Appunti di storia della psicologia

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Università degli studi Kore di Enna Appunti di Storia della psicologia Dispensa di Psicologia generale Corso di laurea di I livello in Scienze e tecniche psicologiche Docente: Simona Nicolosi A.A. 2006-2007

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Appunti di storia della psicologia

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Universi tà deg l i s tudi Kore di Enna

Appunti di Stor ia de l la psi co log ia

Dispensa d i Psi co log ia generale

Corso d i laur ea d i I l ive l lo in

Sci enze e te cniche psico lo g iche

Docent e : Simona Nico los i

A.A. 2006-2007

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Indice 1. Le origini della psicologia.............................................................................. 3

2. Wundt, strutturalismo e funzionalismo....................................................... 18

3. Riflessologia e scuola storico-culturale........................................................ 36

4. La psicologia della Gestalt ............................................................................

5. Il comportamentismo....................................................................................

6. Freud e la psicoanalisi....................................................................................

7. Jean Piaget.......................................................................................................

8. Il cognitivismo................................................................................................

9. La scienza cognitiva .......................................................................................

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1. Le or ig ini de l la psi col og ia 1

1. Per una definizione di psicologia

La psicologia è definita da numerosi autori come scienza del comportamento (Eysenck, 2006), Questa definizione è valida perché molti psicologi attribuiscono notevole importanza all’osservazione e alla misura del comportamento dei partecipanti alle loro ricerche. Tuttavia molti psicologi sostengono anche che sia possibile utilizzare i resoconti che i partecipanti agli studi danno delle proprie esperienze consce. I ricercatori che utilizzano tale metodo, il metodo dell’introspezione, ritengono che i soggetti forniscano preziose informazioni per la comprensione del comportamento umano. È proprio per quest’ultima ragione che Sternberg (1995) ha ampliato la precedente definizione inserendo quale oggetto di studio degli psicologi anche la mente oltre che il comportamento. La psicologia è, quindi, «lo studio della mente e del comportamento». Gli psicologi, sempre secondo Sternberg, «cercano di comprendere come noi pensiamo, sentiamo, ci comportiamo, interagiamo con gli altri e persino comprendiamo noi stessi».

È necessario inoltre aggiungere che non tutti gli psicologi sono interessati al comportamento umano, ma essi utilizzano le informazioni sul comportamento per trarre inferenze sui processi interni e sulle motivazioni che guidano il comportamento stesso. Quindi, in definitiva, la psicologia si può connotare come «la scienza che utilizza le evidenze introspettive e comportamentali per comprendere i processi interni che portano le persone a pensare e comportarsi in un certo modo nei diversi contesti della vita quotidiana» (Eysenck, 2006).

1 Questa dispensa è elaborata da Simona Nicolosi, ricercatrice e docente di Psicologia generale dell’Università degli studi di Enna/Kore. Le dispense hanno la finalità di sintetizzare i contenuti delle lezioni di Storia della Psicologia del corso di Psicologia generale tenuto dalla docente. Qualora lo studente volesse approfondire alcuni o tutti gli aspetti trattati, potrà utilizzare i riferimenti bibliografici indicati alla fine di ogni dispensa per risalire ai testi utilizzati per la presente trattazione.

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2. Quando nasce il termine psicologia? Se il cammino del pensiero umano, come afferma Paolo Legrenzi (1980) «per giungere ad

affermare la possibilità di studiare con un metodo scientificamente corretto le idee, le percezioni, i sentimenti, le emozioni […] non è stato né breve né lineare», il percorso di progressiva affermazione della psicologia come scienza autonoma, una scienza sperimentale e quantitativa della mente staccata dalla filosofia, che si è occupata della mente e del comportamento umano sin dal De Anima di Aristotele, ma anche da altre scienze della natura, inizia soltanto dagli ultimi decenni dell’Ottocento.

Un «contributo irreversibile» della psicologia – come lo definisce Parisi (2000) – «nel senso che difficilmente in futuro si potrà tornare alla visione dell’uomo che c’era prima della psicologia» consiste proprio nel metodo: per la prima volta la psicologia ha studiato gli esseri umani attraverso un metodo sperimentale e un approccio quantitativo, simile a quello delle scienze naturali. Questa è stata una prima frattura, provocata dalla nascita della psicologia, nel dibattito filosofico: estendere alla mente degli esseri umani l’approccio specifico delle scienze naturali, dimostrandone empiricamente la possibilità. L’essere umano diventa oggetto di studio in un laboratorio di psicologia, e si studia come si fa per un qualunque fenomeno di fisica, chimica o biologia, misurando ciò che succede. Anche se è possibile notare che molto del funzionamento della mente resta fuori dal metodo sperimentale e dall’approccio quantitativo.

Il termine Psicologia deriva dall’unione di psyché (� � � � ) = spirito, anima e da logos

(� � � � � ) = discorso, studio e può essere tradotto letteralmente, secondo l’etimo greco, con studio/discorso/scienza dell’anima.

Non è certo se il primo a coniare il termine fu il filosofo della Riforma Filippo Melantone oppure un logico di Marburgo, Rodolfo Goclenio, il termine nacque sicuramente negli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo ed ebbe un cammino incerto fino al Settecento, quando fu ripreso da un allievo di Leibniz, Christian Wolff, che designò con esso una delle quattro parti in cui andava suddivisa la metafisica (le altre tre erano l’ontologia, la cosmologia e la teologia).

Wolff tra l’altro operava una distinzione tra psicologia empirica e psicologia razionale; la prima si doveva occupare dei fatti psichici fondati sull’esperienza, la seconda dell’essenza dell’anima e delle sue facoltà.

[Solo nella seconda meta dell’Ottocento, però, il termine psicologia] «comincerà ad essere

utilizzato per designare una disciplina scientifica autonoma dalla filosofia e svincolata da ipoteche metafisiche, con un’accezione più o meno analoga a quella odierna.

Si noti, però, che ben prima di quest’epoca vi erano stati alcuni tentativi di fondare una scienza che trattasse dei fatti psichici seguendo gli stessi principi delle altre scienze naturali. Tra questi, il più compiuto si deve probabilmente ai cosiddetti ideologues francesi, e segnatamente a Cabanis.

È comunque interessante notare che il termine «psicologia» non veniva allora usato che rarissimamente in questi contesti; si preferiva piuttosto parlare di «scienza del morale» (intendendo con «morale» l’insieme dei fatti psichici), o di «scienza dell’uomo», se non addirittura «antropologia» (termine che ha oggi un significato del tutto diverso), alludendo ad uno studio che comprendesse unitariamente gli aspetti fisiologici, psicologici e spesso anche sociali.

Tali tentativi, troppo spesso trascurati, rimasero pur sempre a livello di tentativi. Il problema che occorre porsi, quindi, è quello dei motivi che fecero si che la psicologia decollasse così tardi come scienza, a oltre due secoli di distanza dalla nascita della scienza moderna» (Legrenzi, 1980). I due aspetti che qui si intendono sottolineare e attorno ai quali ruota l’intero nostro discorso

sono: l’evoluzione del concetto di psiche e la fondazione del metodo sperimentale.

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Attraverso queste due parole-chiave è possibile far discendere, attraverso la filosofia, prima e poi, la fisiologia e la psicofisica, i nuclei teorici di una nuova mentalità che porterà alla nascita della psicologia sperimentale come scienza, autonoma e definitivamente staccata da fede e filosofia. 3. I filosofi precursori della psicologia

Il concetto di Psicologia si basa sul paradosso secondo cui l’uomo è oggetto di una scienza che deve studiare. L’uomo è contemporaneamente oggetto e soggetto. La mente umana, oggetto dello studio, è quella che deve studiarsi. La psicologia non vuole essere solo una scienza che studia la mente, la parte fenomenica, ma vuole capire anche i perché del funzionamento della mente. La psicologia greca aveva in sé tutti i presupposti concettuali perché si identificasse con la filosofia (De anima - Aristotele): in particolare la filosofia mira a capire la natura generale di molti aspetti del mondo, principalmente attraverso l’introspezione (esame delle idee e delle esperienze interne).

I filosofi greci Platone (428-348 a.C., circa) e il suo allievo Aristotele (384-322 a.C.), hanno influenzato profondamente il pensiero moderno in psicologia e in molti altri ambiti.

La teoria delle forme di Platone asseriva che la realtà non è data dagli oggetti concreti (come ad esempio tavoli o sedie) dei quali siamo consapevoli mediante i sensi, ma piuttosto dalla forma – o eidos - dall’idea astratta degli oggetti stessi. Eidos (� � � � � ) può essere tradotto con il termine forma, figura, modello che è visibile.

Secondo Platone le idee, o forme delle cose, esistono in una

dimensione atemporale di pensiero puramente astratto. In questa prospettiva, quindi, la realtà non è inerente a ciascun oggetto particolare (ad es., questa sedia) che vediamo o tocchiamo, ma alle idee astratte degli oggetti che esistono nelle nostre menti. Gli oggetti percepiti dai nostri corpi sarebbero quindi solo copie imperfette e passeggere delle idee vere, pure e astratte. Nella Repubblica, Platone fa spiegare a Socrate come l’artigiano possa fabbricare un tavolo o un letto, “guardando” con gli occhi della mente alle loro idee, cioè basandosi su queste come modelli o paradigmi.

Visibilità e conoscibilità sono connesse etimologicamente nel termine eidos; ciò consente a Platone di parlare di eidos come forme di conoscenza intelligibili, cioè di modelli che possono essere «visti con la mente» e di uomini della techné che rendono visibili - e

dunque conoscibili - i modelli in base ai quali lavorano. «Secondo Platone, arriviamo alla verità attraverso i pensieri e non attraverso i sensi» (Sternberg, 2000). Il progresso verso la conoscenza viene presentato da Platone attraverso il Mito della Caverna, nel libro VIII de La Repubblica. Platone paragona la situazione di coloro che vivono nell’ignoranza a prigionieri che vivono in una grotta da sempre, legati ad una parete col viso rivolto contro questa. La parete è animata da uno spettacolo di ombre cinesi proiettate (all’insaputa dei prigionieri) da personaggi che sfilano, davanti a un fuoco, con statue raffiguranti oggetti, all’entrata dei sotterranei.

Per questi uomini, la visione del mondo è limitata a quelle immagini familiari che traducono in modo deformato la realtà. Essi credono che gli oggetti proiettati alle loro spalle siano reali, e non soltanto delle proiezioni della realtà e ignorano l’esterno della caverna così come il sole (che simboleggia il Vero, il Bene) che brilla.

Figura 1 - Platone, particolare della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio

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Questa è, per Platone, la condizione degli esseri umani che ignorano la Verità. Platone ipotizza quindi che uno di questi uomini si liberi, riesca ad osservare le ombre e poi ad uscire dalla grotta. Dopo lo stupore provocato da tale scoperta e solo dopo che i suoi occhi si saranno abituati alla luce, allora potrà riconoscere gli oggetti reali e gli stessi uomini passanti dietro il muro, fino a guardare il sole.

La missione del filosofo, di colui che ha conosciuto la Verità e che si è liberato dalle catene dell’ignoranza è quella di risvegliare gli uomini dal sonno delle opinioni e portarli allo stesso processo di conoscenza, portarli a «vedere con gli occhi della mente» (Platone, La Repubblica, libro VIII, 514A-518B).

«Gli aristotelici tendono quindi a indurre principi o tendenze generali sulla base

dell’osservazione di molti esempi specifici di un fenomeno. Ad esempio, gli empiristi potrebbero indurre principi relativi a come percepiamo le parole osservando le persone impegnate nella lettura o in altri compiti che coinvolgono la percezione di parole » (Sternberg, 2000).

Al contrario, per Platone la real tà vera consiste nelle forme astratte, non nelle copie imperfette della realtà osservabili nel mondo al di fuori delle nostre menti, quindi non è possibile utilizzare i metodi empirici. L’osservazione, metodo privilegiato dell’empirista, allontana dalla verità, perché gli oggetti e le azioni osservate sono imperfette e transeunti.

[L’approccio di Platone era invece razionalista perché utilizzava] «l’analisi logica per capire il

mondo e le relazioni delle persone con esso. Per Platone, il razionalismo era coerente con il suo punto di vista dualistico sulla natura del corpo e della mente: la conoscenza trae origine solo per mezzo della mente, della ragione e della speculazione sul mondo delle idee astratte, piuttosto che sul mondo materiale del corpo. I razionalisti tendono quindi in generale a dedurre esempi specifici di un fenomeno a partire da principi generali. Ad esempio, i razionalisti potrebbero dedurre da un insieme di principi generali relativi alla percezione che specifici lettori percepiscono le parole nei modi descritti dai principi generali sulla percezione.

La concezione aristotelica, quindi, implica direttamente un approccio empirico alla cognizione, mentre la teoria platonica mette in primo piano i diversi usi del ragionamento nello sviluppo delle teorie.

Le teorie razionaliste senza alcuna connessione con le osservazioni rischiano di non essere valide, ma viceversa cumuli di dati (osservazioni) privi di un contesto teorico che li organizzi potrebbero non essere utili affatto. E possibile considerare la visione razionalista del mondo di

Figura 2 - Aristotele, particolare della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio

Aristotele, al contrario, riteneva che la realtà consiste soltanto nel mondo concreto degli oggetti che i nostri corpi avvertono, essendo quindi le forme astratte (ad es., l’idea di una sedia) soltanto derivazioni di oggetti concreti.

Platone e Aristotele divergevano anche sul metodo, sul come procedere nell’indagine relativa alle proprie idee. Aristotele (naturalista e biologo, oltre che filosofo) era un empirista, la conoscenza quindi può essere acquisita solo mediante le evidenze empiriche, ottenute attraverso l’esperienza e l’osservazione.

La prospettiva aristotelica è collegata ai «metodi empirici utilizzati nella ricerca – nei laboratori e sul campo - su come le persone pensano e si comportano. Secondo gli empiristi, la realtà consiste negli oggetti e nelle nostre azioni su di essi; allo scopo di comprendere questi oggetti e le nostre azioni su essi, dobbiamo quindi osservarli» (Sternberg, 2000).

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Platone come tesi, e la teoria empirista di Aristotele come la sua antitesi. La maggioranza degli psicologi cognitivi odierni è alla ricerca di una sintesi delle due posizioni. Essi basano le osservazioni empiriche sulla teoria, ma usano di converso queste osservazioni per rivedere le loro teorie» (Sternberg, 2000). Un altro punto di divergenza tra Platone e Aristotele è rappresentato dall’origine delle idee. Da dove provengono le idee secondo i due filosofi? La risposta consegue logicamente da

quanto detto fin qui. Infatti, secondo Platone le idee sono innate ed è necessario però “tirarle fuori” dalla mente, mentre secondo Aristotele le idee sono acquisite attraverso l’esperienza.

Anche oggi gli psicologi discutono sull’ereditarietà o sull’acquisizione dall’esperienza di capacità e attitudini, come ad esempio le abilità linguistiche o l’intelligenza. Altri psicologi contemporanei sono invece alla ricerca di una sintesi che consenta di combinare la concezione platonica delle idee innate e la tesi aristotelica delle idee acquisite.

Nel diciassettesimo secolo, il filosofo razionalista, Renè Descartes (Cartesio) (1596-1650), concordando con Platone, considerava i metodi introspettivi e riflessivi superiori rispetto ai metodi empirici nella ricerca della verità.

Sono due gli aspetti del pensiero cartesiano che occorre sottolineare ai fini del nostro discorso. In primo luogo, la distinzione tra res cogitans e res extensa, cioè tra anima pensante e corpo,

considerato, secondo la concezione meccanicista (propriamente illuminista), come una macchina. Cartesio si riferiva anche agli studi del fisiologo Harvey, che aveva scoperto nel 1628 la cir-colazione del sangue e ne aveva dato una perfetta interpretazione meccanicista del funzionamento corporeo.

In secondo luogo, la dottrina delle idee innate. Distinzione tra res cogitans e res extensa: Cartesio, distingue il corpo, la materia che ha un’estensione, dallo spirito che pensa. Egli

intenzionalmente non parla di anima, per evitare di incorrere negli equivoci della filosofia precedente. Res cogitans e res extensa interagiscono in un punto privilegiato: la ghiandola pineale o epifisi. Il corpo può essere considerato come un meccanismo perfetto, come ad es. l’orologio, e se si esclude il pensiero, la res extensa è in grado di funzionare autonomamente.

L’affermazione della liceità di studiare l’uomo come meccanismo, accettata a partire dalla seconda metà del XVII secolo, da un lato consente di dare un enorme impulso alle ricerche anatomiche e fisiologiche e costituisce una “rottura epistemologica” – secondo la definizione di Bachelard – di dimensioni considerevoli, mentre dall’altro lato i problemi religiosi connessi che possono porsi sono relativi non più alla res extensa ma alla res cogitans.

La dottrina delle idee innate: Cartesio distingueva tra tre tipi di idee: derivanti dai sensi, derivanti dalla memoria o

dall’immaginazione, innate. Il primo tipo permette di costituire un legame tra mente e oggetti rea-li. Con il secondo tipo non si vede con gli occhi, ma con la mente, non è detto quindi che queste idee si conformino alla realtà. Le idee innate sorgono invece direttamente dalla mente come principi basilari, come, ad esempio, quelle di Dio, di sé, gli assiomi matematici, e così via. Anche se tali idee sono innate, non significa che esse siano “chiare e distinte” alla coscienza dell’uomo, ma che egli debba scoprirle in sé stesso.

Secondo Cartesio, l’esperienza sensoriale ha un ruolo fondamentale nella scoperta delle idee innate sia in positivo che in negativo. Nel primo caso, l’osservazione della natura ci consente di scoprire delle proprietà in essa, che in realtà possedevamo già a livello implicito: ad esempio, scoprire delle relazioni matematiche tra gli oggetti che ci circondano.

In negativo, l’esperienza sensoriale può indurci sempre in errore mascherando alcune idee innate.

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Il concetto di idea innata, tuttavia, soffre di una certa ambiguità negli ultimi scritti di Cartesio, in cui queste appaiono più una sorta di predisposizione innata che consente di formare le idee sulla base dell’esperienza. È, inoltre, sempre la res cogitans a formare idee, anche quando queste sono attivate dall’esperienza sensoriale.

Ma l’aspetto della speculazione filosofica cartesiana che qui si vuole sottolineare è che attraverso la teoria delle idee innate si postula una totale indipendenza tra corpo e mente e un dualismo mente/corpo che si ritroverà anche nelle teorie psicologiche di fine Ottocento e inizio Novecento. Alla mente, quindi, non è più necessario il corpo (compresi cervello e organi di senso) per esplicare la sua azione, perché in essa sono compresi, innati, i principi che le consentono di funzionare.

A differenza di Cartesio, il filosofo John Locke (1632-1704) e gli altri empiristi inglesi

condividevano la posizione di Aristotele per l’osservazione empirica. L’attribuzione di valore all’osservazione empirica di Locke, era associata alla sua concezione secondo la quale gli esseri umani sono una “tabula rasa” nascono privi di conoscenza – devono quindi cercare la conoscenza attraverso l’osservazione empirica. In tal senso, la vita e l’esperienza “scrivono” tale conoscenza su di noi. Secondo Locke lo studio dell’apprendimento è la chiave per capire la mente umana. Come rileva egli stesso nel suo Saggio sull’intelletto umano (1690) «la mente non ha nulla da pensare se prima l’esperienza non le ha fornito le idee su cui riflettere». Queste idee si ricevono con l’esperienza e non esistono quindi idee innate.

Inoltre, l’apporto di Locke si inserisce in uno degli aspetti fondamentali che concorrono alla nascita della psicologia sperimentale: la differenza tra essenza e funzioni dell’anima.

Il filosofo inglese separa, all’interno dell’anima, il concetto di funzione da quello di essenza e supera le speculazioni dualistiche di Cartesio, che ancoravano irriducibilmente il cogitare ad una res, ad una sostanza. Con Locke lo studio della psiche diventa possibile, in quanto la psiche è una parte, sì separata dal corpo, ma che ha soprattutto delle funzioni che possono diventare oggetto di scienza.

La psicologia come disciplina scientifica nasce perché parte da una nuova mentalità,

staccandosi dalla filosofia e dalla fede, per collocarsi come scienza autonoma, prima ancora di chiamarsi tale con l’apertura a Lipsia nel 1879 del primo laboratorio sperimentale.

La disputa tra empirismo e razionalismo raggiunse un picco nel diciottesimo secolo, quando il

filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) iniziò un processo di sintesi di queste posizioni. Nella sua discussione inerente la contrapposizione tra empirismo e razionalismo e l’origine della conoscenza – innata o acquisita tramite esperienza –, Kant dichiarò decisamente che sia il razionalismo che l’empirismo hanno ragione di essere e che queste due impostazioni devono procedere insieme nella ricerca della verità.

Se «da una parte, è impossibile negare che l’esperienza fornisce conoscenza indispensabile; Kant

ha definito conoscenza a posteriori la conoscenza basata sull’esperienza; questo tipo di conoscenza ha luogo dopo l’esperienza. Ad esempio, la maggior parte di noi ha appreso dopo pochi esami che prepararsi all’ultimo minuto per un esame non è il modo più efficace e redditizio di studiare. Dall’altra, una parte della conoscenza (a cui Kant si è riferito nei termini di “verità generale”) esiste indipendentemente dall’esperienza individuale. Questa “verità generale” è una conoscenza a priori; tale conoscenza esiste indipendentemente dal fatto che siamo consapevoli o meno di essa attraverso la nostra esperienza. A questo riguardo, la conoscenza matematica è un esempio di conoscenza a priori. È infatti difficile immaginare che l’esperienza futura possa violare fatti matematici a priori come: 2 x 3 = 6 » (Sternberg, 2000).

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Minima variazione dello stimolo percepibile, ovvero quanto

riusciamo a percepire

Intensità dello stimolo

Costante

Secondo Kant, i dati senza concetti sono ciechi, i concetti senza dati sono vuoti: le conoscenze hanno bisogno del materiale empirico, ma il materiale empirico necessita delle categorie per essere elaborato.

«Non sembra quindi che i due assunti secondo i quali la conoscenza è innata (nature) o acquisita

(nurture) mediante l’esperienza si escludano a vicenda. Ci si può chiedere a questo proposito se Kant ha posto fine alle discussioni precedenti una volta

per tutte. La risposta è certamente negativa. Al contrario, gli studiosi dovranno sempre affrontare aspetti di queste problematiche relative alla natura dell’indagine sulla mente. Tuttavia Kant ha efficacemente ridefinito molte delle questioni con cui diversi filosofi anteriori erano stati alle prese. L’enorme impatto del pensiero kantiano sulla filosofia è venuto ad interagire con l’esplorazione scientifica del corpo e delle sue funzioni del XIX secolo, determinando una profonda influenza sulle possibilità di emergere come disciplina autonoma della psicologia nella seconda metà del XIX secolo» (Sternberg, 2000).

La psicologia si staccò dalla fede e dalla filosofia, ma si aprì una dicotomia tra studio dell’uomo, strutturato come un qualsiasi studio scientifico, e studio della funzione, della percezione della mente. Tendenze opposte, queste, alla precedente concezione dell’anima vista attraverso la fede e la filosofia. I filoni in cui si articolarono queste nuove tendenze furono tre: fisiologia, psicofisica ed evoluzionismo. 4. La nascita della psicologia sperimentale

Non fu solo la filosofia a fornire le basi per la costruzione del nuovo edificio scientifico, quando Wundt fondò il primo laboratorio a Lipsia nel 1879, la sua opera fu il frutto della confluenza di apporti provenienti da molte vie differenti. Vediamo quali.

La psicofisica Le scoperte del fisiologo E. Weber (1795-1878) - fisiologo, anatomista e psicologo

tedesco – hanno fatto compiere alle conoscenze nel campo della fisiologia un passo in avanti decisivo per la psicologia. Weber riprese una legge studiata da Bouguer nel 1729 (Essai d’optique), che misura la quantità di cambiamenti, di uno stimolo, percepibile dal soggetto e l’intensità dello stimolo.

Δι = I x K Secondo tale formula, il rapporto tra il valore dello stimolo fisico I e la soglia differenziale (� � ), ovvero la quantità di cambiamento dello stimolo necessaria per produrre una differenza avvertibile dal soggetto il 50% delle volte, è costante (K).

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Tale formula però non poteva essere applicata per misure troppo piccole e per misure troppo grandi, non era precisa negli estremi. La costante non sarebbe realmente “costante” perché se i valori aumentano o diminuiscono oltre una certa gamma, K non corrisponde più. È questa relazione che Fechner (1860) modificò, includendo nella formula il logaritmo. Secondo Fechner l’intensità della sensazione che il soggetto ha dello stimolo è proporzionale al logaritmo (log) della grandezza fisica dello stimolo stesso. Pertanto, sebbene sia vero ciò che afferma Weber, che la grandezza della soglia differenziale aumenta quando cresce la grandezza dello stimolo standard, la funzione non è lineare. Ogni soglia differenziale richiede un aumento sempre maggiore dello stimolo man mano che cresce la grandezza dello standard. Gustav Theodor Fechner (1801-1887) psicologo e filosofo tedesco. Fisico di un certo valore, aveva dovuto abbandonare la ricerca per una grave infermità agli occhi ancora in giovane età, cominciando

«ad occuparsi di problemi filosofici, con una curiosa venatura mistica impregnata tra l’altro di influssi orientali, e nello stesso tempo, contradditto-riamente, orientato a dare una risposta materialistica ai problemi scientifici. […] siamo nel periodo in cui in Germania è aperta la cosiddetta «questione materialistica», che vede in posizioni contrapposte da un lato a difesa del vitalismo i grandi scienziati accademici, portavoce della scienza ufficiale, in primo luogo il fisiologo Müller e il chimico Liebig; e dall’altro soprattutto alcuni giovani fisiologi, quali Helmholtz e Du Bois-Reymond che sosterranno la necessità di considerare anche gli esseri viventi soggetti alle stesse leggi valide per il resto della natura. Tale controversia, come è ovvio, non poteva non essere di grande rilievo ai fini della nascita della psicologia. La posizione di Fechner nella controversia è abbastanza insolita. A ben guardare, il suo materialismo è abbastanza radicale, anche se appare continuamente smentito dall’affermazione dell’esistenza dell’anima. Ma l’anima, lo spirito, per Fechner è qualcosa di ben diverso da quello che è per i vitalisti. Lo spirito è infatti non altro che una proprietà della materia, inerente alla sua organizzazione in atomi. E ogni materia, non solo quindi gli uomini, ma gli animali, le piante, anche la sostanza inorganica, la terra, le pietre, i corpi celesti, ogni materia dunque, in quanto composta di atomi, è dotata di anima. E tale anima è tanto più complessa, quanto più complessa è la struttura della materia a cui inerisce [Fechner 1851]. Spirito e materia, infatti, a ben guardare, non sono altro che due facce della stessa medaglia, due aspetti derivanti da modi di osservazione distinti della stessa realtà, ontologicamente unitaria. Possiamo, auto-osservandoci, essere consapevoli dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni; tale osservazione ci mette, sul piano della più semplice esperienza, a diretto contatto con l’anima. Ma l’anima, e i suoi prodotti, non sono che effetto di processi che avvengono nella materia che compone il nostro corpo, il nostro sistema nervoso. Tale modo di osservazione non riesce quindi a farci constatare i processi che avvengono nella materia e che determinano tali fatti nell’anima. Allo stesso modo, tuttavia, cambiando tipo di osservazione, la scienza ci consente di determinare quali sono i processi che si svolgono nella materia, e che causano tali effetti nell’anima. Potremo quindi vedere cosa avviene nel cervello, ad esempio, a livello fisico, chimico, fisiologico. Ma una volta che ben abbiamo fatto queste osservazioni, ci sfuggirà completamente cosa avviene nell’anima. In altri termini, abbiamo i modi di rilevare cosa avviene nell’anima, ma ciò non ci consente di rilevare cosa avviene nella materia; e di converso, abbiamo i modi di rilevare cosa av-viene nella materia, ma il loro uso non ci consente di rilevare cosa avviene nell’anima. Ma quest’ultima […] non è altro che una proprietà dell’organizzazione atomica della prima. Il ponte che Fechner getta per unire corpo e anima, spirito e materia, è quello della psicofìsica [1860]. Attraverso questa nuova scienza è possibile determinare in modo unitario e attraverso una precisa relazione matematica la relazione che intercorre tra questi due aspetti di un’unica realtà» (Legrenzi, 1980).

