attuale, rende per se stessa impossibilel’esistenza di Stati piccoli ed impossibile la fe-deltà futura, giacchè si vede che chi è fedele vie-ne sacrificato dal nemico e dall’amico.”

Fu lo stesso Duca a comunicare la dolorosanotizia ai suoi, dalla residenza di Wildenwart inBaviera: “Soldati! Dal Comando dell’Armata I.R.in Italia avrete udito che lo scioglimento dellaBrigata Estense deve in breve aver luogo… Gliufficiali che volessero rimpatriare per riunirsialle loro famiglie o per ricondurle alle loro case,ed i soldati poi in specie, che scegliessero il rim-patrio, non mancheranno neppur essi con ciò ailoro doveri verso di Noi. Questi ultimi però ram-mentino che il Governo usurpatore probabil-mente li obbligherà a servirlo e a dare un giura-mento; gli costringerà a farsi istrumenti dellebarbarie che tutto dì commette sui loro fratelli

italiani del mezzodì della penisola, in gran partefedeli al loro Re legittimo, pel quale combattonocon rara costanza; gli obbligherà a tener sogget-ti anche colla forza i popoli dello Stato pontifi-cio, del Nostro Stato, o di quello di altri Sovranilegittimi d’Italia che subirono la Nostra sor-te…Fra poco Noi saremo in mezzo a voi, Nostrifedeli soldati, purtroppo per farvi, per ora alme-no, l’ultimo soggiorno, e per ringraziare la No-stra ottima Ufficialità e la truppa di quanto fece-ro per tutti Noi; per darvi ancora un attestato distima e di affetto, distribuendovi una medagliacommemorativa per la fedeltà e la costanza nelleavversità che mi avete sì luminosamente addi-mostrate, qualità ben più rare che il semplicevalor militare. La colpa non è vostra se in questiultimi tempi non avete avuto occasione di dimo-strarlo. Non disperiamo però che possa ancorsorgere un giorno fortunato in cui Iddio coro-nasse le vostre virtù, dandovi nello stesso tempola soddisfazione di spiegare come militari questagloriosa qualità”. (32)

Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 25

Generale Agostino Saccozzi

(31) “Il capo di mia famiglia non sa cosa farsi di me e sonoconvinto che anche in caso di guerra succederebbe altret-tanto.”, lettera del Duca a T. Bayard De Volo, dicembre ’63.(32) F. Izzo, op. cit.

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L’addioIl 24 settembre 1863, sulla spianata di Carti-

gliano Veneto, a Villa Capello, si tenne una Mes-sa, poi tutte le truppe, quasi tremila uomini intotale, al comando del fedelissimo generale Sac-cozzi, vennero, per l’ultima volta, passate in ras-segna dal Duca Francesco V e dalla DuchessaAdelgonda. Tra la commozione generale, l’Estedecorò personalmente i suoi con la medaglia,recante l’iscrizione “Fidelitati et Constantiae inAdversis”, istituita con un decreto del 31 luglio,come simbolo di stima e di gratitudine, e cheverrà in seguito chiamata “Medaglia della Emi-grazione”.

Con sicero affetto il Duca si rivolse allora, perl’ultima volta, alla Brigata: “Guardie Nobili d’O-nore, Ufficiali, sotto-ufficiali e soldati della Bri-gata Estense! Il momento di darvi l’attestato del-la Nostra stima e gratitudine è giunto. La Prov-videnza non ha permesso di poterlo dare, comesperavamo, nella Patria Nostra, dopo aver fattocon voi una gloriosa campagna. Ricevete oggiquindi dalle Nostre mani il contrassegno dellevostre virtù, quali soldati e sudditi fedeli. Tuttisino all’ultimo hanno soddisfatto ai propri dove-ri. Vi ringraziamo, e ricevete ora l’espressionedella Nostra incancellabile gratitudine. La Du-chessa Nostra amatissima consorte e vostra So-vrana, venuta qui espressamente per vedervi an-cora una volta, divide in tutto questi nostri sen-timenti…Nato e cresciuto tra voi, Ci conosceteabbastanza per immaginarvi ciò che proviamoin questa separazione, e nel darvi, se non altroper ora, come facciamo, un Addio a tutti, ci lu-singhiamo che in qualsiasi circostanza non di-menticherete il vostro legittimo Sovrano, che ri-marrà sempre affezionato a quelli che non ces-seranno di seguire la via dettata dall’onore e dal-la coscienza. Nell’augurarvi da Dio ogni bene,desideriamo di potervi ritrovare un giorno nelnumero maggiore possibile, riuniti di nuovo in-torno a queste onorate bandiere, che conserve-remo preziosamente presso di Noi, facendo votidi poter tutti assieme contribuire al trionfo dellacausa della religione e della giustizia.”

Nel pomeriggio di quello stesso giorno, gli uf-ficiali del Generale Saccozzi si presentarono alDuca ed alla Duchessa, ma, dopo pochi istanti,la loro compostezza venne meno e, al di là d’o-gni regola e convenienza, presero loro le manibagnandole di lacrime, e Francesco, secondo uncronista (33) dell’epoca, li salutò, chiamandoli“Ragazzi miei”.

Un solo ufficiale e circa mille, tra sottufficiali

e soldati, tornarono in patria; tutti gli altri scel-sero volontariamente l’esilio. La maggior partedi costoro venne arruolata nei reggimenti impe-riali e accolta con una solenne manifestazione distima, per la forza d’animo e l’attaccamento di-mostrato al proprio sovrano, dall’I. R. TenenteMaresciallo L. Pokorny di Furstenschild.

Una circolare dal Ministero della Guerra delGoverno italiano collocò, con effetto immediato,in congedo definitivo i reduci estensi, disponen-do altresì, per gli esiliati, l’arresto e il giudizio,presso il Consiglio di Guerra, come disertori.

La memoria Una parte dei cronisti modenesi dell’epoca (34),

preoccupatissimi d’ingraziarsi i nuovi padroni,hanno definito la R. D. Brigata, una massa direazionari, “Un’accolita degli elementi più retri-vi della popolazione, inquadrata e fanatizzata”dai nobili e dal clero, addirittura degli “squallidiservi, trattenuti da un titolo o da una minaccia,da una benedizione, o da pochi soldi” (35). Alcunihanno anche dileggiato questi uomini per la for-zata inattività degli ultimi anni, quasi fosse unesercito da operetta e loro la scelta di non com-battere.

Invece essi furono semplicemente fedeli allaconsegna, stretti attorno al loro sovrano, conesultanza, affetto e devozione: giovani e vecchi,sfidando pericoli e umiliazioni, per avere l’onoree la ventura di servire sotto la bandiera dellaBrigata Estense, per la causa dell’indipendenzadella loro piccola patria.

Al di là delle imposture patriottarde italiote,questo esercito deve, al contrario, essere consi-derato simbolo di permanente protesta control’usurpazione perpetrata dal Regno d’Italia. Lavicenda della Milizia Estense è anche severo mo-nito di attaccamento alla propria terra per quantisubiscono tuttora, senza dignità, governi aborri-ti: un legame profondo che, in casi estremi, è su-blimato dalla consapevole scelta dell’esilio.

La Nazione Emilia dovrà ricordare e onorarela R. D. Brigata, non come gli ultimi sfortunati,malinconici eroi di una Patria perduta, ma vede-re con essa riemergere dal passato uno stimoloalla lotta per l’indipendenza dell’intera Padania.

(33) Cap. C. Cesari, Milizie Estensi, Città di Castello, 1911.(34) B. Manicardi, L’esercito del Ducato di Modena durante ilRisorgimento (1814- 1863), in Aspetti e problemi del Risor-gimento a Modena, STEM Mucchi, Modena, 1963. (35) B. Manicardi, op. cit.

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 27

Narrazioni, leggende e tradizioni orali rac-colte e riplasmate dal primo cattolicesimo,insieme all’insostituibile documento offer-

toci dagli autori classici, ci permettono di por-tare un minimo di luce sul mondo spirituale ereligioso degli antichissimi Liguri, per lunghis-simo periodo totalmente a noi oscuro e alla cuidefinizione “accademica” le valenti ricerche dialcuni studiosi a partire dal secolo scorso, fortidelle conoscenze in indeuropeistica e compara-zione, hanno dato corpo e sostegno. Buona par-te dei dati su questo argomento ci mostra inte-ressanti aspetti di comunanze e similitudini traLiguri e Celti, che investono sia le forme di ma-nifestazione del Sacro (epifanie), sia figure didèi, sia mitologhemi. Sebbene si trovino questenotevoli similitudini, intendiamo sottolineare,in questo caso, la specificità dei due popoli, cheper molti aspetti tendevano a discostarsi. Il pro-blema andrebbe prioritariamente dunque riferi-to a quell’indeuropeizzazione dei Liguri oggettoda vari decenni di studi e dispute accademiche,ma a noi interessa essenzialmente, al di sopra dilingua, storia, economia, costume e vita mate-riale l’aspetto spirituale delle civiltà, capace dirivelarci insegnamenti sempre validi. Daremopertanto qui alcuni brevissimi cenni del tuttointroduttivi, rimandando il lettore interessatoalla consultazione di monografie e saggi gene-rali. Segnalo in particolare il vecchio scritto,ancora utile per molti aspetti, E. Celesia, LeTeogonie dell’Antica Liguria, Genova 1868, dacui traggo principalmente le mie citazioni.

Deum maxime Mercurium colunt: così Cesa-re, nel sesto libro del De Bello Gallico, accennauna breve digressione sui costumi religiosi deiCelti. Assodato che il Mercurio di cui parla Ce-sare corrisponde al Lug diffuso in tutta l’areaceltica, eponimo di varie località, conviene ri-portare l’attenzione a un altro arcaico elementodel Pantheon gallico, da cui non è da escludereLug abbia ereditato alcune caratteristiche: DisPater. Divinità comune a tutta l’area indeuro-

pea, il dio-padre legato al culto solare da cui iCelti pretendevano direttamente di discendere,“accompagnò altresì le nomadi tribù primitivedalla sede ariana in Italia”; forse non lontanoanche dal Giano italico, il deus pater sicura-mente è all’origine dello Iupiter capitolino, erappresenta la divinità principale degli antichiLiguri.

Teutates, altro dio celtico da lucano posto intriade con Esus e Taranis, (letteralmente, “capodel popolo”), ebbe certamente culto e venera-zione presso i Liguri. Non solo fu rinvenutaun’urna d’epoca romana recante il nome del diogallico, ma lo stesso luogo del reperimento, ilcastello di Teico, si vuol fare trarre il nome daldio. “Trovo ne’ nostri appennini assai sparso ilculto di Theut o Theutates, proprio eziandio deiGermani, dei Galli e degli Iberi”.

Ma il dio forse più noto degli antichi Liguri èBelen - Belino, dio della fertilità, curiosamentesopravvissuto nell’intercalare dialettale a indi-care il membro virile. Il Celesia nota una ampiadiffusione di questo dio sino ai Pirenei, sotto al-cune forme e variazioni tutte sostanzialmenteanaloghe. Belenos fu un antico dio “europeo”,data la sua ampia diffusione, difficilmente limi-tabile a un unico contesto storico-religioso. Èda notare che alcune interpretazioni ne fannorisalire l’origine al Baal fenicio-cananeo, seppurnon resta da escludere una parentela morfologi-ca (paternità) anche con il Balor a capo dellastirpe malvagia dei Fomore (della mitologia cel-tica d’Irlanda).

Di Ercole (inteso come simbolo eroico e guer-riero) innumerevoli sono le raffigurazioni, leiscrizioni e i cimeli. E corrette rimangono leanalogie e le parentele, almeno a livello di si-gnificato, indicate dallo stesso Celesia, col Somegizio, l’Ogme gallico, il Mitra persiano e il Ra-ma dell’India arya. Aggiungiamo doverosamen-te all’elenco un altro eroe simbolico della tradi-zione celtica, il Cuchulainn irlandese.

Altri accenni interessanti il Celesia fa a pro-

Il mondo spiritualedei Liguri e dei Celti

di Alberto Lombardo

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posito di sacrifici umani e del sacerdozio, ma lamancanza pressoché totale di fonti liguri lasciapiuttosto ampio lo spazio ai dubbi.

Circa il matrimonio, sappiamo dell’alta consi-derazione tenuta nei confronti della donna, co-me elemento essenziale della vita familiare,centrale nella organizzazione della civiltà degliantichissimi Liguri; costume tipicamente in-deuropeo (i Liguri erano in buona parte indeu-ropeizzati), volto a privilegiare la famiglia comecellula essenziale della vita sociale. Il Clan celti-co, del resto, era a un tempo proiezione “ester-na” della famiglia (elemento politico) e “inter-na” della società (elemento comunitario).

Anche il culto delle vette pareva avere parti-colare importanza e diffusione in entrambi gliambiti culturali e tradizionali in esame (ma nonsolo presso essi): la bibliografia in materia èsterminata, e oltre al lavoro del Celesia si pos-sono leggere i saggi sulla montagna e il suosimbolismo primordiale in Evola, Guénon, Lon-go, Daumal, Rudatis, Samivel, e tanti altri. Inparticolare, importanza centrale, stando al DelPonte ma non solo, doveva assumere presso iLiguri il dio Penn, dio-montagna nel cui nomeforse si cela lo stesso senso della radice prein-deuropea Alp- di cuspide, vetta, luogo elevato.Non è casuale che tanti monti in Liguria pre-sentino questo nome in più varianti.

Il ciclo annuale, in entrambe le civiltà presein esame, aveva un importantissimo caratteresacro, e i momenti che lo scandivano ne segna-vano altrettante celebrazioni. In particolare,importanza centrale pare avesse la celebrazionedella primavera presso i Liguri. Festa che cele-brava il rinascere, quella della primavera era,presso a vari popoli (il Beltaine celtico, la Wal-purga nordica, la Floralia romana), momento diesaltazione della vita, della fecondità, e di con-tatto con l’altro mondo, allorchè si aprivano le“porte solstiziali”.

Particolarmente diffuso, nel costume religiosoe nel complesso di credenze, doveva essere il

convincimento circa l’esistenza degli spiriti dellanatura o elementari, e in particolare intorno alle“presenze” abitatrici dei corsi d’acqua interni. Iruscelli avevano notoriamente presso i Celti anumi tutelari una vastissima gamma di entitàmagiche e fatate, abitatrici del Sidhe, cioè dell’al-tro mondo. Parimenti un’etimologia fa nascere ilnome di Liguria dalla sirena Ligeja, divinità fata-ta delle acque. E così, con sorprendente analogia,dal Bodinco - Pad Inn - Eridano (Po) al Mincio,al Tanaro e al Benaco erano offerte cerimonie re-ligiose. Addirittura, al Po stesso era attribuito un“seggio nel cielo fra le costellazioni astrali”. For-se maggiore era però l’onore tributato alle termededicate al più a Ercole, come quelle di Acqui inLiguria. Vale a tale proposito rammentare ancorauna volta come anche questo sia un elementocomune all’area indeuropea (basti pensare al cul-to dei fiumi nella Grecia classica e nell’India). Sinoti inoltre come sia assente, sia nell’area ligureche in quella celtica, come del resto in quella ro-mana e in varie altre tradizioni indeuropee, la fi-gura del dio-oceanico o comunque del mare (ilNettuno romano presiedeva infatti prioritaria-mente al culto delle acque interne e ai giochiequestri).

Accenniamo infine, per evitare di ampliare ec-cessivamente questo breve invito all’analisi compa-rativa, al culto e alla divinizzazione di alcuni ani-mali, usanza di moltissimi popoli antichi, e costu-me particolarmente importante presso i Celti, ognitribù dei quali in un animale simbolico levava ilproprio emblema. È il Celesia a notare tracce diquesta usanza, forse dalla derivazione tirrena, dipresso al delfino, (da cui Portus Delphini - l’attualePortofino), al gufo e al suo pernicioso strido not-turno, e soprattutto il culto ario del mitico scara-beo rosso, l’Indragopa, designato nell’area ligurecol nome di gallina della Madonna o gallina di S.Michele, che una vecchia canzoncina del bassoPiemontei bambini invitavano a i bambini.

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 29

La storia degli ultimi duecento anni sta aven-do recentemente una revisione atta a rista-bilire verità che l’ideologia dominante

avrebbe voluto nascondere per sempre.La ricaduta di ciò, per la Liguria stà a signifi-

care una più esatta definizione dei fattori chedeterminarono la fine della Repubblica di Geno-va e le politiche economiche attuate sotto ilPiemonte prima e poi durante lo stato unitario,fino ai giorni nostri.

Risulta ad esempio chiarissima la volontà delPopolo Ligure di mantenere le antiche istitu-zioni, abbattute solo grazie all’intervento dellearmate napoleoniche.

