Anno IX - N° 2, marzo/aprile 2014 Periodico bimestrale di ...

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Anno IX - N° 2, marzo/aprile 2014 Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina www.circoloathena.com Anno IX - N° 2, marzo/aprile 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Anno IX - N° 2, marzo/aprile 2014

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina edito dal Circolo Cittadino “Athena” - Galatina

www.circoloathena.com

Anno IX - N° 2, marzo/aprile 2014 - Autoriz. Trib. di Lecce n.931 del 19 giugno 2006 - Distribuzione gratuita

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Extra moeniaIN NOME DEL DIO... PROGRESSOdi Rino DUMA 4

Studi cavotianiPER UN CENSIMENTO DEI RITRATTI...di Luigi GALANTE 8

Personaggi del RisorgimentoGIUSEPPE LIBERTINIdi Maurizio NOCERA 11

Historia NostraMAMMA LI TURCHI!di Luigi MANNI 14

Poeti salentiniNICOLA G. DE DONNOdi Giuseppe MAGNOLO 17

Terra nosciaIL SALENTO DELLE LEGGENDEdi Antonio MELE/MELANTON 20

Correva l’anno...SALVATORE TODAROdi Salvatore CHIFFI 22

Artisti salentiniDONATO DISOdi Giorgio PANNUNZIO 26

Freschi di stampaLUOGHI DA SCOPRIRE...a cura della Redazione 28

Viaggio in Terra d’OtrantoLE TORRI COSTIEREdi Mauro DE SICA 30

Su e giù per il SalentoLUNGO LA VALLE DELL’IDROdi Massimo NEGRO 32

C’era una volta...LA RUOTA DEGLI ESPOSTIdi Emilio RUBINO 35

Sul filo della memoriaLA TUVAJA NOVAdi Pippi ONESIMO 37

SOMMARIO

Non vivere su questa terra come un estraneoe come un vagabondo sognatore.

Vivi in questo mondocome nella casa di tuo padre:credi al grano, alla terra, al mare,ma prima di tutto credi all'uomo.

Ama le nuvole, le macchine, i libri,ma prima di tutto ama l'uomo.Senti la tristezza del ramo che secca,dell'astro che si spegne,dell'animale ferito che rantola,ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell'uomo.

Ti diano gioiatutti i beni della terra:l'ombra e la luce ti diano gioia,le quattro stagioni ti diano gioia,ma soprattutto, a piene mani,ti dia gioia l'uomo!

Nazim Hikmet

Redazione Il filo di Aracne

Periodico bimestrale di cultura, storia e vita salentina, edito dal Circolo Cittadino “Athena”Corso Porta Luce, 69 - Galatina (Le) - Tel. 0836.568220 info: www.circoloathena.com - e-mail: [email protected] - [email protected] del Tribunale di Lecce n. 931 del 19 giugno 2006. Distribuzione gratuitaDirettore responsabile: Rossano MarraDirettore: Rino Duma Collaborazione artistica: Melanton Redazione: Giorgio Liaci, Antonio Mele ‘Melanton’, Maurizio Nocera, Pippi Onesimo, Piero VinsperImpaginazione e grafica: Salvatore ChiffiPubblicità: Giuseppe De MatteisStampa: Editrice Salentina - Via Ippolito De Maria, 35 - 73013 Galatina

PRIMA DI TUTTO L'UOMO(Ultima lettera al figlio)

COPERTINA: “Tutti in volo, è primavera!” - Foto tratta da “internet”

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Molte volte mi sono soffermato a ponderare atten-tamente il termine ‘progresso’, che, a mio avvi-so, presenta una miriade di sfaccettature e

angolazioni; ma, quasi sempre, sono caduto in lunghi ri-pensamenti e continue contraddizioni. È un sostantivoche è nato con lo stesso uomo ed ha fatto da cardine alsuo incessante cammino evolutivo.

Se si analizza, però, l’aspetto puramente sostanziale deltermine, non è necessario riflettere a lungo per accertar-si della graduale crescita compiuta dall’uomo in ogni suoambito esistenziale, passan-do da un modus vivendi pret-tamente agricolo-pastoralead uno altamente tecnologi-co e robotico, divenuto giàpost-industriale, che gli ga-rantisce di gestirsi una vitaqualitativamente migliore epiù appagante. I vantaggiche si traggono sono tangibi-li e netti; i confronti con ilpassato, d’altra parte, sonoeloquenti e testimoniano idisagi eccessivi e i continuisacrifici ai quali erano sotto-posti gli uomini dell’antichità.

La storia, a tal proposito, ci ha insegnato che il vento èstato per lungo tempo il carburante necessario a spinge-re le vele dei Fenici, dei Vichinghi, dei Veneziani, degliSpagnoli: ma quanta fatica a governare tali imbarcazioni!Poi le vaporiere, sfruttando il carbone, hanno alleviato dimolto le sofferenze del personale di bordo. Si è stati me-glio con l’avvento del petrolio ed ancora meglio con lemoderne navi a propulsione nucleare.

In ogni campo del sapere le conquiste sono state consi-derevoli e tali da trasformare radicalmente la vita del pia-neta.

Per farsi un’idea, basta pensare al monumentale pro-getto di edificare a Dubai il più grande grattacielo delmondo, il Burj Kalifa, alto ben 828 metri e strutturato in163 piani, per la realizzazione del quale sono stati stan-ziati 20 miliardi di dollari e sapientemente utilizzate lemigliori tecniche ingegneristiche, oltre ad una raffinatastruttura architettonica; oppure si prenda in considera-zione il ponte più lungo del mondo, costruito negli anni

‘80 in Giappone, tra le isole di Honshu e Shikoku, lungo37,3 km e largo più di 50 metri, che all’epoca costò ben 50miliardi di yen e 7 anni di intenso lavoro. Eppure, nono-stante l’imponente colossalità, queste opere non hannodestato molto scalpore, se non un momentaneo e fugaceinteresse iniziale.

E così, a voler scherzare un po’ con i tempi, con i perso-naggi e le invenzioni, non staremmo oggi a glorificare Fi-dippide, l’eroico atleta di Maratona, se i Greci di alloraavessero potuto disporre di un telegrafo per inviare ad

Atene il seguente messag-gio: ”Vittoria sui Persiani -stop - preparateci feste trionfa-li nostro arrivo”. Oppure michiedo cosa sarebbe oggil’uomo se avesse segnato ilpasso nella ricerca scientifi-ca e si trovasse ancora adutilizzare le vecchie e scric-chiolanti imbarcazioni ro-mane per trasportare ilcarico di greggio di una mo-derna superpetroliera. Conogni probabilità occorrereb-bero centomila triremi al-

l’uopo equipaggiate, sempreché si trovasse un portocapiente per ospitarle.

Il progresso - e perdonatemi per le precedenti fantasti-cherie - è in fin dei conti certo e indiscutibile.

Chi crede, però, che l’uomo si sia fermato alla recenteconquista della “pietra filosofale atomica”, erra di grossoin quanto la sua inquieta ed inappagabile mente macinaidee, sviluppa moderni sistemi di vita, acquisisce prezio-se esperienze, costruisce ipotetici ma possibili ponti pro-iettati nel futuro. Eppure, l’uomo potrebbe fermarsi,potrebbe concedersi un meritato riposo e rifiatare per me-glio organizzare le conquiste scientifiche e consentire al-le varie genti di usufruirne; potrebbe ricompattare lasocietà umana in un unico ed uniforme modello di vitasia politico sia economico, cancellando le disuguaglianzee le incongruenze sociali in cui vivono le varie genti, perpoi riprendere il cammino evolutivo verso altri più im-portanti traguardi. E invece, no. Il suo viaggio non cono-sce sosta, il treno umano va dritto, spinto com’èdall’innata voglia di avventura e dal desiderio di svelare

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EXTRA MOENIA

Taranto - L’Ilva e i suoi fumi venefici

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l’ignoto. Ma intanto le contraddizioni si fanno semprepiù stridenti, le difficoltà si sovrappongono le une sullealtre, le differenze sociali aumentano e si accavallano, leestremità della forbice sociale sonoormai al massimo dell’apertura.

Dio mio, ma quanto è lungo il tre-no su cui viaggia l’umanità?!

Possibile che vi siano anni di di-stanza, di diverso benessere e civiltàtra i primi vagoni, comodi e lussuo-si, e gli ultimi carri, stipati sino al-l’inverosimile e molto antiquati?!

A mio modo di vedere, è un trenoche diventerà sempre più lungo, manessuno se ne preoccupa, nessuno faqualcosa per accorciarlo.

Secondo chi scrive, l’uomo ha bi-sogno di correre, non tanto per lesue innate capacità alla corsa, né tan-to meno per quel suo spirito di av-ventura e di ricerca, di cui si accennava in precedenza!...Corre perché il suo “modello di sviluppo” gli impone dicorrere per produrre ricchezza e, quindi, profitto.

E correrà ancora per anni, per secoli, correrà semprepiù velocemente, sino a quando avrà forza per farlo!... omeglio, sino a quando la natura glielo consentirà!

Quanta strada ha fatto!... ma ne farà dell’altra?!... Quanti ostacoli ha superato!... ma ne supererà ancora?!I ripensamenti, le contraddizioni e i dubbi cominciano

inevitabilmente ad emergere allorquando si va ad analiz-zare in profondità la struttura e la qualità della societàumana e della vita umana. E ci si accorge, infatti, che, ac-canto alle migliorate condizioni di vita, non corrispondeun’adeguata crescita economica, morale e sociale, livella-ta uniformemente a tutti gli strati della popolazione. An-zi, accanto agli indiscussi miglioramenti e alle conquistetecnologiche, mediche e scientifiche, emergono in manie-ra dirompente effetti collaterali di assoluta gravità chedeterminano enormi e preoccupanti problematiche. Siconsideri, ad esempio, l’intenso traffico automobilistico,ferroviario, marittimo e aereo in tutto il pianeta negli ul-timi vent’anni. Se da un lato i moderni mezzi di locomo-zione hanno ridotto di molto il tempo per coprirenotevoli distanze o per trasportare grandi quantità dimerci, è anche vero che, per ottenere quest’indiscussovantaggio, l’uomo ha dovuto sfruttare se stesso e fare vio-lenza sulla natura. La “cieca” intelligenza dell’homo tecno-logicus ha trasformato il carbone fossile in vapore, ilpetrolio in benzina, kerosene ed altri derivati, il minera-le di ferro in acciaio, ha sottratto alla natura milioni dichilometri quadrati di terreno per trasformarli in auto-strade, strade ferrate, porti, aeroporti, industrie e cittàsempre più estese; ha utilizzato miliardi di metri cubid’acqua per i processi lavorativi ed ha immesso nell’at-mosfera, nel terreno e nelle acque i prodotti di scaricodelle industrie e degli stessi mezzi di locomozione; ha in-terrato milioni, se non miliardi di metri cubi di rifiutid’ogni ordine e specie, anche altamente tossici; ha sparsonegli oceani oggetti di plastica che, aggregati dalle cor-renti marine, hanno formato delle isole galleggianti, al-cune delle quali occupano una superficie che supera digran lunga quella della Sicilia. Ma nessuno ne parla, nes-

suno se ne preoccupa.D’altronde, gli uomini, nelle cui mani sono racchiuse le

fortune dell’umanità, hanno interesse a pubblicizzare, inmodo anche plateale, solo le “positi-vità” derivanti dal processo produt-tivo, nascondendo o minimizzandodi molto le inconcepibili assurdità egli irreversibili scempi commessi. Sealmeno i vantaggi fossero distribuitia tutti gli strati della popolazione, idanni sarebbero più tollerati; ma ilguaio è che la maggior parte dei be-nefici è fruita solo da un modesto“spicchio” di uomini.

Esempi di tali sconcezze ed incon-gruenze si possono fare a volontà esono tutti di grave e pericolosa por-tata.

E quindi, non possono essere sot-taciuti i problemi relativi alla fame

nel mondo, alla mancata assistenza agli anziani, alle pia-ghe dell’alcolismo, del tabagismo, della droga, della di-soccupazione giovanile, della violenza, delle coschemafiose, della sovrappopolazione, dei rifiuti, dell’inqui-namento di diversa natura, sino ad arrivare a considera-re il massimo dei problemi, quello della pace, che nonpoche apprensioni desta quotidianamente, soprattuttoper le gravi tensioni sociali in Siria, Egitto, Ucraina, Vene-zuela, Crimea, Pakistan, ecc.

Che senso ha, mi chiedo, inviare periodicamente daNew York, Filadelfia, Londra, Marsiglia, Amburgo, Ge-

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Un fiume impressionante di auto

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nova ecc. navi stracariche di vettovaglie, medicinali, der-rate alimentari verso i paesi del terzo mondo, se poi daquesti stessi porti salpano, in tutta segretezza, mercanti-li stracolmi di armi ed equipaggiamenti bellici verso glistessi scali portuali?

È questo un controsenso inquietante che la dice lungasulle vere intenzioni dei primi della classe. Gli Usa e lastessa Italia ne sanno qualcosa.

Che senso ha, mi chiedo ancora, pubblicizzare un riu-scitissimo trapianto di cuore, polmoni e fegato, facendopassare la notizia come una grande conquista della chi-rurgia, quando poi ogni giorno muoiono tra l’indifferen-za generale centinaia di migliaiadi persone per mancanza di ali-menti, di mezzi terapeutici e distrutture adeguate?

Una sola vita salvata è bastevo-le a giustificare tante altre viteche si spengono nel silenzio piùassoluto, tra l’omertà, la conni-venza, l’indifferenza, l’irrespon-sabilità ed anche l’impotenza dimolta gente?

Cosa diciamo poi dei giovani,sui cui volti non si leggono più laspensieratezza ed i sorrisi tipicidella loro età?

Perché appaiono sempre più cinici, calcolatori, violen-ti, vuoti, opportunisti, con una scarsa preparazione cultu-rale, senza un ideale politico e senza un progetto di vita?

Evidentemente i loro atteggiamenti sono il frutto delleleggerezze e delle sregolatezze dell’attuale società, chenulla fa per educarli, capirli, incoraggiarli ed avviarli avivere secondo le loro naturali inclinazioni. In un mondodi tanto declamato ‘progresso’ i nostri figli conducono,purtroppo, una lotta quotidiana per conquistarsi una fet-ta di vita, usando spesse volte mezzi inopportuni, inadat-ti alla loro età e perfino illeciti. Chi non riesce a lottare, asgomitare, ad emergere, è destinato a subire e a recitareruoli secondari ed umili.

Altro che progresso! Ma le sconcezze non finiscono qui.Si vada a dare uno sguardo all’ambiente naturale, in co-ma quasi irreversibile.

Il Gange, il Nilo, il Mississippi, il fiume Giallo, il Riodelle Amazzoni, il Rio della Plata e i nostri stessi fiumisono ormai agonizzanti; nel breve volgere di una ventinadi anni, sono divenuti una cloaca a cielo aperto. Nelle lo-ro acque scorre soltanto la morte, fatta di colibatteri, difenoli, di fosfati, di pesticidi, di diserbanti, di metalli pe-santi, ecc. Tutto, proprio tutto quello che di peggio possaesistere, è presente in questi fiumi. Annualmente scarica-no nei mari e negli oceani miliardi e miliardi di metri cu-bi di acqua mista a liquami industriali e urbani.

Non ce ne stiamo accorgendo, ma buona parte del mon-do occidentale, Italia compresa, è in lenta agonia. Tuttiormai sono pienamente consapevoli che, se non si inter-viene subito ed in maniera drastica, il disastro globaleporterà in breve tempo ad un epilogo letale e, con ogniprobabilità, alla cancellazione della stirpe umana... uma-na a modo di dire.

Una domanda su tutte sorge spontanea: perché di fron-te all’evidenza di cotante scelleratezze e scempiaggini

umane, i vari governi tentennano nell’adottare gli oppor-tuni provvedimenti, senza mai arrivare ad una decisionefinale?

Fanno finta di ritrovarsi periodicamente nei tanti con-vegni di Kyoto, Roma, New York, Londra, Sidney, Bom-bay, ma poi puntualmente se ne tornano da ogni riunionecon un nulla di fatto, rimandando ad altra epoca la solu-zione del problema. Ed intanto la morte si spande pro-gressivamente in diverse zone del mondo, come la ‘pestenera’ del periodo medievale che si diffuse in pochi anni intutta Europa, mietendo ovunque morte e disastri incal-colabili, soprattutto tra la povera gente.

C’è una sola verità che riesce aspiegare ogni cosa e riguarda glienormi interessi economici e fi-nanziari dei “Signori della Ter-ra”, la cui cecità è tale da nonpreoccuparsi minimamente deidanni irreversibili che si abbatto-no sulla natura. Come bulldozertelecomandati e senza cuore tira-no dritti per la loro strada: pro-durre ricchezza e profitto ad ognicosto. Il resto non conta: procurasolo perdita di tempo e di denaro!

Ecco perché questi Lorsignori(sono appena quattrocento le fa-

miglie che gestiscono le sorti del mondo) “non vedono, nonsentono e non parlano” e, quand’anche l’evidenza dei disa-stri è sotto gli occhi di tutti, danno ad intendere che nelpiù breve tempo possibile saranno adottati i necessariprovvedimenti. Poi, tutto cade nel dimenticatoio. E, sequalcuno alza la voce, viene opportunamente zittito. Co-me? Basta ‘ammorbidire’ i direttori delle più importantiagenzie televisive e delle più gettonate testate giornali-stiche, basta promuovere personaggi “meschini e cinici”ad importanti incarichi parlamentari e istituzionali, in-somma basta muoversi e saper muovere le pedine in lo-ro possesso per produrre unicamente “profitto eguadagni”. E se ciò non dovesse bastare, allora è suffi-ciente mostrare i muscoli, digrignare i denti e ricorreread ogni mezzo per far comprendere a chiunque che i Si-gnori onnipotenti, del Bene e del Male, della Vita e dellaMorte, sono loro e soltanto loro... e non c’è Dio che tenga!L’Italia attuale, purtroppo, ne sa qualcosa; anzi, in questocampo, è maestra indiscussa... di malaffari!

Ma, ahiloro, non hanno fatto i conti con chi potrebbepunirli senza appello. In un giorno non molto lontano sa-rà Madre Natura, stanca di subire in continuazioneschiaffoni in pieno viso, a chiudere i conti… e per sempre.