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Bouguer, Weber e Fechner volevano capire il rapporto fra stimolo e reazione, seppur in una logica positivistica, volevano capire la parte “individuale”. Un autore che si accorse meglio di questa differenza fu Helmholtz. Attraverso i tempi di reazione si accorse delle differenze individuali delle percezioni, stabilendo che vi è una variabilità anche nello stesso individuo se varia la parte dello stimolo. Non esiste, dunque, una percezione uguale per tutti. Anche gli astronomi diedero il proprio contributo alla nascita della psicologia scientifica. Il problema, posto all’inizio del secolo dall’astronomo tedesco Bessel, non riguardava tanto questioni relative all’oggetto dell’astronomia, ma contingenti e legate alle modalità di osservazione astronomica allora in uso. Come ci spiega Legrenzi:

«fin verso la metà del secolo scorso, la velocità di spostamento dei corpi celesti veniva misurata in questo modo. Al telescopio veniva applicato un reticolo; l’astronomo, osservando il ciclo attraverso il reticolo, udiva contemporaneamente il suono di un orologio. Quando il corpo celeste di cui si voleva misurare la velocità entrava nel reticolo, l’astronomo cominciava a contare i battiti dell’orologio, e rilevava quindi il numero di tali battiti nel passare del corpo celeste da un posto ad un altro prefissato del reticolo. Tale metodo non aveva mai dato apparentemente luogo ad inconvenienti, almeno fino al 1796, anno in cui il regio astronomo di Greenwich Maskelyne licenziò il suo assistente Kinnerbrook, poiché da qualche anno le rilevazioni fatte da questi si erano dimostrate errate, con scarti che erano andati aumentando con il passare del tempo sino ad assumere un rilievo clamoroso. L’episodio, annotato negli annali dell’osservatorio di Greenwich, cadde circa venti anni più tardi sotto gli occhi di Bessel, astronomo di Königsberg. Questi rimase sorpreso dall’entità dell’errore, e si chiese se in realtà ciò non fosse dovuto più che a negligenza, a differenze individuali esistenti tra le persone chiamate a svolgere questi tipi di compiti. Confrontò quindi i propri tempi di osservazione con quelli ottenuti da altri illustri astronomi, e poté rilevare l’esistenza di differenze abbastanza sistematiche tra le varie persone nella rilevazione dei tempi. Le osservazioni di Bessel suscitarono un enorme interesse nel mondo dell’astronomia. Si ritenne che ricerche appropriate avrebbero consentito di determinare la cosiddetta «equazione personale» di ogni osservatore. Si pensava cioè che si sarebbe potuto stabilire per ogni osservatore il tipo di errore sistematico che compiva, e in tal modo si sarebbero potute depurare le osservazioni da tali errori individuali. Nasceva così la problematica dei tempi di reazione (nome che fu dato solo nel 1871 a questo fenomeno dal fisiologo Exner; allora si parlava di «tempi fisiologici»): lo studio, cioè, del tempo, necessario perché una persona risponda alla presentazione di uno stimolo. Per cercare di ridurre i margini di errore, infatti, verso il 1840 si cominciarono a studiare altri metodi di osservazione. Si ritenne, così, che l’errore potesse essere dovuto all’insieme di operazioni tutt’altro che semplici che l’astronomo doveva compiere nel corso dell’osservazione. Egli infatti doveva rilevare due stimoli visivi (il passaggio del corpo celeste all’ingresso e all’uscita del reticolo), degli stimoli uditivi (il battito dell’orologio), e contemporaneamente compiere l’operazione di contare. Si pensò che l’osservazione potesse essere resa più semplice con l’uso di apparecchiature, dette variamente tachigrafo, chimografo, ecc. Queste consistevano sostanzialmente in un cilindro con attorno della carta, imperniate su motore rotante, e con a contatto una penna scrivente fissa. Nel momento in cui il corpo celeste penetrava nel reticolo, l’osservatore doveva premere un pulsante, che metteva in moto il motore. Una seconda pressione sul pulsante, all’uscita dal reticolo del corpo celeste, avrebbe arrestato il motore. Essendo nota la velocità del motore dalla lunghezza della traccia lasciata dalla penna sul cilindro si poteva risalire al tempo trascorso tra le due pressioni sul pulsante, e quindi alla velocità del corpo celeste» (Legrenzi, 1980).

Tempi di reazione e metodo sottrattivo di Donders

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Una volta che a metà ottocento furono introdotti in astronomia metodi di rilevazione fotografica si perse ogni interesse per l’argomento. La psicologia riceveva però in eredità il metodo dei tempi di reazione, che fu utilizzato, tra il 1860 e il 1867 dal fisiologo olandese, Frans Cornelis Donders.

Nelle sue ricerche Donders si era ispirato ad un utilizzo dei “tempi di reazione” escogitato da Helmholtz per rilevare la velocità di conduzione delle fibre nervose. Helmholtz nel suo esperimento somministrava ad un soggetto uno stimolo, ad esempio un lieve shock elettrico, in un punto di un arto, e il soggetto doveva premere un pulsante non appena riceveva tale stimolo. In questo primo passaggio veniva misurato il tempo di reazione. Successivamente Helmholtz somministrava un altro stimolo in un punto diverso dello stesso arto, registrando un secondo tempo di reazione. Se il primo stimolo era applicato alla base dell’arto, e il secondo all’estremità opposta, il secondo tempo di reazione risultava più lungo del primo. La differenza tra i due quindi un indice del tempo occorrente allo stimolo per giungere dall’estremità dell’arto alla sua radice.

Secondo Helmholtz era sufficiente calcolare il rapporto tra la differenza della lunghezza tra i due punti di applicazione e la differenza tra i due tempi di reazione, per determinare la velocità dell’impulso nervoso. Anche se il ragionamento di Helmholtz era valido sul piano logico, in realtà egli non teneva conto di molti fattori. Uno dei quali è che la velocità di un impulso nervoso dipende anche dal diametro della fibra e non ha un valore assoluto.

Donders riprese dall’esperimento di Helmholtz l’impiego del metodo sottrattivo tra tempi di reazione. Secondo Donders, un fisiologo (oltre che oculista), ciò che impediva alla psicologia di diventare scienza era l’impossibilità di dare delle misurazioni oggettive, secondo parametri fisici, dei processi mentali. Per superare tale difficoltà pensò di avvalersi della rilevazione dei tempi di durata dei processi mentali e del metodo sottrattivo. Donders voleva scoprire se, al di là dell’osservazione fisiologica, nella mente avviene un processo che richiede del tempo; dimostrare ciò significava contemporaneamente dimostrare l’esistenza del processo stesso.

Donders e il suo allievo, De Jaager, attuarono un esperimento (1868-1869) applicando il metodo sottrattivo alla misurazione di tempi di reazione in tre condizioni.

Come esemplificato nello schema seguente, la prima condizione (a) comprendeva uno stimolo a cui doveva essere data una risposta; la seconda condizione (b) comprendeva più stimoli, a ognuno dei quali corrispondeva una risposta diversa ed infine la terza condizione (c) comprendeva più stimoli, ma solo ad uno di essi doveva essere data risposta, mentre agli altri il soggetto non doveva rispondere.

Donders poté così constatare che i tempi a erano i più brevi di tutti, seguivano i tempi c, i più lunghi erano i tempi b.

Secondo Donders, la differenza tra i tempi c - a indicava il tempo occorrente al soggetto per discriminare tra gli stimoli, e scegliere quindi quello a cui occorreva rispondere; e la differenza b - c indicava invece il tempo necessario al soggetto per discriminare tra le risposte.

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Schema de l l ’ e sperimento di Donders (1868-1869)

Condizione a) Stimolo 1 --> Risposta 1 Tempo di reazione semplice Condizione b) Stimolo 1 --> Risposta 1 Stimolo 2 --> Risposta 2 Il soggetto deve discriminare fra gli stimoli Stimolo 3 --> Risposta 3 Condizione c) Stimolo 1 --> Nessuna risposta Stimolo 2 --> Nessuna risposta Il soggetto deve discriminare fra le risposte Stimolo 3 --> Risposta esatta oltre che tra gli stimoli

Attraverso la di f f e renza tra i tempi d i re azione , Donders intendeva misurare i tempi dei processi psicologici di scelta:

c – a = discriminazione fra stimoli

b – c = discriminazione fra le risposte

Tali tempi di discriminazione corrispondevano appunto a quei processi puramente psicologici di scelta a cui veniva finalmente fatto corrispondere un indice di misurazione fisico.

Il metodo sottrattivo di Donders suscitò un notevole entusiasmo e venne tra l’altro ampiamente impiegato da Wundt, nel suo laboratorio di Lipsia. Wundt sperava, attraverso compiti più complessi, di poter dimostrare tramite la sottrazione dei tempi di reazione, l’esistenza delle fasi in cui riteneva si articolassero i processi mentali, ma il suo programma non ebbe successo e le critiche rivoltegli dai contemporanei portarono all’oblio anche il contributo di Donders, già nei primi decenni del novecento.

La fisiologia La fisiologia è stata la scienza che forse ha più contribuito alla nascita della psicologia

scientifica: non partiremo dalle scoperte fisiologiche di Harvey della circolazione sanguigna, che consentirono nel XVII secolo di concepire l’uomo come meccanismo, ma vedremo però i principali contributi dati dai fisiologi alla nascita della psicologia scientifica.

L’arco riflesso Che cos’è il riflesso? Stimolando determinati recettori sensoriali, si provocano

automaticamente (e cioè senza intervento della volontà del soggetto) delle risposte automatiche. Si parla di «arco riflesso», in quanto il substrato nervoso è composto di una parte «afferente» (il recettore sensoriale, e il nervo sensoriale che dal recettore porta l’impulso nervoso al centro) e di un ramo «efferente» (la fibra motoria che dal centro conduce agli effettori periferici). Al centro (ad esempio, nel midollo spinale) ramo afferente ed efferente sono a contatto più o meno diretto, di modo che l’impulso nervoso proveniente dalla stimolazione sensoriale sì scarica direttamente

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sul ramo efferente, senza dover passare a livelli più elevati che coinvolgano la volontà dell’individuo. Ad esempio, è questo il meccanismo del riflesso rotuleo, per cui la stimolazione della rotula con il martelletto provoca per via riflessa la contrazione del quadricipite femorale, con conseguente estensione della gamba. (Legrenzi, 1980)

Legge di Bell e Magendie La legge di Bell e Magendie prende il nome dagli autori, l’inglese Charles Bell e il francese

François Magendie che all’inizio del XIX secolo arrivarono separatamente a dimostrare l’indipendenza delle vie sensoriali dalle vie motorie.

Infatti, ogni nervo che origina dal midollo spinale ha due radici; recidendo quella anteriore viene interrotta la possibilità di movimento del segmento corporeo innervato, mentre si conserva la sensibilità; il contrario avviene se si recide la radice posteriore.

Tale legge ebbe una notevole importanza perché si dimostrava per la prima volta che al di là dell’apparente unitarietà del sistema nervoso, in esso vi erano invece delle funzioni sostanzialmente distinte (Legrenzi, 1980).

Legge dell’energia nervosa specifica Un’altra legge che segna un passo di notevole importanza verso la psicologia sperimentale fu

la legge dell’energia nervosa specifica, che consentì di ampliare gli studi della specificità di funzioni nel sistema nervoso in un ambito rilevante anche per gli studi psicologici: gli organi di senso.

La legge dell’energia nervosa specifica viene attribuita di solito a Johannes Müller, che ne diede la formulazione più estesa, e ne intravide con maggiore lucidità le conseguenze (1834-1840) ma fu successivamente ampliata e specificata da Helmholtz (1867), allievo di Müller. Eppure le origini di tale legge si possono rintracciare fino nella filosofia greca, un principio analogo era stato poi enunciato da La Mettrie ed infine lo stesso Müller ne attribuiva la scoperta a Marshall Hall, un fisiologo inglese suo contemporaneo, autore di ricerche fondamentali sui riflessi.

Secondo tale legge, la qualità delle sensazioni che riceviamo non dipende dal tipo di stimolazione che viene esercitata sugli organi di senso, ma dal tipo di organi di senso che vengono eccitati. Se noi, ad esempio, esercitiamo una pressione sul nervo ottico tale da stimolarlo, la sensazione che riceveremo non sarà tattile-pressoria, ma visiva. Lo stesso stimolo, quindi, produce sensazioni diverse a seconda dei diversi nervi che stimola.

Tale principio assunse una importanza così grande che Helmholtz lo pose addirittura alla base di ogni teoria scientifica delle percezioni sensoriali, perché permetteva finalmente di distinguere tra rappresentazione e cosa rappresentata, tra caratteristica, cioè, dello stimolo, e percezione.

In tal senso viene troncato definitivamente ogni elemento metafisico nello studio della percezione, che può così venire a essere studiata su basi rigorosamente scientifiche, ponendosi come autentico fondamento di una psicologia come scienza autonoma. In altri termini, non vi era più possibilità di confusione tra soggetto che percepisce (e che può quindi essere studiato, sul piano della percezione soggettiva, su base scientifica) e cosa percepita.

E il principio originale di Müller poteva essere ulteriormente esteso, compito che si assunse, come si è detto, Helmholtz. Così, all’interno dello stesso sistema visivo, si potevano individuare ad esempio tre tipi di fibre nervose differenziate per la percezione di differenti colori; così nel nervo acustico si potevano differenziare diverse fibre nervose deputate a trasmettere stimoli corrispondenti a differenti altezze tonali.

Di particolare rilievo, nella concezione della percezione di Helmholtz era il concetto di «inferenza inconscia», secondo cui il sistema percettivo corregge, all’insaputa del soggetto, i valori della percezione, sulla base dell’esperienza passata. Per fare un esempio, è noto il fenomeno, detto della costanza di grandezza, secondo cui un oggetto lontano rispetto ad un oggetto di

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uguale grandezza vicino, viene visto sempre della stessa grandezza, e ciò malgrado il fatto che l’immagine che proietta sulla retina sia di dimensioni inferiori a quelle dell’oggetto vicino. Secondo Helmholtz, ciò potrebbe spiegarsi ricorrendo appunto all’inferenza inconscia: sulla base dell’esperienza passata, è noto al soggetto che allontanandosi l’immagine retinica rimpicciolisce, anche se l’oggetto rimane di dimensioni costanti. Tale esperienza fa sì che inconsciamente il soggetto corregga la percezione della dimensione di un oggetto lontano, sopravvalutandola malgrado la piccolezza dell’immagine retinica, sulla base della distanza percepita (Legrenzi, 1980).

Darwin e l’evoluzionismo Alla base della teoria di Darwin vi sono i concetti di “selezione naturale” e di “adattamento”.

Secondo questi due principi, le specie che non riescono ad adattarsi all’ambiente finiscono con lo scomparire, ed anche all’interno delle stesse specie sopravvivono gli individui portatori di caratteristiche che meglio si adattano all’ambiente. Nel tempo si può assistere a un processo di evoluzione, con una progressiva modificazione delle specie, poiché gli individui che sopravvivo-no, accoppiandosi tra di loro, trasmetteranno i propri caratteri “forti” ad una discendenza, che, a sua volta, presenterà in modo sempre più accentuato i caratteri adattativi, con una progressiva scomparsa dei caratteri che non permettono tale adattamento.

Famoso nella teoria darwiniana è l’esempio delle giraffe: le giraffe vivono in un ambiente in cui è necessario mangiare le foglie dagli alberi. Le giraffe con il collo più lungo si adatteranno meglio a tale ambiente, perché con il diradarsi delle foglie negli alberi dovuto al progressivo consumo da parte delle altre giraffe queste riusciranno ad arrivare ai rami più alti dove ancora vi è cibo. Le giraffe con il collo corto, non riuscendo ad adattarsi e non riuscendo ad arrivare ai rami più alti, finiranno invece con lo scomparire. Le giraffe con il collo lungo trasmetteranno tale loro carattere anche ai loro discendenti. L’evoluzione della specie porterà quindi con il tempo alla selezione di una specie di giraffe tutte con il collo lungo.

È importante qui sottolineare che tale principio si applicava, secondo Darwin, non solo ai ca-ratteri somatici, ma anche a quelli psichici. Questa riflessione portò, da un lato, un cugino di Darwin, Francis Galton, allo studio delle caratteristiche psicologiche individuali e della loro trasmissione erediaria e dall’altro i funzionalismi allo studio dei caratteri psichici in quanto mezzi a disposizione dell’uomo per adattarsi all’ambiente.

La dottrina evoluzionistica portò però anche alla nascita dello strutturalismo wundtiano – attraverso Herbart, gli associazionisti, i fisiologi come Helmholtz – ed infine introdusse l’idea che l’uomo era frutto di una duplice evoluzione: quella filogenetica, che ha portato al costituirsi della specie umana, e quella ontogenetica, che porta all’evoluzione del singolo individuo dalla nascita all’età adulta. Non può esserci comprensione completa se non vengono studiati l’uomo nel suo ciclo evolutivo, da un lato, e le specie animali, dall’altro lato.

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Schema riassuntivo de l paragrafo :

PSICOFISICA FISIOLOGIA EVOLUZIONISMO

La reazione fisiologica aveva una componente che poteva essere studiata come gli stessi fenomeni fisici- biologici – leggi psicofisiche – metodo sottrattivo di Donders (1869) La psicologia moderna è nata con l’opera di Fechner (1960) e Wundt (1879) come PSICOFISICA, cioè (nelle parole di Fechner) come «la scienza esatta delle relazioni funzionali o relazioni di dipendenza tra lo spirito e il corpo». Nella Germania del 1879, a Lipsia W.Wundt fonda il primo laboratorio di psicologia sperimentale, convenzionalmente considerato il luogo della nascita della psicologia come scienza autonoma. Wundt, allievo di Helmholtz e di Müller continuò gli esperimenti sui riflessi e sull’attenzione misurata attraverso i tempi di reazione

La fisiologia è lo studio scientifico diretto a conoscere il funzionamento interno degli organismi utilizzando principalmente metodi empirici (basati sull’osservazione). Di fatto, molti degli interrogativi fondamentali in fisiologia e in filosofia rappresentano anche problematiche di base all’interno della psicologia contemporanea. Ad esempio, gli psicologi cognitivi si pongono ancora la seguenti domande: «Le caratteristiche psicologiche e le conoscenze umane, sono innate (ereditate dai nostri genitori e da altri antenati) oppure acquisite (apprese attraverso le nostre interazioni con l’ambiente fisico e sociale) »; «Qual è il modo migliore di trovare risposte ai problemi sulla cognizione, per mezzo di osservazioni basate sull’uso dei sensi, oppure utilizzando strumenti logici di interpretazione delle informazioni disponibili». Müller (1834-1840) e Helmholtz (1856), svolgevano ricerche sui riflessi: risposte agli stimoli esterni, i nervi che si attivano e i tempi che intercorrono fra lo stimolo e la risposta fisica. I tempi di reazione, le reazioni nervose erano specifiche degli organi, ma la fisiologia aveva anche componenti psicologiche: nella misurazione dei tempi di reazione entra in gioco il cervello. STIMOLO > ORGANO RECETTORE > CERVELLO > RISPOSTA

Gli aspetti dell’evoluzionismo che qui ci interessano sono tre: l’ adattamento all’ambiente; la progressiva selezione naturale delle specie; la duplice evoluzione, filogenetica e ontogenetica, di cui l’uomo è il risultato . Nel 1859 Darwin (1809-1882) pubblicò L’origine delle specie opera che rivoluzionò la biologia. In tale opera si affermava che tutti gli esseri viventi non sono espressione di strutture immutabili, bensì il risultato di fortuite variazioni dei caratteri delle specie, selezionati progressivamente dall’ambiente. I caratteri più adatti alla sopravvivenza e quindi più funzionali all’ambiente sopravvivono attraverso la trasmissione ereditaria degli esemplari più “forti” (cioè i più adattati all’ambiente), a discapito di quelli meno adattati.

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2.Wundt , s t rut tura l i smo e funzional i smo 2 1. Wilhelm Wundt (1832-1920)

Come rileva Edward B. Titchener nel 1921, per Wilhelm Wundt, il fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale, il metodo sperimentale è essenziale per definire la psicologia come scientifica. La psicologia sperimentale di Wundt e la psicologia empirica di Brentano definiscono la “nuova” psicologia entre les deux siècle assicurandole con «la loro opera e il loro esempio […] un posto tra le scienze […]». Wundt e Brentano hanno, infatti, teorie e metodi di impostazione radicalmente diversa e, per alcuni versi, opposta, tanto da far affermare a Titchener che «non c’è via di mezzo tra Brentano e Wundt» (Titchener, 1921).

Figura 1. Wilhelm Wundt

Wilhelm Wundt, medico e fisiologo tedesco, si connota per la sua cultura, il suo eclettismo, la sua ampissima produzione, e, a volte, per la sua contraddittorietà: l’opera wundtiana comprende la filosofia e l’epistemologia (il problema del rapporto fra vitalismo e meccanicismo, del rapporto fra principio causalistico e principio finalistico, o la natura della logica e della meccanica, ecc.), la fisiologia e la psicofisiologia (come ad esempio le teorie fisiologiche dell’associazione), la psicologia (ad esempio il problema della percezione del tempo o la natura dell’emozione estetica), oltre che i capisaldi di fine ottocento della psicologia sperimentale: la psicofisica di Weber e Fechner.

Nella vasta produzione di Wundt, Fondamenti di psicologia fisiologica è la prima opera sistematica della psicologia scientifica: in ciascuna delle sei edizioni dei Fondamenti - la prima pubblicata nel 1873-74 e l’ultima nel 1908-11.

Wundt apportava ampliamenti e arricchimenti derivati dai nuovi risultati delle ricerche europee ed americane. Sebbene la sua immagine stereotipata di scienziato ottocentesco “cultore dei fatti” avverso al razionalismo filosofico sia stata ridimensionata rispetto al passato, è altrettanto vero che Wundt stesso pensava che tra filosofia e psicologia ci fosse un legame indissolubile, tanto da affermare nel saggio del 1913 La psicologia in lotta per la sua esistenza, che non dovrebbe insegnare «chi è un semplice sperimentalista e non è allo stesso tempo un uomo preparato psicologicamente e filosoficamente, pieno di interessi filosofici». 2 Questa dispensa è elaborata da Simona Nicolosi, ricercatrice e docente di Psicologia generale dell’Università degli studi di Enna/Kore. Le dispense hanno la finalità di sintetizzare i contenuti delle lezioni di Storia della Psicologia del corso di Psicologia generale tenuto dalla docente. Qualora lo studente volesse approfondire alcuni o tutti gli aspetti trattati, potrà utilizzare i riferimenti bibliografici indicati alla fine di ogni dispensa per risalire ai testi utilizzati per la presente trattazione.

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È indubbio, comunque, che l’opera di Wundt rappresenti una base concettuale molto

complessa della psicologia scientifica, se da essa si sviluppano due correnti del pensiero psicologico tanto diverse tra loro: lo strutturalismo e il funzionalismo.

