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Anno XI - N° 2, marzo/aprile 2016 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com AAnno XI - N° 2, marzo/aprile 2016 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno XI - N° 2, marzo/aprile 2016

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

AAnno XI - N° 2, marzo/aprile 2016 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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SOMMARIO

Un giorno un bambino chieseal vecchio saggio del paese

quale fosse l’elemento più forte.Il saggio, dopo aver riflettuto,gli rispose: “Le cose più forti

al mondo sono nove...Il ferro è molto forte,ma il fuoco lo fonde...

Il fuoco è forte,ma l’acqua lo spegne...

L’acqua è forte,ma evapora in nuvole...

Le nuvole sono forti,ma il vento le disperde...

Il vento è anche esso forte,ma la montagna lo ferma...

La montagna è forte,ma l’uomo la conquista...

L’uomo è forte,ma, purtroppo, la morte lo vince”.“Allora è la morte la più forte!” -

lo interruppe il ragazzo.“No!...” - continuò il vecchio saggio -

“...Il male, purtroppo,sopravvive alla morte”.

“E allora l’umanità è perduta!” -gli ribatté il bambino.

“No, figlio mio,meno male che è presente

l’Amore,che lo sconfigge irrimediabilmente.Ma perché si possa arrivare a tanto,

è necessario spargere l’Amoreper tutto il mondo,

esattamente come fa il contadinoquando semina il grano”.

Un vecchio saggioPianeta Terra

Redazione Il filo di Aracne

I L V E CCH IO EI L B AMB INO

COPERTINA: Galatina (LE) - Basilica di Santa Caterina d’Alessandria“Navata centrale”

I Quadernetti di AthenaI TRE AMORIdi Rino DUMA 4

Galatinesi illustriARCUDI DIFENDE GALATINAdi Giancarlo VALLONE 8

In giro per il mondoSTEFANO MEDVEDICHdi Giuseppe MAGNOLO 12

Una finestra sul passatoDOCUMENTI EDITI ED INEDITI DI...di Luigi MANNI 16

Historia EcclesiaeUN INEDITO MEMORIALEdi Giovanni VINCENTI 18

Terra nòsciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Poeti salentiniTARANTULAEdi Gianni FERRARIS 22

Ars scribendiMANCA LA MADRE, CERCA LA MADREdi Paolo VINCENTI 24

Famosi sconosciutiFERNANDO LAPALORCIAdi Cosimo GIANNUZZI 26

Artisti galatinesiMARIO MARRAdi Salvatore BECCARISI 28

Il Salento... che non vorremmoCONTRABBANDI, TRAFFICI E...di Rocco BOCCADAMO 30

Historia NostraDUE FALSI TESTIMONIdi Emilio RUBINO 32

Nemo propheta in patriaRAFFAELE SPONGANOdi Augusto BENEMEGLIO 34

Sul filo della memoriaL’ACQUA SURGIVAdi Pippi ONESIMO 36

Gli articoli rispecchianoil pensiero degli autori enon impegnano assolu-tamente la Direzione.

Tutte le collaborazionisi intendono a titolo

gratuito.

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Ada DonnoDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

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Da bambino sono stato educato da mia madre, don-na pia e generosa, a vivere secondo i dettami del-l’amore. Rimanevo affascinato dai suoi discorsi e

dagli innumerevoli fatterelli, tutti infarciti di letizia, gra-zia e affettuosità. Mai che avesse raccontato episodi diguerre, di lotte, di sangue, di morte. Solo in alcune favoleerano presenti figure infìde e malvagie come il “Nanni Or-co”, il “lupo mannaro”, la “strega sdentata”, “l’uomo ne-ro” o “lu sciacuddhri” (il folletto), ma, ahiloro, finivanosempre coll’essere puntualmente beffati, soggiogati e cac-ciati via dal racconto a pedate. Immancabilmente chiudevail suo dire ricordandomi che “il Bene finisce sempre per trion-fare sul Male, a condizione che si faccia buon uso dell’amore”. Era l’educazione di queitempi, presente nelle fami-glie italiane, soprattutto inquelle più povere. Eraun’educazione doverosaper voltare pagina e venirfuori dagli obbrobri di unaguerra che aveva mietutodistruzione e morte nellamaggior parte del mondooccidentale.Da studentello di scuolamedia, il professore di lette-re riprendeva spesso la sen-tenza latina di virgilianamemoria “Omnia amorvincit et nos cedamus amo-ri” (l’amore vince su tutto e noi cediamo all’amore). Ce lo ripe-teva spesso per inculcare in noi allievi i migliori principieducativi necessari per crescere bene ed affrontare con ladovuta forza d’animo la vita grama e travagliata di allora.Da docente, ho offerto questi importanti insegnamenti aglialunni, soprattutto durante i momenti scolastici di pausa,come nella ricreazione, nelle scampagnate, nei viaggid’istruzione, ecc. Lo confesso: i ragazzi erano sorprenden-temente più interessati a questa extra letio, piuttosto cheallo studio della matematica, disciplina sempre austera,glaciale e impietosa per alcune menti, nonostante utiliz-zassi per loro immancabili sproni e malie professionali. Al-la fine del mio breve sermone sull’amore, invitavo i ragazziad essere più disponibili verso chiunque, in modo parti-

colare nei confronti di coloro che erano stati segnati da unamalformazione congenita, da un importante lutto in fami-glia o, peggio ancora, dalle precarie condizioni economi-che.Da docente in pensione, ho avvertito l’esigenza di rivolge-re dalle colonne di questa rivista la stessa extra letio ai“nuovi studenti”, agli inquieti ragazzi del 2000 (molto di-versi da quelli degli anni ’50-’60-’70), tutti attratti e fagoci-tati dall’impetuosità della vita, dalle micidiali nuovetecnologie e dai programmi televisivi molto violenti, ag-gressivi, sboccati, smodati ed altamente diseducativi. Po-veri ragazzi, li stiamo massacrando e annientando in nomedi una fantomatica libertà, purtroppo impossibile da rag-

giungere! Mi dispiace dirlo,ma chi detiene il potere del-la nazione sta costruendosolo dei manichini senz’ani-ma, degli omuncoli di lattao di cartone, degli automifacilmente suggestionabili emanovrabili.

I tre AmoriUltimamente, nel roman-

zo storico “La donna deiLumi”, ho ripreso il ‘cano-vaccio sull’amore’ e l’ho tra-smesso ai lettori più maturi,perché se ne cibassero e loaffidassero, se genitori, aipropri figlioli, se docenti, ai

propri alunni. Per fare ciò, mi sono servito di Antoniettade Pace, un’indomita eroina gallipolina del Risorgimento.

Già da bambina Antonietta chiedeva spesso allo zio An-tonio, prete e scienziato, di essere ragguagliata sugli ele-menti più importanti della vita. Con lui, soprattutto neimesi primaverili, passeggiava sul lungomare della Puritàa Gallipoli e pretendeva continue spiegazioni di tutto ciòche accadeva nel Regno delle Due Sicilie. Era molto scon-certata dalle misere condizioni di vita di tanta gente, co-stretta il più delle volte ad un pasto frugale nella mensaper i poveri o a chiedere asilo nei dormitori pubblici.

Un pomeriggio gli chiese insistentemente di essere rag-guagliata su alcuni fatti politici.

“Zio, tu sei un repubblicano o un monarchico?”.

4 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

I QUADERNETTI DI ATHENA

Gallipoli (LE) - Lungomare della Puritate

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“Non sono né repubblicano né monarchico…” – rispose quel-lo – “... Sono un uomo di pace, un uomo che si è sempre battu-to per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza, come d’altrondepredicava nostro Signore Gesù Cristo…”.

“Io so per certo che Gesù predicava l’amore!…” – gli ri-spose prontamente Antonietta.

“Chi si sente libero e lotta per la libertà altrui, è persona cheama; chi si lascia giudicare e giudica secondo coscienza, è perso-na che ama; chi si sente uguale agli altri e si batte perché nessu-no sia inferiore o superiore, è persona che ama”.

“Mamma mia, quant’è complesso l’amore!” – replicò in-nocentemente la bambina.

“L’amore è l’unica erba che non secca mai, è l’unica medicinache si prende cura dell’animo umano, è l’unica arma con la qua-le si conquista il ‘prossimo’, è l’unico sentimento divino in mez-zo a noi”.

“Che bello, zio… parlami a lungo dell’amore!”.“Se dovessi soffermarmi su tutti gli aspetti dell’amore, forse

faremmo notte fonda in riva al ma-re. Pertanto ti parlerò di quelli es-senziali, di ciò che dovrebbe esserpresente nella nostra mente e che,purtroppo, il più delle volte difetta.Più in là, quando sarai grandicella,avremo modo di approfondire l’argo-mento”.

“Parla, zietto, sono tutta orec-chie!”.

“Per tua fortuna sei già predispo-sta all’amore; l’importante è che dagrande continui a mantenere questanaturale inclinazione, anche se perte sarà difficile, molto difficile conservarla”.

“Zio, mi fai capire che il tuo amore si sia afflosciato ne-gli anni!”.

“No, Antonietta, si è invece rafforzato nel tempo”.“Ah, già, che sciocca!… tu sei un prete: per migliorarti t’è

bastata la preghiera!”.“La preghiera è solo uno dei tanti elementi dell’amore… la pre-

ghiera è lo zucchero a velo con cui, alla fine, si guarnisce la tor-ta; ma tu sai bene che, per poterla preparare, occorrono tanti altriingredienti. Tante, anzi tantissime, sono le sostanze dell’amore”.

“Quali sarebbero?”.“Nessun uomo conosce la ricetta che consente di impossessar-

si dell’amore. Le sue benefiche sostanze sono sparse ovunque: so-no presenti nell’aria, nell’acqua, nella terra, nelle cose, neglianimali e nelle persone che ci circondano. Ognuno dovrebbe an-dare costantemente alla loro ricerca attraverso le azioni quoti-diane. Ma attenta: le energie divine dell’amore si avvicinano soloa coloro che hanno l’animo predisposto al Bene e da questi, sol-tanto da questi, si lasciano cogliere”.

“Zio, non sarà facile arrivare a tanto!”.“E invece ti dico che puoi farcela: l’importante è crederci. Il

primo passo consiste nell’individuare il Bene e separarlo dal Ma-le. Se, però, ti lasci ammaliare durante il cammino terreno dallesirene malefiche, il Bene si allontanerà sempre più da te e nel tuocuore scenderà la notte”.

“Stando a quello che dici, il Bene è qualcosa di irraggiun-gibile senza l’amore!... Bisogna essere troppo forti e resi-stenti per poterci arrivare!”.

“È proprio così, Antonietta. Ora riprendo in considerazione

l’esempio della torta. Poniamo che l’amore sia rappresentato dal-l’intera torta. Tu prova a dividerla idealmente in tre grosse fettedi pari grandezza”.

“Già fatto, zio!”.

L’Amore verso Dio“Orbene, la prima fetta rappresenta l’Amore verso Dio, la

seconda l’Amore verso l’Io, la terza l’Amore verso l’altroIo”.

“Zio, non riesco a seguirti per come vorrei!”.“La tua giovane età non ti è di aiuto, ma non preoccuparti,

Antonietta: ti spiegherò per bene ogni cosa. La prima fetta dellatorta ritengo che si commenti da sé”.

“Sì, certo zio!”.“Dunque, possiamo senz’altro asserire che, ad eccezione degli

atei, cioè di coloro che non credono in un Dio…”.“Zio, perché dici «in un Dio» e non «in Dio»?” – lo inter-

ruppe prontamente Antonietta.“Perché da sempre gli uomini se-

guono varie religioni e venerano di-verse immagini di Dio e non unasoltanto, come tu erroneamente ritie-ni. Oltre a Gesù, che è il dio di noicristiani, vi è Allah, che è il dio deimusulmani, vi è Mosè, che è il profe-ta degli ebrei, vi è Buddha, che è ildio degli indiani, vi è Ta’aroa, che è ildio dei polinesiani e via via tanti al-tri”.

“O mamma mia!”.“Ma non è tanto il tipo di religio-

ne professata che ci deve preoccupa-re, quanto piuttosto la mancanza di religiosità nell’uomo attuale.Sono dell’avviso che il vero credente, sia esso cristiano, musul-mano o ebreo, abbia già percorso un passo significativo per acce-dere nel Bene”.

“Io però mi sento di amare Gesù!... gli altri dei non mi in-teressano, anzi è come se non ci fossero!” – ribatté con for-za la bambina.

“Ti sbagli, Antonietta, e anche di grosso!... Esistono e si fan-no sentire. Se tu fossi nata a Calcutta, a Teheran o a Pechino,avresti mai pensato minimamente a Gesù? Lo avresti mai vene-rato per come lo stai facendo ora?”.

“Forse hai ragione, zio” – rispose la bambina alquantocorrucciata e a testa china.

“Brava, Antonietta. L’amore verso il Buon Gesù o verso unaltro Dio rappresenta la prima fetta della torta dell’Amore”.

L’Amore verso l’Io“La seconda fetta è rappresentata dall’Amore verso l’Io, cioè

dall’Amor proprio”.“Beh, è logico: ognuno deve voler bene a se stesso!” –

precisò Antonietta.“Lo condivido anch’io, solo che non bisogna impegnarsi esclu-

sivamente per il proprio bene ed interesse. Vi è gente, cara figlio-la, che ignora Dio e il prossimo e si lascia dominare da un forteegoismo. La vita di questi uomini è improntata sul possesso spa-smodico di beni e di materialità. Dio e il prossimo non trovanomai spazio nella loro mente. Di fatto queste persone è come sevivessero in un castello dorato in cui si beano e si crogiolano conle loro fortune, ma sono molto distanti dal mondo che conta, chevive, che soffre, che muore ogni giorno”.

marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 5

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“Perciò, se ho ben capito, è importante lavorare per mi-gliorarsi in continuazione e, al tempo stesso, perché gli al-tri conducano una vita decente?”.

“Esattamente così, Antonietta”.

L’amore verso l’Altro Io“Ora siamo arrivati quasi in fondo al viale. Della torta è ri-

masta un’altra fetta, che deve avere la stessa grandezza delle al-tre due. Si tratta della fetta relativa all’«Amore verso ilprossimo»”.

“Quindi, zio, questo sarebbe l’amore che tu hai chiama-to ‘verso l’altro Io’?”.

“Brava, figlia mia, è bastato poco perché tu capissi. Ora ri-spondi a questa domanda. Che cosa ha predicato Gesù, quando haparlato dell’amore verso gli altri?”.

“Ama il prossimo tuo come ami te stesso!”.“E allora il prossimo è in pratica «l’Altro Io». Ogni persona

deve essere per noi uno specchio che riflette la nostra immagine,un sosia, un fratello gemello, con il quale dialogare e condividerequotidianamente ogni cosa. Ti faccio ancora un’altra domanda:potresti mai negare a te stessa un impegno costante, al fine di mi-gliorare la tua posizione sociale?”.

“No, mai!”.“Fai, allora, altrettanto con «l’Al-

tro Io». La torta dell’amore, a questopunto, è completa, ma ricorda… ri-corda sempre di dividerla in partipiù o meno uguali”.

“E se decidessi di amare di piùDio?”.

“Gli altri due amori ne soffrireb-bero. Il Buon Gesù non pretende persé tutto l’amore di una persona: nonè un egoista, come lo sono tanti uo-mini. Gli bastano alcune preghierequotidiane e la promessa di vivere la vita all’insegna dell’amoreper sé e per gli altri. Ora ti pongo l’ultima domanda: come sareb-be l’uomo se dedicasse ogni momento della sua giornata esclusi-vamente alla preghiera?”.

“Forse sarebbe noioso e privo di ogni forza vitale”.“La penso anch’io come te. Perciò, in alcuni momenti della

giornata, è necessario rivolgere il pensiero a lui, al sommo Padre,mentre in altri è bene dedicarsi alla propria persona e in altri an-cora al prossimo e alla causa comune. Quando diverrai grande,prova a vivere secondo questi ammonimenti e ti troverai costan-temente immersa in una pace interiore inverosimile. Ma intan-to inizia già da ora a dividere per bene l’ipotetica tortadell’amore… e non dimenticarti mai di aggiungere lo zuccheroa velo”.

“Zio, però, mi è rimasto ancora qualche dubbio!”.“Sarebbe?!”.“Se io non credessi in Dio, se cioè fossi un’atea, dovrei

dividere la torta solo a metà?”.“No, Antonietta, no!… continueresti a dividerla sempre in tre

parti uguali…” – le rispose lo zio con un sorrisetto appenaabbozzato – “… In assenza di Dio dalla tua mente, lui si ma-nifesterebbe attraverso la natura, perché, come ti ho detto in pre-cedenza, il sommo Padre è presente nelle cose, negli animali, nellepiante e in tutto ciò che ci circonda. Lui ci parla sempre e ci vie-ne in nostro soccorso, solo che noi siamo molto distratti dalla vi-ta e siamo in tanti a non vederlo e ad ascoltarlo. Basta osservare

attentamente i colori dell’alba e del tramonto, il volo degli uccel-li o il cielo stellato, oppure ascoltare i rumori della natura, comelo scroscio dell’acqua, il fragore di un tuono, il canto melodiosodi un fringuello o il frinire delle cicale e dei grilli, lo stormire del-le fronde degli alberi, o ancora il pianto o la gioia di un bambinoo i lamenti inquietanti di un vecchio, per capire che Lui è sem-pre presente tra noi e in noi. Io lo ascolto ogni giorno e sono con-vinto che, quanto prima, anche tu avrai il dono di percepirlo.Devi solo amare più di quanto tu lo faccia adesso”.