Quale futuro, dunque, per il genere umano? Senz’altro nero e senza alcuna via d’uscita… Alvin Toffler, noto sociologo, qualche tempo fa affer-

mava che è molto improbabile che l’uomo riesca a recu-perare la propria immagine ed identità, in quanto leesplosive e traumatiche trasformazioni in atto nella so-cietà difficilmente si lasceranno dominare e coordinare.

“La Terra - sosteneva lo scienziato - è simile ad un aereoimpazzito, il cui pilota, folle ed ebbro, vola con una benda su-gli occhi in cerca di una pista d’atterraggio”. •

Pescatore in un mare di... plastica!

Rino Duma

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8 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

Questa rivistami ha offertol ’o c c a s i o n e

per rendere noti imolti volti e ritrattidi illustri personaggisalentini che PietroCavoti disegnava,trovandoli, com’eglistesso dice, in diversiluoghi e affidando isuoi disegni ai tac-cuini e raccoglitorioggi conservati nelMuseo cittadino diGalatina, a lui inte-stato. I volti, come hogià scritto in altre oc-casioni su queste pa-gine, sono quasi tuttiinediti, e quindi sco-

nosciuti anche ai più autorevoli studiosi del settore. Per-ché poi Cavoti disegnasse i ritratti che incontrava nellecase private e nelle chiese, lo scrive egli stesso. In uno deitanti taccuini, egli annota “Sento nell’animo mio il lamentodei uomini antichi. Che fine faranno le opere lasciate a noi. Se iltempo sarà dalla mia parte caverò il peggior nemico ch’è l’uomoe non la clessidra dei secoli a far distruzione di opere dipinte”. Loscritto risale agli albori del 1848. E poi ancora, in uno deisuoi ultimi taccuini, il 2 novembre del 1889, tre mesi primadella sua morte, scrive: “La matita i miei album i veri compa-gni de miei segreti. Tutta la mia vita in queste carte adorate lon-tane dalla distruzione del più feroce nemico della storia, l’uomo.Epperò parmi dovere di ogni generazione il rispettare monumen-ti statue e pitture de suoi antenati” Povero Cavoti. Oggi cre-do che le sue ‘profezie’ si siano del tutto avverate. Proprioper dare una concreta idea di quanto è stato disperso del-l'opera grafica cavotiana, basterà indicare, anche qui dauno dei suoi ultimi taccuini, il fatto che i 'ritratti antichi de-gli Illustri salentini', evidentemente acquerelli o olii cheCavoti traeva dalle bozze e dai disegni prodotti da origina-li visti nelle varie case o chiese, e in altri luoghi, erano, luivivente, molto noti; li vollero vedere e se ne interessavanoin molti: il Castromediano, il De Giorgi, il Casotti, LuigiViola (il galatinese realizzatore del Museo di Taranto).L'onorevole Gaetano Brunetti, avendo capito l'importan-za della raccolta, la voleva tutta, evidentemente per fini

istituzionali. Ebbene Cavoti stesso ci dice che l'insieme dei'ritratti, comprese le caricature’ ammontava al numero di256: ne restano solo alcuni; mentre i disegni e le bozze, chedovevano essere molti di più dei 256 ritratti, sono oggi me-no di cento.

Per stilare un censimento dei volti disegnati da Cavoti,e tuttora esistenti, bisogna intanto comprendere che egli sidedicò a tale impegno tutta la vita, e lo mantenne vivo inogni occasione, e in ogni suo viaggio per la Puglia o fuoridi essa. Bisogna così risalire proprio alla data del 1848 (an-no in cui sono attestati alcuni disegni e caricature di per-sonaggi galatinesi), e immaginare, com’è ovvio, un inizioproprio da Galatina.

Lo dice l’artista stesso, che alla fine di una missiva indi-rizzata il 3 giugno 1885 al Ministro della Pubblica Istruzio-ne Fiorelli, afferma “…mentre per la mia Galatina ho avutoper i miei studi giovanili, la casa del Padre Predicatore Alessan-dro Tomaso Arcudi”. Personalmente, credo, che non vi fos-se palazzo più ricco e pieno di storia, da quello di Arcudie dei suoi antenati. La sua casa era un museo dice lo stessodomenicano, e quindi perché non cominciare proprio daun museo privato a copiare quel che restava, a metà Otto-cento, di una delle quadrerie più importanti della città eforse della provincia e che, bisogna dirlo, nel periodo di Ca-voti, quando gli Arcudi erano estinti ed il palazzo abbando-nato, veniva ‘spogliato’ su commissione di antiquari.

Sappiamo però cheCavoti non dipinse odisegnò solo i volti dipersonaggi Galatine-si. Nei suoi taccuini siconservano disegniprovenienti da Mila-no, Firenze (molti so-no stati disegnatinella Galleria degliUffizi), Bologna, Sie-na, Napoli, Roma,Pompei, Padova e poiin tutta la nostra Pro-vincia. In una dellemie ultime visite distudio nel Museo Ci-vico, ho scoperto unosplendido ritratto inacquerello di IreneCastriota (detta Irina)

STUDI CAVOTIANI

Galatina (LE) - Museo civicoIrene Castriota

Galatina (LE) - Museo civicoAbramo de Balmes

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moglie di Pietro An-tonio Sanseverino,rinvenuto dall'artistain un viaggio nellaProvincia di Cosenzae precisamente nelcomune di Acqua-formosa. Nel retrodel foglio Cavoti an-nota “Irene Castriotadal vero, da un quadrotrovato in un armadiodove si conservano del-le bellissime tavole an-tiche e pregiati reli-quiari nell’abbazia diS.ta Maria in Acqua-formosa. Essa versa ingravissime condizioni.Il custode mi aggiunseche in casa dei SignoriCapparelli si conserva il bel ritratto di P.Antonio Sanseverino.1864”.

Ritengo comunque di non minore bellezza, (quattro ) ri-tratti a china: uno, rinvenuto dal Cavoti nella cattedrale diOtranto, del celebre Ladislao de Marco, che ebbe un ruolosubito dopo la caduta della città in mano ai Turchi, nel

1480; l’altro, ed è for-se la scoperta più im-portante, è il ritratto,che il Cavoti copiò daun originale in Pado-va, senza specificarein qual luogo, del ce-lebre Abramo de Bal-mes, gloria dellacultura salentina, ilterzo, quel messerAntonio (detto pererrore Andrea)d’Aiello di Taranto,intimo amico di An-tonio Guidano, edentrambi autori, se-condo la tradizione,della morte del prin-cipe Orsini; il quartoè Nuzzo Andranoche fu un uomo note-

vole del secondo Quattrocento salentino, ambasciatore de-gli Aragonesi presso il Sultano di Costantinopoli e piùvolte Sindaco di Lecce.

Dei quattro personaggi, s’ignoravano, io credo, le fat-tezze. Si tratta poi degli unici ritratti superstiti d'una serieche ritraeva personalità del mondo orsiniano e aragonese.

Nella mia ultima visita al Museo galatinese, ho rinvenu-to i bei volti in acquerello di Raimondello Orsini del Balzoe della moglie Maria d’Enghien, copiati dal vero in casaCapani, e quello di Gio. Antonio Orsini del Balzo copiatoin casa Cesari; si tratta di ritratti che arrichiscono l'icono-grafia orsiniana, ma non abbiamo alcuna idea sulla prove-nienza e sulla attendibilità degli originali. Ho poirinvenuto un Demetrio Calofilippi disegnato in casa del-la famiglia omonima, e infine il bel disegno di Petrina Ca-

voti, nata Andriani, madre dell'artista. Di quest’ultima egliscrive ‘Mia madre giovane. Dolce anima mia’.

Avendo terminato ormai la consultazione del materialecavotiano conservato nel Museo di Galatina, posso stilareun censimento abbastanza preciso di questa raccolta di ri-tratti e disegni che, ricordiamolo, sono andati quasi tuttiperduti negli originali visti da Cavoti, o sono ancora cu-stoditi in case private e a noi, o a me, inaccessibili. Perognuna di queste opere va ricordato che Cavoti annotaquasi sempre la provenienza, dandoci così, la possibilitàdi localizzare l’ubicazione, ai suoi tempi, dell’originale. Iltotale ammonta finora a 86 pezzi. Pochi, certamente, se sirammentano le cifre, sopra indicate, dell'intera collezionedel Cavoti; ma, in fondo non poca cosa, considerando chein soli 124 anni dalla morte del Nostro, nulla sembra esse-re rimasto degli originali dai quali lui ritraeva.

I ritratti ovviamente che ci interessano più da vicino, co-me gli Arcudi, il Papadia, lo Schinzari, i Mongiò, il Galati-no, Galateo, lo Stiso, il Tafuri, lo Scarpa, il Delli Monti, iCastriota Scanderbeg, gli Spinola e molti altri, sono inseri-ti in questa scheda di censimento, a differenza di tutti queivolti privi di qualunque elemento di riconoscimento e pro-venienza, e quindi destinati a rimanere ignoti.

Ma veniamo al progetto iniziale.Come già detto la iconografia salentina ritrovata è com-

posta da 86 volti di uomini illustri, dei quali 63 provenien-ti da Galatina, e in palazzi e luoghi diversi.

Ben venticinque(24) da casa Arcudi.La maggior parte diessi è relativa a per-sonaggi biografati oricordati nella famo-sa Galatina letteratapubblicata da A. T.Arcudi nel 1709. Essisono: due di A. Tom-maso Arcudi, Al fon-so e Giovanni Castriota,Angello d’Aruca, Anto-nio, Nuzzo e SilvioArcudi, Gio. Tomma-so Cavazza, StefanoCorimba, SilverioMezio, due di PietroGalatino, FrancescoCavoti, Gio. TeseoNardeo, Lucio Papa-leo, Donato MariaPicca, Fr. Antonio Secondi, Pietro e Fr. Maria Vernaleone,Leonarda Colonna, Marcello Pepio, Sergio Stiso, e Sigi-smondo Schinzari.

Da casa Andriani, due (2); entrambi di Gasparre AndrianiDa casa Calofilippi, tre (3); Ferrante Castriota (in origine

nel castello) Demetrio e Diego CalofilippiDa casa Capani, due (2); Raimondello Orsini del Balzo,

Maria d’EnghienDa casa Cesari, uno (1); Gio. Antonio Orsini del BalzoDa casa Mongiò, dodici (12); Gio. Pietro Marziano; Pom-

peo, Lorenzo e G. Battista Mongiò; Pietro Galatino, NuzzoBarba e un insieme di schizzi a matita degli Spinola: Gio.Maria, Gio. Paolo, Gio. Filippo, Gio. Battista, Ambrogio eun ritratto giovanile di Gio. Maria Spinola, tratti da unaantica pergamena.

Galatina (LE) - Museo civicoLadislao de Marco

Galatina (LE) - Museo civicoIl principe Raimondello Orsini

Galatina (LE) - Museo civicoMaria d’Enghien

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Da casa Papadia, uno (1); Baldassarre Papadia.Da casa Robertini, due (2); di Girolamo Robertini. Uno di

essi è un volto del giovane Robertini.Da casa Tanza, due (2); Antonio De Ferraris (detto il Ga-

lateo) e Geronimo Ingenuo.Da casa Vernaleone, tre (3); Gio.Paolo Vernaleone e due

di Antonio Guidano.Dal castello di Galatina, uno (1); Gior-

gio Castriota.Dalla chiesa matrice, tre (3); Gio. Ma-

ria Spinola, Gio. Castriota (entrambi inorigine nel castello), e Stefano Agricoli(l’unico sopravvissuto).

Dalla chiesa di Santa Caterina, quat-tro (4); due di Pietro Galatino, l’abateAmbrogio Piccolomini, e Tuccio Barlà

Dal convento dei cappuccini, tre (3);Antonio, Niccolò e Teofilo Zimara.

Come sappiamo, Cavoti viaggiò mol-tissimo nel Salento, accompagnato dal-la sua immancabile matita e daglialbum, e visitò così abitazioni privatedella nobiltà dell’Ottocento e di eruditefamiglie.

A Soleto compì moltissimi dei suoistudi, e grazie ai suoi appunti, ci ha la-sciato ben cinque (5) ritratti assai famo-si. Due di Matteo Tafuri, due diFrancesco Scarpa (uno di questi peròsembra una bozza di studio) e uno diErminia Morrone.

Da Corigliano, due (2); Giorgio Delli Monti e il marche-se Giovanni Del Tufo.

Da Melpignano, uno (1); Niccolò Maiorano.Da Nardò, uno (1); Gio. Bernardino Tafuri.Da Otranto, due (2); Ladislao de Marco e uno schizzo del

vescovo Pietro Antonio de Capua. Da Taranto, uno (1); Antonio (Andrea) d’AielloDa Padova, uno (1); Abramo de Balmes.Spostiamoci ora a Roma, dove tra la Biblioteca Vaticana e

la chiesa di Santa Maria in Aracoeli, Cavoti traccia ben 7 ri-tratti, sei del noto Pietro Galatino e uno di Federico Mezio.

E infine, uno (1) ad Acquaformosa in Provincia di Co-senza. Il bellissimo volto di Erina Castriota.

Tra tutti i ritratti eseguiti da Cavoti, solo due (2) risulta-no privi di provenienza , ossia uno schizzo di (Pietro) Car-nesecchi, e il bel ritratto di Nuzzo Andrano che non èindicato dove si trovasse quando Cavoti lo copiò.

Ora però, c’è da farsi una domanda in qualche modo ra-dicale e ipotetica. Tutti i ritratti finora scoperti sono il frut-to della fantasia di Cavoti, o realmente disegnò i ritratti daoriginali? E ancora. Come mai di tutti questi volti, oggi nonne rimane più nessuna traccia o quasi?

Per rispondere alla prima domanda, bisogna porsi dallaparte dello studioso, e quindi prendere sempre con moltacautela il tutto. Come già ho accennato in altre recensioni,uno degli istinti dominanti in Cavoti è certamente l’amordi patria anche nel senso della storia locale, e questo, inun artista come lui, assume facilmente inclinazione icono-grafica, e spinge alla riproduzione di volti tratti da quadri.Cavoti non era tipo da perder tempo dietro ‘modelli’ difantasia.

E’ probabile che in alcune circostanze e privo degli stru-menti da viaggio, egli si sia trovato ad osservare qualche

volto, e lo abbia poi ‘a memoria’ riportato su carta una vol-ta rientrato nel suo studio. Certo è vero, i disegni cavotia-ni derivati dalla casa Arcudi sono molti, forse troppi, erispecchiano troppo da vicino le convinzione di Arcudistesso. Sempre con la dovuta cautela, si può pensare che ilPadre predicatore Alessandro Tommaso Arcudi, abbiacommissionato a sue spese alcuni quadri di antichi perso-

naggi ispirati dalla fantasia del com-mittente e eseguiti da qualche pittorea lui vicino. Ma è difficile sostenere chesia andata sempre così. Tralasciandoquesta questione, mi sento in doveredi citare due soli esempi sulla onestàdel Cavoti.

La prima indicazione relativa al ri-tratto proprio di Arcudi, viene fuori dauna lettera che il Rossi invia da Lecceil 6 settembre 1841 e che dice: “è veroche l’Arcudi Galatinese che avea la parruc-ca di color rossastro, gli occhiali ad arco eche prendea il tabacco da una borsetta dicuoio col cucchiaio…”. Questa è una pro-va che Cavoti vide il quadro dell’Arcu-di, e probabilmente lo fece vedere allostesso Rossi, che con precise indicazio-ni lo ridescrive nella lettera. La secondatestimonianza certa deriva dal confron-to tra il ritratto cavotiano di StefanoAgricoli e l’originale del Vescovo, ‘sal-vato’ per chissà quale miracolo e con-servato tutt’oggi nella sacrestia della

chiesa matrice di Galatina. I due ritratti sembrano copieperfette, anzi in quello del Cavoti c’è di più. Come sua abi-tudine segnava all’interno del foglio, oltre alla provenien-za, anche il luogo dove era esposto: “… il ritratto provieneda un quadro della cappella dei Signori Capani che vi era un tem-po nella chiesa madre di Galatina”. Posso solo ipotizzare cheancora qualcosa sia conservato in case private, ma fino adora non è emerso nulla. Il Cavoti, rientrato definitivamen-te da Firenze per motivi di salute, denunciò più volte agliamministratori di Galatina, che tra i palazzi in decadenza(e in particolare in quello dell’Arcudi) vi erano delle ope-re da salvare e custodire, ma fu inutile; egli stesso affermain un suo scritto: “oggi poco rimane per la incuria de nostriamministratori cui poco importa e sanno”. Concludo ram-mentando l’ultimo disperato appello che Cavoti fece, do-po innumerevoli tentativi, di salvare quel che poteva,senza ottenere nessun risultato utile: “Che fine avverrà mai?Promisi di parlare con i cari amici Luigi De Simone, il caro Co-simo De Giorgi e il Nostro Sigismondo Castromediano. Galati-na muore”. Ma quasi certamente non se ne fece nulla equello che oggi a noi rimane, sono solo ed esclusivamentele copie cavotiane da me ritrovate. •

*Ringrazio il Comune di Galatina, Direz.3°. Servizi: Biblioteca e serviziMuseali. Uff. Museo per la concessione alla pubblicazione dei doc. di pro-prietà del Comune di Galatina con prot. N. 20140004434 del 06/02/2014.l’Ass.re alla Cultura Prof. D.Vantaggiato e la Dott. ssa Angela Impagliaz-zo Dirigente della Bibl. ‘P.Siciliani’. Tutte le immagini fotografiche sonostate eseguite da Luigi Galante. E’ vietata la riproduzione fotografica an-che parziale e con qualunque mezzo, se non espressamente autorizzatidall’autore e dal Comune di Galatina.

*Il volto inserito nel titolo è quello di Antonio d’Ajello di Taranto, intimoamico di Antonio Guidano.

Galatina (LE) - Museo civicoStefano Agricoli

Luigi Galante

10 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

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marzo/aprile 2014 Il filo di Aracne 11

PERSONAGGI DEL RISORGIMENTO

Il 28 agosto di quest’anno ricorre il 140° anno della mor-te di Giuseppe Libertini, noto personaggio del Risorgi-mento salentino, insieme a Sigismondo Castromediano,

Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino, Antoniet-ta de Pace ed altri illustri uomini di stampo liberale.

