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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale: i toponimi di antiche carte regionali come caso dimostrativo * VINCENZO AVERSANO - SILVIA SINISCALCHI ** 1. Oggetto e scopi della ricerca L’importanza dei nomi di luogo negli studi geografici, dopo un pe- riodo di deleteria obliterazione, sembra essere finalmente riacquisita: chiun- que voglia comprendere seriamente le strutture profonde e stratificate del territorio sa ormai che della lettura toponimica non può fare a meno. Di tale riguadagnato riconoscimento sono tra l’altro prova le ricerche, anche dialettologiche, degli ultimi decenni ( Arena, 1979; De Vecchis, 1978; Vecchio, 1983; Melelli e Sacchi De Angelis, 1982; Cassi-Marcaccini, 1998; Aversano, 1982, 2006c, 2006d, 2007f), l’allestimento in atto di un numero di Geotema (nota rivista ufficiale dell’AGeI) sull’argomento e la recente pub- blicazione – a cura di chi scrive – dei corposi Atti di un Convegno Interna- zionale su toponimi e antroponimi, tenutosi all’Università di Salerno nel 2002, al quale parteciparono geografi italiani ed esteri, ma anche specialisti delle più diverse discipline (Aversano, 2008). Tuttavia, nella molteplicità degli approcci e degli attingimenti fontuali (documenti d’archivio, antichi catasti descrittivi, cartulari notarili, pubblica- zioni statistiche, opere letterarie, ecc.), proprio le fonti per eccellenza, cioè * Laboratorio CAR.TOPON.ST. (Cartografia e Toponomastica Storica), del DITESI (Dip. Teoria e Storia Istituzioni), presso l’Università degli Studi di Salerno. ** Questo contributo è il primo frutto a stampa di una ricerca sul paesaggio desunto dalla cartografia, effettuata per l’Univ. di Salerno – nell’ambito dell’ U.O. Univ. di Bologna, PRIN-CARPA, diretta dalla Prof. L. Federzoni – dal Prof. Vincenzo Aversano, cui si deb- bono i par. da 1 a 6. Il par. 7 è da attribuire a S. Siniscalchi, che ha altresì rilevato l’intera massa di toponimi da tutte le carte esaminate. Le tre tabelle inserite nel testo costituiscono solo minima parte di quelle ricavate dall’elaborazione dei dati contenuti in un tabellone ge- nerale (riportante la comparazione tra i toponimi): data la sua corposità, non è stato qui riportato (lo sarà, con le derivazioni, in altra sede più consona), ma di alcune sue informa- zioni di base e derivate si è già tenuto conto nello svolgimento della presente ricerca.

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Una fonte trascurata per la ricostruzione del paesaggio e dell’identità territoriale: i toponimi di antiche

carte regionali come caso dimostrativo *

VINCENZO AVERSANO - SILVIA SINISCALCHI** 1. Oggetto e scopi della ricerca

L’importanza dei nomi di luogo negli studi geografici, dopo un pe-riodo di deleteria obliterazione, sembra essere finalmente riacquisita: chiun-que voglia comprendere seriamente le strutture profonde e stratificate del territorio sa ormai che della lettura toponimica non può fare a meno.

Di tale riguadagnato riconoscimento sono tra l’altro prova le ricerche, anche dialettologiche, degli ultimi decenni (Arena, 1979; De Vecchis, 1978; Vecchio, 1983; Melelli e Sacchi De Angelis, 1982; Cassi-Marcaccini, 1998; Aversano, 1982, 2006c, 2006d, 2007f), l’allestimento in atto di un numero di Geotema (nota rivista ufficiale dell’AGeI) sull’argomento e la recente pub-blicazione – a cura di chi scrive – dei corposi Atti di un Convegno Interna-zionale su toponimi e antroponimi, tenutosi all’Università di Salerno nel 2002, al quale parteciparono geografi italiani ed esteri, ma anche specialisti delle più diverse discipline (Aversano, 2008).

Tuttavia, nella molteplicità degli approcci e degli attingimenti fontuali (documenti d’archivio, antichi catasti descrittivi, cartulari notarili, pubblica-zioni statistiche, opere letterarie, ecc.), proprio le fonti per eccellenza, cioè

* Laboratorio CAR.TOPON.ST. (Cartografia e Toponomastica Storica), del DITESI (Dip. Teoria e Storia Istituzioni), presso l’Università degli Studi di Salerno. **

Questo contributo è il primo frutto a stampa di una ricerca sul paesaggio desunto dalla cartografia, effettuata per l’Univ. di Salerno – nell’ambito dell’ U.O. Univ. di Bologna, PRIN-CARPA, diretta dalla Prof. L. Federzoni – dal Prof. Vincenzo Aversano, cui si deb-bono i par. da 1 a 6. Il par. 7 è da attribuire a S. Siniscalchi, che ha altresì rilevato l’intera massa di toponimi da tutte le carte esaminate. Le tre tabelle inserite nel testo costituiscono solo minima parte di quelle ricavate dall’elaborazione dei dati contenuti in un tabellone ge-nerale (riportante la comparazione tra i toponimi): data la sua corposità, non è stato qui riportato (lo sarà, con le derivazioni, in altra sede più consona), ma di alcune sue informa-zioni di base e derivate si è già tenuto conto nello svolgimento della presente ricerca.

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le carte geo-topografiche, sembrano ancora non soddisfacentemente utiliz-zate e studiate in chiave toponimica, con qualche “tangenziale” eccezione (Vecchio, 1983; le varie edizioni del noto Atlante dei tipi geografici), nonostan-te esse riportino nella loro ubicazione i nomi dei luoghi o di aree più vaste, abbiano cioè l’indiscusso vantaggio di far cogliere il rapporto tra la designa-zione linguistica e i caratteri dello spazio cui si riferiscono1.

Più precisamente, a modesto avviso di chi scrive, la lettura delle carte geografiche a qualsiasi scala, a stampa o manoscritte, antiche e moderne, prescinde spesso dall’analisi attenta del corredo toponimico, limitandosi a considerarlo quasi di sfuggita, come di aspetto poco significativo e/o acces-sorio nel complesso della rappresentazione, che viene valutata privilegiata-mente nella valenza grafica, astronomica o formale-decorativa. Tale atteg-giamento finisce per far torto sia ai toponimi, sia alle carte, impedendo una più completa e doverosa comprensione delle stesse, anche nei casi degli ap-procci metodologicamente più raffinati e aggiornati. Parziali eccezioni ce ne sono, ma riguardano in genere lo studio di carte nautiche, che non può pre-scindere quanto meno dall’elencazione dei nomi costieri riferiti ai porti (al-tra cosa sarebbe una loro considerazione sotto il profilo geo-toponoma-stico). In altri termini, mi sembra che, nell’interpretazione e nell’utilizzo an-che pratico di una carta, non si sia dato sufficiente rilievo ai nomi di luogo, nel senso di farne un monitoraggio complessivo e valutarne la rete nei suoi gangli più vitali e nei singoli componenti o, almeno, in quelli che appaiono più rilevanti geo-linguisticamente parlando.

Col presente contributo si tenterà di ribaltare l’esclusiva ottica or ora lamentata, partendo dalla rilevazione a tappeto dei diversi toponimi presenti in alcune carte storiche a stampa, raffiguranti il Principato Citra (futura provincia di Salerno), opportunamente selezionate per epoca e caratteri2, 1 Senza l’ubicazione del nome locale, che solo la cartografia consente, è quasi impossibile applicare il metodo di una ricerca geografico-toponimica, altrove da me così compendiato: «occorre studiare il toponimo non in sé, ma in quanto significante un oggetto o un feno-meno territoriale naturale e/o antropico, in quanto ubicato in un sito e non in un altro (donde il rapporto tra il nome e il fatto da esso espresso); in quanto infine coesistente con altri toponimi in una distribuzione spaziale che, se oggi appare sincrona, va riguardata co-me risultato di stratificazioni storiche da accertare» (Aversano, 2006c, pp. 144-145). 2 Si tratta, infatti, di 5 carte: la prima, firmata dal Magini, fa parte della più perfetta imma-gine dell’Italia di primo ‘600 e rappresenta il prototipo delle carte pregeodetiche europee apparse fino all’avanzato ‘700; la seconda e la terza, che risalgono, rispettivamente, quasi alla metà dello stesso secolo e all’inizio del sec. XVIII, sono prodotti di due storiche fami-glie di cartografi-editori, quella olandese dei Bleau e quella romana dei De Rossi; seguono una carta di fine ‘700, del Von Reilly, a carattere più divulgativo, e una amministrativa stila-ta nel 1830 dal Marzolla. Il titolo esatto e le peculiarità di queste rappresentazioni (ripro-dotte nelle figg. da 1 a 5) saranno di volta in volta illustrati.

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indi combinando l’interpretazione dei nomi con gli altri aspetti della carta (disegno delle sagome, simboli adottati per i vari oggetti geografici rappre-sentati, eventuali elementi decorativi di rilevanza geografica, ecc.). Ciò signi-ficherà, innanzitutto, prendere atto della competizione perenne, densa di effetti comunicazionali, tra due elementi (quello geometrico-grafico e quello “letterario”-umanistico) nel campo di rappresentazione. Ne verrà fuori una sorta di trattamento dei toponimi, a metà strada tra analisi statistica, demo-geografica, geoculturale e delle sedi, non senza un tentativo di tracciare una rudimentale gerarchia funzionale di queste ultime.

Anteponendo per una volta la filologia alla geometria e alla semiolo-gia, adoperando il più classico approccio geografico, evitando di analizzare solo ciò che è facile da spiegare (per il resto rifugiandosi “nelle generali”, magari con supponenza metodologica) e vestendosi invece dell’umiltà dello studioso che sa arretrare tatticamente di fronte a difficoltà mai nascoste, ma è pronto a ritornare successivamente alla carica, c’è speranza che, dall’analisi diacronico-comparativa del bagaglio toponimico e del disegno cartografico sempre incrociati, vengano fuori acquisizioni diverse dal solito, qualche “sorpresa” e perfino qualche rettifica di valutazioni o luoghi comu-ni dati troppo per scontati su prodotti cartografici e/o relativi autori.

Di fronte a una ricerca quasi artigianale, ma a suo modo “pioniera”, assolutamente aperta e in una prima fase di sperimentazione, si chiede ve-nia al lettore per tutte le semplificazioni che inevitabilmente potrebbero af-fiorare (non ci sarà spazio per ricostruire, da fonti extra-cartografiche, la storia dei contesti analizzati nell’intreccio locale/generale, una storia territo-riale che pure “si farà valere”, grazie alle modeste conoscenze a monte di chi scrive), ma lo si invita a non sottovalutare i vantaggi scientifico-didattici e perfino applicativi del metodo. Frutti attesi sono, come minimo, la possi-bilità (fondamentale specie per i linguisti) di valutare le varianti trascrittive di ciascun toponimo, da carta a carta (ma talora anche nella stessa carta!), quindi un profilo, almeno in abbozzo, delle mutazioni territoriali (paesaggio e strutture profonde invisibili); infine, una implicita microstoria dell’esplorazione regionale e locale della superficie terrestre, collegata a quella delle differenti tecniche impiegate nel tempo per la resa cartografica. Il tutto, ovviamente, nella consapevolezza di muoversi in un campo – la carta – nel quale il soggettivo e l’oggettivo, il reale e il simbolico-ideologico, il tecnico e l’immaginario si mescolano, producendo una mirabile sintesi tra pensiero noetico e pensiero psichico (fino all’onirico) o, per dirla altrimenti, tra esprit de géometrie (disegno) ed esprit de finesse (toponomastica).

Proprio alla carenza di quest’ultimo nelle carte si riferiva tempo ad-dietro il Gambi, attribuendo ad esse un ruolo solo integrativo nella ricerca

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storica, in quanto non in grado – per la loro elementarità e rigidità – di co-gliere «fenomeni come quelli storici, per loro natura invece fluidi e com-plessi». Lo stesso studioso riconosceva tuttavia l’importanza della carta «in modo particolare là dove descrive o riguarda un evento singolo e bene iso-labile, o una situazione dotata di un minimo di stabilità: cioè i fenomeni che si lasciano cogliere per una loro discreta puntualità sia a una certa data o epoca, sia in un certo luogo o zona. In tali casi la carta può effettivamente fornire alla ricerca un utile elemento integrativo, un fascio di luce in più» (Gambi, 1970, p. 1363). A ben riflettere, tra i fatti puntuali cui allude il Gambi rientrano a buon diritto, per la loro natura crono-spaziale, proprio quelli riflessi dal significato dei toponimi (singoli o in gruppo) e gli stessi toponimi, che “fanno paesaggio” in quanto tali. 2. La carta del Principato Citra del Magini (1606), “contenitore” toponimico di base e modello per secolari ricopiature europee

La ricerca non poteva partire che da una carta realizzata da colui che è riconosciuto come il più grande rappresentante italiano della cartografia empirica, Giovanni Antonio Magini, peraltro celebre astronomo e matema-tico (Padova, 1555-1617). Senza contraddire la scelta di privilegiare l’esame dei toponimi in essa riportati, è conveniente descrivere i caratteri fonda-mentali del “contenitore”, la cui grafica condiziona peraltro la disposizione della copertura toponimica, essendone a sua volta condizionata. Si tratta di uno dei 61 pezzi inseriti nell’arcinoto atlante delle regioni italiane, pubblica-to postumo a Bologna nel 1620, a cura del figlio Fabio, presso S. Bonomi, e dedicato a Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato; in esso è ritratto il Principato Citeriore3, cioè il territorio corrispondente grosso modo alla futura provincia di Salerno, quale risulta ai primi del XVII seco-lo, stando alla affidabile datazione della carta, fatta da un grande maestro della cartografia (Almagià, 1922 e 1974).

2.1 Caratteri della cartografia maginiana e sue fonti per il disegno del Regno Se per un verso questa tavola, come quasi tutte le altre dell’atlante

maginiano dell’Italia, ebbe tanto riconosciuto valore da essere ricopiata solo con modeste modifiche nelle più prestigiose raccolte di carte dell’Olanda e della Francia (che avevano strappato all’Italia il primato cartografico), per l’altro essa è largamente debitrice (salvo che per i particolari dell’isola di 3 Va precisato che la sinonimia “olim Picentia” risale alla divisione regionale codificata da Leandro Alberti (Aversano, 2003a e 2003b). Per altri versi, siamo di fronte al prodotto ini-ziale più perfetto di quella che viene comunemente definita la «cartografia del principe».