“Oooh, che bello zio!... Ora sì che ogni cosa acquista unadimensione diversa e ha in sé un significato ben definito”.

“Vedi dove ti può condurre l’amore?!... Quanto più te ne cibi,tanto più ti avvicini a Dio e lo conosci…” – disse don Antonioin conclusione del lungo discorso – “…Ora s’è fatto tardi, An-tonietta, dobbiamo rientrare a casa, altrimenti mamma Luisella inizia astare in pena”.

La ragazza, con gli occhi lucidi dalla contentezza e anco-ra mezza estasiata dalle stupende considerazioni dello zio,appoggiò la testa al suo braccio, come a volersi unire ideal-mente con lui, e in silenzio si lasciò accompagnare a casa.

ConclusioniAntonietta da grande fu una

delle più brillanti protagonistedel Risorgimento Meridionale,distinguendosi per gli ideali divita e per un senso innato di li-bertà e di giustizia sociale. Gra-zie ai ‘semi dell’amore’, avuti inprestito dallo zio e dai genitori,combatté l’ingiusto Borbone elottò con ogni energia perchés’instaurasse un governo repub-blicano nel Meridione d’Italia.Purtroppo fu soggiogata dai Sa-

voia ingannatori, che ridussero il Regno delle Due Siciliead una vera colonia, sfruttandola in ogni ambito, depre-dandone le migliori risorse, vessandola con una tassazio-ne iniqua e infine abbandonandola a se stessa. Tuttoraquell’antica ferita è aperta, sanguina e continua a differen-ziare gli italiani.

Mi auguro che i lettori facciano propria questa impor-tante storia e si prodighino con la stessa ‘forza’ di Anto-nietta per liberare la coscienza dalle catene dellasudditanza e conquistare una condizione di vita dignitosa,grazie ad una rinata e necessaria forza caratteriale.

La felicità umana passa da ciò che sapremo realizzarecon le nostre stesse mani e non da quel poco che ci verrà of-ferto per ‘svernare’ su questo pianeta. Se intendiamo por-re fine ai tempi degli ‘inchini’, delle ‘scudisciate’ e delle“umiliazioni”, bisogna indossare l’abito dell’attore, delprotagonista e, se necessario, del guerriero, ma non certa-mente quello dello spettatore passivo, fiacco e arrendevo-le. Bisogna essere pecore, ma con gli artigli, pronti adifendere i propri ed altrui diritti. Altrimenti - diciamoce-lo francamente - la vita su questo pianeta presto diverràuna sofferenza estrema per i tanti, da far invidia per mal-vagità e crudeltà alla bolgia infernale del sommo poetaDante.

Chi ascolterà Francesco, ben presto coglierà i semi degli‘Amori’. ●Rino Duma

gennaio/febbraio 2016 Il filo di Aracne 7

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8 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2015

GALATINESI ILLUSTRI

Torno con un certo senso di colpa sul nostro dotto Ales-sandro Tommaso Arcudi (1655-1718), erudito teologo e an-tiquario al quale dobbiamo molte opere, raramente lettecon una qualche attenzione, ma ricche di frutto per chi, conpazienza, accetta di usarle metodicamente.

La convinzione che, nonostante qualche scritto su Arcu-di, il suo ruolo culturale fosse completamente da rivaluta-re, ha dato di via ad un convegno che si è tenuto aGalatina, l'otto e nove giugno 2012 su Gli Arcudi e l'identi-tà culturale del Salento, esteso anche ai diversi problemi chedesta la presenza degli Arcudi a Soleto nel Cinque e nelSeicento.

Il senso di colpa nasce dal fatto che gli Atti di questo con-vegno non sono ancora stati pubblicati; e tuttavia, ora cheessi sono, io spero, in prossimità di edizione, è forse op-

portuno anticipare qualche questione su questa comples-sa personalità della nostra cultura regionale.

So bene che Arcudi non può essere ridotto alla sola di-mensione, che pure gli compete, di erudito amante dellasua terra. Gli Atti faranno luce, o inizieranno a farla, an-che su altri profili della sua produzione a stampa: il predi-catore, il letterato, certo anche l'antiquario, mentre altriaspetti, ad esempio lo studio del suo sapere teologico, ilsuo rapporto con l'erudizione ecclesiastica, pure importan-tissimi, avranno proprio in questi Atti un punto consoli-dato di partenza.

Qui a Galatina, certamente, Alessandro Tommaso Arcu-di è noto, giustamente, per le sue opere di storia patria e dierudizione civica, che hanno un ruolo esemplare nell'inte-ra antiquaria regionale.

Anzitutto, e per limitarci alle opere edite, è celebre per lasua Galatina letterata (ed. 1709), che fa emergere dal nullal'antica civiltà del paese e lo consegna a misurarsi conquesto destino, quasi ammonitrice; inoltre le sue epichelotte condotte da solo contro la équipe di falsari, il Polido-ri, il Tafuri, raccolta intorno al vescovo di Nardò, AntonioSanfelice, ed anche contro Domenico de Angelis, contro ilgallipolino Gian Pietro Musarò e contro i suoi concittadi-ni galatinesi Onofrio e Angelo Mongiò dei Gigli o dellaLuna, meritano certo di essere attentamente ricostruite, masono comunque presenti nel nostro immaginario, per ilquale Arcudi è Galatina.

L'uomo è tuttavia complesso; amante sincero e profondodella sua città e della sua famiglia; sobrio, frugale, riserva-to e di vocazione sincera e libera, soprattutto studioso edotto, tuttavia sente l'altrui dissenso come lesivo forse delsuo stesso equilibrio interno, della sua identità riposta, epuò affidare alla sua penna, efficace e ricca, o forse grassa,l'esplosione di un livore sfrenato.

Diciamolo pure: Arcudi non getta la prima pietra nellepolemiche, ma se viene provocato, se si dissente dall'ope-ra sua, non ha una vera misura nella reazione, pur avendo,in genere, ragione.

Possiamo congetturare con una certa convinzione che fu-rono proprio le sue violente polemiche, affidate al S. Ata-nasio Magno, contro i Superiori provinciali del suo Ordine,quello dei Domenicani, e le altre contro il Sanfelice e cosìvia, a confinarlo nel convento di Andrano fino alla morte,che lo sorprenderà con i libri e la penna alla mano, perché

Pietro CavotiRitratto di Alessandro Tommaso Arcudi

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l'ultima sua opera a stampa, editapostuma, lo Orbis rectus, porta ladata redazionale del 2 luglio 1717.

A prova del suo modo pervicacee radicale di far polemica, indicoun testo assai poco frequentatodell'altra sua operetta, Le due Gala-tine difese, il Libro e la Patria (ed.1715), e cioè il Momus Philosopha-ster, scritto in un buon latino, con-tro uno dei suoi nemici interni, un'nasuto' detto anche 'Mezo Mon-do', cioè assai probabilmente, An-gelo Mongiò dei Gigli.

Si tratta di una favola irridente edenigratrice; Momo in questa fa-vola è una specie di dio minorecacciato dall' Olimpo e relegatosulla terra, e qui si mette a spiega-re grammatica agli efebi con tantodi ferola, e poi a filosofare a destrae a manca, finché un Democrito lopriva dell'unico suo tratto filosofi-co, la barba. Quindi si mette in te-sta di attribuire a Giove la colpa diogni lite o guerra sulla terra; e Gio-ve pensa che il mondo vada dupli-cato per diluire le lotte; ma proprioMomo propone di unire la terra alla luna, per ottenere lamaggiorazione; tutti gli dei lo acclamano 'Mezo Mondo',

ed egli, fiero, quasi convince Giovead eliminare dalla terra Aristotele,Platone e i loro libri. Ma la dea Vir-tù, per salvare i filosofi, suoi mae-stri, e sapendo che Momo eraperdutamente innamorato dellaGloria, di lei amica e seguace, glie-la promette in sposa, compliceGloria stessa, che, la notte dellenozze viene sostituita dalla figliadi un satiro, quasi orrida capra, ve-lata da una magia.

La mattina dopo, levatisi, glisposi si presentano, e gli dei inizia-no a ridere, e lo stesso Momo sco-pre l'inganno, ma gli dei gliallungano a tal punto il naso datramutarlo da 'Mezo Mondo' in'Totus Nanus', ed egli per sostene-re tanto peso, si fa aiutare dal fra-tello Tersite, e per fuggire illudibrio di dei ed uomini, si tra-sforma in zingaro.

Potenza della fantasia, o del-l'odio! Ed è solo uno dei tanti capi-toli polemici delle Due Galatine.

Vorrei notare che c'è anche unqualche nervo della sua personali-

tà polemica che percorre la superficie di tutta l'opera sua,e che merita di essere qui evidenziato. Il suo rapporto dif-

marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 9

Frontespizio della prima tiraturadelle Due Galatine

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ficile con gli editori.Di questa peculiarità ci si è ac-

corti per tempo. Anzi Arcudistesso non trascura di avvertircidi qualche 'infedeltà' dei suoi'stampatori', ed alcuni biografiantichi di Arcudi, come il Lezzi,qualcosa avevano aggiunto.

Più di recente, Mario Marti, hanotato la complicata composi-zione editoriale del S. AtanasioMagno, che in effetti è un'operaper più versi sorprendente, se lasi esamina con attenzione ancheinterna; mentre Giovanni Vin-centi, in più occasioni, ha fattonotare le difformità dei fronte-spizi della Anatomia degl'ipocriti,la maggiore opera di Arcudi,che tanta amarezza e ira gli pro-curò, ed ha poi esaminato lePrediche Quaresimali, trovandosianche qui di fronte a frontespi-zi diversi e a dedicatari diversied anche a date editoriali diver-se.

Come se non bastasse, sorgo-no gli stessi problemi per le ope-re di erudizione galatinese di Arcudi. Qui, veramente c'èda sempre incertezza, sul luogo editoriale: è Genova, perl'editore Celle, o tutto ciò cela invece un luogo editorialediverso, ad esempio Lecce e un editore leccese? Ma ci so-no altre distonìe; ad esempio conosciamo due frontespizidiversi della Galatina letterata, uno, estremamente raro con

dedica a Filippo Romualdo Or-sini, ch'è nome errato, e l'altro,con la stessa data, editore e luo-go editoriale, ma col nome e i ti-toli nobiliari esatti: FilippoBernualdo Orsini.

Ed ancora Le due Galatine: sa-pevamo che anche qui c'eranostate forse due edizioni, perchéindicate entrambe come stampa-te a Genova, sempre nel 1715,ma una dall'editore Gian Batti-sta Celle, e l'altra da Antonio Ca-samara; tuttavia l'unica copiacensita di quest'ultima edizione,conservata nella Biblioteca Pro-vinciale di Lecce, era scomparsada tempo, come molte altre cosedi quella Biblioteca.

Invece, tempo fa, tornando lì aconsultare altro materiale arcu-diano, appunto per terminare ilmio saggio sull'antiquaria di Ar-cudi, grazie alla solerzia di duegiovanissime addette, ho avutola lieta sorpresa di saperla ritro-vata e ne offro il frontespizio al-la vista del lettore, unitamente

all'altro e successivo frontespizio.Dal confronto si capiscono molte cose, perché il primo

frontespizio elenca partitamente tutti i personaggi da luiaffrontati e dai quali difende Galatina, ma in particolare sestesso e la sua operetta del 1709: anzitutto, con la Ferolaapologetica, attacca 'alcuni Gallogreci', cioè Gallipolini, con

10 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Frontespizio della seconda tiraturadelle Due Galatine

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Gian Pietro Musarò in testa, rei di aver attaccato con paro-le e libelli famosi la Galatina letterata, e, a quanto pare, e asuo tempo, anche la Anatomia degl'ipo- criti; quindi la eru-dita risposta al Sanfelice, vescovo di Nar-dò che sosteneva la nascita neretina delvescovo Barlà, nato invece a Galatina, co-sì come Stefano Agricoli, che alcuni si osti-nano ancora a chiamare Pendinelli, e delquale i falsari Polidori e Tafuri pretende-ranno la nascita a Nardò, per arricchirlad'un figlio martire (Agricoli fu ucciso daiTurchi nel 1480 nella cattedrale di Otran-to) ch'è tra gli Ottocento martiri, l'unicosanto a non essere stato proclamato talenel 2013.

Quindi una difesa, e per meglio dire unattacco contro l'abate Domenico de Ange-lis, colpevole di aver ascritto il celebre Pie-tro Galatino alla famiglia Mongiò deiGigli, e certo per influsso di tale famiglia,e non invece alla famiglia Colonna, comesostiene Arcudi, il quale probabilmentesapeva bene che il Galatino, se non era unMongiò non era neppure un Colonna.

Quindi ancora una difesa, quella controle 'maldicenze di Gallasinio': costui è an-cora il Musarò, che Arcudi per anagram-ma dice 'somaro' e quindi 'asino', e perciò'Gallasinio', cioè 'asino di Gallipoli', e si tratta di una dife-sa antica, risalente forse al 1681, e legata alla mammella di

santa Agata, una reliquia custodita a Galatina che i Galli-polini invece pretendevano per loro; un conflitto che è con-tinuato per secoli e che a metà del Novecento ancora

durava, nella speranza che non riemergaancora.

Ricordo soltanto che la reliquia tornòcredo una sola volta a Gallipoli, mi parenel 1923, per i pochi giorni della festa del-la santa, concessa da Antonio o da VitoVallone su richiesta di Achille Starace, alquale era complicato dire di no. Conclu-de l'indicazione del Momus Philosophaster,del quale ho già parlato. Aggiungo peròanche un'altra cosa, perché avendo con-frontato i due esemplari, ho potuto riscon-trare che, frontespizio a parte, sonoassolutamente identici, e questo ci rivelache anche per quest'opera, come in tuttele altre sopra indicate, non siamo di fron-te a due edizioni, ma più precisamente adue tirature o due diversi momenti diffu-sivi d'una stessa edizione.

Probabilmente Arcudi avrà pensato, inun sussulto di prudenza, di alleggerire al-meno il frontespizio da tante dichiarazio-ni di guerra, e ne avrà dettato un altro, ilsecondo, assai più semplice e lineare.

Mi chiedo solo questo: l'unica opera nonritoccata da Arcudi è quella postuma, l'Orbis rectus; saràun caso? ●

marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 11

FRESCHI DI STAMPA

Pubblicato di recente da EdiPan di Galatina, il volume “Pietro Cavoti. I ri-tratti degli illustri salentini” (Centro di Studi Salentini, 204 pagine) cura-to da Luigi Galante e Giancarlo Vallone con introduzione del compianto

Antonio Cassiano, direttore del Museo Castromediano a cui il libro è dedicato.L’opera ripropone, contestualizzandoli, i quadri di quella galleria di personali-tà che l’artista galatinese Pietro Cavoti, (1819-1890) aveva tratteggiato, ora a ma-tita, ora a sanguigna, acquerello, tempera, olio. Lo studio qui riproposto èscaturito dopo una paziente opera di scandaglio tra le carte e i manoscritti delCavoti ancora conservati nel Museo galatinese. In complesso un patrimonio ico-nografico di alto valore, che andava salvaguardato, studiato e condiviso nellaconoscenza. Una raccolta della quale si sono perduti gli originali; disegni chesono divenuti essi stessi testimonianza a favore degli studiosi della storia puglie-se. Il volume diviso in undici sezioni dai curatori Galante-Vallone, parte daiPrincipi Orsini e dal mondo orsiniano per poi passare al Galatino, a Sergio Sti-so, Matteo Tafuri e ai loro allievi. Altri capitoli sono dedicati ai duchi CastriotaScanderbeg, ai duchi e governatori Spinola, agli illustri personaggi della Gala-tina letterata di Alessandro Tommaso Arcudi, e ancora, agli scrittori di Terrad’Otranto, ai cittadini del XIX secolo, alla casa degli Arcudi e terminare con ilbellissimo ed inedito rapporto epistolare tra Pietro Cavoti e Gioacchino Toma.

S. Atanasio Magno

Giancarlo Vallone

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12 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2015

Viaggiatori si nasce o si diventa? Probabilmentel’uno e l’altro, con proporzioni assai variabili e talida creare notevoli differenze nelle scelte comporta-

mentali di ciascun individuo. C’è chi preferisce un’esisten-za tranquilla e prevalentemente stanziale, e chi invece amacambiare il suo habitat per varie ragioni. Volendo parago-nare gli esseri umani agli animali, alcuni appariranno piùsimili ad esemplari che vivono permanentemente nel luo-go di appartenenza, altri ad uccelli migratori che si spo-stano col mutare delle stagioni e delle loro necessità. Seinvece li si assimila alle piante, si vedrà che alcuni appaio-no fortemente radicati come un ulivo o una quercia, altri

sono mobili come canne al vento o penzolano come lianein attesa di un nuovo appiglio. Un altro aspetto importan-te per ogni essere umano è il suo grado di individualismorispetto alla spinta verso la socializzazione. Anche per que-sto verso si troveranno individui che tendono a rimanereattaccati al branco, a seguire le decisioni rassicuranti delgruppo di appartenenza o del capobranco, e ci sono inve-ce i lupi solitari che fanno assegnamento solo su sé stessie le proprie risorse.