Quando infatti il 22 maggio 1797 uno sparutomanipolo di “giacobini” locali, sotto la regia deiFrancesi, tenterà di prendere il potere. Ecco chedallo storico quartiere di Portoria, una folla for-mata da carbonai, facchini e barcaioli, cioè labase più popolare e agguerrita delle Casacce cit-tadine, accorrerà a difendere il governo al gridodi “Viva Maria! Viva il nostro Principe!”. I filo-Francesi, capeggiati da ricchi borghesi e daqualche nobile in cerca di rivalsa, furono an-nientati dalla furia popolare, tanto che il giornoseguente, 23 maggio, tutto tornò alla norma-lità. Purtroppo però, la minaccia di Napoleonedi far occupare la città dall’Armata d’Italia, or-mai alle sue porte, ebbe come conseguenza cheil 14 giugno si proclamasse la Repubblica Ligu-re, dove il doge precedente Giacomo Brignoleprese la qualifica di presidente, a dimostrazioneche si trattò di una scelta forzata e accettata co-me male minore, per il bene della città.

L’imposizione del modello costituzionale ditipo francese, del tutto estraneo alla realtà ge-novese e ligure, fece sì che di lì a breve, ed esat-tamente nella notte tra il 3 e il 4 settembre, i“Viva Maria” tornassero in azione. Questa voltasi mossero dalle vallate del Polcevera e del Bisa-gno, da Albaro, Boccadasse e S. Martino. Anchein quest’occasione l’intervento francese, sotto la

guida del generale Duphot, agevolato dalla di-sorganizzazione e dall’impreparazione militaredegli insorgenti, oltre che da un “provvidenzia-le” intervento dell’Arcivescovo Lercari, non per-mise il successo dei rivoltosi, che dopo tre gior-ni di dura lotta e terribili massacri, dovetterodesistere dai loro intenti. Ciò non impedì che larivolta si estendesse a tutto il Levante ligure, daSarzana a Levanto, e soprattutto nella Fontana-buona. Da qui il 4 settembre un’autentica “ar-mata” popolare, con in testa i parroci e i “Cri-sti” delle confraternite, scese a conquistare insuccessione Chiavari, Rapallo, Camogli, Recco,fino a giungere a Nervi, da cui si mosse il 6 set-tembre verso Genova, dissolvendosi poi a Quin-to, senza un motivo apparente.

Forse fu a causa della notizia che il generaleDuphot aveva domato la rivolta in val Polceverae in val Bisagno, forse furono gli eccessivi fe-steggiamenti, forse l’insicurezza di trovarsi inun territorio a loro sconosciuto, fatto stà che lagrande colonna, formata da decine di migliaiadi armati, decise di non entrare in città, lascian-

Viva Maria!Le insorgenze antigiacobine in Liguria

di Flavio Grisolia

Bandiera dei Viva Maria della Fontanabuona

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do così via libera ai Francesi. Durissima fu larepressione che ne seguì, con saccheggi ed ar-resti e numerose fucilazioni, anche di religiosi.

Il 5 aprile 1798 un decreto del Direttorio Le-gislativo della Repubblica Ligure ordina a chie-se, conventi e oratori la consegna di tutti i pre-ziosi, tranne quelli strettamente necessari allacelebrazione della S. Messa. Immediata la rispo-sta popolare, che vede tra l’altro Rapallo invasada una folla di Fontanini inferociti, per una leg-ge che li toccava negli affetti più cari, oltre neipiù profondi sentimenti religiosi. A Recco il 12aprile 1798, la Municipalità ritirò gli ori, gli ar-genti e altri effetti delle chiese, conventi e ora-tori del Circondario.

In particolare l’Arciconfraternita di N. S. delSuffragio fu depredata di: “... due pastorali d’ar-gento, due tavolette similmente d’argento, nu-mero sei canti di Croce e crocifisso con due ti-toli stellati e guarnigione viti d’argento consi-stenti in cuori, gambe, tibie, ponsonetti, aghi,crocette, medaglie ed altro, quali argenti essen-dosi tutti pesati si sono ritrovati in peso di lib-bre sessantasei. Item altri voti d’oro consistentiin anellette, anelli ed altro in peso d’oncia una emezza ...”, come risulta dal verbale di consegna,nell’archivio comunale. Lo stesso oratorio del-l’Arciconfraternita fu dapprima sede di un sedi-cente “Circolo di pubblica istruzione” di eviden-ti tendenze giacobine e anticristiane, per esserpoi adibito a stalla per i cavalli delle truppefrancesi, situazioni decisamente comuni per di-versi luoghi sacri, “liberati” dalle truppe napo-leoniche.

L’anno dopo, ed esattamente il 25 agosto 1799,la Val Fontanabuona è messa a ferro e fuoco daiFrancesi, per rappresaglia all’intervento degliabitanti di Cicagna in difesa di un’avanguardiaaustriaca. Case e santuari saranno saccheggiati eincendiati in tutta la valle. Tutto ciò servirà soloa rendere ancor più determinate alla resistenzale popolazioni del Levante ligure. Un ulterioretentativo infatti di domarle, porterà i Francesi auna sonora sconfitta negli scontri del febbraio emarzo del 1800, nonostante le migliaia di solda-ti impegnati, tant’è che quest’ultimi, in precipi-tosa ritirata verso Genova, sfogheranno la lororabbia incendiando le case degli abitati lungo lastrada, quali Cicagna, Pianezza, Cornia, Uscio,Recco, e fucilando sul posto tutti i disgraziatiche incontreranno. Sempre a Recco, la ritiratadei Francesi fu immediatamente seguita da unaprocessione di ringraziamento alla Madonna col“Confaón” in testa. Al contrario, i Transalpinidefinirono la Fontanabuona con l’epiteto di“Fontaine du diable”.

A riconoscimento del loro ruolo determinan-te, i Viva Maria del Levante ligure saranno fattientrare per primi il 4 giugno 1800 in Genova,dopo la cacciata dei Francesi.

Il ritorno della Liguria sotto il dominio fran-cese, dopo la vittoria di Napoleone a Marengo ela seguente pace di Luneville, non calmerà maicompletamente gli animi, né vedrà mai cessarela repressione contro le popolazioni e i loro par-roci. Solo la fine del periodo napoleonico nel1814 di fatto fermerà scontri e rappresaglie, maormai più nulla sarebbe tornato come prima.

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 31

Esiste un imprinting geografico ed etnico sulpensiero? È possibile riscontrare i tratti diuna determinata mentalità, afferente a un

certo contesto ambientale e regionale, anchenella storia della filosofia?

Troppe volte nello studio della filosofia è pre-valsa un’impostazione meramente storicistica(complice tra le altre, dobbiamo dirlo, la produ-zione della peninsularissima scuola crociana),che non si è accorta del fatto che gioca un ruolodecisivo anche il condizionamento dello spazio,in alcuni casi più di quello del tempo.

La sottovalutazione della geografia rispetto al-la storia, tipica della riforma gentiliana a baseidealistica, ha impedito tra l’altro una correttavalutazione delle differenze geografiche sia al-l’interno della produzione artistico-letterariache all’interno di quella filosofico-scientifica.

Così i testi scolastici (per licei scientifici eclassici) di storia della filosofia trattano l’evolu-zione del pensiero umano in maniera antologicae biografica, senza cogliere bene l’appartenenzadei vari pensatori alla scuola bavarese anziché aquella sassone o olandese.

Quando si parla poi di pensatori “italiani” si fageneralmente di tutt’un erba un fascio, senzaprecise distinzioni tra filosofia del nord e filoso-fia del centro-sud.

Siamo convinti che esista una filosofia padana,abbastanza ben distinguibile rispetto a quelladella penisola italica, e risalente a diversificazio-ni e tratti autonomi maturati attraverso i duemillenni che vanno dal 1000 a.C al 1000 d.C. Lanostra disamina inizia comunque con il bassoMedioevo, epoca in cui, dopo il definitivo scom-porsi dell’eredità romanoimperiale, si sono ma-nifestate personalità e scuole di chiara colloca-zione padana.

Va detto subito, a questo proposito, che la lin-gua in cui si espressero gli autori medievali cheprendiamo in considerazione, è quella latina,non molto diversa da quella usata da pensatori

d’Oltralpe o d’Oltreappennino; non è possibilecioè puntare su un autonomia linguistica comeper la storia della letteratura padana, ricca diespressioni gallo-padane già nell’età medievale.

Cionondimeno, al di là del fatto che un’accu-rata analisi filologica riesce a riscontrare alcunitratti morfologici e sintattici di un latino “pada-no” anziché franco o italico, la nostra attenzionedeve andare al contenuto delle opere filosofiche,a un tipo di messaggio che tratta e approfondi-sce aspetti del pensiero umano che altrove nonsono stati apprezzati o debitamente compresi.

Ecco allora profilarsi una storia della filosofiapadana nel medioevo, ricca di autori maggiori edi autori minori ma caratterizzata dal riconosci-mento di una certa originalità di pensiero, pur-troppo male identificata e conosciuta da moltistorici della filosofia, talvolta perfino da quelliche in Padania sono cresciuti o hanno insegnato.

Il panorama medievale della cultura padana ècontrassegnato dalla presenza di scuole negliambienti monastico-conventuali e nelle nascen-ti università di Bologna e Padova.

Specie nei secoli decimo, undicesimo, dodice-simo e tredicesimo, forte risulta il legame con ilmondo teologico francese con il suo sistema ab-baziale e universitario.

Sappiamo che nel Medioevo la teologia ebbe ilsopravvento sulla filosofia vera e propria. Tutta-via è possibile riscontrare uno sforzo di pensie-ro, dalla logica alla dialettica, dalla metafisica al-la fisica, che può essere estrapolato dal maremagnum della “scienza di Dio”, anche nellastessa area padana. Poco conta che molti autorivestissero abiti ecclesiastici, il cervello venneesercitato comunque, e con ottimi risultati.

Tra la fine dell’alto medioevo e l’inizio del bas-so, fu la scuola cluniacense a svolgere in Pada-nia un ruolo importante, a partire dalla presen-za in Lombardia ed Emilia dell’occitano Gerber-to d’Aurillac, un filosofo attento all’evoluzionedel pensiero scientifico, dall’astronomia alla

Cenni sulla filosofia padanadel Medioevo

di Andrea Rognoni

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geometria. Ma solo nell’undicesimo secolo, colfiorire o rifiorire delle città e degli scambi cultu-rali, la filosofia padana comincia ad acquisireuna sua fisionomia, in corrispondenza del rina-scere in tutta Europa della dialettica e della re-torica, “scienze umane”- si direbbe oggi - atte ascandagliare i lati più nascosti del pensiero.

Si venne a creare anche in Padania un profon-do dibattito tra “dialettici” e “antidialettici”. Iprimi volevano lasciare una certa autonomia aldiscorso rispetto alla logica dei dogmi e delle ve-rità raggiunte con la fede, i secondi combatteva-no le dispute perché digregatrici delle certezzedate dalla Rivelazione.

I quattro protagonisti del pensiero padano delprimo secolo del secondo millennio dell’era cri-stiana furono Anselmo d’Aosta, Anselmo di Be-sate, Lanfranco di Pavia e Pier Damiani, formati-si nella “valle del Po” ma operanti anche in altreparti d’Europa, specie in Francia e Inghilterra.

Anche se le loro posizioni appaiono reciproca-mente contrastanti c’è un denominatore comu-ne, dato dalla necessità tutta padana di non per-dersi in astratte considerazioni ma arrivare aporre le premesse di precisi stili di vita quotidia-na. Non dimentichiamo inoltre che in questo se-colo si svolse in Padania un importante conve-gno teologico, il famoso “sinodo di Vercelli”(1050, non a caso la metà esatta del secolo), chechiarì i termini della questione a livelli europei,condannando gli eccessi dialettici di Berengariodi Tours ma prendendo atto di un mutamento diorizzonti all’interno del dibattito filosofico.

Anselmo di Besate ebbe il grande merito disottolineare l’importanza dei termini linguisticinelle dispute filosofiche e con praticità tuttalombarda arrivò a stabilire delle regole del par-lar retorico, anche secondo moduli di scontroverbale e dialettico, destinato comunque a espri-mere un vincitore e un vinto (si veda in tal sen-so il meglio della sua opera “Retorimachia”).

Lanfranco di Pavia intervenne nel dibattito tradialettici e antidialettici con un senso della mi-sura tutto padano, forgiato anche durante il suocurriculum studii presso la scuola di Bologna.

Di fronte alla convinzione di Berengario di ar-rivare alla divinità attraverso l’uso della ragione,Lanfranco parla di un uso eccessivo della dialet-tica da parte del francese, che arriva a sostituirsialla patristica; moduli razionali e discorsivi van-no secondo Lanfranco introdotti comunque nel-la teologia: un loro uso moderato non solo è le-gittimo ma utile alla vera comprensione delladimensione ultraterrena.

Anselmo d’Aosta fu allievo di Lanfranco di Pa-via e divenne abate di Bec in Normandia, e suc-cessivamente arcivescovo di Canterbury.

Fondamentale è la sua opera “De veritate”,che spiega la differenza tra tre tipi di verità:quella che nasce dalla conoscenza dell’oggetto,la verità “deontologica” che muove dalla neces-sità morale, e infine quel tipo di verità ispiratadalla coscienza dell’esistenza di Dio. E appuntoquest’ultima diventa l’argomento principale del-le opere più conosciute di Anselmo, il “Proslo-gion” ed il “Monologion”, nelle quali viene data,a nostro avviso, la più convincente dimostrazio-ne di tutti i tempi del fatto che la ragione puòrinforzare la fede senza ricorrere al dogma e al-l’autorità. Una gradazione di perfezione all’in-terno della natura sostenne - Anselmo - conduceall’ammissione di una perfezione somma; manon basta: poiché la nostra mente supera la na-tura stessa, una qualsiasi frase prodotta dal lin-guaggio umano può comportare la prova dell’e-sistenza di una dimensione divina.

Eccoci appunto al cosiddetto “argomento on-tologico”, insuperabile cavallo di battaglia delpensiero anselmiano e, lasciatemelo dire, delpensiero di marca padana.

Se io affermo “Dio non esiste” (ci si può riferi-re a una divinità che non è costretta a ricevere ilmarchio di alcuna religione specifica) entro incontraddizione, per il fatto che nego una sommaperfezione tra le cui qualità, essendo perfetta,non può non esserci anche l’esistenza stessa. Inaltre parole, se si forma nel mio intelletto l’ideadi qualcosa a cui non manca proprio nulla, que-sto qualcosa deve avere anche l’esistenza, altri-menti qualsiasi altra realtà esistente sarebbe piùperfetta.

Si tratta di un procedimento logico destinatoa condizionare tutta la storia della filosofia occi-dentale fino a Kant, impiegato dai francescani,da Cartesio e da Leibniz. Entrerà in crisi conl’avvento della mentalità contemporanea, mate-rialistica e relativistica.

In maniera diametralmente opposta alla lezio-ne anselmiana si pone Pier Damiani, monaco ra-vennate che insegnò a Parma e finì i suoi giorniin ritiro nel monastero di Fonte Avellana (Mar-che).

Risulta estremamente significativo il fatto chela linea geografica del pensiero padano del pri-mo secolo del Mille corra lungo la direttricenordovest-sudest, da Aosta a Pavia, a Parma e al-la Romagna. Non a caso è la linea allora più civi-lizzata (rispetto a quella sudovest-nordest) e

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 33

presenta al polo nordovest un grande prodottodella scuola “dialettica”, al polo sudest dellascuola antidialettica (Pier Damiani, appunto),infine al centro il mediatore moderato Lanfran-co di Pavia.

Damiani, tutto preso tra l’altro a metter manoalla riforma monastica, vedeva i procedimenti lo-gici e i risultati scientifici da cui discendono co-me un tentativo inutile e affannoso, perché Dio ele sue creature non possono venir misurate colmetro della mente umana. Così le regole dei sil-logismi linguistici non possono esser applicate algrande mistero della potenza divina. Al massimoriescono a servire come ulteriore spiegazione dicerti passi oscuri delle Sacre Scritture.

Un capitolo a parte merita la filosofia deglieretici padani dell’undicesimo, dodicesimo e tre-dicesimo secolo.

Troppo spesso snobbate dai libri di testo, leteorie eterodosse, anche se afferenti prevalente-mente a questioni più religiose che filosofiche,fanno riferimento ad alcuni orizzonti di pensie-ro che vanno perlomeno presi in considerazio-ne. Oltretutto in Padania il fenomeno assunsedelle proporzioni notevoli, tali da condizionarescelte e stili di vita di buona parte della popola-zione.

Altri studiosi, sicuramente più esperti di mein fatto di storia medievale, potranno parlare piùdiffusamente del ruolo delle eresie, in questa se-de vale comunque la pena di vedere i principalipunti di filosofia teoretica e morale che sembra-no emergere dal variegato mondo eterodosso, aldi là del fatto, abbastanza ovvio, che non ci furo-no dei pensatori effettivi, capaci di tradurre inopere compiute le trame delle loro riflessioni(molti rappresentanti del patarismo erano addi-rittura tenuti a conservare il segreto sulle partipiù profonde della dottrina, il che ci obbliga adun ulteriore sforzo nell’indagine, anche se è ar-rivato fino a noi un testo interessante dei catarifrancesi che può fare da riferimento, il “Liber deduobus principiis”.