«Wundt […] è divenuto lo ‘sfondo’ contro cui si sarebbero staccate le ‘figure’ dei movimenti [psicologici] successivi» (Boring, 1950). La ricerca storica recente sulle origini della psicologia ne ha ridisegnato la figura mettendo in evidenza la complessità della sua opera senza appiattirla nel luogo comune di Wundt fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale. Wilhelm Wundt nacque a Neckarau, vicino a Mannheim, nel 1832. La sua infanzia non fu facile, soprattutto dopo la morte prematura del padre, un pastore luterano. Si ritiene che la scelta di fare il medico (si laureò a Heidelberg nel 1856) sia stata condizionata anche dall’esigenza di svolgere una professione che permettesse di superare rapidamente le ristrettezze economiche della famiglia. […] Negli anni dell’università a Heidelberg Wundt fu assistente del fisiologo Hermann von Helmholtz (1821-94) e durante una permanenza nel 1856 a Berlino studiò con «il padre della fisiologia sperimentale», Johannes Müller (1801-58), e con il fisiologo Emil Du Bois-Reymond (1818-96). Dopo gli anni di insegnamento, e ricerca a Heidelberg (fino al 1874) nel campo della fisiologia, Wundt divenne professore di filosofia prima a Zurigo (1874-75) e poi a Lipsia, dove rimase dal 1875 fino alla morte nel 1920. A Lipsia Wundt fondò quello che è considerato il primo autonomo e organico laboratorio di psicologia sperimentale, dove si formarono decine di psicologi che a loro volta fondarono nuovi laboratori di psicologia in Germania e all’estero. La produzione di Wundt fu vastissima, quasi maniacale (è stato calcolato che per produrre le oltre cinquantamila pagine dei suoi libri e articoli, abbia dovuto scrivere o rivedere in media 2,2 pagine al giorno tra il 1853 e il 1920); può essere vista lungo un percorso che va dalla fisiologia (Contributi alla teoria della percezione sensoriale, 1858-62) alla «psicologia fisiologica» o psicologia sperimentale (Fondamenti di psicologia fisiologica, 1873-74; l’ultima ed. fu la VI in 3 voll., 1908-11), alla filosofia (Logica, 1880-83; Etica, 1886; Sistema di filosofia, 1889) e infine alla «psicologia di popoli» o psicologia socio-culturale (Psicologia dei popoli, 10 voll., tra il 1900 e il 1920). Carattere introduttivo e grandissima diffusione ebbe il Compendio di psicologia (1896, con la IX ed. rivista nel 1911; trad. in inglese nel 1896 e in italiano nel 1900). Una sorta di autobiografia psicologica fu scritta da Wundt con il titolo Vissuto e conosciuto (1920)». 3

Nel 1879 Wundt fondò a Lipsia l’Istituto di Psicologia, il primo laboratorio di psicologia sperimentale nella storia della psicologia scientifica, nel quale si effettuavano gli esperimenti sulle stesse problematiche che da anni venivano già studiate nei laboratori di fisiologia.

Eppure l’importanza del laboratorio sperimentale di Wundt risiedeva oltre che nella denominazione ufficiale, che contribuiva a stabilire l’indipendenza istituzionale della psicologia rispetto alle altre scienze biologiche, anche nel metodo. Nel Compendio di psicologia

3 Paragrafo tratto da Mecacci (1995) Storia della psicologia del Novecento, Roma Laterza: pp. 5-6.

Figura 2. Il laboratorio di Lipsia

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(1896) Wundt affermava che il metodo sperimentale e l’osservazione erano i due metodi fondamentali della psicologia.

Il laboratorio di Lipsia rimase per decenni un modello che fu adottato anche in altri paesi, spesso dagli studiosi che avevano lavorato proprio con Wundt. Dal laboratorio di Wundt sono usciti tutti i pionieri della psicologia sperimentale, i tedeschi Kraepelin, Külpe, Meumann, gli americani Stanley Hall, McK. Cattell, suo primo assistente, Spearman, il francese Bourdon, i belgi Thiéry e Michotte.

«Anche se il metodo ufficiale è sempre l’introspezione, il fatto che il laboratorio sia ritenuto indispensabile significa che lo psicologo non si limita più alla propria introspezione ma sente l’esigenza di controllare i suoi risultati con quelli degli altri. Ne deriva che le condizioni dell’osservazione devono essere uniformate per diventare confrontabili, esemplari, significative4 perché studiate nei dettagli. La sperimentazione non è più soltanto una possibilità, un’esigenza, ma diventa una realtà. Essa richiede apparecchi per stabilire con esattezza le situazioni e registrare le reazioni […]. Nello stesso tempo d’altronde, e senza volerlo, la psicologia comincia a trasformarsi in psicologia della condotta. È evidente che lo sperimentatore stabilisce regole introspettive pesanti, ma egli nota anche ciò che il soggetto dice o fa, risultati che resisteranno all’erosione del tempo anche quando le teorie saranno completamente disgregate (Fraisse e Piaget, 1963) ».

Nel laboratorio di Wundt si affrontarono esperimenti su visione, udito, tatto, gusto, senso del

tempo, percezione, tempi di reazione, il sentimento, l’associazione mentale. Il metodo sperimentale si basava sull’intervento «volontario» dell’osservatore che controllava i processi psichici (percezione, sensazione, memoria) oggetto di analisi della «psicologia individuale». L’osservazione era invece più adatta allo studio dei «prodotti dello spirito» (la lingua, le rappresentazioni mitologiche, i costumi), oggetto della «psicologia sociale» che, invece, non possono essere manipolati dal ricercatore.

«Secondo il «volontarismo» wundtiano, tutti i processi psichici umani passano attraverso quattro fasi: 1. la stimolazione; 2. la percezione, che rende cosciente l’esperienza psichica; 3. l’appercezione, concetto che risale a Herbart , che costituisce una fase durante la quale l’esperienza cosciente viene identificata, qualificata e sintetizzata dalla mente; Secondo Wundt era anche possibile misurare la durata dell’appercezione (circa 0,1 secondi), durante alcuni esperimenti sul tempo di reazione; Ed infine 4. l’atto di volontà, che suscita la reazione psichica, e che è connotato dal libero arbitrio, vissuto come serie di stati d’animo «risolutivi» organizzati in una specifica successione temporale». Sebbene nelle teorie psicologiche wundtiane permanga una spiccata componente

spiritualistica, che le sottrae all’indagine scientifica modernamente intesa - come il «volontarismo» - è tuttavia vero che molti contenuti della sua opera costituiscono il patrimonio della psicologia scientifica contemporanea. Oggetto dell’indagine psicologica, metodo sperimentale e principio del «parallelismo psicofisico».

4 Qui il termine significativo non è inteso nella sua accezione statistica; per una spiegazione dettagliata termine “significatività” nella statistica per le scienze sociali, si rimanda al calcolo probabilistico e al test di significatività, quest’ultimo consente di valutare la differenza tra due o più variabili riducendo il rischio di casualità nella valutazione dell’incidenza tra variabili indipendenti.

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«L’oggetto dell’indagine psicologica è l’esperienza umana immediata, contrapposta all’esperienza mediata, che è invece oggetto delle scienze fisiche. Definizione e distinzione queste di cui sono debitori a Wundt quasi tutti i sistemi psicologici moderni, dallo strutturalismo al gestaltismo (Legrenzi, 1980).

Nell’ambito della psicologia sperimentale, almeno per tutto il primo decennio del Novecento, il metodo sperimentale fu legato all’introspezione. Solo successivamente, dopo le critiche del comportamentismo, l’introspezione fu abbandonata. L’introspezione è intesa da Wundt come auto-osservazione libera e personale.

«Wundt codificò con estremo rigore il metodo sperimentale nell’ambito dell’indagine psicologica, insistendo per primo sull’importanza dell’accurata identificazione, dello stretto controllo e della precisa quantificazione delle variabili psichiche, che nel suo laboratorio erano circoscritte ai processi sensoriali e percettivi semplici; e polemizzando duramente con chi, come Franz Brentano, teorico della «psicologia dell’atto», trovava una incompatibilità di fondo fra ricerca psicologica e sperimentazione di laboratorio (Legrenzi, 1980).

Wundt indicò chiaramente i confini dell’introspezione: l’analisi era limitata a fenomeni psichici, sensazioni e percezioni, che erano replicabili, ma non includeva il pensiero, le emozioni e la volontà. Gli stati psichici interni potevano essere analizzati, nella psicologia scientifica, solo se manipolati nel quadro di un esperimento psicologico dove si potessero riprodurre le stesse condizioni e si potessero controllare rigorosamente le variabili studiate. Attraverso l’introspezione sperimentale, il ricercatore doveva seguire la percezione interna degli eventi esterni, senza l’influenza però dei fattori soggettivi e delle immagini derivate dalla memoria. I resoconti dei soggetti erano quindi relativi alla percezione e quantitativi, ovvero riguardavano le caratteristiche fisiche degli stimoli (durata, intensità, grandezza, ecc.). il soggetto doveva essere inoltre addestrato a riportare in maniera sistematica e rigorosa i dati introspettivi, utilizzando una terminologia precisa: ciò per evitare la frammentarietà nell’auto-osservazione e il ricorso ad un linguaggio ordinario.

Infine, Wundt enunciò un principio che continua ancor oggi a caratterizzare, a seconda che venga accettato o venga respinto, le sistematizzazioni psicologiche: il principio del «parallelismo psicofisico». Secondo tale principio i processi mentali e i processi fisici dell’organismo umano sono paralleli: né Ì primi causano i secondi né i secondi causano i primi, ma a ciascun cambiamento dei primi corrisponde puntualmente un cambiamento dei secondi» (Legrenzi, 1980).

Contraddittorietà

«Molte altre istanze e indicazioni di ricerca sono contenute nell’opera di Wundt; e a causa della mole e dell’eclettismo dell’opera stessa, si tratta per lo più di istanze e indicazioni, se non contraddittorie, almeno divergenti. In particolare, Wundt da un lato si contrappone alla tradizionale psicologia introspezionistica dì derivazione hobbesiana, perché insiste nel porre gli eventi mentali in relazione a stimoli e a reazioni oggettivamente conoscibili e misurabili, e difende l’importanza della ricerca sugli animali, utilizzando per esempio l’indice oggettivo rappresentato dagli elettrocardiogrammi di conigli sottoposti a stimoli dolorosi. Ma d’altro lato conferisce all’introspezione lo status di metodo psicologico privilegiato, ponendo le premesse dell’introspezionismo sistematico del suo allievo Titchener. Ancora, da un lato esclude dalla propria indagine sperimentale il pensiero, ma dall’altro esprime posizioni che sono in linea con l’odierna psicologia cognitivista. O ancora, Wundt da un lato può essere considerato il padre delle successive psicologie elementistiche, cioè di quelle psicologie - come lo strutturalismo o il comportamentismo

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Figura 3. Edward Bradford Titchener

watsoniano - che scompongono la coscienza o il comportamento in elementi semplici ed irriducibili, perché il suo esplicito ideale di scientificità è rappresentato dal lavoro iperanalitico del chimico. D’altro lato, egli formula e sviluppa concetti quali quello di «sintesi creativa», che precorrono le successive psicologie antielementistiche o globalistiche, come la psicologia della Gestalt. O ancora, Wundt da un lato pone le premesse storiche di una psicologia dell’uomo astratto o generalizzato, non interessata alle differenze interindividuali e alle applicazioni nella vita sociale; ma dall’altro lato dedica molta attenzione ai problemi della psicologia applicata e della psicopatologia. Successori immediati di Wundt, strutturalismo e funzionalismo sono ambedue debitori dell’opera del grande precursore: meno direttamente il secondo, assai più direttamente il primo, tanto che alcuni storiografi - secondo [l’Autore5] impropriamente — non esitano a classificare lo stesso Wundt come strutturalista» (Legrenzi, 1980).

2. Lo strutturalismo Al laboratorio di Lipsia approdarono da ogni parte molti ricercatori, attratti dall’idea di una psicologia indipendente e sperimentale (cfr. sopra), ma colui che più di tutti trasmise la lezione wundtiana fu Edward Bradford Titchener (1867-1927), il caposcuola dello strutturalismo americano.

«Titchener tradusse in inglese l’opera di Wundt: ma la tradusse di proposito solo in parte, nascondendone l’eclettismo e le numerose componenti non sperimentalistiche. Cosi facendo, egli obbediva anche all’influenza dell’associazionismo inglese e del fenomenismo di Ernst Mach. La riflessione sui testi wundtiani fu per lui il punto di partenza verso l’elaborazione di un sistema personale, rigoroso e coerente, che va sotto il nome di «strutturalismo» o «esistenzialismo titcheneriano» o «introspezionismo» e che trova il proprio manifesto in The Postulates of a Structural Psycbology (1898) e la propria più matura espressione nel A Text-book of Psychology del 1910. Giunto negli Stati Uniti nel 1892, e divenuto direttore del laboratorio di psicologia sperimentale dell’Università di Cornell, Titchener lavorò in campo teorico e in campo sperimentale per oltre trentacinque anni, pubblicando dieci libri e oltre duecento articoli, questi ultimi soprattutto

sull’«American Journal of Psychology», che egli diresse dal 1895 al 1925, e che rappresentò per anni la bandiera della psicologia scientifica in terra americana. Profondamente

estraneo, per formazione e per temperamento, alla emergente filosofia nordamericana nei suoi aspetti pragmatistici e utilitaristici, Titchener lavorò nella sua Cornell University come in una torre d’avorio, e dedicò le sue energie di organizzatore alla costituzione di un gruppo selezionato di allievi che volle significativamente contrassegnare con il nome di «sperimentalisti» […]. Consacrò inoltre quasi dieci anni della sua vita alla elaborazione di una adottatissima Experimcntal Psychology (1901-1905) in quattro volumi, comunemente conosciuta come «i manuali titcheneriani di laboratorio»,

5 I paragrafi sono tratti da S. Marhaba, Lo strutturalismo e il funzionalismo, in Legrenzi (a cura di) (1980) Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna: pp.70-72.

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che contiene dettagliatissime istruzioni relative alla conduzione dell’esperimento psicologico nei suoi aspetti tecnici e strumentali. Con la morte di Titchener lo strutturalismo concluse la sua fulgida parabola. Rimasero alcuni allievi, voci isolate nel nuovo panorama della psicologia degli anni ‘30. Fra essi va ricordato Edwin G. Boring, padre della moderna storiografia psicologica» (Legrenzi, 1980).

Nell’articolo The Postulates of a Structural Psycbology del 1898 Titchener paragona la psicologia alla biologia moderna e alle sue tre parti principali che studiano la struttura (morfologia), la funzione (fisiologia), la crescita e il decadimento (ontogenesi). Come spiega Titchener stesso sempre nello stesso articolo

«Troviamo un parallelo alla morfologia in una parte assai vasta della ‘ psicologia sperimentale ‘. Lo scopo sperimentale è stato analizzare la struttura della mente; di sbrogliare i processi elementari dai grovigli della coscienza o (se possiamo cambiare la metafora) di isolare i costituenti di una data formazione cosciente. Il suo compito è la vivisezione, ma una vivisezione che darà risultati strutturali non funzionali. Cerca di scoprire, prima di tutto, che cosa c’è e in quale quantità, non per che cosa c’è. […] Spesso ci è stato detto che la nostra trattazione dei sentimenti e delle emozioni, del ragionamento, dell’Io non è adeguata; che il metodo sperimentale è prezioso per lo studio delle sensazioni e delle idee, ma non ci può portare oltre. La risposta è che i risultati ottenuti con la dissezione dei processi ‘superiori’ saranno sempre deludenti per coloro che non hanno adottato, essi stessi, il punto di vista del dissettore. [ ...] » (p. 80).

La psicologia, per Titchener, ha per oggetto l’esperienza, come la fisica; quindi, la scientificità della psicologia ha la stessa natura e lo stesso livello potenziale della scientificità della fisica. La sola differenza tra fisica e psicologia sta nel fatto che la prima studia l’esperienza indipendentemente dal soggetto esperiente, mentre la seconda studia l’esperienza dipendente dal soggetto esperiente. Ad esempio, lo spazio e il tempo sono oggetto sia della fisica sia dell’indagine psicologica, ma mentre nella fisica questi hanno un valore costante, nella psicologia essi dipendono dalle condizioni soggettive dell’osservatore stesso (ad es. cinquanta minuti possono essere più lunghi di un’ora).

«Mente» e «coscienza» sono le due categorie generali che si riferiscono all’esperienza umana immediata: la «mente» è la somma di tutti i processi mentali che hanno luogo nella vita di un individuo; la «coscienza» è la somma di tutti i processi mentali che hanno luogo hic et nunc, in un determinato momento presente della vita dell’individuo. Fedele alla propria ispirazione fenomenistica machiana, Titchener considera l’«Io» o il «Sé» una dimensione non sottoponibile all’indagine sperimentale, e quindi estranea alla psicologia scientifica. Lo scopo dell’indagine psicologica consiste nel descrivere i contenuti elementari della coscienza e nell’evidenziare le leggi che presiedono al loro combinarsi e al loro susseguirsi. La psicologia titcheneriana è pertanto eminentemente descrittiva; la spiegazione dei contenuti coscienti - in termini motivazionali, istintuali, e simili - è esplicitamente demandata alla fisiologia e alla biologia generale, cioè a settori d’indagine estranei alla psicologia. Rimane da dire il perché del termine «strutturalismo», che non ha nulla in comune con lo stesso termine nel suo uso contemporaneo. Nel linguaggio titcheneriano la «struttura» mentale è il complesso risultato della somma di molteplici elementi coscienti semplici, come in una sorta dì mosaico o meccano psichico; scopo dell’indagine psicologica è la scomposizione e ricomposizione analitica dei «pezzi» (Legrenzi, 1980).

L’esperienza cosciente si presenta sotto forma di percezioni, di idee, di emozioni o sentimenti. Lo psicologo strutturalista analizza gli elementi semplici o costitutivi:

- delle percezioni, ovvero le «sensazioni»; - delle idee, ovvero le «immagini» mentali;

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- e delle emozioni o dei sentimenti, ovvero gli «stati affettivi».

«La psicologia strutturale si pone il compito di studiare la mente umana attraverso la scomposizione dei suoi elementi (le sensazioni, le immagini e i sentimenti) e la descrizione delle leggi che governano la loro combinazione: «Lo scopo dello psicologo è triplice. Egli cerca (1) di analizzare le esperienze concrete (attuali) nelle sue componenti più semplici, (2) di scoprire come questi elementi si combinano, quali sono le leggi che governano la loro combinazione, e (3) di metterle in connessione con le loro condizioni fisiologiche (corporee)» (Titchener, Structural and functional psychology, 1899, p. 15).

Tra i tre elementi, la sensazione è quello più importante e ricorrente e corrisponde alla stimolazione di un organo sensoriale periferico. Oltre alle sensazioni relative ai cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto, tatto), Titchener mette in risalto l’esistenza delle sensazioni «cinestesiche», che derivano dai muscoli, tendini, giunture. L’«immagine» compare nei processi mentali relativi a esperienze non attuali, come i ricordi e le anticipazioni del futuro. Nell’esperienza soggettiva

«l’immagine è molto simile alla sensazione, ma si presenta come più «trasparente» e «vaporosa» rispetto alla seconda. Il rapporto fra immagine e sensazione è semplice e diretto: quando un organo sensoriale periferico è stato stimolato più volte (per esempio, abbiamo visto più volte il colore blu), si instaura nel cervello uno stato di eccitazione centrale che può sostituire la stimolazione periferica e produrre l’immagine al posto della sensazione (per esempio, «vediamo» il colore blu «con gli occhi della mente»). L’elemento «stati affettivi» è costitutivo delle emozioni e dei sentimenti quali l’amore, l’odio, la gioia, la tristezza. Come l’immagine, anch’esso è molto simile alla sensazione; in particolare, tanto gli stati affettivi quanto le sensazioni si stemperano qualora vengano ripetuti: se teniamo una mano immersa in una bacinella di acqua tiepida, la sensazione iniziale dì calore diminuisce pro-gressivamente, con l’adattarsi della temperatura della pelle alla temperatura dell’acqua; analogamente, se ascoltiamo più volte di seguito un brano musicale di nostro gradimento, lo stato affettivo di piacere tende progressivamente a scomparire. L’esperienza quotidiana è costellata di combinazioni tra sensazioni e stati affettivi; la fame, per esempio, è il risultato della somma di sensazioni e stati affettivi di varia natura».

Gli elementi della coscienza hanno degli attributi. Gli attributi fondamentali della sensazione e dell’immagine sono quattro: 1. la «qualità» (per esempio, «freddo», «salato», «verde», ...); 2. l’«intensità» (per esempio, un suono «forte»); 3. la «durata» (per esempio, un suono «lungo»); 4. la «chiarezza» (per esempio, una voce è chiara - ovvero è al centro della mia coscienza - se l’ascolto intenzionalmente, mentre non è chiara se la sento distrattamente, mentre faccio qualcos’altro). Gli stati affettivi, invece, possiedono solo gli attributi della qualità, della intensità e della durata, cioè manca l’attributo della chiarezza: difatti, se ci concentriamo sulle nostre sensazioni o sulle nostre immagini, riusciamo a renderle sempre più chiare, mentre se ci concentriamo sui nostri stati affettivi otteniamo l’effetto opposto, cioè li dissolviamo. Fra le sensazioni e le immagini da un lato e gli stati affettivi d’altro lato esiste poi un’ulteriore differenza: mentre gli stati affettivi sono piacevoli o spiacevoli, le prime sfuggono a questa legge del contrasto.

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Il metodo

La psicologia procede mediante osservazione empirica, una «introspezione» rivolta ai contenuti della coscienza individuale.

«Il metodo adottato da Titchener fu quello della introspezione, considerato il metodo per eccellenza della psicologia scientifica. Rispetto alla teoria wundtiana, Titchener accentuò la dimensione elementista ed escluse quegli aspetti che permettevano di collegare la psicologia sensoriale ai processi superiori del pensiero, ai processi evolutivi e a quelli sociali. In questa impostazione Titchener era stato influenzato sia dall’associazionismo inglese che dal pensiero di Mach, assimilati a fondo nel periodo inglese della sua formazione. L’empirismo e il fenomenismo furono anche alla base del rifiuto di Titchener di distinguere la fisica dalla psicologia secondo il criterio wundtiano della immediatezza o non immediatezza dell’esperienza (per Wundt la psicologia studiava l’esperienza immediata e la fisica studiava l’esperienza mediata)». (Mecacci, 1994).

L’introspezione è l’unico metodo che caratterizza la psicologia rispetto alle altre scienze; i dati empirici oggettivi (cioè rilevabili dall’esterno del soggetto, come i comportamenti) diventano psicologici soltanto se e nella misura in cui possono essere interpretati alla luce dell’introspezione.

Per Titchener (ed anche per l’altro allievo di Wundt, Külpe) sia la fisica che la psicologia partivano dall’esperienza immediata, con la differenza però che la fisica adottava il “punto di vista per cui l’esperienza veniva sganciata dall’individuo che la esperiva, mentre la psicologia teneva conto di questo individuo che esperiva. (Mecacci, 1994).

Lo psicologo introspezionista deve: 1. adottare il criterio elementistico; 2. evitare di cadere nell’ «errore dello stimolo». Attraverso il criterio elementistico ogni dato cosciente sottoposto all’introspezione viene scomposto nei suoi elementi più semplici, non suscettibili di ulteriore scomposizione psichica; quei dati coscienti che l’introspettore - il soggetto osservatore di se stesso - non riesce, malgrado un’analisi introspettiva rigorosa e persistente, a ridurre a componenti più semplici sono autenticamente elementari.

Nell’introspezione si [apprende] a riportare [l’esperire sensoriale dell’individuo] (ad esempio, “vedo una forma tonda, colorata; è profumata ...”) e non a segmentarlo in significati di origine culturale

CATEGORIE GENERALI DELL’ESPERIENZA

MENTE COSCIENZA

Somma di tutti i processi mentali che hanno corso

nella vita di un individuo

Somma dei processi mentali che hanno luogo

in un determinato momento

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(“vedo una mela”), come spesso avveniva nelle introspezioni non esperte (e per cui si incorreva in quello che Titchener definiva “errore dello stimolo”) (Mecacci, 1994).

Se segue sistematicamente il criterio elementistico, lo psicologo ottiene resoconti introspettivi costituiti da una serie di parole («caldo», «amaro», «luminoso», «piacevole»,...). Ogni parola connota univocamente una singola fase dell’intera esperienza cosciente, in modo tale che quest’ultima - secondo la norma della ripetibilità sperimentalistica - possa essere replicata da un qualsivoglia altro osservatore. Si cade nell’«errore dello stimolo» quando si attribuiscono significati o valori ai dati dell’esperienza cosciente, che vanno invece riportati nella loro esistenzialità (di qui il termine «esistenzialismo» col quale veniva talora indicato il sistema titcheneriano). In virtù di un addestramento preliminare, lungo e non facile, il soggetto impara a riferire esclusivamente la propria esperienza cosciente immediata, scindendola dall’involucro sociale-culturale-linguistico in cui essa si presenta ingabbiata fin dall’inizio; impara cioè a descrivere il processo cosciente determinato in lui dall’oggetto-stimolo, anziché l’oggetto-stimolo in quanto noto come tale; a distinguere ciò che effettivamente esperisce da ciò che sa riguardo all’oggetto della propria esperienza. Nelle intenzioni di Titchener, questo introspezionismo sperimentalistico è il vero e unico criterio che differenzia la psicologia scientifica sia dalla psicologia razionale prescientifica sia dalla psicologia funzionalista.

«Per Titchener lo studio delle funzioni psichiche, perseguito dal funzionalismo, era prematuro. Preliminare e fondamentale era invece l’analisi della struttura della mente. Isolando la struttura dalle funzioni, si metteva in risalto l’organizzazione della mente in quanto tale, senza connetterla alle funzioni che essa svolge in relazione ai compiti specifici, alle esigenze e alle competenze dei singoli individui, allo stadio ontogenetico in cui essi si trovano. Si trattava quindi di una mente astratta, quale emergeva dallo studio di soggetti adulti normali».(Mecacci, 1994).