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Capri e lo sfoltimento “forzato” del numero delle torri costiere) alla eccel-lente carta del Principato Citra, realizzata da Mario Cartaro pochi anni pri-ma (Valerio, 1994, pp. 60-61). Non è questa, tuttavia, una colpa del Magini, al quale anzi viene ascritto in generale, come merito, quello «di aver conser-vato e perpetuato il frutto di molti lavori che, altrimenti, non avrebbero trovato traccia nei progressi della cartografia» (Lago, 1992, p. 436), grazie a una minuziosa e scrupolosa opera di rielaborazione e omogeneizzazione delle fonti.

Fig. 1 Giovanni Antonio Magini, Principato Citra, olim Picentia, 1606. Cm 25 x 47. Scal (sic!) di miglia 15 (1:330.000 ca., sul grado di meridiano). Orientamento: nord in alto.

Il risultato cartografico si fece apprezzare, dunque, per la notevole

esattezza nella rete fluviale e nei confini amministrativi (si può parlare anzi della prima carta politico-amministrativa dell’Italia del ‘600), nonché nella posizione relativa dei centri e dei principali oggetti geografici (monti, laghi, boschi), pur con dei limiti, riguardanti, fra l’altro, ulteriori aspetti (valori delle coordinate geografiche, ubicazioni, forma ed estensione delle sagome, ecc. (Almagià, 1922, 1974; Valerio, 1985), che nel caso specifico segnalere-

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mo nel prosieguo, da subito sottolineando soprattutto l’inadeguatezza nella rappresentazione del rilievo, rivelatore quasi soltanto dello spartiacque.

Spostando l’attenzione al contenuto della carta, si rileva che la sago-ma provinciale, nel suo complesso, appare orientata più da nord a sud che da nord-ovest sud-est, per l’errata direzione meridiana della linea di costa della sinistra Sele, che, eliminando la rientranza di Agropoli, appiattisce la sporgenza di Punta Tresino e sposta molto più a sud Punta Licosa.

Nell’insieme il perimetro circoscrive una forma resa più tetragona ri-spetto alla realtà e all’attuale profilo amministrativo che ingloba, a nord-ovest, tutta l’area a sud del fiume Sarno (che fungeva da limite provinciale), a nord la parte meridionale dell’attuale provincia di Avellino (allora Princi-pato Ultra), a est la Basilicata, con particolare riguardo all’alta valle dell’Agri, passata nell’attuale provincia di Potenza solo in età napoleonica (Aversano, 1997). In perfetto asse appare invece la Penisola Sorrentina, quasi tutta rientrante nel nostro principato, con l’eccezione di una parte del versante settentrionale, corrispondente all’ex Ducato di Sorrento, apparte-nente alla Terra di Lavoro, divenuta coi Napoleonidi provincia di Napoli, comprensiva (dal 1846) anche dell’attuale comune di Agerola (Aversano, 2008). La sua forma, tuttavia, è meno allungata e anche meno affusolata verso sud-sud/ovest rispetto alla realtà, il che le conferisce un aspetto tozzo e, insieme, comprime lo spazio tra i valloni di Furore e Atrani e quello tra i casali di Marini e Alessi (all’attaccatura di Cava de’ Tirreni), costringendo a posizionare molti centri secondo un asse nord-sud anziché ovest-est.

L’isola di Capri, anch’essa amministrativamente salernitana, si presen-ta con una sagoma altrettanto goffa (si direbbe “a scodella”), quadrangolare più che triangolare e senza la punta ad est (come dovrebbe), laddove la li-nea di costa occidentale, dirigendosi verso sud-est anziché verso un perfet-to sud (secondo la realtà), condiziona anche l’errato posizionamento – ad occidente anziché a mezzogiorno – del Monte Solaro.

Il Cilento storico, per l’erroneo andamento, già ricordato, del profilo litoraneo della sinistra-Sele, appare in più profonda continuità con essa, an-che perché questo territorio “al di qua” dell’Alento è movimentato esclusi-vamente dalla gobba del Monte Stella, dando l’impressione di una pianura, laddove invece sappiamo essere un vero groviglio morfologico-fluviale. Nell’insieme è più ristretto del reale nella direzione dei paralleli, per cui la posizione relativa dei centri è sfalsata nel senso dei meridiani, non diversa-mente da quanto prima avvertito per la penisola sorrentina. Un po’ raccor-ciata è la costa tra la foce dell’Alento e capo Palinuro (il cui promontorio ha un irreale andamento nord-est/sud-ovest), mentre la superficie del cosid-detto “basso Cilento”, unitamente all’area dell’Alburno-Motola-Cervati che

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gli è a ridosso, si mostra sempre più dilatata nel senso dei paralleli, a mano a mano che si procede verso sud, congiurando visivamente l’ampliamento del principato verso l’alta valle dell’Agri (zona di Grumento nova, allora Sapo-naria, Marsico Nuovo, ecc.). Questa parte dell’Appennino lucano, come tut-ta la Catena della Maddalena, è morfologicamente presentata con coni (me-glio si direbbe gobbe) da una a tre punte, lumeggiati dalla sinistra in alto e leggermente più grandi di dimensione e più pesantemente chiaroscurati ri-spetto a simil-gobbe raffiguranti le altre montagne provinciali (Lattari, Pi-centini, Polveracchio e Alburno-Cervati, Bulgheria, ecc.), che pure hanno le stesse caratteristiche altimetrico-clinometriche. Non sempre gli spartiacque emergono con precisione e comunque restano ignorate le forme tabulari, che pure sappiamo esistere (nell’Alburno, ad esempio).

Passando al disegno delle rete idrografica, che notoriamente è il “fio-re all’occhiello” della Italia maginiana, se ne può nell’insieme confermare la sostanziale precisione nella nostra carta, anche se non sempre è plausibile il dettaglio degli affluenti, subaffluenti e molteplici rami sorgentiferi, che l’autore “si poté permettere” di tracciare avendo del tutto ignorato il dise-gno delle strade e limitato nello spazio di rappresentazione l’”invasione” del rilievo e della vegetazione (segnalata con gruppi di alberelli, stilizzati sempre allo stesso modo). Questi scostamenti rispetto alla realtà, oltre a dipendere da una malferma informazione sull’andamento e la lunghezza degli assi principali e secondari del reticolo, sono in qualche modo condizionati dalla ricostruzione complessiva del perimetro esterno del Principato e dalla risul-tante superficie, relativamente scorretti, come si è visto: ci troviamo infatti in presenza di una rappresentazione di carattere empirico che, benché nobi-litata da una graduazione della latitudine relativamente plausibile (meno per la longitudine), segnata sulle cornici esterne, non è sorretta da rilievi geode-tici né dalla griglia di una proiezione di cui si controllino le deformazioni4.

All’importanza grafica, data alla ragnatela idrografica tracciata, non fa riscontro un’adeguata assegnazione di idronimi. Solo 6 corsi d’acqua si sot-traggono a tale carenza designatoria: fra i beneficiari di un nome spicca ov-viamente il Selo f. con un’asta che, partendo da Capo aselo, è ben direzionata verso sud in senso meridiano, fino all’incontro col Negro f. (attuale Tana-gro), altrettanto ben disegnato da sud-est a nord-ovest. Sorprende negati-vamente, a questo proposito, il fatto che l’idronimo erudito-latinizzante (Si-

4 Come è invece nel caso attuale della Campania del noto Atlante De Agostini (scala 1:1.000.000: proiezione conica modificata) o della Carta generale del territorio redatta dalla Regione Campania al 200.000, sulla base dei rilievi I.G.M. al 100.000, che sono stati i nostri punti di paragone, quando non si è avuta necessità di consultare le tavolette al 25.000 e la cartografia manoscritta “minore”, per procedere all’analisi di dettaglio.

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laro f.) risulti apposto a un subaffluente dell’attuale fiume Platano, che sfocia nel Negro, evidenziando una madornale confusione, attribuibile o ai trascrit-tori del laboratorio maginiano o alla percezione di una maggiore importan-za da assegnare al solco proveniente da est. Sta di fatto che lo stesso Tana-gro, peraltro ben reso nell’asta principale e nei numerosi confluenti (specie dell’alto corso), è disegnato con una doppia linea perfino più larga di quella riservata al Sele, quasi a volergli conferire più risalto geografico, accentuato peraltro da un ampio e profondo arco spinto verso nord; poiché, dal canto suo, il Calore lucano (nome attuale), col suo ultimo tratto, confluisce ad an-golo retto nel Sele, ne risulta dilatata e di forma rettangolare l’area mesopo-tamica costituita dal bosco di Persano-Serre (Presciano e le Serre), sottolineata da simboli di alberelli. Salvo l’anomalia segnalata, il corso del Calore, privo di qualsivoglia denominazione coeva, risulta ben ritratto sia nella direzione che nelle numerose ramificazioni. Prima di gettarsi nel Tirreno con un clas-sico delta, ospitante al centro dei due rami una torre costiera, il Sele riceve da sinistra due fiumiciattoli paralleli tra loro, il Corno e il Lacoso, il quale ul-timo, essendo stato “tradotto” nella cartografia attuale (I.G.M. in testa) come Torrente la Cosa, frusta l’arroganza di quei linguisti-etimologi che, nelle loro “elucubrazioni” monodisciplinari, ancora si ostinano a ostracizzare l’informazione geo-cartografica.

È perfetto l’andamento del Sarno o Safati fl, che fa da appoggio al con-fine provinciale e riceve da sinistra il molto più lungo e innominato Solo-frana, che accusa solo qualche sproporzione direzionale e dimensionale nei suoi affluenti. Resta da spiegare, infine, come mai soltanto un altro fiumi-ciattolo, il R.S. Fomia, venga fatto degno di designazione, trattandosi di un minuscolo rio, affluente di destra dell’alto corso del Mingardo.

Il paesaggio idrografico si completa con la rara indicazione di ponti sui fiumi (che lasciano appena immaginare i lacunosi assi di collegamento terrestre dell’epoca) col disegno di cinque laghi: i due provvisti di nome so-no il Lago di Buda, da cui esce un emissario del Melandro, affluente del Ta-nagro, e il Lago piccolo, collocato sulla costa subito a nord del Tusciano; gli altri tre sono un lago più grande, a metà strada tra Sele e Tusciano, con a ridosso una florida foresta planiziale, quindi uno specchio d’acqua più am-pio di tutti, che sappiamo essere il Lago di Palo, oggi prosciugato, come del resto i due gemelli retrodunali appena ricordati; infine, un laghetto tra Serra longa e S. Gargios, nell’angolo meridionale di sud-est del Principato (al di là del confine, a esso fa da pendant un invaso ancora più minuscolo e, subito a nord-est, il simbolo e il nome di Lago negro).

In relazione alle imprecisioni delle superfici territoriali e dei connessi andamenti fluviali, come dell’approssimativo inquadramento orografico, è

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naturale che i centri, gerarchizzati in cerchietti (di due dimensioni), prospet-ti di castelli turriti e chiese, arcivescovili e vescovili, non sempre occupino il posto giusto, come già ricordato a proposito del Cilento storico e della zo-na di Cava; altre volte capitano sviste, come il posizionamento di Capaccio vecchio più a sud di Capaccio nuovo, benché siano a noi ben noti i suoi ruderi, affioranti sulla groppa che domina lo sperone del Calpazio (sede della me-dioevale Chiesa della Madonna del Granato), a testimonianza della distru-zione operatane da Federico II. Questo eclatante errore, tuttavia, potrebbe essere anche apparente e nascondere qualche sito antico o medioevale an-cora poco noto, il che non sarebbe un’eccezione nel proficuo rapporto ar-cheologia-toponomastica (delle carte!).

Dopo avere analizzato i caratteri del “contenitore”, poiché l’obiettivo principale del presente contributo non è fare le pulci al grande Magini su tutti gli aspetti della sua carta, focalizziamo l’attenzione sul poderoso appa-rato toponimico che egli ci trasmette e su alcuni significativi simboli.

2.2 Una toponomastica esuberante e talora sorprendente nella sua documentalità

paesaggistica e identitaria Forse non è stato valutato a pieno, ai fini della conoscenza del terri-

torio, il contributo quantitativo e qualitativo di toponimi riportati nella car-tografia maginiana. In generale parlando, inopinatamente non si è valutato che l’intero complesso toponimico (al di là del valore significante e ubica-zionale del singolo nome di luogo) riveste un’enorme importanza, essendo – insieme alle linee fluviali – un insostituibile quadro di riferimento e orien-tamento spaziale, tanto più significativo se comparato alla rete disegnata da cartografi successivi. In definitiva, se certi nomi compaiono in carta, gli è perché sono i più conosciuti e riconosciuti come utili all’orientamento, es-sendo scontata l’importanza dei centri cui si riferiscono.

Oltre a contenere i valori generali, già accennati nel paragr. 1, essi co-stituiscono in particolare un prezioso documento linguistico, riflettono il rapporto gerarchico fra le sedi umane, cangiante nel tempo e più o meno sottolineato graficamente da simboli o da caratteri tipografici diversi o di variata dimensione, e danno insieme un’idea delle grosse linee del paesaggio geografico, poco ricavabile da altri simboli in una carta regionale a scala in-termedia quale è quella adottata dal Magini. Si potrebbe aggiungere che, al di là del paesaggio riflesso dal significato etimologico del toponimo in quanto legato per lo più alle caratteristiche localissime (talora fortemente identitarie), è possibile enucleare un paesaggio “nominale”, stratificato per aree, che il reticolo designativo porta consustanziato, indipendentemente dalla mutazione o meno dello stato dei luoghi rispetto al momento in cui

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sarà scattato il meccanismo onomaturgico che li qualificò. 2.3 Entità e distribuzione areale dei nomi di luogo Osservando la carta del Principato, colpisce la copiosità dei nomi lo-

cali (intorno alle 500 unità!), la cui trascrizione è stata favorita dallo spazio non occupato dagli assi di comunicazione terrestre e lasciato specialmente dalla piccolezza degli schizzi dei monti rappresentati e da quelli ingiustifica-tamente assenti nel campo di rappresentazione, come prima si notava. Ov-viamente la loro distribuzione spaziale non è omogenea, potendosi distin-guere aree di grande, medio e basso addensamento.