Già Felice Tocco, più di cento anni fa, in Ere-sie nel Medioevo, parlava del “sistema cataro”,come di una sorta di corpus dottrinario a cui fa-cevano riferimento anche i catari, patarini e val-desi dell’Italia settentrionale. In quel sistema ca-taro confluirono probabilmente traccie di filoso-fie antiche, come il docetismo, lo gnosticismo eil pitagorismo: “in tutti i movimenti religiosi ac-cade quello che notammo del catarismo, nelquale, accanto al nucleo delle dottrine dualisti-che, si aggrupparono le più vecchie eresie”.

Il dualismo o neomanicheismo sembra pro-prio essere il fulcro della speculazione degli ere-tici padani, quantunque i patarini abbiano poiorientato il loro impegno verso una lotta allacorruzione ecclesiastica che abbandona la meta-fisica per preoccuparsi degli aspetti pratici diuna rigorosa filosofia morale, ispirata al restau-ro di una primitiva purezza evangelica.

Come ha scritto lo storico Raffaello Morghen,il dualismo in questione va visto come dualismo“mitigato” rispetto a quello antico, sia perchénon si rifà più a una opposizione irriducibile traprincipio del bene e principio del male, sia pergli influssi razionalistici del secolo undicesimo,che abbiamo visto in Lanfranco e Anselmo.

Da non sottovalutare inoltre il ruolo del bogo-milismo bulgaro e balcanico del decimo secolo,profondamente avverso a miti e riti tipici delVecchio testamento, che arrivato in Padania eProvenza fu rivissuto secondo canoni tipici diterre più soggette al potere della Chiesa.

Qual’è allora il nucleo del dualismo padanodel Medioevo?

L’opposizione tra la dimensione dello Spirito equella della Materia viene vissuta come dram-matica ed esiziale del destino umano. Non ven-gono identificati un Dio delle tenebre e un Diodella luce, come pensavano i manichei classicinel senso di una radicale dicotomia dell’Essereche procede per categorie cosmogoniche in gra-do di generare una continua tensione soprattut-to attraverso la sessualità, ma si individua lapresenza di un rischio di progressivo indeboli-mento dell’Essere stesso, inteso come esclusivoMondo del bene e Logos di filoniana memoria(ecco gli elementi logico-razionalistici), che su-birebbe una trasformazione materialistica e irra-zionalistica a causa di un arroccamento delmondo su posizioni veterotestamentarie, tale danon comprendere il messaggio di Salvezza delLogos tipico del Nuovo testamento. Così la tra-dizione paolina viene vista da patarini ed aposto-lici come unica soluzione alla degenerazionespirituale tipica del Mille, evidente nella corru-zione ecclesiastica e feudale: per non far scivola-re la realtà verso la materia irrazionale, princi-pio non esistente a priori ma capace di crearsiper inerzia, la responsabilizzazione collettiva eindividuale deve prodursi senza mezzi termini,con atteggiamenti ad esempio di rifiuto dellacarne e del sesso che portano ad uno stato co-sciente di povertà (“pauperismo”).

Ecco quindi, da parte di un Gherardo Segarellida Parma, l’attesa di una nuova età dello Spirito

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in grado di riequilibrare il dilagare dell’aporiagenerata dalle istanze materialistiche e irrazio-nalistiche. Una sorta insomma di dualismo “sto-rico-dialettico” che sarà alla base anche dei pre-supposti filosofici tipici della mentalità riformi-stico-protestante del primo Cinquecento, non-ché di alcuni autori moderni come il grandissi-mo Hegel.

Il dodicesimo secolo è dominato in Padania dauna figura notevole come Pier Lombardo, nova-rese dall’enciclopedica cultura che dopo averstudiato a Bologna (città ove insegnava ancheIrnerio, fondatore della giurisprudenza comescienza autonoma) raggiunse a Parigi una gran-de fama di filosofo e teologo attraverso l’inse-gnamento e una straordinaria produzione lette-raria.

In particolare i “Quattro libri delle sentenze”rappresentano la summa di tutto quello che sisapeva allora in materia filosofica: si va dalla lo-gica alla dialettica, dall’ontologia alla cosmolo-gia, dalla psicologia alla teologia naturale e all’e-tica.

L’accusa di mera compilazione fatta nei suoiconfronti da alcuni storici della filosofia è da re-spingere nella maniera più assoluta perché solouna mente profonda e geniale sarebbe stata ingrado di riordinare il sapere del tempo in formasinottica e didattica, arrivando comunque amettere a fuoco anche qualcosa di inedito e per-sonale.

Il quadro di riferimento è la tradizione agosti-niana (non dimentichiamo mai a tal propositoche Agostino meditò e scrisse il meglio della suaopera proprio in Padania!): ogni scienza deveprendere in considerazione da una parte gli og-getti reali e dall’altra i segni che li manifestano.Si tratta di una visione “semiologica” dellarealtà che Pier Lombardo sviluppa soprattuttonell’esame delle Sacre Scritture, valido comun-que anche per altri tipi di testo prodotto dal-l’uomo: c’è una prima lettura di carattere gram-maticale (“littera”), una seconda di impostazio-ne semantica (“sensus”) ed una terza che va acogliere il giudizio profondo emesso dall’inten-zionalità dell’autore (“sententia”). Il terzo livel-lo, quello sentenziale, va coltivato attraverso le“rationes” e le “similitudines”, cioè da una partecon la metodologia logica e dall’altra con quellaanalogica dei confronti e delle somiglianze. Unalezione che otto secoli dopo un conterraneo diPier, anche se poco fiero della sua padanità, Um-berto Eco, metterà a frutto nella sua operazionedi rilancio della scienza semiologica.

Per quanto riguarda l’aspetto più teologico,Pier Lombardo ammette che Dio si è rivelato al-l’uomo ma prima, dopo e indipendentementedalla sua Rivelazione, gli esseri umani possonoconoscere l’esistenza divina con l’uso della ra-gione. In tal senso San Paolo è molto amato an-che dal novarese, che sulla scorta della lettera aiRomani spiega che la realtà trascendente puòvenir colta solo dall’intelletto, che si ferma peròdi fronte al mistero della Trinità (in questo Pierdifferisce dal contemporaneo francese Abelardo)

Ad un Duecento piuttosto nebbioso in Padaniadal punto di vista degli autori e delle opere disfondo filosofico, succede un trecento ricchissi-mo, per certi aspetti decisivo per il cammino fi-losofico, scientifico, giuridico e politico dell’in-tero Occidente.

La bussola filosofica della Padania trecentescaè sicuramente Padova, dotata ormai di una dottae famosa università. Continuano a mantenere illoro valore i centri di studio di Parma (ove ope-rava Taddeo Aldarotto, che per primo si proposedi trattare scientificamente l’anima) e Bologna,anche se quest’ultima comincia a subire eccessi-vamente l’egida di una Chiesa che ha bisogno dinuovi orizzonti di potere proprio perché ridi-mensionata nel suo progetto teocratico (la fa-coltà di teologia è istituita da Papa InnocenzoQuinto nel 1352).

Da segnalare infine un primo emergere dellacultura all’interno delle corti, peraltro più inte-ressate ad arte e letteratura.

Pietro D’Abano risente dello stimolante am-biente patavino, nel quale era penetrato soprat-tutto l’averroismo di origine araba (ma vincenteormai anche in altre città dell’Europa occidenta-le), che tendeva a distinguere nettamente la ve-rità della ragione da quella della fede, portandoalle estreme conseguenze quella frattura tra at-titudine laica al pensiero e mondo teologico-dottrinale che era già insita in qualche modonell’impostazione dialettica di Anselmo d’Aosta.Insegna medicina e filosofia naturale nella stes-sa Padova con la precisa intenzione di ridurrequalsiasi fenomeno miracoloso e soprannaturalea oggetto comprensibile da parte della ragione;egli ammette per il corpo umano una verità reli-giosa ma è convinto che su di esso possa appli-carsi anche un rigoroso schema logico-raziona-le, scevro da ogni influsso mistico o teologico.C’è quindi un recupero della tradizione aristote-lica, che nella realistica mentalità padana si tra-duce in un implacabile atto di volontà razionale,pronta a costruire una scienza che non lasci

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 35

spazio a intuizioni o presupposti dogmatici.Il filosofo euganeo finisce così per subire due

processi per eresia, di fronte ai quali assume unadifesa tipicamente averroistica: la verità della ra-gione ha una sua autonomia dimostrabile macontinua a riconoscere senza mezzi termini unaparallela verità della fede.

Nell’ambiente padovano cresce anche Marsi-lio, che si trasferirà a Parigi per portare a termi-ne il suo capolavoro, Defensor pacis.

Egli distingue due realtà umane, la vita tem-porale, che i regnanti laici devono impostare se-condo le regole della filosofia, e la vita spiritua-le, la cui gestione spetta agli ecclesiastici. Il tut-to parte dalla gnoseologia avverroistica delladoppia verità appena descritta: la temporalità èrazionale, la spiritualità è fideistica ed esse nonpossono interferire l’una con l’altra. Tuttavia glistessi interessi morali che riguardano lo svol-gersi della vita terrena rientrano sotto il con-trollo della comunità laica

Il governo civile è necessario per mantenere lapace e l’ordine e può interessarsi anche della re-ligione solo nella misura in cui anch’essa rien-tra, per una sua parte, in un disegno di stabilità.

Marsilio si occupa di classi sociali e di fenome-ni legislativi in termini razionalistici e organiz-zativi. Il vero legislatore deve essere comunqueil popolo, che decide tramite assemblee generaliche certi atti umani debbano compiersi e altrino, sotto pena di multa o punizione temporale.Interessante anche il concetto di “comunità na-

turale”: tutto organico che include in sé ciò cheè necessario all’esistenza e al buon vivere deicittadini. Essa è assolutamente autosufficiente enon deve rispondere ad altre entità politiche oreligiose. Ci sembra proprio il meglio dei fruttiprodotti dal comunitarismo padano dei secoliprecedenti.

Con Marsilio il Medioevo, non solo padano maeuropeo, si può dire concluso, e concluso allagrande. Il tentativo di San Tommaso, pur gran-dissimo, di conciliare fede e ragione risulta an-ch’esso superato e appaiono in tutta la loro steri-lità i tentativi di marca tipicamente italica (ilsanto era di Arpino, tra Roma e Napoli) di metterd’accordo a tutti i costi delle realtà inconciliabili.

Nel 1361 la nascita dell’università di Pavia, nelcuore della Padania, avvia definitivamente un’e-poca di disincanto filosofico, destinato a risulta-re, seppur più lentamente, vincitore anche nelleuniversità di Padova e Bologna. La figura piùemblematica del secondo Trecento sarà BiagioPelacani di Parma, che insegna in tutte e tre leuniversità elencate logica e filosofia, assegnandoalla fisica un ruolo preponderante: il che dimo-stra la raggiunta autonomia della scienza natu-rale rispetto a quella soprannaturale. Il clima ècambiato, l’umanesimo si fa strada come bilan-ciamento positivo rispetto al naturalismo, il mi-sticismo torna da parte sua alla straordinaria di-gnità di qualcosa che poco può concedere agliaffanni di una mente che deve badare a realtàpiù concrete.

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Se consideriamo la storia relativamente re-cente della disciplina geografica, ci accor-giamo che fare geografia non è stato, nel

tempo, appannaggio esclusivo degli accademicie dei cattedrati. Una gran quantità di resocontidi viaggio ha permesso, infatti, di conservare lamemoria di spazi e di tempi trascorsi e altri-menti vissuti, trasmettendoci conoscenze fonda-mentali sull’identità e la cultura di determinatiambiti geografici, descrivendoci molti territoritrasformati - forse, non sempre per il meglio -dal tempo e dall’uomo. È stato così progressiva-mente accumulato un grande patrimonio di di-segni e di scritti, nati da viaggi mossi dai più di-versi intenti, che consentono sguardi semprenuovi sul mondo che ci circonda. È come se i ri-cordi degli “esploratori”, la suggestione delle di-versità incontrate, l’intreccio di natura e culturache si sono venuti a produrre in riferimento allediverse esperienze dei geografi-viaggiatori, pren-dessero vita e ricreassero il viaggio, aprendocigli occhi e la mente alle sue grandi potenzialitàemotive e formative, rendendocene compagni esoggetti itineranti.

Immagini collettive e soggettività sono sotte-se, dal Medioevo all’Età Contemporanea, ai mol-ti modi del viaggiare. Il viaggio del pellegrino equello laico dell’umanista, il grand tour di for-mazione che, dal XVII secolo, intraprende l’ari-stocratico o il facoltoso borghese e quello senti-mentale dell’età romantica, fino alla nuova sen-sibilità di consuetudinari “villeggianti” cheinaugurano le nuove forme di turismo modernoe nuove modalità di rappresentazione dei pae-saggi non sono che un esempio del girovagare diuomini, di merci e di idee, in un continuo con-fronto con le diversità e il “sorprendente”. Acca-de così che molte regioni del pianeta siano ar-moniosamente colorite dalle vive atmosfere edai palpiti che i viaggiatori ci hanno tramandatoattraverso i “giornali” di viaggio, serbatoi dellamemoria. E il lago di Como è sempre stato, co-me altri luoghi naturalmente affascinanti, meta

di artisti e “touristi” che ne hanno dato le piùdiverse interpretazioni e rappresentazioni: Shel-ley, Longfellow, Barrès, ..., e soprattutto Sten-dhal, ma non meno Domenico Vandelli e MissTaylor. Como e i suoi dintorni, la Brianza e lePrealpi lariane, da tempo immemorabile, nonmancano di conquistare.

La provincia di Como si configura così, comeil luogo d’appassionati rilevamenti da parte diDomenico Vandelli, naturalista Settecentesco;Milano, i laghi lombardi, la Brianza dei primidell’Ottocento diventano, per Stendhal, “dolcericordo” e luogo dell’anima; il viaggio Ottocen-tesco nel Lombardo-Veneto di una sconosciuta“Miss Taylor”, la spinge - nelle sue “Considera-zioni serali” - a rendere grazie al Creatore, “Invi-sibile, o appena percepibile in queste sue opereche, seppure grandiose, sono di Lui tuttaviaespressioni minori”. Ciascuno si è trovato a pas-sare sulla Terra del Lario con scopi diversi e condiversi modi di “guardare”. Ciascuno ci ha ri-mandato - nei suoi “diari di viaggio” -, un ritrat-to indimenticabile ed ancora attuale di un terri-torio che tanto ha affascinato poeti e scrittori,ma non meno la molteplicità di “comuni” turi-sti, una lettura di luoghi e di gesti che emanano,ancora oggi, un calore e un’“atmosfera” che al-trimenti, forse, non sarebbero stati conservati.

Il padovano Domenico Vandelli compì la suamissione lombarda, con ogni probabilità, per ef-fetto di una commissione sovrana. Le perlustra-zioni intorno al Lago di Como e alla Valsassinainiziarono nel maggio del 1763 e durarono oltretre mesi. Con al suo seguito un nutrito drappel-lo di portatori, Vandelli praticò un percorso lun-go e faticoso, rilevando una gran quantità di datisugli aspetti naturalistici del territorio che regi-strò nel suo giornale di viaggio e, successiva-mente, risistemò nel suo Saggio d’istoria natu-rale del Lago di Como, della Valsasina e altriluoghi lombardi. Benché Vandelli attese alla sto-ria naturale del territorio, non si accontentò,tuttavia, di descrivere l’ambiente naturale, ma si

Il “paesaggio” ritrovatoPer una riappropriazione dell’identità locale

di Giulia Caminada Lattuada

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sforzò di metterne in luce gli aspetti utili allosviluppo della civiltà, collocandosi in quellatemperie storico-scientifica che segnò lo spar-tiacque fra lo studio della natura fine a se stessoe lo studio della natura come “risorsa” da utiliz-zare per il bene comune (la botanica rappresen-ta, infatti, per Vandelli un ramo del sapere ausi-liario alla medicina, la base della farmacopea),rimandandoci una serie di notazioni storico-de-scrittive che, potenzialmente, richiamano lastruttura antropica dei luoghi visitati. Il lavorovandelliano - copiato e ricopiato ad uso tanto dinaturalisti, quanto degli autori delle prime gui-de turistiche della regione - benché non costi-tuisse uno strumento funzionale all’elaborazio-ne di una politica economica per il territorio efosse incompleto dal punto di vista naturalistico,aveva, tuttavia, “il fascino del primo provvisoriocolpo d’occhio sul territorio insubre condotto inbase ai canoni linneani, steso da un pioniere diuna tecnica di rilevazione in fase di sofferta econtroversa elaborazione”. Pag. 66.