La controversia con il funzionalismo nasceva dalla contrapposizione con una psicologia delle funzioni (nell’espressione europea, psicologia dell’atto):

«C’è […] una psicologia funzionale oltre alla psicologia della struttura. Possiamo considerare la mente, da una parte, come un complesso di processi, modellati e foggiati nelle condizioni degli organismi fisici. Possiamo considerarla, d’altra parte, come il nome collettivo per un sistema di funzioni dell’organismo psicofisico. [ ... ] Proprio come la psicologia sperimentale in larga misura riguarda i problemi della struttura, così la psicologia ‘descrittiva’, antica e moderna, si è occupata soprattutto dei problemi delle funzioni. Memoria, riconoscimento, immaginazione, concezione, giudizio, attenzione, appercezione, volontà e una schiera di gerundi, di significato più ampio o più ristretto, indicano, nelle discussioni della psicologia descrittiva, le funzioni dell’organismo nella sua totalità. [ ... ] Non si può dire che questa psicologia funzionale, nonostante quella che possiamo chiamare la sua maggiore naturalezza per l’indagine, non è stata sviluppata o con lo stesso entusiasmo e la stessa pazienza o con la stessa precisione scientifica della psicologia della struttura mentale. È vero, ed è una verità che lo sperimentalista dovrebbe essere pronto a riconoscere e a far risaltare, che c’è molto che vale nella psicologia ‘descrittiva’. Ma è anche vero che i metodi della psicologia descrittiva non possono portare in questo caso a risultati scientificamente definitivi. La stessa critica vale, come stanno le cose, per la psicologia individuale, che sta facendo un eccellente lavoro pionieristico nella sfera delle funzioni. La psicologia sperimentale ha aggiunto molto alle nostre conoscenze, dal punto di vista sia funzionale che strutturale, della memoria, attenzione, immaginazione, ecc. e in futuro assorbirà e quantificherà i risultati di queste e altre nuove branche. Eppure non penso che ognuno che abbia seguito il corso del metodo sperimentale, nella sua applicazione ai processi superiori e agli stati della mente, possa dubitare che l’interesse principale in

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tutto e per tutto è stato nell’analisi morfologica piuttosto che nell’accertamento delle funzioni». (Titchener, The Postulates of a Structural Psycbology,1898)

Nel laboratorio della Cornell University Titchener e i suoi allievi più pazienti sottoposero per lunghi anni l’esperienza cosciente al metodo introspettivo, riuscendo ad individuare ben 44.000 qualità sensoriali differenziate, di carattere visivo (oltre 32.000) e uditivo (oltre 11.000). Ma l’introspezione sistematica non fu utilizzata esclusivamente da Titchener e fu praticata, fra la fine dell’Ottocento e i primi dieci anni del Novecento, anche da Külpe, allievo e assistente di Wundt. Professore a Wurzburg dal 1894, Külpe utilizzò l’introspezione per indagare sperimentalmente sugli stati di coscienza che appaiono irriducibili alle immagini mentali e alle sensazioni, così come risulta per esempio durante i giudizi comparativi fra i pesi di due oggetti. La teoria del «pensiero senza immagini» rappresentò una sfida al dogma del sensorialismo titcheneriano. 3. Il funzionalismo6 Il funzionalismo fu una tipica espressione della nuova cultura nordamericana ed ebbe il suo riferimento principale nei Principles of psychology pubblicati nel 1890 da William James - professore prima di psicologia e poi di filosofia ad Harvard - che

Figura 4. William James

«rappresentò per anni il simbolo della nascente indipendenza americana nei confronti della psicologia tedesca, e in cui per la prima volta in modo esplicito e specifico veniva fatto riferimento al significato e alla rilevanza per la psicologia delle teorie evoluzionistiche di Darwin e di Spencer; teorie che, insistendo sul rapporto fra organismo e ambiente, trovavano vasta risonanza nel contesto socioculturale nordamericano dei primi anni del secolo, fortemente caratterizzato in senso pionieristico. Strettamente legata all’istanza evoluzionistica nell’opera dello stesso James, e ancor più tipicamente nordamericana, un’altra istanza presiedette al nascere della psicologia funzionalistica: e cioè la filosofia pragmatistica di Mead, Moore e Dewey, elaborata soprattutto nell’ambito della nuova Università di Chicago. Tuttavia, il funzionalismo risentì anche della tradizione europea wundtiana; e in certo modo, non esplicitamente, si riallacciò a un’altra tradizione psicologica europea, la «psicologia dell’atto» inaugurata da Franz Brentano nel 1874, e comunemente conosciuta come «scuola austriaca» attraverso le opere successive di autori quali Stumpf, Meinong, Lipps e il nostro Benussi: difatti, sebbene gli psicologi funzionalisti americani non citino quasi mai gli scritti degli «psicologi dell’atto» tedeschi, nei

6 I paragrafi che seguono sono tratti da S. Marhaba, Lo strutturalismo e il funzionalismo, in Legrenzi (a cura di) (1980) Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna: pp.79-91.

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primi rivive sostanzialmente inalterata la fondamentale categoria interpretativa dei secondi, cioè l’«intenzione», il «tendere a» della mente impegnala nell’interagire con l’ambiente. Rispetto allo strutturalismo, il funzionalismo si presentò come un sistema assai più composito ed eterogeneo, eclettico e tollerante nei confronti delle altre prospettive psicologiche. E pertanto difficile individuare un unico testo sistematico che ne contenga tutte le sfaccettature. Fra i testi più significativi vanno ricordati, in ordine di tempo, un articolo di John Dewey del 1896, The Reflex Are Concept in Psychology, il cui autore avrebbe ben presto abbandonato gli interessi psicologici per dedicarsi interamente alla filosofia e alla pedagogia pragmatistica; un manifesto programmatico di James Rowland Angell (1867-1949) del 1907, The Province of Fttnctional Psychology; e infine, nel 1925, un testo di psicologia generale del successore di Angell a Chicago, Harvey Carr (1873- 1954). Quest’ultimo testo rappresentò il canto del cigno del movimento funzionalistico, ormai sommerso dall’impeto del comportamentismo watsoniano. Facendo esplicito riferimento alle concezioni di Darwin - soprattutto a quelle espresse nelle opere L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871 e L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali del 1872 - gli psicologi funzionalisti considerano l’organismo umano come l’ultimo stadio del processo evolutivo. In questa prospettiva, i processi mentali sono quelli che sono perché in qualche modo hanno aiutato l’organismo a sopravvivere, gli sono stati utili nel suo adattarsi all’ambiente circostante. L’interrogativo principale per la psicologia diventa allora non tanto «cosa sono i processi mentali», quanto «a cosa servono e come funzionano i processi mentali». L’accento viene posto sulle operazioni dell’intero organismo biologico, umano ma anche animale, anziché sui contenuti della mente umana isolata dal corpo. Scompare il tradizionale dualismo «mente-corpo», che in Wundt e Titchener aveva assunto le vesti del «parallelismo psicofìsico»: per i funzionalisti i processi mentali sono direttamente espressi dal medesimo organismo che esprime i processi biologici (come la respirazione o la circolazione del sangue). Acquisendo questa valenza biologica, la psicologia acquisisce al contempo una valenza esplicativa: al contrario dei titcheneriani, che si limitano a «de-scrivere» e demandano lo «spiegare» alle scienze biologiche, gli psicologi funzionalisti «descrivono» e «spiegano» rimanendo all’interno della psicologia. Oggetto della ricerca psicologica sono «le attività mentali relative all’acquisizione, all’immagazzinamento, all’organizzazione e alla valutazione delle esperienze, e alla loro successiva utilizzazione nella guida del comportamento» [Carr, 1930]. Ciò che è centrale in questa definizione è il concetto di «comportamento guidato, orientato verso»; ovvero, con formulazione pienamente evoluzionistica, «comportamento adattivo». Il comportamento adattivo è caratterizzato dalla presenza di tre componenti: 1. una stimolazione motivante, interna o esterna all’organismo; 2. una situazione sensoriale; 3. una risposta che alteri la situazione in modo tale da soddisfare le condizioni motivanti. Ad esempio, un uomo affamato che si procura del cibo e mangia fino ad essere sazio pone in atto un comportamento adattivo. La fame è la stimolazione motivante, il cibo è una parte della situazione sensoriale, il mangiare è la risposta che soddisfa la motivazione iniziale. Naturalmente, non tutti i comportamenti sono adattivi: se starnutisco mentre mi allontano da un incendio, il mio allontanarmi è un comportamento adattivo, ma tale certo non è il mio starnutire. I comportamenti non adattivi sono descrivibili esclusivamente nei termini oggettivi di stimolo e risposta. Grande importanza rivestono i processi mentali coscienti. La coscienza non sfugge alla legge dell’adattamento biologico, anzi, ne costituisce il massimo esempio: essa emerge quando il comportamento è ostacolato da eventi problematici in ordine alla sopravvivenza dell’organismo, e, una volta svolto il proprio ruolo adattivo, tende a eclissarsi e a farsi sostituire dagli automatismi comportamentali. In altre parole, siamo acutamente coscienti nel momento in cui cominciamo a formarci una nuova abitudine che implica una nostra relazione adattiva con l’ambiente circostante o con gli oggetti in esso contenuti, e tendiamo a diventare meno coscienti con il progressivo consolidarsi dell’abitudine stessa. Esemplificando: chi impara a suonare il pianoforte è all’inizio acutamente cosciente di tutti i movimenti delle proprie dita; mentre cessa di esserlo successivamente, dopo che si sono instaurate le appropriate coordinazioni sensomotorie».

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Antielementismo

«Fin dall’articolo di Dewey del 1896 [The Reflex Are Concept in Psychology] il funzionalismo sferra un attacco alla tradizione psicologica elementistica. Secondo Dewey l’arco riflesso non è scomponibile in due entità reciprocamente indipendenti (stimolo e risposta), bensì costituisce un anello unitario in una ininterrotta catena di altri archi riflessi. Nel caso di un bambino che vede una fiamma, allunga una mano verso di essa, e si scotta, non è esatto parlare di una sequenza di tre eventi reciprocamente indipendenti: il vedere, l’allungare la mano, e lo scottarsi; bisogna invece parlare di un’unica attività finalizzata, «vedere per toccare». La sensazione infatti non precede il movimento: il «vedere» non è lo stimolo che precede la risposta motoria «allungamento della mano», perché già nel «vedere» è implicata una serie di adattamenti motori che controllano l’azione «allungamento della mano». Ogni attività dell’organismo vivente è dunque un processo globale e continuo. Tuttavia, aggiunge Dewey, è lecito distinguere fra stimolo e risposta, perché l’uno e l’altra svolgono ruoli diversi nella coordinazione totale relativa al raggiungimento dello scopo, in altre parole perché l’uno e l’altra assolvono funzioni diverse nell’adattare l’organismo alla situazione ambientale. La distinzione fra stimolo e risposta è pertanto «funzionale», si fonda cioè su ciò che essi fanno; non è «esistenziale», non si fonda cioè su ciò che essi sono. In definitiva, il concetto di «funzione» della Scuola di Chicago è antielementistico in due sensi distinti e complementari. Da un lato, le funzioni mentali sono attività globali, in sé non scom-ponibili; d’altro lato, esse sono processi dinamici di carattere strumentale mediante i quali l’intero organismo si adatta alle situazioni dell’ambiente circostante».

Le funzioni mentali

«Oggetto della ricerca funzionalistica sono in parte i processi mentali già studiati da Titchener, ma ridefiniti in termini di «funzioni»; in parte processi mentali nuovi, non contenuti nel sistema titcheneriano. I primi sono la sensazione e l’emozione (intesa in termini globali, non spezzettata in «stati affettivi»); i secondi sono la percezione, la motivazione, l’apprendimento, il pensiero. Nei rispettivi manuali di psicologia generale Titchener dedica ben dieci capitoli alla sensazione, mentre Carr gliene dedica soltanto uno, e per giunta piccolo. Oggetto centrale della ricerca strutturalistica, la sensazione diventa, proprio in quanto elementare, oggetto molto marginale della ricerca funzionalistica. Tuttavia i funzionanti riconoscono il valore adattivo dei processi sensoriali: in particolare, mediante inabilità spaziale», che è tanto maggiore quanto più si sale nella scala filogenetica, l’organismo assolve l’importante funzione adattiva consistente nel localizzare gli oggetti nel suo spazio circostante e nel discriminare le loro dimensioni. Quanto all’emozione, i funzionalisti ne sottolineano il carattere adattivo, di riadattamento organico automatico che aumenta l’efficacia della risposta a situazioni particolari: per esempio, quando l’organismo è ostacolato nella propria libertà di movimento, può manifestarsi l’emozione «collera», la quale, mediante una mobilitazione di energia - che si esprime fra l’altro nell’accelerazione del battito cardiaco e della respirazione - aiuta l’organismo stesso a reagire più efficacemente contro l’ostacolo. I funzionalisti, tuttavia, ammettono l’esistenza di molte emozioni per così dire «gratuite», non direttamente funzionali o addirittura antifunzionali alla sopravvivenza dell’organismo. Nell’approccio funzionalista la percezione è un processo mentale a sé stante, non una somma di sensazioni elementari, come nell’approccio strutturalista. Carr la definisce: «cognizione di un oggetto presente in relazione a un qualche comportamento adattivo». Dato il suo orientamento biologizzante e data la sua vocazione esplicazionistica, la psicologia funzionalistica attribuisce grande importanza alla motivazione. Carr la definisce nei seguenti termini: «qualsivoglia stimolo relativamente persistente - fame, sete, pulsione sessuale, dolore, ecc. - che domina il comporta-mento dell’individuo fino a quando quest’ultimo non reagisce in modo tale da soddisfarlo».

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Ma l’oggetto principale della ricerca funzionalistica, quello che sta a quest’ultima come la sensazione sta alla ricerca strutturalistica, è l’apprendimento. Funzione adattiva per eccellenza, esso consiste nell’acquisizione, da parte dell’organismo animale o umano, di appropriate modalità di risposta a situazioni problemi che presenti nell’ambiente dell’organismo stesso; modalità di risposta che hanno valore di sopravvivenza. Se questa caratterizzazione evoluzionistica del significato globale dell’apprendimento costituisce una «esclusiva» dei funzionalisti, la loro spiegazione dei meccanismi interni dell’apprendimento è invece largamente debitrice nei confronti della tradizione psicologica associazionistica. In particolare, Carr eredita da Thorndike, associazionista e iniziatore (fin dal 1898) della sperimentazione psicologica sull’apprendimento animale, la famosa «legge dell’effetto», formulata nel 1905. Secondo questa legge: ogni atto che, in una data situazione, produce soddisfazione, finisce con l’essere associato a quella situazione. Così, quando la situazione si ripresenta, l’atto ad essa relativo ha maggiori probabilità di ripetersi rispetto al passato. Viceversa, ogni atto che in una data situazione produce insoddisfazione, finisce con l’essere dissociato da quella situazione. Cosi, quando la situazione si ripresenta, l’atto ad essa relativo ha minori probabilità di ripetersi rispetto al passato [Thorndike 1911]. Rispetto agli associazionisti, tuttavia, i funzionalisti attribuiscono assai minore importanza all’apprendimento «per prove ed errori». Essi sostengono che, fin dal primo impatto con la situa-zione problemica, l’organismo vivente - soprattutto se dotato di coscienza - si comporta spesso non già in modo casuale, bensì in modo selettivo e analitico. Per quanto infine concerne il pensiero (inteso come flusso continuo, non sbriciolato in immagini mentali), i funzionalisti ne sottolineano gli aspetti adattivi o strumentali: un’idea, un ragionamento, un’aspettativa possono avere una funzione adattiva tanto quanto le percezioni. Esemplificando: il pensiero di un esame da fare può indurre nel soggetto una preparazione più adeguata, svolgendo così una funzione adattiva in sostituzione di quella che potrebbe svolgere uno stimolo percettivo oggettivamente presente nell’ambiente del soggetto» .

I metodi del funzionalismo

«Sebbene fondamentalmente soggettivistico come lo strutturalismo, il funzionalismo detronizza l’introspezione dal suo status di unico metodo psicologico. Da un lato le funzioni mentali - al contrario dei contenuti mentali, unico oggetto di studio degli strutturalisti - non compaiono nell’esperienza diretta; d’altro lato, secondo la celebre definizione di William James, grande ispirato-re dei funzionalisti, la coscienza è come «un fiume che scorre», una ininterrotta corrente, e pertanto non può essere colta mediante un metodo elementistico, statico e parcellizzante qual è quello introspettivo titcheneriano. In generale, si può parlare di «eclettismo metodologico» dei funzionalisti. Indubbiamente essi valorizzano la sperimentazione di laboratorio, soprattutto nel campo dell’apprendimento: ma da un lato, rispetto a Titchener, essa è intesa e praticata in modo assai meno sistematico e rigoroso, d’altro lato essa è accompagnata e spesso interamente sostituita dal metodo genetico e dal metodo osservazionale puro, ritenuti particolarmente idonei a cogliere le funzioni mentali nel loro contesto naturale. Come Wundt, e al contrario di Titchener, i funzionalisti (soprattutto Angell) accettano i contributi alla conoscenza psicologica della filosofia, della storia, della letteratura, dell’arte, dell’antropologia comparata. In un certo senso, possono essere pertanto considerati anticipatori del contemporaneo interdisciplinarismo. E ancora come Wundt, al contrario di Titchener, e precorrendo molto blandamente il comportamentismo, i funzionalisti ricorrono talora all’osservazione oggettivistica o comportamentale, quale integrazione all’osservazione soggettivistica, che rimane il loro fondamentale criterio metodologico. Infine, i funzionalisti aprono la psicologia allo studio delle differenze individuali, dello sviluppo infantile, del comportamento animale, e abituano lo psicologo a considerare con minore diffidenza

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l’ambito delle applicazioni psicologiche. Né bisogna dimenticare che proprio a Chicago insegnò a lungo George H. Mead, uno dei padri della moderna psicologia sociale».

La polemica fra strutturalisti e funzionalismi

«Intorno al 1910 la psicologia americana conobbe un ampio dibattito fra Titchener e i suoi allievi (soprattutto Ruckmick e Dallenbach) da un lato, e i rappresentanti della Scuola di Chicago d’altro lato. Alcuni storiografi americani (per esempio, D. Schultz) lo hanno ricostruito in termini di «rivoluzione funzionalistica» contro lo strutturalismo; ma si tratta di un’esagerazione - dettata forse da un certo nazionalismo culturale - che non rispetta l’effettiva natura del dibattito. L’unica vera «rivoluzione» psicologica americana è il comportamentismo watsoniano degli anni ‘20, il quale, liquidando fino in fondo la soggettività e sostituendola con il comportamento oggettivo, scardina la premessa fondamentale tanto dello strutturalismo quanto del funzionalismo. Strutturalisti e funzionalisti, pur polemizzando fra loro, sanno di appartenere alla medesima grande famiglia soggettivistica: Titchener non scomunica il funzionalismo come poi invece scomunicherà il comportamentismo, e d’altro lato Angell e Carr riconoscono alla coscienza lo status di oggetto fondamentale della ricerca psicologica, limitandosi ad affermare che di essa intendono studiare non solo e non tanto i contenuti, quanto piuttosto le funzioni. Al funzionalismo Titchener rivolge soprattutto due critiche. In primo luogo, egli contrappone il proprio sperimentalismo sistematico alle componenti filosofiche o aprioristiche presenti negli scritti della Scuola di Chicago, componenti che, a suo avviso, tendono a riportare la psicologia al periodo prescientifico. In particolare, egli stigmatizza l’entusiasmo di molti funzionalisti (come J. M. Baldwin) per gli aspetti più totalizzanti e metafisici dell’evoluzionismo spenceriano, e, in nome dell’unica tradizione scientifica, quella meccanicistica, attacca duramente il vitalismo finalistico o teleologistico (il concetto di «cause finali») che i funzionalisti, influenzati dalle nuove speculazioni evoluzionistiche, vanno applicando alla psicologia. In secondo luogo, Titchener, pur riconoscendo scientificamente legittimo lo studio delle funzioni mentali, sostiene che esso deve essere preceduto dallo studio esaustivo dei contenuti mentali: non ha senso cercare dì capire cosa «fanno» per l’organismo i processi coscienti, se prima non si è capito cosa essi «sono», così come non ha senso cercare di capire l’operazione del «vedere» se prima non si è perfettamente conosciuta la struttura anatomica dell’occhio. Quanto ai funzionalisti, la loro critica principale allo strutturalismo è quella secondo cui i «momenti di coscienza» rilevati mediante introspezione sono transitori ed evanescenti, cessano dì esistere non appena trascorsi; mentre le funzioni mentali, come quelle fisiologiche, sono persistenti e continuative, e, rimanendo identiche a se stesse, possono essere svolte da strutture di volta in volta diverse. Della polemica fra strutturalisti e funzionalisti va infine ricordato un altro aspetto, che è rimasto problematico anche nella odierna riflessione psicologica: quello relativo all’«utilità» o meno della psicologia. Da un lato, Titchener si erige a difensore di una scienza psicologica pura, disinteressata, circoscritta al laboratorio accademico, gestita con lo stesso rigore impersonale che caratterizza il procedere del fisico. Una scienza psicologica avente per oggetto i fatti e non i valori della coscienza umana, tesa a «conoscere» la mente dell’Uomo Generalizzato, non ad «agire» sulle menti dei singoli individui impegnati nella loro vita quotidiana per migliorarle, aiutarle o comunque modificarle. D’altro lato, attirandosi l’accusa titcheneriana di tecnologismo, i funzionalisti operano una scelta radicalmente opposta: influenzati dalla filosofia pragmatistica, che identifica il «vero» con l’«utile», essi in ultima analisi giustificano la scienza psicologica sulla base del valore sociale dei suoi risultati. Non intendono cioè aggiungere una psicologia applicata alla tradizionale psicologia pura, o far derivare la prima dalla seconda, bensì ritengono che fin dal suo momento iniziale la ricerca psicologica — sia essa sperimentale, o sul campo, o di qualsivoglia altro tipo - debba caratterizzarsi in senso sociale, focalizzandosi soprattutto sulle differenze interindividuali (nella percezione, nell’apprendimento, nella motivazione...), che tanta importanza hanno nella vita di tutti i giorni. Di

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conseguenza, il funzionalismo ha preparato egregiamente il terreno al grande sviluppo del movimento nordamericano dei test, nell’ambito dell’intelligenza, della personalità e delle attitudini».

Un bilancio storico dello strutturalismo e del funzionalismo

Le ragioni della scomparsa dello strutturalismo titcheneriano dalla scena psicologica sono molteplici. In primo luogo, esso si autolimitava allo studio dell’uomo bianco, adulto, psichicamente normale, «generalizzato»: mentre dagli anni ‘20 in poi la psicologia si è sempre più interessala allo studio delle variabili antropologico-culturali, dello sviluppo intellettivo e affettivo, della patologia mentale, degli individui concreti nei loro gruppi sociali, del comportamento animale. In secondo luogo, l’elementismo titcheneriano è stato messo irreversibilmente in crisi dal globalismo fe-nomenologico della psicologia della Gestalt. In terzo luogo, il descrittivismo statico dell’analisi strutturalistica è stato superato dall’esplicazionismo delle nuove psicologie dinamiche. In quarto luogo, l’introspezionismo titcheneriano è crollato tanto sul piano metodologico quanto sul piano contenutistico. Sul piano metodologico, perché gli esperimenti condotti mediante introspezione, per quanto possa essere rigoroso il controllo delle variabili, non sono mai esattamente replicabili con soggetti diversi. Sul piano contenutistico, perché all’analisi della coscienza sfuggono per definizione tutti quei contenuti mentali che coscienti non sono, e la cui determinante esistenza è stata provata in modo convincente dall’indagine psicoanalitica e dal movimento cognitivista. Malgrado ciò, lo strutturalismo ha dato un contributo prezioso allo sviluppo della psicologia scientifica. Anzitutto, per almeno quarant’anni (che costituiscono un terzo dell’età complessiva della psicologia moderna) esso è stato il sistema psicologico più organico e rigoroso, e come tale ha rappresentato il punto di riferimento obbligatorio di quasi tutte le altre concettualizzazioni psi-cologiche, svolgendo così un utilissimo ruolo dialettico. Fossero funzionalisti, o comportamentisti, o altro, gli psicologi non potevano non confrontare le proprie posizioni con l’opera sistematica di Titchener, perciò stesso chiarificandole e arricchendole. In secondo luogo, in misura assai maggiore rispetto al funzionalismo, rimasto in parte ancorato alla tradizione filosofica, lo strutturalismo ha contribuito al riconoscimento della psicologia come scienza indipendente, utilizzando a tale scopo gli unici strumenti concettuali possibili nel contesto culturale della fine Ottocento inizio Novecento: il drastico rifiuto dell’apriorismo filosofìco e il ricorso al solo metodo sperimentale. In terzo luogo, la psicologia odierna, accettando di studiare nuovamente la coscienza dopo il lungo intermezzo comportamentistico, da in qualche modo ragione all’introspezionismo di Titchener e di Külpe. E, in particolare, l’introspezionismo külpiano riecheggia negli odierni studi cognitivisti sui contenuti complessi della mente, quali le strategie di soluzione dei problemi. Il volume di Osvald Külpe Grundiss der Psychologie (1893), e più in generale tutte le ricerche della Scuola di Wùrzburg, possono essere senz’altro considerati una significativa anticipazione dell’odierna psicologia cognitivista, come ha messo in luce Blumenthal [1975]. Sullo strutturalismo, oggi spesso poco conosciuto, esistono alcuni luoghi comuni, il principale dei quali lo vorrebbe come l’esatto negativo del comportamentisrno watsoniano. Il giudizio comparativo, in realtà, è molto più articolato. È vero che l’oggettivismo watsoniano è l’antitesi del soggettivismo titcheneriano, che l’interesse watsoniano per la psicologia animale si contrappone all’antropocentrismo titcheneriano, che il tecnologismo watsoniano è l’opposto del «purismo» titcheneriano. Ma è altrettanto vero che il comportamentismo watsoniano eredita immutate diverse componenti epistemologiche e metodologiche del sistema titcheneriano. In primo luogo, l’avversione per la «metafisica», intesa in senso molto ampio come «tutto ciò che non è sottoponi-bile alla ricerca di laboratorio». In secondo luogo, il criterio asso-ciazionistìco, che è quello stesso della tradizione empiristica anglosassone. In terzo luogo, il descrittivismo elementistico, esasperato fino alla condanna senza appello di qualsivoglia approccio psicologico globalistico, definito in partenza «tautologico e mistico». Quando Skinner, in Cumulative Record del 1961, presenta senza commento 40.000 singoli items comportamentali, non possono non tornare alla mente le 44.000 singole qualità sensoriali che più di sessant’anni prima Titchener si era fatto vanto di aver registrato. Infine, strutturalismo e comportamentismo nutrono la medesima profonda diffidenza per le