Lasciando per ora da parte la considerazione del paesaggio costiero, punteggiato dalle torri (cfr. par. 7), la concentrazione maggiore dei nomi, con relativi simboli, si individua all’interno della Penisola Sorrentina, senza distinzione fra i due versanti (amalfitano e napoletano, ma con l’eccezione di Ischia, caratterizzata solo da un fitto torreggiamento), per le aree dell’Irno-Solofrana, per l’alto bacino del Tusciano e per quello del Picenti-no nella interezza del corso fino alla costa, per i dintorni di Salerno, il Ci-lento storico e la subregione dell’Alburno-Cervati. Un po’ meno presenti i toponimi-centri appaiono nell’alta valle del Calore e nel basso Cilento fino a ridosso del Golfo di Policastro: ci sia permesso, dunque, di classificarli come aree di media densità. In entrambi i casi tutto lascia qui immaginare paesaggi delle colline, delle conche interne e della basso-media montagna, sostenuti da una più o meno vitale presenza delle comunità umane.

Aree di rarefazione nominale-abitativa sono senza dubbio la Piana del Sele (con l’eccezione dell’angolo nord-ovest più prossimo a Salerno), il fondovalle Tanagro, la vasta area mesopotamica tra i bassi solchi del Tana-gro e del Calore, le subregioni dei Monti Picentini (parte più lontana dalla costa), della catena della Maddalena e dell’Alta valle dell’Agri. Trattavasi di ambienti sicuramente repulsivi per l’insediamento, a causa della palude o della rude montagna interna: in quest’ultima, a prima vista, la situazione sembra migliore, ma solo perché talora i cerchietti affiancati da un toponi-mo indicano il monte e non un centro, sono cioè semplici oronimi! Resta però il dubbio che l’assenza di nomi nella carta obliteri l’esistenza di sedi pulviscolari o anche importanti ma non conosciute, così come nel caso del-le aree ad alta densità toponimica vien da chiedersi se esse siano solo mag-giormente conosciute piuttosto che realmente abitate... Questo sospetto è accresciuto dalla presenza di parecchi villaggi, successivamente abbandonati (Arcello?, Amalfiu vecchio, Carusi, Comingenti, La cadossa, Pantoliano, la Stella, Le

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uespe, Fistola Mazziota) 5. 2.4 Nei simboli prospettici dei centri un abbozzo di gerarchia “urbana” Può avere interesse, prima della decodifica significazionale dei topo-

nimi, segnalare i centri riportati in carta non con un semplice cerchietto, ma con un prospettino (più o meno grande) raffigurante case turrite, fortifica-zioni o castelli, edifici di culto con o senza croci, in quanto la loro distribu-zione segnala quelli che all’epoca erano ritenuti (a torto o a ragione, giacché talora lo spessore storico dei centri induceva a valutarli, in un clima di fer-vore umanistico di cui il Magini era certamente partecipe, come più qualifi-cati di quanto non fossero) i gangli vitali del territorio, alla testa di una ge-rarchia spaziale che traduceva la loro capacità di coagulare “gravitazional-mente” altri abitati e abitanti. A proposito di questi ultimi, onestà intellet-tuale vuole si precisi che una precedente carta (prima manoscritta e poi stampata), di mano dello Stelliola (o Stigliola) e del Cartaro, sarebbe ancor più utile in proposito, in quanto riporta la numerazione dei fuochi di cia-scun centro (oltre i gradi di latitudine e longitudine), e ha funto sicuramente da base informativa della carta del Magini6.

In questa sede, attenendoci semplicemente a quanto appare nel cam-po di rappresentazione maginiano, annotiamo che i punti forti della rete in-sediativa assommano a 74 unità, pari al 14,7% del totale generale (502 uni-tà), nel quale è stata compresa una cinquantina di torri, segnate con cer-chietto accompagnato dal simbolo mimetico, onde ribadirne l’importanza. Tali centri in sky-line appaiono distribuiti in modo estremamente difforme e scompensato, almeno geometricamente, sul territorio, retto evidentemente da “logiche” che non potevano non registrare quello stato di fatto7.

5 Per le problematiche della necrosi delle sedi, cfr. Aversano, 1987 (ivi, alla p. 93 carta della distribuzione di villages désertés nel Salernitano e in Basilicata). Anche a tal proposito si rivela l’importanza documentaria dei toponimi cartografici: nel caso specifico viene ribadita l’esistenza di una città sulla vetta della Stella (quel Castellum Cilenti che ha dato il nome alla subregione: Aversano, 1982) e di Amalfi vecchio oltre l’indicazione di Molpa, il che inge-nera dei dubbi storiografici, dato che generalmente quel castello viene individuato, più o meno leggendariamente, come la patria originaria degli amalfitani; lo stesso valga per Ca-paccio vecchio, segnato in pianura e in una ubicazione a sud di Capaccio nuovo, contro la consolidata opinione che il suo sito sia su un’altura a nord; infine, nella zona dell’attuale Sala Consilina, centro testimoniato già da epoca romana, la carta non riporta abitato alcu-no, salvo Fonte S. Giovanni e, più in là, S. Lorenzo (cioè la Certosa), Padula e Laserrela. Si trat-ta proprio e solo di carenza di informazioni maginiane? 6 Il che è stato definitivamente dimostrato dal Valerio (1994, pp. 59-60). Va aggiunto che, rispetto a questa fonte, il Magini non è altrettanto preciso nel disegno dei citati prospettini. 7 Per dare un’idea di tale assetto, si farà riferimento alla sempre valida partizione subregio-nale della Campania proposta anni addietro dal Ruocco (1976, in particolare la carta a p.

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I dati si commentano da sé, essendo evidente come a fare la parte del leone sia la sezione provinciale storicamente più antropizzata, quella setten-trionale (il capoluogo e il suo intorno, dal solco Irno-Solofrana alle valli del Picentino e del Sarno, fino alla Penisola Sorrentina), con una concentrazio-ne di ben 21 ”stars”, di cui la quota maggiore (16 centri) è ubicata dall’attaccatura dei Lattari (zone di Cava e Vietri) fino alla punta della Cam-panella (pur escludendo il settore sotto giurisdizione di Terra di Lavoro). Per ritrovare un numero pari di cittadine cospicue bisogna spostarsi nel Ci-lento (14, più 2 del Cilento storico), ma il confronto numerico non deve in-gannare, non tanto perché la superficie cilentana è quasi il triplo rispetto a quella della grande penisola campana e, quindi, la densità dei centri è assai più bassa, quanto perché siamo in presenza di centri ormai depotenziati e talora in via di estinzione (Lastella, Ca’ Mare della bruca, Il casteilio [capo Pali-nuro], Roscigno, S. Seuerino), che riguarda in generale anche l’altra zona, ma solo con qualche punta veramente regressiva (M. Apuzza, Paterno).

Il gap tra le due sezioni della provincia appare più forte sotto il profilo qualitativo, giacché all’interno di questo gruppo dei 74 si distingue a sua volta una “rosa” di 15 centri, caratterizzati da una funzione religiosa, segna-lata con una o più croci, che talora erano sede di vescovado o arcivescova-do. Orbene, mentre nella Penisola Sorrentina e Capri troviamo Lettere e Ca-pri (versante napoletano), con Amalfi, Minuri, Pasitano, Rauello e Scala (ver-sante salernitano), nel Cilento rimane solo Policastro, ormai estintasi come diocesi pur tanto gloriosa nell’Alto Medioevo. Al vertice della gerarchia, i-noltre, emergono il capoluogo Salerno e Caua, accompagnati da Nocera e Sarno. Nel vasto territorio picentino annoveriamo una presenza prestigiosa solo per la parte meridionale (la diocesi di Cãpagna) e, non lontano, Cagiano (subregione Marzano), infine Marsico nuovo, al di là della displuviate costitui-ta dalla Catena della Maddalena, oggi di pertinenza amministrativa lucana8.

Non ancora si ha percezione, in Magini, delle articolazioni subregio-

22), con qualche necessario aggiustamento o ulteriore specificazione, tenuto conto di cen-tri, come Salerno, di assoluta primazia diocesana, o come Cava e Vietri (che avendo forma-to per secoli una sola entità amministrativa, possono essere considerati una micro-subregione a parte), di posizioni “a cavallo” tra una partizione e l’altra (area tra la con-fluenza del Tanagro nel Sele e l’ex lago di Palo) e del fatto che Capri, la parte meridionale dell’attuale provincia irpina e la parte occidentale dell’odierna provincia di Potenza (alta Valle dell’Agri) nel primo ’600 rientravano nel Principato Ulteriore. N.B.: da qui in avanti si userà l’abbreviazione sbr per indicare appunto una subregione. 8 Si dà per scontato che questa simbologia, in una fase successiva della ricerca, andrà con-trollata con i tanti elenchi di centri, testimoniati da fonti più o meno coeve, a stampa (L. Alberti, il Galanti, il Sacco, il Giustiniani, ecc.) o manoscritte (il Nicolosi, per cui vedi A-versano-Cantalupo, 1987; il Del Mercato, ecc.).

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nali del territorio, di cui ci siamo appena serviti come griglia interpretativa di un dualismo demo-economico-funzionale, al presente solo parzialmente sanato: ciò è dimostrato dalla scarsissima presenza di designazioni coroni-miche. Infatti, se si eccettuano i coronimi marittimi (Parte del Mar Tirreno, scritta che pervade con volute baroccheggianti parte del Golfo di Napoli e tutto quello di Salerno; Golfo di Salerno, in grassetto dimensionalmente mag-giorato; Golfo di Policastro e Isola di Capri, in maiuscoletto, cioè stampatello con alto/basso delle lettere iniziali), registriamo solo l’oronimo M. Apenni-no, impiegato due volte, col solito grassetto risaltato, ai confini settentriona-le e meridionale con la Basilicata. Un dubbio è posto da Tardiano, da con-frontare con Le Diane, e che forse richiama il Vallo di Diano come corru-zione di Thal Diane (vedi successivo commento della carta di Von Reilly). Tab. 1. I gangli della “gerarchia urbana” del Principato secondo la carta del Magini Tenimenti di sole città (tot. 3): Salerno Vietri e Cauva (il cui territorio rientra, secon-do il Ruocco, nel Subappenino campano).

Alburno-Cervati (tot. 9): Aquara (Valle del Calore), Castelluzzo, Contro-ne, Felitto, Ottati, Postiglione, Sanza, Sicignano, Sacco.

Penisola Sorrentina con Capri (tot. 14): Amalfi, C.- a’ Mare di Stabia, Citrara, Gragnano, Il Castello (isola di C.), Lettere, M. Apuzza, Mi-nuri, Pasitano, Paterno, Pimote, Rauello, Scala, Pasitano.

Vallo di Diano (tot. 6): Athene, Bona abitacolo, Diano, Padula, Polla, S. Arsiero.

Agro sarnese-nocerino (tot. 3): Angri, Nocera, Sarno.

Monte Marzano (tot. 7): Auletta, Bucino, Cogliano, Lauiano, Palo, Va-luano, Loleuito.

Agro Sanseverinese-braciglianese (tot. 2): Braccigliano, S. Seuerino.

Cilento storico (tot. 2): C. dell’abbate, Lastella.

Piana del Sele (anche centri di collina che vi si affacciano; tot. 4, di cui nessuno in pia-nura): Albanella, Altauilla, Capaccio nuouo, Euli.

Cilento (tot. 13): Ca’ Mare della bruca, Camerotta, Campora, Ca-sella, Laurito, Glibonati, Il casteilio (capo Pa-lin.), Laurito, R. Gloriosa, Rofrano, Roscigno, S. Seuerino, Policastro.

Picentini (tot. 9): Calabritto, Cãpagna, Capo asele, Castelluzza, Ca-stiglione, Contursi, Gifoni, M. Coruino, S. Cipria-no.

Catena della Maddalena-Alta Val d’Agri (tot. 2): Saponara, Marsico nuovo.

2.5 Schegge di paesaggio a grandi linee, enucleate da altri simboli in carta Fra i pochi simboli vergati dal Magini nella sua cartografia dell’Italia,

registriamo i ponti sull’acqua, osservabili in una breve doppia lineetta, che taglia trasversalmente i fiumi in un intenzionale ma non sempre preciso an-golo retto. Nel caso della nostra carta del Principato, si contano solo cinque

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di tali attraversamenti (a parte l’esistenza di qualche toponimo indiziario, del tipo «guado»), tre situati lungo il corso di fiumi importanti (sul Sele, in prossimità del delta; sul Tanagro, probabilmente nel punto dove attualmen-te è attraversato dalla Statale n. 19; sul Tusciano, poco a valle di Battipaglia) e uno sul meno “accorsato” Picentino, in corrispondenza della località Ca-gnano. L’unico altro ponte compare nel bacino dell’alto Sele, sopra un af-fluente di sinistra di tale fiume, affluente registrato dalla cartografia I.G.M. come Rio Zagarone in una zona che ha tutta l’aria di essere un piano carsico e che conserva lo stesso nome Ponticchio, riportato dal Magini9.

Di scarsa evidenza paesaggistica sono gli specchi d’acqua, indicati con un puntinato circoscritto da una linea (se alquanto estesi) o – quando tratta-si di una minuscola pozza –, con un circoletto di forma oblunga, più mac-chiato che puntinato sia in assenza che in presenza di un toponimo. Unita-mente al grande lago, innominato, tra Sele e Tusciano, cui fa da contrap-punto il Lago piccolo alla foce del Tusciano, nonché all’Acqua de abeti, anno-veriamo il più ampio di tutti, il Lago di Palo, nella subregione del Marzano; seguono piccoli invasi: il lago di Buda, tra Vietri di Potenza e Satriano di Lu-cania, quello tra Gargias e Serra longa, nell’angolo sud-est del Principato (gli replicano, al di là del confine, il Lago Negro e un altro lago più minuto), Fonte antica, Fonte Spina e Fonte S. Giovanni, infine il Pantano.

Restano da trattare i soli simboli che, come le gobbe delle montagne, lasciano intravedere la presenza di una paesaggio naturale di indubbia rile-vanza per i suoi segni materiali visibili e il valore economico-ecologico rive-stito. Ci si riferisce ai piccoli e folti gruppi di alberelli, schizzati assai mono-tamente, per rappresentare la copertura forestale. È arguibile che l’autore, al di là della carente informazione di cui disponeva e della difficoltà di trovare spazio di rappresentazione dappertutto in carta, abbia impresso il suo dise-gno solo in quelle aree dove il bosco la faceva da padrone, trascurandone altre a minore intensità di alberi. Pur con questi limiti, resta una relativa do-cumentalità della carta sulla effettiva situazione del verde naturale, che vale la pena di illustrare brevemente.