Queste prime riflessioni si affacciano repentine alla men-te di chi intraprende la lettura dell’opera di Stefano Med-vedich Soli in Africa, io e la mia vespa (Ed. 5 Emme,

Tuglie, 2014), che è un dettagliato resoconto del suo viag-gio nel continente nero, avvenuto nell’estate del 2007 incondizioni organizzative e circostanze che apparentemen-te sono agli antipodi di qualunque considerazione di buonsenso, e che invece rispondono ad un bisogno quasi com-pulsivo dell’autore di viaggiare per poter dare significatopieno alla propria esistenza.

Stefano Medvedich (classe 1952) vive a Gallipoli. Lau-reato in lingue straniere, ha insegnato francese in istitutiscolastici medi e superiori, finché nel 2006 ha potuto pre-pensionarsi per poi dedicarsi a tempo pieno a soddisfare lasua passione per i viaggi, attività intrapresa sin dalla gio-

vinezza. Nel 2007 harealizzato la sua im-presa più ambiziosa,un viaggio in solitarioattraverso i paesi del-l’Africa nord-occiden-tale e centrale, usandocome mezzo di tra-sporto una piccola ve-spa Piaggio 150.Partito dal Marocco inprimavera, è arrivatoin Tanzania nel set-tembre successivo,dopo aver percorsocirca 20 mila chilome-tri attraversando ben18 differenti stati, pertornare poi in volo inItalia dopo un itinera-

rio durato sette mesi. Durante le varie tappe di questo lungo percorso egli ha

dettagliatamente annotato luoghi e circostanze dei suoitrasferimenti, facendone una stesura per capitoli che dap-prima sono stati pubblicati nella rivista Anxa, e successiva-mente sono apparsi come opera completa nel novembre2014. Nello scorso febbraio 2016 l’autore ha presentato ilsuo libro a Galatina nel salotto Bozzetti, raccontando alpubblico intervenuto i momenti salienti della sua temera-ria impresa, che per un verso genera stupore e perplessità,per l’altro affascina profondamente.

Qualunque viaggio presuppone un movimento direzio-

In un villaggio nigeriano

IN GIRO PER IL MONDO

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marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 13

nale verso una meta prestabilita, e al tempo stesso di al-lontanamento da qualcosa o qualcuno. È evidente che ildesiderio di allontanamento dell’autore vuol dire prende-re temporaneamente ledistanze dalla routinegiornaliera, quella abi-tudinaria sequenza diaccadimenti prefissatio ampiamente prevedi-bili, che a seconda dicome li si considerapossono dare senso distabilità, oppure crearesensazioni di noia e de-motivazione da cui ur-ge evadere. La meta èinvece rappresentatadall’incognito, la diver-sità che accoglie e sor-prende il viaggiatore,sia nel bene che nelmale. In sostanza allabase della decisione ri-solutiva di viaggiare in solitudine vi sono tre elementi, cheMedvedich indica nel desiderio di nuove conoscenze, nel-l’emulazione offerta dai precedenti documentali e lettera-ri illustri (ben noti all’autore ed opportunamenterichiamati da Maurizio Nocera nella sua prefazione al-l’opera), e soprattutto nel voler mettere alla prova le pro-prie capacità di affrontare e vincere una sfida che a moltifarebbe “tremar le vene e i polsi”, rivelandosi fatale per di-verse ragioni.

Dovendosi adattare non solo alla praticabilità della reteviaria (a volte precaria e persino inesistente) ma anche al-le difficoltà presenti in alcuni paesi africani flagellati daconflitti interni sia politici che di rivalità etnica, l’itinera-rio di Medvedich si è svolto in fasi assai diversificate. Unaprima parte in vespa ha coperto i paesi dell’Africa nord-oc-cidentale dal Marocco in giù verso la Guinea (capitoli 2-6),proseguendo nella fascia subtropicale fino al Togo e Benin,e arrivando al confine con la Nigeria (capitoli 8-10). Qui lapolizia di frontiera gli ha negato il visto d’ingresso costrin-gendolo a bypassare il paese, cosa che ha fatto a bordo diuna nave da carico che dal Benin l’ha portato nel Gabon(capitoli 11-13), dove ha potuto proseguire in vespa sino aKinshasa, la capitale della Repubblica Democratica delCongo (capitoli 14-15). Si è poi imbarcato su un battelloper risalire controcorrente il fiume Congo per oltre 1700chilometri fino alla città di Kisangani (capitoli 16-20). Edinfine in vespa ha proseguito nel tratto orientale dell’Afri-ca equatoriale attraverso Ruanda e Burundi fino alla Tan-zania (capitoli 21-26), per giungere al porto diDar-es-Salaam sull’Oceano Indiano e avviarsi al definiti-vo rimpatrio.

Nel suo diario di bordo, pagina dopo pagina, l’autoreconduce il lettore attraverso il continente africano, una re-altà del tutto particolare, sia come tipologia di vegetazio-ne, di clima e paesaggio, di risorse e abitudini alimentari,sia come modo di essere della gente comune, che puntual-mente si dimostra spontanea e accogliente, a differenza deifunzionari pubblici, avidi e corrotti, ma attenti a masche-

rare la loro avidità dietro la diffidenza verso lo straniero.Il lettore diventa ben presto consapevole dei molti rischi acui l’autore si è esposto, ed intuisce che la tentazione di de-

sistere dall’impresa,sebbene mai aperta-mente confessata, deveessere stata a voltemolto forte, specie neimomenti di difficoltàdovuti al pericolo diessere aggredito e de-predato, oppure impri-gionato come spia, osequestrato da banderibelli. Per non parlaredelle malattie in ag-guato (malaria, dissen-teria, infezioni varie),durante le quali egli siè trovato in balìa delcaso, lontano da fami-liari ed amici, che in-tanto erano in ansia

per lui. Molto opportunamente Medvedich rende merito alla

sua silenziosa ed instancabile compagna di viaggio, cheegli definisce “la cosa migliore prodotta in Italia”. Ammi-

La Vespa e gli africani

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rata dagli indigeni africani, ma guardata con incredulità epersino scherno sia dai neri facoltosi che dai bianchi incon-trati nel viaggio, la vespa è riuscita nell’impresa di traspor-tare l’autore e le sue poche masserizie per ben 15 mila

chilometri, grazie all’aggiunta di qualche ulteriore suppor-to ed alcuni accorgimenti protettivi nelle inevitabili cadu-te, dovute al fondo stradale scivoloso, alle imprevedibilibuche a volte davvero enormi, alla necessità di guadaretorrenti resi insidiosi dal fango, dalla corrente, dai grossiciottoli di fondo. Il piccolo veicolo si è sempre rivelato al-l’altezza della situazione, relativamente semplice come ma-nutenzione e riparazione, abbastanza agevole nell’essereessa stessa trasportata con altri mez-zi, come camion e auto nei tratti stra-dali impraticabili per le sue piccoleruote, oppure su una nave da tra-sporto commerciale che ha permes-so di superare l’inospitale Nigeria,ed infine su una enorme chiatta cheper un lungo tratto ha trasportatol’autore sul fiume Congo.

Questa traversata fluviale nel cuo-re dell’Africa è durata ben 25 giorni esi è svolta in condizioni estreme, nonsolo per la mancanza di spazio vita-le dovuta al sovraffollamento tantodi persone quanto di merci ed ani-mali ammassati a bordo, ma ancheper la difficoltà di soddisfare le piùelementari necessità di sussistenzacome lavarsi, nutrirsi, e persino dor-mire. Questa parte del viaggio èquella che più ha messo a dura pro-va la capacità di sopportazione del-l’autore, che significativamente nerievoca i momenti culminanti nel capitolo 19 intitolato “Al-l’inferno”.

Le impressioni più profonde che produce la lettura diquesto libro, che sarebbe improprio affiancare alle grandi

opere narrative di ambiente esotico (forse un richiamo cal-zante potrebbe trovarsi in Life on the Mississippi di MarkTwain, ma solo per alcune analogie di carattere tematico),sono congruenti con l’intenzione dell’autore di produrre

una sobria e fedele cronaca delle sue molte-plici esperienze di viaggio, che mantenga vi-vo il ricordo della fatica sostenuta, dei rischicorsi, della spinta agonistica iniziale mai ve-nuta meno. Il primo elemento da evidenzia-re è la stoica accettazione di qualunquedifficoltà da parte dello scrittore, che con te-nacia incredibile rimane costantemente fer-mo nel proposito di proseguire ad ogni costonel suo itinerario. La seconda osservazione èriferita all’attenzione che egli rivolge verso gliesseri umani che gli accade di incontrare, unasollecitudine che motiva il suo interesse par-ticolare per l’Africa e lo rende assai sensibileverso le varie problematiche che quel conti-nente presenta allo straniero, dalla povertàestrema di alcuni abitanti (spesso bambinigracili e indifesi) ai guasti ambientali causatidallo sfruttamento selvaggio delle sue risorsenaturali, dalle malattie endemiche alle variesituazioni di conflitto alimentate da individui

senza scrupoli. Altrettanto significativa è la comprensionedell’autore verso la disonestà dei funzionari africani, che losottopongono a ripetuti controlli per estorcergli del dena-ro, tentativo per il quale egli arriva persino a trovare qual-che giustificazione, trattandosi di persone spessomalpagate e minacciate a loro volta. Nonostante le moltevessazioni a cui è stato sottoposto durante il viaggio, eglinon esita ad affermare che esse sono ben poca cosa in con-

fronto a quello che gli immigrati stranieri devono subiresul suolo italiano. Anche nei diversi conflitti di natura etni-ca che travagliano l’Africa, l’autore ritrova con rassegnazio-ne l’atavica ricerca di un capro espiatorio, già motivo di

14 Il filo di Aracne novembre/dicembre 2015

Un po’ di frescura

Tra il fango della foresta africana

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marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 15

stermini e genocidi in luoghi e fasi storiche diverse. Dal punto di vista letterario una qualità particolare del-

l’opera, che emerge specialmente nei rari ma significativimomenti di tregua dinamica che la narrazione presenta,consiste nella capacità dell’autore di rendere con pochi in-cisivi tratti la bellezza primitiva del pae-saggio africano, ed anche l’incanto dialcune notti silenziose che permettonodi abbracciare un cielo infinito dove sistaglia la Croce del Sud, e in cui lo scrit-tore-viaggiatore (e il lettore con lui) puòfinalmente sentire di essere molto vici-no alla sua meta.

Un’ultima considerazione vogliamoaggiungere. L’autore, che si professanon credente, nel resoconto del suoviaggio non si occupa mai dell’aspettoreligioso, o anche genericamente spiri-tuale, delle persone che gli capita di in-contrare, sia per quel che riguarda inativi africani che nel caso dei vari reli-giosi di nazionalità europea che opera-no nelle missioni e spesso gli hannodato ospitalità durante le soste del suoviaggio. E tuttavia c’è un momento nelpenultimo capitolo del suo libro, in cui egli intercala nellasua narrazione una annotazione riflessiva, che ci piace ri-portare non solo per il suo significato intrinseco, ma anchecome esemplificazione dell’efficacia espressiva che Med-vedich riesce a conseguire con il suo stile diretto e appa-rentemente semplice. Contestualizziamo la situazioneprecisando che egli si trovava alla periferia di Bujumbara,

la capitale del Burundi, ospite in una missione di Padri Sa-veriani, che dopo cena si predispongono alla lettura di al-cuni brani del Vangelo e gli chiedono di unirsi a loro:

“Un po’ per non restare solo, un po’ per non sembrare scorte-se, seguo i missionari in una piccola cappella. Ho sempre pensa-

to, io che non sono credente, che non esistaluogo più adatto alla meditazione e alla di-stensione della mente di una cappella ri-schiarata dalla fioca luce di qualche candela.Un vago sentore di incenso, la luce tremo-lante ed incerta delle candele che addolciscee rende più sinuose le forme delle colonne edei capitelli della cappella, la voce can- tile-nante e suggestiva dei padri, tutto ciò miinfonde un senso di pace e di tranquillità.

A distanza di alcuni anni dal mio viag-gio, mi capita di veder affiorare nella miamente il ricordo di quei momenti così cari-chi di “magia”. (pag. 189)

Se questo è il massimo grado di sen-so del divino che sembra sia stato con-cesso all’autore, forse possiamo stupirciche egli lo abbia incontrato in una re-mota missione dell’Africa orientale, an-ziché in qualcuna delle varie chiese e

cappelle votive che si trovano in quasi ogni viuzza di Gal-lipoli, specie nella città vecchia. Ma ancora una volta si tor-na alla constatazione del bisogno basilare di ogniindividuo di trovare un punto di partenza come pure diarrivo, per definire i quali ciascuno deve cercare e seguirela propria strada. ●

Giuseppe Magnolo

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16 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

UNA FINESTRA SUL PASSATO

Recentemente, da una ricerca condotta su Matteo Ta-furi (1492-1584), famoso matematico, astrologo, me-dico e filosofo di Soleto, sono emerse alcune tracce

documentarie, già edite, interrelate con le vicende del suomaestro Sergio Stiso (1458-1531) di Zollino, e, fatto più im-portante, alcune attestazioni inedite sull’incerta, e a volteconfusa, biografia del magisterzollinese.

Dal voluminoso incartamentodel “beneficio” soletano di SanMarco del 1566, apprendiamoche una Tafuri di Zollino, di cuinon conosciamo il nome, forsezia di Matteo Tafuri, era sposatacon il zollinese Francesco Car-rozzini. La coppia abitava a Zol-lino in una casa vicino allaecclesia magiore de dicto casale(Zollino), non molto distante dalpalazzetto di Sergio Stiso, che,dalla ricostruzione propostadalla rivista “Nuova Messapia”,farebbe pensare ad una dimoradi una famiglia benestante, conuna solida consistenza patrimo-niale, della quale può essere in-dicativo un rogito galatinese del1565, in cui il magnifico VincenzoStiso, erede del padre il magnifi-co Giovanni Stisio, vantavanodall’Università (la Civica Ammi-nistra- zione) di Galatina, percausa del loro credito, ben 644 du-cati. I Carrozzini-Tafuri di Zolli-no, che intorno al 1494 s’eranotrasferiti a Soleto (questa casaCarroccino sonno de lo casale deZullino, et da poco tempo in qua vennero in Solito at fare l’inco-lato, a fissare cioè la nuova dimora), dalla fine del ‘400, deb-bono aver avuto rapporti di vario tipo con la famiglia Stiso,che aveva un ruolo dominante nella vita sociale di Zollinoe soprattutto nella gerarchia ecclesiastica del clero secola-re. Potremmo perciò ipotizzare, essendo morto nel 1501l’arciprete di Soleto Giovanni Tafuri, ritenuto il padre diMatteo, che la scelta del maestro Sergio Stiso per il picco-lo Matteo, possa essere stata sollecitata dallo zio zollinese

Francesco Carrozzini, molto legato al nipote, come si evin-ce da un’at- testazione del 1567, relativa ad un’iscrizionegreca e ad un affresco della chiesa di San Marco di Soleto:Io messer Matteo Tafuro declaro […] et de più adgiungo comequando se pinsero (furono dipinte) dette imagine et scritte dit-te littere grece in detta ecclesia, mi ricordo che fui presente et era

io de età circa anni 6, et la fece pin-gere detto Francisco Carroccino(suo zio), il cui figlio, AntonioCarrozzini, consubrino (cugino)di Matteo Tafuri e abbate dell’ab-bazia soletana di San Nicola, nel1532 aveva fatto dipingere un ri-tratto giovanile del filosofo sole-tano, poi disegnato nel 1858dall’artista galatinese Pietro Ca-voti. Bisogna anche dire che gliStiso, come famiglia, erano atte-stati anche a Soleto nel 1607, co-me risulta dalla visita pastoraledi quell’anno, che segnala tra i“benefici” dell’altare di S. Matteodella matrice, 107 alberi di olive etun puzzo in mezzo nelle pertinenzedello Stiso. Sergio Stiso, probabil-mente per i forti e stretti legamicon i Carrozzini, fu convocato,prima del 1531, come teste nelprocesso celebrato per stabilire achi doveva essere attribuito il pa-tronato della chiesa di San Mar-co di Soleto, che vedeva in lite,da decenni, i Carrozzini-Tafuricon i Mezzi-Spacciante di Gala-tina. Infatti, nell’escussione testi-moniale (senza data), erano statichiamati come testi, insieme ad

altri, il Venerabilis dominus Sergius Stisus de Zullino e il Vene-rabilis dominus Adamus Peregrinus de Zullino. Lo Stiso erastato chiamato a testimoniare perchè era di Zollino e per-ché aveva familiarità con i Carrozzini-Tafuri. Riteniamo,quindi, che la sua deposizione sia stata a loro favore.