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interpretazioni del cosiddetto «senso comune»: parlando di esso come di un nemico che la psicologia scientifica deve battere, Titchener e Skinner usano addirittura le stesse parole. Mentre lo strutturalismo si identificava con la Scuola di Cornell, il funzionalismo nordamericano è sempre stato un movimento più ampio, più fluido, meno definito e delimitato rispetto alle posizioni sistematiche (esse stesse poco articolate) degli esponenti della Scuola di Chicago. Di conseguenza, estintasi la Scuola di Chicago si è estinto lo strutturalismo. Estintasi invece la Scuola di Chicago, il movimento funzionalistico è in qualche modo sopravvissuto, fino ad influenzare la psicologia di oggi. La Scuola di Chicago cominciò a tramontare in coincidenza e a causa dell’ascesa dell’astro comportamentistico, subito dopo il celebre manifesto watsoniano del 1913. Da un lato, difatti, i comportamentisti si appropriarono con decisione, inserendole in una prospettiva oggettivistica radicalmente nuova, delle tematiche più originali del funzionalismo, quali lo studio dell’apprendi mento e l’istanza utilitaristica; essi le svilupparono e le articolarono fino a ottenere un sistema unitario e coerente assai più suggestivo rispetto alle non coordinate concettualizzazioni funzionalistiche. D’altro lato, in nome dello sperimentalismo, carta vincente nella psicologia del primo Novecento, essi denunciarono con intransigenza e con successo le numerose e rilevanti componenti filosofiche o comunque prescientifiche del funzionalismo, quali lo studio della «volontà» o la disquisizione puramente astratta sui processi cognitivi superiori. Il bersaglio era facile, scoperto, perché i funzionalisti non avevano mai fatto mistero dei loro convincimenti: i Principii di James si erano posti intenzionalmente come «teoria della conoscenza» anziché come «teoria spe-cificamente psicologica», la Psychology di Dewey aveva dato molto spazio alle antiche tematiche di origine filolofica, e soprattutto Angell non aveva perso un’occasione per «tranquillizzare» - parola che è egli stesso ad usare — coloro i quali temevano che egli avrebbe rotto i rapporti con la filosofia di sempre, affermando per esempio che filosofia e psicologia sono consanguinee, che la ricerca psicologica è intrinsecamente legata alle istanze normative della logica e dell’etica, e che gli psicologi non possono esimersi dall’ affrontare il classico problema filosofia) del rapporto mente-corpo. Tuttavia, alcune componenti prettamente psicologiche del funzionalismo sfuggirono tanto all’assimilazione quanto alla liquidazione comportamentistica, e si inserirono nel panorama com-plessivo della psicologia, dagli anni ‘20 fino ad oggi. Il concetto di «funzione», in particolare, risultò compatibile o addirittura necessario ad alcuni nuovi e importanti orientamenti non com-portamentistici, in quanto globalistico, esso si armonizzava con il crescente interesse per i processi cognitivi superiori - dal gestaltismo alla psicologia cognitivista del problem solving - intesi in senso diametralmente opposto al riduttivismo elementistico titcheneriano; in quanto relativo non già a una entità psichica pura, a una «mente isolata dal corpo», bensì a una inscindibile unità psicofisica, esso giustificava il successivo sviluppo della psicofisiologia; in quanto relativo non già alla sola coscienza, bensì alla totalità dei processi mentali, esso non si contrapponeva alla nozione di «attività mentale inconscia» introdotta dai sistemi psicoanalitici. Più in generale, l’orientamento biologizzante del funzionalismo ha lasciato il segno nella psicologia odierna, la quale, seppur con accentuazioni diverse, ha fatto proprio il concetto di «adattamento dell’organismo all’ambiente», e comunemente definisce con il termine «funzioni» i propri oggetti di ricerca (apprendimento, memoria, percezione, motivazione, intelligenza, ecc.). Inoltre, alcune tendenze della psicologia contemporanea sono inequivocabilmente neofunzionalistiche, cioè derivano in modo chiaro e preciso dal funzionalismo classico. In primo luogo, sul piano dei settori di ricerca. Si pensi a Egon Brunswik con il suo «funzionalismo probabilistico» fra gli anni ‘40 e ‘50 nell’Università della California, o alle ricerche sulla percezione condotte da studiosi come A. Ames, W.H, Ittelson, H. Cantril; in esse viene sottolineato il ruolo dell’apprendimento, dell’aspettativa, della motivazione e dei fattori affettivi in generale, polemizzando con la percettologia fenomenologica dei gestaltisti e riallacciandosi alle concezioni di Carr. In secondo luogo, sul piano della metodologia della ricerca psicologica: i ricercatori che oggi denunciano l’artificiosità della situazione di laboratorio, e prediligono l’indagine sul campo o nel contesto naturale dell’organismo vivente (come gli etologi), si ricollegano all’antica tiepidezza (a cominciare da James) dei funzionalisti nei confronti della sperimentazione. In terzo luogo, sul piano delle «applicazioni» psicologiche (anche se i neofunzionalisti non userebbero questo termine, perché

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secondo loro, proprio come secondo i funzionalisti classici, non esiste distinzione fra psicologia «pura» e psicologia «applicala»): in campo psicopedagogico, i ricercatori che si sono dedicati allo studio dell’apprendimento verbale (A.W. Melton, J.A. Geoch, A.L. Irion, J, Deese, e altri) hanno continuato il lavoro dei primi funzionalisti, i quali, al contrario dei comportamentisti, si interessavano assai più dell’apprendimento umano che non di quello animale. Infine, l’ispirazione funzionalistica rivive oggi - in una versione assai più articolata, documentata e specifica nella «psicologia evoluzionistica». Il funzionalismo è stato il primo orientamento psicologico importato dall’America in Europa (si pensi all’opera del ginevrino Claparède, di cui fu allievo Piaget, anch’egli conoscitore ed estimatore dì W. James). Più dello strutturalismo, esso ha avuto una precisa influenza anche nella non ricca storia della psicologia italiana; filtrato attraverso il suo più ampio contenitore filosofico, il pragmatismo (che ebbe nei nostri Vailati e Calderoni due esponenti di rilievo internazionale), il pensiero funzionalistico fin dai primi anni del secolo venne conosciuto e apprezzato dagli psicologi italiani, soprattutto dopo la traduzione e la pubblicazione nel 1901, ad opera di Giulio Cesare Ferrari, dei Principii di psicologìa di William James».

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3. Rif l essolog ia e s cuola stor i co- cul tura l e

1. Premessa

Dopo la fondazione del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia nel 1879, in molti paesi erano nati numerosi altri laboratori basati sul modello wundtiano, spesso ad opera di studiosi che avevano studiato e lavorato con Wundt stesso. Fu proprio in seguito alla grande influenza dell’opera wundtiana che, anche in Russia, venne fondato nel 1886, ad opera di Bechterev, il primo laboratorio di psicologia sperimentale all’Università di Kazan, mentre nel 1912 fu istituito a Mosca il primo Istituto di psicologia, aperto ufficialmente solo nel 1914 sotto la direzione di � elpanov. Ma non è solo l’influenza della psicologia sperimentale europea a costituire la base della psicologia russa: la prospettiva di ricerca psicologica russa accoglie e sintetizza le trasformazioni sociali e politiche prodotte dalle rivoluzione bolscevica del 1917. È proprio la scelta filosofica di fondo che differenzia l’approccio teorico russo dagli altri: le teorie marxiste e leniniste hanno determinato cambiamenti su tutta la produzione culturale e scientifica russa dell’epoca, compresa, naturalmente, la psicologia. Tale orientamento teorico si caratterizza per la necessità di legare saldamente la teoria ( � � � � � � ) alla prassi ( � � � � � � ) – la filosofia non ha solo lo scopo di conoscere il mondo, ma soprattutto di trasformarlo. La filosofia marxiana richiede che la scienza operi, pertanto, una «critica» delle teorie ritenute conservatrici, una critica che non può esaurirsi in sé stessa, ma che deve realizzarsi attraverso la prassi, operando una trasformazione della società, una concreta azione rivoluzionaria. Si impone anche una riconsiderazione del concetto di psiche, che non può essere più intesa come “entità ideale”: «non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza» come scrive Marx nell’Ideologia tedesca e nell’opera Per la critica dell’economia politica. Se secondo Marx la coscienza è un prodotto storico e non un dato originario e a priori, ne consegue che la psicologia deve confrontarsi con problemi collocati in un contesto storico e sociale, che si “scontrano” con la praxis. Quindi, anche secondo Vygotskij, «l’urto con la pratica obbliga la psicologia ad una ricostruzione dei suoi principi in modo che essi reggano alla prova della pratica».7 La psicologia sovietica viene spesso interpretata come esclusivamente marxista o comunista, tale interpretazione non ha permesso di valutare in modo adeguato i reali contributi delle scuole russe allo sviluppo teorico e metodologico della scienza psicologica. Le scuole sovietiche più importanti sono: - la scuola riflessologica, rappresentata dalle opere di Bechterev, Pavlov e dei membri della scuola pavloviana. - e la scuola storico-culturale fondata da Vygotskij, a metà degli anni ‘20 e sviluppata negli anni ‘30 dallo stesso e dai suoi collaboratori e allievi, tra i quali Leont’ev1.

7 Negli anni ‘20 e ‘30 vari psicologi cercarono di individuare i punti di incontro tra la teoria freudiana e il marxismo, con un orientamento noto come “freudo-marxismo”. Il contributo più importante si deve a Wilhelm Reich, originariamente di scuola psicoanalitica.

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2. La riflessologia Secondo la «riflessologia» i processi psichici sono riducibili a riflessi, cioè a processi puramente fisiologici ed elementari. Per «riflessologia» si intende la scuola fondata da Bechterev, tuttavia la prima formulazione della concezione riflessologica fu proposta da Ivan M. Se� enov (1829-1905), considerato il padre della fisiologia russa grazie alla diffusione che operò in Russia delle ricerche contemporanee di fisiologia e della propria teoria materialistica dei processi psichici – esposta nell’opera I riflessi del cervello del 1863, divenuta celebre nonostante la censura zarista ne avesse occultato i contenuti antispiritualistici - e per aver avviato un gruppo di fisiologi di fama europea. Se� enov si era formato nei più importanti laboratori europei di fisiologia lavorando con Müller, Du Bois-Reymond e von Helmholtz. La scienza psicologica, secondo Se� enov , rientra nel campo di ricerca della fisiologia: essa, infatti, consente di spiegare il comportamento secondo un’unità di analisi, un meccanismo semplice rappresentato dal concetto di riflesso: ad uno stimolo dell’ambiente (S) corrisponde una reazione motoria dell’animale (R).

«Questa reazione motoria è mediata dall’attività di un centro nervoso localizzato nel midollo spinale. L’arco riflesso spinale poteva spiegare i processi comportamentali elementari, involontari, automatici, come il ritrarre la zampa da uno stimolo doloroso. Se� enov suppose che per spiegare i processi comportamentali più complessi intervenisse l’attività di centri nervosi superiori, localizzati nel cervello. Sia nei processi semplici che in quelli complessi, il meccanismo di base era comunque lo stesso: stimolo-centro nervoso-reazione. In un caso il centro nervoso era al livello del midollo spinale e si aveva il «riflesso spinale», nell’altro caso il livello era il cervello e si aveva quindi il «riflesso cerebrale». Per Se� enov i processi psichici erano riducibili a riflessi cerebrali relativamente alla loro struttura di base».

Se molte azioni volontarie possono quindi essere trasformate in automatiche, è possibile spiegare, su un piano concettuale, come anche le attività umane superiori possano essere ridotte ad attività involontarie umane superiori analizzabili con il principio del riflesso. Il ruolo della psicologia consiste, invece, nell’analisi dei contenuti dell’attività psichica.

«I contenuti vengono acquisiti, sempre secondo il meccanismo dei riflessi, durante lo sviluppo ontogenetico e sono quindi legati all’ambiente in cui l’individuo cresce. La lingua che un uomo parla, i ricordi, le emozioni sono tutti processi psichici derivati dal rapporto individuo-ambiente, ma il meccanismo di interazione con l’ambiente e di acquisizione dei contenuti e delle conoscenze è basato sui riflessi, oggetto di ricerca della fisiologia».

In questo modo Se� enov spiega anche le attività mentali superiori: il soggetto può ritenere che i propri pensieri siano causa delle proprie azioni, perché i primi precedono gli ultimi, ma è la situazione sensoriale esterna che determina le reazioni cerebrali chiamate pensieri e che sospende l’inibizione delle reazioni motorie. La scoperta del meccanismo dell’inibizione centrale dei riflessi aspinali, portava Se� enov ad aderire ad una visione meccanicistica e organicistica del comportamento umano, senza approfondire nella propria indagine quei riflessi che lui stesso chiamò acquisiti, che comportano quindi una considerazione delle influenze ambientali nella condotta umana. La scuola riflessologica vera e propria, fondata da Vladimir M. Bechterev (1857-1927), studioso di anatomia e fisiologia del sistema nervoso, si diffuse in Russia tra il 1910 e gli ultimi anni ‘20. Bechterev intendeva, dopo gli studi sul sistema nervoso, fondare una psicologia oggettiva e sperimentale, priva di riferimenti spiritualistici e introspettivi (La psicologia oggettiva [1907-1910]). L’oggetto di indagine erano i riflessi, alla base di tutta l’attività psichica, anche dei processi complessi come quelli sociali.

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«La riflessologia di Bechterev era una concezione generale unitaria di tutti i fenomeni fisiologici, psicologici e sociali [Bechterev 1921; 1923]. Va notato che Bechterev nello studio del processo di acquisizione dei riflessi (da lui denominati «riflessi associativi») aveva privilegiato i riflessi motori, a differenza di Pavlov le cui ricerche sui riflessi condizionati concernevano essenzialmente l’attività riflessa vegetativa. Secondo Bechterev, a ragione, lo studio dell’attività motoria durante il comportamento avrebbe permesso una conoscenza più approfondita di questo non solo negli animali, ma anche nell’uomo».

Gli allievi di Bechterev si dedicarono allo studio dello sviluppo dei riflessi associativi nella prima infanzia («riflessologia genetica»), ma tale tipo di indagine fu criticato da altri psicologi, come ad esempio Vygotskij, proprio per la riduzione di complessi processi evolutivi all’apprendimento di successioni di riflessi elementari.

Ivan Petrovich Pavlov (1849-1936)

La concezione più importante delle basi fisiologiche del comportamento è stata elaborata da Ivan Petrovich Pavlov. Pavlov, fisiologo e medico sovietico, è nato nel 1849 a Rjazan. Si laurea a Pietroburgo prima in scienze naturali (nel 1875) e poi in medicina (nel 1879). Pavlov ebbe la cattedra di fisiologia all’Università di Pietroburgo e dal 1891 al 1936, l’anno della sua morte, fu direttore dell’Istituto di medicina sperimentale. Le ricerche condotte fino al 1900 circa, riguardarono la fisiologia del sistema cardiovascolare e del sistema digerente. Per i risultati conseguiti nello studio della fisiologia della digestione vinse il premio Nobel nel 1904. Ma dall’inizio del secolo al 1936, Pavlov si dedicò allo studio dei riflessi condizionati e alla fondazione della cosiddetta teoria dell’attività nervosa superiore . Con la scoperta dei riflessi condizionati Pavlov individua uno dei meccanismi essenziali della psicologia del comportamento.

Figura 1. Ivan P. Pavlov

Mettere del cibo nella bocca di un cane provocava un aumento immediato del flusso salivare. Pavlov riteneva che questa reazione stimolo-risposta fosse dovuta ad un riflesso, una sequenza automatica innata del sistema nervoso del cane. Dopo qualche settimana, tuttavia, fu possibile osservare che i cani cominciavano a produrre saliva anche quando udivano o vedevano ciò che abitualmente precedeva il cibo. Pavlov cominciò a studiare sistematicamente tale riflesso condizionato o appreso, la relazione stimolo-risposta acquisita con l’esperienza. «Pavlov era partito dall’osservazione della «secrezione psichica», cioè dal fenomeno per cui il cane salivava non solo quando il cibo veniva a diretto contatto dei recettori gustativi, ma anche in assenza di questo, quando per adoperare una terminologia impiegata in questi casi ma appunto criticata da Pavlov, il cane «si aspettava» che il cibo arrivasse.

Questa reazione dell’animale in assenza dello stimolo relativo venne denominata riflesso condi-zionato. Il comportamento è l’insieme dei processi riflessi che regolano l’interazione individuo-ambiente e il riflesso condizionato ne costituisce parte integrante e fondamentale. In un primo stadio i processi sono elementari, sono riflessi incondizionati, risposte innate agli stimoli, le quali se sono organizzate tra di loro rappresentano gli istinti. In un secondo stadio, proprio degli animali superiori e dell’uomo, i processi sono più complessi, sono riflessi condizionati, risposte acquisite. Sono i riflessi condizionati che consentono all’animale di reagire in modo più plastico e adattativo all’ambiente. L’animale non compie solo le reazioni riflesse in presenza diretta degli stimoli, ma può apprendere a reagire, in modo anticipato, ad altri stimoli che segnalano gli stimoli a cui l’animale dovrebbe reagire successivamente».

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Pavlov stabilì che mettere del cibo nella bocca del cane provocava l’aumento della saliva. Il cibo è lo stimolo incondizionato (SI) e la salivazione è la risposta incondizionata (RI). Se alla presentazione del cibo si fa precedere il suono di una campanella, gradualmente il flusso di saliva del cane comincia a presentarsi al suono della campanella e in seguito anche prima della presentazione del cibo. La campanella rappresenta per Pavlov uno stimolo condizionato o appreso (SC) e l’aumento di salivazione al suono della campanella una risposta condizionata (RC). In questo modo, il condizionamento pavloviano, o classico, comporta tipicamente l’accoppiamento ripetuto di uno stimolo condizionato (SC) e di uno stimolo incondizionato (SI), condiziona lo stimolo condizionato (SC) ed evoca una risposta condizionata (RC) simile alla risposta incondizionata (RI).

Figura 2. L’esperimento di Pavlov

Ecco un altro esempio classico di riflesso condizionato, descritto da Pavlov stesso:

«Versiamo nella bocca di un cane una debole soluzione di un acido qualunque. Questa provoca di norma una reazione di difesa: la soluzione viene espulsa con energici movimenti della testa, mentre nella cavità orale (e poi fuori di essa), fluisce un’abbondante quantità di saliva che diluisce l’acido introdotto e libera la mucosa da tracce residue di acido [Pavlov 1935; trad. it. 1968, 125].In questa prima fase si è costituito un riflesso incondizionato. Lo stimolo incondizionato (acido) produce una reazione incondizionata (salivazione). Nella seconda fase avviene la formazione del riflesso condizionato. Poco prima di introdurre la soluzione acida nella bocca del cane, sottoponiamo ripetutamente l’animale all’azione di un qualunque stimolo esterno, per esempio di un determinato suono. Che cosa osserviamo? Basterà ripetere questo suono da solo affinché si produca nel cane la stessa reazione con gli stessi movimenti della bocca e la stessa secrezione salivare (ibidem). Si è verificato che uno stimolo nuovo, il cosiddetto stimolo condizionato (suono), segnala l’applicazione successiva dello stimolo incondizionato; allora la reazione si produce subito dopo lo stimolo condizionato e prima dello stimolo incondizionato».

Figura 3. Una tipica situazione sperimentale pavloviana.

Figura 4. Acquisizione ed estinzione

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Nella figura 4 è illustrato l’andamento di un esperimento pavloviano. Nella prima fase, detta di acquisizione, il cane non addestrato aumenta gradualmente la risposta salivare (RC) con ripetuti accoppiamenti della campana e del cibo (SC+SI). La RI evocata dallo SC spariva gradualmente: questa sparizione viene chiamata da Pavlov estinzione. Nella seconda fase, l’animale veniva fatto uscire dal laboratorio e seguiva un breve periodo di riposo. La terza fase consiste in un ulteriore addestramento di estinzione in cui lo SC veniva presentato da solo. Invece della RC debole osservata alla fine della seconda fase, con la ripresa dello SC nella terza fase si notavano anche delle RC molto forti. Questo effetto viene definito recupero spontaneo, un parziale ristabilimento dell’apprendimento dell’apprendimento dopo un periodo di riposo, caratteristico delle risposte condizionate che hanno subito un processo di estinzione. Se viene presentato nuovamente un rinforzo (SC+SI) l’animale solitamente riapprende rapidamente (riacquisizione). Pavlov scoprì che era possibile variare la velocità di apprendimento manipolando alcuni fattori (ad esempio la quantità di cibo presentato e l’intensità del suono). La variabile più importante era però la relazione temporale tra SC e SI:

- quando lo SC precede leggermente lo SI il condizionamento si instaura più rapidamente (condizionamento in avanti);

- quando la presentazione è simultanea il condizionamento peggiora (condizionamento simultaneo);

- e infine quando lo SC segue lo SI si verifica la condizione peggiore di condizionamento (condizionamento all’indietro).

Se secondo la prospettiva comportamentistica, il cervello è una «scatola nera», un meccanismo di cui non si indagano i processi, ma si descrivono le leggi di relazione tra stimoli e risposte, per Pavlov è possibile descrivere i processi della «scatola nera» basandosi su deduzioni più che su osservazioni dirette dei processi cerebrali. Infatti, da un lato basandosi sull’osservazione dei meccanismi osservati sperimentalmente, Pavlov tenta di postulare gli eventi del sistema nervoso e dall’altro lato estende i risultati degli esperimenti condotti sugli animali, allo studio del comportamento umano. Proprio per questo motivo Skinner definisce il sistema nervoso descritto da Pavlov un «sistema nervoso concettuale» [Skinner, 1938]. A partire dalla fine degli anni ‘50, la scuola pavloviana ha avuto una graduale trasformazione che le ha fatto perdere le connotazioni di dogmatismo e stretta osservanza alle posizioni teoriche originarie di Pavlov. L’adozione sempre più stretta delle tecniche neurofisiologiche per lo studio dei processi cerebrali che intervengono nella formazione dei riflessi condizionati, hanno fatto abbandonare in parte l’impostazione concettualistica di Pavlov. L’esponente principale di questo nuovo indirizzo è stato Pëtr K. Anochin (1898-1974) che nell’opera Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato (1978) ha rivisto la concezione pavloviana e le ricerche sui riflessi condizionati alla luce della neurofisiologia moderna e di nuovi concetti teorici derivati soprattutto dalla cibernetica.

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Figura 1. Lèv S. Vygotskij

3. La scuola storico-culturale La rivoluzione bolscevica del 1917 ebbe, come abbiamo detto, una profonda influenza sulla cultura, l’arte, la filosofia e la scienza nel nuovo stato socialista. Nel 1924, all’Istituto di psicologia di Mosca, il direttore � elpanov venne sostituito da Konstantin N. Kornilov (1879-1957), uno psicologo d’impostazione materialistica che pose subito il problema teorico dei rapporti tra psicologia e marxismo [Kornilov 1925]. Si imponeva l’urgenza di rinnovare la psicologia ad un livello sia teorico (rapporti tra psicologia e marxismo, psicologia e scienze naturali, ecc.) sia pratico (il ruolo della psicologia nella società comunista e dello psicologo nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali, ecc.). Kornilov si impegnò per la soluzione di tali problematiche attraverso la formazione di un gruppo di giovani studiosi, rivelatisi subito ingegni eccezionali e brillanti, tra i quali spiccarono Vygotskij, Leont’ev e Lurija.

Lèv S. Vygotskij (1896-1934)

Lèv S. Vygotskij nacque nel 1896 a Orša (Russia Bianca) da una famiglia ebrea benestante. Dopo aver frequentato il liceo di Gomel, si iscrisse nel 1913 alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Mosca, laureandosi nel 1917, e contemporaneamente frequentò l’università di Sajavskij di Mosca, un’istituzione privata dove insegnavano alcuni tra i maggiori esponenti della coeva cultura russa. Tra il 1915 e il 1916 si interessò di letteratura, al teatro e all’estetica e scrisse La tragedia di Amleto (1915) e La psicologia dell’arte (1925), pubblicate solo nel 1925. Nel 1918 iniziò ad insegnare nella scuola magistrale di Gomel e a dirigere il Dipartimento teatrale della commissione popolare per l’istruzione, dedicandosi attivamente alla letteratura e al teatro. Nel 1919 si ammalò di tubercolosi. Nel 1924 lesse la relazione Metodologia della ricerca riflessologia e psicologica al secondo congresso panrusso di pedologia, pedagogia sperimentale e psiconeurologia a Leningrado, suscitando un grande interesse tra gli psicologi presenti. Nel 1924 fu invitato da Kornilov a collaborare con l’Istituto di psicologia di Mosca, dando inizio alle ricerche sui processi cognitivi che furono alla base della scuola storico- culturale e collaborando con Leont’ev e Lurija. Sempre nel

1924 tenne la conferenza La coscienza come problema della psicologia del comportamento, il cui testo pubblicato nel 1925 divenne il manifesto della teoria storico culturale. Sempre nel 1925 finì la dissertazione di dottorato sulla psicologia dell’arte, ma ammalatosi nuovamente non poté discuterla. Durante la malattia scrisse Il senso storico della crisi della psicologia, pubblicata postuma, solo nel 1982. Nel 1926 fu edito il libro Psicologia pedagogica e al IX congresso internazionale di psicologia a New Haven del 1929, presentò con Lurija una comunicazione sul linguaggio egocentrico nella quale criticava Piaget. Tra il 1928 e il 1930 diresse il laboratorio di psicologia all’Accademia dell’educazione comunista. Tra il 1929 e il 1931 furono pubblicati i due volumi di Pedologia dell’adolescente, i libri Immaginazione e creatività nell’età infantile, La storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e, con Lurija, Studi di storia del comportamento. La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Nel 1931 fondò un dipartimento di psicologia presso l’Accademia di psiconeurologia a Charcov, in Ucraina, dove si sarebbe costituito un gruppo di ricerca guidato da Leont’ev, che sarebbe stato chiamato successivamente la «scuola di Charcov»; sempre nel 1931 divenne direttore di varie riviste di psicologia e pedagogia, professore all’Università di Mosca, direttore dell’Istituto di difettologia di Mosca. In quegli anni curò anche la traduzione russa di varie opere di psicologia occidentale (Piaget, Freud, Köhler, Bühler, ecc.). Nel 1933 scrisse un importante saggio sul gioco nello sviluppo psichico infantile (inedito fino al 1966) e una monografia sulle

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emozioni. In quell’anno i rapporti con Leont’ev e Lurija si interruppero a seguito di critiche ideologiche rivoltegli pubblicamente, che lo portarono ad un isolamento quasi completo. Nel 1934, a soli trentotto anni, Vygotskij morì di tubercolosi e furono pubblicati postumi vari saggi di psicologia, neurologia e pedagogia, tra i quali Pensiero e linguaggio edita nel 1954. La teoria di Vygotskij non fu apprezzata dai contemporanei, anche perché poco conosciuta al di fuori della Russia. L’Occidente cominciò ad interessarsene solo dopo gli anni ‘60 e molte delle opere rimasero inedite fino agli anni ‘80, in cui si ebbe una vera e propria esplosione delle ricerche e degli studi sulla teoria vygotskijana. Solo con la conoscenza più compiuta delle opere di Vygotskij si poté prendere atto che l’opera di Vygotskij non poteva essere ridotta alla problematica dei rapporti tra pensiero e linguaggio, attraverso la quale era stato conosciuto in Occidente; essa contiene infatti una varietà di contributi nei campi più svariati: dalla psicologia alla pedagogia, dall’estetica alla linguistica, dalla psicopatologia alla neuropsicologia. Il manifesto della scuola storico-culturale fu esposto ne La coscienza come problema della sociologia del comportamento, un saggio contenuto nel testo Psicologia e marxismo curato da Kornilov nel 1925. La coscienza si basava sulla prima conferenza che Vygotskij tenne all’Istituto di psicologia di Mosca nell’ottobre del 1924. Invece, il testo della conferenza tenuta a gennaio dello stesso anno a Leningrado, intitolato Metodologia della ricerca riflessologia e psicologica, conteneva già gli elementi essenziali del manifesto della scuola. Vygotskij partiva dalla considerazione che le teorie riflessologiche russe (Bechterev e Pavlov), consideravano la psiche come un sistema di riflessi, si erano occupate esclusivamente dei processi psichici elementari (i riflessi condizionati) e per cercare un metodo basato sulla misurazione oggettiva avevano escluso lo studio dei processi psichici superiori, che avrebbe invece richiesto l’introspezione e l’esperienza soggettiva. Questa posizione, secondo Vygotskij, comportava una rinuncia da parte della psicologia all’indagine sulla specificità dei processi psichici umani, che si differenziavano da quelli animali per un elemento fondamentale: la presenza della coscienza. Per Vygotskij tale rinuncia implicava una posizione dualistica inaccettabile, in cui da una parte, si collocavano i processi psichici elementari – misurabili oggettivamente - e dall’altra, i processi psichici superiori – inaccessibili e irriducibili. Appare chiaro a Vygotskij che occorre individuare procedure oggettive anche sui processi psichici coscienti e la via metodologica per accedere alla coscienza è indicata dallo studio delle risposte verbali dei soggetti. Nel saggio La coscienza come problema della sociologia del comportamento, Vygotskij scrive in epigrafe un famoso passo del Capitale di Marx, nel quale vengono messi a confronto il comportamento di un’ape e quello di un lavoratore. Il confronto si basa su un’attività concreta, un processo che dipende da un’idea – prodotta da una mente cosciente – e persegue uno scopo:

«[…] ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che [l’uomo] ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente idealmente. Non che effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà » (Marx, Vol. I).