Giuseppe nacque a Lecce il 2 aprile 1823da Luigi, ricco proprietario terriero, e daFrancesca Perrone. Sin da studente si di-stinse per i suoi pensieri libertari che glicostarono sgridate e punizioni a scuola.Ultimati gli studi inferiori, rimase perqualche tempo nella sua città natale ed eb-be modo di conoscere, frequentando il caf-fè Persico e la legatoria Bortone, alcuni notiesponenti liberali leccesi, come il medicoGennaro Simini, Gaetano Madaro, Pasqua-le Persico, Salvatore Stampacchia, Dome-nico Lazzaretti, Epaminonda Valentino,Carlo D’Arpe e Bonaventura Forleo. Inquesti luoghi, in verità non molto sicuri, iliberali leccesi discutevano della politicaasfittica dei Borbone e dei fermenti libera-li provenienti da varie nazioni europee, in particolar mo-do dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Si leggevano e sicommentavano i proclami e le epistole di Giuseppe Maz-zini, che, erano per buona parte condivise.

Nel 1844 il giovane liberale si trasferì a Napoli e frequen-tò, senza grande profitto, le lezioni di Economia all’Uni-

versità. Data la sua intensa attività politica, uscì fuori cor-so e finì per abbandonare gli studi. Dopo aver conosciutoil De Sanctis, lo Spaventa e il d’Ayala, Giuseppe composeun dramma a sfondo patriottico, ma le autorità non gliconcessero la diffusione e la rappresentazione teatrale. Tor-

nato a Lecce nel 1847, Giuseppe riprese icontatti con gli esponenti del liberalismosalentino.

A fine gennaio 1848, Re Ferdinando IIconcesse finalmente la tanto invocata Co-stituzione. In ogni parte del Meridionefurono organizzate in pompa magna fe-ste in onore del grandioso evento. A Lec-ce fu proprio Giuseppe a promuoverel’iniziativa il 21 febbraio in Piazza San-t’Oronzo, che per l’occasione era gremitada una marea festosa di salentini. Ma lepromesse del Re, però, per buona partefurono osteggiate dai nobili e dai varifunzionari dell’amministrazione statale.La situazione cominciò a degenerare e irapporti tra costituzionalisti liberali e i

monarchici andarono sempre più inasprendosi. Ciò nono-stante, furono indette le elezioni per la costituzione dellaCamera dei Deputati. Il clima era teso in tutto il Regno per-ché si temevano eventuali brogli elettorali. Infatti fu pro-prio Giuseppe uno dei firmatari della protesta presentataal ministero dell’Interno contro alcune irregolarità riscon-

trate nelle votazioni da parte di alcu-ni ufficiali della Guardia Nazionale.

Il clima si fece rovente ed incerto. IlRe tentennava ed era mal disposto aconcedere alcune riforme costituzio-nali ai deputati liberali. Per questomotivo Giuseppe, insieme a Bona-ventura Mazzarella, Achille Dell’An-toglietta, Antonietta de Pace ed altriliberali, si recò nella capitale a segui-re da vicino l’incerta evoluzione delmomento.

All’alba del 15 maggio 1848, nonavendo il Re concesso quanto richie-sto dai deputati, scoppiò la scintilladella rivoluzione. Le vie intorno alPalazzo Reale furono sbarrate da

Giuseppe Libertini

Lecce - Piazza Libertini - Anno 1912

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barricate erette dai liberali, soprattut-to in via Toledo e via S. Brigida. Lasommossa durò alcune ore, ma i rivol-tosi, inferiori per numero e per arma-mento, furono costretti ad abban-donare le postazioni e a darsi alla fu-ga. Le guardie svizzere, in modo par-ticolare, si macchiarono di orrendidelitti nei confronti anche della genteinerme. Alla fine rimasero sul terrenoi corpi senza vita di quasi mille perso-ne. Giuseppe e i suoi compagni, cheavevano combattuto con estremo co-raggio sulle barricate, rimasero forte-mente scossi da simili efferatezze egiurarono vendetta.

Rientrati a Lecce, i salentini non in-tesero perdere l’appena nata Costitu-zione e fondarono immediatamente ilCircolo Patriottico provinciale, al fine di tutelare l'ordinepubblico e difendere le libertà conquistate. A presidente fueletto Bonaventura Mazzarella, mentre a segretario Sigi-smondo Castromediano. Giuseppe fu tra i promotori, in-sieme ad altri influenti cittadini salentini

Il 12 giugno dal circolo partì un atto di Protesta (da alcu-ni storici l’atto è attribuito allo stesso Libertini e, forse an-che, a Carlo D’Arpe e Pasquale Persico) in cui si dichiarava"illegittima, incompatibile, vergognosa la dominazione di Ferdi-nando II" e si affermava il diritto della nazione di affidareil governo a un comitato provvisorio.

Il 25 giugno 1848, insieme con Giuseppe Simini, Liberti-ni prese parte, come delegato della città di Lecce, all'adu-nanza convocata dal Circolo costituzionale lucano perpromuovere una sorta di federazione fra la Lucania e leprovince di Salerno, Foggia, Bari e Lecce.

Alla fine della seduta fu redatto un Memorandum (anchequesto è attribuito al Libertini), in cui si invocava il man-tenimento del regime costituzionale e s’insisteva su un'in-terpretazione progressiva e dinamica della costituzione.Dopo un infruttuoso peregrinare in alcune province dellaCalabria e della Lucania, Giuseppe tornò a Lecce, dove or-ganizzò una dimostrazione popolare (15 agosto 1848) infavore della repubblica democratica. Il tentativo non de-terminò alcun effetto positivo, anzi fu l’inizio della fine. Letruppe borboniche entrarono a Lecce ed arrestarono alcu-ni noti esponenti liberali salentini, tra cui Sigismondo Ca-stromediano e Epaminonda Valentino. Quest’ultimomorrà di crepacuore nelle fredde prigioni leccesi, dopoqualche mese di detenzione.

Giuseppe fuggì e venne ospitato da alcuni amici, che ri-schiarono di grosso.

Tornato a Napoli, visse in clandestinità, finché il 16 no-vembre 1849 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Poten-za con l'accusa di "cospirazione per distruggere o cambiare ilGoverno e di eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad ar-marsi contro l'Autorità Reale, in maggio, giugno e luglio 1848".

Venne processato dalla Gran Corte speciale di Potenza edifeso efficacemente dall'avvocato Bodini, tanto che fu as-solto. Il successivo e fortuito rinvenimento di documenticompromettenti portò tuttavia a un nuovo processo percospirazione (febbraio - marzo 1854), che si concluse con lacondanna a sei anni di reclusione, commutati in seguito

nella pena del confino.Relegato nell'isola di Ventotene,

Giuseppe diede vita in maniera fortu-nosa e rocambolesca a un lungo car-teggio con il vecchio amico SilvioSpaventa (allora detenuto, insiemecon Carlo Poerio, nella vicina isola diSanto Stefano) al quale scriveva unavolta la settimana sui fatti che accade-vano a Napoli e nel Regno. A sua vol-ta lo Spaventa gli forniva altreimportanti notizie.

Ottenuta la grazia nel 1856 e fatto ri-torno a Lecce, il Giuseppe non tardò aprendere contatto con il comitato na-poletano, di ascendenza mazziniana,guidato da G. Fanelli e L. Dragone.Ebbe così modo di svolgere un ruoloimportante nella spedizione di Carlo

Pisacane a Sapri. Anzi, fu proprio il Libertini a farsi caricodi garantire l'appoggio da parte delle province del Salen-to e della Basilicata, assicurando che "al momento dell'azio-ne diecimila e forse più saranno in campo". Però gli eventi sisvolsero in altro modo e Giuseppe non poté mantener fe-de alla promessa. La polizia borbonica trovò addosso alPisacane l’epistola del Libertini, nella quale il nostro espri-meva il pieno appoggio alla causa comune di liberare ilMeridione dai Borbone.

Giuseppe fu costretto a fuggire e a rifugiarsi a Corfù (set-tembre 1857) sotto il falso nome di Enrico Barrè.

Prima di andar via, stipulò un compromesso con il fra-tello Vincenzo, il quale assunse l’impegno di inviargli 40ducati al mese, impegno che non fu sempre onorato. Infat-ti, nei mesi di esilio greco, per poter sopravvivere Giusep-pe si barcamenò tra mille difficoltà finanziarie.

Nel marzo 1858, si trasferì a Malta, e qui Nicola Fabrizi,dopo averlo spronato a scrivere un opuscolo sulla situa-zione politica nel Sud d'Italia, lo spinse ad andare a Lon-dra per incontrare Giuseppe Mazzini. Giunto in Inghilterra

nel luglio del 1858, incontrò l’eroe genovese, che lo nomi-nò redattore del periodico Pensiero e azione. Nel primo nu-mero (settembre 1858), Libertini pubblicò l’articolo “I nostria Salerno”, in cui si scagliava contro i giudici che avevanocondannato alla pena capitale i superstiti della spedizionedi Sapri.

Molto efficace fu anche un blocco di articoli, pubblicati

12 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

Busto a Giuseppe Libertini

Lecce - Piazza Giuseppe Libertini

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tra febbraio e marzo 1859, sull'imminente conflitto deiFranco-Piemontesi contro l'Austria.

Nell'agosto 1859, Giuseppe Libertini, insieme a Rosoli-no Pilo e Alberto Mario, fece finalmente ritorno in Italia,con l'obiettivo di suscitare un movimento rivoluzionarioinsurrezionale nel Mezzogiorno, ma senza ottenere alcunesito. Il nostro fu costretto a rientrare in Inghilterra inquanto la sua presenza in Italia era a forte rischio. Nell’iso-la rimase per poco tempo, dopo le buone notizie che giun-gevano dall’Italia sul felice progetto di Garibaldi.Nell'agosto 1860 si trasferì aNapoli, stavolta da uomo li-bero, poiché Re Francesco IIgli aveva concesso l’amnistia,cancellandogli la condannaall'ergastolo, inflittagli dallaCorte speciale di Salerno peri fatti di Sapri.

Agendo di concerto conGaribaldi, Giuseppe orga-nizzò e coordinò diversigruppi d’azione insurrezio-nali in Puglia, Basilicata eCalabria, in appoggio alletruppe garibaldine. In segui-to, costituì con G. Pisanelli (settembre 1860) il Comitatounitario nazionale, che s’interessò, dopo la fuga di Fran-cesco II a Gaeta, di governare per poche ore Napoli sinoall’arrivo di Garibaldi (7 settembre 1860). Il dittatore, per ri-compensa, gli affidò la conduzione del Banco di Napoli. Ilnostro, però, rifiutò senza troppo pensare, asserendo che ilsuo impegno era dettato esclusivamente dall’amor patrio.

Qualche mese dopo, fondò insieme a Ricciardi, Nicote-ra ed altri, l’Associazione Unitaria Italiana, i cui fondamen-ti programmatici erano l'Unità nazionale e Roma capitale,da conseguire mediante l’azione rivoluzionaria e non quel-la diplomatica. Anche questo intento fallì miseramente e,addirittura, Giuseppe fu arrestato, ma dopo pochi giornifu rimesso in libertà.

Il 27 gennaio 1861 Libertini venne eletto deputato al Par-lamento nazionale per il collegio di Massafra. Si schieròcon la sinistra, ma non prese mai parte attiva ai lavori, an-che perché limitato da una leggera balbuzie. Nei primi an-ni successivi, Giuseppe riversò il suo interesse all'azioneextraparlamentare.

Fu uno dei più abili ed efficaci organizzatori dell'impre-sa garibaldina di Aspromonte (agosto 1862), che, però, nonsortì l’effetto sperato. Accettò il ruolo di intermediario neirapporti segreti intercorsi nel 1863-64 fra Mazzini e Vitto-

rio Emanuele II, in vista di una possibile azione per la libe-razione del Veneto, ma anche questo impegno non conse-guì alcun effetto positivo. Per questo motivo, Giusepperassegnò le dimissioni da deputato e si ritirò a Lecce insie-me alla moglie Eugenia Basso.

Da quel momento abbandonò poco per volta la politica,interessandosi di fatti prettamente provinciali.

Nel 1864 fondò la loggia massonica “Mario Pagano” ene diventò il Gran Maestro Venerabile. Da questo momen-to in poi s’impegnò con ogni energia a diffondere l’impor-

tanza della massoneria inTerra d'Otranto e riuscì acreare una rete articolata dilogge massoniche, tanto chenella pubblicistica locale sicominciò a parlare, semprepiù convintamente, di "Terzopartito" repubblicano, dopoquello liberale moderato equello dei neri, filoborbonicoe clericale.

A partire dal 1868 Libertinie i suoi incontrarono la du-rissima opposizione del pre-fetto Antonio Winspeare,

inviato in provincia proprio per combattere il suo potere oquanto meno sminuirlo. Ma invano.

All'inizio degli anni settanta Libertini, un po’ malanda-to e svuotato d’ogni entusiasmo, soprattutto per la mortedel suo caro Mazzini, si chiuse in se stesso e in un silenzioche lo accompagnò sino alla morte, che lo colse all’età disoli 51 anni. Tutti i leccesi si strinsero attorno alla sua barain un corteo di migliaia di persone, a testimonianza del-l’amore e della stima a lui riservata. Attestazioni che arri-varono non solo da parte di amici, ma anche di coloro chegli furono rivali politici più accesi.

Oggi il grande risorgimentista è ricordato a Lecce con unmonumento, eretto nella piazza a lui intitolata, sita allespalle del castello Carlo V. Anche altri paesi salentini glihanno dedicato strade e piazze.

La radice massonica da lui costituita e, soprattutto, fattacrescere e sviluppare oggi conta sul territorio varie dira-mazioni. •

Devo molte di queste notizie al libro di Mario De Marco(discendente del Libertini per parte di madre) intitolatoGiuseppe Libertini. Patriota e Fondatore delle Logge Massonichein Terra d’Otranto/ Testi e Documenti (Lecce, Edizioni delGrifo, 2009, pp. 704).

marzo/aprile 2014 Il filo di Aracne 13

Loggia massonica Giuseppe Libertini

Maurizio Nocera

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14 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

Nel 1480, il turco Gedik Achmet, pascià di Valona,con la sua armata prese e saccheggiò Otranto, de-capitando gran parte della popolazione e ucciden-

do in cattedrale, vestito dei paramenti vescovili,l’arcivescovo, il galatinese Stefano Agricoli, “vero” marti-re di Otranto1. Nel 1571, esattamente novant’anni dopo, ilgrido “mamma li turchi!” - presago di nuovi lutti e nuovecarneficine - lacerò le contra-de di Terra d’Otranto.

Com’è noto, l’afflitta Chri-stianità, da molti giorni pri-ma dello scontro tra la santaUnione (la Lega cristiana) el’inimico comune (i Turchi),avvenuto il 7 ottobre nellevicinanze del porto fortifica-to turco di Lepanto, su invi-to del papa Pio V e deivescovi delle varie diocesi,s’era raccolta in preghiera adinvocare la protezione dellaVergine (e naturalmente unesito vittorioso) con il cosid-detto Officiolo della Madonna2.Questo l’editto del vescovodi Castro Luca Antonio Resta, vicario di Otranto, e la di-chiarazione dell’arciprete di Galatina Giovan Pietro Mar-ciano: Il di 14 d’ottob(re) 1571 il p(rese)nte Editto delR(everendissi)mo Mons(ign)or di Castro Vic(ari)o G(e)n(e)ra-le d’Otranto (assente l’arcivescovo Pietro Antonio de Ca-pua) fu p(rese)ntato a me D. Giovan Pietro Marciano Arcipretedi Sampietro Galatina, al q(ua)l io havendo in me ubidito damolti giorni et mesi, et conformatomi agli ordini di Sua Santità,al p(rese)nte m’offero di farlo osservare nella chiesa et clerici no-stri, et q(ua)nto all’Officiolo della Madonna dai laici et da colo-ro che non sono obbligatj alla recitazione di detto officio3. Lostesso giorno, il protopapas di Soleto Nicola Viva rilasciaidentica dichiarazione, ma aggiunge che nella terra de Soli-to no(n) ce siano pre(i)ti latini, no(n) monasterij et la matriceeccl(esi)a n(os)t(r)a con suj sacerdoti son tutti greci4. A Soleto,quindi, l’Officiolo della Madonna era recitato in greco.

Molto importante risulta, poi, la cronaca cinquecente-sca del galatinese Pietro Antonio Foniati5, che, pur neces-sitando di qualche emendamento, ci fa sapere che igalatinesi avevano la possibilità di seguire, passo dopopasso, tutta l’impresa di Lepanto: Don Giovanni d’Austria,fratello bastardo del Re (figlio naturale di CarloV e fratellodi Filippo II), intrò in Napoli a 9 d’agusto 1571 a mezza ora de

notte, con assai cavalieri, congran pompa, et onore. Poi vie-ne segnalato il passaggio del-la flotta cristiana nel mareAdriatico: L’armata de tutta laCristianità, cioè del re Filippo,del papa e dei Venetiani, passò a25 di settembre 1571 per Levan-ta da circa 232 galere. Lo gene-rale era Don Giovannid’Austria. Era nella galera deDon Giovanni uno stendardodatogli da papa Pio V, il qualenella battaglia stette arborato(issato) et non ebbe una botta.Erano nelle galere nove galiaz-ze, et venticinque navi portava-no tutto lo fiore della cristianità.

Il giorno della vittoria della flotta cristiana contro i Tur-chi, non fu un giorno fausto per la chiesa collegiata di Ga-latina: Adì 7 ottobro fu domenica 1571, avendo ditto vespro lilatini (cioè recitata l’ora canonica verso il tramonto), essen-do li preiti alli pezzoli (seduti su dei sedili di pietra) della chie-sa madre, cascò uno trono et gettò lo gallo; et ammazzatol’archipreite (notizia inesatta, perché Giovan Pietro Marcia-no avrà vita lunga) et entrò perfì mezzo alla chiesa.