La superficie maggiormente e compattamente boscata in assoluto 9 Questo fiumicello proviene, secondo il disegno, da una pozza chiamata Acqua de abeti, nella quale è lecito individuare l’attuale Lago di Laceno, nonostante l’errore dimensionale maginiano e la non corrispondenza dei reali spartiacque: in alternativa, potrebbe trattarsi della Sorgente Vado Carpino, segnalata in tavoletta (cfr. F°186, III NE, Monte Cervialto, della Carta d’Italia I.G.M.; per la zona di Calabritto, si veda l’omonima tavola del F°186 II NO), considerato che la carta seicentesca riporta col tondino, un poco più a ovest, un luo-go detto Il guado. La toponomastica attuale richiama la presenza del carpino, dell’acero e del castagno e si accompagna a vari simboli grafici del faggio, ma non dell’abete, la cui pre-senza è tuttavia compatibile con l’altimetria.

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(con 17 alberelli) risalta tra i bassi corsi del Sele e del Tusciano, a ridosso del grande lago retrodunale, ed è contrassegnata dal toponimo Arnosora (at-tuale Arenosola); quasi in continuità si sviluppa verso est un’altra area me-sopotamica compresa tra Tanagro, Sele e Calore, dove insistono tre spez-zoni boschivi, il più consistente (13 alberi) tra Selua Nera, Presciano e la duch bost., un altro di 8 elementi (detto Selua Nera) a ridosso del grande arco al cui culmine il Tanagro si immette nel Sele, il terzo, di soli 3 fusti, in corri-spondenza del toponimo Piano delle tecole, affiancato dall’immancabile cer-chietto. Un esteso bosco planiziale, dunque, l’unico presente in provincia, cui si contrappone un gemello di montagna, con 14 alberelli, tra i toponimi Fistola Mazziota e Rofrano uetere, in una zona accerchiata dagli attuali monti Antilia, Centaurino e Scuro. Per trovare superfici forestali di quasi pari con-sistenza (9 unità) bisogna spostarsi verso il nord-est del Principato, nella subregione del M. Marzano, tra l’Ogna, Laualua, Cogliano e il Carvello, mentre altrove siamo su una dimensione che definiremmo di “media boscosità” (6-7 alberi), nell’aspra montagna cilentana, tra Uorio, Lasasana, Locaio e Omigna-no, alla sinistra del medio Alento (ma sappiamo trattarsi di un territorio mal disegnato) oppure sul versante sud del Monte Vesole (tra i toponimi Comin-genti, Vesali e Fenocchito e con al centro il toponimo Caualluzzo) o, infine, tra Feghine, il Castello, Gragnano e Chiunzi, zona dei Lattari “dichiarata” più bo-scosa dall’autore, insieme a una sola altra superficie più vicina al mare, ad est di Vico (3 alberi tra i toponimi Le Franche e capo de auila).

A parte questi ultimi, altri brani di selve, ma di ristretto àmbito (da 2 a 4 simboletti), sono segnalati: nell’alta valle del Sele, sulle groppe del Cer-vialto (tra Ponticchio e Acque de Abeti); sul Monte Cervati (tra Fonte spina, Lo-ratio e S. Iacouo); nel Cilento, e precisamente alle sorgenti del fiume Mingar-do (a nord di M. Centaurina e la Farnetta) e a quelle del fiume Negro (tra Cantaro, la Cadossa e Casale Nuovo); sull’Alburno, tra Ottati, Serranera e Petina (qui è specificata, unica volta in assoluto, anche l’essenza vegetale nel topo-nimo Li Faghi); ad ovest del Monte Corvino (tra Rovella, Faiano e Cagna-no) e infine sulla Catena della Maddalena, ma come esigua porzione confi-naria di un bosco estesissimo soprattutto nella attigua Basilicata, in direzio-ne di Picierno.

2.6 Analisi qualitativa dei toponimi per campioni tipologici Venendo ai toponimi in senso stretto, non potendoli esaminare sin-

golarmente (compito rinviato a una prossima catalogazione sistematica), ci si limiterà a indicare per ora alcuni casi di particolare interesse geografico e/o linguistico e inquadrare l’intera massa nelle tipologie prima annunciate (Aversano, 2006c) e poi sperimentate per individuare l’identità geografica

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comunale (Aversano, 2006d). Intanto, conviene far parola delle difficoltà a individuare i centri oggetto di denominazione, dato che i termini, onde oc-cupare meno spazio, talora son riportati con abbreviazioni interne (es. Ca-pãgna, Lomõte, Sõtae) oppure sono tronchi (Lariton per la ritonda, oggi Ro-tonda di Monte Marmo, a sud-est di Balvano; La duch bost per bosco della duchessa), assai spesso presentano una terminazione diversa dall’attuale nel genere e nel numero (Perita per Perito; Massicelle per Massicello, ecc.), altre volte risentono di deformazioni erudite in chiave grecizzante che potrebbe-ro anche non essere gratuite, tenuto conto dell’influenza esercitata dalla co-lonizzazione italo-greca (Metafora per Montecorice, Apoglasi per Capograssi di Serramezzana, Chintho, che richiama il Monte Cinto di Corsica, Athene per Atena lucana), infine sono severamente irriconoscibili nella forma lin-guistica e/o nel sito (Terenito, Leuocane, Locaio, Loratio, Cauli, Petto dell’aquila, Fistola Mazziota, Le uespe, Fiento, ecc.)10.

Ma l’esperienza della lettura di questo vero e proprio capitale cono-scitivo e cultural-identitario, costituito dai toponimi, riserva altre singolari e affascinanti casistiche, di cui si offre qui una breve campionatura, che getta luce o ingenera dei dubbi su soluzioni etimologico-toponimiche spesso troppo sbrigativamente date per acquisite. Ho notato, ad esempio, da un lato, che parecchi prediali latini, vuoi per errori di trascrizione vuoi perché forse più correttamente formulati rispetto alle successive trascrizioni (car-tografiche o da documenti scritti), si presentano in veste “deformata” (è il caso di Ornigliano per Omignano, Goiani per Gaiano di Fisciano, Alisciano per Fisciano o Misciano, Presciano per Persano), dall’altro che il toponimo di un centro abbastanza cospicuo, conosciuto oggi come Rocca d’Aspide (o Roccadaspide), peraltro chiara deformazione di Rocca dell’Aspro, con rife-rimento al colle su cui troneggia (Natella, 1997), in Magini si presenta come Riuo dell’Aspro, laddove l’attenzione del designatore si è appuntata, piuttosto che sulla rupe urbanizzata per motivo di difesa, sul corso d’acqua (affluente del Calore) che ne solca la base.

Non di rado la spiegazione etimologica di certi toponimi entrati or-mai nella nostra quotidianità di studiosi, e di cui ancora una volta si riesce

10 Si sarà notato, specie da questi ultimi casi, come uno dei fattori di maggiore occultamen-to (con connessa impossibilità di decifrazione) è l’assorbimento dell’articolo, al singolare e al plurale, maschile o femminile, nel nome; ma, paradossalmente, si registra anche un caso opposto, e cioè la “creazione” di un articolo separato dal nome (Il Cerello), di fronte a un non compreso fitonimo in forma diminutivo-vezzeggiativa (Elcerello). Superfluo ricordare quanto l’approccio spaziale della Geografia, appuntando l’attenzione sui siti, sia spesso più utile del pur necessario ricorso alla fenomenologia linguistica nel risolvere i problemi in-terpretativi!

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ad attestare il sito solo grazie alla conoscenza e all’osservazione geo-topografica, viene messa in discussione da una diversa trascrizione presente nella carta maginiana, offrendo – non meno dei casi in precedenza richia-mati – utile materia per una rivisitazione scientifica e, prima ancora, per una salutare disposizione alla cautela e alla apertura pluridisciplinare11.

Accertare il lemma esatto su cui basarsi, individuando l’esatta ubica-zione del toponimo, per ricavare etimologie e storia dei luoghi, diventa dunque un dovere per chiunque, che impone uno scatto imperioso di fron-te a quanto così palesemente emerge da quanto appena osservato: tanto più che il problema viene complicato dalle testimonianze toponimiche, spesso divergenti, di carte successive, come si vedrà sinteticamente nel prosieguo.

Vediamo ora, attraverso una statistica “spedititiva” sui 502 toponimi desunti dalla carta, di individuare i tipi toponimici più rappresentativi del paesaggio naturale-antropico e delle attività umane. Dalla classificazione più semplice, già proposta in precedenti lavori12, non ho deliberatamente chia-mato in causa, per motivi di spazio, alcuni items13, puntando solo su sei di essi, che ritengo più importanti per una prima valutazione geografica14. Di conseguenza, sono stati tenuti fuori dalla classificazione quei toponimi di

11 Una vero richiamo all’umiltà ci sembra venire, ad esempio, da toponimi come Chiane so-prane e Chiane sottane, che contestano gli attuali Piaggine (interpretati di solito in riferimento al pietrisco o sabbia del detrito di falda: AAVV, 1990, sub voce Piaggine), mentre qui si fa-rebbe riferimento solo a due pianori di diversa altezza. E così, Cetara in Costa d’Amalfi è citata come Citrara (scombinando, col pertinente significato agrumicolo, il riconosciuto etimo di “tonnare”), il noto Monte Cervati compare come Cervaro, M. Arsano (c/o Buona-bitacolo) è sicura corruzione del maginiano Monte Rossano, Pollica è registrato in carta come Bollecia, Ascea come Aseigo, Palinuro come Palenuda/o, Positano come Pasitano, Mandia co-me La mania (con assimilazione dell’articolo), Massascusa come Massaconia, Camerota co-me Camerotta, Torre Orsaia come Tosai (dove la T, senza puntino, è incorporata nel nome), Sicilì (accentata) come Le Sicelie, Orria come Vuorio, Corleto Monforte come Cornito (si ri-cordi che la diffusione di questo toponimo, come di tanti altri, complica l’individuazione del centro di riferimento, possibile solo con l’osservazione del sito in carta), Fogna (poi “migliorata” in Villa Littorio per alleviare il senso di vergogna degli abitanti…) come Fagna (versione che, se fosse vera, avrebbe risolto alla base il problema della sua “decenza”), Stio come Sõtae, Figlino di Tramonti come Beghine, e via enumerando. 12 Cfr. Aversano, 2006, schema n. 1, p. 143. In questa prima prova si è preferito utilizzare la classificazione più semplice anziché quella, assai più articolata per tipi toponimici, ripor-tata ivi alle pp. 174-178. 13 Posizione del luogo ed esposizione; elementi meteorologici e fenomeni astronomici; morfologia litoranea; fauna e attività venatorie; attività extragricole e artigianali; comunica-zione e trasporti; nomi personali collettivi – etnici – o da titoli generici; toponimi non clas-sificabili. Per una messa a fuoco degli «indicatori geografici», cfr. Cassi-Marcaccini, 1998. 14 Natura, forma e altri aspetti visibili del terreno; idrografia; vegetazione; settore primario salvo caccia e pesca; prediali; agionimi e nomi legati alla sfera ecclesiastico-religiosa.

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centri, anche importanti, che non rientravano nelle sei classi selezionate; i-noltre, avendo espunto preventivamente dal conteggio le 58 torri costiere, le specificazioni spesso attribuite loro non sono state affatto esaminate. Nel complesso, dunque, sono stati classificati 198 toponimi su 444 di base.

Questi i risulatati emersi: la categoria in assoluto più rappresentata (e c’era da aspettarselo, data la diffusa religiosità e pietà popolare di quei tem-pi) è quella agionimica, con 66 toponimi (il 33% del totale), di cui ben 60 dedicati a santi o a Maria (S. Angelo, S. Arsiero, S. Maria della neve, ecc.) e solo 6 di formulazione diversa (c. dell’abbate, la trinita, ecc.). La graduatoria vede al secondo e terzo posto i fitonimi e gli oronimi (rispettivamente con 35 e 34 nomi, cadauno pari a poco più del 17% dei toponimi considerati), a loro volta seguiti quasi a pari merito da prediali e idronimi (29 e 28 attestazioni: siamo sul 14% abbondante, nell’uno e nell’altro caso). In fondo alla gradua-toria troviamo il settore primario, con 6 nomi di luogo (riferiti più all’agricoltura che all’allevamento), rappresentanti appena il 3% del com-plesso toponimico sottoposto a classificazione.

Ci sono tuttavia da aggiungere ulteriori considerazioni, riguardanti innanzitutto la tipologia degli idronimi e dei fitonimi, rispetto ai quali ho operato una distinzione tra quelli a carattere naturale e quelli relativi ad a-spetti antropici. Mentre l’idrografia toponimizzata si mostra in larga parte naturale (23 casi: Acqua de abeti, Acqua della frecaglio, Negro f., Selo f., ecc.) e so-lo 5 volte riflette l’esistenza di opere idrauliche semplici (Fistola mazziota, Fonte spina, ecc.), la fitonimia attiene maggiormente (22 presenze) alla vege-tazione spontanea (Calabritto, Li faghi, Lentiscosa, Seluanera, Cornito, ecc.) e un po’ meno (13 casi) alle specie coltivate (Arboro, Le Ceuze, Loleuito, Perito, Ce-raso, ecc.). Se però a queste ultime si aggiungono le 6 attestazioni afferenti al settore primario, si arriva a 19 toponimi rivelatori dell’attività agricola, che rappresentano una percentuale nient’affatto trascurabile (quasi il 10%) sul totale toponimico, a testimonianza di un territorio salernitano abbastanza controllato dalla mano dell’uomo, almeno in certe aree, fermo restando che, come di massima risulta da indagini svolte in altri contesti, gli aspetti fisico-naturali sono la fonte prevalente della creazione toponimica da parte delle collettività del passato. 3. La carta del Bleau (1640) conferma una quasi pedissequa ricopiatura maginiana, con variazioni formali e utili correzioni astronomiche

Nell’ambito delle note pubblicazioni in vari atlanti, da parte delle dit-te olandesi Hondius, Jannsonius e Blaeu, dell’Italia del Magini, si colloca una rappresentazione del Principato Citra, per l’occasione ricopiata da Joan

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Blaeu (figlio di Willem), componente di una famiglia di costruttori di globi e strumenti, oltre che di editori, che si firmano con lo pseudonimo Blavius (versione umanistica, all’epoca imprescindibile, del cognome originario).

Fig. 2 Joan Blaeu, Principato Citra olim Picentia, Amsterdam, 1640. Cm 61,5 x 73 [nel riqua-dro: cm 42 x 54]. Scala di miglia dieci Italiane (1:350.000 ca.). Orientamento: nord in alto.