Sorvoliamo sulle dichiarazioni di Francesco Lo Parco,che afferma, senza alcun conforto documentale, l’originegallipolina degli Stiso, e inclina a credere che Sergio Stisopossa essere un monaco, piuttosto che un prete di rito gre-

Galatina (LE) - Museo Pietro CavotiSergio Stiso in un disegno di P. Cavoti

Foto di Luigi Galante

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co. Le prime vere novità su Matteo Tafuri le hanno forniteAndré Jacob e Giancarlo Vallone, mentre quelle su SergioStiso, ancora André Jacob e il compianto Vittorio Boccada-mo, che, nella visita pastorale del 1522, trova come cappel-lano della chiesa di Santa Maria di Tricase di Sternatia ilcappellanus in ea magister Sergius Stisus e, ancora nel 1522,che la chiesa di San Salvatore di Zollino era di diritto dipatronato del maestro Sergio Stiso: dicitur de jure patrona-tus magistri Sergii Stisii.

Molto interessante per la nostra ricerca - con notizie ine-dite - risulta il “beneficio” di S. Stefano di Sternatia, rela-tivo all’omonima chiesa, inserito, però, negli acta beneficialiadella chiesa di Santa Maria della Candelora, sempre diSternatia. In questi “benefici” cinquecenteschi, conservatinell’Archivio Arcivescovile di Otranto (AAO), troviamoqualche volta alcuni transunti del ‘400, che sono inseriti incopia per accreditare il diritto di patronato di una fami-glia, piuttosto che quello di un’altra. Ebbene, nel “benefi-cio” di Santo Stefano, è detto che il magister Vitus delquondam Stefani Durante, il 15 giugno del 1488, rinunciò al-la cappellania di S. Stefano e, il 28 ottobre del 1490, pre-sentò come cappellano della chiesa di Santo Stefano ilchierico Sergio Stiso di Zollino. Questa la fonte: MagisterVitus Durante presentavit in cappellanus in ipsa ecclesia SanctiStefani clericum Sergium Stisum de Zullino. Il rogito venneredatto a Galatina di fronte al notaio galatinese Basilio e algiudice a contratto soletano Demetrio Calofilippi. I testierano i preti Angelo Raschono, Stefano Morrea, NunzioCalamo di Galatina, il prete Pietro Coppola di Sternatia, ilprete Battista Calò di Soleto e il prete Nicola Lachisano.Giano Lascaris (1455-1534), dunque, bibliotecario di Lo-renzo il Magnifico, quando nel 1491 visitò la casa di SergioStiso di Zollino, prima di recarsi in Grecia, ebbe a trattarecon un chierico di 33 anni.

Per ultimo, segnaliamo tre altri documenti molto impor-tanti, che riguardano la sfera familiare di Sergio Stiso. Inaltra sede è stata ipotizzata la sua morte come avvenutatra il 1535 e il 1540. Invece, nel “beneficio” di Santo Stefa-no di Sternatia, è ricordato che il 6 maggio 1531, essendo lachiesa priva di cappellano, venne presentato il nuovo cap-pellano Tommaso de Gasparro per mortem q(uon)damp(res)b(yte)ri mag(ist)ri Sergij Stisij de Zullino, cioè per l’av-venuta morte del maestro Sergio Stiso di Zollino, che, nelfrattempo era diventato prete. Se si prende come buona ladata di nascita di Sergio Stiso, cioè l’anno 1458, propostoda Francesco Lo Parco, il magister di Zollino sarebbe mor-to all’età di 73 anni. Nella visita pastorale del 2 ottobre 1538effettuata a Soleto, legati alla chiesa di San Martino, risul-tano duo clausoria (due terreni) in feudo Zulini (nel feudo diZollino) iuxta olivas D. Marco Stisi (attaccati all’uliveto diD. Marco Stiso). Il prete Marco Stiso è citato anche nellavisita pastorale del 1540, effettuata alla chiesa di San Sal-vatore di Zollino, in cui, nella trascrizione di Andrea Cap-pello (da emendare), risulta quondam, cioè defunto, al paridi Sergio Stiso, di cui è erede: quo(n)dam d(omi)ni Marci Sti-si heredum q(uon)dam ma(gist)ri Sergij Stisi. Precisiamo chein questo documento del 1540, giustamente Sergio Stiso ri-sulta defunto, essendo morto nel 1531. Resterebbe da da-re un senso compiuto al termine heredum assegnato aMarco Stiso. Infine, ancora nella visita pastorale del 1538,tra i beni legati all’altare di San Luca della matrice di Sole-

to, figura un clausorium unum terrarum nominato Litarò inpertinentiis de Deodatho iuxta clausorium Basili Carluti Zuli-no et iuxta clausorium Belisarij de Sergio Stiso (un terreno de-nominato Litarò, situato nelle vicinanze di Deodato eattaccato ai terreni di Basilio Carluti di Zollino e Belisariodi Sergio Stiso). In questo caso risulta chiaramente che Ser-gio Stiso è il padre di Belisario, arciprete di Zollino, né de-ve trarre in inganno il fatto che Sergio Stiso, in quelperiodo, non risulti quondam, cioè defunto, considerato chein molti altri documenti del ‘500, la paternità è indicataspesso senza specificare lo stato di vivente o di defunto delparente. Si ha l’impressione, insomma, che Sergio Stiso siail padre di Marco e di Belisario Stiso. E chi la madre? For-se la bellissima Flora, “incarnazione terrena della Dea deifiori”, che turbava (perturbat) il cuore del sacerdote grecoSergio Stiso, quando, dal 1496, faceva parte dell’Accade-mia di Lecce, fondata dal Galateo a somiglianza dell’Acca-demia pontaniana di Napoli.

Nel 1540, la matricula presbyterorum di Zollino compren-deva l’arciprete Bellisario Stiso, i preti Sigismondo Stiso eMarco Stiso, il chierico Troiano Stiso, oltre che i preti Ada-mo Pellegrino e Antonio Pellegrino. Come dire che la ge-stione del sacro a Zollino era fermamente nelle mani degliStiso e dei Pellegrino. ●

BIBLIOGRAFIA:(L. MANNI, Dalla guglia di Raimondello alla magia di messer Matteo,Galatina 1997; AAO, Soleto, Visita pastorale del 1607, c. 308r; AAO(Archivio Arcivescovile di Otranto), Soleto, Visita pastorale del1538, c. 61r, c. 62 r, c.308 r; AAO, Acta beneficialia, “Beneficio di S.Maria della Candelora”,1, Sternatia, c. 8r; A. CAPPELLO, Zollino,Lecce 1999, p. 404; A. JACOB, Un nouveau manuscrit des Himnes or-phiques et son copiste François Cavoti de Soleto, in “L’antiquité clas-sique” 52 (1983), pp. 246-54; A. JACOB, Sergio Stiso de Zollino etNicola Petreo de Curzola. A propos d’une lettre du Vaticanus gr. 1019,in Bisanzio e l’Italia. Raccolta di studi in memoria di A. Pertusi, Mila-no, Vita e pensiero, 1982, pp. 154-168; G. VALLONE, Restauri sa-lentini, in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 1-1991, Galatina1991, pp. 153-159; V. BOCCADAMO, Terra d’Otranto nel Cinque-cento. La visita pastorale dell’archidiocesi di Otranto del 1522, Galati-na 1990, pp. 104-105; AAO, Zollino, Visita pastorale del 1540, cc.143r- 143v.; L. GALANTE- G. VALLONE (a cura di), Pietro Cavo-ti. I ritratti degli illustri salentini, Galatina 2016, p. 44; P. PELLE-GRINO (a cura di), Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento inTerra d’Otranto, Galatina 2012, pp. 108-109).

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18 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Presso il Départment des Manuscrits della BibliotecaNazionale di Parigi, al numero 733 di quelli italiani[carte 27-32], si conserva un Notorio della vita di Fra’

Lorenzo Mongiò di S. Pietro in Galatina frate zoccolante, e ve-scovo di Pozzuoli fatto coll’occasione della sua carcerazione inRoma per cose di Santo Offcio.

E’ una sorta di memorialedifensivo, rimasto sin qui ine-dito, scritto, tra il 1628 ed il1629, mentre il nostro vescovo«si ritrovava detenuto in Ca-stel Sant’Angelo ad instanzadel Santo Offitio» con l’accusadi pratiche magiche, atte a«scongiurare gli Spiriti e chia-marli in suo aiuto per cavareThesori», ed il possesso di li-bri proibiti. Nonostante aves-se più volte avanzato, mainvano, richiesta di grazia alpapa Urbano VIII, fu comun-que condannato a dieci anni diconfino da scontarsi nel con-vento romano di Santa Prasse-de ed alla rinuncia della vitaecclesiastica.

Trasferito, in seguito, nel convento dell’ordine suo diAracoeli qui, passò a miglior vita, pressoché ottuagenario,l’11 febbraio 1630. Queste memorie, con le quali il vescovosupplica tutti i suoi accusatori perché le ricevano «non pervanità, o, vanagloria; ma per mera necessità, acciò sappia-no con verità la sua vita, per gloria di Dio, et esempio de-gli altri», consentono altresì una verifica su quanto il padredomenicano Alessandro Tommaso Arcudi, su di lui scris-se, nella sua Galatina Letterata (Genova 1709, pp. 91-102).

NOTORIO DELLA VITA DI F. LORENZO MONGIÒ DIS. PIETRO IN GALATINA / FRATE ZOCCOLANTE, E

VESCOVO DI POZZUOLI / FATTO COLL’OCCASIONEDELLA SUA CARCERAZIONE IN ROMA PER COSE DI

SANTO OFFICIO

Fra Lorenzo Mongiò fu religioso dell’Ordine di S. Francescodell’Osservanza, nella Provincia di S. Nicola di Bari e Terra

d’Otranto. Compì lo studio della Teologia sotto la disciplina delP. Panigarola, in Bologna. Il quale predicando in Roma a’ tem-po di Gregorio 13° fu dimandato dal detto Pontefice, che studen-ti tenesse, rispose, che fra tanti, di tante nazioni che studiavanosotto di lui, v’erano due greci insigni, cioè il P. F Bonaventura di

Nixia nell’Arcipelago, et il P. F.Lorenzo Mongiò Galatino dellaProvincia di Terra d’Otranto, giàprofessi in Teologia. Laonde il Pa-pa che all’hora fondava in Romail Collegio de’ greci, li fe’ chiama-re in Roma, per servirsene in Gre-cia a predicarvi, e condurre i figlidi greci a studiare in detto Colle-gio acciò così venisse a pacificarsil’unione della chiesa greca con lalatina. Ammaestrati dal Cardinaldi Como, furono inviati in Greciaambedue, e con Brevi Apostolici, eparticolarmente [c. 27] // in Can-dia. F. Lorenzo predicò nella cittàdella Canea. Vi stettero molti an-ni, e mandarono molti giovani indetto Collegio. F. Bonaventuradallo stesso Pontefice, fu fattovescovo in una città di quell’iso-

la. Il nostro F. Lorenzo poi essendo stato eletto Provinciale dellasua Provincia, fu dallo stesso Papa Gregorio mandato visitatorenel contado della Cimarra, parte del Regno di Albania, con Bre-ve Apostolico, et istruttione del Cardinale di S. Severina. Ridus-se quei popoli ad accettare l’8° Concilio Fiorentino, ed ilPatriarca de’ Cimaroti ad ubedire al Papa, al quale anco manda-rono Ambasciatori d’ubedienza et, in quanto al temporale, riu-scendo prima da per se, esso li soggettò alla Casa d’Austria edoppo s’adoperò con i vicerè di Napoli, acciò che li mandasseroarmi, come anco fece, essendo soccorso con Filippo 3°, come ap-pare dal Libro delle Probationi, che si sogliono spedire dalla Re-gia Camera.

Essendo ancor Provinciale, andò in Spagna al Capitolo Gene-rale celebrato in Valladolid a’ tempo di Filippo 2° per l’elezionedel nuovo Generale e perché all’hora correano le rivolutioni diFrancia, et i Generali della sua Religione sempre erano stati stra-nieri, e mai vassalli di S. Maestà. Pertanto operò con la Maestàdi Filippo, e con il Cardinal Quiroga di Toledo, perché si servis-

HISTORIA ECCLESIAE

Fra’ Lorenzo Mongiò visto da Pietro Cavoti

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se del Nuntio Caietano, Presidente del Capitolo perchè, in ognibuon conto uscisse Generale un Vassallo del Re: si trattava an-co col Presidente di Castiglia la Vieja, e con D. Vittoria Colonnamoglie dell’Almirante di Castiglia, e con altri personaggi, e co-sì promo sua, che pensò al Nunzio della Casa d’Austria, riuscìGenerale F. Bonaventura Secusio da Calatagirone in Sicilia; chefu pronto adoperato da Clemente 8° e Filippo 2° nella pace diFrancia.

Clemente 8° ad istanza del Cardinal Henrico [c. 28] // Caieta-no e del Cardinal Montalto, lo fe’ Vescovo di Minerbino in Pu-glia. Vi stette cinque anni senza far servitio alcuno alla Coronad’Austria onde si riservò di resignar quella Chiesa, e ve-nutosene in Napoli l’anno del Giubileo 1600, s’avval-se dell’aiuto del Vicerè Conte di Lemos, che lofavorì col Duca di Sessa Ambasciatore in Ro-ma, e col Cardinal Gesualdo Capo dellaCongregazione delle Cause Concistoriali,alla quale fu rimesso il memoriale dellasua resignazione, et in detta Congregazionefurono ammesse le ragioni da lui apportate perla sua resegna.

Si ritirò in Baviera per Administratorede’ Pontificali appresso l’Arcivescovo diSalsburg con provisione di mille scudil’anno. D’indi, doppo due anni, passòin Valladolid, ove stava Filippo 3° enon essendovi ivi piazza per esso, fupromosso per Visitatore nel Gran Prio-rato di Leone e Castiglia. L’effetto nonseguì perché il Re volle compiacer a D.Gio. de Ribera Patriarca d’Antiochia etArcivescovo di Valenza, mandandolo alsuo servizio, ove stette per anni sei perAdministratore de’ Pontificali con sod-disfattione della Città e Regno.

Il Vescovo d’Urgel in Catalogna, loricercò per Visitatore del suo Vescovato:e l’ottenne e passando per Tarragona futrattenuto ivi dall’ArcivescovoD. Gio. Vich, che s’impetrò dalPatriarca per farli visitare la suaChiesa. Il che fatto se ne ritornò in Valenza. L’occasione perchéfra tanto non li fusse data Chiesa, era, che il Marchese di Malpi-co nipote dell’Arcivescovo che era della Chiave d’Oro, gli ostava,per non privar la Chiesa di Valenza di un tal ministro. Ritiratoil Marchese [c. 29] // al suo stato, coll’occasione che era vacantela chiesa di Lanciano, fu data a lui per opera di D. Gio. VelascoPresidente del Consiglio d’Italia. Del che restò ammirato il Pa-triarca considerando il suo servitio, e l’esempio buono che davaa tutti, vivendo nel suo convento di S. Francesco in un quarto.

Provisto della chiesa di Lanciano, andò a Madrid a ringraziaril Re, et il Presidente, e S. M. gli diede cinquecento scudi di aiu-to di volta in Sicilia. Ritornò in Valencia e mentre le galere era-no in Denia col Generale D. Pietro di Toledo, andò ivi, e vi stettepiù d’un mese, d’indi furono all’isola de Yarra e poi con tutte legalere a Vinaros per l’uscita dei Moreschi, e se ne venne in Bar-cellona con due galere venute ivi per bastimenti e non essendo-vi passaggio per mare per la Francia se ne venne a Roma, ove colmezzo dell’Ambasciator D. Francesco di Castro hebbe la benedi-tione da Paolo V non essendovi bisogno di riesaminare, perchéera stato esaminato da Clemente 8°.

Fra questo mentre fece copiare l’opere di Pietro Galatino chestanno m.s. nella libreria d’Aracoeli cioè la Summa della veraTeologia tomi 4 in folio, la Summa de Materia Sostituita, Desti-tuita, et Restituita tomi 3 in folio. Un tomo grande su l’Apoca-lisse, et un tomo in folio d’opuscoli, tra quali v’era un trattatodetto Ostium apertum, nel quale tratta del modo di esporre lascrittura sacra. E dette opere non potendosi stampare ne in Lan-ciano, ne in Napoli, gliele cercò il P. Vicario et Procuratore Ge-nerale F. Berardino Moncalvo, per procura fatta al P. F. GirolamoTagliacarne genovese, al quale furono consegnate per atto pub-blico di Notar Agostino Capaccio di Pozzuoli, acciò la Religione

Osservante di S. Francesco le facesse stampare, dedican-dole a Filippo 4° e l’originali [c. 30] // fossero consegna-

te alla libreria di S.ta Caterina di S. Pietro inGalatina.

Otto anni resse l’Arcivescovado di Lan-ciano, con somma quiete, e sodisfatione ditutti il che più è stato sottoscritto con la

penna di due altri Arcivescovi.Il Duca di Lerma quando li fu dato Lanciano

gli disse che sarebbe stato migliorato, e così fu,perché gli diedero la Chiesa di Pozzuoli.