Ricordiamo che il 14 ottore 1571, giorno delle dichiara-zioni rese dagli arcipreti Marciano e Viva, non si sapevaancora nulla sull’esito della battaglia, che sarà noto a Ga-latina il 20 ottobre 1571: Adì venti del ditto, fu sabbato, arri-vò una galea che portava [nova de] una moltitudine de galere del’inimico turco; portava nova (portava la notizia) come con labattaglia fatta a capo Ducato, l’altezza di Don Giovanni (d’Au-stria), con tutta l’armata Cristiana, prese 170 galere di nemici,

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HISTORIA NOSTRA

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marzo/aprile 2014 Il filo di Aracne 15

con mortalità de trenta millia turchi, et prese assai vivi. L’Occia-li (Occhiali Kilig Alì, ammiraglio dell’armata turca) fugget-te con trenta galere. Delli nostri morsero (morirono) tre millia,et cinque millia vivi feriti. La guerra fu di matina, durò sei ore,furono presi due figlioli di Alì, generali de li Turchi, il quale fuammazzato. Vivi furo liberati 12 millia schiavi cristiani. Questo

successe adì 7 d’ottobre 1571. Dopo la vittoria della flotta cri-stiana, molti pittori rappresentarono la Vergine, dapprimachiamata Nostra Signora della Vittoria, festeggiata appuntoil 7 ottobre, giorno della battaglia di Lepanto, poi comeMadonna del Rosario, nella festa trasferita da Gregorio XIIIalla prima domenica di ottobre.

Esemplare, in questo senso, per i richiami alla sconfittainflitta ai Turchi dall’Europa cristiana, appare la bellissi-ma cinquecentesca tela della Madonna del Rosario, custo-dita nella matrice di Soleto, che merita un esamedettagliato. La tela, la cui impostazione è ripresa da unastampa dell’incisore lorenese Nicolas Beatrizet, è stata rea-

lizzata a mio avviso, tenendo conto anche delle biografiedei personaggi rappresentati, tra il 1572 e il 1576 e si pone,nella storia dell’iconografia rosariana, tra le prime manife-stazioni dell’arte pugliese, collocabile “nell’ambito del tar-do manierismo meridionale di fine secolo”6. Attribuita alnoto pittore galatinese Lavinio Zappa, e non Zoppo7, tra

la sequela dei quindici Misteri che affiancai margini superiori, pre-

senta in alto, circon-data da angeli che

offrono rose ealtri musicanticon viole eliuti, una Ver-gine coronatae il Bambino

mentre distri-buiscono i ro-

sari a San Dome-nico e a Santa Cate-

rina da Siena. In bassoa sinistra sono raffigurati i

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1. La battaglia di Lepanto - Musei Vaticani - Galleria delleCarte Geografiche

2. Soleto (LE) - Chiesa matrice - Tela della Madonna delRosario attribuita a Lavinio Zappa.

3. Tela della Madonna del Rosario - particolare: il re diSpagna Filippo II e il papa Pio V.

4. Tela della Madonna del Rosario - particolare: la schia-va turca convertita.

5. Dichiarazione dell’Arciprete Giovan Pietro Marcianodel 1571

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16 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

protagonisti e i personaggi legati alla vittoria di Lepanto:in primo piano il re di Spagna Filippo II, affiancato dal pa-pa Pio V, con alle spalle il cardinale Borromeo; verso l’altol’arciprete Nicola Viva; l’arcivescovo di Otranto Pietro An-

tonio de Capua e, con il berretto rosso di doctor parisiensis,il filosofo, matematico, medico e astrologo soletano MatteoTafuri, forse committente dell’opera. A destra, sotto l’im-magine di Santa Caterina, figura probabilmente Eleonora,sorella di Carlo V e, affiancata, sicuramente la regina An-na d’Austria, che indossano la caratteristica gorgiera rigi-da “a lattuga”. In basso, una giovane schiava turca mostrail rosario e il Vangelo. La schiava, iconologicamente inse-rita in un contesto di trionfo della cristianità, rappresentain maniera emblematica l’immagine dell’infedele sottrattaab infami secta maumethana e recuperata ad fidem nostram sa-crosantam catholicam romanam8. Insomma una schiava libe-rata e convertita.

Filippo II, tre volte vedovo, poco prima della rappresen-tazione della tela del Rosario, aveva sposato la nipote An-na d’Austria, segnando così l’inizio dei matrimoniendogamici, che portarono alla fine della casa d’Austria,

per via dell’eccessiva consanguineità; Eleonora fu reginadue volte, di Portogallo e di Francia; Pio V (Michele Ghi-slieri) e Carlo Borromeo diventeranno santi; Nicola Viva,penultimo arciprete di rito greco di Soleto, oscuro delato-

re del concittadino Matteo Tafuri, in punto di morte rac-comanderà l’anima sua alla maestà de Iddio, lo quale abbiamisericordia de quella; l’arcivescovo di Otranto Pietro Anto-nio de Capua era stato inquisito dal Tribunale dell’Inqui-sizione e stessa sorte aveva subito l’eretico Matteo Tafuri,che fu “carcerato et confinato in Roma et tormentato perherisia mesi quindecimortalemente”. Tanti personaggi co-sì diversi, inconciliabili tra loro, ma tutti inginocchiati adimplorare la Vergine.

Sic transit gloria mundi. •

NOTE:

. G. VALLONE, Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire diOtranto (1480), in “ArchivumHistoriae”, 29, Romae 1991, app. III, p. 308.2. ADO (Archivio Diocesano di Otranto), Fondo atti visita di Pietro Antoniode Capua, 1567, c. 18 r.3. Ibidem.Per l’arciprete di Galatina, cfr. V. LIGORI, Famiglie e parentele neiregistri parrocchiali galatinesi del Cinquecento, in “BSTO” (Bollettino Stori-co di Terra d’Otranto), 7-1997, p. 68 e nt. 22, 113.4. Ibidem. Per l’arciprete di rito greco di Soleto, cfr. L. MANNI, Tracce te-stamentarie e biografiche di Nicola Viva e Antonio Arcudi, ultimi arcipreti gre-ci di Soleto, in “BSTO”, 14-2005. Pp. 52-61.5. F. GIOVANNI VACCA, Un’inedita cronaca galatinese del Cinquecento, in“Urbs Galatina”, n. u., (a cura dell’Amministrazione Comunale di Gala-tina), Galatina 1992, pp. 22-4.6. Per tela, cfr. L. MANNI, La chiesa Maria SS. Assunta di Soleto, in (a curadi P. ROSSETTI), Maria SS.ma Assunta Soleto, Galatina 2011, pp. 81-3; sul-la stampa del Beatrizet, cfr. (a cura di C. GELAO), Confraternite arte e de-vozione in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Napoli 1994, pp.222-4,239-40.7. Cfr., sull’argomento, L. MANNI, Lavinio Zappa, Matteo Tafuri e la te-la del Rosario, in (dello stesso autore), Dalla guglia di Raimondello alla ma-gia di messer Matteo, Galatina 1997, pp. 120-2.8. La citazione è tratta da APS (Archivio Parrocchiale di Soleto), Liber mor-tuorum, atto del 13 ottobre 1725, in cui risulta sepolto nella matrice il cor-po di un tal Sthephanus, uno schiavo ottomano catturato e poi vendutoa Soleto tra il 1670 e il 1680, per il quale cfr. L. MANNI, Sthephanus (1650-1725): uno schiavo turco ottomano etc., in “Lu Cutrubbu”, 1990, pp. 61-2.

5

Luigi Manni

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marzo/aprile 2014 Il filo di Aracne 17

Ricorre quest’anno il decennale della scomparsa diNicola G. De Donno, una delle voci più importantinel panorama della poesia salentina. Il poeta ma-

gliese è venuto a mancare il 7 marzo 2004 all’età di 84 an-ni. La circostanza ci sollecita a ricordarne la grandeumanità, la vasta cultura, e soprattutto l’alto valore dellasua produzione in versi, che si distingue per ampiezza ditemi, qualità formale, profondità di sentire.

Laureato in filosofia alla Scuola Normale di Pisa, DeDonno fu docente e preside nei licei.Sensibile alle tematiche sociali e asser-tore convinto del valore della culturasalentina, volle promuoverla rima-nendo ancorato alle proprie originianche in ambito professionale oltreche linguistico-culturale. Assai impor-tanti i suoi contributi all’innovazionescolastica, che a partire dagli anni set-tanta del secolo scorso videro il liceo“Capece” protagonista di primo pia-no a livello nazionale nella sperimen-tazione di nuovi indirizzi di studi emetodologie didattiche. Importantianche i suoi contributi connessi al-l’esperienza di Tempo d’Oggi e alla“Società di Storia Patria per la Pu-glia”.

La poesia di Nicola G. De Donno èfortemente caratterizzata dalla suascelta di usare il dialetto salentino, an-zi magliese, volendo egli con ciò man-tenere salde le proprie radici non solo con il suo ambienteoriginario ma anche riguardo al codice linguistico, di essoritenuto componente essenziale. Lungi dall’intenderel’espressione dialettale come una forma limitativa di pro-vincialismo culturale, De Donno la riteneva una logicaconseguenza del particolarismo regionale che sempre hacontraddistinto la storia italiana, attribuendole una fun-zione assolutamente positiva, che può consentire alla cul-tura nazionale di accogliere e rispecchiare una pluralità dilingue e culture diverse. Il dialetto è quindi da lui conside-rato come la lingua degli affetti autentici, della spontanei-tà sincera, rispetto alla lingua nazionale destinata adesprimere contenuti puramente utilitaristici, istituzionalio di scambio, che sono agli antipodi della poesia.

Sul piano tematico i connotati fondamentali della ricer-

ca poetica ed esistenziale di Nicola G. De Donno muovo-no inizialmente da un tormentato agnosticismo, in cui ra-gione e senso producono un impeto di ribellione contro lemiserie e i mali del cosiddetto vivere civile, mentre l’im-pulso verso la trascendenza, costantemente avvertito conlacerante delusione, impatta contro gli usi strumentali acui essa si presta attraverso le figure di ordini gerarchiciprimariamente rivolti a sancire privilegi e collusioni conl’establishment. Pertanto l’esperienza del mondo reale è pro-

gressivamente pervasa dall’ombra diuna sofferenza individuale che sfociain un pessimismo cosmico, tale da nonlasciare alcuno spazio alla rassegnataaccettazione dello status quo se non nelpresupposto che la morte sia l’esito na-turale di tutte le cose, l’unica certezzasu cui la coscienza possa fondare lapossibilità di apprezzare la vita perquello che essa veramente è, lungi daillusioni ingannevoli.

Questo senso di delusione e di risen-timento nella produzione poetica di DeDonno è contraddistinto nelle raccolteiniziali da spirito prevalentemente sa-tirico, rivolto ad aspetti e a circostanzeoccasionali propri dell’ambiente salen-tino di appartenenza, come si può con-statare nei componimenti di Crònache eParàbbule (1972) e Paese (1979). Succes-sivamente la riflessione si orienta ver-so una più ampia prospettiva

storico-sociale, riferita a vicende sia di taglio personale, co-me l’esperienza della seconda guerra mondiale e la campa-gna di Russia (La guerra guerra, 1987), che di rievocazionestorica, in particolare la presa di Otranto da parte dei Tur-chi nel 1480 (La guerra de Utrantu, 1988). Queste opere pre-sentano un comune legame nella tendenza dell’autore aconsiderare la storia dal punto di vista degli umili, che so-no sempre la parte perdente in ogni conflitto.

Nella fase poetica più avanzata l’ispirazione assume to-ni più intimi e personali, focalizzandosi soprattutto su te-mi esistenziali: lo scorrere del tempo, il mutare dellestagioni, la perdita degli affetti (Mumenti e trumenti, 1986).Il confronto con l’idea della morte e ciò che può sopravvi-verle, la riflessione sul senso della vita, ed infine la ricercadi uno spiraglio verso la fede pervadono le ultime raccol-

POETI SALENTINI

Ojdpmb!H/!Ef!EpoopLa poesia dal la mente al cuore

di Giuseppe Magnolo

Nicola G. De Donno

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18 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

te (Lu senzu de la vita, 1992; Palore, 1999; Filosufannu? Cullevite la vita, 2001).

Considerando le strutture poetiche adoperate da DeDonno, è facile constatare come anche per questo versan-te egli intendesse muoversi nell’alveo della tradizione let-teraria, che per lui rappresentava non solo un indispen-sabile legame con il passato, ma anche una forma di au-toimposta disciplina che da un lato tutelasse l’estro creati-vo da impulsi troppo dirompenti, e dall’altro preservasseun senso di rispetto verso il lettore e le sue possibilità dicomprensione del prodotto artistico. Queste ragioni sonoalla base delle sue scelte per quanto attiene alle formeadottate, in particolare la sua marcata preferenza per unastruttura poetica breve e pregnante come il sonetto.

È comunque significativo il fatto che nei componimentidelle ultime raccolte il senso della rinunzia verso le solle-citazioni dell’esistenza fisica si rispecchi spesso nell’abban-dono della consueta compostezza metrica in favore di unaestrema stringatezza di linguaggio, con una tecnica di mar-cato sfrondamento.

Nella convinzione che la formulazione di un giudizio ge-nerale sulla poesia di qualunque autore sia meno rilevan-te rispetto alla necessità di rendere chiaramente per-cepibile per il lettore le qualità peculiari da cui esso scatu-risce, riteniamo opportuno far parlare i testi, seppur conl’essenzialità richiesta da un saggio breve. A tal fine ripor-tiamo tre sonetti, che pur nella diversità tematica che li di-stingue, possono ben rendere sia l’intensità dei sentimentidell’autore che la sua efficacia espressiva. Il primo compo-nimento è classificabile come poesia visiva. Esordisce conimmagini riferite alla realtà naturale, per poi creare dellecorrispondenze di carattere concettuale con lo stato d’ani-mo del poeta nell’approssimarsi della fine, e chiudere sul-la metafora della luce destinata a spegnersicome la vita:

Duce sta primavera nuvembrinacalleggia rari susu ll’onde chiarefiuri de scome càndite. Ṭraspare

jundu allu fundu d’alica zzurrina.E lluntanu me porta a ll’àuṭru mare

ca me mareggia an fundu, e mmenturcinaṭrumenti su llu gnenti e lla scatina

de l’otaluri cucchi a llunfucare.Puru, tardìa sta primavera è ssia

ca m’àe lluciuta n’arba ggià sparuta-quannu? – a llu gnenti. E sse arba è dde bbuscìa

e ccasciu, nu m’è mmara sta catutafantasticannu me luce. Poi, sia

se lampu sia de lampa ca se stuta.(“Tardìa sta primavera”1)

Il secondo sonetto rievoca il ricordo straziante del figlioLuigi, morto a metà del suo cammino di vita per un maleinguaribile, che lo ha strappato ai suoi cari, impedendoglidi realizzare il suo sogno di farsi frate francescano dopoaver abbracciato la fede in Cristo:

Cce auṭru nc’ete ca te pozzu darese nu nnu fiuru ca nu giova a gnentise nu nna tomba ca mancu la senti

e nnu ricordu ca s’à scancellarempena jeu me scancellu? Né autrimenti

tie urmài de mie tieni cosa a cercare.Tra la morte e la vita nc’è nnu mareca màncane llu mmarchi bastimenti.

E pperò morti e vvivi pari gnentisuntu, e lu gnenti è ttuttu: morti e vvivi,

e ccelu e tterra, e llegrità e ṭṭrumenti.Ma quasisìa nu nc’è, chiantu cultivi

a lla chìccara mea, minu simentie spettu … cu tte rrivu e cu mme rrivi.

(“Spettu”2)Il terzo sonetto è dedicato dal poeta alla moglie Maria, la

compagna di una vita cosparsa di molte asperità, ma soste-nuta dall’affetto. Sicuramente è da considerare una dellepiù belle poesie d’amore che mai siano state scritte, uncomponimento in cui la forza di questo sentimento si riaf-ferma a dispetto del tempo che passa:

Tu si’ la ggioventù ca se n’è sciutaannu dopu annu senza mai nne lassa,senza lla tocca lu tiempu ca mmassaràppuli e rrèume e llentu ne ṭramuta.

Vita de osci duce comu pàssulade l’ua de jeri a ll’ànima. Sparuta

ogne ddurezza de pena patuta,ogne nnùticu llenta e sse smatassa.A ffiancu a ffiancu l’imu caminatasta via ca sale e scinne de la vita,

e mmo nu mmanca mutu a lla fermata.Tènite pronta, vèstite de sita

comusìa ntorna ca è lla prima fiatae cca è ll’amore, sempre, ca ne nvita.

(“Vestite de sita”3)L’amore vince la forza dissolutrice del tempo, che pure

assiepa rughe e acciacchi senza sminuirne il vigore. L’amo-

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re nel tempo matura, come l’uva lasciata a seccare sulgrappolo che diventa sempre più dolce, e attenua le penepatite sciogliendo con l’affetto ogni nodo di pianto. L’amo-re condiviso scandisce ogni tappa del lungo cammino del-la vita e permette di compiere serenamente anche il passoestremo della morte, che diventa un evento gioioso a cuipresentarsi col vestito della festa. L’amore, soltanto l’amo-re, riunisce in un unico anelito l’umano e il divino, il tem-po e l’eternità.

La parabola del-l’evoluzione poeticadi Nicola G. De Don-no si sviluppa in sin-tonia con il suopercorso di vita, conuna traiettoria in cuila mente e il cuore so-no contrapposti aidue poli estremi. Par-tendo da premesselogico-sensoriali, egliha dapprima posto laragione a fondamento del suo giudizio sulla realtà e sugliobiettivi poeticamente perseguiti. Nella maturità gli im-pulsi contrastivi del poeta hanno ceduto, lasciando il cam-po al sentimento, che gli ha permesso di aggrapparsi allareligione degli affetti. Nella rassegnata accettazione dellapropria limitatezza egli ha infine trovato un approdo ver-so la fede ed una spontaneità di confessione intima che so-stanzia la sua voce poetica, toccando le corde più profondedell’umano sentire. •

1. NICOLA G. DE DONNO, Palore, Milano, Scheiwiller, 1999, p. 59. [Dol-ce questa primavera novembrina / tiene a galla sulle onde chiare radi / fio-ri di spume candide. Traspare / un ondeggiare sul fondo di algaazzurrina. // E lontano mi porta all’altro mare / che mi mareggia nel pro-fondo, e mi attorciglia / rodimenti sul niente e lo scatenarsi / dei vorticiprossimi all’affogare. // Pure, questa tardiva primavera è come / se mi ab-bia accesa un’alba già sparita / - quando? – nel niente. E se è alba bugiar-da // e cado, non mi è amara questa caduta / fantasticandomi luce. Poi,non importa / se sia lampo di lampa che si spegne.]