Volendo iniziare il paragone tra l’Atlante del Magini e le carte edite

successivamente, intenzionalmente non si è esclusa l’analisi di questa carta, per verificare de visu e de facto quanto rispondesse al vero l”infamia”, univer-salmente condivisa, del sostanziale plagio rispetto al modello in essa perpe-trato, ma nella speranza altresì che vi si rinvenissero delle positive novità.

Il confronto ha evidenziato miglioramenti formali nella finissima in-cisione e in un gusto ricercato nella scelta dei caratteri tipografici delle scrit-te, rispetto al solito originale maginiano. Altre differenze sono rappresenta-te da tre particolari: innanzitutto, il delizioso cartiglio in basso a sinistra, le cui volute sembrano riecheggiare quelle della scritta «Parte del Mare Tirre-no» (comunque di ispirazione maginiana) e far da contrasto alla linearità dei 32 rombi di vento provenienti da una minuscola ma ben ornamentata rosa (ecco la seconda novità), posta quasi al centro del Golfo di Salerno; quindi, una sorta di stele, dentro cui è disegnata in verticale la scala (somigliante a

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coppie di crome in un rigo musicale…), ma che funge anche da appoggio a una figurina di geografo in “divisa” fiamminga, recante un globo nella ma-no destra e un compasso nella sinistra.

Spostandoci sul versante scientifico, si riscontra una correzione im-portante sotto il profilo geografico-astronomico, vale a dire la graduazione più corretta di quasi quattro gradi di longitudine rispetto ai valori del Magi-ni, che Joan Blaeu poté inserire grazie alle aggiornate conoscenze acquisite dai naviganti olandesi. Quanto ai contenuti corografici interni alla cornice, tutto rimanda al modello-base e ne replica i pregi e i difetti, se non fosse per le gobbe dei monti un po’ meglio ombreggiate e talora per un cambia-mento di posizionatura, ma in tutto legato a un’esigenza di leggibilità, nello spazio rappresentativo, dei singoli toponimi, il cui sito non subisce pertanto rettifiche migliorative (basterà il solo esempio del diverso andamento della scritta Li Giovani, nella Penisola Sorrentina). Essi sono ripresi tali e quali, quasi in toto dalla carta del Magini, salvo pochi casi di toponimi inediti o forse diversamente trascritti (Tarci, Solaro, C. le uietri, Ceraso, Lago di Buda, Trinita e Turano).

Dall’analisi formale e sostanziale della carta in questione, in definitiva, non si può non confermare di massima quanto già asserito dagli storici del-la cartografia (in particolare: Valerio, 1994, p. 64). 4. I cambiamenti formali e sostanziali, a un secolo di distanza, nella carta “pontificia” di Domenico De Rossi

4.1 I caratteri di base della rappresentazione Sull’onda del successo riscosso presso gli editori fiamminghi dalle

carte regionali d’Italia del Magini, dalla fine del Seicento anche in Italia esse furono replicate e arricchite dall’editore romano Giovan Giacomo De Rossi (1649-1691) e dai suoi eredi, tra i quali un certo Domenico (1647-1719) ri-sulta autore di questa carta di primo Settecento (impressa nella Stamperia della Pace in Roma, all’interno di un famoso atlante, intitolato Mercurio Geo-grafico, overo guida geografica di tutte le parti del mondo), la quale fa esplicito rife-rimento alla delineazione maginiana, notoriamente rimasta un modello in-superato fin quasi alla fine di quel secolo15. In effetti la rappresentazione è più varia e più ricca sia della carta del Bleau, sia delle tante precedenti con-sorelle, olandesi o francesi, derivate dal Magini.

Rispetto a quest’ultimo non si notano modifiche della sagoma com-

15 Sulla storia della famiglia De Rossi e su altri particolari tecnici di questa carta, si rinvia a Valerio, 1994, p. 72.

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plessiva del Principato, se non per una maggiore sporgenza verso occidente di Punta Licosa, chiamata Capo del isola (nel Magini erratamente posta molto più a sud e senza il disegno del prospiciente isolotto), nonché per l’andamento della linea di confine con Terra di Lavoro nella Penisola Sor-rentina: stavolta, registrando effettive modifiche amministrative, quella linea si allunga sino alla foce del Sarno, ritagliando una striscia costiera rivolta al Golfo di Napoli, che si interrompe solo per acquisire ancora, al Principato Citra, residuamente, la città di Castellammare.

Fig. 3 Domenico de Rossi, Provincia / del Principato Citra / già delineata dal Magini / e nuova-mente ampliata secondo lo stato presente / Data in Luce da Domenico de Rossi, / e Dedicata / All’Ill.mo Sig.re / Il Sig.r Auocato Diego de Pace, 1714. Cm 60 x 71 [nel riquadro: cm 46 x 57] Scala di Miglia quindici Italiane. Orientamento: nord in alto.

Anche il reticolo idrografico resta fondamentalmente lo stesso, con

delle lievissime semplificazioni (ad esempio l’eliminazione di un ramo sor-gentifero del Tusciano), aggiunte (si veda il rio che sfocia nella rientranza a sud di Punta Licosa) o correzioni (eliminato l’improprio toponimo Silaro f.

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da un affluente del Tanagro). Lo stesso dicasi per l’orografia, le cui “gobbe” tuttavia appaiono meno simmetriche di quelle maginiane, dando l’impressione di monoclinali con il pendio più ripido a destra (esposizione ad est, marcata con ombreggiatura nera) e meno ripido a sinistra (esposi-zione ad ovest, lumeggiata e talora arricchita con puntinato). Restando nella simbologia fisica, le aree forestali subiscono un trattamento diverso e/o opposto rispetto alla fonte originaria: mentre il bosco tra Tusciano, Sele, Calore e Tanagro si presenta compattamente continuo, indicato da almeno un centinaio di alberelli (resta ancora la segnalazione maginiana di una Selua nera o Bosco di Presciano tra Sele e Calore e se ne aggiunge una nuova: Bosco di Euoli, nella destra Sele), in zone di altura persiste a volte uguale, perfino nel numero di simboli (9 presso il Cerello e 15 presso Pistola Mazziota16), ma altre volte viene eliminato, come nei casi dell’area a nord di Casale Nuovo (Casal-buono attuale), di Acqua de Abeti nell’alto Sele, della Penisola Sorrentina tra Beghine e Capo de Auila, nei pressi del toponimo Li Faghi e, a sorpresa (trat-tandosi di una estesa foresta che non poteva essere scomparsa!), tra La Ro-tonda e Picerno (in Basilicata). Quanto ai cinque ponti fluviali, sono tutti ri-proposti in De Rossi, ad eccezione di quello sovrastante il fiumicello tra Acqua de Abeti e Calabritto (località Ponticchio) che si immette a sinistra dell’alto Sele.

4.2 La rete dei centri: aree “forti” e aree “deboli” della provincia alla luce dei

simboli grafici e dei toponimi inediti La gerarchia demo-funzionale dei centri viene innanzitutto indicata

con caratteri tipografici diversi per i rispettivi toponimi (maiuscoletto a e-saltare le città più importanti; tondo ingrandito e un po’ grassetto per città di medio rango; corsivo per la maggior parte dei centri affiancati al tondi-no); i tondini son però di tre tipi, a significare tre gradi crescenti di impor-tanza: cerchietto vuoto; centralmente puntinato; pieno, cioè annerito del tutto. Alla diversità del carattere della scritta fanno riscontro dei prospetti di torri, recanti al centro sempre un tondino, come nella carta del Magini, ma con maggiore meticolosità esercitata nel distinguere il rango con due o tre torri, che talvolta salgono a cinque per città capoluoghi o di un certo presti-gio storico (Salerno e Castellammare della Bruca). Da tre torri in su i simboli vengono colorati, dando più l’impressione di mura merlate di un castello, come del resto avviene per quelli inerenti a centri con particolari funzioni

16 Si badi bene a questa buffa deformazione del toponimo Fistola, che dimostra come an-che nel passato, quando un cartografo (o il suo copista) non comprendeva il significato di un nome, tendeva a modificarlo con uno di significato plausibile, rientrante nella propria esperienza. Un fenomeno che si ritrova anche nella vita quotidiana.

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religiose o dignità civile (città regie). Di tutta questa articolazione simbolica non si dà spiegazione nella di-

dascalia (Note), sistemata sotto la scala, entro un cartiglio oblungo, la quale si limita a disegnare i simboli di maggiore rilevanza (Arciuescovato; Vescovato; Città, o Terra di Dominio, o Reggia; Città, o Reggia que risiede la Reggia Audienza; Porto di Mare; Abbadia) e, con lettere maiuscole puntate (M., T., C., F.), edu-ce il lettore sul significato, nell’ordine, di monte, torre, castello e fiume. In realtà, dei simboli di città sedi della Regia Udienza (prospetto con bandieri-na) e provviste di porti (àncora), non c’è traccia nella carta, forse per inte-resse convergente delle autorità regie napoletane (vietare informazioni stra-tegiche) e romano-pontificie, nel cui ambiente la carta era stata realizzata e autorizzata, interessate a far spiccare nella rappresentazione, su quattro simboli, ben tre di indicazione religiosa. Altre difficoltà di decifrazione pro-vengono, inoltre, dalla coloritura talvolta sbiadita sui prospettini o dalle sbavature delle microcirconferenze dei tondini o dei punti non ben centrati all’interno degli stessi.

Grazie a tali specificazioni di didascalia è possibile comunque rico-struire un quadro del ruolo svolto da ciascuna città sul proprio intorno e, quindi, della importanza geografica delle varie subregioni interne del Prin-cipato, ma in maniera molto più precisa di quanto si sia potuto desumere dalla carta del Magini, relativa alla situazione territoriale di un secolo prima. Conteggiando i centri disegnati almeno con un prospettino di due torri, e quindi trascurando quelli qualificati con semplice tondino, si arriva a ben 143, sul complesso degli abitati provinciali (523), una cifra quasi doppia ri-spetto a quella maginiana (74), a sua volta parte di 502 centri17.

In valori percentuali, mentre le località assunte a “dignità urbana” dal Magini erano percentualmente il 14,7% del totale, De Rossi le solleva a quasi il doppio (27,3%). Nel quadro generale così delineato, e assumendo sempre a parametro la divisione regionale tracciata dal Ruocco, resta il se-gnalato squilibrio tra il nord e il sud provinciale, ma con delle significative variazioni quantitative: mentre la sbr della Penisola Sorrentina (24 toponi-mi), con i centri isolati di Salerno, Vietri e Cava, il solco Irno-Solofrana o agro sanseverinese-braciglianese-montorese (3 unità), con gli agri sarnese-nocerino (5 centri) e picentino (parte sud della grande sbr dei Monti Picen-tini) (5 unità) registrano in totale 40 centri di buon livello (9,3% del totale), per parte sua la sbr dell’Alburno-Cervati dimostra comunque una revivi-scenza funzionale “urbana”, con 20 centri, pari al 4,6% del totale, laddove 17 In realtà, essendo in numero di 92 le torri costiere “riesumate” dal De Rossi (rispetto alle 58 di Magini), il confronto tra gli abitati puri e semplici del primo (431) comporta tre-dici unità al di sotto di quelli maginiani (444).

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cent’anni prima si trovava a 9 centri (il 2,08% del totale); lo stesso accade per la Piana del Sele, che da 4 passa a 12 centri, e per il Cilento, compreso quello storico (37 centri in totale). Parecchie città settentrionali beneficiano inoltre di un rapporto diretto con la corona (con qualifica di terra di domi-nio o regia), come Salerno, Capri, Amalfi, Minori, Scala, Lettere.

Ancora più plausibile, data l’omogeneità dei dati, è la comparazione col Magini per quel che che riguarda i centri con funzioni religiose, laddove l’area settentrionale considerata detiene 15 città con Arcivescovado (Salerno e Amalfi) o Vescovado (Cava, Capri, Amalfi, Minori, Scala, Ravello, C. a mare di Stabia, Lettere, Sarno, Nocera), e abbadie (Vietri, La Trinita, Li Porlati = a ri-dosso di Positano, Materd.ne), mentre solo la Piana del Sele beneficia di due vescovadi (Campagna e Capaccio nuovo, che controlla quasi tutto il Cilento e l’Alburno-Cervati) e due abbadie (Eboli e S. Leonardo), essendo queste auto-revoli funzioni (vescovili) diradate e alquanto ridimensionate altrove (nel Cilento, Policastro e C.re della Bruca; nel M. Marzano, Cagiano).

Altrove sono segnalate rare abbadie: nel Vallo di Diano, a Padulla (la celebre Certosa), nel Cilento storico a Pattano (nota per il rito bizantino), nell’Alburno-Cervati a Controne e S. Pietro, dove è segnato l’unico caso di una bandiera alludente a un potere civile periferico (la Regia Udienza), con qualche dubbio sulla leggibilità del simbolo (che si confonde con una lettera alfabetica).

4.3 Toponimi di De Rossi a confronto con quelli maginiani Più proficua metodologicamente appare l’osservazione sulle variazio-

ni dei toponimi fra le due carte considerate. A tale scopo erano state allesti-te tre tabelle, per registrare rispettivamente i nuovi toponimi emersi, quelli scomparsi ma presenti in Magini, e quelli ancora persistenti. Poiché il ri-stretto spazio disponibile non consente di poterle riportare e commentare tutte, ci si limita qui a sintetiche osservazioni soprattutto sulle novità topo-nimiche (cioè alla prima delle tre tabelle, che qui assume il n. 2). Esse se-gnalano delle metatesi territoriali positive se non proprio progressive, deno-tanti quella che potrebbe chiamarsi una nuova territorializzazione, rispetto alla deterritorializzazione e alla stasi (che si potrebbero riscontrare nelle due tabelle per ora tralasciate).

Risultato: il De Rossi riporta 70 nomi di luogo diversi dal Magini (senza contare le torri) i quali, se non palesano proprio l’emersione demo-economica di alcuni centri, ne sottolineano la presa d’atto cartografica, os-sia l’acquisizione di conoscenza, parte di quella “microstoria delle esplora-zioni” cui si alludeva in premessa. Diversamente da quanto è stato fatto con la precedente carta (di cui si sono classificati tutti i toponimi, sia pure

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rispetto soltanto a sei tipologie), per brevità la stessa tipizzazione riguarderà solo questi toponimi inediti della tab. 2, che potrebbero essere indicativi di una diversa graduatoria di preminenze categoriali, nel loro significato quali-quantitativo18.