Di diverso genere fu, invece, il viaggio Otto-centesco di Stendhal. Se si scorrono le paginedei suoi diari di viaggio nelle città e sui laghi diLombardia, tutto sembra un pretesto per un di-retto contatto con gli uomini e con l’ambiente.Il recupero dello spazio fisico come riflesso del-l’animo, come elemento dotato di carattere edespressività propria e specifica fanno si che ildiario personale del giovane francese si trasfor-mi in un documento storico che lascia trapelareun insieme di abitudini e di gesti che caratteriz-zano e danno identità agli ambienti e ai volti in-contrati. Il “Journal” tenuto da Sthendal conl’intento di analizzare se stesso e conoscersi me-glio diventa, così, un colorato e suggestivo spac-cato della società lombarda dell’epoca napoleo-nica. La sensibilità estetica di Stendhal viaggia-tore - più volte da lui stesso riaffermata (“Hosempre ricercato con una sensibilità finissima lavista dei bei paesaggi; per questa sola ragione hoviaggiato. I paesaggi sono stati come un archet-to che faceva vibrare la mia anima”) -, la descri-zione dei luoghi e dei paesaggi, la volontà dirender conto dei sentimenti provati scegliendole parole più emplici, meno colorate, proprioperché “Descrivere con minuzia dei teneri senti-menti significa sciuparli, ci restituiscono un ter-ritorio dove “la sensation du beau vous y arrivepar bouffées de tous le cotes”.

Milano, la sua patria elettiva, (“A Milano,nel 1820, avevo preparato questa epigrafe perla mia tomba. Errico Beyle - Milanese - Visse,

scrisse, amò. Quest’anima adorava: Cimarosa,Mozart e Shakespeare. Morì di anni ... il ...18...), il Lago Maggiore, Varese, Como e il suoincantevole lago, la Brianza, il Lago di Gardae Pavia diventano i luoghi dell’anima, balsamiguaritori. E la città o il paesaggio di naturanon è pura immagine di sé, ma è associata aisuoi abitanti (“Milano è la città d’Europa chevanta le strade più belle e i più bei cortili. Lecolonne di granito sono da quattro a cinque-mila. La popolazione unisce due virtù che nonho mai trovato allo stesso grado insieme: lasagacia e la bontà”). Ma, soprattutto, Milano ela vita milanese che lui visse in tutte le suepeculiari abitudini e caratteristiche è in perio-di separati - per dieci anni della prima metàdel XIX secolo, gustando il risotto, gli useiscaapa e il vernacolo del Carlin - Carlo Porta -e del Grossi come un genuino ambrosiano, ap-prezzando le escursioni e la villeggiatura ai la-ghi e in Brianza della quale ne esalta le graziedel paesaggio e l’ospitalità villereccia fissan-done i ricordi di una sua escursione, fatta nel1818, secondo l’itinerario: Milano, Giussano,Inverigo, Erba, Asso, Pusiano, Oggiono. A Mi-lano, Stendhal si muove alla ricerca della per-cezione piena di un ambiente che è anche, esoprattutto, interiore (“Là ho provato le piùgrandi gioie ed i più grandi dolori; là, ciò chefa di un luogo la patria, ho gustato i primi pia-ceri. Là desidero trascorrere la mia vecchiaiae morire”) e “luogo” di presenza della vita a sestessa (“Tale è stata per me Milano durantevent’anni (dal 1800 al 1820). La ragione mi di-ce: ma la vera bellezza sono, per esempio, Na-poli e Posillipo, sono i dintorni di Dresda, lemura smantellate di Lipsia, l’Elba sotto Rain-ville ad Altona, il lago di Ginevra, ecc. ecc.Questo mi dice la ragione, ma il mio cuorepalpita soltanto al pensiero di Milano e dellacampagna lussureggiante che la circonda”).Pag. 14

Accanto a Milano e alla Brianza, anche il Lagodi Como apre a Stendhal la sua potenzialitàestetica, la “bellezza sublime”. La punta del Bal-bianin, dove “il lago ha un aspetto fosco, comequelli della Scozia”; la deliziosa spiaggia dellaTremezzina, le valli e le colline coperte di casta-gni, i villaggi, a mezza costa pag. 80 Porta Torre,Borgo Vico, il castello di Grianta, sopra Cade-nabbia, l’Orrido di Bellan e “l’ardito promonto-rio che separa i due rami del lago, quello di Co-mo, così voluttuoso, e quello, austero, di Lecco:veduta che il golfo di Napoli, il luogo più rino-

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mato del mondo, eguaglia ma non supera in leg-giadria e grandiosità. Tutto è nobile e pieno digrazia, tutto parla d’amore, nulla ricorda lebrutture della civiltà. I villaggi appollaiati suipendii sono nascosti da alberi maestosi, oltre lecui cime spunta la linea armoniosa dei lorocampanili. Oltre le colline le cui cime offronodei romitori che tutti vorremmo abitare, l’oc-chio scorge stupito i picchi delle Alpi, semprecoperti di neve, e la loro austerità severa gli ri-corda i mali della vita quel tanto che basta peraccrescere la voluttà del momento. La fantasia èstimolata dal suono lontano della campana diqualche villaggio nascosto fra gli alberi: questosuono trasportato dalle acque, che lo rendonoancora più dolce, acquista una nota teneramen-

te malinconica e rassegnata, e sembra dire agliuomini: La vita fugge, non mostrarti dunquetanto difficile con la felicità che ti si presenta,affrettati a godere”. Sono gli stessi luoghi chevent’anni più tardi Stendhal evocherà nellaChartreuse de Parme.

Un manoscritto recentemente ritrovato e se-gnato sul dorso Tour On the Continent, 1847,vol. III, North Italy, è, invece, quanto ci portasulle tracce di una sconosciuta viaggiatrice in-

glese che nell’agosto del 1847 descrisse nel suo“diario di viaggio” il territorio compreso tra Do-modossola e Brescia, nell’allora Regno Lombar-do-Veneto: dal Lago Maggiore (per Bellinzona eMesocco) fino al passo dello Spluga, la discesaper la Val Chiavenna, una puntata verso Sondrioe lo Stelvio, poi le regioni dei Laghi di Como edi Lugano e Milano, da dove ripartirà per Bre-scia e dove il diario si interrompe. Il quadernoche, probabilmente, doveva essere uno dei qua-derni - andati perduti - che componevano il dia-rio di viaggio della misteriosa Miss Taylor, racco-glie schizzi di botanica e di architettura, disegnieseguiti a mano libera o con l’ausilio della “ca-mera oscura” che inframezzano la calligrafia or-dinata ed elegante di un diario di viaggio checon precisione e meticolosità descrive e illustral’itinerario percorso ma vi aggiunge impressionie particolari propri del turista attento all’aspettopiù propriamente pittoresco e folcloristico delviaggio.

Vandelli, Stendhal e Miss Taylor sono alcunifra i tanti che, per i più diversi motivi, si sonotrovati a passare sulla Terra del Lario e della Ter-ra del Lario ci hanno lasciato uno spaccato deltempo che si sono trovati a vivere. È come senella nostra mente si ricomponessero le tesseredi un mosaico che il tempo ha disseminato. Ilpaesaggio lariano con le sue montagne, i suoipendii, la sua bellezza spesso pacata, gelosamen-te trattenuta, ancora da scoprire, poco inclinealla messa in scena - un po’ come quella dei suoiabitanti - viene interpretato, reinventato, lettoattraverso lo sguardo di “touristi” per i quali ilLario ha sempre posseduto una sua idealizzatafascinazione “romantica”. L’amore per i luoghidel “milanese” Stendhal, un viaggio quasi da ri-proporre agli attuali tour operator - per un ri-lancio del territorio all’interno di quel più com-plesso sistema territoriale che viene a configu-rarsi come “Regio Insubria” - per l’inglese MissTaylor, le conoscenze storico-naturalistiche dellaterra lariana pervenuteci grazie al “Giornale diviaggio” del padovano Vandelli rappresentanoun importante documento di vita vissuta, controgli stessi fondali, dietro le stesse quinte, da uo-mini di altri tempi e nutrono l’immaginario dellettore contemporaneo, lasciandogli la possibi-lità di riscoprire con occhi diversi strade ormainote o di percorrerne altre che altrimenti, forse,non avrebbe mai percorso Ma c’è di più. Ancheattraverso i resoconti di viaggio è allora, forse,possibile - in un’epoca in cui il correre quotidia-no impedisce talvolta di “guardare” - riscoprire e

Una pagina del diario di Miss Taylor

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far conoscere la straordinarietà di un ambienteche ci circonda e ci plasma e ricostruire l’iden-tità di tutte quelle comunità locali che semprepiù si riaffermano e prendono coscienza dell’ap-partenenza a quell’area culturale, economica esociale delimitata da quell’area geografica tran-sfrontaliera costituita dal Canton Ticino e dalleprovince di Como, Varese e Verbania - la Regio-ne Insubrica -, in un reciproco e incuriosito de-siderio di scoprire rispettive specificità, ma an-che le comuni radici. Un vasto territorio che,seppur diviso da confini nazionali svizzeri e ita-liani, sempre più riafferma la sua identità eomogeneità, cercando la sua collocazione nel-l’ambito dell’Europa delle regioni, a fronte deldato comunque certo, che oggi l’Europa non po-trà nascere come “unione di stati nazionali”, macome patto federativo fra le regioni, i popoli, leculture che hanno dato forma nel tempo allastoria del continente europeo.

La riscoperta di questi viaggi lariani, in terradi Padania, vuole essere, inoltre, un omaggio al-la terra del Lario, alla sua gente. Un atto d’amo-re. Ma si può amare veramente solo ciò che siconosce. Soltanto chi conosce le proprie radicisa da dove viene, ha coscienza delle proprie tra-dizioni, è in grado di dialogare con le altre cul-ture. Soltanto chi possiede la storia e la culturadella propria terra ne sa anche riconoscere i pre-

gi e i limiti e sa migliorarla là dove è migliorabi-le. E la conoscenza, il recupero, l’interpretazio-ne e la reinvenzione di una terra possono anchepassare attraverso l’occhio di chi - conseguente-mente alle più diverse scelte, per caso o per de-stino - si è trovato a passare su un territorio che,comunque, ha lasciato traccia di sé nel cuore enella mente di chi ha vissuto gli stessi luoghiche tanti di noi si trovano a vivere oggi e che iresoconti ci tramandano attraverso l’“io viag-giante” di viaggiatori “di professione”, piuttostoche “dilettanti”.

È forse possibile, allora, partire anche da alcu-ni dei tanti “giornali di viaggio” per riscoprire ivalori più autentici di un passato e di un presen-te locale affinché le istituzioni del territorio siriapproprino delle proprie autonomie, conferite-le da secoli di liberi comuni e di vivere civile,per la valorizzazione dell’identità locale, nellacontinuità della storia. Qualcuno deve pure ave-re insegnato che un lungo cammino inizia conun piccolo passo.

Bibliografia❐ Stendhal, Vie de Henry Brulard, Oeuvres Inti-mes, Bibliothèque de la PlÈiade, Paris, 1956.❐ Stendhal, Vie de Henry Brulard❐ Stendhal, La Chartreuse de Parme, Hazan,Paris, 1949.

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Molti degli antichi usi, nella catena alpina,si riferivano ai momenti principali dellavita degli individui: lo sposalizio era consi-

derato certamente, il più allegro. Si diceva che,nella notte di Natale, le ragazze vedessero in so-gno il volto di colui che sarebbe diventato il lo-ro sposo, nella bella stagione.

La cerimonia di nozze era sempre caratteriz-

zata da un corteo di invitati, in costume locale,reso ancor più pittoresco dall’abbondanza dicoccarde, da mazzetti di fiori sparsi qua e là eda nastri svolazzanti. Naturalmente la gioia erail sentimento più diffuso, anche se, a Cogne, inValle d’Aosta, terminata la messa nuziale, lecampane suonavano a morto: un’antica usanzaper scacciare il malocchio!

Nel Cuneese, invece, gli usi nonerano così funerari: il giorno delmatrimonio, il corredo della spo-sa contenuto in due grandi casse,veniva caricato su di un mulo einviato al Parroco perché lo be-nedicesse. Dopo la messa, l’immancabilepranzo; gli sposi mangiavanonello stesso piatto che spezzava-no in mille pezzi, alla fine delconvivio, con intenzioni scara-mantiche. Rituali più complicatisi conservarono, per lungo tem-po, con poche differenze, in Valdi Fassa e in Val Gardena: quan-do lo sposo giungeva a casa della“promessa”, per condurla inchiesa, trovava ad attenderlo unavecchia camuffata da sposa; nesorgeva una disputa scherzosa, altermine della quale, finalmentespuntava la giovane fidanzata,adorna di nastri, collane e mer-letti e un mazzolino di fiori fre-schi tra le mani. I due giovani eil loro gioioso corteo si recavanoin chiesa per il rito. Dopo ilpranzo, in trattoria, con amici eparenti, lo sposo affidava al te-stimone più saggio il compito di

“La Sonajada”: una curiosa abitudine

della prima notte di nozzedi Mariella Pintus

La Badia de li Foli

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portare a casa l’emozio-nata sposina; lungo iltragitto, un gruppo dibuontemponi, con l’al-lettante offerta di unbuon bicchiere di vino,riusciva a distrarlo e glisottraeva la giovane, pernasconderla subito dopo,in casa di amici dispostiallo scherzo; dopo un’af-fannosa ricerca, la sposaveniva ritrovata e “riscat-tata” con una abbondan-te bevuta che coinvolge-va l’intera brigata.

Nelle Valli di Lanzo, seuno o ambedue gli sposiavevano avuto qualcherelazione precedente, lanotte che anticipava lenozze, i ragazzi dellaborgata facevano la “bernà”, segnavano cioè,

con la segatura, la stradache dalla casa degli spo-si, portava alla casa degliinnamorati precedenti ese per giunta, essi eranopiuttosto avanti con glianni, aveva luogo anchela “sonajada”, una musi-ca speciale fatta concampanacci, ed altristrumenti non propriomusicali.Anche nel Saluzzese viera qualcosa di simile aopera delle “Badie de liFoli”, riconosciute uffi-cialmente dalle autorità.Questi goliardi eranoabilissimi nell’organizza-re lo “Zabramari”, un ri-tuale risalente a prima

del Medioevo. Questa usanza era diffusa non so-lo in Padania dove era nota con vari nomi:“scampanata, capramarito, mattinata” ma an-che in altri Stati; in Germania era chiamata“katzenmusik”, in Francia “chiarivari”, in Spa-gna “cencerrada”.

Lo “Zabramari” era effettuato da giovani ma-scherati da demoni o da animali, accompagnatida un frastuono assordante prodotto dalla per-cussione di pentole, padelle, secchi, campanac-ci, tamburi, alternato al suono di flauti, corni ealtri strumenti a fiato.

Canti, grida e gesti scomposti venivano indi-rizzati alla vittima prescelta che era, solitamen-te, un marito tradito dalla moglie, un vedovo inetà avanzata che si risposava con una ragazzagiovane ma non ingenua, il vecchio che grazieal suo denaro poteva impalmare una ragazzina.Anche gli sposi che tardavano ad avere figli,non erano esentati da questa bonaria punizione.

Non raramente, tutto il paese si riuniva attor-no alla “Badia de li Foli” e scendeva in piazzaper dare il suo rumoroso contributo. Seguiva-no: pane, salame, acciughe e generose libagioni.

Ancor oggi, in alcune borgate, si usa regalareun capretto o “ciabra” a chi resta scapolo, no-nostante i fratelli più giovani convolino a noz-ze; sono le ultime tracce di queste anticheusanze.

Viù, 1871. Gli sposi Ignazio Milone e SofiaBoggiatto il giorno delle nozze

Lanzo, 1894. Luisa eAgostino Fiore nel gior-no del matrimonio

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Nella storia dello scibile umano, è fuor didubbio che si siano attribuite al termine“ideologia” svariate significanze, spesso tra

loro confliggenti sia dal punto di vista formaleche sostanziale. Si passa infatti dalle accezionipiù specifiche - incistate nella settorialità del-l’ambito storico - filosofico - ossia l’ideologia in-tesa come una corrente filosofica invalsa nellaFrancia della prima metà del XIX sec., volta allostudio degli stati di coscienza e delle loro origini- a quelle più generali, di uso quotidiano e cor-rente - e cioè a dire l’ideologia intesa come in-sieme di principi e valori che informano un mo-vimento culturale, storico, politico; o ancora, lospettro di accezioni muta sensibilmente allorchél’ideologia si prefigura come “logica di un’idea”.Proprio perché l’idea può essere concepita, pla-tonicamente, come principio di intelleggibilità,esistente e valido in sé e per sé, recondito nelfondo della nostra anima, che è il fondo stessodel reale; ovvero, kantianamente, l’idea starebbead indicare la meta cui la ragione tende nell’al-largare la sua conoscenza (cosiddetto principioregolativo della ragione); ancora, l’idea può es-sere prefigurata come “schema logico a priori edin fieri”, con il quale si cerca di ottundere ed of-fuscare ciò che è vero e reale, in nome di questoo di quell’interesse, o per conto di questo oquell’altro gruppo politico dominante.

All’alba del terzo millenio, è convinzione co-mune, ormai, che tutte le ideologie siano “mor-te”, sepolte dal fragoroso crollo del muro di Ber-lino e, contestualmente, del socialismo reale!