Secondo Vygotskij, le correnti psicologiche contemporanee evitano costantemente e intenzionalmente il problema della natura psicologica della coscienza, generando di conseguenza dei sistemi di psicologia scientifica corrotti da vizi organici. I più importanti limiti delle teorie riflessologiche, per Vygotskij (1925), sono i seguenti:

«1) Ignorando il problema della coscienza, la psicologia si preclude da sola l’accesso allo studio dei problemi complessi del comportamento dell’uomo. Essa è costretta a limitarsi a chiarire i nessi più elementari dell’essere vivente con il mondo. È facile convincersi che le cose stanno realmente così

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dando un’occhiata all’indice del libro dell’accademico V.M. Bechterev, Principi generali di riflessologia dell’uomo. Principio di conservazione dell’energia. Principio della variabilità continua. Principio del ritmo. Principio dell’adattamento. Principio della reazione, pari all’azione. Principio di relatività. In una parola, principi universali, che abbracciano non soltanto il comportamento dell’animale e dell’uomo, ma l’universo intero. E perciò neppure una legge psicologica del comportamento dell’uomo che formuli un nesso o una dipendenza dei fenomeni, che caratterizzi l’originalità del comportamento umano, differentemente dal comportamento dell’animale. All’altro polo del libro c’è il classico esperimento del riflesso condizionato, un piccolo esperimento di importanza eccezionale in linea di principio, ma che non riempie lo spazio universale dal riflesso condizionato di primo grado al principio della relatività. La discordanza tra il tetto e le fondamenta svelano facilmente quanto sia ancora presto per formulare principi universali sul materiale riflessologico e quanto sia facile prendere le leggi da altri campi del sapere e applicarle alla psicologia. E quanto più vasto e universale è il principio che prendiamo, tanto più facile sarà infilarlo addosso al fatto che ci interessa. Non si può però dimenticare che l’ampiezza e il contenuto di un concetto sono sempre inversamente proporzionali. E come l’ampiezza dei principi universali tende all’infinito, così il loro contenuto psicologico diminuisce con altrettanta impetuosità fino allo zero. E questo non è un vizio particolare del corso di Bechterev. In una forma e nell’altra questo stesso vizio si scopre e si riflette in ogni tentativo di esporre sistematicamente la teoria del comportamento dell’uomo come nuda riflessologia. 2) La negazione della coscienza e la tendenza a costruire un sistema psicologico senza questo concetto, come una «psicologia senza coscienza», secondo l’espressione di P.P. Blonskij porta al risultato che la metodologia viene privata dei mezzi indispensabili per lo studio delle reazioni non palesi, non visibili a occhio nudo, come i movimenti interiori, il linguaggio interno, le reazioni somatiche ecc. Lo studio delle sole reazioni visibili a occhio nudo è del tutto impotente e inconsistente anche di fronte ai più semplici problemi del comportamento dell’uomo. Eppure il comportamento dell’uomo è organizzato in modo tale che proprio i movimenti interiori difficilmente identificabili guidano e indirizzano il suo comportamento. Quando formiamo il riflesso condizionato di salivazione del cane, in un certo modo noi organizziamo preliminarmente il suo comportamento con procedimenti esterni, altrimenti l’esperimento non riesce. Mettiamo il cane nell’apparecchio, lo afferriamo con delle bretelle, ecc. esattamente nello stesso modo noi organizziamo preliminarmente, in un certo modo il comportamento del soggetto preso in esame, con determinati movimenti interiori, attraverso l’istruzione, la spiegazione, ecc. E se ad un tratto i movimenti interiori cambiano durante l’esperimento, tutto il quadro del comportamento cambierà nettamente. Così ci serviamo sempre di reazioni rallentate; sappiamo che esse si svolgono senza sosta nell’organismo; sappiamo che hanno un ruolo influente nella regolazione del comportamento, nella misura in cui esso è cosciente. Ma siamo privi di ogni mezzo per lo studio di queste reazioni interne. Per dirla più semplicemente: l’uomo pensa sempre tra sé; ciò non resta mai senza influenza sul suo comportamento; un improvviso cambiamento dei pensieri durante l’esperimento si ripercuote sempre bruscamente su tutto il comportamento del soggetto (ad un tratto sorge il pensiero: non guarderò nell’apparecchio). Ma non sappiamo nulla sul modo di tener conto di questa influenza. 3) Si elimina ogni confine di principio tra il comportamento dell’animale e quello dell’uomo. La biologia divora la sociologia, la fisiologia divora la psicologia. Il comportamento dell’uomo si studia nella misura in cui è il comportamento di un mammifero. Ciò che di totalmente nuovo la coscienza e la psiche introducono nel comportamento umano viene ignorato» (Vygotskij, 1925).

La prima formulazione sistematica dei concetti e metodi della teoria storico-culturale venne data negli Studi sulla storia del comportamento del 1930, opera scritta in collaborazione con Lurija. La trattazione è suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali esamina le funzioni psichiche dei primati, del bambino e dell’uomo adulto, con l’illustrazione dei metodi impiegati e degli esperimenti condotti. I problemi principali affrontati sono:

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1) il rapporto tra la psicologia degli animali e degli esseri umani 2) la psicologia dell’ uomo ‘primitivo’ e dell’uomo occidentale 3) la psicologia dei bambini e degli adulti 4) la psicologia dei soggetti sani e malati.

La prospettiva vygotskijana è, quindi, evolutiva sia in senso filogenetico (animale-uomo) che ontogenetico (bambino-uomo). Lo studio evolutivo mostra che vi è una continuità strutturale e funzionale e al tempo stesso coesistono una serie di momenti critici che distinguono nettamente i comportamenti. I processi fisiologici e comportamentali - come i riflessi condizionati - possono essere comuni agli animali e all’uomo, ma mentre per i primi costituiscono l’unità fondamentale di comportamento, per il secondo sono solo i processi più elementari e ne rappresentano processi meno tipici. Tra gli animali e l’uomo vi è un «salto qualitativo» caratterizzato dallo sviluppo di processi psichici superiori che dipendono strettamente dal contesto storico-sociale in cui cresce un bambino. Ciò non significa che i processi superiori sostituiscono i processi inferiori, o che la dimensione storica sostituisce quella biologica. I processi psichici superiori conservano la stessa natura biologica dei processi psichici inferiori, ma i primi rappresentano una nuova organizzazione funzionale generata da fattori sociali e culturali. Quindi sia i processi psichici inferiori che quelli superiori sono processi materiali svolti nel cervelli ma questi ultimi si sviluppano in relazione all’ambiente. Vygotskij assume l’ipotesi che la struttura fondamentale dei processi psichici sia la sequenza Stimolo-Risposta (S-R): essa è alla base dei processi elementari, come gli istinti, i riflessi innati – che costituiscono il livello più elementare, secondo la distinzione di Bülher – seguiti dal livello dei riflessi acquisiti o condizionati. Nei processi psichici superiori, il livello delle funzioni intellettive tra lo stimolo e la risposta si inserisce il priem (strumento, metodo, artificio o stimolo-mezzo). È lo stimolo-mezzo che rappresenta il salto dialettico che modifica qualitativamente il rapporto tra stimolo e reazione. A questo proposito Vygotskij cita l’esempio dell’asino di Buridano: davanti a due sacchi di fieno ugualmente pieni l’asino non sa decidersi e muore di fame. Un uomo invece può lanciare una moneta e scegliere in base al risultato del lancio. Nel primo caso i due stimoli producono due risposte «uguali ma di direzione contraria»: il risultato è l’inibizione del comportamento; nel secondo caso l’uomo crea uno stimolo che utilizza come strumento, come mezzo per consentire al comportamento di intraprendere una direzione diversa. Per Vygotskij è proprio la presenza di stimoli creati, accanto a quelli dati, che distingue la psicologia dell’uomo. Anche nei primati esistono i comportamenti mediati da strumenti, come ad esempio, gli scimpanzé degli esperimenti di Köhler che si servivano di bastoni o casse per raggiungere il cibo. Eppure per Vygotskij, il comportamento umano è guidato quasi del tutto da comportamenti mediati da stimoli-mezzi, che sono, a differenza degli strumenti utilizzati dai primati, strumenti acquisiti dall’ambiente sociale e interiorizzati:

«Noi chiamiamo ‘segni’ questi ‘stimoli-mezzi’ artificiali introdotti dall’uomo nella situazione e svolgenti una funzione di autostimolazione. […] In base a questa nostra definizione, dunque, ogni stimolo condizionato creato dall’uomo e assunto come mezzo per dirigere il proprio o l’altrui comportamento è un segno» (Vygotskij, 1931).

I segni sono acquisiti nella storia psicologica individuale (sviluppo ontogenetico) attraverso il contesto sociale (la famiglia, la scuola, ecc.). L’uomo, quindi, si avvale in modo caratteristico degli strumenti, degli stimoli-mezzi, intendendo con questi ultimi anche il linguaggio verbale, come forma di comunicazione, basata su capacità genetiche della mente umana, ma acquisita grazie all’ambiente familiare e sociale in cui cresce il bambino.

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«Nei primi anni di vita il bambino usa i simboli (sia nel senso di parole che di regole dell’attività comportamentale) in base all’interazione che ha con i propri genitori e con gli adulti nella vita quotidiana e nella scuola. In seguito egli adotta gli stessi simboli da se stesso, senza lo stimolo esterno di un’altra persona» (Legrenzi, 1980).

Un processo fondamentale è l’interiorizzazione degli stimoli-mezzi o segni: nella Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori (1931), nelle Lezioni di psicologia (1932) e negli articoli raccolti con il titolo Lo sviluppo psichico del bambino (1923-24) Vygotskij ha fornito molti esempi per spiegare i processi di interiorizzazione del linguaggio e le regole del comportamento nello sviluppo del bambino tra i quattro e gli otto anni. Questo problema è centrale anche in Pensiero e linguaggio, opera postuma edita nel 1954.

«Oltre ad esaminare criticamente le teorie contemporanee sulla genesi dei processi del pensiero e del linguaggio, Vygotskij vi elabora una teoria che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento fondamentale. Il pensiero e il linguaggio hanno due radici genetiche differenti. Sia negli animali che nel bambino piccolo vi sono forme più o meno evolute di attività intellettiva relative ad esempio alla soluzione di problemi e all’adattamento all’ambiente. Queste attività possono essere indipendenti dal linguaggio. Allo stesso tempo, il bambino può usare forme primitive di linguaggio senza implicare processi intellettivi o di pensiero, ma per comunicare stati emotivi, richiamare l’attenzione dei genitori, ecc. Intorno ai due anni circa il pensiero e il linguaggio cominciano ad in-teragire. Il linguaggio diventa strumento di comunicazione alle altre persone della propria attività di pensiero e regolazione del proprio comportamento in base alle strategie e alle regole adottate dal bambino. Una distinzione importante, ripresa da vari membri della scuola storico-culturale e in particolare da Lurija, è appunto quella tra linguaggio come strumento di comunicazione e linguaggio come strumento di regolazione del comportamento. Le due funzioni del linguaggio si sviluppano in tempi diversi, la funzione comunicativa si sviluppa intorno a 1 anno e mezzo-2 anni, la funzione regolativa intorno ai 4 anni. Un aspetto importante di questa teoria è il concetto di interiorizzazione. In un primo stadio, il linguaggio è espresso a voce alta quando si comunica con le altre persone, successivamente viene usato come strumento di regolazione delle proprie azioni. Prima dell’interiorizzazione della funzione regolativa, questa viene svolta però a voce alta, come si osserva soprattutto quando il bambino dovendo risolvere un problema difficile «ricorda» a se stesso a voce alta le operazioni che deve compiere. L’interiorizzazione è quindi un processo graduale che si compie non prima dei 7 anni. Questa fase intermedia nell’uso del linguaggio a voce alta viene denominata fase del linguaggio egocentrico. E sulle fasi dì sviluppo che si centrano le critiche svolte da Vygotskij a Piaget. Questi venne a conoscenza delle critiche solo negli anni ‘50 e poté scrivere una replica «postuma» in occasione della traduzione americana del 1962 (la risposta di Piaget si trova in appendice al-l’edizione italiana di Pensiero e linguaggio). Sulla cosiddetta polemica Vygotskij-Piaget molti autori contemporanei hanno concentrato la loro attenzione, perché attraverso essa è possibile impostare un discorso assai più generale su tutto lo sviluppo mentale del bambino. Secondo la teoria espressa da Piaget in Il linguaggio e i! pensiero del fanciullo nel 1923, come scrive Vygotskij, «il linguaggio egocentrico del bambino è la manifestazione immediata dell’egocentrismo, il quale è, a sua volta, un compromesso tra l’autismo iniziale e la progressiva socializzazione del pensiero infantile», mentre per la teoria dì Vygotskij stesso «si ha invece una considerazione del tutto opposta; il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta uno dei fenomeni di transizione dalle funzioni interpsichiche a quelle ultrapsichiche e cioè un passaggio da forme di attività sociale a forme di attività interamente individuale» [Vygotskij 1934]. Per Vygotskij il linguaggio è una funzione psichica complessa che si sviluppa nel bambino nell’interazione con l’ambiente sociale, è una funzione interpsichica, che mette in rapporto cioè una persona con l’altra. Successivamente diviene una funzione intrapsichica, una funzione che permette di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento. Per Piaget il percorso è l’opposto. Da funzione interna e propria del bambino, il linguaggio diviene gradualmente una funzione socializzata. Per la teoria storico-cultura-

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le, lo sviluppo di funzioni complesse come il linguaggio ha come condizione necessaria l’interazione dell’individuo con l’ambiente sociale. La struttura del linguaggio è innata, ma la concreta prestazione linguistica, la lingua che un individuo parla è determinata dall’ambiente sodale e culturale in cui l’individuo nasce e cresce. Quanto è appreso in tale ambiente viene progressivamente interiorizzato e costituisce le regole, le strategie e i contenuti dell’attività psichica. Un grande interesse per la psicolinguistica hanno le considerazioni fatte da Vygotskij sulle differenze tra linguaggio esteriore e linguaggio interiore. Il linguaggio interiore è frammentario, abbreviato, mentre il linguaggio esteriore, quello che usiamo quando parliamo con un’altra persona, è più disteso e completo. Queste differenze si ripercuotono sul piano grammaticale e sintattico, per cui possiamo studiare la trasposizione dei contenuti di pensiero in specifiche forme linguistiche a seconda delle funzioni che il linguaggio assolve di momento in momento» (Legrenzi, 1980).

Dopo i lavori degli anni tra il 1925 e il 1935 vi fu un rallentamento dovuto alla svolta politico-culturale dello stalinismo e alla graduale egemonizzazione della ricerca da parte della scuola pavloviana. Anche se la scuola storico-culturale ebbe il proprio fondamento teorico in Vygotskij, essa non si esaurì nelle tesi che Vygotskij stesso sviluppò. Il nucleo centrale delle ricerche della scuola storico-culturale è costituito dal problema dello sviluppo mentale infantile (formazione dei concetti, sviluppo della memoria, dell’attenzione, ecc.), tuttavia un filone di ricerche intrapreso negli anni ‘30 ha sviluppato il rapporto tra culture e società diverse e lo sviluppo di capacità mentali. Attraverso spedizioni in Asia centrale i confronti cross-culturali tra i processi cognitivi di popolazioni nomadi con popolazioni urbane, avevano messo in luce forti differenze di origine storico-culturale. Nella seconda metà degli anni ‘50, si ebbe una ripresa della scuola storico-culturale sia con la riedizione, nel 1956, di alcuni scritti psicologici di Vygotskij sia con la pubblicazione di importanti opere dei collaboratori di Vygotskij. Tra i principali esponenti di questa scuola vanno ricordati Aleksej N. Leont’ev, autore di studi sulla memoria e di una teoria del condizionamento storico-sociale dei processi mentali [1959], e Aleksandr R. Lurija, psicologo di grande rilievo.

«Aleksandr R. Lurija nacque a Kazan nel 1902. Unitosi al gruppo moscovita nel 1923, si interessò in un primo tempo dei processi emotivi e dinamici (le ricerche furono sintetizzate nella monografia del 1923) e poi insieme a Vygotskij dello sviluppo del linguaggio e dei processi cognitivi (Vygotskij e Lurija, Studi di storia del comportamento, 1930; Lurija, Storia sociale dei processi cognitivi 1974). Durante la seconda guerra mondiale cominciò ad interessarsi dei disturbi dei processi psichici conseguenti a lesioni cerebrali, con tutta una serie di opere fondamentali nella storia della neuropsicologia che ebbero una prima sintesi nell’opera Le funzioni corticali superiori nell’uomo (1962), poi negli anni ‘50 furono ripresi gli studi sul linguaggio. Le ultime opere, scritte prima della morte nel 1977, sono state dedicate alle basi cerebrali della memoria (Lurija, Neuropsicologia della memoria, 1974) e del linguaggio (Lurija, Problemi fondamentali di neurolinguistica, 1975). Nel libro Come lavora il cervello (1973) è contenuta una sintesi aggiornata delle sue ricerche neuropsicologiche (Mecacci e Misiti, 1978). Bisogna notare in primo luogo che all’interno delle ricerche sovietiche sul cervello, in buona parte impostate secondo la teoria pavloviana, Lurija ha rappresentato un indirizzo differente e specifico in implicita polemica talvolta proprio con la scuola pavloviana. Le funzioni cerebrali che mediano funzioni psichiche complesse non sono traducibili nei termini di riflessi condizionati, ma sono sistemi funzionali, sistemi di interazione cerebrale molto più complessi, la cui organizzazione, in accordo alla teoria generale storico-culturale, si sviluppa in stretta relazione con l’ambiente. Il linguaggio, ad esempio, non ha come struttura fisiologica di base il riflesso condizionato, come sostenevano i pavloviani, ma risulta dall’interazione di strutture cerebrali diverse che si sviluppa e si modifica nel corso dell’ontogenesi. Data questa stretta relazione tra cervello e ambiente, si spiega come le lesioni cerebrali producano disturbi differenziati da individuo a individuo a seconda delle loro abitudini, della loro lingua, della loro cultura, ecc. Per questa ragione Lurija ha dato molta importanza allo studio dei casi individuali di cerebrolesi, come è esemplificato nell’analisi che ha fatto di un caso di memoria prodigiosa e di un afasico» (Legrenzi, 1980).

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4. La psi colog ia de l la Gesta l t 8 1. Introduzione Tra la fine dell’Ottocento e gli anni ‘30 del Novecento nasce e si sviluppa in Europa una corrente di ricerca psicologica che è possibile definire fenomenologica. Espressione di tale corrente è la «Gestalttheorie» (= teoria della forma) o «Gestaltpsicologie» (= psicologia della forma) detta sinteticamente anche «Gestalt» che si sviluppa a partire dal 1912 e comprende tra i suoi esponenti maggiori Wertheimer (1880-1943), Köhler (1886-1943), Koffka (1887-1967) e Lewin (1890-1947). Anche se la Gestalt ha origine tedesca, i suoi esponenti, a causa dell’avvento del totalitarismo nazista e dei vissuti personali, sono entrati in contatto con la psicologia americana. In seguito all’avvento del nazismo in Germania, infatti, gli esponenti della Gestalt emigrarono, uno dopo l’altro, negli Stati Uniti. A fianco quindi del periodo tedesco, che può essere approssimativamente indicato con le date 1912-1935, si aggiunge un periodo americano. Se nella fase europea la Gestalt nasce e consolida le proprie elaborazioni teoriche e sperimentali, nella fase americana essa è tesa al proprio riconoscimento in un ambiente culturale e in un momento storico in cui è predominante la psicologia comportamentista. La scuola della Gestalt è la risposta europea più coerente che è stata data all’associazionismo atomistico, alla base delle teorie strutturaliste. Dovendo rintracciare gli autori che hanno assunto un peso rilevante per la Gestalt, sicuramente Immanuel Kant (1724-1804) è il più importante - anche se temporalmente più lontano – perché riesce a ricomporre la frattura tra empirismo e razionalismo attraverso il concetto di sintesi a priori: processo nel quale la mente non è né passiva (antiempirismo), né deriva la propria attività da idee innate (antirazionalismo). In tal modo, l’atto del conoscere è attività unitaria e unificante in cui la materia, fornita dai sensi, viene organizzata secondo le forme a priori della mente. Un altro dei teorici fondamentali della corrente gestaltica è Franz Brentano (1838-1917).

Husserl, allievo di Brentano, spiega l’atteggiamento naturale della coscienza9 evidenziando due aspetti centrali del metodo fenomenologico, metodo profondamente diverso da quello proposto da Wundt:

- il riferimento al mondo così come appare alla coscienza, il mondo fenomenico nel suo darsi immediato, nell’essere immediatamente oggetto di indagine

- la necessità di descrivere il mondo fenomenico al di là dei pre-giudizi delle scienze naturali che descrivono e spiegano gli oggetti del mondo come staccati dalla coscienza.

«Io sono consapevole di un mondo che si estende infinitamente nello spazio, e che è ed è stato soggetto a un infinito divenire del tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che trovo il mondo immediatamente e visivamente dinnanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, ecc. le cose corporee sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano, in senso letterale e figurato, sia che io presti o non presti loro attenzione,

sia che mi occupi o no di esse nel pensiero, nel sentimento, nella volontà. […] La realtà – e la parola stessa lo dice – la trovo in quanto, desto una esperienza omogenea e mai interrotta, la trovo come

8 Questa dispensa è elaborata da Simona Nicolosi, ricercatrice e docente di Psicologia generale dell’Università degli studi di Enna/Kore. Le dispense hanno la finalità di sintetizzare i contenuti delle lezioni di Storia della Psicologia del corso di Psicologia generale tenuto dalla docente. Qualora lo studente volesse approfondire alcuni o tutti gli aspetti trattati, potrà utilizzare i riferimenti bibliografici indicati alla fine di ogni dispensa per risalire ai testi utilizzati per la presente trattazione. 9 Secondo la fenomenologia, la coscienza ingenua assume come ovvia l’esistenza della realtà esterna.