Stando in Pozzuoli, lì vi peregrinaronotre Ambasciatori de’ Regni d’Albania,

Macedonia, e Tessaglia, riferendo che sivolevano dare in mano dell’Arcivesco-vo, et erano venuti da lui come a perso-na prattica e cercavano aiuto d’arme, edi gente: per lo qual stesso effetto have-va mandato in Spagna un Patriarca che

offriva tutta la Musacchia il quale stet-te alcuni mesi in Pozzuoli a spese del

Vescovo. All’istesso tempo venne dallaCorte il P. F. Serafino Castriota di Veno-sa, con lettera al Duca d’Ossuna Vicerè,che accettasse detto Patriarca et Amba-sciatori. Ma il Duca, non potè abbrac-ciare l’impresa, trovandosi per altro sin

esercito di terra, e armata in ma-re, dovè furioso licenziare il Pa-triarca, e Ambasciatori, tralas-

ciandosi un’amicizia così buona, e ne fu mandata relatione a S.M.ta per il Cardinal Borgia che succedè al Duca d’Ossuna.

Nella Religione è stato Provinciale et anco Visitatore Genera-le di molte Province, e della maggior parte della Lombardia incompagnia del Commissario Generale nei quali luoghi, non rice-vè macchia alcuna e se alcuno havesse cercato d’offenderlo, essoli perdonava, e li beneficava sempre [c. 31] // e molti che han ten-tato d’offenderlo, esso l’ha visti puniti da Dio, con sommo suo di-spiacere.

Questo si manifesta, acciò ogn’un sappia che se benchè essoavanti Dio è un gran peccatore, nondimeno nel cospetto del mon-do, ha dato sempre buon esempio. Pertanto esso prega ogn’uno,che, se in qualche modo si fusse scandalizzato del suo vivere, loperdonino e l’aiutino con la S.ta Carità, perché non si può vive-re così oculatamente; che non ci sia qualche mancamento.

Con questo notorio, supplica tutti che lo ricevano non pervanità, o, vanagloria; ma per mera necessità, acciò sappianocon verità la sua vita, per gloria di Dio, et esempio degli altri.[c.32] // ●

Galatina (LE) - Chiesa SS. Pietro e PaoloMausoleo in onore di Fra’ Lorenzo Mongiò

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Sono stato dentro un sogno.Non saprei spiegare co-me sia potuto accadere. E tuttavia, essendo accadu-to solo pochi giorni fa, di questo evento

straordinario e affascinante – sono in grado di parteciparea voi Lettori ogni più minuta e fresca emozione.

Per non disperdere troppo il filo del ricordo, lo racconte-rò in tre fasi distinte. Anche perché la sua magica sequen-za, come appurerete, si è svolta in tre diversi luoghi diTerra d’Otranto, concludendosi infine nella mia amata cit-tà di Galatina.

Non è una leggenda. Le leggende tornerò a raccontarleuna prossima volta. Si tratta proprio di un sogno vero ereale: un autentico prodigio. Di quelli che si ricordano perlungo tempo, e anzi per sempre, lasciandoti dentro comeun sapore indefinibile di sbalordimento, sorpresa, mera-viglia, piacere.

E ora, se siete pronti, vi rendo i fatti.Era autunno. Poi è arrivata l’estate. E finalmente la pri-mavera. Proprio “questa” primavera. Non quella di uno ocento o mille anni fa.

Come avrete già capito, in quel sogno le stagioni anda-vano alla rovescia.

Sta di fatto che, solitario e felice, mi trovavo sperdutodalle parti del Capo di Leuca (senza la minima idea di co-me tutto fosse cominciato), a cavallo di una vecchia bici-cletta. Di quelle biciclette, peraltro, che li furìsi, i nostrieroici contadini del Salento, utilizzavano in un tempo nonlontano: belle toste, e anche un po’ massicce, capaci di ospi-tare perfino un po’ d’arnesi di lavoro, come la pesantissimazappa o la sarchiuddha o l’ombrello, fissati alla canna, maanche legati ad una sorta di portabagagli, accroccato allameno peggio dietro il sellino.

Una volta, quand’ero piccolo di nove o dieci anni, e mitrovavo in casa di uno dei miei compagni di gioco di allo-ra (ricordo solo il soprannome, anzi: la ‘ngiùria’ della fami-glia, che era Picachi) l’avevo ben vista una bicicletta di quelgenere. Il contadino che la usava era il padre del mio ami-co: una specie di gigante dalla pelle scura, còppula calatasugli occhi, viso infossato, barba ispida e lunga di quattroo cinque giorni, vocione incatarrato dalle sigarette (che fu-mava una dietro l’altra: le micidiali Alfa senza filtro, artico-lo per uomini davvero duri, altro che Indiana Jones!...).

Insomma, pedalavo di buona lena verso Galatina, pas-sando da Presicce, poi da Ruffano, e più su fino alla meta.Dovevo affrettarmi, perché era già l’inizio del mattino, epresto sarebbe venuta l’alba, e poi la notte, giacché il tem-po, come detto, ruotava al contrario.

In ogni paese trovavo una festa: luci, processioni, ban-de, batterie di fuochi, giostre, baracche ricolme di noccio-line, di scapece, di cupeta, o di giocattoli e nastri colorati.

E, dappertutto, frotte di bambini e ragazzi. Tutti a corre-re verso di me. In ogni paese che attraversavo, appena mivedevano, mi circondavano, e mi chiedevano di far lorodei disegnini buffi e di raccontare le favolette. E anche seavevo fretta, io lasciavo la bicicletta in un angolo, mi met-tevo a ridere e a scherzare, facevo cento disegnini buffi,raccontavo cento favolette, e riprendevo la strada, più fe-lice di prima.

Prima di ripartire, a ognuno regalavo un fiammifero(quelli di legno, i tipici zolfanelli o ‘prosperi’ da cucina, chemi erano stati concessi da un vecchio Mago, proprio per

donarli), e raccomandavodi conservarlo, e di non ac-cenderlo mai, per nessunmotivo, perché ogni singo-lo fiammifero conteneva unincantesimo personale, e sesi accendeva, l’incantesimospariva.

Quale incantesimo? Nonlo so. O forse lo so, ma nonposso dirlo.A Presicce si festeggiavaSant’Andrea, raffiguratocon due triglie in mano,perché era pescatore. An-che San Pietro, suo fratello,era pescatore come lui.

La favola che ho raccon-tato ai bambini presiccesi –che poi era una storia vera– è stata quella di Clemen-te, il figlio del Barone, cheessendo di famiglia riccaaveva molti libri, e il piùbello era un libro tutto il-lustrato. Quel libro (che hovisto anch’io con i miei oc-chi, perché a casa del Baroneci sono andato moltissime volte) era tanto grande che, persfogliare le pagine ci vole-vano almeno due persone,e bisognava prima sposta-re il lettino, poi il tavolino da studio, le sedie, e tutti gli al-tri mobili della stanza di Clemente.

Al quale mando un saluto, ovunque sia.Con poche pedalate sono arrivato a Ruffano.

Nel frattempo, da novembre che era, ci trovavamo agliinizi di ottobre, e proprio nel giorno della festa patronaledi Santu Frangiscu. Se avessi potuto aspettare, avrei ancheassistito ai festeggiamenti del 16 agosto per Santu Roccu,nella vicina frazione di Torrepaduli: festa spettacolare, an-tica e assai famosa per la ‘danza delle spade’, al suono fre-netico della ‘pizzica’ dei tamburellisti del luogo.

Il fatto è che i bambini non midavano tregua (con mia massi-ma gioia, devo dire) e mi solle-citavano a disegnare per loro, aridere, e a raccontare le storie.Che erano sempre tutte vere, disana pianta.

Come quella del Cavallo Pa-squale, un vecchio cavallo chevoleva lavorare al Circo eque-stre, e si era ammaestrato da so-lo. Infatti, nascosto a origliaresotto le finestre delle Scuole Se-rali, aveva imparato a menaditole tabelline, e faceva sfoggio disé: «2 x 7?», gli chiedevano.«36!», rispondeva lui, con sicu-rezza. «5 x 8?». «Millantaquat-

20 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando non ci saranno piø leggende da raccontare �niranno tutti i sogni. Ma per fortuna i sogni non �niscono mai.

Misteri, prod nell’antica Te

Ventiseiesi

di Antonio Me

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tro!», replicava veloce.Magari sbagliando, qual-che volta. Ma era di unaprontezza incredibile.

Della tabellina del “9”, ilCavallo Pasquale confes-sava di sapere, meglio ditutti, il risultato di 9 x 9,perché poi – quando glie-la chiedevano – lui rispon-deva: «9 x 9 = 81...». Esubito aggiungeva: «...Tiesi’ l’asinu, e iu su’ lu patru-nu!», nitrendo a crepapel-le per lo scherzo.

Anche ai bambini ruffa-nesi ho regalato il fiammi-fero con l’incantesimo. Esono ripartito, pedalandofra mille sorrisi. Quando sono giunto aSogliano, mi sentivo qua-si a casa.

C’era festa anche lì: San-tu Larenzu, il 10 di agosto,proprio la notte delle stel-le cadenti.

Tant’è vero che, a mezzanotte precisa, appena arrivatosulla piazzetta nei pressi della chiesa, rapida come un ful-

mine, non mi va a cadereuna stellina (piccola, mamolto appuntita) proprio

sulla ruota anteriore della bicicletta, e mi fora il coperto-ne?

Apriti cielo!... E infatti, proprio in quel momento, ho vi-sto il cielo che si apriva come per prodigio e, aggrappati atante nuvole rosa, che si stavano nel frattempo allargandointorno al buco che s’era spalancato, c’erano tutti i bambi-ni di Sogliano, che si erano nascosti lassù per burla. Unchiasso che non vi dico!... Divertiti al massimo, se la ride-vano a crepapelle, ed erano proprio loro che, di tanto intanto, buttavano giù le stelline che avevano in mano. Lequali cadevano prima veloci, poi sempre più piano, e pri-ma di toccare terra si trasformavano in fiori profumati.

Solo la stellina di prima – quel-la che mi aveva bucato il coper-tone della bicicletta – era statatanto veloce che non aveva fattoin tempo a trasformarsi in fio-re!...

Che fortuna, no?... Lo dico sen-za ironia. Infatti, quella stellinala tengo come ricordo accanto almio letto, sul comodino. Unaspecie di abat-jour che si accen-de e si spegne da sé, a secondache io stia dormendo oppure no.Le stelline sanno come si fa.

Mentre chiedevo ai bambiniquando sarebbero scesi dalle nu-vole rosa, per divertirci tutti in-

sieme con i disegnini e le favolette, mi sono visto circonda-to da più di cento e cento persone. Una vera folla! Eranotutti vecchi. Erano le nonne e i nonni di Sogliano. E unosolo di Cutrofiano (capitato lì per antica devozione a SanLorenzo), il quale è stato il primo a parlare, e a spiegarmiche tutti quei vecchi mi stavano aspettando per discuteresul perché Sogliano ha il ‘cognome’ di Cavour.

Discutere con me su una questione del genere? A mezza-notte passata?! Mi hanno certo scambiato per qualcun al-tro! Io non sono un professore. E poi, devo disegnare eraccontare le favolette ai bambini... Anzi – a causa di que-sto Tempo che va alla rovescia –, forse sto ritornando bam-bino anch’io!...

Improvvisamente, dal mezzo della straripante fiumanagerontologica, avanza lento un vegliardo dagli enormi baf-foni color acquamarina, la barba bianca a pallini rossi, ve-stito da cacciatore, con un cappellone nerofumo che ha unasvettante penna di fagiano a un lato, e sventola come unabandiera. È accompagnato, il patriarca, da una vecchiettaminuta, che indossa un largo grembiule nero ricamato afiori, le cui ampie tasche sono visibilmente rigonfie di ca-ramelle, noci, fichi secchi, foglioline di menta, tocchetti dicacio fresco, briciole di tarallo, un paio di pitteddhe con lamostarda d’uva, e altre straordinarie delizie. Assomiglia –quella piccola e deliziosa signora – alla mia dolcissimanonna Anna (che proprio di Sogliano, era). «Uccio!», chia-ma lei, a gran voce. E al corpulento massaro, che arriva dicorsa, salutando con la còppula alzata, ordina: «Vieni cquai,Cavour, ggiùstali la bicicletta a ‘stu vagnone, ca tocca cu tornaa casa!».

Sistemato il copertone, poco dopo svaniscono tutti: i vec-chi, il massaro Uccio Cavour, e la nonna. Che non mi è riu-scito di baciare, come infinitamente desideravo.

Restiamo io e i bambini di Sogliano, tornati nel frattem-po a terra dalle nuvole. I quali, con reciproca gioia, mi han-no assalito per avere i disegnini buffi e le favolette.

Anche a loro, naturalmente, ho fatto poi dono di unfiammifero incantato.

Appena tornato a Galatina, il mio fiammifero personale– in onore dei mai dimenticati compagni di gioco – l’ho se-polto (ma non ricordo più esattamente dove) fra i vecchipini del piazzale della Stanzione ferroviaria: il magico tea-tro della nostra eterna felicità.

Lu cuntu (anzi: lu sognu!) nu fue cchiui. Mo’ diciti n’addhuvui... ●

marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 21

ra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

ende da raccontare �niranno tutti i sogni. M sogni non �niscono mai.

M igi e fantasie erra d’Otranto

ma puntata

ele ‘Melanton’

(26). continua

Galatina (LE) - Villa della “Stanzione” di tanti anni fa

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22 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

POETI SALENTINI

Escono così dalla tastiera del computer pensieri “ine-sperti” di tarantole, tarantolate e notti della tarantadopo aver letto il suo Tarantulae. Pensieri liberi da

giudizi e da pre/giudizi, il Salento è terra che si impara so-lo col tempo anche se non si riuscirà mai ad imparare.

Intanto ricono-sciamo i meriti aStefano Donno checon le “Scritturedei Quaderni delBardo” ha apertoun mondo pocoesplorato, il Pam-phlet, scritturebrevi, libricini dipoche pagine in-tense che mi (ci)consentono di en-trare in contattocon un universo di

piccole storie e poesie. Frasi scritte su un muro, appunti diviaggio, intensità condensata in poche righe.

Scritture che resterebbero nei taccuini di chi le pensa, for-se in attesa di ponderosi libri che le raccolgano. Questa in-vece è l’immediatezza del qui ed ora, perle gettate cherischiano di essere scordate. Rendere pubblico un pensie-ro (uno solo) è meraviglia.

Questo è Tarantulae, «un poema scritto a Badisco, forsein una notte d’agosto del 2015, davanti al mare che parla-va alla luna. In forma di canto per Giorgio Di Lecce, dan-zatore, Uccio Aloisi, tamburellista, Sergio Torsello,studioso». Come dice il risvolto di copertina. Un poemascritto da chi dice di sé «io non sono un poeta».

Attraverso la memoria, i ricordi, passano davanti«Maria e l’altre Marie del Salento …» e Aracne checostringe alla danza, mondo incantato a pensare aSantu Paulu te Galatina e in ogni angolo di questo Sa-lento.

Immagino Maurizio davanti al mare di Badisco, una se-ra d’estate con la luna che rischiara i pensieri e i ricordi chesi rincorrono, mentre vede «la donna velata di nero che fu-

riosa corre sugli spalti marini di Badisco…», lo immaginomentre cerca di fermare il tempo, ma il tempo, si sa, nonbada a nessuno e a nulla, lui prosegue ed arriva l’oggi,quello che è stato non è più, occorre esserci stati dentro peraverne memoria, così la taranta, il ballo disperato, diven-ta magicamente notte di Taranta, e Melpignano batte il rit-mo pur scordando, a volte, di dover essere portatore dimemoria invece di trasformarsi inesorabilmente in un nuo-vo festival delle sagre tutte.

«… Il disagio, la guerra sempre presente nelle cronachedel Mondo. La musica di questo deve farsi carico. La catar-si della festa non è evasione, distrazione, dimenticanza,pausa. Nell’incanto della trance è sempre necessario tro-vare l’energia della consapevolezza…», così scrive MauroMarino nella prefazione, che è riflessione dell’essere e del-l’essere stato.

Maurizio Nocera

Gustave Dorè - Aracne

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marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 23

Far rivivere il suonatore, il danzatore, lo studioso chestanno «nella terra di mezzo», e attualizzarli fino a torna-re a rendere omaggio alle Marie che si inseguono danzan-do sempre più e lasciando andare ogni pudore nella«pìzzica taranta per chi ha dolore e pìzzica de core per chifa l’amore».

Senza memoria nonc’è storia, ma la storiache viviamo oggi èspesso così tetra ebuia che non ci con-sente di comprendere.Per chi, come me, nonha vis- suto negli annile vite delle sue Marie,ma ha conosciuto al-tre Marie in altri luo-ghi, non pervase dalfuror danzante diAracne che se la ride;più spesso da rasse-gnazione, o da sorrisiche spaccavano ilmondo per la loro laconica durezza o da rivendicazioniper una vita dignitosa, l’incontro con la sua taranta è ri-flessione su come questi ritmi che sembrano essere un pro-seguimento di ritmi che arrivano da un Sud più Sud diquesto, che non è terra lontana, ma che oggi penetra ecompe- netra le nostre terre, tradizioni, che chiama al ri-cordo dell’umanità come un unicum di esseri umani ugua-li, e a volte si trasforma in danze liberatorie, irose, nelleterre dei ri/morsi per trasmet- tere messaggi a chi li sa ac-cogliere e contro chi ne ha il terrore.