Annotando in primis il solo coronimo non maginiano presente (Valle di Diano), le attestazioni più frequenti hanno carattere religioso, in maggio-ranza nella formulazione relativa al santo (vedi in tab. 2 l’elenco da S. Angelo a S. Mennaio: ben 14 unità), altre diversamente topinimizzate (La Croce, Ma-ter dñe, Trinita); seguono 12 idronimi attinenti a centri (Saua, La sala, lamia, ecc.) o direttamente dichiarati corsi o specchi d’acqua con un prefisso o suffisso (fiume, rio, lago: cfr. Battipaglia f., Calore f., Forli Rio, Fiume Bianco, Sal-fone Rio, Vicentino f., oppure Lago grande, Lago di Buda, Pantano): va rimarcato, in quanto espressione di antropizzazione e insieme assunzione di nuova conoscenza, il fatto che ben 6 fiumi e 3 laghi siano ora riconoscibili in carta e non più innominati come in Magini! Anche due fitonimi hanno questa ca-ratteristica di nuova assegnazione nominale a simboli di alberelli (Bosco d’Euvoli, Bosco di Presciano) mentre altri 8 segnalano centri prima sconosciuti, il cui significato profondo attiene alla vegetazione spontanea o coltivata (A-cerno, Carintella per Cornitella, Carnati per Cornuti, Celso, Cirasa, Lafarnetta, O-leuano, Oliuito). Tab. 2 - Toponimi presenti nella carta del De Rossi e non in quella di Magini (torri escluse)

ACERNO Battipaglia f. Fiume Bianco Lago di Buda Caiano Calore fiume La Cangena Carintella Carnati M. Celito Celso Cirasa Compri La Croce Valle di Diano Bosco d’Euoli Forli Rio Furore Li Galli Lago grande S. Idelfonso Lafarnetta Lammia Lazzarolo Learola Liporelli Lomente Lunatonte Massacouia Massicello Mater dñe Nocera Noue Oleuano Oliuito Pantano Passitano Petroco Porano Bosco di Presciano Prignano Quaglietta S. Angelo S. Angelo delle Fratte S. Leonardo S. Lorenzo S. M. della Torre S. Maria S. Maria S. Maria S. Maria S. Maria S. Maria S. Mattia S. Mauro S. Mennaio La Sala Salfone Rio Saua Serre Solaro Tauerna Terminella LaToricella Borraccia Torricella Tramonti Trecchia Trinita Vicentino F.

18 Nella prevista riscrittura più completa e sistematica di questa ricerca saranno sempre contemplate tre tabelle per il blocco di toponimi presente in ogni carta, possibilmente con l’ausilio di un data base, onde avere una visione incrociata e dinamica del fenomeno. Con questo sistema saranno monitorate (nei toponimi e nei simboli) decine di carte storiche, fino alle attuali, con la possibilità di ricavare, fra l’altro, l’indice di dispersione (o obliterazione), l’indice di rinnovamento e quello di persistenza dei toponimi.

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Concludendo, in analogia con quanto operato in precedenza, diamo un rapido ragguaglio sullo “strato” etimologico originario dei toponimi ine-diti e sulla loro diffusività areale: tra i nuovi centri cartograficamente pre-senti, 5 richiamano attività agricolo-pastorali (Compri per Campora, Massa-couia per Massascusa, Massicelle, Noue e Quaglietta), 4 sono legati a forme e natura del terreno (Lomente per Lo monte, Petroco per Petruro, Serre, Trecchia, quest’ultimo a significare luogo aspro e selvaggio), 4 hanno forma linguisti-ca di prediali latini (Caiano, Passitano, Porano e Frignano), mentre tutti gli altri rientrano nelle categorie significazionali qui non considerate (a parte gli iso-lotti Li Galli e Tauerna, si tratta degli abitati di Lunatonte per Limatonti, Ter-minella e Tramonti) o non si lasciano decifrare nel loro etimo (centri di Furore, La Cangena, Lazzarolo, Learola, Liporelli, Solaro); a parte c’è una Torraccia e una Torricella, posta all’interno per captare i segnali provenienti da torri costiere (cfr. paragr. 7).

Sotto il profilo della distribuzione spaziale il Cilento si avvantaggia con una ventina di toponimi (6 santi, 5 pertinenti all’agricoltura, 4 fitonimi, 1 agionimo e 1 oronimo), la Piana del Sele e la Penisola Sorrentina si arric-chiscono con una decina di toponimi a testa (idronimi e agionimi in mag-gioranza nel primo caso, agionimi nel secondo); seguono i Picentini con 8 toponimi, specie del tipo fitonimi, quindi l’agro nocerino-sarnese e monto-rese con 5 toponimi, specie prediali, e tutte le altre sbr (Cilento storico, Vallo di Diano, Monte Marzano, Alburno-Cervati, Catena della Maddalena-Alta Valle Agri), ciascuna con uno o due toponimi (idronimi e santi in maggioranza), spesso di significato indecifrabile: se ne deduce che l’estremità meridionale del Principato difetta, comparativamente con le altre sbr, di conoscenza cartografico-toponimica e, quasi inevitabilmente, di svi-luppo generalizzato. 5. Geografia e toponomastica metamorfosate in una carta tardo-settecentesca del Princi-pato Citra, a firma Von Reilly

Questa raffigurazione appartiene a un atlante, stampato a Vienna dal Von Reilly e poi successivamente apparso in voluminose e disparate colla-zioni di carte, di cui 100 riservate all’Italia e 25 al Regno di Napoli. Stavolta si tratta sì del solito Principato di Salerno, ma ricavato in primis dalla carta parigina del Galiani-Zannoni (Valerio, 1993, pp. 93-98 e fig. a p. 94; Vale-rio, 1994, pp. 73-74) e non più totalmente da quella del Magini.

Ciò nonostante questo prodotto, avendo carattere soprattutto cultu-ral-divulgativo, rappresenta un arretramento rispetto a carte consimili già apparse nell’editoria, come ricopiatura di quel nuovo modello-base, almeno

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per quanto riguarda i rilievi, che vi appaiono ancora nella simbologia di de-rivazione maginiana, nella fattispecie delle gobbe lumeggiate di De Rossi, ma liberate definitivamente dal cerchietto che le faceva confondere coi cen-tri abitati; per il resto, dal principale prototipo è stato ricavato solo l’essenziale della geografia fisica ed antropica (toponomastica compresa, come si vedrà), non senza tuttavia che sia riprodotta la vera novità territo-riale e cartografica, ossia il tracciato della strada delle Calabrie (merito di Carlo III di Borbone), che taglia trasversalmente il Principato e ha come unico diverticolo il tratto che da Eboli porta al casino reale di Persano. An-che il bosco compare nel suo esatto perimetro, calibrato sul perfetto angolo di confluenza (finalmente reso acuto!) del Calore nel Sele.

Fig. 4 Franz Johann Josef von Reilly, Die/Neapolitanische/Landschaft/Principato di Saler-no/oder/Principato Citra/oder das/Diessettige Furstenthum/Nro: 443, Vienna, 1789. Cm 47,5 x 54 [nel riquadro: cm 28 x 35]. Scale: Deutsche Meilen 15 auf einen Grad. e Gemeine Italianische Meilen 60 auf einen Grad. Scala nel riquadro a destra: Deutsche Meilen 15 auf einen Grad. Scala nel riquadro a sinistra: Deutsche M. 15 auf einen Gr. Orientamento: nord in alto.

Nel puntinato rosso dei limiti amministrativi e in quello rosso conti-

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nuo della linea di costa è compreso l’organismo provinciale, “mutilato” agli estremi per esigenze di spazio e ricomposto con l’uso di due “finestre”, cia-scuna con la sua specifica scala in miglia germaniche, in presenza di due scale (in miglia italiane oltre che tedesche) riferite al corpo principale del di-segno. Nel rettangolo posizionato sul Golfo di Salerno è disegnato lo spez-zone della Penisola Sorrentina con Capri, mentre in alto a destra figura il settore sud-orientale del Cilento, una sorta di mezza luna arcuata tra Palinu-ro e il Golfo di Policastro e spinta all’interno fino a una linea ideale tra Tor-raca e Catona.

Le sedi umane compaiono, se minori, coi soliti tondini, che sono af-fiancati da un prospetto di due o tre torrini nel caso di centri ragguardevoli, esaltati anche da una scritta toponimica in tondo, a corpo più grande rispet-to al corsivo dei primi. In virtù di tali contrassegni, solo 36 centri si distin-guono sul totale di 224 abitati veri e propri, con una percentuale del 16%. Nella scrematura che l’A. fa della copertura antropica, sembra si salvi solo, per vigore “urbano”, Salerno, la sbr della Penisola Sorrentina con Capri (8 centri: Ano-Capri, Gragnano, Scala, Amalfi, Minuri, Ravello, Lettere e Tramonti), il Cilento, compreso quello storico (11 unità: Agropoli, Pollica, C. Nuovo, C. a Mare della Brucca, Vibonati, Ab. Marco, Cuccaro, Camerota, Policastro e Centola) e parzialmente, da un lato, la Piana del Sele e i bassi Picentini (rispettivamen-te, con Capaccio Nuovo, Altavilla e Campagna, e Monte Corvino, Acerno e Contur-si), dall’altro il Vallo di Diano (Diano, Sassano, la Salla) e l’alta Val d’Agri (Marsico Nuovo, Saponara, Moliterno). Le altre sbr presentano ciascuna 2 centri importanti: Nocera e Sarno nell’agro, Buccino e Caggiano nel M. Marzano, Sici-gnano e Postiglione nell’Alburno. Declassati risultano i centri del Montorese-agro braciglianese, Vietri, la stessa Cava e l’abbazia della SS. Trinità.

Il corredo toponimico di questo autore è molto ridimensionato ri-spetto ai precedenti: si contano 354 nomi, escludendo le sole quattro torri denominate (T. Pinta, T. Piana, a Gaisella, Il Capitello: cfr. paragr. 7). La diffe-renza tra questa cifra e quella dei toponimi riferiti a centri assomma a oltre cento (130), dedicati – ed ecco la vera novità di questa carta! – soprattutto a fiumi e monti. Quanto ai primi, si passa dai sei nomi maginiani ai 13 del De Rossi fino ai 25 di questa carta: un numero raddoppiato di volta in volta, dunque, tra cui spiccano Alento, Apiceglia, Busento e il suo affl. La Ferriera, Caulo e Maglio (affluenti dell’Agri), Pastena (fiume che sfocia ad Agropoli, deformato oggi in Testene), Torno (affl. del Melandro), Foraone (attualmente tramutato in “Faraone”, nasce dal M. Pruno), Majale di Logna e Mayale di Colliano (affluenti di sinistra del Sele, come il Tremite, oggi Temete), Paliso (oggi Palistro), Tenza e Trojente (nascono dal Polveracchio). Le alture si avvi-cinano alla trentina (27) e, ancor più dei fiumi, propongono delle trascrizio-

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ni più vicine a quelle che siamo abituati a leggere nelle carte attuali, a parte il suffisso berg: Adler, Alburno, Antilia, Calimarco, Cavallero, Centaurino, Cervati, Lagorosso, Latario, Magadalena (oronimo che si credeva attribuito solo recen-temente dal T.C.I. alla catena omonima), Majano, Modulo, Novara, S. Adutore, ecc. Il Von Reilly, oltre al Diano Thal, riporta anche il Raja Thal, mostrando un minimo di propensione in più per i coronimi vallivi, oltre i soliti riguar-danti i golfi e i mari.

Nonostante l’apparato dei nomi sia di 165 unità inferiore a quello ri-portato dal De Rossi, questa carta propone, grazie naturalmente alle acqui-sizioni tratte dal rilevamento del Galiani-Rizzi Zannoni, ben 155 nuove de-signazioni (a parte le quattro citate torri), delle quali un assaggio si è appena fatto riferendo degli idronimi e degli oronimi. Lo scarso spazio a disposi-zione e il rischio di ripetizioni sconsigliano di procedere, diversamente da quanto si è fatto con le precedenti carte, all’analisi tipologico-categoriale della neo-toponomastica qui esibita, che riflette maggiormente quelle zone del Principato meglio rilevate nella Carta della Sicilia Prima, in quanto più raggiungibili attraverso le disagevoli vie di comunicazione terrestre all’epoca esistenti. 6. Il particolare quadro geo-toponimico della carta amministrativa del Marzolla (1830)

Non si può apprezzare questa carta se non confrontandola con quella del Bartoli-Galiani di un quindicennio prima, rispetto alla quale la nostra riveste uguale se non maggiore rilevanza geografico-amministrativa (Vale-rio, 1994, pp. 89-92). Autore ne è Benedetto Marzolla (1801-1858), celebre cartografo e geografo brindisino operante già dal 1821 nell’Officio Topo-grafico di Napoli (dove si specializzò nel disegno litografico) e autore di ben 130 carte a stampa, prodotte anche in un proprio stabilimento geogra-fico, le quali gli diedero lustro presso tutti i cartografi dell’Ottocento, che lo presero a modello per le loro carte regionali (ciò varrà anche per il presti-gioso Atlante d’Italia dello Zuccagni Orlandini). Siamo in un periodo in cui la scienza e la tecnica topografica sono già progredite al punto di “archivia-re” le vecchie raffigurazioni di tipo qualitativo e simbolico, per approdare a una resa quantitativa ed esatta delle forme e della copertura del suolo.

Questo “pezzo” appartiene alla prima edizione del suo Atlante (in scala 1:420.000 circa, con leggere varianti a seconda della provincia rappre-sentata, che nel nostro caso si dettaglia a 1:416.000), che fu replicato alla stessa scala nella seconda edizione del 1837 e ridisegnato e riallestito ex no-vo, con costanti aggiornamenti, tra il 1848 e il 1852, in scala 1:280.000, regi-strando una seconda e ultima edizione nel 1858, poi malamente contraffatta

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in una replica postunitaria. L’importanza documentaria di queste carte, esal-tata peraltro dalla mancata realizzazione della carta del Regno a scala 1:80.000, si deve anche alla ricca e dettagliata informativa geografica che fa loro da contorno.

Fig. 5 Benedetto Marzolla, Provincia di Principato Citra [Atlante Corografico Storico e Statistico del Regno delle Due Sicilie], 1830. Cm 56 x 72,5 [nel riquadro: cm 41 x 58,5]. Scala di miglia 90 da 60 al grado (1:416.000). Orientamento: nord in alto.