2. Ibid., p. 66. [Che altro c’èche ti posso dare / se nonun fiore che non giova aniente, / se non una tombache neanche la senti / e unricordo che si ha da can-cellare // appena io micancellerò? Né altrimenti /tu ormai hai qualcosa dacercare a me. / Tra la mor-te e la vita c’è un mare /che mancano bastimentiper varcarlo. // E peròmorti e vivi uguali niente /sono, e il niente è tutto:morti e vivi , / e cielo e ter-ra, e allegria e tormenti. //

Ma come se non ci fosse, pianto coltivazioni / nel mio orticello, getto se-mi / e aspetto… che io ti raggiunga e tu mi raggiunga.]3. NICOLA G. DE DONNO, Mumenti e trumenti, Lecce, Manni ed., 1986,p. 60. [Tu sei la gioventù che se n’è andata / anno dopo anno senza mailasciarci, / senza che la toccasse il tempo che accumula / rughe e reuma-tismi e lento ci trasforma. // Vita di oggi dolce come chicco seccato / del-l’uva di ieri all’anima. Sparita / ogni durezza di pena patita, / ogni nodosi allenta e si scioglie. // A fianco a fianco l’abbiamo percorsa / questa viadella vita che sale e scende, / e ora non manca molto alla fermata. // Tie-niti pronta, vestiti di seta, / come se fosse di nuovo la prima volta / e fos-se l’amore, sempre, che ci invita.]

Maglie (LE) - Liceo classico “Francesca Capece”

Giuseppe Magnolo

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Un uomo con i piedi per terra e la testa fra le nu-vole. Questo, forse, potrebbe essere l’ideale del-l’uomo moderno. Col suo impegno quotidiano, la

fatica e la gioia di costruire, ma anche il librarsi verso il de-siderio e l’immaginazione: un volo irresistibile oltre le ca-se e il tempo, cogliendo l’esistente e il fantastico, il passatoe il futuribile.

Una coperta di stelle. I giochi bambini. I volti amati. E dinuovo viaggiare. Percorrendo solchi di terra rossa. O pas-sando dentro spighe alte di grano. Tra profumi di vendem-mia e dolci di festa. Tra amori forse dimenticati o maiperduti. Amori solidi, eterni come ulivi. Favole con Orchie Fate che sorridono e rilasciano dolci paure. Strade infini-te che portano a giorni nuovi o a orizzonti irraggiungibili.Sortilegi. Poesie.

Tutta la vita del mondo, infine, si compone di realtà e in-cantamenti, di sogno e di mistero, di cronache possibili eimprobabili, di storie che non sono storia, e pure destina-te a durare oltre la storia.

Ma bisogna essere forti, per questo fatale cammino. Maci vuole anche amore: l’intenzione-invenzione sentimen-tale pura e assoluta, il nudo saper sentire, partecipare, con-dividere emozioni. Pensando, sognando, lasciandosiportare via...

Siamo noi.Il mito esiste perché esistono gli uomini. Angeli caduti e

risorti. Forse figli prediletti della natura. Specie complessae indefinibile, alla quale ben si addice il concetto d’infini-to, sapendo tenere sempreviva, nonostante le proprie feri-ne contraddizioni, la scintilla della bellezza della vita.

55. «È scurutu lu Carniàle / cu purpette e maccarruni, /mo’ me tocca l’acqua e sale / e nu crottu de pampasciùni».

Dal mercoledì delle Ceneri, subito dopo Carnevale, e fi-no alla domenica di Pasqua, per antica tradizione, iniziatanel II secolo d.C., corre il periodo di Quaresima: quarantagiorni (quadragesima) che in tempi non lontani, e molto piùsentitamente rispetto ad oggi, erano caratterizzati da unaserie di rituali – tra il religioso e il pagano – che si traman-davano rigorosamente di generazione in generazione.

L’astinenza alimentare, per esempio. Che non era soltan-to dalle carni. Oltre ad esse, per tutto il periodo, non si do-veva consumare neanche un uovo, né latte, né i suoiderivati. Altrimenti, se ccambarava (cioè si cadeva in pecca-to, mangiando di grasso).

Sicché, nel periodo quaresimale, pranzo e cena erano co-

stituiti da patate, le-gumi, e verdure diogni genere (mùgnuli,zzanguni, cicore creste,raccolte di solito di-rettamente nelle cam-pagne), compresi gliimmancabili e sem-pre gustosi pampa-sciuni in agrodolce.Abbondanza, si di-rebbe. Invece le va-rietà del menu qua-resimale venivanoconsumate in pastiassai frugali. «Pocu,ma sapuritu», era ilmotto.

Ai pampasciuni silega una curiosa leg-genda, che narra diun naviglio carico dipellegrini, prove-niente dalle coste anord dell’Adriatico ediretto a Otranto, cheper un improvvisofortunale ai primigiorni di marzo rovi-nò sul litorale solita-rio delle Cesine.

Feriti e affamati, i naufraghi supplica-rono la Madonna Addolorata, per un in-tervento miracoloso, che non si fece attendere. Di lì a poco,infatti, sul posto giunse una capretta con una campanelli-na al collo che, facendosi seguire, accompagnò il gruppodei malcapitati fino al villaggio di Acaya, nei pressi di Ver-nole, dove furono accolti e rifo-cillati dai paesani con i gustosilampascioni di cui quel territorioera, ed è, ricchissimo.

Tanto che ancora oggi, il primovenerdì di marzo, Acaya dedicaai suoi preziosi cipollotti una sa-gra molto importante, con fanta-siosi e geniali cimenti gastro-nomici, che nel tempo hannoportato a raccogliere più di centoricette sul modo di prepararequesto prodotto tipicamente sa-lentino. E la stessa Madonna Ad-dolorata, per quel giorno, diven-ta la Madonna te li Pampasciuni.Onore al merito.

56. A proposito di gastrono-mia. Una leggenda – che avreb-be anche qualche fondamentostorico – vuole che l’inventore della scapece, orgoglio del-la tradizione gastronomica gallipolina, sia addirittura Mar-co Gavio Apicio, il più celebre gastronomo dell’antica

20 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia terra noscia ter-

Quando muoiono le � Quando �niscono i �

Misteri, prod nell’antica Te

Diciottesim

di Antonio Me

Pampasciuni in agrodolce

A tavola c

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Roma, il quale neparla anche nel suolibro De coquinaria.

Pare che un giorno,nonostante la gran fa-ma (e forse, proprioper questo), l’impera-tore Tiberio in perso-na avesse messo indubbio le decantateprodezze ai fornellidel massimo magodella cucina di Roma.Così, in segno di sfi-da, gli inviò un cane-stro di piccoli pesciazzurri (vope, sarde,alici, pupiddhi, prove-nienti dal golfo di Ta-ranto, e particolar-mente dal mare diGallipoli), che avevaappena ricevuto indono, invitando Api-cio a preparare unapietanza, degna d’es-sere gustata comeuna vera specialità.Al confronto con spi-gole, orate, dentici,

saraghi o scorfani, quei pesciolini eranodavvero insignificanti, ma Apicio non siscompose. Chiese soltanto un po’ di tem-

po, che l’imperatore naturalmente gli concesse, fissando lascadenza in un più che ragionevole lasso di cento giorni.

Per 99 giorni Apicio scomparve letteralmente dalla sce-na: nessuno lo vide più, né seppe dove viveva, lavorava o

dormiva. Al centesimo giorno,accompagnato da un inservientevestito di blu, che portava a spal-la una larga tinozza di legno, ilgrande cuoco incontrò l’impera-tore. Fece allora deporre la tinasu un tavolo, e con movenze qua-si di prestigiatore, levando il to-vagliolo dalla bocca del reci-piente, scoprì una superficie gra-nulosa e compatta color giallooro, da cui si effondeva un profu-mo intenso e attraente. «Questo –disse, porgendo una scodella diquel misterioso prodotto all’im-peratore – è il nuovo cibo di Api-cio!» (in latino: “esca Apicii“, dacui deriverebbe, per l’appunto, ilnome “scapece“).

Inutile descrivere i grandi ono-ri che l’imperatore Tiberio tribu-

tò ad Apicio dopo aver assaggiato quella deliziosaprelibatezza, creata (in gran segreto) facendo friggere il pe-sce, marinandolo poi in mollica di pane, insaporendolo

con aceto, e cospargendolo di zafferano. Una ricetta che, adirla tutta, Apicio pare l’abbia avuta da quell’ignoto inser-viente vestito di blu, che era proprio un marinaio gallipo-lino, avvezzo a mangiare al suo paese quel genere dipietanza, altrove sconosciuta.

57. Ricordate questo nome: Giulio Antonio Acquavi-va, conte di Conversano, luogotenente del re di Napoli Al-fonso d’Aragona, nobile di lignaggio e di cuore, cavalieresenza macchia e senza paura, abile spadaccino, gentiluo-mo degno dei più elevati onori, intrepido fino ed oltre lamorte. Egli visse in tempi di avventura ed eroismo rimastiinsuperabili, quando l’onore e il coraggio erano esempla-ri. Tempi di uomini ardimentosi, che hanno scritto paginedi storia, e con le loro eroiche imprese, anche di leggenda.

Nato nel 1428 ad Atri, in Abruzzo, Giulio Antonio diven-ne duca di Conversano sposando nel 1456 Caterina Orsinidel Balzo, figlia naturale di Giovanni Antonio, principe diTaranto. Accorse volontariamente sotto i bastioni di Otran-to in quella fatidica tragica estate del 1480, quando i Tur-chi, comandati dal feroce Gedik Ahmet Pascià, invasero lanobile città dalle cento torri, caposaldo orientale della Cri-stianità, con il conseguente eccidio degli Ottocento Martiri,e fu ancora protago-nista l’anno dopo,nelle varie battaglieper la sua liberazione.

In uno di questiscontri (anche se lastoria parla di un’im-boscata), il conte Ac-quaviva difese la vitae l’onore di tanti cri-stiani inermi, batten-dosi come centosoldati tra i boati e ifumi delle artiglierieturchesche, nel disor-dinato clamore didonne, bambini evecchi terrorizzati, eorrendi cumuli di ca-duti e macerie.

Improvvisamente, un colpo netto di scimitarra gli moz-zò il capo.

Ma Giulio Antonio Acquaviva non cadde per terra. Pursenza testa, molti lo videro combattere ancora contro gliinvasori. Finché il suo fido destriero, dileguandosi nellacampagna, lo condusse in un’ultima corsa, fermandosi nelcortile del Castello di Sternatia, quartier generale delletruppe aragonesi.

Qui l’eroico conte stramazzò al suolo per sempre.O forse no.In certi suggestivi momenti della notte agostana, lungo

il profilo delle mura di Otranto, chi ha buona vista e cuo-re romantico, ancora oggi, infatti, dopo più di cinque seco-li, può intravedere, quasi come un’ombra, un cavalieresenza testa che percorre rapido il cielo, galoppando in si-lenzio verso il mistero.

Alla prossima. •

marzo/aprile 2014 Il filo di Aracne 21

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leggende �niscono i sogniQ � sogni, �nisce ogni grandezza

M igi e fantasie erra d’Otranto

ma puntata

ele ‘Melanton’

con Apicio

1480 - I turchi entrano a Otranto

(continua)

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22 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

Dopo aver letto il toccante articolo “Il Capitano” delprof. Andrea Tarantino, pubblicato sul n. 1 di que-sta rivista, ho sentito la necessità di rievocare la sto-

ria del Capitano di Corvetta Salvatore Todaro. Il nome ai più non dirà niente, ma per chi come me ha

trascorso gran parte della sua vita in Marina, quella di Sal-vatore Todaro, è un figura mitica sia per il grande corag-gio, ma soprattutto per l’umanità profonda che è insitanell’animo di ogni marinaio.

Salvatore Todaro è senza dubbio uno dei più sconcertan-ti personaggi della seconda guerra mondiale, denominatodagli amici e dai nemici “Ilcorsaro gentiluomo”.

Entrato come Allievo nel-l’Accademia Navale di Li-vorno nel 1923, ne erauscito nel 1927 con il gradodi Guardiamarina e dopoun corso di osservazioneaerea viene imbarcato suvarie unità subacquee e disuperficie con diversi inca-richi.

Nel 1933, durante un vo-lo di addestramento l’S. 55,l’aerosilurante su cui eraimbarcato come osservato-re, si infilò in mare a causadel siluro agganciato sotto la carlinga. L’incidente procuròal Todaro la frattura alla colonna vertebrale che lo costrin-se a portare il busto per il resto della sua breve vita.

Nel 1940, raggiunto il grado di Capitano di Corvetta, do-po una breve esperienza sul sommergibile Manara, fu as-segnato al comando del sommergibile atlantico Cappellinie, allo scoppio della guerra, fu inviato alla base atlanticadi Betasom a Bordeaux per affiancare gli U-boot tedeschinella Guerra dell’Atlantico contro i convogli sulle rotte ma-rittime tra Stati Uniti e Gran Bretagna.

Todaro non era un un pivellino, era amatissimo daimembri del suo equipaggio che lo chiamavano “Mago Ba-kù” (sembra, infatti, che Todaro avesse la capacità di pre-vedere in anticipo l’esito delle missioni alle quali eranodestinati), e soprattutto erano affascinati dal suo modo dicombattere.

Salvatore Todaro, probabilmente a causa dell’incidenteoccorsogli, non aveva molta fiducia nell’efficacia dei silu-ri, per questo preferiva affrontare le sue prede in superfi-cie, a cannonate, tattica che gli strateghi della guerrasottomarina definivano folle, ma che esaltava l’equipaggio.

Il 16 ottobre 1940, durante una missione di contrasto allargo dell’isola di Madera, Todaro, con il sommergibileCappellini, intercettò il piroscafo belga Kabalo, nave disper-sa del convoglio inglese OB.223 che trasportava pezzi diricambio aeronautici e munizioni, e tentò di colpirla contre siluri che però mancarono il bersaglio. Emerso in su-

perficie lo affondò a colpi dicannone.

L’equipaggio del Kabaloriuscì a calare in mare solouna scialuppa di salvatag-gio. Todaro, dopo l’affonda-mento che non aveva pro-vocato vittime, accostò,trasse a bordo del sommer-gibile il comandante nemi-co capitano Vogels e tutti imarinai caduti in mare e,presa a rimorchio la scia-luppa con gli altri “nemici”,fece rotta verso le Azzorreper metterli in salvo.

Nonostante il mare gros-so che spezzò varie volte il cavo di rimorchio e il rischio diessere intercettati dal nemico, il smg. Cappellini riuscì a rag-giungere le coste delle isole Azzorre e mettere in salvo i 26uomini dell’equipaggio del Kabalo, trasbordandoli a terraquattro alla volta con un piccolo battellino gonfiabile.

I giornali di tutta Europa parlarono della vicenda comedi un "barlume meraviglioso di umanità e cavalleria" in unaguerra spietata, mentre l’ammiraglio tedesco Karl Donitznon apprezzanndo il gesto del Comandante Todaro lo de-finì ironicamente il “Don Chisciotte del mare”, ma la rispo-sta di Todaro fu “Il fatto ammiraglio è che io in quelmomento sentivo sulla schiena il peso di molti secoli diciviltà. Un ufficiale tedesco, forse, non avrebbe sentitoquel peso”.

Alba del 5 gennaio 1941. Il Cappellini è in perlustrazionesulla rotta dei piroscafi che trasportano uomini e materia-

CORREVA L’ANNO...

La Spezia - 1939 - Varo del smg. Cappellini

SS aa ll vv aa tt oo rr eeTT ooddaa rr oo

In più occasioni sfidò il mare per salvare il “nemico”perchè “sentiva sulla schienail peso di molti secoli di civiltà”

di Salvatore Chiffi

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le bellico. Zona di operazioni, questa volta, è l'Atlanticocentrorientale. Avvistato il piroscafo "Shakespeare", Todaroordina l'attacco: come al solito in superficie, a cannonate.Lo "Shakespeare", però, è bene armato e risponde al fuoco,ma il sommergibile italiano si fa sotto, dove la portata deisuoi colpi è micidiale. Nello scontro il Cappellini perde unuomo, ma lo Shakespeare, più volte colpito sulla linea di gal-leggiamento affonda. Ancora una volta, Todaro fa prevale-re l'umanità sulle leggi della guerra: raccoglie ventinaufraghi su una scialuppa e li traina verso l'Isola del Sa-le, nel gruppo delle Isole di Capo Verde. A bordo del som-mergibile viene trasportato solo il comandante delpiroscafo, gravemente ferito. Durante la notte il cavo di ri-morchio si spezza. Ci vogliono due ore di ricerche per ri-

trovare la scialuppa che intanto stava affondando a causadell'acqua che le alte onde atlantiche riversavano continua-mente sul fondo della grossa barca nonostante i marinaicercassero disperatamente di ributtarla in mare con gros-si barattoli. Todaro non vuole che i naufraghi corrano altripericoli e ordina che siano presi a bordo e sistemati in co-perta e nella falsa torre. Naviga così in superficie, allo sco-perto, per un giorno e mezzo, quindi sbarca i superstitiinglesi all'isola del Sale. Il suo nome e il suo mito varcanola Manica.

Passano appena pochi giorni ed è il terzo appuntamen-to col destino.

È l’alba dei 14 gennaio, le vedette avvi-stano un grosso piroscafo britannico, è ar-mato con due cannoni e naviga veloce. Sichiama "Eumaeus".

L’attacco avviene dopo un lungo inse-guimento.

La nave inglese ha inizialmente il so-pravvento, perché i suoi cannoni hannouna gittata più lunga di quelli del sommer-gibile italiano, ma quando il Cappellini rie-sce a farsi sotto, i suoi colpi micidialispazzano la coperta della nave. I cannoniinglesi continuano a sparare. “Ma quantagente c'è a bordo, quanti uomini?”. Todaro se lo chiede quan-do s'accorge che, nonostante il piroscafo sia rimasto gra-vemente colpito, l'intensità dei suoi colpi non diminuisce.