Con il tamburellista che ha mani che sanguinano sullapelle tesa dello strumento, col danzatore che non sa fer-marsi, con lo studioso che guarda e impara. E pensavo aimpossibili paralleli che legassero questa taranta con l’al-tro capo dell’Italia, le terre di Langa, quelle masche che

tuttavia sono altra cosa, nel provenzale antico Mascar si-gnifica borbottare (incantesimi), sono streghe, donne nor-mali nell’apparenza, ma con facoltà soprannaturalitramandate da madre a figlia, sono cattive o benevole, sal-vano e condannano. Altra cosa rispetto alle salentine. Ep-

pure si chiamavanoMaria e tante altreMarie, e Cristina eCaterina. Non c’èparallelo, però affa-scina pensare a dan-ze liberatorie dalmale e da cateneeterne. Da qui alprofondo Nord.

E mi chiedo, cichiediamo, perquanto tempo anco-ra queste danzescandiranno i nostritempi, fino a quan-do la memoria ci sa-rà d’aiuto, fino a

quando Aracne sopporterà di non poter guarire i mali delmondo e si lascerà invadere dalle contraddizioni di terreun tempo incontaminate, ora sempre più colpite da xylel-le e guerre e gasdotti che di “dotto” paiono avere poco.Quando in sostanza la storia e la tradizione riprenderan-no ad insegnare che la terra deve vivere di tutta la sua pos-sente bellezza e la luna guarderà il Salento conbenevolenza, dal mare di Badisco.

In poche righe, in poche pagine, l’amico Maurizio Noce-ra ha aperto parti di un mondo ad un sabaudo per caso interra di Salento. Pensieri in libertà leggendo ed ascoltandole sue Tarantulae. ●

** Maurizio Nocera, Tarantulae (La notte della taranta),Edizione “I quaderni del Bardo/ Scritture, Copertino 2016.

Galatina (LE) - “Tarantata” e musicanti

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24 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Nel tempo impareggiabile, infinito, irreversibile, ca-pita che il corso degli eventi venga sconvolto dal-l’elemento imprevedibile ed imprevisto, la

scheggia impazzita, il fulmine nel cielo sereno, la fatalitàimponderabile. Nel tempo immutabile, lineare, scoccad’incanto la scintilla che cambia l’ordine delle cose, che nedevia il percorso. È il libero arbitrioche rivendica la propria parte sullapredestinazione. È la corte deimiracoli, la fiera dell’assurdo,il momento magico, la sor-presa che sconvolge le nor-mali categorie di spazio edi tempo. Nel ritmotroppo uniforme dellavita sociale, eccoun’esplosione di gio-ia e ilarità che dà laliberazione. E fra icanti e i balli, le pro-cessioni colorate ele gozzoviglie, digrado in grado si sa-le nell’estasi, fino al-la liberazione. Nellamagia della notte, bal-lano splendide fanciul-le, avvitandosi sinuoseai loro compagni, e tintin-nano sonagli, alle loro erotiche movenze.Nello spazio fisico, geometrico, omogeneo, si inserisce ilmeccanismo segreto che fa allargare le prospettive, muo-vere gli orizzonti, superare la tridimensionalità. Vi sono avolte degli squarci, come degli attimi di visione superiore,l’onda metafisica, il monstrum, l’eccezione che confermala regola, il prodigio che sfugge alla catalogazione. E nel-la pietra nera, la forza arcana della divinità. Ballano i Gal-li e le Galle, nella notte ancestrale, e sul talamo nuziale ladea e il suo compagno danno vita alla ierogamia. Suonato-ri di flauto, di cembali e tamburelli, accompagnano musi-cando l’orgia sacra ed esaltano con il ritmo vorticoso

l’eccitazione. Vi sono a volte degli eventi incomprensibilialla ragione, come dei lampi che stracciano il velo comunedell’ordinarietà, la teoria che confuta il dato empirico, ilfantastico che contrasta la ferrea logica euclidea. E sullapietra nera, balla l’ermafrodito che trae la sua forza primi-genia dalla natura universale del maschio e della femmina,

come il giorno e la notte, le tenebre e la luce, Yin e Yang(nero e bianco) compenetrati insieme. Scorre il sangue sul-l’altare, e le grida dei Galli e delle Galle si alzano furenti.Smarriti nella frenesia e resi insensibili al dolore, danzato-ri e danzatrici si lamentano per la morte della divinità e nepropiziano, con ipnotiche litanie, la resurrezione, ne inco-raggiano, con calde esortazioni, l’avvento. Dalla notte deitempi, la Grande Madre guarda e benedice, e un sognomagico soppianta la realtà, e la resurrezione porta la sal-vezza.

L’entusiasmo parossistico, le corse sfrenate, la licenzasessuale, gli accoppiamenti promiscui: la mistica esoterica

ARS SCRIBENDI

Cibele e Attis sul carro rituale

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accomuna gli iniziati che si ritro-vano a ballare e cantare, liberan-do attraverso quell’esperienzaextra ordinaria le energie troppocompresse dalla vita quotidiana.Da un Oriente favoloso, la Ma-gna Mater attraversa il tempo e lospazio e porta la sua benedizionenel Salento. La Grande Madre de-gli Dei dona alla terra la salvezzae in quella ‘promesse du bon-heur’ (promessa di felicità) gliiniziati corrono in circolo agitan-do i timpani e i sonagli e alzandoin alto le mani. I fedeli, arrivati alculmine dell’eccitazione, si ta-gliuzzano le membra con un bi-penne; il loro sangue schizzadappertutto e molti lo bevono.

Dall’Anatolia, la frigia MagnaMater conquista l’Occidente me-diterraneo e accoglie sotto il suomanto pietoso i figli devoti che lesi accostano supplici, tutti li ab-braccia e protegge. È scritto chela Grande Signora incontri il suocompagno e ‘paredro’ Attis (Il pa-redro è colui che sta accanto allaMagna Mater. È quella figura chea volte è uccello, a volte qualsiasianimale o lo stesso sole, che sta accanto della dea madre ela aiuta nella sua opera di creazione) e con lui si unisca nel-la salvezza eterna.

Dal sangue nasce la vita, dallapazzia furente e distruttrice, laricostruzione dell’equilibrio per-duto. Ma perché l’uomo rag-giunga la donna e la madre siaccoppi con il figlio, è necessarioche si compia l’evirazione; e ilsommo sacerdote, ad imitazionedi Attis, offrirà i genitali in obla-zione alla dea.

Il rito cruento e selvaggio, co-me cruenta e selvaggia può esse-re la natura, prevede che l’efe-bico dio mutili la propria virili-tà, mentre i devoti intorno si au-toflagellano con staffili.

E così la storia si ripete e lapassione e la resurrezione deldio, nel marzo universale, con larinascita della natura, porta laresurrezione di tutta l’umanità.Scorre il sangue sull’altare e legrida dei Galli si alzano furenti.Con la testa penzoloni e i capellial vento, essi, smarriti nella fre-nesia e resi insensibili al dolore,godono di quell’eccitante spetta-colo, nell’attesa che la dea Cibeleincontri Attis per l’accoppiamen-to sacro e si compia l’avvento,

quando si squarceranno le tenebre e la resurrezione porte-rà nuova luce su tutta la terra.

Quel giorno la vita trionferà sulla morte. ●

Statua di Cibele

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Chi era Fernando Lapalorcia?Molti magliesi hanno avuto no-tizia di questo loro illustre con-

cittadino in seguito all’intitolazione delPalazzetto dello Sport di Maglie. È unafigura importante nel panorama spor-tivo italiano d’inizio secolo XX sia perla sua attività agonistica sia per la suaattività intellettuale.

Nasce a Maglie il 7 luglio 1892 o 1893ed è registrato all’anagrafe coi nomi diFrancesco e Pompeo, ma lui preferirà ilnome Fernando. Il luogo che oggi Ma-glie lo ricorda è coerente con l’attivitàche l’ha consegnato alla storia. È statoinfatti protagonista di diverse speciali-tà sportive che gli fanno raggiungere lacelebrità. Consegue in tutto il mondobenemerenze, si aggiudica titoli, battenumerosi record in diverse specialitàdell’atletica leggera e pesante.

Il suo esordio nel campo professioni-stico avviene nel 1911 a 19 anni, con un record mondiale nelsollevamento dei pesi nella specialità “slancio sinistro” con71,500 Kg. Nello stesso anno diviene campione assoluto diatletica pesante.

La fama la raggiunge alcuni anni dopo in seguito al suotrasferimento a Milano, dove intraprende la carriera di lot-tatore. La sua iscrizione al Club Atletico Milanese gli con-sente di formarsi alla lotta sotto la guida di Oronte Terenzi.In questo ruolo partecipa nel 1912 alla 6^ Olimpiade di

Stoccolma conseguendo un ambito rico-noscimento: la medaglia d’argento nel-la lotta greco-romana.

Allo scoppio della prima guerramondiale si arruola nell’esercito e quipartecipa ai Campionati militari italia-ni dove conquista il titolo di “Campio-ne fuori classe”, un titolo di grandeprestigio attestato dalla corona d’allo-ro, dai diplomi assegnati, dalle meda-glie e dalla fascia d’onore dell’Armainsignita al valore.

Nel sollevamento dei pesi risulta veroprotagonista in numerose gare. In par-ticolare a Lecce nel 1917 solleva per 5volte Kg. 100,5, a Milano 91,5 Kg., anco-ra a Lecce nel 1918 stabilisce il recordmondiale di sollevamento a ponte. Nel1920 sarà la sua cura del corpo a fargliottenere il riconoscimento di “Atletaperfetto” per la prestanza fisica che ri-vela un suo senso estetico. Nel 1923 si

afferma a Bari nella categoria della “lotta leggera”, succes-so che replicherà nel campionato regionale pugliese del1929.

Un aspetto non marginale della sua personalità fu quel-lo di essere sordomuto (oggi si dice “sordo preverbale”),una condizione di diversità che affrontò con l’attività spor-tiva. Infatti, nonostante una condizione difficile nella rela-zione sociale in termini di comunicazione, non solointraprese un’intensa attività sportiva, ma esercitò l’inse-gnamento di educazione motoria e pubblicò testi su nume-rosi aspetti della sua attività. I suoi biografi evidenzianoche egli non si sottrasse dall’intraprendere l’attività sporti-va nonostante visse un lungo periodo dell’infanzia in con-dizioni di invalidità degli arti per i postumi di una fratturascomposta che lo resero debole e malaticcio. La sua tenacianel recupero delle abilità motorie sono accompagnate dal-la elaborazione di idee riguardanti la “forza di volontà”quale percorso per rendere il corpo idoneo ad acquisire abi-lità per competere con gli altri nelle gare e per mettere adura prova la propria forza fisica. Fu proprio la sua forza divolontà a fargli superare le difficoltà motorie nella primis-sima adolescenza attraverso l’educazione della mente e delcorpo coadiuvata dalla lettura di libri d’avventure.

FAMOSI SCONOSCIUTI

Fernando Lapalorcia

Fernando Lapalorcia di spalle

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La sua figuradi atleta non vaperciò separatada quella del-l ’ intellettualenon solo inquanto docentesin dal 1926 aBari, dove si tra-sferisce e fondala Sezione di“Lotta” della So-cietà Ginnastica“Angiulli” nellaquale forma nu-merosi campio-ni dello Sport(tra cui PierinoLombardi, olim-pionico a Lon-dra), ma per le

sue pubblicazioni di carattere scientifico nelle quali mostrala stretta relazione esistente fra medicina, psicologia esport.

Pubblica nel 1925 (ca.) a Bari, per lo “Stab. Tipogr. Trizio,La conquista della forza fisica: Forza salute, estetica. Sistemascientifico completo con istruzioni per ambo i sessi e le diverseetà”; nel 1933, per i “Laboratori Scienza del popolo” di To-rino, Ricettario di forza fisica; nel 1934 ancora a Torino, per la“Scienza del popolo”, un testo di psicologia Io voglio: ma-nuale tecnico-pratico per lo sviluppo della volontà; a Bari nel1950, per “Scuola Tipografica Orfanotrofio Sale- siano”, Co-me si diventa atleti e campioni di lotta, in cui descrive la tecni-ca della lotta greco-romana di cui è considerato uncaposcuola.

Il testo La conquista della forza fisica, che vedrà numeroseriedizioni, mostra la versatilità conoscitiva dell’atleta. Il te-sto vede la prefazione di un eminente studioso salentino, ilprof. Cosimo De Giorgi che sottolinea l’importanza di que-st’opera nella divulgazione dei vantaggi della ginnasticaquale mezzo profilattico e curativo. Dedica in particolareun capitolo agli “effetti della ginnastica”, nel quale percor-re alcune disfunzioni fisiche quali le difficoltà digestive, lacura della stitichezza, la cura dell’obesità e del reumatismo,la cura della timidezza, la nevrastenia, il trattamento dellatisi, un capitolo sui vari sistemi conosciuti di cultura fisica(Muller, Sandow, Ling ecc.) e una parte con nozioni di ana-

tomia e l’illustrazione del metodo “Vanna”. Muore a Bari nel 23 dicembre 1963 a 70 anni. Un anno

prima di concludere la sua straordinaria esistenza si ci-mentò nella flessione, riuscendo a compierne 148 in mez-z’ora.

Con una missiva indirizzata al Sindaco Salvatore Fitto, laprof.ssa Gilda Lapalorcia, ad un decennio dalla morte del-l’atleta, suggerisce all’Amministrazione Comunale di ono-rare la figura dell’atleta intitolandogli l’erigendo Palazzettodello Sport. Nel contempo si dice disponibile a “concorda-re la cessione del medagliere” del fratello. Era il 1974. Adistanza di oltre un trentennio dalla lettera non si cono-scono i passi di quella Amministrazione né delle successi-ve per l’acquisizione di una così importante raccoltaattestante il percorso atletico, culturale e il valore storicodel Lapalorcia.

Si deve ad Aldo Refolo l’identificazione di questo “pio-niere magliese dello sport”, al quale dedica una ricercacompiuta presso le Biblioteche dell’Università di Bari e diLecce, che divulgherà attraverso la pubblicazione di artico-li su testate locali. L’iniziativa del gruppo consigliare deiDemocratici di Sinistra (Antonio Moscaggiuri, MarcelloAdamuccio, GiannaCapobianco) di dareconcretezza all’auspi-cio della prof.ssa La-palorcia di denomi-nare Il Palazzetto del-lo Sport di Maglie (aBari il CUS gli avevagià intitolato una pa-lestra nel 1995), di-verrà reale. All’una-nimità il ConsiglioComunale accoglie laproposta deliberan-do in data 8 marzo2001, l’intestazionedel luogo.Una inte-stazione però “clan-destina”, perché èassente una targa,una indicazione, unaepigrafe che mostriquesta volontà.

Ma si può sempre porre rimedio a tale inconcepibile di-menticanza (ndr). ●

Fernando Lapalorcia in posa

Fernando Lapalorcia discobolo

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28 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Mario Marra è una personalità galatinese che, percreatività e produzione, può essere annoveratonella schiera degli artisti che hanno dato lustro

alla terra salentina.Il suo è stato un linguaggio ‘figurativo’ finalizzato a ren-

dere l’opera di facile lettura. In essa, nessuno osservatoresi sforza di interpretare il contenuto rappresentato.Una lettura che si plasma su un ricco reperto-rio artistico in ceramica, bronzo, terracot-ta, grafica, cemento, legno, mosaico,marmo.

La sua carriera prende inizio neglianni Cinquanta, sotto l’impulso, l’im-peto, l’energia di un estro tendente arealizzare opere in bassorilievo, a tut-totondo, corroborate da significati pre-cisi ed efficaci.

I temi sono variegati, da quello reli-gioso al laico, dalla ritrattistica all’ar-redo degli edifici pubblici e residenzeprivate, alle cappelle gentilizie.

Insaziabile ceramista, uomo semplice,cordiale, amico di tutti. Lungo il suo percorsoartistico lo troviamo assieme a Carmelo Farao-ne, un altro bravo artista galatinese. Ambeduedanno vita ad una perfetta simbiosi di lavoro,lavorando a quattro mani su diverse opere.Un esempio su tutti è rappresentato dallastatua in bronzo di San Francesco d’Assisi,collocata in piazza Fortunato Cesari a Gala-tina, meglio denominata villa San Francesco.

L’opera, eseguita nel 1967, è di profondaspiritualità, con il Santo sormontato daun ampio arco e con il volto e le bracciarivolte verso il cielo, realizzata con unpungente e pregnante spirito religioso.

Negli anni Sessanta gli viene assegnata la cattedra diProgettazione e Decorazione Plastica presso l’Istituto Sta-tale d’Arte di Galatina. Cattedra condivisa con il prof. Car-melo Faraone.