Con la caduta del comunismo, dunque, sareb-be crollato ogni totalitarismo, ogni volontà au-tocratica di imporre coattivamente determinatischemi di pensiero, omologazioni, modelli d’a-zione stereotipati, assolutizzati come obbligato-riamente validi, ma spesso completamente avul-si dalla realtà in cui si trovano ad operare. Ilprocesso di “disindividualizzazione ... dell’indivi-duo” che, in ogni caso e in qualunque modo,conduce alla perdità di sé, alla “cloroformizza-

zione” e massificazione - “per cui la massa è l’in-sieme degli individui disponibili, i quali rendonopossibili tutti i regimi, che, ognuno con i modipiù vari, dispongono di questi individui vuoti”[Capograssi] - si sarebbe definitivamente blocca-to; le ideologie, come fini in se stesse, e comemezzi per “officiare” al trionfo di una grandeChiesa omologante sull’altra (sia essa capitalistao comunista non importa!), sarebbero completa-mente abbattute!

Sinceramente, però, visto in un’ottica retro-spettiva, il bel fondale sin’ora raffigurato, piùche a un’opera di Fattori, corrisponderebbe mol-to più verosimilmente a un quadro di Kandin-skij o di un P. Klee: ossia, - per uscir di metafo-ra - la continua insistenza con cui si afferma,peraltro con assoluta certezza, che le ideologie ele massificazioni di ogni qual sorta sono solo unpassato e orribile ricordo, non è altro che la tra-sposizione delle proprie aspirazioni interiori,una trasfigurazione soggettiva (e collettiva!) deipropri bisogni, necessità, desiderata che, pur-troppo, sono e permangono al di fuori di qual-siasi rapporto con l’aspetto oggettivo dellarealtà. Quello che ci sta sotto gli occhi non è ciòche la maggior parte crede, o meglio, vuole ve-dere; ciò che è non è ciò che si vorrebbe che sia;il concreto non collima con l’astratto; Fattori(macchiaiolo realista) non è Kandinskij (grandegenio astrattista)!

Le mie personali convinzioni, forse un pò con-trocorrente, non sono però dettate da chissàquale logica “preconfezionata”, chissà da qualescuola di pensiero uniformata: esse sorgono daconsiderazioni oggettive, da valutazioni svisce-rate da qualsiasi presupposto ideologico, da disa-mine critiche su fatti apodittici, lapalissiani:1) il processo di massificazione/omologazionetutt’ora in atto nei paesi cosiddetti capitalistici(o, almeno, in quelli ricchi dell’Occidente). Unprocesso devastante, in continua evoluzioneche, nel caso non avesse tregua, condurrà inevi-tabilmente alla completa distruzione fisica delle

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Il capitalismo a un bivio:morte o “ri-nascimento”?

di Cristian Merlo

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basi naturali di cui questo processo si avvale;2) il processo di totale de-spiritualizzazione cheha investito e che, indefessamente, investe ilmassimo artefice del processo produttivo capita-lista: il borghese disilluso, e con lui tutti gli illu-si epigoni, abbagliati dal grande sogno diun’“isola delle Esperidi” capitalista (l’espressio-ne “paradiso capitalista” sarebbe forse suonataun pò troppo provocatoria nei confronti degli al-tri illusi, i “sopravvissuti del muro”, propugna-tori del “paradiso ... dell’eguaglianza comuni-sta”);3) il fenomeno, anch’esso piuttosto tipico delledemocrazie occidentali, ma maggiormente visi-bile in Italia, di un interessato assecondamen-to/sfruttamento, da un punto di vistapolitico/statale (inteso come stato - apparato),del portato positivo determinato dal processo ditrasformazione capitalistico. Comportamentoche si materializza espressamente in un “Molo-ch tricipite”: un apparato pletorico e incerto, unvampiresco dispotismo fiscale, un debito pubbli-co autofertilizzante;

Degenerazione dello spirito dell’agire capitalistico e fenomeno di de-spiritualizzazione

Il capitalismo è, per definizione, un “sistemaeconomico caratterizzato dalla produzione col-lettiva della ricchezza attraverso il lavoro e dallaproprietà privata dei mezzi di produzione” (1). E,in tale prospettiva, esso deve forzatamente avva-lersi di precisi fattori produttivi (quali sono lanatura, il lavoro, il capitale, la capacità organiz-zativa), atti a far sì che, sfidando la fisiologicacondizione di scarsità della Terra, si possa inces-santemente trasformare la materia, per conferir-le un’utilità che precedentemente non presenta-va, o presentava in misura ridotta. In altre paro-le, per capitalismo si può intendere, idealmente,la “Capacità del capitale (beni strumentali, im-pianti, semi - lavorati, moneta) di aumentare laricchezza, cioè di creare valore aggiunto rispet-to al capitale impiegato entro ben precisi limitiimposti dall’ambiente” (2). E terrei a rimarcareancora una volta quei “ben precisi limiti impostidall’ambiente”! Essi sono, invero, la indefettibi-le, ineluttabile frontiera fisica che demarca ilconfine tra essere e non essere, vita e morte,crescita e involuzione necessitata. Si voglia am-mettere o meno quei “precisi limiti” sono la“conditio sine qua non”, i presupposti impre-scindibili con i quali ed entro i quali parametra-re ogni eventuale programma di sviluppo e ogni

supposto progetto di realizzazione. Ogni disqui-sizione filosofica, metafisica, scientifica, atta areperire un escamotage per trascenderli o neu-tralizzarli sarebbe inutile, addirittura contropro-ducente: proprio perché essi sono tangibili, evi-denti, legati indissolubilmente alla vita dell’uo-mo e al suo cammino futuro, qualunque essosia. Di più, una loro eventuale “controspinta”,diretta a equilibrare una situazione compromes-sa dall’incauto e insano agire umano, potrebbesegnarne il destino!

Questi limiti sono essenzialmente:1) le basi naturali, sulle quali poggia ogni pro-cesso di produzione economica;2) lo spazio interiore dell’individuo, i suoi “lega-mi religiosi, sentimentali, personali, famigliari,tribali, irrazionali” (3), da troppo tempo negletti,ma che costituiscono pur sempre, e anzi a mag-gior ragione, la sua naturale dimensione spiri-tuale, il suo “intimo” ambiente vitale.

Ecco perché, dunque, ogni agire umano chepresuma in partenza un rapporto con tali ele-menti, deve aprioristicamente contemplarne ilrispetto: per la semplice salvaguardia del princi-pio di autoconservazione, per il mero istinto disopravvivenza, che dovrebbe assolutamente in-durre lo stesso atto dell’agire a perseguire i suoiobiettivi e le sue finalità, avendo la massima cu-ra nel garantire che esso possa continuare a pro-dursi e perpetuarsi. È questa, secondo me, la lo-gica “Grundnorm” che deve presiedere a ognisvolgimento razionale, per l’appunto, logico!:non procurarsi, per la smania di raggiungere lealtre finalità, un’autodistruzione, imputabileunicamente al fatto di non aver raggiunto quelloprimario di continuare a esistere.

Ed ecco il punto: la suddetta capacità di “au-mentare la ricchezza” dovrebbe coinvolgere, so-stanzialmente, la crescita di tutti i fattori pro-duttivi impiegati nel processo medesimo, taleper cui ognuno di essi viene investito dalla crea-zione aggiuntiva del surplus realizzato: ognunodi essi, cioè, dovrebbe essere compensato per ilruolo svolto nell’opera di trasformazione dellamateria. La natura, intesa come fattore origina-rio, come ambiente fisico vero e proprio in cui sisvolge la produzione, con la rendita; il lavoro,

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(1) Definizione tratta da Compact, Enciclopedia Generale DeAgostini (Novara: De Agostini, 1990), pag. 298(2) Mario Silvestri, “Il capitalismo e l’intellettuale organico”,su Commentari, n. 2, febbraio 1994, pag. 47(3) Massimo Fini, “Ceti medi: da protagonisti a vittime delbenessere”, su Il Giorno, mercoledì 13-11-1996

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anch’esso fattore originario trova il rispettivocompenso col salario (o, a seconda dei casi, conlo stipendio); al fattore capitale corrisponde in-vece, come adeguato corrispettivo, l’interesse;alla capacità organizzativa, consistente nell’abi-lità tecnica di combinare i suddetti fattori pro-duttivi per trarne il risultato economico piùvantaggioso, pertiene altresì il profitto. Ecco,dunque, giustificata una caustica asserzione diSeverino, secondo cui “se il capitalismo non do-vesse avere più come scopo il profitto privato ...[esso] non esisterebbe più” (4). Il profitto si sta-glia come fine dell’azione capitalistica in se stes-sa, trascendendo il mero carattere definitorio dicompenso adeguato al fattore produttivo con-corrente (al processo capitalistico stesso) dellacapacità organizzativa, proprio perché quest’ul-tima è sia la molla propulsiva di tutta l’azioneproduttiva, sia l’espressione metonimica dellastessa (più chiaramente, la capacità organizzati-va detiene, sia sul piano effettuale, che su quelloformale, la primazia su tutti gli altri fattori).

È sicuramente da rimarcare il fatto che il ca-pitalismo, nei tratti in cui è appena stato deli-neato, è un’essenza pura, non artificiosa o inna-turale: cioè a dire, il produrre capitalistico, pri-ma dell’avvento della “Rivoluzione Sovietica” del1917, è sempre stato incontestabilmente l’unicomodo e l’unica via di produzione della societàumana, che è venuto a operare sua sponte, sen-za le elucubrazioni forzate di qualche filosofo ointellettuale. Il capitalismo, la bontà dei suoi fat-tori produttivi che, ben combinati, potevanosenza dubbio produrre ricchezza, erano già co-nosciuti nell’antichità e nel medioevo (bastipensare alla straordinaria espansione del com-mercio e dei traffici dei nostri comuni), periodiin cui i processi di razionalizzazione, specie nel-l’ambito dell’artigianato e dell’agricoltura, si so-no evoluti con una tempistica che ai nostri oc-chi disincantati, oggi, appare irrisoria. Eppureuna crescita di ricchezza per “valore aggiunto”,ancorché esigua, è sempre avvenuta. Ed è ciòche sottolinea il carattere millenario dell’agirecapitalistico!

D’altra parte, l’odierna connotazione del ter-mine “capitalismo” è ideologicamente associataa delle modalità di trasformazione della materiaben precise, vincolate a un fondale storico e aun retaggio giusfilosofico irrefutabilmente de-terminati: gli anni della cosiddetta “RivoluzioneIndustriale”.

“Essa operò imprimendo un incremento bru-sco, di spessore prevalentemente tecnologico, a

quella parte dell’innovazione che poteva essereincorporata nel capitale come valore aggiunto,innalzando quest’ultimo in ogni processo pro-duttivo” (5). In altre parole, è solo con la Rivolu-zione Industriale che “la legge fondamentaledella condotta umana” - per dirla con Einaudi -quella del minimo mezzo, trova la sua massimaapplicazione, la sua più potente ed irrazionaleapologia; si cominciò cioè, grazie all’eccezionaleapparato tecnologico (che d’ora in avanti saràsempre legato a doppio filo con le sorti dell’azio-ne capitalistica), a ottenere, secondo metodolo-gie ben delineate e azioni previamente combina-te e calibrate, il massimo risultato possibile par-tendo da un dato mezzo. E oltretutto cominciò afarsi strada l’aspirazione a implementare ciòche, al momento, era già ai vertici, a migliorareil migliorabile, a sublimare il perfettibile; daquesto punto, la Rivoluzione Industriale segnòla svolta decisiva del moderno modello di produ-zione, perché è in essa che si possono scorgere igermi materiali del coevo “supercapitalismo de-lirante”, di quell’assurdo delirio di onnipotenzache ci conduce via via, inesorabilmente, a calpe-stare “con troppa orgogliosa, precipitosa e ottu-sa sicurezza tutto quanto la sapienza antica, inarmonia con la natura, aveva elaborato in centi-naia di migliaia di anni” (6). Questa primigenia,e molto probabilmente inconsapevole, fede in-concussa nell’illimitatezza di ogni limite non fualtro che l’affermazione, perentoria, di un feno-meno che soppiantava, recidendolo di netto, unandamento che era sempre avvenuto, ma sottoforma di una lentissima evoluzione.

Questa indebita cesura - a cui ancor oggi si le-vano cori di canti trionfali! -, vagliata secondo ilmio particolare angolo prospettico, non è altroche l’aborto spontaneo dello stesso procederecapitalistico: aborto che sarà in seguito gravidodi funeste e nefande conseguenze! Infatti, essaassume i panni di un rigetto totale, conscio o in-conscio che sia, dei presupposti chiave su cui èincardinato l’autentico significato del capitali-smo, perlomeno nei termini in cui è stato speci-ficato. Tale cesura rappresenta il prometeicotentativo dell’uomo occidentale (o dell’uomoche ha accettato di buon grado gli sviluppi del-l’agire capitalistico) di aumentare, con impres-

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(4) Emanuele Severino, Il declino del capitalismo, (Milano:Rizzoli, 1993), pag. 73(5) Mario Silvestri, op. cit., pag. 47(6) Massimo Fini, op. cit.

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sionante ingordigia, la ricchezza materiale aogni costo, oltre ogni barriera, una volontà ma-lata di creare un innaturale valore “aggiunto”.Ed ecco, perché, allo stato attuale e degeneredelle cose è accettabile toto corde la definizionedi “capitalismo” come “volontà che il profittonon sia limitato, frenato, ridotto da alcunché”(7). Nella prospettiva ideale, proposta come lagenuina e naturale essenza dello spirito capitali-stico, invece, tale impostazione sarebbe confuta-bile “ab imis”, perché nel vero capitalismo ilprofitto può e deve crescere (proprio in ossequioal principio del minimo mezzo) sino a dove lopermettano i “limiti ben precisi imposti dall’am-biente”: mai più in là! Come già ripetuto, ciònon implica certo una resa o, quantomeno, unapresa di coscienza dell’indispensabilità di cam-biare rotta, di limitare di un poco gli obiettiviprefissati pur continuando a rimanere nell’alveodella condotta intrapresa: è semplicementeun’azione fisiologica, necessitata e necessaria,alla lunga, per continuare a perseguire quegliobiettivi prefissati! Tant’è che non si può certoessere d’accordo con un’ulteriore tesi di Severi-no che, per suffragare la definizione di capitali-smo suesposta, si appella alla inconciliabilità de-gli “obiettivi complementari”, alla applicazionedella cosiddetta “legge degli obiettivi”: due scopidiversi sarebbero in contraddizione, nel mo-mento in cui non sono coordinati gerarchica-mente fra di loro, ma si arrogano entrambi diessere scopi primari (8). Ambiente (per antono-masia i “limiti ben precisi”) ed economia sana(un capitalismo efficiente), sarebbero tra loroobiettivi stridenti, antitetici, in quanto due fat-tori diversi di un unico scopo: il produrre inces-santemente profitto! Produrre profitto per difen-dere l’ambiente, in sostanza, equivale a rinun-ciare al capitalismo stesso, perché la sua spintateleologica viene frenata, ridotta, infranta; difen-dere l’ambiente per produrre profitto, equivalesubordinare il primo agli scopi del secondo che,di nuovo, metterà a repentaglio la sua stessa esi-stenza, in quanto continuerebbe a mortificare lebasi ambientali su cui si regge.

Ma nella situazione di “capitalismo puro”,questo ragionamento non può essere applicato:visto che la difesa dell’ambiente (= non oltrepas-sare i famosi “limiti”) è predicabile all’efficienteagire capitalistico.

Per introdurre un paragone giuridico, si po-trebbe fare il caso di un procedimento giurisdi-zionale che deve perseguire la giustizia, a ognicosto; ma nel far questo, viene a contatto con

quei pesi e controbilanciamenti indispensabiliaffinché la “macchina” possa operare con effica-cia. Forse che tale obiettivo possa essere frenato,limitato o ridotto, per la presenza di garanziecome l’habeas corpus, il principio del contrad-dittorio, il diritto alla difesa, l’irretroattività del-la legge penale? Forse che l’efficienza e la pro-duttività del perseguimento della giustizia sianomortificate dalla presenza di questi palladii che,per loro natura, contribuiscono e concorrono al-la realizzazione del fine (di più, lo risolvono inessi)? In ultima analisi, perseguire la giustiziaper rispettare tali garanzie, non coincide col ri-spettare tali garanzie per conseguire l’agognatagiustizia? Mi pare ovvio quale sia la risposta. Equesto in relazione al fatto che tali tutele sono ilimiti fisiologici nel perseguimento della giusti-zia: senza di esse non vi può essere, già ex ante,giustizia! Così come senza rispetto dei limiti fi-siologici nel perseguimento del profitto, non vipuò essere capitalismo!

Ma questa, mio malgrado, è solo una pia illu-sione! Il capitalismo nei termini prescrittivi eideali qui enunciati, probabilmente non è maiesistito e se, nel “limbo primigenio” dell’azionemedievale, ne contenesse perlomomeno i germi,questi sono andati distrutti, adulterati, profanatidall’improvvido tradimento della RivoluzioneIndustriale. A prescindere dal fatto che l’idealitàdi un concetto è tale proprio perché paradigma-tica, superiore e quindi difficilmente raggiungi-bile; ma nel nostro caso, nessuna definizione de-scrittiva del fenomeno si avvicina lontanamentealla sua “essenza pura”.