Figura 1. Franz Brentano

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esistente e la assumo esistente, così come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale. Il mondo come realtà è sempre là; può rivelarsi qua o là ‘diverso’ da come lo presumevo, questo o quell’elemento dev’essere cancellato da esso a titolo di ‘apparenza’, ‘allucinazione’ e simili; ma, nel senso della tesi generale, esso è sempre mondo esistente.» (Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia, 1913)

Lo psicologo che utilizza il metodo fenomenologico utilizza un metodo lontano dal metodo sperimentale di Wundt, il quale riesce a rendere «scientifica» la nascente psicologia in modo molto simile a quello con cui procede la chimica (una scienza che trova enorme sviluppo nell’Ottocento): ogni fenomeno viene scomposto nei suoi aspetti elementari per ottenere unità semplici non ulteriormente riducibili. La Gestalttheorie rifiuta questa impostazione e i metodi che ne derivano. Nella sua “psicologia dell’atto”, Brentano privilegia la dimensione attiva dell’esperienza psichica individuale - in cui l’aspetto specifico è l’intenzionalità - e assume come uno dei temi distintivi un radicale antielementismo. Ne deriva che l’oggetto della psicologia non è il materiale fornito ai nostri sensi, cioè le cose che vediamo udiamo o ricordiamo, ma l’atto di vedere, udire, ricordare. Come afferma Dilthey nel suo saggio del 1894, Idee per una psicologia descrittiva e analitica, «noi spieghiamo la natura, mentre comprendiamo la vita psichica». Dilthey apporta una basilare distinzione di metodo e di contenuto tra le scienze della natura, che spiegano in termini di relazione causa-effetto la realtà esterna, i fenomeni e gli oggetti della natura, e le scienze dello spirito, che studia la realtà interna, che non è riducibile a leggi generali e non è scomponibile in fenomeni separati, ma che può essere compresa come «connessione vivente» nella sua interezza. «Attraverso il comprendere si coglie la dimensione interiore dell’individuo, ‘ciò che è immediatamente vissuto’, la continuità dell’esperienza dove una ‘esperienza vissuta’ (Erlebnis) si ‘connette’ con un’altra. […] La comprensione è allo stesso tempo interpretazione. Poiché le esperienze vissute trapelano da colui che è altro da me attraverso modalità comunicative, significati e intenzioni che si presentano in modo discontinuo, frammentario e fluido, occorre un’opera continua di tessitura e attribuzione di senso a tali esperienze; diviene allora centrale il metodo dell’interpretazione secondo Dilthey e numerosi altri esponenti della prospettiva fenomenologia […]» (Mecacci, 2002). Questo è un punto di vista antielementistico perché sottolinea il ruolo assunto dal soggetto e non attribuisce al dato sensoriale semplice l’importanza che è propria di sistemi come quello di Wundt. «Se per Wundt la psicologia era la scienza che studia i processi psichici quali si manifestano nell’esperienza immediata sotto la forma di ‘contenuti’, per Brentano la psicologia era la scienza dei processi mentali in quanto tali, nel loro agire e procedere. Più che sul contenuto dell’esperienza, l’accento è posto sull’esperire stesso»(Mecacci, 2002). L’oggetto della psicologia per Brentano non è questa sensazione, ma il sentire, non è questa rappresentazione, ma il rappresentare: «Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che lo Scolastico medievale ha chiamato in-esistenza intenzionale (o anche mentale)10 di un oggetto, e che noi chiameremmo, con un’espressione non del tutto ambigua, relazione a un contenuto, direzione verso un oggetto (che non deve essere inteso come una realtà) o oggettività immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, sebbene non sempre nello stesso modo. Nella rappresentazione qualcosa è rappresentato, nel giudizio qualcosa è

10 Il termine latino intentio significa concetto e infatti il termine intentionaliter (intenzionalmente) prende nella filosofia scolastica medievale il senso di “mentalmente” o “concettualmente”. Gli scolastici utilizzarono il concetto come intentio esprimendo con esso un alium tendere, ovvero un riferimento ad alcunché di oggettivo. L’intentio designa poi sia la forma dell’atto del rivolgersi sia l’atto stesso. In ogni caso la inexistentia intentionalis della cosa nella mente significa la presenza dell’oggetto nella mente non in quanto tale, ma come significato o rappresentazione. Per Brentano intenzionalità significa relazione al contenuto o direzione verso l’oggetto.(Cioffi et al. Il testo filosofico, Mondadori, Milano vol.3/2)

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ammesso o respinto, nell’amore amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato, e così via» (Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, 1874). L’oggetto è sempre immanente nell’atto psichico, non è esterno all’atto stesso, non è distaccato: ciò che è pensato non esiste come qualcosa di distaccato dal pensare, è il pensare stesso, su un oggetto che esiste al di là del nostro pensare, ma che per noi esiste solo nel momento in cui è pensato.

«Una più diretta ascendenza della Gestalt può essere riscontrata nella teoria della produzione di Meinong, nella scuola di Graz e quindi nelle tesi, da quest’ultima derivanti, del padovano Benussi. La teoria della produzione si basa sulla distinzione tra oggetti di ordine superiore e oggetti di ordine inferiore: per ciascuno di questi due ordini si ha una rappresentazione. Vengono chiamate «rappresentazioni non prodotte», o elementari, quelle generate dagli oggetti di ordine inferiore, quelle cioè che per esserci non hanno bisogno dell’esistenza di alcun altro oggetto; si definiscono invece «rappresentazioni prodotte» quelle che appunto «producono» gli oggetti di ordine superiore, quelli cioè che derivano la loro esistenza dagli oggetti di ordine inferiore. Si può perciò riscontrare, anche nella scuola di Graz, un atteggiamento antielementista nel senso che le rappresentazioni prodotte non dipendono toul-court dagli elementi semplici, né sono necessariamente e direttamente determinate da aspetti materiali. Ancora più diretta, e in questo caso anche ufficialmente riconosciuta dagli stessi gestaltisti, è l’influenza di Von Ehrenfels, un pensatore vicino a Meinong. Nel 1890 pubblica uno scritto in cui venivano poste in rilievo quelle che verranno chiamate «qualità-gestalt» o «qualità Ehrenfels». Se si prende in considerazione, ad esempio, una melodia, è innegabile che essa sia di fatto costituita da parti, le singole note che la compongono. Il risultato finale però non è la somma delle partì, la melodìa infatti ha caratteristiche diverse da quelle delle note. La qualità propria della melodia è una qualità-gestalt. Ed è a tal punto indipendente dalle qualità delle singole partì che possiamo ricreare la stessa melodia sia eseguendola su strumenti diversi (le note saranno differenti nel timbro), sia addirittura trasportandola di tonalità e mutando quindi totalmente le note-elementi che la formano. La qualità-gestalt, cioè la qualità propria del tutto, non è data quindi dagli elementi, ma dalle relazioni che intercorrono tra essi, dalla loro struttura. «Il tutto è più della somma delle partì»: questa affermazione, che compare in tutti gli scritti sulla psicologia della Gestalt, viene utilizzata come una scolastica etichetta distintiva. Di fatto non co-stituisce nient’altro che il primo, anche se importante, passo teorico della Gestalt. Come abbiamo visto, già altri pensatori erano giunti a riconoscere l’insufficienza delle parti a spiegare il tutto. Lo stadio successivo è consistito nel determinare leggi non arbitrarie secondo le quali gli elementi vanno a formare un tutto; un esempio può essere fornito dalle regole di associazione propugnate dai filosofi (da Aristotele agli empiristi inglesi) e adottate programmaticamente da alcune correnti di pensiero psicologico (associazionisti e comportamentisti). Ma il passo più determinante è quello di osservare che una stessa parte ha caratteristiche diverse se presa singolarmente o inserita nel tutto e che quindi, come corollario, una stessa parte inserita in due diverse totalità può assumere caratteristiche diverse. Proprio quest’ultima affermazione è quella che più caratterizza l’impostazione gestaltista. Con ciò il rovesciamento rispetto ai punti di vista precedenti è completato. Il modo di rapportarsi all’esperienza non parte dal basso, dall’analisi che frammenta, ma si propone dì considerare entità globali aventi una loro intrinseca organizzazione; il termine Gestalt stesso vuole proprio indicare questo concetto di unità avente una sua propria forma. Come dice Köhler stesso: Ora in lingua tedesca - almeno dal tempo di Goethe - il sostantivo «Gestalt» ha due significati: oltre alla connotazione di forma o foggia quale attributo dì cose, esso ha anche il significato di una concreta unità per se stessa, che fra le proprie caratteristiche abbia o possa avere, una forma. Dal tempo di Ehrenfels in poi l’accento si è spostato dalle qualità-Ehrenfels ai fatti dell’organizzazione, e in tal modo al problema delle entità specifiche presenti nei campi sensoriali […]. In realtà la categoria di Gestalt si può estendere molto al di là dei limiti dell’esperienza sensoriale. Nella più generale definizione funzionale del termine è lecito includervi i processi

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dell’apprendimento, del ricordo, dello sforzo di volontà, dell’atteggiamento emotivo, del pensare, dell’agire e via dicendo [Köhler 1947]. Come si vede la psicologia della Gestalt, anche se sorta prevalentemente su materiale collegato alla percezione, è in grado di elaborare un impianto teorico che sì estende all’intera gamma degli aspetti cognitivi; non si limita quindi, come a volte le è stato imputato, ad aspetti percettivi, a «forme» dì organizzazione sensoriale, ma cerca di individuare queste stesse «forme» anche negli altri ambiti della psicologia. » (Legrenzi, 1980).

2. Nascita e principali aspetti teorici della Gestalt La data di nascita della Gestalt può essere individuata nel 1912, anno in cui Max Wertheimer (1880-1943) pubblica i risultati di due anni di ricerche sul movimento stroboscopio, condotte nell’Istituto di Psicologia di Francoforte con Köhler e Koffka. «In un ambiente buio si illumini mediante il raggio (r1) emesso da un proiettore (P1) un oggetto (O1) posto sulla sinistra rispetto all’osservatore (dopo alcuni secondi si spenga il fascio di luce di sinistra e, in rapida successione (frazioni di secondo) si illumini un secondo oggetto (O2) simile al precedente ma posto sulla destra dell’osservatore. Il risultato percettivo è quello di vedere un unico oggetto O1 che dalla posizione di sinistra si sposta velocemente a quella di destra. Questo fenomeno, chiamato « fenomeno � (phi) », è estremamente importante per gli aspetti teorici che sottende. Quello che avviene nell’esperienza infatti non può essere spiegato da ciò

che succede agli oggetti fisici. Se quest’ultima ipotesi fosse vera, l’osser-vatore dovrebbe vedere due oggetti statici lì dove al contrario percepisce un unico oggetto in movimento. I risultati sperimentali di Wertheimer mettono definitivamente in crisi la presupposta perfetta corrispondenza tra piano materiale, la cosiddetta «realtà fisica», e piano percettivo — la realtà fenomenica» (Legrenzi, 1980). L’osservazione regolare di questa discrepanza ha dimostrato che un modello basato sulla corrispondenza puntuale tra stimolazione e sensazione non trovava sempre una corrispondenza empirica e doveva quindi essere abbandonato. «Nel tentativo di mantenere i modelli di spiegazione già individuati, agli inizi si è pensato che il

fenomeno phi potesse configurarsi come una eccezione alla regola e che come tale andasse trattato cercando di ridurre il movimento apparente ad una sorta di «corto circuito» mentale. In tal modo i risultati che apparivano anomali rispetto al modello di spiegazione generalmente assunto al tempo di Wertheimer, potevano essere spiegati in base a un principio supplementare costruito apposta per i «fatti eccezionali», una ipotesi sussidiaria approntata ad hoc. Il fenomeno però ha caratteristiche tali da richiedere ben di più di una semplice ipotesi costruita appositamente; le situazioni in cui compare hanno una struttura talmente dipendente da caratteristiche sperimentalmente accertate (tempo, forma degli oggetti, distanza, luminosità...) che non è possibile ricondurle tout court, senz’altra spiegazione, ad una sorta di imprecisione dell’allora imperante modello stimolo-sensazione. In questo primo periodo gli scritti dei gestaltisti si

Figura 2. Max Wertheimer

Figura 3. Esperimento di Wertheimer

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prefiggono proprio lo scopo di sottolineare, mediante l’individuazione di fatti sperimentali, l’inadeguatezza di tutte quelle spiegazioni che potrebbero essere definite «teorie del mosaico», quei modelli cioè in cui il risultato percettivo è dato dalla giustapposizione di parti generate da sensazioni tra loro svincolate e non interagenti, come appunto possono essere le tessere di un mosaico. Sono molti gli esempi in grado di smentire questi modelli basati sulla somma dì componenti. Uno dei primi, e quindi storicamente pregevole, è costituito dall’anello di Wertheimer-Benussi. Così com’è riprodotto nel testo, l’anello appare di un grigio omogeneo. Si disponga ora un qualsiasi oggetto stretto e lungo, una matita, un filo, una strisciolina di carta, secondo la verticale indicata dalle frecce che separano i due campi. Da un punto di vista percettivo si avrà un risultato differente. L’anello non è più omogeneamente grigio, ma per contrasto appare più scuro sullo sfondo chiaro e più chiaro sullo sfondo scuro. La cosa più sorprendente è che, togliendo la divisione aggiunta, l’anello ritorna ad apparire omogeneo. Ciò sta a significare che l’organizzazione del risultato percettivo segue leggi peculiari ed è indipendente da quanto si sa a proposito della stimolazione. Una situazione questa insormontabile per qualunque teoria che voglia basare il risultato percettivo sulla semplice somma di parti» (Legrenzi, 1980). Un altro aspetto teorico della Gestalt, racchiuso nella realizzazione stessa di un modello non atomistico e nell’assunzione di un atteggiamento che coglie unità significanti e non singoli elementi connessi tra loro, è la critica all’empirismo. Con l’antiempirismo la Gestalt si riferisce più direttamente a correnti di pensiero psicologico, quali l’associazionismo o il comportamentismo. «Il problema consiste sostanzialmente nel peso da attribuire all’esperienza passata nella formazione di risultati percettivi e di fenomeni psicologici in generale [Kanizsa 1968; Musatti 1972]. Un empirista, o uno psicologo che faccia leva su argomentazioni di tipo empirista, derivando più o meno direttamente la propria convinzione dall’analoga tradizione filosofica, espone una teoria che poggia di solito su osservazioni del genere: gli oggetti che sì presentano alla nostra esperienza si sono formati così come appaiono per il fatto che siamo abituati a vederli in tal modo, sono creati e resi noti dall’uso. Tavoli, seg-giole, persone, ecc. sono originati dall’apprendimento: nell’isolarli come tali è determinante la ripetizione dell’esperienza e i numerosi contatti che sì hanno nella vita quotidiana. Le tesi sostenute e dimostrate dai gestaltisti sono ben diverse. Senza cadere nella posizione diametralmente opposta, l’innatismo, essi ritengono che gli oggetti siano originati in base ad autodistribuzioni dinamiche dell’esperienza sensoriale; ed hanno perciò cercato di trovare controesempi in cui si dimostrasse inefficace il ricorso all’esperienza passata. Una dimostrazione classica è contenuta nel lavoro di Gottschaldt [1926]. Se fosse vero che gli oggetti si formano nella nostra esperienza in base all’apprendimento dovuto alla ripetuta presentazione, dovrebbe succedere che gli oggetti presentati più volte vengano riconosciuti con maggiore facilità dì oggetti visti meno frequentemente. Per verificare questo assunto Gottschaldt ha presentato molte volte ai suoi soggetti figure come l’esagono A della figura seguente:

Figura 4. Esperimento di Gottschaldt

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Se successivamente venivano mostrate figure del tipo B, i soggetti non erano in grado di rintracciarvi spontaneamente le figure A, nonostante la consistente esperienza precedente» (Legrenzi, 1980). L’esperimento di Gottschaldt presenta anche altri sviluppi, ma ciò che è importante evidenziare è come l’esperienza passata non sia necessariamente l’unico fattore che determina l’organizzazione percettiva. Nell’eterna controversia tra innatisti (sostenitori di strutture psicologiche innate) ed empiristi (sostenitori dell’influenza esclusiva dell’esperienza nella strutturazione dei processi psicologici) secondo i gestaltisti «i processi psicologici erano il frutto di un sostrato materiale che non poteva agire che secondo delle leggi fisiche, invarianti rispetto sia all’esperienza passata dell’individuo, sia alla storia evolutiva della specie. Come sosteneva Köhler (1920), le Gestalt si trovavano non solo nell’esperienza fenomenica dell’individuo, ma anche in natura; anzi, la natura dimostrava questa tendenza a strutturarsi delle parti in unità secondo leggi uguali a quelle che determinavano il campo fenomenico dell’individuo. Questo concetto (meglio, metafora) di campo non andava inteso in senso generico, ma con precisa corrispondenza con il concetto di campo come inteso in fisica, cioè con il campo elettromagnetico» (Luccio, 2000). A causa dei toni aspri della polemica, i gestaltisti hanno esacerbato le loro posizioni arrivando a sostenere che l’esperienza passata come totalmente irrilevante: in realtà ciò che i gestaltisti negavano era la possibilita che questa influisse sui processi di base che portavano alla strutturazione del campo fenomenico, pur ammettendo, che influisse sull’orientare tali processi in particolari direzioni rispetto ad altro. La posizione più corretta viene data da Köhler:

«Il foglio di carta, la matita, eccetera, sono oggetti ben noti, questo è certo. Concederò anche, senza esitazione, che gli usi e i nomi di questi oggetti mi sono noti dai numerosi contatti avuti nella vita precedente [...] Ma da questi fatti all’affermare che fogli di carta, matite e via dicendo non sarebbero delle unità isolate senza quella conoscenza precedentemente acquisita, ti corre una bella distanza. Come si dimostra che prima di acquisire questa conoscenza il mio campo visivo non conteneva unità siffatte? [...] Se la spiegazione empirica fosse corretta, nel campo si isolerebbero entità specifiche solo nella misura in cui queste rappresentassero oggetti noti. In realtà le cose non stanno affatto così [...] Ne consegue che la mia conoscenza della significazione pratica delle cose non può essere responsabile della loro esistenza come unità visive staccate» (Köhler, La psicologia della Gestalt, 1947).

Nel primo paragrafo abbiamo descritto in breve il metodo fenomenologico, ma per comprendere meglio che cosa si intenda per «atteggiamento fenomenologico» possiamo riferirci all’introduzione del saggio di Wertheimer del 1923:

«Sto alla finestra e vedo una casa, alberi, ciclo. Da un punto di vista teorico si potrebbe dire che ci sono 527 gradi di chiarezza e toni di colore. Ma vedo «327»? No. Vedo il ciclo, la casa, gli alberi. E impossibile ottenere 327 in quanto tali. Ed anche se fosse possibile un calcolo così astruso e si prevedesse ad esempio 120 per la casa, 90 per gli alberi e 117 per il cielo, dovrei almeno poter vedere questa disposizione e divisione del totale e non, ad esempio, 127+100+100, oppure 110 + 177. La divisione concreta che io vedo non è determinata da un qualche modo arbitrario di organizzazione basato unicamente sul mio capriccio; vedo invece la disposizione e divisione che appare qui di fronte a me» (Wertheimer, Untersuchungen zur Lehre von der Gestalt, 1923).

Per la Gestalt l’unica cosa che deve essere considerata direttamente sono i fatti così come ci vengono percepiti dai nostri sensi. Tutti i modelli di spiegazione, i costrutti ipotetici, le concezioni sui fenomeni psichici hanno significato solo se riescono a convalidare i fatti derivati dall’esperienza.

«Un atteggiamento questo che è esattamente agli antipodi dell’introspezionismo. Un gestaltista osserva il reale e accetta l’esperienza in maniera diretta, attribuendole quel valore che manifestamente ci presenta. Un introspezionista invece va al di là degli oggetti che popolano il nostro mondo e cerca di scoprire sensazioni elementari attraverso una impostazione che per necessità mira a distruggere l’oggetto me entità organizzata. Mentre l’atteggiamento fenomenologico differenzia la psicologia della Gestalt dalle scuole precedenti sul piano metodologico, piano teorico è cruciale il concetto di «teoria di campo». piegare cosa sia una teoria di campo può essere semplicissimo e complesso allo stesso tempo. Esattamente

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come in fisica esiste una definizione quasi banale e vicina al linguaggio quotidiano, oppure una trattazione estremamente formale, anche in psicologia per i gestaltisti, da un lato, è stato facile poter dire che il risultato fenomenico non dipende da un modello di tipo meccanico, e in ciò hanno polemizzato di volta in volta con l’associazionismo, le «teorie del mosaico», il comportamentismo più legato al paradigma stimolo-risposta, ma, dall’altro lato, è molto più complesso determinare formalmente le condizioni precise con cui tutte le forze concorrono alla formazione del risultato finale. Köhler per spiegare cosa si debba intendere per teoria di campo ricorre ad un esempio. Aristotele nello studiare i movimenti degli astri ha ipotizzato che stelle e pianeti fossero fissati su sfere di cristallo rotanti. Egli pensava che la regolarità dei. movimenti potesse essere spiegata solo individuando una costruzione materiale e rigida atta a determinare senza alcuna possibilità di deviazione quel risultato che stava osservando. In realtà la scienza - e ha impiegato molto tempo - ha potuto dimostrare che i movimenti degli astri dipendono da uà complicatissimo equilibrio generato dall’interazione dì molte forze e che la regolarità dei movimenti non è materialmente prefissata, ma ottenuta come risultato dall’equilìbrio delle tensioni esistenti tra tutti i corpi celesti. Allo stesso modo, secondo la Gestalt, in psicologia le uniche possibilità di spiega/ione vanno attribuite a una teoria che usi strumenti concettuali quali forze, campo, equilibrio; la ragione fondamentale di questa scelta sta nel fatto che l’ordine stesso presente nelle cose è di tipo dinamico. Questa convinzione è talmente radicata in Köhler che un suo importante saggio [Köhler 1920] è tutto volto a dimostrare come le torme, le gestalten percettive, possano essere perfettamente descritte con gli strumenti propri della fisica dei campi. Per la psicologia della Gestalt ogni fenomeno può e dovrebbe essere descritto con imprescindibile attenzione agli aspetti dinamici. Il senso di attrazione che si prova per una persona, il desiderio di evitare una situazione spiacevole, il compiacimento di essere riusciti a risolvere un problema, l’accorgersi di un oggetto prima non notato, lo sforzo di ricordare un volto noto, l’osservare i risultati fenomenici originati da una qualsiasi figura di questo libro, sono pochi tra gli infiniti esempi di situazioni psicologiche scopertamente dinamiche che richiedono una spiegazione secon-do una teoria di campo» (Legrenzi, 1980).

Per costruire una teoria di campo è necessario individuare le regole dell’interazione tra le parti. Nei saggi del 1922 e del 1923, Wertheimer codifica sotto forma di «leggi» di quelli che sono i principi base della psicologia della Gestalt: vicinanza, somiglianza, buona continuazione, pregnanza, destino comune, chiusura, esperienza precedente. Questi «principi di unificazione formale» sono «regole» che spiegano il comportamento delle parti presenti nel campo e affermano che: «le parti di un campo percettivo tendono a costituire delle Gestalt, che sono tanto più coerenti, solide, unite, quanto più gli elementi: a) sono vicini (legge della vicinanza); b) sono simili (legge della somiglianza); c) tendono a formare forme chiuse (legge della chiusura); d) sono disposti lungo una stessa linea (legge della continuazione)» (Luccio, 2000).

somiglianza vicinanza

continuazione chiusura

Figura 4. Principi di unificazione formale

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Tali principi non sono modelli dotati di validità a priori indipendente dai fatti, ma descrivono modalità di relazione, «nascono nel dato fenomenico e ad esso si rivolgono» (Legrenzi, 1980). Nonostante tale formulazione, i gestaltisti non hanno mai specificato ulteriormente questi principi e non sono mai riusciti a formulare una definizione pienamente quantitativa della forza relativa con cui interagiscono i fattori dell’organizzazione. Infine, «esiste una componente della teoria della Gestalt, il postulato dell’isomorfismo, che si prefigge di dimostrare che processi così «astratti» come possono sembrare quelli del pensiero, della memoria, dell’apprendimento, hanno un preciso supporto materiale, sono in ultima analisi originati da fatti che prevedono movimenti di atomi e molecole (Koffka 1935). Isomorfismo (dal greco iso = uguale e morfé = forma) sta ad indicare una identità strutturale tra il piano dell’esperienza diretta e quello dei processi fisiologici ad esso sottostanti. In base al postulato dell’isomorfismo qualsiasi manifestazione del livello fenomenico, dalla semplice percezione di un oggetto alla più complessa forma di pensiero, trova un corrispettivo in processi che, a livello cerebrale, presentano caratteristiche funzionalmente iden-tiche. Ciò significa che se il nostro mondo fenomenico possiede una torma, una struttura, una dinamica dobbiamo trovare - a livello del sistema nervoso centrale - una forma, una struttura, una dinamica che le rispecchino. Identità di struttura però non vuoi dire che il nostro cervello funzioni come un apparato di registrazione, per quanto complesso, in cui si vanno formulando copie fedeli e ridotte delle entità presenti nell’esperienza. Il postulato dell’isomorfismo asserisce qualcosa di molto più importante: se conosciamo le leggi che organizzano la nostra esperienza fenomenica necessariamente conosciamo anche le leggi che operano tra fatti che avvengono nel cervello. Perciò se finora il modello più confacente alla descrizione dell’esperienza diretta è, alla fine dei conti, una teoria di tipo dinamico, analogo dovrà essere il modello presente nel sistema nervoso centrale; e ciò proprio perché di tutti i processi che avvengono nel lungo percorso seguito dalla stimolazione, lo stadio finale si svolge, fino a prova contraria, nel cervello. Il postulato dell’isomorfismo ha avuto, e tuttora ha, due ordini di conseguenze. Il primo, di tipo euristico, costituisce una discriminante per la ricerca in neurofisiologia: tutte le scoperte sui fatti fisiologici che non siano in grado di «restituirci» il dato fenomenico sono progressi dì un sapere che, per quanto vicino, non è ancora di tipo psicologico. Il secondo, di sapore nettamente filosofico, indica nell’isomorfismo una via per far sì che il mondo, quello che cosi ci appare, su cui ragioniamo, che accettiamo o rifiutiamo, sia riconducibile in tutti i suoi aspetti a un unico ordine coerente di principi. II postulato dell’isomorfismo è stato il terreno di una feroce critica alla psicologia della Gestalt. Da una patte è stato considerato un tentativo di voler ridurre l’attività del cervello alla presenza di correnti bioelettriche o di fenomeni fisiologici direttamente osservabili con gli strumenti già in possesso della tecnica sperimentale; un atteggiamento del genere può essere sintetizzato negli esperimenti di Lashley che, aperto il cranio di un topo e constatato che continuava a svolgere certi compiti anche se parte della corteccia gli era stata seriamente danneggiata, ha concluso che l’ipotesi dell’isomorfismo non tiene perché il fenomeno osservato continua a persistere anche se sì distrugge la possibilità di una sua localizzazione a livello di sistema nervoso centrale. In direzione opposta si situa una interpretazione molto meno fisiologizzante, la quale imputa all’isomorfismo il fatto di costituire una reduplicazione del mondo esterno. Secondo questa interpretazione i correlati del mondo esterno non sarebbero altro che un mondo miniaturizzato riproposto nel cervello; non verrebbero risolte quindi quelle questioni per cui l’ipotesi dell’isomorfismo era stata formulata. Come abbiamo detto, la polemica su questo tema rimane tuttora aperta; resta tuttavia da dire che molte delle critiche mosse sono motivate anche dalla relativa mancanza di chiarezza con cui è stata presentata questa «ardita ipotesi» [Koffka 1935]. Va però anche detto che la questione presenta complessità dovute sia agli aspetti tecnici (che coinvolgono lo studio di realtà fisiologiche estremamente fini cui l’attuale ricerca non è ancora giunta) sia agli aspetti filosofici (da cui deriva il tentativo di dare una spiegazione monistica del reale)» (Legrenzi, 1980). I Gestaltisti non si sono occupati soltanto di psicologia della percezione, ma anche dei processi di pensiero, con i lavori di Wertheimer [1959] e Duncker [1965], la memoria e l’apprendimento [Wulf 1922; Zeigarnick 1927; von

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Restorff 1933; Luchins 1942; Katona 1940], la dinamica della personalità [Lewin 1935; Birenbaum 1930; Dembo 1951; Karsten 1928], la psicologia sociale [Lewin 1931; Asch 1952; Brown 1936; Heider 1958; Sherif e Sherif 1969; Krech e Crutchfìeld 1948], l’espressività e la psicologia dell’arte [Arnheim 1949; 1974; Metzger 1962; von Hornbostel 1925], la psicologia genetica [Lewin 1931; Koffka 1928]. Né vanno dimenticati lavori riguardanti la psicologia animale [Köhler 1918; 1921; Hertz 1926; 1928; 1929] e persino la patologia della personalità [Schulte 1924].