Mario Marra non si ferma. Assume la direzione operati-va delle “Ceramiche d’Arte Garrisi” di Galatina. Sono

questi gli anni di maggiore produzione artistica, conopere in ceramica, bronzo, marmo, terracotta, a

tuttotondo, a bassorilievo.Le sue opere più rappresentative sono: LaCiviltà (bassorilievo presso la Scuola Mediadi Martano); Toro (opera in terracotta pergiardino); Popolana; Metamorfosi (scul-tura); Allegoria primavera; Bimba im-paurita; Dopo il bagno (cemento); Eva

(terracotta – 1955); Soprappensiero(terracotta); Il Risveglio (cemento –1955); Toro (tarsia in marmo); Atleta(cemento – 1955); Ritratto della sorel-la Rita (terracotta – 1955); Ballerina,Nuotatrici, Narciso, Tori, Ballerina, tut-

te realizzate nel 1955; Eva (1956); Donna al-l’aperto (1956); Sommozzatore (1956);Maternità (tuttotondo in pietra leccese); Ora disera (cemento); Busto On. Luigi Vallone (terra-cotta); Busto al poeta Clemente Antonaci (inbronzo); Busto G. F. Maja Materdona (mar-

mo); Busto a Giovanni Tartaro (bronzo);L’ultima cena (bassorilievo); Battesimo diCristo (terracotta); Resurrezione (terracot-ta); Arca di Noè e Crocefissione (ceramica);Via Crucis (terracotta); Redentore (legno);

Sposalizio (cemento); Preghiera nel-l’orto, Flagellazione, Crocifissione.

Sempre in tema di arte sacra realizzadei pannelli per un edificio religioso sito in Sant’Anna sui

Cenacolo (bronzo)

Busto del figlio Massimo(terracotta)

ARTISTI GALATINESI

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marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 29

due Golfi in Na-poli, commissio-nati dal padre

gesuita FrancescoD’Aria. Ed ancora,Maternità (1970)

bassorilievo in cera-mica (1,5 per 5 metri), po-

sto in verticale sulla pareteesterna della Scuola Elementare

di via Piave in Galatina. Opera che par-la in primo luogo ai bambini, una forzad’amore come augurio per un roseo av-venire, carica di valori quali l’innocen-za e la purezza, corroborate di luce ebrillantezza di colori.

Un repertorio altamente ‘figurativo’,grazie al quale Mario Marra comunica isuoi sentimenti ed emozioni.

In un convegno di arte sacra svoltosi aLecce, due cardinali ebbero a dire:“Ogni artista è libero interpretare il sogget-to o l’oggetto come meglio lo sente, purchél’opera finita sia leggibile per chi la osser-

vi”. Mario Marra, grazie alla benprecisa identità, rispondeva aquesti dettami.

Luigi Mariano, un altro gran-de artista galatinese espressequesto bel pensiero su di lui:“Guai a quell’opera che non desta insé il desiderio di far tornare il visi-tatore a rivederla”. Le opere di

Mario Marra suscitano emo-zione. Si ritorna una secondavolta a vederle.

Egli si colloca a pieno titolo nel firmamento degli artisti che hanno scritto unapagina di Storia dell’Arte nel Salento e fuori.

Mario Marra lascia questa vita terrena nel 1985 a soli 52 anni. ●Galatina (LE) - Scuole ElementariMaternità (bassorilievo in ceramica)

Galatina (LE) - Piazza F. CesariSan Francesco d’Assisi (bronzo)

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30 Il filo di Aracne gennaio/febbraio 2016

IL SALENTO... CHE NON VORREMMO

Ifatti e i costumi delle varie epoche, la vita vissuta che siinanella lungo gli anni e i lustri o in spazi temporali dimaggiore ampiezza, possono, da soli, costituire una

fonte d’apprendimento e di riflessione assai più efficace eilluminante di quanto riesca a rivelarsi una pur dotta e ric-ca enciclopedia: ovviamente, occorre passare in rassegnagli eventi e le abitudini con occhio obiettivo, scrutarne imotivi e gli spunti di fondo con serenità e tranquillamen-te, come nello scorrere le pagine e i capitoli di una raccol-ta di volumi. Soffermiamoci, mediante qualche immagineconcreta, sul cappello di queste note, che propone una sor-ta di raffronto definito e circoscritto.

E’ sufficiente rapportarsi alla metà, finanche agli annisessanta/settanta, del secolo appena trascorso, per coglie-re, ancora vivi di suggestione, piccoli ma significativiesempi di fatti, azioni e comportamenti della gente che, avederli collocati ai nostrigiorni, verrebbe subito dadefinire preistorici.

Tutti ricordiamo che, unavolta, il sale, l’utile e diffusoelemento per la cucina e cheriguarda il nostro stesso nu-trimento, rientrava fra i ge-neri di monopolio, la cuivendita era, cioè, di compe-tenza e controllo dello Sta-to, attra- verso strumenti ecanali dallo stesso apposita-mente autorizzati.

Ebbene, durante quel pe-riodo, lungo le coste salen-tine, nei tratti caratterizzatida bellissime scogliere, si registrava un fenomeno singo-lare: tante e tante buche delle scogliere medesime che, inoccasione delle mareggiate, erano in parte allagate dall’ac-qua salata, finivano, in certo senso, con l’essere tacitamen-te e abusivamente prese in consegna da uomini o donne,proprietari di “fondicelli” (le marine) posti a ridosso, ap-punto, delle coste rocciose, i quali “curavano” (osservatel’estrema proprietà della voce verbale) dette “conche”, im-plementandone il contenuto attraverso pazienti e caden-zati innaffiamenti d’acqua dolce piovana, prelevata, nonsenza fatica, da piccole cisterne. Grazie a siffatto processo,la massa liquida delle “conche”, evaporandosi sotto il sole,

giungeva a trasformarsi in uno strato di bianco e luccican-te sale.

Quei “badanti” non autorizzati riuscivano, così, a ottene-re il risultato di fare a meno di acquistare il prodotto pres-so la rivendita dei generi di monopolio, con un risparmionon rilevante in assoluto, ma, comunque, indicativo per imagri bilanci familiari.

Eppure, malgrado si trattasse di operazioni svolte in ma-niera discreta e su un “terreno” scomodo, data la precarie-tà e la pericolosità degli spostamenti sulla scogliera, spessospuntava l’occhio della Guardia di Finanza, che del restocompiva il proprio dovere, ed erano guai.

Sempre a proposito del sale, si affacciano alla mente an-che le figure delle donne di Bagnara, all’estrema punta del-la Calabria tirrenica, le mitiche “bagnarote”, che, ognimattina, indossando lunghe e ampie vesti nere e traghet-

tando lo Stretto, solevanorecarsi a Messina, in Sicilia,regione a statuto speciale incui non vigeva il vincolodel monopolio sul sale, pervendere sparute cassette dipesce azzurro, pescato lanotte precedente dai loromariti. Col relativo ricava-to, dette donne passavanoad acquistare alcune decinedi chilogrammi di sale, evi-dentemente a prezzo piùbasso, celando la merce neitasconi e all’interno dellesottane nere; dopodiché,rientrate al paese, la utiliz-

zavano in casa oppure, più spesso, la cedevano ai vicinirealizzando qualche piccolo margine.

Un altro esempio di illecito, sempre in località marine,era costituito dalla pesca di frodo, praticata saltuariamen-te, magari nel corso di giornate inclementi e grigie dellastagione invernale, con piccole “bombe” rudimentali autofabbricate che, dopo lunghi e scomodi appostamenti deitrasgressori su qualche pizzo o promontorio sino all’avvi-stamento di un branco di passaggio, consentivano di stor-dire e immobilizzare un po’ di chili d’innocenti prede,successivamente recuperate con tuffi in quelle fredde e tal-volta mosse onde.

“Conca” naturale con formazioni di sale marino

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Un ultimo episodio targato anni lontani, ma non remo-ti, forse il più pregno di umanità, accadeva sistematica-mente, nei paeselli del Salento, all’ora di pranzo nei giornidelle festività (il Santo patrono, Pasqua, Natale), ricorren-ze che vedevano ovviamente le popolazioni, al gran com-pleto, raccolte intorno alla tavola e con qualche spicciolodisponibile in tasca.

Ebbene, puntuale come un orologio svizzero, ecco che, inquelle circostanze, si materializzava il passaggio per stra-de e vicoli, su una bici sgangherata recante una sporta divimini appesa al manubrio, di un omino proveniente daun piccolo centro verso ilCapo di Leuca, distante unadecina di chilometri, il qua-le si annunziava con il gri-do, sospeso nell’aria,sincopato e sommesso, di“Càrtine, pètrine!”.

Traducendo tale arringa abeneficio dei “moderni”, sichiarisce che il velocipedistavenditore proponeva, dicontrabbando, i rettangolinidi carta sottile (cartine), rac-colti in minuscole bustine,con cui era dato di fabbrica-re, privatamente e ovvia-mente in maniera nonlecita, le sigarette, senza essere, quindi, costretti ad acqui-starle dal tabaccaio. E insieme, microscopiche pietrine, ci-lindretti di cerio e di ferro, che, a loro volta, inserite negliaccendini, generavano, con il semplice sfregamento, lescintille sufficienti a infuocare e accendere le sigarette co-me anzi arrotolate a mano; così, si risparmiava anche l’ac-quisto dei mitici zolfanelli.

Piccola sequenza di illeciti di ieri, espedienti senza dub-bio irregolari, ma che avevano, più che altro, la finalità diaiutare gli autori a sbarcare il lunario.

Indugiando sulla realtà presente, si scorge in un attimo

l’abisso che, in confronto, è venuto a frapporsi sullo speci-fico tema, e con quali e quante immagini di spietatezza ecrudeltà.

Basti citare i traffici plurimiliardari di tabacco e sigaret-te che allignano e prosperano su scala mondiale, con, al-l’ultimo posto, della filiera i banchetti dei contrabbandierida dove tali merci vengono proposte quasi liberamente,come se nessuno se ne accorgesse.

O peggio ancora, i contrabbandi di sostanze stupefacen-ti, nel cui contesto trovansi racchiusi interessi ancora piùvasti, con l’aggravante micidiale della particolare perico-

losità dei prodotti finiti og-getto di spaccio.

E poi, i contrabbandi diarmi, argomento particolar-mente crudo e scottante vi-sti i numerosi focolai diguerra, di guerriglia, e diconseguenti morti e stragi,sparsi qua e là.

E, da ultimo, il trafficoclandestino di esseri uma-ni: donne anche giovanissi-me condotte e sfruttate suimarciapiedi, bimbi dei qua-li pure si fa abuso e sfrutta-mento, manovalanza so-spinta nelle braccia di capo-

rali e approfittatori.Non è certamente il caso, né da parte di chi scrive si ha

l’intenzione, di prendere il presente, determinato «spacca-to» di osservazione e di comporne un fascio generale. Eperò, alla luce delle esemplificazioni e degli accostamentifra periodo e periodo, non si può fare a meno di doman-darsi se, negli ultimi tempi, sotto il profilo dei comporta-menti sociali e dei costumi morali, la società di cui siamocomponenti abbia compiuto dei passi avanti o se, al contra-rio, non sia rimasta coinvolta e scivolata in paurosi arre-tramenti. ●

Sbarco di sigarette sulla costa brindisina

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32 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Un famoso processo alle streghe, come oggi si usadire, ebbe a svolgersi sette secoli fa (precisamentenel 1310) a Brindisi, destando una notevole riso-

nanza internazionale.Tale processo riguardò gli appartenenti all’Ordine Caval-

leresco dei Templari, così denominato perché fondato perdifendere il “Tempio” della Cristianità a Gerusalemme.

Con la vittoria di Carlo I d’Angiò(nei pressi di Benevento) su Man-fredi (Re di Sicilia), i Templari di-vennero ricchissimi. La loroaccresciuta agiatezza e l’accumulodi tanti beni nel corso degli annidestarono subito l’invidia e la cu-pidigia dei potenti, per cui il loroenorme patrimonio fece gola sia aiPapi che ai Re.

Cominciò il re di Francia FilippoIV, detto il Bello, che, iniziata unapolitica di spoliazione, depredò iloro averi e soppresse l’Ordine conl’accusa di corruzione e di eresia.

Nel 1307, nel Regno di Sicilia, fuCarlo II d’Angiò che, imitando ilRe di Francia, iniziò l’opera di per-secuzione, tesa ad appropriarsidelle immense ricchezze accumu-late dai Templari. Egli ordinò alduca di Calabria di imprigionaretutti i Templari, di inventariare i loro beni e quindi di con-fiscarli.

Nel 1309 morì Carlo II d’Angiò e al trono di Sicilia suc-cesse il figlio Roberto, il quale, proseguendo la politica dipersecuzione del padre verso l’Ordine, ne ordinò lo scio-glimento definitivo.

La vicenda dei Templari nel Regno di Sicilia culminò conun mostruoso processo che fu celebrato nella Chiesa diSanta Maria del Casale a Brindisi.

Tale processo fu avvallato dalla gerarchia ecclesiastica,la quale, direttamente per ordine di Papa Clemente V, in-serì nel collegio giudicante alcuni prelati.

Il processo iniziò il 15 maggio 1310 senza la presenza deinumerosi imputati, ma non perché fossero latitanti. Nien-te affatto. Non solo non furono invitati ad assistere al pro-cedimento a loro carico, ma neanche informati del suo

svolgersi, rimanendo, invece, rinchiusi e malmenati nel ca-stello di Barletta.

Ai giudici fu inviata la bolla pontificia “Faciens misericor-diam…” del 12 agosto 1308, con cui il Pontefice dichiaravadi essere venuto a conoscenza di gravissime accuse di ere-sia, di idolatria e di empie colpe a carico del Gran MaestroJacques de Molais e di tutti i cavalieri dell’Ordine dei

Templari, dichiarandone di conse-guenza lo scioglimento.

Furono letti ben 127 capi di accu-sa, i più gravi dei quali erano quel-li secondo cui i Templaririnnegavano il Cristo, sostenendoche non fosse il vero Dio o che nonfosse stato crocefisso. Sempre se-condo gli inquisitori, essi furonoaccusati di aver predicato falsità suCristo, ritenendolo un falso profe-ta, sputando in ogni circostanza laCroce e calpestandola, specialmen-te nei giorni della Settimana Santa.Altre ignobili accuse furono quelledi adorare alcuni animali e di ac-coppiarsi abitualmente tra di loro.

Montature enormi – come si ve-de – ed altrettanto inverosimili!

Furono portati (con forza) anchedei testimoni per dare fondamentogiuridico all’accusa. Testimoni pre-

si addirittura tra gli stessi Templari, tra cui Fra’ Ugo da Sa-mara e un certo Fra’ Giovanni da Neritone (Nardò).

Il neritino ebbe a ‘confessare’ che, appena entrato nel-l’Ordine dei Templari, un tale Fra’ Ippolito da Barletta glipresentò una croce perché la rinnegasse, la profanasse e lacalpestasse, mentre alcuni cavalieri, addirittura, “minxe-runt super ipsam crucem”, fecero cioè la pipì sulla stessa cro-ce. Inoltre Fra’ Giovanni sostenne che i Templariadorassero un “gatto dal pelo grigio” e che, appena lo ve-devano durante le loro assemblee, si levassero in piedi, sitogliessero il cappuccio e lo venerassero con atti di pro-strazione e di assoluta devozione.

Da come si sono svolti i fatti, è da ritenere che quelli diFra’ Ugo di Samara e di Fra’ Giovanni da Neritone non sia-no da considerarsi pentimenti spontanei, ma, piuttosto epiù correttamente, di subordinazione per non incorrere in

Papa Clemente V

HISTORIA NOSTRA

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pene indubbiamente assai severe e quindi per garantire ase stessi una sicura impunità. Grazie a questa colossalemessa in scena, sia Papa Clemente V sia re Filippo IV ilBello mirarono all’eliminazione istituzionale dell’Ordineed anche a quella fisica dei suoi componenti per appro-priarsi definitivamente delle loro immense ricchezze.

La deposizione dei due testimoni, quindi, fu certamentefalsa e ingannatrice, in linea con tutta l’organizzazione delprocesso e con chi lo aveva imbastito.

Come attoconclusivo, ilPontefice Cle-mente V emanò,il 2 maggio 1312,la bolla “Ad pro-vidam…”, con laquale confiscavaall’ordine deiTemplari tutti ibeni e li trasferi-va all’Ordinedegli Ospitalieri.

Il Gran Mae-stro Jacques deMolais, l’ultimodei Templari,prima di esserearso vivo, il 18marzo 1314,

predisse la mortesia di re Filippo ilBello sia di PapaClemente V: “Mo-rirò presto e Dio sache tutto ciò è ingiu-sto. Ma io vi dico chela disgrazia cadrà sucoloro che ci hannocondannato ingiu-stamente. Perciò, af-fido entrambe levostre anime al tri-bunale di Dio; tu,Clemente, morirainei prossimi 40giorni e tu, Filippo,prima della fine del-l’anno”.

Infatti papa Cle-mente V chiusegli occhi almondo il 20 aprile 1314, mentre re Filippo il Bello il 29 no-vembre dello stesso anno.

Di Fra’ Giovanni da Neritone e Fra’ Ugo da Samara nonsi conosce la data di morte, ma, molto probabilmente, en-trambi non superarono indenni il 1314.