Nel nostro caso specifico, all’interno della divisione amministrativa

intra-provinciale nei classici distretti e circondari, sono riportati dati demo-grafici delle singole località, quindi la ripartizione diocesana, le dogane e i tribunali provinciali, nonché cenni storici e ragguagli su prodotti e manifat-ture. Sul piano più strettamente cartografico mancano Capri e il versante settentrionale dei Lattari (compresi Castellammare e il basso bacino del Sarno), territori tutti passati coi Napoleonidi alla provincia di Napoli (che diventa, affiancandosi a Parte di Terra di Lavoro, territorio confinante a nord), nonché l’alta valle dell’Agri, confluita nella Basilicata. Sono inoltre mante-nuti i vantaggi già presenti nella citata carta del Bartoli-Galiani datata 1817, con delle varianti anzi migliorative: rilievo in tratteggio lumeggiato che fa ben risaltare gli spartiacque; tracciati aggiornati delle strade, migliorate e in-

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crementate di numero dai Borboni per realizzare un’organizzazione poli-centrica del territorio che, facendo perno non più solo su Napoli ma su tut-ti i centri provinciali e capoluoghi di distretto, creasse anche una rete viaria periferica; numero maggiore di centri posizionati e gerarchizzati sia nel ca-rattere trascrittivo del toponimo che nel corrispondente simbolo affiancato (stavolta la distinzione è tra Capo Circondario, Comuni, Uniti e Villaggi); classificazione delle strade (tripartite in Régia Postale, Rotabile e non Rotabile, con l’aggiunta di un simbolo per ogni Rilievo di Posta).

6.1 Aree di relativo sviluppo e aree periferizzate È evidente, a questo punto, come la gerarchia dei centri sia già trac-

ciata dal punto di vista amministrativo, rispondente a noti parametri demo-grafici (controllabili nei quadri statistici ai margini della carta) ma anche so-cio-politici, che avevano a che fare con i poteri accordati alla periferia e con la sua più o meno dimostrata “fedeltà” al potere centrale dei Borboni19.

La scansione in circondari è ovviamente più fitta nelle aree di mag-giore addensamento della popolazione (nord-ovest del Principato e, in mi-nore misura, Cilento storico) che altrove. Per rendersene conto, basti vede-re il perimetro esterno e il disegno interno dei 4 distretti (Salerno, Sala, Campagna, Vallo), che – come ci educe la stessa scritta in testa alla tabella – comprendono «44 Circondari, 158 Comuni, e 257 Uniti», assimilabili alle frazioni degli attuali comuni. Esaminando la stessa tabella, quei distretti comprendono, nell’ordine, 17, 7, 10 e 10 circondari: i toponimi di questi 44 centri, che danno appunto il nome al circondario, essendone capoluoghi, sono le “stelle” di seconda grandezza rispetto a quelle più luminose dei ca-poluoghi di distretto (Salerno, Campagna, Sala e Vallo)20.

6.2 Confronto tra toponimi della carta di Marzolla e toponimi delle carte prima

considerate

19 I criteri di ripartizione amministrativa e la definizione della taglia dei centri risaliva alla riforma murattiana (legge n. 489 del 1809), modificata successivamente dai Borboni. A ri-dosso della data di pubblicazione di questa carta del Marzolla c’era stato il Decreto n. 1876 del 25 Gennaio 1820, che apportava alcune rettifiche «sulla circoscrizione de’ Comuni e circondarj de’ domini al di qua del Faro» (Coll. LL.DD., a. 1820, p. 79 e sgg.). 20 Quello di Salerno riporta 113 toponimi e uniti; Sala è dotato di soli 32 toponimi, mentre Campagna e Vallo denunciano, rispettivamente, 40 e 71 toponimi di luoghi abitati. Si tratta di 256 toponimi, ai quali vanno aggiunti altri 77 nomi locali trascritti nel campo di rappre-sentazione della carta, per un totale di 333 unità, che rappresentano il complessivo contri-buto toponomastico offerto dal Marzolla. In realtà, alcuni toponimi figurano a volte in en-trambi i casi, e per questo sono stati opportunamente selezionati, per evitare un doppio conteggio.

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Come si poteva immaginare, i toponimi inediti riportati dal Marzolla rispetto al Von Reilly costituiscono una bella somma (181, cioè il 55,4% del totale), ma tale novità è scarsamente significativa, visto lo scopo umanistico della carta olandese e i fini rigidamente statistici del rilevamento marzollia-no, fatto “a tappeto” e monco solo di alcuni dei nomi dei casali “uniti” (237) ai comuni citati. È parso allora più indicativo comparare la topono-mastica marzolliana con quella emersa nelle quattro carte precedentemente esaminate e scelte per la comparazione. Come positiva sorpresa, si rilevano ben 93 toponimi mai registrati fino a quel momento, che sarà utile sotto-porre subito alla classificazione tipologica già adottata, questa volta però chiamando in causa tutti e 13 gli items dello schema, per comprendere quali aspetti del paesaggio e/o delle attività umane hanno lasciato di più il loro segno nominale.

6.3 Aspetti qualitativi e distributivi della toponomastica marzolliana, in compa-

razione con quella precedente Lasciando fuori dalla classificazione, sui 93 complessivi, 7 toponimi

ritenuti per ora indecifrabili in questa rapida carrellata interpretativa (Anna, Camella, Candolizzi, Galvo, Liporta, Mirichi, Sieti), in testa alla graduatoria tro-viamo – fra quelli di significato quasi sicuramente accertato – la categoria dei fitonimi, con 14 attestazioni (15% del totale 93) per la maggior parte na-turali (Calitto per Salitto, Cannicchio, Cardile, Carpineto, Castagneta, Cornia, Filet-to, Lone, Malloni, Salvia, Sorbo) e solo in due allusive a coltivazioni (Ogliara, Cicerale). Pressoché alla pari come incidenza (13 unità, ossia il 13,9%) sono dei nomi locali legati alla natura, forma e altri aspetti visibili del terreno che, esclusa Scala (richiamante un “costruito” antropico, comunque reso obbli-gato, per le comunicazioni, da una morfologia accidentatisima), apparten-gono tutti all’ordine fisico-naturale (Giovi, Le pietre, Pareti, Pennazzi, Penta, Pogerola, Raito, Sordina, Torello, Vallo, Valva, Vetranto).

Va subito rimarcato che a quest’ordine di natura si riconnettono, nel novero dei toponimi in parola, soltanto altri 4, di cui tre idronimi (Acqua di vena, Cavitignano, Dragonea) e uno forse ascrivibile a fauna ittica (Angellara), che porta a 28 la loro quota, collocandola al 30% del totale. Il rimanente 70% dei nomi nuovi, dunque, fatta salva la lieve sfalsatura statistica indotta dai “non classificati”, riguarda aspetti della geografia umana, il che non me-raviglia, dato il carattere “progressivo” insito nella nuova geografia ammini-strativa inaugurata dai Napoleonidi e saggiamente proseguita dai Borboni. Non a caso, con 13 unità, guidano questo drappello di toponimi quelli che indicano direttamente un insediamento, fortificato, rurale, moderno o anti-co che sia (Borgo, Castelpagano, Castelruggiero, Caselle, Corpo, Corti, Corticelle, Roc-

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cadaspide, Rocche, Rocchetto, Avanzi di Pesto, Vetrale, Villa). A pari merito (11 casi) seguono centri dedicati al nome di un santo o comunque nobilitati dal-la presenza di una riconosciuta autorità religiosa (Laureana, Piscopia, S. Cesa-reo, S. Clemente, S. Egidio, S. Giacomo, S. Nazaro, S. Nicola, S. Tecla, S. Valenti-no, Sperandei), insieme a prediali romani (Brignano, Calabrano, Cesarano, Corsa-no, Fasano, Fasciano, Ostigliano, Pasciano, Pucciano e Spiano), impregnati di sicu-ra vocazione agricola, che fa tutt’uno con quella insita in altri 8 toponimi denotativi dell’attività primaria (Campora, Caprecano, Capriglia, Oria, Pagliarone, Pastena di Salerno e Pastena di Amalfi, Pastorano). Completano ma non chiu-dono l’elenco, rispettivamente con 6 e 5 testimonianze, toponimi da co-gnomi e nomi personali e collettivi (Arcari, Baronissi, Benincasa, Cicalesi, Rufo-li, Santesi) o evocanti attività extragricolo-artigianali di un certo peso nella società ottocentesca (Ferrari, Fusara, Giffoni Valle e Piana, Molina, Pellare).

Comparando questi toponimi con quelli incontrati nelle quattro carte precedenti, non si può non annotare, da un lato, quanto la trascrizione sia in genere molto più “corretta” o per lo meno controllata, dall’altro la netta preponderanza dei loro significati antropici, che superano i due terzi del to-tale, a fronte di denominazioni legate – nelle carte sei-settecentesche – a fatti quasi esclusivamente naturali, se non fosse per l’abbondanza degli a-gionimi, chiara espressione di una civiltà ancora legata, nella sua insicurez-za, a comprensibili “mitologie” religiose (fatto salvo il rispetto che si deve alla fede autentica del popolo) e non ancora sconvolta dalla “rivoluzione” culturale e tecnologica borghese.

Quanto tale “rivoluzione” fosse radicata su alcuni territori anziché al-tri, lo si ricava dall’analisi distributiva, all’interno del Principato, di questi nuovi nomi, condotta sempre secondo la subregionalizzazione del Ruocco, sia pur adattata a quella amministrativa del Marzolla, che si è preferito non scegliere, in quanto non avrebbe consentito un confronto con le riflessioni spaziali fatte sui toponimi delle carte precedenti, benché nella sua precisio-ne di ritaglio avrebbe facilitato il nostro compito localizzativo.

In tutta evidenza la sezione nord-occidentale del Principato, corri-spondente all’intorno di Salerno (Picentini meridionali, agro sanseverinese-montorese-fiscianese, Valle dell’Irno, Cava e Vietri), all’agro nocerino-sarnese e alla Costa Amalfitana – in assenza ormai del versante sorrentino –, viene valorizzata amministrativamente e sotto il profilo toponimico, rac-cogliendo 67 località censite, di cui 46 nel primo gruppo e 21 nel secondo. In realtà, queste varie sbr erano state accorpate dai Napoleonidi nel vasto distretto di Salerno, comprendente 113 circondari e una popolazione di 202.933 abitanti sui 505.556 della provincia (40,2% del totale), certamente i più attivi e produttivi del contesto provinciale. Anche il Cilento e il Cilento

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storico, rientranti ora nel Distretto di Vallo, ottengono questo riconosci-mento amministrativo per l’ulteriore infittirsi del loro insediamento, ospi-tante 93.200 anime, in condizioni di vita leggermente migliori a quelle degli altri due distretti confinanti.

La vera e propria “periferizzazione” amministrativo-toponimica, specchio di quella economico-insediativa, riguarda Piana del Sele, Valle Ca-lore, Alburno, Monte Marzano e Vallo di Diano, inquadrati nell’amplissimo distretto di Campagna e in quello quasi altrettanto vasto di Sala, che man-tengono circa 105.000 abitanti ciascuno, assai rarefatti all’interno dei soli 17 spaziosi circondari che li ritagliano internamente, alternando estese plaghe impaludate (pianura silariana e Vallo dianense) ad aspre montagne. 7. Paesaggi e identità microlocali riflessi o caratterizzati dalle torri costiere

Alcuni proverbi, canzoni e tradizioni popolari giunti sino ai nostri giorni custodiscono la memoria storica dei secoli in cui le coste dell’Italia Meridionale erano afflitte dalle temibili incursioni di pirati e corsari21, cessa-te del tutto solo con la conquista francese di Algeri del 1830 (Russo, 2002, p. 128). Se i terrificanti ricordi di quei tempi vivono tuttora nei ‘paesaggi in-visibili’ dell’immaginario collettivo dei popoli del Mediterraneo, le loro ve-stigia si conservano parimenti nei paesaggi visibili e diroccati delle numero-se torri costiere, così come nella loro toponomastica.

Tramandati di generazione in generazione, conservati nelle carte geo-grafiche e nei documenti d’archivio, i nomi originari di molti micro-fortilizi, quali scrigni di epoche lontane e lontanissime22, contengono informazioni preziose, legate alla storia delle dominazioni succedutesi nel Sud Italia (bi-zantini, longobardi, normanni, svevi, angioini e aragonesi) prima dell’arrivo degli spagnoli in età moderna. Sono però soprattutto questi ultimi ad avere avviato la progettazione e costruzione di una catena ininterrotta di fortifica-zioni a base quadrata, che arricchivano la tipologia precedente (in periodo svevo-angioino era prevalsa la forma cilindrica) 23.

21 Per una opportuna distinzione di queste “figure” di assalitori, cfr. Aversano, 1976, p. 395. 22 Le torri costiere esistevano invero già prima dei romani, che «le usarono contro i pirati fino a quando ebbero il completo predominio del Mediterraneo, perciò detto Mare No-strum» (Aversano, 2004, p.1), per essere ulteriormente edificate nel corso del Medioevo. 23 Ciò avvenne con un provvedimento del 1532 a firma del Vicerè don Pedro di Toledo, ripreso e concretizzato nel 1563 dal suo successore, don Parafan de Ribera duca d’Alcalà, a seguito delle frequenti e rovinose scorrerie turche agli inizi del XVI secolo e in previsione dei possibili attacchi della flotta francese, tradizionalmente ostile alla Spagna (Mafrici, 1988, p. 75). Furono così erette oltre 300 torri lungo le coste del Regno di Napoli (cfr. no-

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Le diverse forme e strutture, le circostanze storiche della nascita e i caratteri geografici dei siti originari delle torri costiere non potevano non riflettersi nei toponimi di queste ultime, presenti in tre delle carte del Prin-cipato Citra qui considerate24. Dal che deriva il loro interesse geografico, accentuato anche da qualche iniziale, piccolo e intrigante ‘rebus’. Il più evi-dente, di tipo quantitativo, riguarda la discrepanza tra le 58 torri riportate sulle coste dalla carta del Magini, a cui fedelmente si rifà quella del Blaeu, e le 92 presenti nella carta del De Rossi25. Pur essendo del tutto plausibile i-potizzare la costruzione di altre fortificazioni negli anni intercorsi tra la stampa della prima e della terza carta, l’ipotesi vacilla in considerazione dell’alto numero (83) di toponimi (tutti composti) di torri costiere presenti nella Carta del Principato Citra di M. Cartaro e C.A. Stigliola, già delineata tra il 1590 e il 1594 (Valerio, 1994, pp. 59-61).