Stando così le cose, com’è ancora possibile af-fermare che non esistano più ideologie e chenon vi siano più tracce di massificazione, quan-do l’irripetibilità, la dignità, l’unicità dell’indivi-duo sono, senza tema di smentita, frustrate esvilite dall’anonimato di un’istituzione, di un si-stema irrispettoso e cinicamente votato alla di-struzione?

Com’è possibile affermare che il periodo dellamassificazione è concluso, quando l’uomo vieneestraniato da se stesso, viene, se non proprio rei-ficato, messo nella deprecabile condizione di do-ver competere con gli oggetti e la realtà mate-riale da lui prodotti? E questo grazie al fattoche, per anteporli a tutto e a tutti, si vede irri-mediabilmente ricusata e sottratta la possibilità

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(7) Emanuele Severino, op. cit., pag. 94(8) Ibidem

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di disporre e godere dei suoi spazi vitali indispo-nibili (ambiente esterno e spazio spirituale), diquel suo costituzionale e fisiologico bisogno direalizzare e realizzarsi all’interno di quei “benprecisi limiti” che gli sono consoni.

Corollario di tutto ciò diventa, così, anche l’ul-timo esiziale tentativo di realizzare l’omogeniz-zazione assoluta, con la sua peculiare mozioneideologica di “reductio ad unum” di ogni aspettoesistenziale - un unico stato, un’unica nazione,un unico grande popolo, ma soprattutto un uni-co immenso mercato -: e certamente ciò non po-trà non avere ripercussioni (i primi effetti co-minciano già a intravvedersi) sulla sacralità delleesperienze individuali. Come farà mai il borghe-se, l’uomo occidentale in genere (ma non solo) -se la politica mondialista in atto dovesse avere ilsopravvento - ad affrancarsi da quell’ottica mo-struosa, assurdamente cieca di fronte alle realiesigenze della persona, (che non è solo un’anoni-ma consumatrice, schiava del sistema), capace diinibire l’originalità e la creatività di ognuno? Es-sa non potrà certo appagare queste potenze im-materiali cercando di sublimarle col varcare i li-miti di ciò che ancora ci separa da ciò che non sipossiede: “l’ultima versione accessoriata di asciu-gacapelli” proveniente dal luogo più impensabiledel globo, anziché la “nuova linea di prodotti dibellezza per il proprio cane” (9)!

Allora, proprio per la solidarietà dimostratadal produrre capitalistico nei confronti di certetendenze di fondo, massificanti e omologanti,non converrà riflettere su ciò?: “dal fatto che ilcapitalismo sia sorto spontaneamente e non siail prodotto teorico di qualche intellettuale nonsi può infatti concludere che esso sia per ciòstesso immune dal carattere ideologico checompete alle costruzioni teoriche degli intellet-tuali” (10).

Assecondamento/sfruttamento del fenomenocapitalistico da parte della dittatura statualista

Un’analisi rigorosa e critica, che non vuolecerto essere tacciata di manicheismo o, ancorapeggio, di ideologismo non può esimersi dall’af-fermare che il capitalismo, nella sua versione ef-fettiva, sebbene adulterata e profanata rispettoalla sua connotazione ideale, ha contribuito allaproduzione della ricchezza, almeno dal punto divista materiale. È un fatto lampante, cioè, cheesso, col trascorrere dei secoli, e in special modonegli ultimi decenni, ha concorso in misura no-tevolissima a innalzare e a migliorare il tenoredi vita di tutti gli individui che si sono affidati e

che si affidano ai suoi processi di trasformazionedella materia. Esso, e soprattutto la forma di or-ganizzazione economica che è stata definita daMilton Friedman “capitalismo competitivo” (11)(ovvero l’organizzazione attraverso imprese pri-vate che operano in un mercato libero), - un’ar-ticolazione specifica, un particolare modello diconcertazione all’interno del caleidoscopicomondo di forme e procedure dell’agire capitali-stico, in concreto difficilmente realizzabile -avrebbe avuto e avrebbe un ruolo fondamentalenel promovimento della libertà. E questo conmodalità peculiari:1) la libertà economica, che la struttura ha per-messo di raggiungere, è essa stessa componentedella libertà in generale;2) la libertà economica, sovvertendo la posizioneantica, è un mezzo necessario per raggiungeregli altri tipi di libertà, politica o civile che sia.Infatti essa, avallando una separazione netta trapotere economico e potere politico,”riduce i co-sti delle stravaganze politiche, e garantisce mol-te fonti indipendenti di opposizione potenzialealla soppressione della libertà” (12).

È d’altra parte vero che lo stesso modello, gra-zie soprattutto al formidabile apparato tecnolo-gico di cui si avvale, ha cooperato decisivamentea una quanto mai brusca accelerazione del livel-lo di concorde discordia insito in ogni “societàcomplessa” dell’Occidente. Proprio perché è soloin un quadro di libertà e di sana competizioneche la pluralità dei sistemi informativo - norma-tivi può prodursi in una proficua “lotta” e per-mettere all’uomo - demiurgo di mettere a fruttole proprie capacità, “come cercatore e produtto-re di conoscenza e come creatore di nuoverealtà” (13). Il capitalismo ha vertiginosamenteacuito ma, allo stesso tempo, assicurato - inquanto esso stesso portatore di quei valori - laconcorrenza con altri sistemi informativo - nor-mativi; essi, secondo un autorevole parere, sa-rebbero quattro, oltre all’economia stessa: lascienza, la tecnologia, il diritto e l’orientamento,inteso come insieme delle etiche e delle conce-zioni esistenziali (14). In questo quadro, la com-

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(9) Massimo Fini, op. cit.(10) Emanuele Severino, op. cit., pag. 122 (11) Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”, su Commenta-ri, n. 4, aprile 1994, pag. 23(12) Ibidem, pagg. 23 ÷ 24(13) Enrico di Robilant, “Gli eccessi della produzione legisla-tiva”, su Commentari, n. 6, giugno 1994, pag. 17(14) Ibidem, pag. 17

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petitività non sarebbe altro che l’esplicitazionepropositiva di un processo volto alla conoscenza,all’indicazione di ciò che sia opportuno o nonopportuno fare, di ciò che potrebbe essere op-portuno tentare.

Ed è anche in questo contesto che si affermaquel fenomeno di assecondamento/sfruttamen-to, da parte dello stato-apparato, della logica in-cistata nel sistema produttivo: la sua brillantecapacità informativo-normativa, volta tutta all’e-sterno (proprio perché, paradossalmente, non èin grado di salvaguardarlo dai suoi caratteri diautodistruttività!), affiancata dall’altrettanto no-tevole capacità dei sistemi scientifici e tecnolo-gici, viene barattata da un apparato ingordo eautocratico, in cambio di favori illusori e di pre-stigio transeunte. Oppure, quando tale compe-tenza dei sistemi non viene mercificata, mone-tizzata - secondo l’unico parametro concepibileda ogni tipo di sistema economico - è obbligataad arrendersi alla strapotenza, alla tirannide ot-tusa e irrazionale dello statualismo. Mi spiegomeglio: lo stato attuale (e ciò è valido a maggiorragione per la situazione italiana) è convintoche, in un coacervo conflittuale come quello de-scritto, non sia possibile alcun ordine, alcun as-sestamento, alcun equilibrio, a meno che essonon derivi espressamente dalla sua logica supe-riore. Ecco dunque perché lo stato si arroga,con dispotismo indicibile, la prerogativa di potercontrollare, poliziescamente, ogni settore dellaconvivenza sociale: perché, appunto, l’unico or-dine autentico, effettivo, a cui si deve soggiacereè quello statuale, l’unico ad essere in grado diovviare al rapidissimo mutare delle situazioni edei problemi nella cosiddetta società complessa.La dittatura statuale, non giustificabile neppurein un periodo, come questo, di stato sociale - in-terventista - è omnicomprensiva e omnipervasi-va: in quanto essa non può concepire - o meglio,non vuole concepire (per sordidi interessi dibottega) - altri assetti che, spontaneamente e deltutto naturalmente, sarebbero creati dai conso-ciati nella loro operatività con l’osservare deter-minate regole, generanti “aspettative di confor-mità”. E tali assetti deriverebbero giustappuntodal fatto che le decisioni e l’operatività degli in-dividui siano permeate e condizionate dalleinformazioni prodotte dai sistemi competitivifluidi. In altre parole, tentare di frenare la lororeale e leale conflittualità garantisce allo “stato-padrone” la possibilità di inibire ulteriormentel’uomo nelle sue scelte, di parare, per quantopossibile, le potenziali sacche di sovversione del-

le posizioni di potere ormai acquisite che, casomai, avessero scaturigine da una situazione dilibertà e concorrenza. La capziosità dello statua-lismo è, però, quantomeno pari alla sua totaleinefficienza e inadeguatezza nel gestire la situa-zione. Secondo il già citato Enrico di Robilant,l’esito di tale folle pretesa di esclusività è neces-sariamente votato all’insuccesso proprio per:a) l’inferiorità conoscitiva dell’apparato;b) la difficoltà nel reggere il passo con l’evolu-zione della conoscenza operata dai grandi siste-mi competitivi;c) la soppressione di istanze creative e libertariedei consociati.In ogni caso, gli effetti della dittatura dello sta-tualismo, coincidente con l’ipertrofia normativa,con un apparato legislativo pletorico e fonte diincertezza, consisterebbero sostanzialmente:a) la mancanza di limiti alla produzione del suodiritto;b) un estremo paternalismo giuridico;c) l’imposizione di una pretesa “giustizia socia-le”, “intesa come insieme di situazioni di arrivodi intraprese economiche e ... dell’operatività deiconsociati,che corrispondano a criteri di valuta-zione stabiliti arbitrariamente dal legislatore, ...o come redistribuzione delle risorse della so-cietà secondo figure di giustizia costruite dal le-gislatore” (15); e tutto questo, come in una sortadi interminabile circolo vizioso, non può checondurre a un inevitabile sbilanciamento degliequilibri economici, monetari, oltre a un’inelut-tabile erosione dell’integrità delle finanze stata-li. In soldoni, è in questo modo che si materia-lizza parte (l’altra è dovuta all’endemica disone-stà dei politici italiani!) del vampiresco dispoti-smo fiscale e del debito pubblico autofertilizzan-te!;d) il controllo globale e capillare della vita deiconsociati.

Auspicabilità di una nuova era per lo spirito capitalistico

Si profila così una evidente aporia: il capitali-smo come Giano bifronte. Da un lato esso siprefigura come procedimento che, essendo to-talmente castrato in sè, è fatalmente orientatoalla distruzione dei suoi medesimi meccanismi,nonché, come consequenziale epifenomeno, allamassificazione più complessa e subdola; dall’al-tro, invece, si prefigura come sistema normativo

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(15) Ibidem, pag. 20

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- informativo estremamente valido, virtualmen-te capace, nel caso si realizzassero alcune condi-zioni, di re-impostare i presupposti lacerati, disuperare questa perniciosa fase di impasse. Cosaintenderei dire con tutto ciò? Che il capitalismo,sostanzialmente e pur nello stato attuale, avreb-be le carte in regola per ingenerare un circolovirtuoso che, se non proprio redimerlo per il suopeccato originale, lo possa condurre a una re-definizione dei propri ruoli, a un recupero deipropri obiettivi.

Giacché, in quella competizione positiva congli altri sistemi - una volta lasciato libero dallepastoie stataliste, dai miti deliberati, quanto in-teressati, “della pianificazione economico socia-le”, “della legislazione uniformante e appiatten-te” - può tentare di auto-designarsi come proce-dura autopoietica ed esocostruttiva. Cioè a dire,il capitalismo, pena la sua stessa sopravvivenza,non potrà far altro che assecondare quelle spin-te, sempre più vistose, volte a una vera e propria“rifondazione etico-culturale...e [ad] una riela-borazione tecnico-giuridica assai più sintetica e... più seriamente garantista che riguardi insie-me i diritti della persona, dei cittadini e delle lo-ro comunità senza discriminazioni ideologiche,sociali ed economiche a priori” (16).

Proprio perché solo in un contesto di normepositive chiaro, certo, sintetico, ogni sistema po-trà informare l’altro proprio in merito alle solu-zioni migliori da intraprendere: e quest’ultimo,strutturalmente propenso all’apertura, cercheràdi istituzionalizzare, incentivare, qualificaretutte le energie positive insite nel proprio alveoo provenienti dall’esterno. Quest’ottica collimaperfettamente con la scontata accettazione degliassetti sociali spontanei, di quei modelli norma-tivi generanti “aspettative di conformità” che ilcapitalismo potrebbe anche realizzare se, nell’a-pertura verso gli altri sistemi accoglierà i sugge-rimenti informativi che da essi promanano “inquanto essi servano al mantenimento, alla pro-tezione e al progresso degli interessi propri dellavita sociale”: e quindi del suo stesso esistere! So-lo quando esso riuscirà a rendersi consapevole

di essere un sistema creativo aperto che, oltre acreare ricchezza, crea anche informazioni, idea-lità, progetti e che essi sono mutuabili con l’e-sterno, potrà realmente avere idea del piano in-clinato sul quale è ormai abbarbicato! L’agire ca-pitalistico potrà cioè mettere in discussione lasua propria operatività, riplasmandone i presup-posti: “prelevare” dal diritto, dalla morale deglispunti utili, avvalersi proficuamente della scien-za e della tecnica per continuare a produrre pro-fitto, vale a dire in ultima analisi libertà econo-mica, preservando però obbligatoriamente ilprocesso di “riproduzione sociale” e quello deisistemi informativi ad essa preposti. Questa im-plica la necessaria possibilità per l’individuo dipoter concretare, normativamente parlando, ciòche spera, proprio per il fatto che il suo procedi-mento costitutivo-tutelativo della “poiesi” delleaspettative e dell’autoregolamentazione degliinteressi può reggersi sull’interazione positiva esinergica con l’ambiente esterno, vincolato a suavolta a rigidi equilibri e a proficua competizio-ne. La distruzione di qualsiasi aspettativa, diqualsiasi “individualità del volere” equivale cioèalla distruzione dell’individuo singolo, come ladistruzione delle basi naturali equivale alla di-struzione del capitalismo o, ancora, la distorsio-ne di certi meccanismi strettamente economici(erosione dell’integrità delle finanze pubbliche,instabilità della moneta, ...) coincide con la na-turale distruzione della socialità statale. Tuttocioè mi pare legato a doppio filo: tutto potrà,forse, essere ridimensionato in questa nuovaprospettiva dell’informazione competitiva, liberae, soprattutto, costruttivamente aperta. Ci si do-vrà rendere conto che “non è vero che tra la mo-rale - da coltivare nel foro interiore - e l’interes-se - da perseguire nelle relazioni esterne - vi sial’abisso: di mezzo c’è l’etica e la cultura, che è ...un’abitudine etica ereditata” [M. Veneziani].

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(16) Ettore A. Albertoni, “Costituzione dimezzata”, su la Pa-dania, 30-03-97, pagg. 1 ÷ 7

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Sceglievano due giovani, che camuffavanouno da uomo e uno da donna in una for-

ma strana; il vestito ... era tutto di licopodio(specie di muschio), compreso il casco, sul qualeera apposto un ramo di ciliegio in fiore, il primoalbero da frutto che fioriva in questa stagione.Una piccola pianta di betulla, con le sole foglieappena sbocciate in cima, gli serviva da bastonee come scudiscio contro le donne, dopo di avercon esse fatto i primi giridi ballo.

Come un orso della fo-resta scendeva caracol-lando dai masòn, i grandifienili isolati, dove segre-tamente era andato a ve-stirsi, e, aprendosi la stra-da fra i cespugli, entravanella piazzetta del villag-gio, sotto gli archi di be-tulla, accolto festosamen-te dalla folla, che lo atten-deva con la banda, nellaquale non mancavano maiil clarinetto, il bombardi-no e il trombone.

Il primo ballo campe-stre era fatto dai due, poil’uomo invitava le donne ela donna gli uomini.

Un tempo l’Om Salvàre-ch veniva accompagnatoda due bambini, acconcia-ti alla stessa maniera, edera preceduto da un ra-gazzo, con la testa infilatain una maschera di legno- “i olt de Riva” (ossia “ivolti di Rivamonte”) - chelo faceva assomigliare aduno gnomo, di piccolastatura, deforme nell’a-spetto, che, a cavallo di

un asino, batteva sul rozzo tamburo il suo tamtam.