Nel frattempo, uno dei due cannoni del sommergibileviene colpito e messo fuori uso, un ufficiale gravementeferito e un cannoniere scelto colpito alla testa. Anziché ri-

nunciare, Todaro spinge il sommergibile ancora all'assalto:l'unico cannone diventa rovente per il ritmo dei colpi.

Il cannoniere ferito si scrolla via il sangue dalla frontecon una manata, come fosse sudore e rimane al suo posto.

Todaro lo guarda: vorrebbe decorarlo lì, in piena batta-glia e lo fa, a modo suo: "Da questo momento - gli dice - seiautorizzato a darmi del tu. E sarai l'unico che potrà dirmi, tu, co-mandante".

Centrato da una serie di colpi sulla linea di galleggia-mento l'Eumaeus inizia ad affondare lentamente.

Todaro se ne avvede, ma ha fretta.Dal momento dell'attacco sono passate due ore ed è mol-

to probabile che altre navi o aerei nemici si stiano avvici-nando al teatro della battaglia in soccorso della Emmaus;

non può rischiare. Si avvicina ancora al piroscafo e da una distanza infe-

riore ai settecento metri fa partire per la prima volta un si-luro.

L'esplosione segna la fine della nave: ma da essa comin-ciano a uscire uomini, in continuazione. Si scopre così chesi trattava di una nave trasporto truppe, con a bordo tremi-la soldati inglesi. Per loro non c’è nulla da fare, non dispon-gono neppure di una lancia di salvataggio.

Il pericolo è concreto: da un momento all'altro il som-mergibile può essere avvistato. Todaro ordina l'immersio-ne e si allontana velocemente dalla zona del combat-

timento. Ma è stato individuato e deve su-bire un attacco con bombe di profonditàche procurano al sommergibile gravi dan-ni. Restando in immersione un'intera nottee con abili manovre evasive riesce a sfuggi-re alla caccia e rifugiarsi nel porto neutraledi La Luz, nella Gran Canaria. Rimarrà inporto cinque giorni, poi, effettuate le ripa-razioni più urgenti, uscirà dal porto beffan-do cinque navi inglesi che lo attendevano.

Dopo queste imprese, il comandante To-daro è una leggenda.

Resterà al comando del Cappellini ancoraper diversi mesi, ma nell'autunno dei 1941, con la consue-ta prassi di un normale avvicendamento, viene sbarcato.

Torna sul mare coi motoscafi d'assalto. Partecipa, sempre da temerario, a numerosi scontri, en-

tra a Sebastopoli, contro gli ordini dei tedeschi, alla testadei piccoli mezzi d'assalto e viene infine inviato a coman-

Il smg Cappellini rimorchia la scialuppa del Kabalo Naufraghi del Kabalo a bordo del smg. Cappellini

S. Todaro “Mago Bakù”

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dare un piropeschereccio, il Cefalo, che appoggia i barchinid'assalto nelle missioni più ardite.

Il 13 dicembre 1942 parte per una missione notturna, co-me quasi tutte le notti.

Obiettivo è il porto di Bona, in Tunisia, ma il tempo èpessimo, l'azione non sipuò effettuare e il pirope-schereccio ritorna nelporticciolo di La Galite,che lo ospitava.

Sono le otto dei matti-no.

Gli uomini che hannopartecipato all'azionenotturna vanno a dor-mire, tutto è rinviato al-la notte successiva, tem-po permettendo. Va adormire anche Todaro,nella sua cuccetta.

Un quarto d'ora do-po, due Spitfire spuntano improvvisamente sull'isolottodiretti verso il porticciolo. La loro preda è il Cefalo: scen-dono a volo radente, spezzonando e mitragliando. Unmarinaio, in coperta, viene colpito a morte e la nave, cen-trata ripetutamente dalle raffiche di mitragliatrice, subi-sce gravi danni.

Quando la contraerea riesce a mettere in fuga i due ae-rei inglesi, si cerca il comandante Todaro.

E’ sempre nella sua cuccetta, con gli occhi chiusi: non s'è

neppure mosso. Una scheggia, una sola, gli ha trapassatola tempia.

Aveva solo 34 anni quando il Todaro morì. Nella sua breve carriera era stato decorato con una me-

daglia d’oro al valore, tre medaglie d’argento al valore, duedi bronzo e due croci diferro, ma tra i suoi effet-ti personali fu rinvenutaquella che lui ritenevafosse la decorazione piùbella, la lettera di unadonna portoghese, forsemadre, forse moglie diun marinaio portoghesedel Kabalo, che recitava:

“Signore, felice la Nazio-ne che ha degli uomini co-me voi. I nostri giornali cihanno riferito del vostrocomportamento verso l’e-quipaggio di una nave che

era vostro dovere affondare. Esiste un eroismo barbaro e un al-tro davanti al quale l’anima si mette in ginocchio: il vostro. Sia-te benedetto per la vostra bontà che ha fatto di Voi un eroe nonsoltanto dell’Italia ma dell’umanità”

Con il motto dannunziano “OSARE L’INOSABILE”,dopo una corvetta radiata nel 1994, oggi un’altra unitàdella Marina Militare solca il mare con il nome "Salvato-re Todaro": il sommergibile S 526. •

Il smg. S 526 “Salvatore Todaro”

Salvatore Chiffi

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ARTISTI SALENTINI

Èstoricamente un dato definito che l’acclimatarsi deipittori nel loro “milieu” culturale (o trans-culturale,ché le opere di Donato Diso acquistano valore intrin-

seco solo se viste in una dinamica interpretativa interna-zionale) deriva da una decisione autonoma: se la ricercadelle “nuances” e delle tonalità armoniche trova pur qual-che indefinito limite, ecco che l’artista – forte di una sua ra-dice folklorica e di un suo ordinamento personale – ricercanell’indefinito succedersi delle ere (e delle fasi vitali) la suapiù profonda ragion d’essere. Intendiamoci: un discorsodel genere, nel caso delle opere del Diso, non può esser

sganciato dalla robusta matrice religiosa che le anima. Cer-to, la pittura di Donato Diso trova la sua peculiare vitalitàin un assenza di figurativismo espressivo, ricercando inuna sorta di “primordialismo classico” – e non ce ne vo-gliano gli estimatori di Capogrossi e Melli – la sua dimen-sione più compiuta. La vena poliforme di Diso, pur inassenza di una diretta contaminazione con la luminosità,coinvolge sia il tessuto semantico del cromatismo (ancheattraverso l’uso di atmosfere indiziarie rimontanti a Cha-gall), sia l’intensità del sentimento metafisico. L’accavallar-si di forme rotondeggianti sembra quasi voler richiamareuna sostanziale partenogenesi del vissuto, dove la vita ècolta nel suo svolgersi, dalla naturalità del nascere fino al-la dimensione funebre e terminale che l’esistenza assumenel suo esplicitarsi. Il dolore, l’amore, la morte: ecco alcu-ne tematiche facilmente intuibili nell’impasto creativo delDiso pittore. Casolari desolati che sembrano tratti da unaDemolizione del Mafai si intersecano con precisi elementineo-testamentari; dissolti in un’esplosione di colore, i vol-ti si mescolano tra loro a rappresentare lo scorrere dellestagioni e l’instancabile lavorio operato da tempo sugli es-seri umani.

È evidente che la pittura di Donato Diso non rappresen-

ta fedelmente e oggettivamente la realtà, e non perché l’ar-tista rifiuti il reale in nome di immaginarie fughe in unafantasia indefinita e inconoscibile; qui, invece, siamo mes-si di fronte a una percezione modificata dell’oggetto che siconfigura come una evoluzione personalistica della realtàmedesima, anche in nome di un complesso sistema di ri-mandi e di acculturazioni localistiche affatto banali. La vi-sione prospettica è qui mancante, eccezion fatta per quellesituazioni narrative in cui vi è una partecipazione affetti-va forte (si veda in proposito la Crocifissione).

Né si mostra assente il sostrato materico, sempre in

un’ottica che potremmocollocare tra il gusto del“collage” e la puntuale, epuntigliosa, artificiositàdelle figure mosaicate. Inquesta fase, l’interventogeometrico (le summen-zionate curve e i cerchi, iquadrati e i rettangoli)parrebbero rimontare acerte esperienze del supre-matismo russo; a tal pro-posito verrebbero in men-te Malevič e Lissitzky, senon fosse che il gusto ver-so l’artificio grafico fine ase stesso in Donato Diso èdel tutto assente. Semmai, si riscontra un’attenzione versol’arte informale, laddove passioni, tensioni e disagi sonoespressi nell’arte dell’autore salentino nel modo più libero,nell’accezione più spontanea e drastica possibile, al di fuo-ri di qualsiasi schema precostituito e contro ogni regolanormalmente accettata. Sottovoce, con il mormorio di chi

DONATO DISOTra sacralità e cromatismo

di Giorgio Pannunzio

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ha un enorme rispetto per l’artista, si sarebbetentati di dire: Mirò? L’aggressività gratuita diquesta congettura è resa meno improponibiledalle intersecazioni che le figure e le tonalità as-sumono in un contesto progressivo, in quella chesi potrebbe definire una catena emozionale costrui-ta attraverso il colore.

Se dunque l’ispirazione ed i sostrati a cui Diso attin-ge sono molteplici e non facilmente definibili (perchéoggettivamente contaminati l’un l’altro in una sapien-te costruzione polimorfica), è comunque possibile in-tegrare l’interpretazione dei contenuti che l’artistaveicola ai suoi fruitori attraverso una verticale e in-tensiva meditazione sulle sue opere. Le tele di Disofanno pensare ai grandi squarci coloristici di MarioSchifano (altro “deus ex machina” evidente nella pittu-ra del nostro), generando una pittura che è un vero eproprio “laboratorio umano”, nel senso che tutti i pal-piti e le tensioni dell’umanità vi vengono descritti conmano ferma e con icastico senso delle proporzioni, a volerquasi intuire un senso nascosto che ogni cosa possiede al

suo interno, comeconnotazione mi-sterica e magicache non può piùessere elusa in unadisamina comples-siva della realtà.

Non può essererevocata in dubbioun’impressione ra-dicale, cioè che lapittura di DonatoDiso sboccia e cre-sce – appunto – nelvasto territorio del-l’emozionalità, ma-gari nascosta sottoun velame solennee partecipativo che

in altri non si reperisce: l’incontroscontro con la materia, che in Diso èquasi come una battaglia sotterra-nea e fisicamente probante, si mo-stra soprattutto in quelle atmosferedi rigoglio metafisico, un “oltre”che non è opposto ai vissuti di cuiogni uomo si nutre, ma sorge comeelemento unificatore, capace di uni-re in un solo, tormentoso gangliol’umano e il divino. La pittura diDiso attraversa sentieri nascosti, incui il ricordo del passato si con-giunge alla tessitura vitale che da quel ricordo è generata,in modo da formare un’indispensabile e composita strut-tura narrativa che si dissolve e si rimargina un istante pri-ma di codificarsi come messaggio davanti ai nostri occhi.Diso, grazie al suo talento visionario e all’amore per le tin-te forti e definite, ci notifica un mondo pieno di fede, con

una sicurezza interiore che, pur non rifiutandoo peggio abolendo il male che dimora nel mon-

do, riqualifica la “condition humaine” attraversouna visione solidaristica e concettualmente vicina

all’ontologia del cristianesimo più vivo.La pittura di Diso dunque, nel suo dimensionarsi cri-

stiano, rappresenta una catechesi universale, o almenouniversalmente accettata, come unico territorio per dircosì teologico su cui costruire le basi di un futuro a noi– per ora – del tutto ignoto (e si veda l’uso di certe at-mosfere che si potrebbero definire quasi timbriche e

che sono facilmente reperibili nell’operazione di disso-luzione dei confini della realtà operata dall’artista); l’ar-te, sembra dirci Donato, deve oltrepassare gli angusticonfini del nostro mondo, deve trascendere non solo lamaterialità, ma financo il nostro stesso considerarci co-me unica controparte del dialogo divino. In ciò, lo sfor-zo di Donato Diso (encomiabile per dedizione ed

acutezza) ci sembra sia quello di ricondurre a radici uma-namente comprensibili un destino di ricettività universale.

Un discorso analogo, ma opposto, va fatto sul Diso scul-tore. Qui i suoi crocifissi, veri e propri simboli del calvarioa cui tutti gli esseri umani, almeno una volta nella vita, so-no costretti a sottostare, nascondono la necessità di preco-nizzare uomini di ferro per tempi di ferro, come se la forzadi sopportazione che in ogni individuo scaturisce dall’ac-cettare le controverse vicende dell’esistenza dovesse ancorpiù sostanziarsi attraverso una totale alleanza con il sacro.Intendiamoci: la morte, intesa come cumulo di sofferenzedopo una vita sovente torturata e trascorsa nella vana at-tesa d’una gioia mondana, non viene elusa dal Diso; le suefusioni hanno la solidità e la saldezza di chi ha messo a du-ra prova il valore orgiastico della realtà, defilandosene innome di principi e valori che si rifanno a una legge più al-ta e fatale. Le crocifissioni in ferro battuto (accanto ad al-tre e diverse creazioni, ma vogliamo soffermarcisoprattutto sulle prime) hanno una tradizione forte nel Sa-

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lento. Il recente lavoro di scavo critico operato dal Lezzi,dal Fumarola e dal Paticchio ha messo in evidenza qualisiano le radici iconiche a cui i nostri forgiatori si rifanno, edunque non è questa la sede per riproporre strade già per-corse. Ciò che si vuol mettere in evidenza qui è laforza di carattere che emerge nelle creazioni di-siane, come se l’artista avesse voluto tentare dirappresentare, assieme alla sofferenza delNazareno, anche la propria anima, dolen-te e forte.

Tra le creazioni artistiche, quelle afferen-ti alla sfera religiosa risultano possedere una va-lenza tipica, perché cercano di esprimere visi-vamente il legame che esiste tra uomo e Dio. Negliultimi anni è stato finalmente cancellato un diffusopregiudizio inerente l’arte sacra (e quella in ferrobattuto in particolare), pregiudizio che rimonta allasua facile commerciabilità e che tuttavia non tieneconto del valore salvifico che tali icone di fede rap-presentano per coloro che vogliono trovare anchenella dimensione artistica un compatto riferimen-to spirituale. L’arte fusoria del Diso trova proprio in

questa ricerca della misticitàuna sua precipua importan-za; i Cristi di Diso si caratte-rizzano per la quasi totalemancanza della croce, inte-sa essa come elemento che

dal legno vien tradotto nel nudo metallo; la croce è assen-te, spesso, quasi che l’oggetto soteriologico portato dal Sal-vatore sul Golgota non fosse bastevole, di per se stesso, arappresentarne le sofferenze e l’afflizione.

L’arte di Donato Diso non può evitare di rappresentareed esprimere il sacro in quella che per il fedele – parafra-sando Rudolf Otto – è la sua accezione più oltraggiosa (lamorte del Redentore); nel cuore dell’artista abita un rifles-so d’alterità, una presenza favolosa e inafferrabile, e assaiardua da ridurre a tema, che è rappresentata dall’oscuromistero insito in ogni uomo. Donato Diso è in grado di tra-sporre, attraverso l’energica vitalità del ferro, un “élanvi-tal” che ci parla di un sentimento cosmicamente assoluto,trascendente.Varrà la pena ricordare qui, a livello mera-mente storiografico, che il tema del Crocifisso era presu-mibilmente presente nell’iconografia già nel I secolo d.C.,come dimostrerebbe la presenza dell’impronta di una cro-

ce in una casa degli scavi di Ercolano, ed un’altra, andatadistrutta, su un edificio di Pompei. Soppressa da Teodosioil Grande, la pena della croce, il Concilio di Costantinopo-li, nel 696, ordinò di rappresentare il Cristo nella sua uma-

nità sofferente. Si ebbero da allora due tipologie dirappresentazioni: il Christus triumphans ed il Christus Pa-tiens, il secondo dei quali, ovviamente, è prediletto dal-

l’artista nostro. A tal proposito, ci piacericordare un’immagine, quella di un Gesùche – a differenza delle crocifissioni classi-che, che presentano una scena statica, mo-

noscopica, e dunque non sempre di elevata presa –china il volto in avanti (e dunque non alla sua destra,come accade normalmente; né alla sua sinistra, comein altri casi più rari, e si citerà il famoso Crocifisso cin-quecentesco di Taddeo Curradi): l’uomo ha qui quasiil sopravvento sul dio, in una finale accettazione delsuo destino che si inscrive in un ambito trinitario do-ve la croce è rappresentata simbolicamente da untriangolo isoscele rovesciato.

Va però ribadito che anche in queste sue composi-zioni in ferro è presente, talvolta, il richiamo alla na-

tura e agliantichi mestie-ri, con la pre-senza di aratri(verrebbe da di-re, modificatigeneticamentein nome di unaresa alla mo-dernità) o di te-lai, che voglio-no quasi rap-presentare – an-che qui – latensione versou n ’e s i s t e n z ache è vista co-me un continuointessersi e in-trecciarsi di al-tre vite e altrevoci, in un contrappunto di attivismo che si potrebbe de-finire poderoso come lo stesso metallo, se non fosse perl’immobilismo, e dunque il tramonto, della prospettiva vi-tale che essi pur rappresentano.