Il ‘mistero’ della singolare omissione maginiana risiede nella pericolo-sità di un manufatto che, rivelando l’esatta ubicazione delle torri, le avrebbe esposte al pericolo di ulteriori e meglio organizzati attacchi, soprattutto in considerazione dell’alleanza anti-spagnola stretta, alla fine del XVI secolo, tra l’Inghilterra, la Francia e i Paesi Bassi. Ma, discrepanze numeriche e stra-tegie politiche a parte, in tutte e tre le carte si ripetono alcuni toponimi par-ticolarmente evocativi della storia delle torri costiere e, dunque, dei territori su cui insistono. Uno dei leit motiv ricorrenti è ovviamente legato alla paura atavica e persistente verso le incursioni dei pirati del mare, a cui probabil-mente si riferisce la “Torre del Buondormire”, nel Golfo di Policastro: que-sto rassicurante toponimo composto (T. buodormire in Magini, T. bu dormire in Blaeu, T. Bondormire in De Rossi), nella sua chiara natura connotativo-emozionale, sembra evocare la placidità di un mare finalmente calmo, la tranquillità di un luogo non più agitato dal terrore di improvvise, terrificanti

ta 5), da Gaeta alla Calabria (D’Arienzo, 1989, p. 315). 24 Sono stati esaminati alcuni dei toponimi di torri costiere presenti nelle carte del Magini (58 toponimi, di cui 20 semplici e 38 composti, cioè con un appellativo aggiunto al termine “torre”), del Blaeu (58 toponimi, di cui 23 semplici e 35 composti) e del De Rossi (93 to-ponimi, di cui 2 semplici e 90 composti). La carta del von Reilly, stilata a meri scopi cultu-rali, ne riporta infatti solo 4 (T. Piana, T. Pinta, Il Capitello, a Gaisella), mentre la carta ammi-nistrativa del Marzolla non ne riporta alcuno. 25 Da altre fonti si apprende che nel 1567 il Regno di Napoli conta 313 torri (aumentate a 339 nel 1580), di cui 91 costruite nel Principato Citra e in Basilicata (Mafrici, 1988, p. 42). Tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, il numero aumenta di sole due unità, rima-nendo stabile sino al 1748, quando le 93 torri del Principato Citra fanno parte delle 379 costruite in tutto il Regno (ridottesi a 359 nel 1879, molte delle quali, però, cadenti: Vassal-luzzo, 1989, p. 576).

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aggressioni notturne26. Alla presenza dei terribili mori fa esplicito riferimento anche il topo-

nimo “Torre Calamoresca” (T. Calamoresca in Magini e Blaeu, T. cala More-scha in De Rossi), collocato a sud-ovest della precedente, con il suo eviden-te richiamo ai musulmani berberi, «gente peligrosa y poco segura que, naturalmente, nos ha da tener odio y aborrecimiento» (Mafrici, 1988, pp. 33-34), che evidente-mente avevano ivi stabilito una “testa di ponte” da cui partire per incursioni in zone viciniori. Quanto ciò corrispondesse al vero e quanto timore ci fos-se nei loro confronti è confermato dalla prossimità, a questa torre, di molte altre consimili, tra cui quelle di Infreschi (T. l’Infresco in Magini e Blaeu, T. de C. Lanfrescho in De Rossi)27 e di Cala Bianca (T. Calabianca in Magini e Bla-eu, T. del C. Bianco in De Rossi), poste a protezione di un territorio più volte colpito dalle incursioni corsare28, sia per la presenza di un porto naturale, dove sostavano felucche e vascelli diretti dalle città del Regno verso la capita-le (Brigantino-Il Portale del Sud, 2008), sia per la esistenza di numerose e appetibili sorgenti d'acqua dolce lungo la costa (cosiddette “acquate”, rifor-nimenti indispensabili per i navigli turchi), la cui costituzione rocciosa e cal-careo-dolomitica (per la sua permeabilità e il colore chiaro) è puntualmente richiamata dai toponimi29.

Alla necessità di un’adeguata difesa armata sembrano invece fare allu-sione la “Torre delle armi”, la “Torre Petrosa” e la “Torre del Mortaro” (T. dell’arme e T. lapetrosa, in Magini e in Blaeu, nel Golfo di Policastro; T. del Mortaro in De Rossi, nel Golfo di Salerno), tre toponimi denotanti funzioni

26 È noto, infatti, che «turchi o mori […] sbarcavano, con il favore delle tenebre o alle prime luci del giorno nascente, sulle spiagge del Regno, seminando il terrore in villaggi i-nermi» (Mafrici, 1988, pp. 33-34) e che pertanto le torri avevano innanzitutto il compito «di avvistare e segnalare la presenza del nemico, al fine di sottrargli il vantaggio del fattore sorpresa» (Aversano, 1976, pp. 398-399). Non è poi tanto difficile immaginare il suono incessante della campana d’allarme all’avvistamento di un naviglio corsaro, le segnalazioni dell’imminente sbarco inviate alla città o al villaggio più vicino, l’accorrere delle truppe di-sponibili, mentre la popolazione, abbandonando ogni attività, metteva in salvo il salvabile. 27 La torre di Infreschi, di più antica costruzione, è riportata nel 1277 in un documento di Carlo d’Angiò con cui il sovrano ordinava al Giustiziere di Principato Citra di assegnare la custodia e la manutenzione della torre alle università di Camerota e S. Giovanni a Piro (Camera, 1876, p. 14). 28 Le cronache ricordano il funesto saccheggio di Lentiscosa, Camerota e Licusati per ope-ra dei corsari di Dragut Rayiz, capitano-pascià e comandante della marina turca (Briganti-no-Il Portale del Sud, 2008 e Mafrici, 1988, p. 33). 29 Da Cala Moresca si potevano anche controllare le partenze dei navigli che i Mori prefe-rivano assaltare sotto costa, secondo quanto ha meritoriamente dimostrato il Russo (Rus-so, 2001, pp.123-124).

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di vera e propria difesa e non di semplice avvistamento30. Come ulteriore funzione si può considerare il gravitare intorno alle torri di attività artigiane e commerciali di vario genere (Mafrici, 1988, p. 70), che le avrebbe nel tempo trasformate in veri e propri ‘poli’ di sviluppo economico, «indici ori-ginari di futuri centri costieri, magari sdoppiati» (Aversano, 2004, p. 3)31. La costruzione stessa delle torri, per lo più a carico delle università prossime alla costa, rappresentava infatti un’occasione di ingaggio e guadagno per le maestranze locali, tra le quali rientravano anche quelle dell’interno, giacché era stato necessario costruire una serie di ulteriori torricelle (Toricella in Ma-gini e in Blaeu; Torricella in De Rossi) che, a vista di quelle costiere, trasmet-tessero i segnali di pericolo alle popolazioni distanti dal mare.

Nonostante questo vantaggio, le popolazioni interne talora si rifiuta-vano di contribuire alle spese di costruzione delle torri, il che fu una delle cause dei rallentamenti e degli inconvenienti di varia natura, ostative del lo-ro corretto funzionamento (proteste delle collettività gravate dai costi di fabbricazione; frodi commesse dai costruttori; scarsa manutenzione; ab-bandono del posto di guardia da parte dei soldati; distruzione turca delle torri lasciate incompiute per mancanza di fondi: Aversano, 2004, p. 3). Non a caso molte postazioni costiere fatte costruire dal Ribera «erano già in ro-vina alla fine del sec. XVI, sia per la scarsa manutenzione, sia per le frodi commesse dai partitari», ossia dagli imprenditori che si erano aggiudicati l’appalto dell’opera pubblica (Mafrici, 1988, pp. 65 e 67)32.

Molti altri interessanti toponimi di torri costiere emergono dalle tre

30Le torri erano dette “semaforiche” o “cavallare”(«perché il custode si serviva di un caval-lo per raggiungere, in caso di pericolo, il più vicino posto militare») se adibite al semplice avvistamento. Se dotate invece di funzioni di preliminare difesa, erano definite “di vedet-ta”, “di difesa” o “di sbarramento” (Aversano, 1976, p. 397). Le armi in dotazione di que-ste ultime, inoltre, erano costituite «da una colubrina, da una piccola catapulta chiamata petriera e da colubrine più piccole e maneggevoli definite pezzi minuti o colubrinelle» (D’Arienzo, 1989, p. 321). 31 Fatti geografici di rilievo sono proprio la gemmazione di centri (tra cui Capitello, Torre-orsaja) e la spinta all’”integrazione funzionale” tra il mare e le alture. Le torri furono inol-tre impiegate anche per ulteriori scopi: da cordone sanitario contro la peste che infierì vio-lentemente nel Regno di Napoli nell’anno 1656, a luogo di appuntamento per il contrab-bando, a nascondiglio di armi e di cospiratori, dopo i moti insurrezionali anti-borbonici della prima metà del XIX secolo (Vassaluzzo, 1989, p. 580). 32 Non erano infatti rari i casi in cui costruttori disonesti, abili nell’erigere muri vuoti, usa-vano abitualmente materiali inadeguati, come malta scadente e acqua di mare. Di questo mondo brulicante di miserie, brogli e truffe offre fedele testimonianza un toponimo origi-nale come Torre Spacca la preta (presente nella sola carta del De Rossi), cosiddetta appunto perché nel 1600, dopo appena «due anni dalla costruzione, crollò per “mala fabbrica”» (A-versano, 1976, p. 399).

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carte considerate, la cui comprensione esigerebbe tuttavia maggiore spazio per i necessari approfondimenti della storia evenemenziale di ciascuno di loro e del paesaggio dei luoghi su cui insistono, da esse, a propria volta, pla-smato33. È certo che la Provincia di Salerno offre ancora oggi numerosi e affascinanti esempi di queste rovine, tra «muri sbrecciati, feritoie diroccate, pietre patinate dal sole e dalla salsedine […] in un rapporto di simbiosi di rara efficacia […], quasi che [le torri] siano divenute parte integrante ed omogenea del paesaggio» (Aversano, 1976, pp. 402-403). Il loro stato di conservazione, purtroppo non sempre ottimale, dipende spesso da investi-menti privati volti al loro riutilizzo in chiave turistica o eno-gastronomica34.

Data dunque l’abbondanza e l’importanza storica dei ruderi delle torri disseminate lungo le coste del salernitano, è lecito chiedersi in che propor-zione la loro presenza continui ad essere attestata dalle moderne carte to-pografiche (tavolette al 25.000) raffiguranti la Provincia di Salerno, prodotte dall’Istituto Geografico Militare di Firenze (I.G.M.) negli anni Cinquanta del secolo scorso (per le quali si è fatto riferimento a un utile elenco topo-nimico stilato da Pietro A. Palumbo in calce ad Aversano, 2007)35. Tab. 3. Comparazione tra i toponimi delle torri riportati nelle carte del Principato Citra del Magini, Blaeu, De Rossi e nelle tavolette dell’I.G.M. (anni ’50 del sec. XX)

Magini Blaeu De Rossi I.G.M. 1 T. del capo T. del capo T. del Capo Torre Mezza Capo 2 T. Erchi T. Erchi Torre di Erchie 3 Torre di Vincentino Torre Picentina 4 T. de Cetara Torre di Cetara .5 T. S. Mar T. S. Mar. T. S. Marco T. S. Marco 6 T. di Pesti T. di Pesti T. de Pesti Torre di Paestum 7 T. la Punta T. re La Punta 8 T. l’Oliua T. l’Olina T. l’Oliua Torre dell’Olivo

Da un’analisi sommaria è così emerso che 8 di quelli riportati dal Ma-

gini, dal Blaeu e dal De Rossi sopravvivono ancora oggi, praticamente im-mutati sia nell’ubicazione in carta che nella denominazione. Appare interes-

33 È il caso di Torre S. Angelo (T. S. Ango in Magini e Blaeu), Torre S. Marco (T. S. Mar in Magini e Blaeu; T. S. Marco in De Rossi), Torre S. Pietro (T. S. Pietro in Magini, Blaeu e De Rossi), Torre S. Francesco (T. S. Francesco in De Rossi), Torre S. Stefano (T. S. Stefano in De Rossi). 34 Tali trasformazioni sono state rese possibili perché le torri costiere, in dipendenza delle leggi 21 agosto 1862, n. 793, e 24 novembre 1864, n. 2006, mediante la Società Anonima per la vendita dei beni del Regno d’Italia, furono cedute, dietro pagamento, a privati citta-dini (Vassalluzzo, 1989, p. 580). 35 L’elenco del Palumbo comprende i toponimi ricadenti entro i 2 km dalla linea costiera della Campania.

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sante, a riguardo, osservare come alcuni dei toponimi più ricorrenti e lon-gevi emersi dal confronto richiamino costanti geomorfologiche, idrografi-che, vegetali, religiose, agricole e socio-economiche in genere, legate alla cultura mediterranea nel suo complesso.

Un messaggio rassicurante, forse, per il disorientato uomo contem-poraneo che, alle prese con una società in costante mutamento, cerca infine di riscoprire, nella interazione tra passato e presente, i punti fermi della propria storia.

* * * Al termine della comparazione tra toponimi e simboli disegnati nel

corso di due secoli abbondanti in cinque carte a stampa del Principato Ci-tra, verrebbe la curiosità di svolgere un ulteriore raffronto, quali-quantitativo e distributivo, coi toponimi dei 158 comuni dell’attuale provin-cia di Salerno, onde ricavarne tracce di mutamenti nei paesaggi, nei modi di vita e nelle gerarchie territoriali. La pazienza del lettore e del curatore con-sigliano tuttavia di rinviare questo e altri approfondimenti e rifinimenti me-todologici a una futura occasione, che si spera prossima, in forma e dimen-sioni molto più ampie e articolate. Bibliografia GASCA QUIEIRAZZA G. ed Altri, Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Torino, UTET, 1990. ALMAGIÀ R., L’Italia di Giovanni Antonio Magini e la cartografia dell’Italia nei sec. XVI e XVII, Napoli, Città di Castello, Firenze, 1922. ALMAGIÀ R., Nota bibliografica, ed. fac-simile di G.A. Magini dell’«Italia», Amsterdam, 1974. ARENA G., Territorio e termini geografici dialettali nella Basilicata, Roma, Ist. di Geogr. dell’Univ., 1979 [Glossario dei termini geografici dialettali della Reg. It., Coll. a c. di O. Baldacci]. AVERSANO V., “Le torri costiere del Cilento”, Confronto, 1(1976), pp. 395-403. AVERSANO V., “Il toponimo Cilento e il centro fortificato sul Monte della Stella”, Studi e Ricerche di Geografia, 5(1982), n. 1, pp. 1-41. AVERSANO V., “Villaggi abbandonati e paralisi dello sviluppo per la guerra del Vespro in Campania e Basilicata”, AVERSANO V., Geographica Salernitana. Letture cronospaziali di un territorio provinciale, Salerno, Ed. Salernum srl, 1987, pp. 87-113.

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