Veniva osservata scrupolosamente la legge de-gli uomini della selva, e pertanto nessuno deipresenti doveva conoscere il nome dei giovanicosì mascherati, oppure ne doveva mantenere ilsegreto, pena le busse; ma quando qualcuno, trala folla, spinto dalla curiosità e dall’interesse,pronunziava il nome del protagonista, allora

l’incantesimo finiva, l’uo-mo della selva ritornava aimasòn, a deporre il suo ve-stito e la festa, che avevainizio al primo pomerig-gio, si protraeva fino a tar-da sera all’osteria.Certamente con questatradizione si voleva festeg-giare il ritorno della pri-mavera e bisogna conveni-re che essa aveva originipreistoriche ...”.Sull’altura di Glaubergnell’Assia nell’estate 1996è riemersa una sepolturaprincipesca celtica ecce-zionale, contornata da re-lative statue steli.Il principe portava la blatt-krone (corona guarnita difoglie) con due lobi similiai cotiledoni di legumino-sa (germogli).Questa figurazione regaleche già conoscevamo inrappresentazione da vari

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Dal Principe Germoglio agli Uomini Verdi

di Davide Fiorini

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1) Waldalgesheim (piastrina)2) Schwarzenbach (piastrina)3) Pfalzfeld (stele)4) Reinheim (torque)5) Glauberg (statua stele)

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materiali celtici, risulta essere uno sviluppo informa umana della palmetta celtica (alberello).

Nel Torque di Rein Heim possiamo ben vedereun “principe blatt-krone” in stile più realistico,e con prospettiva migliore.

Nella lamina d’oro di Swarzen Bach si capiscemolto bene il passaggio dalla palmetta al sovra-no reale, nella permanenza delpuntale a losanga sulla figuraumana.

Si tratta di un vero gwidd-gen, cioè figlio della pianta.

A questa notizia, immediata-mente mi sono venute in men-te due figure dei carnevali alpi-ni lampanti nella mente, chenon vanno confusi con i moltosimili spiriti dei covoni tipo i“cloggen” tirolesi o la “paglia-ra” molisana.

L’Uomo Verde che il 25 aprile(S. Marco) scendeva ai monti diAgordo coperto di muschio li-copodio portava sul casco ilprimo ramo fiorito e teneva co-me scettro (o bastone) una pic-cola betulla col primo germo-glio (ar. tr. pop. - 1898 E. Ca-sal).

Anche i plummari (v. tobloom - sbocciare) della Carniaportavano i copricapi coi ger-mogli, da quanto ricordo daifolk giornali pubblicati a S. Da-niele del Friuli.

In quasi tutti i carnevali alpi-ni, dagli Spadonari piemontesi, a Bagolino, ai“matazin” del Comelico, troviamo i copricapifioriti.

Negli Uomini Verdi della tradizione inglese re-cente, troviamo abbastanza presente la “blatt-krone”.

In Biblioteca Ariostea a Ferrara, esiste un ma-noscritto con molti disegni di cappelli fioriti re-datta per i carnevali degli Estensi.

Da questi filoni viene l’arte e i “vertunni”composti di ortaggi dell’Arcimboldo.

Questi collimano perfettamente con le canzo-ni dell’Ortolano, maschera a vasta diffusione pa-dana dei carnevali e dei maggi rinascimentali.

In G.C. Croce l’Ortolano diceva:“Donne mi chiamo il maturo”.In G. Nasco:“O tenerella come la lattucia quella bocca so-

praffina sempre dice ciucia ciucia”.Nel maggio contemporaneo veneto-istrioto

l’Ortolano maggio diceva:“Un giorno era aperto il mio giardino tutte le

meio rose i m’ha robato”.Nella folk balladry padana contemporanea vi

sono due filoni discendenti dall’Ortolano:1) quello della figlia che chiedealla madre tutti gli ortaggi ealla fine riceve in regalo l’Or-tolano2) canzoni del tipo il piemon-tese Verdolinetto e la padanaBarbaiola (insalata riccia).In sintesi possiamo associare ilprincipe-germoglio della tradi-zione celtica a quegli UominiVerdi come quello di Agordo ocome certe raffigurazioni bri-tanniche.Diceva il Poliziano “ben vengamaggio, il gonfalon serlvag-gio” (la frasca).Non possiamo escludere che“Carlin di Maggio” che oggi sitrova nel Maggio di questuaemiliano non sia stato un tem-po un Uomo Verde:“L’è ki Carlin di magiocon l’erba e con le fogliela rosa e la viola”.Questi personaggi sarebbero ilsubstrato primario, mentre gliOrtolani e i “Vertunni” sareb-bero un fenomeno rinascimen-tale conseguente.

Di questo genere dovrebbe essere anche il bu-rattino “Fagiolino”, molto amato in Emilia, epure Brighella.

Il nome personale “Verde” è presente nell’areapadano-alpina fin dal medioevo e bisognerebbeindagarne le vicende.

Bibliografia minima❐ Anonimo, Sir Gawain e il Cavaliere Verde,Adelphi 1986❐ J. e C. Bord, Britannia misteriosa, Sugar Co1972❐ J. Filip e C. Eluere, I Celti, pag. 102 e pag. 54❐ Fondo Querini Stampalia, L’aria dell’ortolano❐ V. D’Ancona, Storia della poesia popolare,1878 Livorno p. 437❐ E. Casal, arch. trad. pop., Il carnevale di Ca-prile,1898

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6) Uomo Verde Agordino

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 51

Il sale era un bene prezioso, non solo perchéera un ingrediente necessario per rendere icibi più saporiti, ma soprattutto perché per-

metteva la conservazione di molti generi ali-mentari. Il suo commercio era dunque fonda-mentale e la necessità di assicurarlo in tutte lestagioni, portò addirittura a progettare untraforo alpino nel XV secolo

Nella seconda metà del XV secolo, LudovicoII marchese di Saluzzo aveva fatto costruireuna strada che attraverso la Valle del Po si iner-picava fino al Colle delle Traversette (m. 2950),oltre il Pian del Re e sotto il Monviso. Dal collela strada discendeva gradatamente in territoriofrancese, entrando nella Valle del Guil e poinella celebre valle del Queyras, che penetravain Provenza diventando un’arteria di transito difondamentale importanza.

Per rendere più agevole il valico nei lunghiperiodi invernali, il marchese Ludovico IIavanzò l’ipotesi ardita di perforare la monta-gna, creando così un passaggio percorribile inogni stagione. Popolarmente questo traforo èancora detto la “galleria del sale”, a confermadell’importante ruolo svolto dal prodotto nell’e-conomia dell’epoca: un prodotto per il quale,come la storia ci dimostra, si potevano anchescatenare delle guerre.

Il progetto sostenuto con forza da LudovicoII, in realtà doveva trovare un’affermazione an-che sull’altro versante, in cui da sempre siguardava con una certa diffidenza quanto acca-deva al di qua delle Alpi. Anche allora la buro-crazia doveva seguire il proprio corso: pasaronodue anni prima che Ludovico II potesse racco-gliere la risposta invano attesa dal padre. Il 23gennaio 1478, Jean de Daillon, signore di Ludee governatore del Delfinato, inviò al parlamentodi Grenoble una lettera in cui si comunicavaufficialmente l’assenso del re di Francia al pro-getto. Il traforo poteva essere iniziato.

I lavori iniziarono solo nell’estate del 1479,in quanto le eccezionali nevicate dell’invernoprecedente avevano reso impraticabili le zonepiù elevate. Il ritardo creò qualche divergenzatra il Delfinato e il Marchesato. Il procrastinarsidella data di inizio delle operazioni di scavo in-dusse il parlamento di Grenoble a ricordare almarchese che avrebbe dovuto restituire il con-tributo francese di 6000 fiorini, se i lavori nonfossero stati conclusi entro diciotto mesi. Inrealtà i tempi di esecuzione e i termini dell’ac-cordo furono rispettati.

Dalle fonti apprendiamo che nei primi tempila galleria era percorsa solo da muli con il lorocarico, costituito nella prevalenza dei casi dasale. Il prezioso prodotto era estratto dalle mi-niere di salgemma dell’Etang de Berre sul Ro-dano e trasferito con lunghe carovane fino alleAlpi. Il termine dialettale “bera”, utilizzato inValle Po per indicare il sale, deriverebbe pro-prio da quell’Etang de Berre: atavica fonte dellaquale ogni anno giungevano nel Monferrato5300 olle di prodotto. Infatti era consentital’importazione del sale solo fino a quel quanti-tativo, dietro il pagamento di una tassa di ottofiorini ogni cento di quelle transitanti nel Per-tuis.

Fino al 1588, quando Carlo Emanuele I sot-trasse il Marchesato di Saluzzo ai Francesi, lagalleria fu sfruttata principalmente con fini mi-litari. Il duca sabaudo, consapevole che quella“Porta” era un accesso troppo facile per le trup-pe nemiche, inviò molti uomini al Colle delleTraversette con l’incarico di ostruire il Pertuis.

Dopo fasi alterne, in cui la galleria fu riapertae chiusa ad intervalli irregolari, ci volle la Rivo-luzione francese per ritrovare l’interesse per ilPertuis: il 2 agosto 1798 la comunità transalpi-na di Abriés, propose alla comunità di Crissolodi ripristinare la galleria. Prima di intraprende-re qualunque tipo di impresa si decise, di co-

Una grande impresa di ingegneria del XV secolo sulle Alpi Marittime

1479: il primo traforo alpinodi Massimo Centini

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mune accordo, di affettuare alcuni sondaggi inloco per conoscere l’effettivo stato del comples-so. Per stabilire a quanto ammontasse il quan-titativo di roccia franata all’interno della galle-ria, si ricorse ad una empirica “prova acustica”.Fu sparato “un coup de pistolet” in uno dei duesettori del buco, che fu perfettamente inteso daun coraggioso ascoltatore postosi dalla parteopposta delle galleria... Pertanto, si stabilì cheil cumulo dei detriti da smantellare non doveva

essere tale da rappresentare un problema. Peròl’impresa fu sospesa a causa delle guerre.

Solo nel 1973, Italia e Francia, di comune ac-cordo riaprirono il “Buco del Viso”. Da allora lapiù antica galleria della storia piemontese è og-getto di interesse e curiosità. Al suo internotransitano alpinisti ed escursionisti, seguendo isolchi lasciati nei secoli dai convogli carichi disale e da tanti uomini armati lanciati verso laValle del Po.

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Le considerazioni svolte da Guglielmo Piom-bini sui testi del Professore statunitense Ru-dolph Rummel offrono numerosi stimoli per

ulteriori approfondimenti. Il docente dell’Uni-versità delle Hawaii ha sostenuto, nelle sue ope-re, che lo Stato nazionale moderno è genetica-mente portato a trasformarsi, prima o poi, in unserial-killer di dimensioni inimmaginabili, talida far impallidire qualsiasi criminale da strada.Lo dimostrano i dati numerici, che Piombini ri-portava nel suo articolo, relativi alle stragi dimassa (veri e propri “democidii”) compiute dagliStati sulle popolazioni civili nel corso del XX se-colo: 62 milioni i morti nella sola Russia per lecampagne di repressione comuniste (in partico-lare quelle staliniane), 35 in Cina, 20 nell’Euro-pa occupata dai nazisti, e così potremmo conti-nuare a lungo.

Lo studioso bolognese, che è anche uno deglianimatori della lista “Padania liberale e liberta-ria”, ha scritto che le tesi di Rummel possonoessere un valido contributo verso la sottrazionedel potere dalle mani di oligarchie stataliste everso la destrutturazione degli Stati attuali intante piccole comunità volontarie legate da pa-cifici rapporti di scambio commerciale e cultu-rale. Insomma, dimostrare i guasti e le malefatteepocali delle compagini statali è un modo perdirigere gli uomini del 2000 verso un mondo incui sia l’individuo ad avere la prevalenza rispettoalle istituzioni pubbliche e sovranitarie.

Sulla scorta di queste riflessioni vorremmoproporre alcune domande e questioni relativealla natura potenzialmente tirannica e sangui-naria degli Stati nazionali moderni (intesi comeperfezionamento ultimo delle istituzioni statua-li). Non ci stupiremmo se alcuni lettori, di fron-te alle cifre del Professor Rummel, ponesseroquesta obiezione: è vero che gli Stati hanno pro-vocato milioni di morti nella popolazione civile,ma si tratta di eccezioni dovute all’involuzionetirannica dei Paesi dove si sono verificate quellestragi. Si tratta di una affermazione che prescin-de da un dato fondamentale, e cioè che quegliStati sono una delle tante espressioni di istitu-

zioni pubbliche sovranitarie manifestatesi nellastoria. Inoltre bisogna considerare il fatto che lasocietà internazionale non ha mai disconosciutoi regimi di cui si sta parlando, proprio perchè ildiritto internazionale non distingue gli Statisulla base del tasso di democraticità, ma suquella della “effettività” del potere. Nelle relazio-ni internazionali si guarda, quindi, alla effettivacapacità di dominare e controllare un territorioda parte di istituzioni, piuttosto che alla propen-sione al rispetto dei diritti naturali dimostratada quelle medesime istituzioni.

Quest’ultima notazione offre lo spunto perpassare ad una delle questioni più importanti ri-guardanti la natura potenzialmente repressivadegli stati. Nel corso della loro affermazione sto-rica, le strutture assolutistiche e sovranitariehanno elaborato una teoria perversa e, sottomolti aspetti, assurda: il “monopolio dell’usodella forza (ovvero della violenza)”. Servendosidi tale concezione i giusisti statalisti hanno so-stenuto che soltanto il principe, il monarca as-soluto e, nel nostro secolo, il governo abbiano ildiritto di disporre della forza militare e polizie-sca per difendere o reprimere i cittadini. Sullabase di questa teoria i governi hanno sottratto aisingoli individui il diritto di portare armi, di di-fendersi singolarmente, di agire in caso di emer-genze. Queste privazioni sono state peraltro giu-stificate da correnti filosofico-giuridiche addu-cendo il pretesto che, in mancanza di un unicodetentore della forza, i singoli cittadini si sareb-bero scannati letteralmente.

La teoria del “monopolio dell’uso della violen-za” si è dimostrata perversa perchè, come mo-strano i dati di Rummel, ha prodotto milioni dimorti e, per giunta, non ha affatto difeso i dirittinaturali dei singoli (proprietà, libertà e sicurez-za): milioni di uomini hanno visto espropriati ifrutti del proprio lavoro, moltissimi sono statirepressi e schiacciati per le idee religiose, politi-che e per i costumi di vita; tutti, infine, siamoquotidiani testimoni dell’incapacità delle strut-ture poubbliche di garantire la sicurezza nellecittà e nelle comunità: la delinquenza è padrona,

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Diritto di resistenzadi Alessandro Storti

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i malviventi restano impuniti.Tuttavia, il nodo centrale della questione è che

l’affidamento ai governi e agli Stati della titola-rità unica dell’uso della forza ha sottratto agliindividui (e alle comunità volontarie) il più im-portante diritto naturale: il diritto di resistenza.L’involuzione tirannica delle istituzioni statualiinfatti non è una eccezione, come qualcuno po-trebbe pensare, ma la naturale conseguenza diuna politica accentratrice, dispotica e portata atogliere ai cittadini il diritto di resistere allorchèlo Stato sia in procinto di degenerare in tiranni-de. Lo possiamo vedere benissimo oggi, qui inPadania. Che cosa possono fare le nostre comu-nità, che cosa possono fare i cittadini padani se-cessionisti di fronte alla ventilata repressionestatale? Di quali mezzi disponiamo per resisterealla minaccia poliziesca agitata quasi quotidia-namente dalle massime cariche della Repubblicaitaliana? Dobbiamo per forza subire un potereche non riconosciamo e che vuole imporre leggi

che violano i nostri diritti naturali (tassazionepredatoria, invasione legalizzata di criminali ex-tracomunitari, redistribuzione delle nostre ri-sorse a popolazioni e gruppi parassitari) ?

Queste domande devono necessariamente la-sciare spazio ad altri interrogativi che stanno amonte e sui quali bisogna aprire una seria rifles-sione. E’ giusto che i cittadini non possano por-tare armi liberamente? E’ giusto che le comu-nità non possano costituire milizie al fine di di-fendersi? Negli Stati Uniti, terra della libertà,tutto ciò è possibile, grazie anche all’esplicitaprotezione costituzionale garantita dal SecondoEmendamento. Là i teorici dei diritti naturalihanno costruito una struttura istituzionale incui l’individuo è controllore sull’operato delloStato e in cui i diritti dei singoli sovrastano lefacoltà riservate al potere pubblico. Sebbene lasituazione sia qui completamente rovesciata, idiritti naturali valgono anche se non scritti e ri-conosciuti. La resistenza non fa eccezione.