A voler dare un’interpretazione conclusiva, si può certa-mente dire che le creazioni artistiche di Donato Diso simuovono (prendendo a prestito una terminologia cara adAby Warburg) all’interno di coordinate cronotopiche econcettuali di largo respiro, dove la memoria del passatoe l’impulso metafisico e religioso si confondono e si conta-minano attraverso una metamorfosi che ha, come stadiofinale, la ricerca dei valori umani. Ed è bene sottolinearloancora una volta: in un’ottica trasversale e contraddittoriacome quella in cui si muove l’arte di oggi – dove l’illusorie-tà e il vacuo narcisismo di tanti pittori e scultori portano arimpiangere tempi più antichi e più autorevoli – ciò haun’importanza senz’altro superiore ad ogni altra. •

Giorgio Pannunzio

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Dati storici e ambientali, curiosità e aned-doti, agenda degli eventi e informazionidi servizio: tutto ciò fa di questa guida

una novità nell’offerta dei servizi al turista per laconoscenza dei luoghi e del territorio. Per la pri-ma volta viene realizzata una sintesi efficace trauna guida tradizionale e un’agenda del turista: lenotizie storiche, architettoniche, monumentali eambientali vengono proposte insieme alle infor-mazioni sugli appuntamenti programmati perl’anno in corso, feste, sagre, premi, concerti, even-ti vari. Non manca, naturalmente, una ricca offer-ta di indicazioni utili su dove mangiare e dormire,dove passare il tempo libero o divertirsi, dove fa-re acquisti… L’altro elemento di novità è che nontratta solo i centri più importanti ma racconta, indettaglio, tutti i 97 Comuni della provincia, of-frendo una visione d’insieme, e complessiva, del-le risorse turistiche in Terra d’Otranto. Laconoscenza dei luoghi è arricchita da racconti,aneddoti, storielle, leggende e usanze locali cherendono più gustosa e piacevole la lettura. Com-pletezza dei dati e sintesi sono i criteri utilizzatinell’elaborazione e organizzazione dei contenu-ti, in modo da rendere più facile e immediata laloro ricerca e consultazione.

FRESCHI DI STAMPA

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TORRE DEI PALITorre dei Pali è una località balneare del comune di Salve. È

situata nel basso Salento, a pochi chilometri da Santa Mariadi Leuca e da Gallipoli.

La torre è una delle numerose opere costiere di avvistamen-to fatte costruire nel XVI secolo da Carlo V per difendere ilterritorio salentino dalle invasioni dei pirati saraceni.

Riguardo alla posizione, essa comunica visivamente conTorre Vado a sud e Torre Mozza a nord. Per alcuni studiosi, lastruttura fu costruita sulla terraferma, a pochi metri dalla bat-tigia; in seguito, grazie alla continua erosione del mare, la tor-re rimase inglobata totalmente nelle acque. Per altri, invece,lo scoglio su cui fu edificata si trovava già in acqua. La torrefu poi collegata alla terraferma mediante uno stretto ponte inmuratura che poggiava su cinque piccole arcate. Il mare circo-stante è profondo appena 50 centimetri. Chi scrive propendeper la seconda ipotesi.

Secondo alcuni storici locali, il 14 maggio 1576, subito dopola costruzione della torre, fu assegnato al caporale Ippolito deIppolitis un falconetto, come armamento. L’Università di Sal-ve, tre giorni dopo, inviò a Lecce il sindaco Angelo Aleman-no per prelevare l’arma, gli accessori e le munizioni. Ilfalconetto, antico pezzo di artiglieria a canna lunga, fu siste-mato in una feritoia di fronte al mare aperto, con possibilità diessere spostato da una feritoia ad altra, a seconda della posi-zione dell’imbarcazione da colpire.

Qualche anno dopo, esattamente il 18 settembre 1581, Anto-nio Alemanno ricevette la somma di oltre 248 ducati d’oro (suun totale di 600) in favore dell’Università di Salve (comune alquale apparteneva la torre), come parziale rimborso per la suacostruzione.

La torre presenta un diametro di circa 10 metri ed è costitui-ta da due parti ben distinte, separate da un cordolo. La parteinferiore, edificata sugli scogli, ha una forma tronco-conica ascarpata ed è costituita da muratura piena. La parte superio-re, invece, ha una forma cilindrica, su cui si trovavano diver-se caditoie (oggi non presenti) poiché la muratura è semidiruta. Sempre nella parte superiore della torre si trovava ununico vano, in cui alloggiavano i militari, i mobili, i pezzi diartiglieria e le munizioni. La struttura era collegata con l’ester-no grazie ad una scaletta di legno che veniva calata dalla ga-ritta sul piccolo pontile. Un’altra scaletta in muratura, largapoco più di mezzo metro, consentiva l’accesso alla terrazza.

Questo sistema difensivo offriva buone garanzie. Nonostan-te la torre godesse di buona posizione, il 4 luglio 1617 alcuneimbarcazioni di pirati sbarcarono senza essere avvistate daimilitari di guardia e fecero razzia di merci, viveri, monete,portando via finanche nove giovani donne. I torrieri e i caval-lai furono accusati e processati per la mancanza assoluta diassistenza e tutela delle popolazioni rivierasche.

La difesa delle varie torri fu migliorata grazie ad un raffor-zamento militare e ad un capillare controllo di avvistamento.Ciò nonostante, nel 1667, fu registrata una nuova incursionepiratesca, ma in questa circostanza le guardie accolsero a col-pi di moschetti e falconetto la ciurmaglia, dissuadendola dal-l’avventurarsi nell’interno e ricacciandola in mare. Si raccontache il Principe Gallone, signore di Salve, apprezzò enorme-mente l’eroico gesto dei torrieri e li ricompensò con un’ade-guata somma di denaro e un indennizzo per la polvere dasparo consumata durante la difesa della torre.

Nei primi anni dell’800, quando ormai il pericolo delle scor-rerie era definitivamente cessato, le autorità comunali salvesi

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VIAGGIO IN TERRA D’OTRANTO

tentarono di ricomporre la torre, consolidandola in piùparti, ma lo sforzo non sortì alcun risultato, se non di ri-mandare di qualche decennio il crollo di buona parte del-la struttura. Da allora sino ai nostri giorni iniziò un lentoed inesorabile declino della torre, che, ahinoi, subì un tre-mendo knockout a seguito di un fulmine negli anni ‘70 delsecolo scorso, che abbatté l’ultima parte del tamburo supe-riore.

Solo in questi ultimi anni sembra che le autorità comu-nali, d’intesa con quelle provinciali, stiano per varare unprogetto per consolidare ciò che di essa rimane, non fossealtro per garantire, durante la stagione estiva, l’incolumi-tà dei numerosi bagnanti, soprattutto bambini, che per cu-riosità tentano di... “scalare” la torre.

LE TORRILE TORRI

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versante ionico, a pochissimi chilometri dal Capo di Leuca.La struttura, alta 12 metri, sorge a pochi metri dalla battigiasu un ampio terrazzamento e prende il nome dalla zona dimare caratterizzata da acque che, per lunghi tratti, sono po-co profonde, molto pescose e ricche di fauna e flora. Il topo-nimo ‘Vado’ è incerto. Alcuni studiosi ritengono che derividal latino “vadum”, cioè “guado”, ossia un facile approdoper le imbarcazioni; ma va anche inteso come un agevole ac-cesso al mare. Altri, invece, sostengono che il termine derividallo spagnolo "ovado", ossia luogo dove i pesci trovano unasituazione ideale per la loro riproduzione e vi depositano leuova per metterle al riparo dai predatori.

La struttura ha la forma tronco-conica con la base circola-re, allo stesso modo di altre torri della zona. Essa è compostada due piani, separati esternamente da un cordolo marcapia-no. L’accesso alla torre è garantito da una porta che immetteal piano terra, leggermente rialzato, costituito da due locali,che un tempo erano adibiti a deposito di vettovaglie e muni-zioni. Attraverso una scaletta interna in muratura, si pervie-ne al secondo piano, dove dimoravano i torrieri. Grazie adun’ulteriore scaletta si accede in terrazza, orlata a tutto ton-do da una merlatura molto semplice e da numerosi beccatel-li. In direzione dei punti cardinali sono presenti quattrocaditoie. Sulla terrazza, in direzione del mare, era situato ilfalconetto, pronto ad essere usato contro le incursioni barba-resche. La struttura portante della torre è in muratura, costi-tuita da conci di pietra tufacea e càrparo.

Al di sopra della volta, è stata posizionata una piccola tor-retta di avvistamento.

Il 5 luglio del 1671, nel Libro dei Morti della parrocchia diMorciano, si registra un omicidio di un giovane del posto, daparte di un manipolo di Turchi che si erano spinti nell’entro-terra morcianese, presso la Masseria del sig. Duca alli Padu-li. Lo stesso giorno i Turchi catturarono come schiavi altriabitanti della suddetta masseria, tra cui alcuni bambini.

La torre Vado fu testimone di un altro triste episodio, rife-rito da Aldo Simone, verificatosi nel 1752: “… si videro nelnostro mare sei sciabecchi di Turchi ed Algerini, dei qualiuno calò una lancia con dentro molti Turchi, e diè la cacciaa tre barche pescarecce di Salve, che pescavano vicino allatorre di Morciano. Due di esse si avvidero dei legni nemicie subito si salvarono sopra la predetta torre, ma una, che eradel sig. Nicola Stasi, si fidò di pescare, ma avendo alla fineveduto presso i Turchi cominciò a fuggire e alla fine vedutoche era inevitabile lo scampo si diè a terra vicino la torre diMorciano, ove li quattro marinai che vi erano si salvarono.Li Turchi intanto predarono la barca del detto Nicola Stasicon certo pesce, vino e vesti marinaresche. La torre tirò con-tro di loro alcune cannonate e molto bene ed il cavallaro diMorciano una schioppettata, alla quale i Turchi risposero ecalati a terra lo inseguirono, ma poi subito tornarono, con lapredata barca al bastimento”.

Per la sua vicinanza al centro abitato di Salve la strutturaera stata adibita a torre ‘cavallara’, cioè era dotata di un mes-saggero a cavallo che, in caso di pericolo, lanciava l’allarmenei paesi dell’entroterra e consentiva alle donne e ai fanciul-li di mettersi in salvo, mentre agli uomini di prepararsi alladifesa.

Con il disarmo delle torri costiere, avvenuto intorno al 1846su disposizione di Ferdinando II Re delle Due Sicilie, la tor-re è stata adibita a stazione di controllo doganale. Nel 1930 èacquistata da privati e nel 1935 è eseguito il restauro.

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di Mauro De Sica

COSTIERE

TORRE VADOFerma il pie', passegger, non dar più passo, chè qui

trovi commode rimesse: Don Annibal Capece il qual cieresse, ci destinò pel forestier, lo spasso. Aprile 1709

E’ questo il saluto con cui un tempo gli abitanti del luo-go accoglievano il forestiero, diretto in pellegrinaggio alSantuario di S. Maria di Leuca, per indurlo a fermarsi egodere dei cibi sopraffini e dell’estrema ospitalità.

La torre insiste nella splendida marina di Torre Vado,oggi amena e rinomata località balneare, situata nel basso

COSTIERE

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32 Il filo di Aracne marzo/aprile 2014

SU E GIÙ PER IL SALENTO

Una splendida domenica di dicembre, quella che trapoco andrò a raccontare. Una mattinata trascorsapiacevolmente in compagnia dell’amico Michele

Bonfrate che ci ha introdotto alle tante bellezze che rendo-no unico il paesaggio della Valle dell’Idro.

E solo di un’introduzione effettivamente si è trattato, da-to che l’area che abbiamo attraversato con una suggestivapasseggiata racchiude numerosissimi punti di interesse sto-rico e naturalistico, che solo in minima parte abbiamo po-tuto toccare.

Qui trovano dimora le memorie di un tempo lontano.Cavità scavate nella roccia e antichi ripari. Sentieri che sisnodano lungo l’Idro, accarezzando canneti, con il lievesuono dell’acqua che scorre a fare da sottofondo.

Si potrebbe forse dire che Otranto ebbe origine dalle ac-que dell’Idro.

A tal proposito il Galateo, nei primi del ‘500, nel suo “Li-ber de situ Iapygiae” scrisse:

“Tolomeo chiama quella località [Otranto] Idra, credo dal no-me del fiume Idro, che, diversamente da quanto si sostiene co-munemente, ritengo abbia fornito alla città anche l’insegna il cuicorpo è costituito appunto da un serpente d’acqua, l’idra… Neipressi della città vi sono molte sorgenti e fonti di acque salutari,che scorrono tra boschetti di lauro e di limoni. I pozzi sono ingran numero e così poco profondi, che si può attingere l’acqua di-rettamente con le mani, cosa rara in questa regione: sembra unterritorio sottratto al Peloponneso o alla valle di Tempe [valledella Tessaglia] e trapiantato in Italia”.

Per certi versi l’immagine che il Galateo ci restituisce del-la zona è molto simile a quella che oggi è possibile ammi-rare, pur non essendoci più gli alberi di limoni che lostorico menziona e gli stessi boschetti ormai di molto ri-dotti (non sono un esperto, per cui non so se e quanto illauro sia rimasto nella zona). Camminando lungo i picco-li argini del fiume, ci si addentra in una zona verde piace-vole alla vista. L’azione condotta nel tempo dai contadini

Lungo la Valle dell’Idrodi Massimo Negro

Otranto (LE) - Monte Sant’Angelo Otranto (LE) - Grotte

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ha modificato sostanzialmente i suoi tratti, ma l’area ti re-stituisce comunque una sensazione di tranquillità e di sa-lubrità.

Ben diverso è quanto ci racconta Cosimo De Giorgi ver-so la fine dell’800, nei suoi Bozzetti di Viaggio:

“Io l’ho traversata nel luglio del 1879, in compagnia del Cav.Dottor Vincenzo Licci… Il fatto che più mi colpì fu l’aspetto del-la vegetazione in rapporto a quello delle famiglie coloniche che ividimoravano. La flora spontanea e quella coltivata erano oltreogni credere lussureggianti per la fertilità immensa del terreno;i prodotti agrari ad esuberanza remuneratori. … ma l’aria che ivisi respira è umida e grave ed in molti punti pestifera; nelle pri-me ore del giorno e nelle notti estive è micidiale. I contadini so-no anemici, bolsi, infingardi, in preda alle febbri periodiche; e iloro figli nascono deboli, scrofolosi e incapaci a combattere le bat-taglie della vita”.

Prima dell’avvio delle bonifiche l’area, pur essendo ca-ratterizzata da una vegetazione lussureggiante, ci vienedescritta come non piacevole da viverci e fonte di malattie,tra cui la malaria.

Tornando a quella mattinata di dicembre, la meta dellanostra passeggiata era la cripta denominata Sant’Angelo,che dà il nome al monte nella cui roccia è stata scavata.Lungo il sentiero che s’inerpica dolcemente verso la som-mità della piccola altura iniziano a comparire le primegrotte.

All’interno, in una di queste, una selva di croci incise nel-la roccia. Difficile dire a cosa potessero servire, conside-rando che la cavità non presenta le caratteristiche di unluogo di culto.

Nel descrivere la cripta, riprendo le parole del DeGiorgi che ritorna, dopo il 1879 nella zona, e precisa-

Otranto (LE) - Antichi insediamenti Otranto (LE) - Antichi insediamenti

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mente nel 1884.“Ho detto che l’Idro trae le sue origini dal Monte Sant’Angelo. Questo è così denominato da un’antica cappella bizantina se-

midiruta che ho visitato nel settembre del 1884.E’ tutta scavata nei sabbioni tufacei e si denomina Grotta San-

t’Angelo dall’effigie dell’arcangelo San Michele dipinta a fresconell’atrio rettangolare della stessa. Sotto vi si legge in greco unadelle solite iscrizioni votive: ricordati, o Signore, del servo tuoBasilio, del suo padre e della sua madre, amen. La volta di que-

sto atrio è in parte crollata; l’interno è per metà interrato e con-vertito in deposito di canapa ed in ovile da pecore.

Bisogna penetrarvi carponi e vi si sta molto a disagio. I dipin-ti nelle tre absidi sono tagliati quasi per metà dall’interramentoavvenuto. Le pitture si trovano in due strati sovrapposti e paio-no del XII secolo, simili a quelle di altre cripte di Terra d’Otran-to. Le uniche conservate sono nel vestibolo, cioè San Michele,San Timoteo ed un altro santo vescovo poco riconoscibile. Le al-tre sono cadute con l’intonaco.”

Negli anni ’70 del secolo scorso, ne “Gli insediamenti ru-pestri medioevali nel Basso Salento” a cura del Fonseca, lazona è descritta in buona parte con gli stessi termini. Nelfrattempo lo stato di conservazione degli affreschi è indub-biamente peggiorato.

“Una corretta letturadella struttura è oggi dif-ficile in quanto gran par-te dell’ambiente è crol-lato; rimane tuttavia fa-cilmente visibile la nettadivisione tra Naos e Be-ma, data da un’iconosta-si litoide a tre fornici. IlNaos, che ha subito mag-giori danni, è oggi com-posto da un atrio in granparte scoperto e, probabil-mente, doveva essere a trenavate; il Bema è conclu-so da tre absidi, orientatea sud-est, divise tra di lo-ro da setti litoidi, ma co-municanti attraversopiccole porte; l’abside adestra presenta un’apertura, senz’altro posteriore, comunicantecon una grotticella affiancata. Il pavimento originale è del tuttoscomparso e vi è moltissima terra di riporto…”

Riguardo l’affresco dell’Arcangelo si legge: “L’Arcangeloregge nella destra una lancia e nella sinistra un sigillum della cuidecorazione si intravedono ancora delle linee ondulate; la croce chedoveva sovrastarle è quasi del tutto scomparsa”.

Il Fonseca, a differenza del De Giorgi, non identifica SanTimoteo ma scrive di un anonimo santo vescovo.

Oggi purtroppo lo stato degli affreschi è ancor più pre-cario e molte cose che erano state identificate nel passatosono divenute illeggibili. La terra di riporto è stata elimi-

nata con il recupero dell’area, ma è molto probabile che ilterreno serbi ancora molte sorprese.

L’antica volta è stata ricreata con una copertura in legnoe ci fa immaginare come doveva presentarsi il sito nel pas-sato.

All’interno, nell’abside centrale si notano delle lievi trac-ce di affresco. Forse una “Deesis”, considerando che è pos-sibile intravedere un corpo centrale e due laterali che conil capo sembrano convergere verso quello posto al centro.Ma lo stato è drammaticamente precario.

Qualche traccia anche nella terza cavità a destra, dove sitrova quel che sembra essere un San Francesco.

A sinistra si apre una cavità del tutto simile a quella adestra.

Mentre, tornandonella cavità a destra, èpossibile rilevare unasorta di cunicolo checonduceva verso un li-vello superiore visibi-le dall’esterno. Il cuni-colo è ancora per buo-na parte occupato daterra di riporto.