Giustizia divina era stata ancora una volta assicurata. ●Jacques de Molais

Re Filippo il Bello

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Oltre dieci anni fa, il 17 dicembre 2004, presso la Sa-la Assemblee della Fondazione Cassa di Risparmioin Bologna, fu celebrato il centenario della nascita

del maestro Raffaele Spongano, noto in Italia e nel mondoper i suoi studi e le sue opere. Era stato docente di Lette-ratura Italiana a Firenze, a Padova, a Bologna e alla Co-lumbia di New York; Presidente dell`Accademia delleScienze, Presidente della Commissione per i Testi di Lin-gua, Fondatore e Direttore della rivi-sta "Studi e problemi di criticatestuale" e instancabile organizzato-re di seminari e convegni. Ma primadi tutto era stato “professore”: seve-ro, inflessibile, giusto, molto ammi-rato e amato dai suoi ex allievi piùcari, tant’è che decisero di dedicargliuna pubblicazione edita da BononiaUniversity Press: "Per i cento anni diun Maestro".

Niente saggi, niente approfondi-menti critici, niente accademia, maun sincero tributo di affetto per unuomo che ha tenuto alto il nome del-la più antica università d’Italia e –forse, del mondo. Lo hanno ricorda-to con una raccolta di scritti in suoonore, una piccola antologia di rac-conti informali di esperienze di vita edi lavoro: parole, missive e pagelle,completate da un`antologia fotogra-fica del professore. Un manipolo dimemorie e testimonianze redatte daquanti, fra i suoi colleghi, i suoi ami-ci e i suoi allievi, desiderassero ricordare il proprio rap-porto con Spongano". Un elenco di nomi: amici, colleghi,studenti che ricordano di una stretta di mano, di una le-zione, di un incontro, di un carteggio: tante formule perdescrivere un rapporto più umano che professionale, chenel libro vive anche attraverso un album fotografico doveRosario Raffaele Spongano compare con i suoi familiari,coi suoi studenti e con i libri del suo studio.

Ebbene, questo grande personaggio del mondo letterarioitaliano, filologo e critico letterario di statura internazio-nale, nacque nel Salento, a Cellino San Marco, (il paese di

Al Bano), il 2 ottobre 1904, un’epoca in cui tre quarti dellapopolazione salentina era praticamente analfabeta. Raffae-le Spongano veniva da quelle terre lontane, da quelle re-gioni murate, di cui si faticava – allora – anche trovarnetracce sulle cartine geografiche delle scuole del nord, maera tutt’altro che approssimativo, pasticcione, disordinato,accomodante. Era un uomo tutto di un pezzo, un vero eproprio “tedesco” del Tacco, uno che dopo aver fondato la

facoltà di lettere presso l’universitàdegli studi di Lecce, se ne andò alNord, perché non veniva ascoltato,perché voleva l’ordine, la disciplina,il rigore, la programmazione, la seve-ra applicazione di una mente eccelsain tutta la sua geometrica e puntutastatura culturale, morale ed etica.

Una sera a Leuca me ne parlò chil’aveva conosciuto bene, il prof. Emi-lio Pasquini, che era stato suo allievo,assistente, ed era poi divenuto suosuccessore alla cattedra di lingua eletteratura italiana presso l’Universi-tà di Bologna.

“Com’era questo tedesco del Salento?”.So che quando era preside a Lecce

pretese che – bandendo concorsi –andassero i vincitori alla facoltà dilettere – e si imposero per esempioMaria Corti e Mario Marti, insommai più bravi. Era un filologo rigoroso,rigido, uno che aveva frequentatol’accademia di Lucugnano con Giro-lamo Comi, uno che veniva dalla ga-

vetta, ed era convinto che il sud ha gente molto creativa,ma troppo pasticciona.

Per questo emigrò al Nord. Aveva dei principi ferrei, unrigore calvinista. Le racconto un aneddoto. Una volta pre-se in fallo il famoso critico letterario Francesco Flora, suocollega all’università di Bologna. Lui era correlatore e chie-se a Flora di leggere ad alta voce una tesi di laurea che pre-sentava una ragazza. Flora lesse e rabbrividì, la tesi eracopiata di sana pianta. E palesò una sua precisa manche-volezza, non seguiva gli studenti nel corso dei lavori di re-dazione. Flora se la legò al dito, gli mise contro molti

34 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

NEMO PROPHETA IN PATRIA

RAFFAELE SPONGANOUN SALENTINO DI FERRO

di Augusto BENEMEGLIO

Raffaele Spongano nel 1956

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insegnanti e studenti, tra i quali c’ero anch’io.I bolognesi mal sopportavano Spongano, si dicevano ma

questo non è meridionale? E allora da dove gli viene tuttaquesta intransigenza, quest’essere uomo tutto di un pez-zo? Questo non accettare nessun compromesso? Ma esi-stono davvero dei meridionali così? E allora perché non sene tornano nel loro paese e cercano difarlo crescere, progredire, invece di…rompere le scatole qui da noi?

Pensi che Spongano era talmenteferreo nelle sue decisioni che fu unodei pochi – se non l’unico – che nonfece passare neppure la politica dellassismo dei sessantottini. E in ciò, -scriverà Gianfranco Budano - era sta-to davvero lungimirante. Aveva intra-visto i limiti di quella c.d. rivoluzioneculturale con ben cinquant’anni d’an-ticipo, ma non credo che la politicac’entrasse più di nulla. Era nella suanatura

“Io dico che se la Puglia – prosegue ilprof. Pasquini - è ricca, è perché ci sonostati e ci saranno sempre uomini come lui.E lo sa perché nascono uomini come lui?...perché il Salento e le terre circostanti so-no paesi belli e polverosi, fatti di tufo chesi sgretola; paesi dove la gente è abituata a combattere per vin-cere la fame e le malattie, un paese così ti tempra. E Spongano eraun uomo temprato, così come Sansone. Sono due giganti, e nonda meno sono i loro allievi Tateo, De Castris, Marti, Valli, Riz-zo. Quando vengo giù da voi, mi si allarga il petto a pensare a ciòche quel mondo esotico ha offerto ai suoi figli e soffro del fatto

che nel nord nessuno lo conosce, o si conosce poco la mentalitàmeridionale”.

Sì, d’accordo, professore. Nel Salento ci sono uominisquadrati e aguzzi come monoliti e li troviamo un po’ intutti i settori della vita sociale (ho conosciuto un ceramistache aveva la grandezza morale e l’orgoglio di un antico ro-

mano), ma è altrettanto indubbio checi siano tante cose che ancora non fun-zionano, che risentono di mentalità ar-retrate. E’ un dato di fatto cheSpongano, fino a pochissimi anni fa,non lo conosceva proprio nessuno, edel suo centenario, ad esempio, nons’è scritto neppure un rigo sui giorna-li locali. Ora che sono trascorsi altridieci anni, qualcosa si è mosso. Alcunisuoi scritti sono stati pubblicati daCongedo, per i 110 anni dalla nascita,a cura dell’Università di Lecce, e a Cel-lino San Marco gli hanno dedicato unomaggio: c’è la locandina con lui, ve-stito di nero, in bicicletta, ancora gio-vane, sorridente, pieno di ottimismo,era lo Spongano che ancora non avevafatto il “giro della prigione”. Ma da al-lora, quante salite!... quanto ha dovu-to pedalare, don Raffaele, per

esprimere il suo talento e raggiungere, altrove, altissimi ri-sultati. È, insomma, una storia che conosciamo già e si rin-nova ad ogni generazione: i migliori possiamo solo vederlipartire. E pure noi abitiamo uno di quei “posti della terrache sono così belli che si vorrebbe stringerli al petto!”. ●

marzo/aprile 2016 Il filo di Aracne 35

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Nel primo pomeriggio, il giovanotto della casa colo-nica, che poi era il più robusto e il più grandicel-lo, trasportava, inclinato sulla spalla destra, lu

scalandhrone con le aste di legno racchiuse su se stesse.Procedeva lentamente, barcollando di tanto in tanto su

qualche sconnessione della terra battuta della carrara, maavendo cura di tenere ben ancorata, con gli ‘nsarti tesi eracchiusi fra la mano e l‘asta de lu scalandrone, la carrucolache ciondolava dall’alto, cigolando con nervosa apprensio-ne.

Lo seguiva il fratello più piccolo che, oltre alla propriamenza, trasportava gli otri leggeri di pelle nera, legati fra diloro e tenuti a cavalluccio sulle spalle.

Alla prima foggia de acqua surgiva si fermavano per posi-zionare lu scalandhrone sul boccale, delimitato da quattroconci di tufo adagiati a raso di campagna e che rappresen-

tavano la parte terminale della cami-cia, che foderava l’interno delpozzo.

La fodera in conci di tufoevitava che la terra, frammi-sta alla crita presente sui lati,

franasse chiudendo così la ve-na carsica e occludendo il boc-cale.

Quel trabiccolo di legno, bensaldo e ancorato alle sue assi con

robusti chiodi, aveva la forma diun tronco di piramide a base qua-drata, alto poco meno di due me-

tri.Per farlo rimanere in piedi si di-

varicavano con cura e lentamente ledue ante laterali, sorrette ciascuna da

due gambe di legno di pino.Le ante erano tenute insieme da due assi inchiodate a

forma di ics e ancorate in alto sui lati di una torretta qua-drata, larga appena mezzo metro.

Queste, durante l’apertura e chiusura de lu scalandhrone esino all’estensione delle due catene legate alla base dei pie-di per non farlo spalare, ruotavano attraverso due grossiperni di ferro.

Dalla torretta, costruita con robusto legno de vulìa, pen-deva, infissa al centro, la pesante carrucola di ghisa, sulla

cui calotta, dai bordi convessi, scorrevano gli ‘nsarti.Alla loro estremità erano legati, ristretti con filo di ferro,

due robusti ganci forniti di due alette a molla che serrava-no il manico degli otri, una volta inserito dentro.

Il padre di Chicco aveva già posizionato presso la foggiapiù vicina alla carrara principale un capiente tino di ramezincata, che aveva trasportato a spalla poco prima.

Poi il giovanotto più grande di tutti si posizionava conaccorto equilibrio sui conci di tufo che delimitavano la boc-ca della foggia e, con un movimento alternato delle brac-cia, faceva scorrere lu ‘nsartu sulla carrucola.

Così prelevava con gli otri l’acqua dal fondo del pozzo ela versava nel tino.

Quando l’otre pieno arrivava all’altezza della sua pan-cia, mollava per un attimo le funi e afferrava con una ma-no il manico e con l’altra lo sollevava dalla parte inferiorenei pressi della cucitura.

In questo modo l’acqua si sverzava nel tino con un gor-goglio vivace, allegro e spumoso.

Quando già le prime ombre preannunciavano l’arrivodella sera e c’era ancora bisogno di molta acqua per innaf-fiare, occorreva aumentare il ritmo di prelievo.

Allora ci si metteva in due sull’orlo del pozzo, uno difronte all’altro e con una abilità straordinaria, che richie-deva molto affiatamento, si facevano scorrere a forza dibraccia gli ’nsarti sulla carrucola, tirandoli giù, a fasi alter-ne e con un ritmo cadenzato sempre uguale, come il don-dolio di un orologio a pendolo, preciso e puntuale.

In questo modo gli otri salivano e scendevano dal fondodel pozzo con una velocità quasi doppia.

E l’acqua nel tino non mancavamai.

Le pompe ad immersione,attivate da piccoli motori ascoppio alimentati a miscelae attivati con una cordicellaa strappo, non erano stateancora inventate.

O perlomeno Italo Seclì, conesercizio sulla via Diaz di fron-te alla cuneddhra de Sant’Anna,ancora non le vendeva.

In quel tempo si limitava a com-merciare solo ciclomotori, biciclette e qualche mitica gra-

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SUL FILO DELLA MEMORIA

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ziella, che, allora, era l’ultima novità immessa sul mercato.Le pompe e le frese arrivarono dopo, da lì a qualche an-

no.Il progresso e la tecnologia, dalle parti della campagna

della Vadea, non avevano ancora fatto capolino.Si facevano attendere a spese della braccia, delle spalle e

del sudore di tutta la famiglia della casa colonica, grandi epiccoli compresi senza distinzione di sesso e di età.

Nel frattempo si continuava ad attingere l’acqua con gliotri o con i secchi di rame zincata.

La si versava nei tini a ritmo serrato, dal quale si riempi-vano le menze che, trasportate a braccia, consentivano diinnaffiare, una ad una, tutte le piantine di verdura.

Ognuno sceglieva nell’ordine una delle piccole carrare,sulla quale si affacciavano due lunghissime filare di fos-sette che contenevano, una per ciascuna, le piantine dechiantima de verdura.

Diversi distinti distretti di terreno con le loro lunghe fi-le di fossette erano destinati separatamente alle piantinede cicora, de càvuli, de fanucchiu, de verza, de rapa e de càvulu-fiuru.

Un appezzamento appartato, breve e contenuto, ospita-va qualche filaru de peparussi cornulari, de marangiane, depummidori, de pupuneddhre, de minne de monaca, de sarginischie de peparussi gialli.

Era l’orticello riservato alle provviste di casa.Alla loro piantumazione aveva provveduto il padre di

Chicco, con un rituale tutto particolare, fatto di momenti emovimenti che richiedevano esperienza e perizia

Un mese prima si predisponeva la ruddhra, periodica-mente innaffiata, concimata cu llu rumatu e assistita con cu-ra per tutto il tempo, estirpando con la mano ad una aduna tutte le erbe infestanti.

Da essa venivano selezionate le piantine migliori, le piùsincire e più robuste.

Prima della piantumazione, solo la chiantima de cicora e defanucchiu, raccolta in mazzetti di circa trenta, quarantapiantine ciascuno, veniva scimata con un affilato coltello a

seghetto.Con questa operazione le piantine erano private delle

punte delle foglie, e, ad una ad una, venivano infisse nelfondo della fossetta, dove il terreno era stato reso soffice eumido, versandovi sopra ‘nu crottu d’acqua.

Uno dei più piccoli di casa, con in mano ‘nu mazzettu dechiantima, era incaricato di stendere nelle fossette una pian-tina alla volta.

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Ruddhra

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38 Il filo di Aracne marzo/aprile 2016

Il padre di Chicco lo seguiva da presso e con esperienzae particolare abilità, velocemente forava il terreno e vi in-filava la radice della piantina, affossando il gambo nellagiusta misura, facendo attenzione perché il cuore non ri-masse coperto dalla terra di rimbocco.

Se non si usava la necessaria esperienza, la piantina malmessa, inevitabilmente cecava e poi, dopopochi giorni, moriva seccando.

Il segreto di una perfetta piantuma-zione stava proprio nell’uso corretto delu palieddhru.

Premendolo lievemente attraverso ilrobusto manico, si praticava nel terre-no un piccolo foro conico, nel quale conla terra recuperata accanto si astringevala piantina senza danneggiarla.

Lu palieddhru era ricavato daun ramo giovane di albero de vu-lìa o de mèndula, sui quali, ad an-golo retto, hia crisciutu ‘nucavaddhrone.

Tagliato nella giusta misura, ri-maneva esposto al sole per qual-che settimana, per farlo essic-care.

Poi veniva scorticato accorta-mente con la ròncula.

Il lato più robusto e corto erausato come manico per l’impu-gnatura, mentre il lato più lungoe più sottile, piegato ad angolo retto, si affilava e si affuso-lava fino a farlo terminare a punta.

Con la raspa si dava il tocco finale, fino a quando nonaveva raggiunto la forma desiderata, adatta alla comoda eagile impugnatura della mano.

Il lavoro di piantumazione richiedeva un sincronismoperfetto di tre persone: ‘nu vagnone davanti con la spallaricurva per tre quarti, che lasciava cadere ad una ad una lepiantine nella fossetta.

Poi il padre di Chicco che provvedeva a fissarle nel ter-reno e ‘n addhru vagnone de retu, anch’esso con la schienacurva, che provvedeva all’innaffiatura, versando lenta-

mente e delicatamente ‘nu crottu d’acqua accanto alla pian-tina senza danneggiarla.

Bastava versare poche gocce accanto allo stelo della pian-tina, per fare assettare la terra di rimbocco.

In questo modo poteva attecchire più agevolmente.Era il momento più delicato e più importante di tutto il

rituale della piantumazione.Svuotate le menze, si faceva ritorno a llu tinu per

riempirle e si completava l’opera diinnaffiamento fino all’ultima fos-setta del filare.

Piantine di verdura, a centi-naia, erano state da pochi gior-ni messe a dimora nel terreno

arido e assolato.Una lunga, infinita teoria di

fossette, perfettamente allineate,si stendeva a vista d’occhio tuttointorno.

Ti scuria lu core, sulu cu llequardi.

Il panorama era rappresentatoda una geometria perfetta e qua-si quasi veniva spontaneo com-piacersi.

Peccato che quella scenografiasurreale presupponeva solo fati-ca, sudore e spalle affossate erotte dalla stanchezza.

Più in là, verso sera, dopo unaveloce cena frugale, tutta quella poesia suggestiva si stem-perava su un giaciglio, che, se pur ruvido e poco accoglien-te, consolava le ossa indolenzite e i piedi gonfi e graffiatidalle paddhrotte.

Per fortuna la notte ritemprava le membra e allentava latensione del lavoro.

E durante la notte forse tutti alimentavano, riversi sulcuscino, i propri sogni, sicuramente diversi fra loro, matutti accumunati nel desiderio di un destino e di un futu-ro che non fosse fatto solo di sole, di luce, di caldo, di su-dore e de paddhrotte. ●

pippi onesimo

Piantumazione “cu llu palieddhru”

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