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Adelina - Delina - DelìnaAdelio - Delyo, Delia - Déglio, DéliaAlfonsino - Foncyino, Foncyina - Foncìno,

FoncìnaAlfonso - Foncye - FoncëAlfredo - Alfré, Fredo - Alfré, FrédoAmbrogio - Anbrwaze, Breeze - Anbruàsë, BréesëAntonio - Tuane, Tueno - Tuànë, TuénoAttilio - Tiyo, Tilya - Tìyó, TigliàAugusto - Goeste - GöstëBiagio - Bleeze - BlèesëCamillo - Kanicye, Kamile - Canìcë, CamìlëCipriano - Pien, Siprien - Pièn, SipriènCirillo - Cyilo,Cyila - Cìlo, Cìla - Clemente - Kleimen, Kleimensa - Climèn,

ClimènsaClementino - Mancyino Mantina,Tina -

Mancìno, Mantìna, TìnaClemenza - Mancya, Mancyeta - Mància,

MancètaDionigi - Deinì - DinìElisa - Lijya - LìigiaEmerico - Miyì, Merì - Miyì, MerìErnesto - Neto, Neste, Nesta - Nèto, Nèstë, NèstaEugenio - Jyenyo, Jenya - Gégno, Gégna

Feliciano - Cyien - CiènFelecino - Cyino, Cyina - Cìno, CìnaFerdinando - Nando, Fernan, Nanda - Nàndo,Fernàn, NàndaGiacomo - Jaake, Jakeimo - Sàachë, SachímoGioachino - Jyacyen - GiacènGiulio - Jyile, Jyoelia - Gìlë, GiöliaGiuseppe - Zyozé - JoséGustavo - Tave - TàvëIsaia - Zaie - SaíëIsalina - Zalina - SalínaIsidoro - Zidore - SidórëMarcello - Cyel, Cyela - Cèll, CèlaMargherita - Magita - MaghìtaMaria - Marie - MaríëMatteo - Macyoe - Maciö’Maurizio - Mouyiicye - MoyìcëMichele - Mecyei - Meciö’Napoleone - Poyon, Naporión - Poyón, NaporiónNestore - Nestoo - NestóóPantaleone - Pantion, Tion - Pantión, TiónStefano - Cyoene - CiönëVenanzio - Nancye, Venanse - Nàncë, VenànsëVirgilio - Jyio, Vijyo, Jyia, Vijya - Gío, Vìgio, Gía,

Vìgia

IPadani delle ultime generazioni sono stati rapi-nati anche dei nomi (e a volte dei cognomi):spesso italianizzazioni banalizzanti o nomi del

tutto estranei alle nostre culture hanno sostituitonomi antichi e amati. Anche il ridarsi nomi nostrio battezzare i nostri figli con nomi padani è un se-gno forte di libertà. Continua l’opera di informa-

zione con l’onomastica Arpitana: a ogni nome aogni nome in toscano, viene affiancata la versio-ne con grafia originaria (in corsivo), seguita dal-la grafia unificata padana. La grafia arpitana èstata redatta con la collaborazione di JosephHenriet (Valle d’Aosta), quella padana da Anto-nio Verna.

I nomi della nostra genteLa marka de l’esklavajo ul et de prejei la lenva de l’opresur

(Il marchio della schiavitù è parlare la lingua degli oppressori)

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Anselmo Calvetti,I Celti in RomagnaRavenna: Longo Editore, 1991126 pagine - 20.000 lire

Tra il secondo e il primo mil-lennio a.C. nell’area delimitatadal Reno e dal Danubio fino al-le montagne boeme si formò lacultura celtica. Per varie ragio-ni ed in epoche diverse si veri-ficarono migrazioni di Celtiverso le isole britanniche, laSpagna settentrionale, i Balca-ni, altre zone della Franciastessa e, non ultima, la Pada-nia.Le prime invasioni, tra la finedel VII e gli inizi del VI secolo,interessarono parte del Pie-monte e le zone a nord di Mila-no. Altre se ne ebbero tra la fi-ne del V e gli inizi del IV seco-lo. Fu proprio negli ultimi annidel V secolo che si verificò l’ar-rivo di nuove ed ingenti forzeceltiche tali da propagarsi finoanche all’Italia centrale.Anselmo Calvetti, nel libro“Celti in Romagna” edito dallaLongo di Ravenna, affrontal’impatto che queste popolazio-ni ebbero, ed ancora oggi han-no, in terra di Romagna. Il suolavoro affronta la tematica a360 gradi in cinque punti fon-damentali: la prima parte èprettamente storica e descrivele varie spiegazioni, guerre ebattaglie sostenute dai Senonie dai Boi, cioè le popolazioniceltiche stanziate in Romagna;la seconda tratta dell’eserciziopolitico presso i Celti cispada-ni; la terza esamina invece laquestione celtica presso gli sto-rici romagnoli dal XVI al XIX

secolo; il quarto punto si sof-ferma sulla formazione del dia-letto romagnolo evidenziando-ne il fondamentale sostrato cel-tico, mentre il quinto ed ulti-mo punto è uno studio dellatoponomastica celtica in Ro-magna.Con varie dimostrazioni Cal-vetti deduce che la disposizionedelle tribù celtiche dovesse es-sere così: il fiume romagnoloUtens (Montone) marcava la ri-partizione delle zone di in-fluenza sugli scali adriatici; Ra-venna apparteneva ai Senoni,mentre Spina era dei Boi. Ilconfine meridionale è stato l’E-sino marchigiano. Inoltre l’i-dronimo Senium (Senio) delfiume che scorre ad ovest diFaenza pare indicasse il confi-ne terrestre dei Senoni con iLingoni ed i Boi.L’autore narra, tra le varie bat-taglie, la marcia dei Senonicontro Romain seguito al-la violazionedi neutralitàda parte deilegati roma-ni. I Romanifurono travol-ti sia perchésorpresi dallavelocità concui arrivaro-no che per ilmodo di com-battere deig u e r r i e r itransalpini .Una tradizio-ne orale cisal-pina riportata da Livio, storicopatavino, vuole che i Romanifuggirono ancora prima delcombattimento perché terro-rizzati dal grido di guerra deiSenoni. Dopo questa vittoria iguerrieri di Brenno, capo deiSenoni, posero in assedio il

Campidoglio per ben sette me-si. A causa di un attacco porta-to dai Veneti alle terre in cuidimoravano gli inermi dei Se-noni, Brenno dovette però trat-tare il riscatto della città.Il tramonto della tribù senoni-ca iniziò dopo la sconfitta del295 a.C. subita da parte dei Ro-mani e di numerosi alleati lati-ni presso il Sentino, vicino al-l’attuale Sassoferrato nell’Ap-pennino marchigiano. Anchein questa occasione i Celti sep-pero farsi valere ma, a causadell’immediata fuga degli allea-ti Sanniti, furono sottoposti al-la convergenza delle forze ne-miche. Fu comunque una bat-taglia molto sanguinosa ancheper i Romani, ma ne uscironovincitori e conquistarono illembo di terra marchigiana.I Celti Senoni ripartirono pre-sto, dieci anni più tardi, peruna nuova campagna bellica,

ma sia per lamancanza dialleati che dicapi espertifurono defi-nitivamentecancellati dalLibro dellaStoria.Tra le varietribù cisalpi-ne non esi-stevano vin-coli di solida-rietà e que-sto fu la cau-sa principaledelle vittorieromane.

Un anno dopo la disfatta defini-tiva dei Senoni, forse nel timo-re di scontare la stessa sorte, iBoi scesero in guerra controRoma. In varie fasi i Cisalpinifurono annientati e dovetterocedere Rimini, testa di ponteper la Padania Orientale.

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Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998 Quaderni Padani - 57

A quei tempi tra i Boi edAsdrubale, capo dei Cartagine-si, è probabile che intercorres-se una fitta rete diplomatica,ma per alcune terre concessedai Romani il Cartaginese ab-bandonò ben presto i Celti allapropria sorte causando perciòla conquista romana della VallePadana.Per ricacciarli ci volle l’aiuto diAnnibale, il quale poté poi con-tare sull’alleanza di tutte letribù celtiche della Valle Pada-na, ad esclusione dei Cenomanibresciani e veronesi. Grazie aiguerrieri celtici inflisse una pe-sante sconfitta ai Romani pres-so Canne. Successivamenteperò, grazie al vincente e maidismesso “divide et impera” aidanni degli Insubri, Boi e Ce-nomani, Roma ebbe definitiva-mente la meglio, non primaperò di subire una sonorasconfitta presso la leggendariaSilva Litana.Presso i Senoni, i Boi e proba-bilmente presso tutte le altretribù celtiche - annota Calvetti- le decisioni belliche venivanoassunte dall’Assemblea degliuomini atti alle armi attraversoun pubblico dibattito. La con-vocazione dell’Assemblea avve-niva per iniziativa del Consigliodegli Anziani, al quale apparte-neva la nobiltà guerriera, ed ildibattito ruotava attorno alleloro proposte. Per quanto ri-guardava invece le controversietra i singoli interveniva il drui-do applicando norme di dirittoconsuetudinario tramandateoralmente.Nella sua opera, Calvetti dimo-stra poi con grande accuratez-za come nonostante la conqui-sta romana le genti celtichenon vennero affatto cancellate,al contrario di ciò che gli stori-ci post-risorgimentali italianiritenevano. “L’atteggiamento

sbagliato di questi - rileva so-stanzialmente lo stesso autore- si scontrò presto con il pro-blema, non ancora risolto, di“fare” gli Italiani fatta invecel’Italia. Il recente ingresso del-l’Italia nella Comunità europea- rileva Calvetti nel suo librodel 1991 e quindi in tempi nonsospetti - sta favorendo il riesa-me, sul campo storico, dellasopravvivenza dei Celti nelleterre che si è preso a chiamarePadania.”Con un’accurata analisi degliscritti di storici romagnoli ope-ranti dal 1500 fino alla metàdel 1800, l’autore fa emergerechiaramente la palese avversio-ne dei Romagnoli di quel tem-po alla dominazione pontificiaromana. Leggendo gli stralciriportati di quegli scritti si puòben dire che facessero a garaper attribuire alla propria cittàla residenza di questa o quellatribù celtica, oppure nell’indi-viduare nel proprio territorio illuogo di grandiose vittorie suiRomani. Quant’acqua sotto iponti è passata, visto che pro-prio in queste terre di Roma-gna oggi si fa la gara al contra-rio. L’appartenenza storica e l’i-dentità però non si cancellano:lo dimostra la lingua romagno-la, nata per la sovrapposizionedel latino introdotto dai Roma-ni sulla lingua celtica. Ripor-tando i pareri e le metodologiedi autorevoli glottologi comeFriederich Schürr e Bernardi-no Biondelli, l’autore riesce inmodo sintetico a giustificare eda caratterizzare scientificamen-te la nascita della lingua roma-gnola, avvenuta prevalente-mente grazie all’isolamento dioltre due secoli entro i confinidell’Esarcato dominato dai Bi-zantini.Le radici celtiche si riscontra-no non solo nella lingua: anche

la toponomastica dei rilievimontuosi, dei corsi d’acqua,delle città ne è profondamentecaratterizzata. Riportando stu-di di alcuni esperti, Calvetti ri-corda, tra i tantissimi esempi,che il Reno, il maggiore fiumecispadano che segna il confinesettentrionale della Romagna,prende il nome dal gallico rìno,“fiume impetuoso”. È verosi-mile che il nome gli fu conferi-to dai Boi in ricordo del fiumedella loro madre patria. Secon-do l’autore “Brisighella ha avu-to certamente origine celtica”:Briga in gallico significava “al-tura fortificata”. Barr è attesta-ta dall’irlandese col significatodi “sommità” e dal gallico conil significato di “testa”. In ro-magnolo analogamente si dicebér il montone, perché è a capodel gregge o forse perché cozzacon la testa. Da questa radicesono derivati probabilmenteBertinoro (che sta sulla vetta)nel comprensorio forlivese, eBareda, vicino a Faenza.È con grande semplicità cheCalvetti riesce a rendere acces-sibili a tutti studi che probabil-mente sarebbero rimasti dipertinenza di un’élite. Il mag-gior risultato lo ottiene però, anostro avviso, contribuendo acolmare il vuoto attorno allaquestione celtica in Romagna.Questa opera di grande caratte-re storico la suggeriremmo ailettori se non fosse che il librorisulta praticamente introvabi-le se non in qualche vecchia egrande biblioteca, ed anche lacasa editrice non ne ha più lecopie.

Alessandro Barzanti

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58 - Quaderni Padani Anno lV, N. 20 - Novembre-Dicembre 1998

Lysander Spooner,La Costituzione senza autoritàGenova: il Melangolo (Via Brigata Liguria 1), 1997Pagg. 154, L. 20.000

Di questi tempi l’argomento “co-stituzione” è all’ordine del giornoin almeno due nazioni: in Italia,dove i politici armeggiano intor-no al documento promulgato nel’48 con l’abilità di uno staff di chi-rurghi plastici, e in Padania, doveinvece la gente dimostra un inte-resse sempre crescente nei con-fronti della bozza elaborata a Chi-gnolo Po. Capita a fagiolo, allora,la pubblicazione del bel saggio LaCostituzione senza autorità di Ly-sander Spooner, in cui l’autoreesamina l’argomento dall’incon-sueto punto di vista della validitàdi fronte ai cittadini.Spooner si scagli frontalmentecontro ogni pregiudizio statalistache vorrebbe le costituzioni vali-de in eterno, al pari delle Sacrescritture: se è vero, come è vero,che la Costituzione non è veritàrivelata, ma piuttosto raccogliel’opinione di un gruppuscolo dipersone con la pretesa di “rappre-sentare il popolo”, allora non è di-fendibile l’idea che essa nasce daun contratto stipulato dai cittadi-ni. Un contratto, per essere vali-do, richiede quantomeno la firmadei contraenti: ben pochi degli“italiani” oggi in vita hanno appo-sto la propria sigla in calce al do-cumento. Spooner passa poi a demolire im-pietosamente gli argomenti piùgettonati dagli statalisti: la pre-sunta legittimazione provenientedalle tasse e dal voto. Le tasse, ineffetti, potrebbero essere conside-

rate un suggello del “patto socia-le” se fossero una sorta di “adesio-ne volontaria” allo stesso: inrealtà nulla, più delle tasse, èun’azione coatta. Ben pochi, sefossero liberi di decidere, mette-rebbero nelle mani di politici eburocrati una delega in biancosul prodotto del proprio lavoro…Neppure il voto, d’altra parte, èvincolante. Innanzitutto, essendosegreto, non può essere utilizzatoda nessuno come testimonianza.In secondo luogo non tutti si re-cano a votare e, quindi, al massi-mo potrebbe avere validità perquanti hanno scelto di presentar-si alle urne. Infine bisogna consi-derare che molti, tra quanti ac-cettano di sprecare parte del lorotempo, lo fanno solo per evitare il“male peggiore”, cioè lo fannoperché nutrono il timore - più omeno concreto - che la vittoria diun determinato schieramentocauserebbe loro molti danni.Da notare che le critiche di Spoo-ner, pienamente condivisibili, so-no riferite alla Costituzione ame-ricana che, tutto sommato, è as-sai migliore della nostra: le paroledel polemista americano, dunque,pesano (o dovrebbero pesare) co-me macigni sulla coscienza diquei “ladri e assassini” (sono pa-role dell’autore) che si sono arro-gati il diritto di governarci. Sem-pre che ce l’abbiano una coscien-za, of course. Particolarmenteadatta alla situazione odierna deiPadani, poi, sembra una delle fra-si conclusive di Spooner, quella incui afferma che finché i cittadinicontinueranno a pagare “i cosid-detti «debiti nazionali» (cioè fin-ché gli uomini saranno così bab-bei e codardi da pagare per esserefrodati, depredati, fatti schiavi euccisi), ci sarà abbastanza denaroda prestare a tale scopo, e con taledenaro si potrà impiegare unagran quantità di mezzi atti a te-nerli in soggezione, chiamati sol-

dati. Ma il giorno che rifiuteran-no di pagare smetteranno di ave-re degli impostori, degli usurpa-tori, dei ladri e degli assassini perpadroni”.Bella è pure la prefazione di Vale-ria Ottonelli, in cui la curatriceinquadra l’opera di Spooner nelpiù generale contesto del liberali-smo americano: brevemente, maesaustivamente, la giovane stu-diosa dopo aver fornito un’utilebiografia del polemista espone leposizioni dei diversi teorici dellaissez faire nel Nuovo Continen-te. Un posto di riguardo non pote-va che essere riservato a ThomasJefferson, “padre spirituale” dellaRivoluzione americana ed esten-sore di quel gioiello che è la Di-chiarazione di Indipendenza.Qualche parola è dedicata anche aHenry David Thoreau, il cui sag-gio sulla disobbedienza civile (tra-dotto in Padania da uno studiosodel calibro di Gianfranco Miglio)è perfettamente complementare aquello di Spooner, di cui parrebbequasi la prosecuzione se non fos-se stato scritto una ventina di an-ni prima.Il libro merita di essere acquista-to e letto: soprattutto in un mo-mento come l’attuale, in cui levestali dello statalismo fanno ditutto, attraverso i mezzi di infor-mazione pubblici (cioè coi nostrisoldi), per convincerci di lavorareper il nostro bene. Ma la presa ingiro non può continuare ancora alungo: e il teatrino della Bicame-rale a nulla varrà, se i Padani sa-pranno far propria la “sentenza”conclusiva di Spooner, secondocui “a prescindere dal fatto che laCostituzione sia una certa cosa, oun’altra, un fatto è certo: o ha au-torizzato il governo che abbiamoora, o non è stata capace di evitar-lo. In entrambi i casi non ha ra-gione di esistere”. Do you under-stand, Prodi?

Giò Batta Perasso

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