La zona circostante èancora poco indagatae alcuni “disegni” e“curvature” della roc-cia lasciano intuire lapresenza di possibilicavità adiacenti lagrotta principale.

L’intera area è moltobella, ma andrebbe va-

lorizzata con maggior efficacia. C’è ancora molto da fare.Buona passeggiata! •

Otranto (LE) - Reperti Otranto (LE) - Grotte

Massimo Negro

Otranto (LE) - Resti di antichi affreschi

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Il bambino trovatello, o semplicemente esposto, era persua sventura un bambino ‘non gradito’, nato dalla rela-zione di due amanti al di fuori del matrimonio.

La gravidanza era quanto più possibile nascosta dallafutura madre per non essere umiliata e, a volte, picchiatadai familiari e, peggio ancora, per non essere ‘svergogna-ta’ dai paesani. Per tale motivo la donna, che incautamen-te era rimasta in cinta, ricorreva adogni mezzo per apparire agli occhi ditutti una donna ‘normale’. Soprattuttonegli ultimi mesi, quando la gravidan-za era molto evidente, la futura madretrovava mille scuse per non apparire inpubblico.

La donna preferiva rimanere in casa,appartandosi in una stanzetta per ulti-mare un lavoro di ricamo oppure fa-cendo credere di non sentirsi bene,piuttosto che recarsi in chiesa ad assi-stere alla santa Messa domenicale opartecipare alla passeggiata pomeri-diana per le vie cittadine e correre il ri-schio di essere ‘scoperta’.

Altre donne, invece, fasciavano conmolta aderenza l’addome per dimi-nuirne il volume e, nel contempo, in-dossavano abiti alquanto larghi evaporosi. A volte la donna arrivava al-la fine della gravidanza senza esserestata scoperta e, dopo aver partorito in un luogo sicuro,magari aiutata da un’amica confidente, avvolgeva in un fa-gotto la piccola creatura e l’affidava alla “ruota degli espo-sti” nel più vicino convento di suore. In quei frangenti ladonna avvertiva emozioni diametralmente opposte: da unlato si disfaceva definitivamente della prova ‘evidente’ delpeccato, dall’altro consegnava alla bontà delle suore quelcorpicino tenuto in grembo per tanti mesi e che aveva pro-tetto gelosamente.

In alcuni casi, il neonato era affidato al padre naturale,che poi lo deponeva nella ruota. Si ricorreva a questo espe-diente per due motivi ben precisi. Innanzitutto per noncreare alla madre un forte dolore nel momento del distac-co; in secondo luogo, per non esporla ad eventuali rischi diessere riconosciuta.

L'abbandono dei neonati è comunque un fenomeno chesi perde nella notte dei tempi.

Anticamente abbandonare i figli indesiderati era un vez-zo molto comune presso tutte le popolazioni. Gli Ebrei, adesempio, consideravano legale l’abbandono o la vendita difigli illegittimi, ma ne vietavano l’uccisione, mentre i Gre-ci consentivano l’uccisione ed anche l’abbandono. Nell’An-

tica Roma l’abbandono dei neonati siattestava intorno al 30%, mentre nellaGrecia antica la percentuale scendevaal 10%. Ergo, le romane erano donne acui piaceva molto l’arte fedifraga inamore.

A quell’epoca il trovatello era affida-to ad una balia, che, dopo averlo cre-sciuto ed iniziato al lavoro, lo vendevaad un mercante di schiavi.

Nel Medioevo tale fenomeno dimi-nuì di colpo per effetto delle rigide re-gole morali imposte dalla religionecristiana, ma riprese vigore a partiredal 1600.

Nell'Ottocento si ebbe il culmine deineonati abbandonati ed affidati allaruota degli esposti. Pare che, in modoparticolare in Piemonte e Lombardia, ilfenomeno raggiungesse proporzioniconsistenti. Addirittura, a Milano unneonato su tre era depositato nella ruo-

ta degli esposti. Proprio perché l’andazzo era molto diffuso in tutt’Italia,

fu deciso di dotare ogni paese di un luogo sicuro dove ab-bandonare i neonati ‘indesiderati’. Fu legalizzata la ruotadegli esposti, che era collocata nelle vicinanze di una chie-sa o di un convento. Il corpicino del neonato veniva ap-poggiato su un piano in legno che era fatto ruotare per180%, in modo che entrasse nell’interno della chiesa o delconvento. Durante la rotazione, un congegno metteva inmovimento una campanella, al cui suono le suore si preci-pitavano a prelevare il trovatello.

La ruota era considerata, specialmente dalle famiglie po-vere, come un dono assistenziale di Dio.

Ora esaminiamo in che modo le suore accoglievano ecrescevano gli esposti.

C’ERA UNA VOLTA...

Firenze - Ospedale degl’InnocentiLa ruota degli esposti

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Ovviamente le religiose non potevano allattare i neo-nati che, pertanto, erano affidati ad una donna, la qualeprovvedeva a nutrirli e a svezzarli dietro un miserocompenso, a volte consistente in in-dulgenze e modestissimi sussidi.

Nel Salento, la nutrice erachiamata la “rutara”. All’età dicinque-sei anni, i fanciulli eranotrasferiti in brefotrofi, dove le con-dizioni igienico-sanitarie nonerano buone, anzi, proprio inquesti luoghi si verificavaun’alta mortalità di bambi-ni. Da adolescenti, infine,erano affidati a famiglie dicontadini, operai o artigiani,che, avendo bisogno di manodope-ra, ne facevano espressa richiesta.

I cognomi generalmente assegna-ti agli esposti erano diversi, ma tut-ti con la particolare connotazione di“buon auspicio”.

Nell’Italia settentrionale i cognomi più diffusi erano:Fortunati, Sereni, Clementi, Diotaiuti, Diotallevi ecc.

Nell’Italia centrale: Innocenti, Degl’Innocenti, Benve-nuti, Proietti, ecc.

Quest’ultimo cognome deriva chiaramente dal verbolatino “proicio”, il cui participio passato “proiectum” si-gnifica mandato fuori, espulso.

Nell’Italia meridionale, Esposito, Onorati, Servodio,Deodato, ecc.

Nei primi anni del ‘900, il fenomeno era ancora ricor-rente nel Salento, tanto che l’amministrazione comuna-le delle varie città provvedeva ad erogare dei contributialle rutare per la singolare ed importante attività socialesvolta. Anche se tra queste “sante donne” e le ammini-strazioni comunali non c’era un vero rapporto di pub-blico impiego o di subordinazione, il Sindaco era tenutomoralmente ad elargire un contributo. A volte la rutara ri-ceveva, oltre ai sussidi comunali, anche dei consistentidonativi di ignota origine, elargiti, evidentemente, daparte della genitrice che, pentitasi di aver abbandonatoil proprio figlio, le faceva un dono.

Ci chiediamo perché avvenissero episodi del genere.Secondo alcuni studiosi tutto dipendeva dallo statod’animo della donna che, per non essere segnata dallasocietà come donna di facili costumi e rifiutata dalla fa-miglia per il gesto disonorevole, si lasciava andare al-

l’estremo atto dell’abbandono. Oltretutto nei casiin cui il figlio fosse mantenuto nell’ambito fa-

miliare nei suoi confronti erano conia-ti degli epiteti infamanti che lo

accompagnavano per tutta la vita. Iltrovatello era registrato negli attipubblici comunali con la dicitura

“figlio di padre ignoto” o anche “fi-glio di N. N.” (Nomen Nescio,

cioè “non conosco il nome”), edi conseguenza, a volerci

esprimere con termini roma-neschi, era deriso come “figlio

de ‘na mignotta”. Il termine Mi-gnotta, a sua volta, deriva dall’unione

di due altre parole: Mater e Ignota. Poi la “M”fu appuntata ed aggiunta ad “ignota”. E così

venne fuori “M.ignota” e poi “Mignotta”.Fu proprio per questo motivo che un tempo le madri

preferivano abbandonare il figliolo alla ruota degli espo-sti o, addirittura, ammazzarli perché non se ne parlassepiù di loro e perché non fossero scherniti per un’interavita.

Non ci resta che domandarci, alla maniera di Trilus-sa, se tale madre avesse avuto qualche volta un pizzi-co di rimorso.

“E io – disse la tigre – ciò er coreChe lui (l’uomo) me paragoni e me confonna

Er core mio cor core de la donnaCh’ammazza er fijo pe’ sarvà l’onore!

So’ una tigre, è verissimo, ma ioNu n’assassino mica er sangue mio”.

Oggi, purtroppo, nonostante le migliorate condizionieconomiche e le mutate regole di vita, il fenomeno del-l’abbandono non è scomparso del tutto. •

Emilio Rubino

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Solo dopo un accurato controllo igienico delle mani,ci si poteva finalmente riunire per il pranzo, mentrei più piccoli, impazienti e nervosi, nnu ssi dàvano can-

sa, passando e ripassando attorno al tavolo. La fame era più grande di loro, ma anche l’artètica e li di-

spietti, ripetitivi e sfiancanti comu ‘na litania.Era ‘nu vurrisciare continuo e per questo qualche castima,

dalla attigua ramesa, di tanto in tanto, prendeva il volo. Il padre di Chicco si faceva sentire.Si aspettava che la mamma,

che sfaccendava per prepara-re il pranzo fra il camino el’ampio stipo a muro, portassea tavola le pietanze.

Più che un tavolo, si trattavadi una antica, nuda cassapan-ca di legno di noce (la matthra)per tre quarti ‘ncraulisciata daautentici tarli doc.

Era posizionata al centrodella stanza della cucina, disa-dorna, appena coperta, peruna parte della sua lunghezza,con una sottile tovaglia di pla-stica, facilmente recuperabilee lavabile.

Su di essa erano sistemate in posizione strategica le for-chette e i cucchiai in alluminio, i coltelli col manico di pla-stica, i bicchieri, una bottiglia di vino e una d’acquafrizzante con tappo ermetico, chiuso a pressione con ungancio metallico su una guarnizione di gomma rosso-mat-tone.

Ma non sempre quella stanza (si chiamava sala da pran-zo solo per le grandi occasioni) era così approssimativa espoglia.

Qualche volta, di domenica, o durante le grandi solenni,ma rarissime, ricorrenze festive infrasettimanali ( comple-anni, battesimi, onomastici ) compariva a tavola una tova-glia di stoffa, quella di cotone, quasi pregiato.

Era la tuvaja nova (usata ad ogni morte de papa), elegante,maestosa, solenne come ‘na messa cantata.

La tovaglia, con gli angoli ricamati a punto giorno, incor-niciata da piccoli rombi azzurri intervallati da birichinemargheritine giallo-oro e delimitata da una frangetta bas-

sa e sottile sfumata in un azzurro chiaro, da sola parava tut-ta la stanza.

Faceva parte della dote matrimoniale della madre diChicco, insieme a quattro misere cose (ma preziose, noncertamente per il loro valore commerciale) fra lenzuola, fe-dere per cuscini, coperte, camicie da notte, calze in cotoneed altri piccoli e modesti indumenti personali.

Costituiva la ricchezza che ogni ragazza da marito porta-va con sè, quando andava a formarsi una propria famiglia.

Il rituale della preparazionedelle nozze, allora, era com-plesso, di sicuro suggestivo, ecaratterizzava forse l’aspettopiù interessante della civiltàcontadina, ma anche di quellaborghese, o psèudo tale.

I corteggiamenti comincia-vano nei modi e nei luoghi piùdisparati.

Le occasioni più propizieerano fornite dalle feste patro-nali, o quelle rionali (la festa deCristu Risortu sotta ‘ll’Anime, ola Madonna della Luce, o SantuLazzaru, o la Madonna de la

Crutta).O dai film nel Cinema Tartaro o nel Teatro Lillo, o dalle

feste da ballo nelle case private, dove si accedeva per invi-to attraverso parenti o amici degli amici, quando, aspet-tando la chiamata delle mitiche quadriglie, si sperava,attraverso l’ordine di “changer la femme”, di stringere fra lebraccia la carusa cchhiu beddhra.

C’erano anche i festini organizzati, a pagamento, nei ga-rage o negli scantinati.

Ma i lavori di campagna (la vindegna, lu tabbaccu, le vulie,la mmetitura e la trebbiatura), che duravano giorni e setti-mane, erano i momenti più belli, perché si aveva l’oppor-tunità di familiarizzare e quindi di conoscersi piùfacilmente e più a fondo.

Questi erano gli approcci più caserecci, quelli più pro-priamente proletari.

Poi c’erano quelli borghesi, quasi d’élite: i girotondi allaFuntana, fatti di domenica mattina, dopo la Messa. Brevi eveloci.

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SUL FILO DELLA MEMORIA

La dote per le vie del paese

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I fratelli Lagna, fotografi ambulanti all’inizio della lorocarriera, scattavano fotografie alla sprovvista e a conthrab-bandu, fra il Monumento ai Caduti e la Sirena con conchi-glia, che l’Armandu ‘Ntunaci aveva fatto costruire alle spalledel Bar delle Rose.

Ma, ciò nonostante, si compravano ugualmente per ri-cordo e soprattutto per narcisismo.

La domenica a pomeriggio, invece, i giri erano più fre-quenti e interminabili, quasi delle maratone.

Dopo un giro completo si faceva capolinea al Bar delleRose, mentre un’orchestrina allietava la serata vicino allaSirena.

Qui si invertiva il senso di marcia per incrociare altre ca-ruse e, quindi, avere piùpossibilità di scelta.

Non mancava il cono digelato, tanto per darsi uncontegno, o una sigarettaaccesa fra le dita, ma nonaspirata. Si esibiva solo pe’ficura.

Ad ogni incontro, unosguardo furtivo, sottecchi,quasi indifferente.

A sera tardi, al rientro acasa, non mancava a volteil pedinamento a discreta di-stanza, per scoprire l’indirizzo della ragazza ‘nducchiata.

Dopo i primi approcci e con la sicurezza che la simpatiaera corrisposta, lu ‘nnamuratu mandava la ’mbasciata a ca-sa de la zzita per far sapere che aveva intenzioni serie.

La futura suocera, di rimando (se era d’accordo) gli face-va sapere “ca la seggia era libera”, o “occupata” (mentendo),se lu partitu nu lli ‘ndurgiava.

Dopo una serie di frequentazioni a casa della carusa, tut-te rigorosamente presidiate dalla madre o dalla sorella mag-giore, veniva sottoscritta la carta de la zzita, cioè l’impegno(che a volte dissanguava le famiglie per i debiti) a costitui-re la dote con un minimo di capi di biancheria (“Iu li daupanni de dece. E ttie?”, domandava la suocera, rivolta allasua rispettiva).

Qualche giorno prima del matrimonio, si svolgeva la so-lenne cerimonia della trasitura.

La madre della sposa esponeva in casa, con cura e conmolta attenzione nei particolari, tutta la dote promessa al-la figlia.

Il letto matrimoniale, le sedie, la cascia, le maniglie delleporte e delle finestre, gli attaccapanni costituivano il palco-scenico improvvisato per appendere e mettere in bella mo-stra tutti i capi di biancheria.

La futura consuocera, con le vicine di casa che curiosavanoe, a volte, tajàvanu, esaminava con attenzione, annuendo ostorcendo il naso a seconda del gradimento, ma soprattut-to controllando quantità e qualità dei capi promessi.

Non erano rari i fidanzamenti scijati, durante questo ri-tuale!

Da qui nasceva la fusciuta (consensualmente i fidanza-ti si allontanavano dalle proprie case, simulando un sim-bolico rapimento della sposa e andando a convivere dasoli, a volte ospiti di qualche parente consenziente e piùcomprensivo).

Il matrimonio riparatore, dopo il misfatto, (spesso celebra-to con l’abito bianco, perché non necessariamente il fattoera stato consumato; per questo garantiva la zia o la sorellamaggiore sposata che li aveva ospitati) riportava le relazio-ne delle famiglie nella normalità.

Addhre càpure e addhri tiempi!Quella tovaglia era il pezzo più pregiato e per questo ve-

niva conservata come una reliquia nel cassetto, a piano ter-ra, del comò.

Ripiegata con amorevole cura in una busta di plasticatrasparente, era custodita nella sua originale scatola ret-tangolare di cartone, sulla quale campeggiava ben impres-so un noto marchio di fabbrica.

Delle bucce d’aranciamischiate a chiodi di garo-fano, ristrette in due di-stinte pezzuole di stoffa,legate a ciuffetto con un fi-lo di cotone bianco la pro-teggevano con profumatavenerazione, costringendole tarme a stare alla larga.Nun cc’eranu santi!

La tovaglia vedeva la lu-ce rarissime volte, o quasimai, e comunque mai sen-za un motivo preciso.

In presenza di invitati o di ospiti di riguardo, sempre.Veniva prelevata dal cassetto e dispiegata sulle spalliere

di due sedie sotto l’albero di noce qualche ora prima dellacerimonia.

Così pijava aria, mentre l’odore di chiuso, che poteva fararricciare il naso, lentamente si attenuava.

Copriva il tavolo in tutta la sua lunghezza e in tutto ilsuo splendore floreale, mentre i bordi delimitati dalla fran-getta svelta, leggera e sbarazzina pendevano a circa mez-zo metro dal pavimento e ondeggiavano lievemente adogni passaggio del gatto di casa.

Con un paio di andirivieni fra le gambe del tavolo, conla coda ritta e sollevata in alto come un piumino, strofina-va la schiena appositamente arcuata, massaggiandosela.

A brevi intervalli, emetteva impercettibili miagolii di pia-cere.

La madre di Chicco, tutta ‘ndaffarata e concitata per i pre-parativi, non si accorgeva delle manovre del gatto, sicura-mente pericolose per gli angoli ricamati, che potevanorimanere danneggiati dagli artigli.

Diversamente, l’ia già fiondulisciatu ‘nu zocculu, senza leg-gere e scrivere. Era certo.

“Tocca mmentu la tuvaja nova, se no te malànganu”, sussur-rava sua madre, fra il semiserio e il faceto.

Ma non era vero.Delle sue cose (compresa la dote) era molto gelosa.Lo faceva più per togliere alle cummari il gusto e l’occa-

sione del pettegolezzo, che per intima e poco convintaostentazione.

Conosceva bene la lingua, la capu e le forbici delle sue vi-cine.

E vi poneva rimedio. •

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La tuvaja

pippi onesimo

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