Nell’ambito della psicologia del pensiero, la Gestalt ha prodotto alcune teorizzazioni peculiari. Wolfgang Köhler (1887-1967), nel famoso libro sulle scimmie antropoidi [Köhler 1921], ha introdotto il concetto di insight (Einsicht, intuere, intuire nel senso di «vedere dentro»), una categoria di spiegazione tipicamente gestaltista. Molti degli psicologi coevi di Köhler ritenevano che i processi di apprendimento e di pensiero si attuassero secondo un insieme di tentativi casuali, attraverso i quali il raggiungimento dello scopo, cioè l’apprendimento di sequenza di fatti o la soluzione di un problema, era ottenuto solo in seguito a ripetuti e casuali tentativi corretti in seguito all’osservazione dei risultati. Tale procedimento detto «per prove ed errori» è rappresentato da Thorndike. L’impostazione di Köhler è opposta: «L'insight consiste nella comprensione peculiare e a volte apparentemente improvvisa di un problema o di una strategia che facilita la soluzione di un problema. Spesso l’insight implica la riconcettualizzazione di un problema o di strategia per la sua soluzione in modo del tutto originale, oppure l'individuazione e la combinazione di informazioni rilevanti già conosciute e nuove in modo da giungere ad un punto di vista

innovativo relativo al problema o alla sua soluzione. Anche se gli insight possono sembrare improvvisi spesso sono il risultato di una gran mole di pensiero e di duro lavoro precedente, senza i quali non avrebbero mai avuto luogo: l’insight può essere implicato nella soluzione di problemi ben-strutturati, ma più frequentemente è associato al percorso accidentato e tortuoso verso la soluzione che caratterizza i problemi mal-strutturati. Da molti anni gli psicologi interessati alla soluzione di problemi hanno tentato di scoprire la vera natura dell'insight.[…] Gli psicologi della Gestalt enfatizzarono l’importanza della totalità integrata, intesa come un'entità che va oltre l’insieme delle parti isolatamente considerate. Per quanto riguarda la soluzione dei problemi, gli psicologi della Gestalt ritenevano che i problemi di insight richiedono che il solutore riesca a percepire il problema nella sua totalità strutturata. Lo psicologo della Gestalt, Max Wertheimer introdusse il concetto di pensiero produttivo (Wertheimer. 1945/1959), che implica insight in grado di superare i confini delle associazioni esistenti, e che egli distingueva dal pensiero riproduttivo, basato su semplici associazioni di conoscenze acquisite in precedenza. Secondo Wertheimer il pensiero per insight (produttivo) differisce in modo radicale dal pensiero riproduttivo. Nel risolvere i problemi di insight presentati in questo capitolo era necessario liberarsi dalle associazioni precedenti e considerare ciascun problema in una luce completamente nuova. Va detto che il pensiero produttivo può essere anche applicato ai problemi ben-strutturati. Wolfgang Köhler (1927), un collega di Wertheimer, studiò l'insight nei primati non-umani, ed in particolare in uno scimpanzé in cattività chiamato Sultan. Come mostrato nella figura 6, Kölher mise una scimmia in un ambiente chiuso con alcune cassette, facendo pendere dall'alto un casco di banane fuori dalla portata diretta dell'animale. Dopo vari tentativi inutili per cercare di raggiungere il cibo saltando ed allungandosi, la scimmia utilizzò le cassette una sopra l'altra per creare una struttura sufficientemente alta per arrivare alle banane. Secondo Köhler, la scimmia aveva assunto un comportamento che rimandava a un insight. Per Köhler ed altri psicologi della Gestalt l'insight costituisce un processo del tutto particolare che comporta un pensiero diverso dall'ordinaria elaborazione lineare dell'informazione.

Figura 5. Wolfgang Köhler

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Gli psicologi della Gestalt hanno descritto diversi esempi di insight, ipotizzando alcuni processi che ne potrebbero essere alla base: L’insight potrebbe risultare da

a) Ampi salti inconsci nel pensiero b) Un’elaborazione mentale fortemente accelerata o da c) Una forma di cortocircuito nei processi ordinari di ragionamento

(si veda Perkins,1981). Sfortunatamente, i primi autori della Gestalt non hanno fornito prove convincenti a favore di nessuno di questi meccanismi, né hanno specificato che cosa esattamente sia l'insight» (Sternberg, 2000) Lewin e la topologia (1890-1947) «Lewin, in un famosissimo e molto citato saggio del 1931, mostra come si possa costruire un sapere scientifico basato su analisi sperimentale anche nel caso di eventi non ripetibili. A tale scopo occorre distinguere due impostazioni sul modo di giungere alla conoscenza scientifica. Da un lato vi è l’impostazione di tipo aristotelico, in cui sono oggetto di conoscenza solo eventi ripetibili proprio perché in essi si possono individuare elementi comuni; in questo modo, trascurando gli «accidenti» come non propri dell’evento, viene accentuato l’aspetto di «sostanza». E una scienza di tipo eminentemen-te descrittivo-classificatorio il cui compito principale è appunto di stabilire in base a quali aspetti l’evento oggetto di conoscenza vada inserito in questa o quella classe. Dall’altro vi è un modo di produrre conoscenza di tipo galileiano in cui l’attenzione non è focalizzata sugli attributi comuni presentati ma sulle caratteristiche funzionali, sulle condizioni che costituiscono l’evento esaminato. In tal modo per ottenere conoscenza non è necessario esaminare un insieme vasto di eventi ri-petibili ma determinare, al limite anche in un solo caso, le condizioni che generano il fenomeno. In linea di principio non esiste quindi nessun fatto, per quanto irripetibile, che possa sottrarsi ad una spiegazione del genere detta appunto genetico-condizionale. Abbandonato il concetto di descrizione-classificazione per sostituirlo con quello di funzione, il sapere di tipo galileiano diventa così più costruttivo: Il fatto che la dinamica psicologica sia rimasta così a lungo sotto l’influsso di un modo di pensare aristotelico, è dovuto probabilmente alla circostanza che una tecnica utilizzabile per una concreta rappresentazione, non soltanto della situazione fisica ma anche di quella psicologica, non può essere elaborata senza l’aiuto della topologia (Lewin, 1931). Ed è proprio l’uso della topologia, una branca della matematica che si interessa in modo non metrico a relazioni di tipo spaziale, che costituisce un altro degli elementi caratterizzanti il pensiero di Lewin. Egli infatti con l’aiuto di alcuni costrutti topologici ha approntato un linguaggio immediato e universale in grado di descrivere in maniera sufficientemente appropriata situazioni dinamiche concrete.

Figura 6. Esperimento di Köhler

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Mediante il costrutto «regione» indicato graficamente come uno spazio racchiuso da un confine (detto «barriera») si possono indicare situazioni di tipo psicologico. Il fatto che ora stiate leggendo queste righe si situa in una regione psicologica ben diversa da quella descritta dall’essere al cinema. Per passare dalla regione lettura a quella cinema dovete effettuare uno spostamento psicologico (locomozione) da un luogo a un altro superando varie regioni e relative barriere; nel nostro caso per esempio lo spostamento avverrebbe anche materialmente dal luogo in cui siete a quello in cui proiettano il film prescelto. Ma una locomozione non richiede necessariamente uno spostamento fisico. Potreste spostarvi dalla regione «leggere» a quella «fantasticare sulle prossime vacanze» senza compiere il minimo gesto, ed anche in questo caso avete superato una o più barriere a seconda delle condizioni in cui vi trovate. Le situazioni, gli oggetti, le regioni possono inoltre godere di valenza positiva o negativa. È facile scivolare dalla lettura alla fantasticheria perché quest’ultima ha in genere carattere piacevole (valenza positiva), è meno facile abbandonare la lettura per recarsi all’ufficio delle tasse (un luogo in genere non amato e di solito connotato da valenza negativa). Questa spinta, favorevole o contraria, che sentiamo generarsi in situazioni a valenza positiva o negativa può essere descritta graficamente mediante un vettore la cui direzione, intensità e punto di applicazione sono indicativi del tipo di tensione che si sta generando in quel momento, […] Con questo tipo di linguaggio […] Lewin descrive caratteristiche non solo dell’ambiente psicologico come abbiamo ora visto, ma anche delle strutture della persona stessa. La persona, intesa come regione o insieme di subregioni interdipendenti con l’ambiente e non come entità separata, è il luogo in cui nascono tensioni più o meno consistenti, in grado di mutare l’equilibrio che può essere ristabilito solo mediante saturazione della valenza. Ad originare nella persona tensione o sistemi di tensione e quindi valenze, possono essere sia elementi esterni alla persona stessa (quell’oggetto mi attira per la sua bellezza) sia elementi interni (cerco una seggiola perché, stanco, voglio sedermi). Ma la persona in sé non è luogo indifferenziato, punto unico di applicazione di qualsiasi vettore. Esiste una complessa struttura di regioni tra loro più o meno separate ed interagenti a seconda della situazione esterna e delle condizioni interne. Il riconoscimento che nella mente vi sono regioni con gradi di coerenza estremamente diversi resta una condizione di fondamentale importanza per ricerche psicologiche più approfondite. Noi abbiamo a che fare non con un singolo sistema unitario, ma con un grande numero di tali «forti» strutture (gestalten), alcune delle quali stanno in comunicazione con altre e formano così gli elementi di una struttura «debole» più inclusiva. È necessario riconoscere il carattere strutturato della mente, le sfere, gli strati e i sistemi psichici che la costituiscono. Ed è necessario stabilire sempre dove si ha a che fare con complessi unitari e dove invece no (Lewin, 1935). La persona quindi è una sorta di gerarchia di regioni alcune tra loro fortemente connesse e funzionalmente dipendenti, altre meno, altre infine solo debolmente o per niente collegate. E questa struttura muta nel tempo a seconda dello sviluppo della persona, delle sue condizioni di salute mentale, e perfino dello stato generale psicofisico. Il grado di interdipendenza tra regioni è stato provato sperimentalmente originando una valenza in una regione (ad esempio affidando un compito al soggetto) mantenendola non saturata (interrompendo il compito) e poi vedendo quale altra regione sia più o meno adatta a scaricare la tensione rimasta (compito sostitutivo). Si è provato così che regioni simili per complessità, difficoltà, tipo di attività richiesta, sono più funzionalmente interdipendenti: completare un compito interrotto mediante semplice prosecuzione verbale o mentale è meno appagante che sostituirlo con un altro ad esso il più possibile vicino (maggiore allentamento della tensione). Il modello della personalità, ora accennato, permette a Lewin di produrre punti di vista originali anche a proposito della psicologia genetica e di quella differenziale. Una delle differenze dinamiche tra il bambino piccolo e l’adulto è il grado di differenziazione, ovvero di articolazione in regioni e sistemi psichici diversi. Il fatto che varie sfere di vita (professione, famiglia, amicizia con certe persone, e così via), come pure vari bisogni, siano più articolati nell’adulto che nel bambino di un anno, non richiede alcuna analitica dimostrazione. Nell’adulto non è generalmente difficile operare una distinzione fra regioni periferiche e regioni centrali. Il bambino piccolo presenta

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un’articolazione molto meno pronunciata. A questo riguardo, egli è dunque un sistema molto più unitario, una «Gestalt» dinamicamente più forte (Lewin, 1935). Per quanto riguarda il bambino debole di mente Lewin gli attribuisce un grado di articolazione minore rispetto ad un coetaneo cresciuto in analoghe condizioni. Tuttavia nel debole di mente non c’è solo una differenza quantitativa nei gradi di regioni in cui si articola la sua psiche: la differenza dinamica di maggiore rilievo tra un bambino debole di mente e uno normale, che abbiano lo stesso grado di articolazione, consiste nel fatto che i sistemi psichici del primo presentano una rigidità più alta, una minore capacità di ristrutturazione dinamica (Lewin, 1935). Una rappresentazione grafica verrebbe caratterizzata a) da un basso numero di regioni e h] da barriere tra regioni molto più marcate. Per finire questa rapida visione delle teorie di Lewin occorre prendere in considerazione il suo contributo alla psicologia dei gruppi, una logica estensione delle formulazioni riguardanti la persona e l’ambiente, Dell’ambiente infatti fanno parte anche altre persone e se trattiamo queste entità con i principi della topologia e della dinamica si può notare come esse siano in grado di generare un campo attorno a sé. […] Si può complicare lo schema e pensare al gruppo come una serie di interazioni tra regioni (individui) ognuna in grado di generare vari tipi di campi. Potremmo giungere nel caso di gruppi formati in maniera non avventizia o contingente, a relazioni dinamiche piuttosto specifiche; a volte il gruppo è tanto forte da divenire esso stesso una regione speciale in cui sono vietati o concessi comportamenti diversi da quelli riscontrabili fuori del gruppo» (Legrenzi, 1980).

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5. I l comportament ismo

La nas ci ta de l comportamenti smo* Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, la psicologia ha, grazie a Pavlov, gli strumenti concettuali per costruirsi su fondamenta oggettive. Questi erano però offerti in America anche dalle ricerche di Edward L. Thorndike, il più grande precursore del comportamentismo. Thorndike (cfr. in particolare 1911; 1949), che chiamava il suo sistema teorico «connessionismo», una forma particolare di associazionismo, aveva iniziato già negli ultimi anni del secolo scorso alcuni esperimenti su quella che chiamava «intelligenza animale». Nella situazione prototipica, l’animale veniva posto all’interno di una gabbia, completamente chiusa, e per uscire doveva agire tirando delle funi, che erano collegate con un sistema di pulegge alla porta della gabbia. Ora, Thorndike rilevò che l’animale non passava bruscamente da una fase in cui non era capace di trovare la soluzione, a un’altra in cui la soluzione, una volta trovata, era poi sempre immediatamente disponibile. Al contrario, quello che era visibile era un progressivo accorciamento dei tempi di soluzione del problema, senza discontinuita, sino a un minimo. Da questo, Thorndike enunciò tre principi fondamentali. Il primo principio affermava che l’apprendimento si verifica per tentativi ed errori (trials and errors): l’animale compie tentativi alla cieca, e quindi commette casualmente errori e dà risposte giuste. Il secondo principio era formulato sotto forma di legge, detta dell’effetto: le risposte corrette tendono a essere ripetute, quelle erronee a essere abbandonate. In questo modo, l’animale progressivamente riduce il numero di emissione di risposte erronee, aumentando quello di risposte corrette, e riduce così gradualmente i tempi di soluzione del problema. Anche il terzo principio era enunciato sotto forma di legge, detta dell’esercizio: i comportamenti più spesso esercitati vengono appresi più saldamente, ed è più facile che vengano di nuovo emessi, in situazioni analoghe a quelle in cui sono stati appresi. John B.Watson (1878-1958)

Il fondatore del comportamentismo fu Watson, che conseguì il PhD presso l’Università di Chicago, il centro del funzionalismo americano. Per quanto inizialmente attratto dalla riflessione filosofica di John Dewey, egli si dedicò prevalentemente alla psicologia di laboratorio e si interessò agli studi sui tropismi che il biologo Jacques Loeb conduceva sugli organismi inferiori. Watson, che fin da giovane si era interessato all’ammaestramento di animali e, in particolare, di ratti, trovò a Chicago il primo allevamento di questi animali utilizzati a scopi sperimentali e divenne presto tecnico di laboratorio per interessamento del suo supervisore. A Chicago trovò anche Rowland Angell, l’allievo di William James e sostenitore del funzionalismo in psicologia, che considerava la mente come un prodotto della selezione naturale e delle interazioni con l’ambiente. Nel 1908 venne chiamato da Baldwin a ricoprire l’incarico di professore di psicologia presso la Johns Hopkins University, con il compito di costituire un laboratorio di psicologia comparata. Per un singolare destino, Baldwin dovette lasciare quel-l’università per uno scandalo, e lo stesso sarebbe successo a Watson alcuni anni più tardi.

* Da R. Luccio, La psicologia: un profilo storico, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 137-148.

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Comunque quando Baldwin dovette allontanarsi lasciò a Watson la direzione del dipartimento di Psicologia insieme con quella di varie riviste, compresa la «Psychological Review» iniziata nel 1894. Da tale posizione di forza Watson intraprese una battaglia culturale e scientifica contro i metodi introspettivi e l’approccio dualistico in psicologia e a favore di una psicologia obiettiva e riconducibile nell’alveo delle scienze biologiche. L’articolo Psychology as the Behaviorist Views It, comparso nel 1913 sulla rivista già ricordata, rappresentò il punto di svolta della psicologia americana di inizio secolo, non solo per la nuova determinazione dell’oggetto della disciplina (« ciò che gli uomini fanno dal momento in cui nascono fino alla morte»: il comportamento, come peraltro aveva gia anticipato Piéron nel 1908), ma anche per l’indicazione del nuovo programma di ricerca consistente nello stabilire le relazioni tra gli stimoli, intesi come le eccitazioni che in un dato momento agiscono sull’organismo, e le risposte, intese come l’insieme dei cambiamenti che si producono nella muscolatura e nelle secrezioni ghiandolari. In questo articolo la psicologia, «dal punto di vista di un comportamentista», veniva definita come un settore sperimentale delle scienze naturali, il cui scopo è la previsione e il controllo del comportamento. L’oggetto di studio del comportamentismo non era la coscienza né tanto meno la mente, ma il comportamento osservabile intersoggettivamente, definito da Watson come l’insieme delle risposte muscolari o ghiandolari. Si osservi che così Watson escludeva l’osservazione del sistema nervoso - peraltro, l’EEG sarebbe stato inventato solo quindici anni dopo, e i potenziali evocati erano di là da venire. Il metodo di studio rimaneva rigorosamente quello sperimentale, con le stimolazioni ambientali (intese come variazione dell’energia fisica presente nell’ambiente: energia radiante, meccanica ecc.) come variabili indipendenti e il comportamento (la risposta dell’organismo) come variabile dipendente, con un rifluto deciso dell’introspezione e del colloquio clinico. Secondo i comportamentisti, infatti, se la psicologia voleva essere una scienza, doveva scegliere come oggetto di studio qualcosa che fosse suscettibile di essere osservato naturalisticamente. «La psicologia come la vede il comportamentista è una branca sperimentale puramente oggettiva delle scienze naturali» (Watson 1913, p. 158). Di qui la individuazione del riflesso condizionato e dei meccanismi del condizionamento come unità di analisi della psicologia. Dopo il 1913 praticamente tutti gli psicologi americani sentirono la necessita di prendere posizione nei confronti della proposta di Watson, che nel 1915 giungeva alla presidenza della American Psychological Association. Nel suo discorso di insediamento indicò nel lavoro di Pavlov sui rifiessi condizionati il fondamento sperimentale del comportamentismo. Tuttavia i programmi delle sue ricerche subirono una improvvisa battuta di arresto a partire dal 1920 a causa di una relazione con una giovane collaboratrice, Rosalie Rayner. È importante segnalare che con la Rayner Watson lavorò sul famoso caso del piccolo Albert, un bambino che venne fatto diventare sperimentalmente fobico con tecniche di condizionamento (cfr. Watson, Rayner 1928). L’importanza del caso, che è alla base di quella che sarebbe poi diventata la behavior therapy, la psicoterapia comportamentistica, è dato dal fatto che secondo Watson si poteva così dimostrare, in contrasto con le idee psicoanalitiche, che i sintomi nevrotici sono frutto di un apprendimento, e che ciò che è appreso si può «disapprendere».

Dopo lo scandalo, Watson riversò il proprio talento e le proprie competenze nel settore applicativo (pubblicità e marketing) e in ambito divulgativo, pur non abbandonando del tutto la passione teoretica, come testimonia l’introduzione sistematica al comportamentismo del volume Behaviorism, del 1924. Watson svolse un’intensa attività pubblicistica, che si concretizzò nella raccolta di suggerimenti ai genitori del 1928 intitolata The Psychological Care of Infant and Child e firmata insieme a Rosalie Rayner. Quest’ultimo lavoro contribuì non poco al dibattito sul comportamentismo in vasti strati della società americana. Il suo contributo può essere riassunto soprattutto in questi termini: la sostituzione dell’introspezione con l’osservazione

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comportamentale, l’accento sulla predizione e il controllo del comportamento, rispetto alla comprensione teorica, l’abolizione della terminologia mentalistica e una impostazione atomistica dello studio del comportamento in modo da renderlo più affrontabile nella sua complessità. Dal compor tamen tismo al neocomportamen tismo In pochissimi anni dalla pubblicazione del primo articolo di Watson, il comportamentismo conquistò una posizione di netto predominio nella psicologia americana. La dottrina fondamentale poteva essere riassunta in questi termini: l’organismo era una «scatola nera» (black box), al cui interno lo psicologo non può entrare; farebbe così solo della metafisica. Su questa scatola nera impattano gli stimoli ambientali S, e in concomitanza l’organismo emette delle risposte R. Lo psicologo comportamentista studia le associazioni S-R: come dipende il variare delle risposte (variabile detta perciò dipendente) al variare degli stimoli (variabile detta perciò indipendente). Il comportamentismo si costituì così come la scuola (o meglio, forse, il movimento, data la sua natura abbastanza composita; Zuriff 1985, p. 6), che avrebbe segnato tutta la psicologia generale dagli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale a quelli immediatamente successivi alla seconda. A partire dal contributo di Watson possiamo tracciare gli sviluppi dell’indirizzo comportamentista. Con Eduard C. Tolman assistiamo all’accettazione del programma di ricerca comportamentista solo per quanto riguarda l’adozione dell’osservazione del comportamento e l’accantonamento del metodo introspettivo, ferma restando la scelta di una impostazione teleologica di marca europea che sfocerà, nel 1922, nella nuova formulazione di un purposive Behaviorism (comportamentismo diretto a uno scopo) sulla «Psychological Review». Secondo Tolman, il comportamento di un organismo ha uno scopo e la risposta attiva che ne consegue va considerata olisticamente e non sommatoriamente rispetto a elementi parziali. Il comportamento è quindi interpretabile considerando una serie di fattori che operano come variabili indipendenti: stimoli ambientali, pulsioni fisiologiche, eredità, età, sesso, esercizio pregresso e così via. In particolare, osservando il comportamento, si possono distinguere due fondamentali categorie di variabili: quelle che direttamente si possono notare e quelle intermedie, delle quali si rilevano gli effetti, ma non la presenza, per esempio i tratti temperamentali, il sistema dei bisogni, le matrici di convinzioni e valori, lo spazio vitale immediato e quello ristrutturato da locomozioni e apprendimenti. Per inciso, la riflessione tolmaniana sulle variabili intervenienti promosse un interessante dibattito tra i teorici di quel periodo che sfociò nel 1948 nella proposta di MacCorquodale e Meehl di definire e differenziare nettamente tali variabili rispetto ai cosiddetti costrutti ipotetici. Questi ultimi vengono definiti come concetti che indicano ipotetici processi inseriti nel contesto proposizionale di una teoria allo scopo di rafforzarne il potere esplicativo, rispetto ai dati osservativi comportamentali, quali per esempio «l’intelligenza, l’adattamento, il rinforzo, l’apprendimento, l’equilibrazione dei processi di assimilazione e accomodamento, il super-io, il complesso di Edipo ... ». Le variabili intervenienti invece si distinguono per il loro significato operazionalmente più limitato e specifico, potendosi definire come quei fattori inferiti e non osservati che mettono in relazione le variabili indipendenti osservate (in genere gli stimoli) con le variabili dipendenti osservate (la gamma delle risposte). Le variabili intervenienti si possono ridurre pertanto ad affermazioni ipotetiche che riguardano processi, entità o eventi che si verificano nell’organismo. L’adozione da parte di Tolman di tale tipo di variabili, nonostante il loro discutibile statuto epistemologico, restituisce all’uomo (e all’animale) una consistenza interna messa in ombra dagli approcci integralisti al comportamentismo, senza peraltro ricorrere nuovamente al concetto di coscienza.

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Il comportamentismo di Tolman si è guadagnato l’appellativo di «molare» avendo come oggetto di studio unità di comportamento che non possono essere ridotte o considerate corrispondenti alla somma delle loro parti. Per Tolman l’unità di base dello studio della psicologia consiste nel comportamento diretto a uno scopo, che resta fondamentalmente modificabile attraverso processi di apprendimento; il comportamento, da un punto di vista molare, deve ricevere spiegazioni o definizioni attraverso costrutti psicologici, piuttosto che attraverso costrutti fisiologici. Negli anni Trenta vennero introdotte nuove e diverse variabili intervenienti. Di particolare rilievo fu la cosiddetta scuola di Yale, in cui si distinsero Clark Hull e Kenneth Spence (poi passato, con la moglie Janet Taylor, all’Universita dello Iowa). Nel sistema proposto da Clark Hull (1943a, 1943b), altamente formalizzato, particolare rilievo avevano come variabili intervenienti la pulsione D (da drive) e la forza dell’abitudine SHR (habit strength), forza del legame associativo interposto tra stimolo e risposta. Nel sistema proposto da Spence un ruolo fondamentale aveva come costrutto ipotetico il concerto di ansia.

Operanti e r ispondenti : Skinner e l ’u top ia Verso la fine degli anni Trenta si affacciò però sulla scena scientifica quello che sarebbe stato il più noto dei neocomportamentisti, Burrhus Frederick Skinner. Il suo atteggiamento si manifestò peraltro immediatamente come opposto a quello degli altri comportamentisti. Quanto i vari Tolman, Hull, Spence ecc. cercavano di sistematizzare e teorizzare, tanto Skinner (1938) ostentava un atteggiamento sostanzialmente anti-teoretico, nemico del concetto di variabile interveniente, attento sostanzialmente solo alle contingenze associative immediatamente rilevabili all’esterno. Dato il grande rilievo di questo studioso per tutta la cultura americana di centro secolo, è opportuno dedicargli un po’ più di attenzione. La sua prima prova rilevante, un lungo articolo sul concetto di riflesso nella descrizione del comportamento, pubblicato nel 1931 sul «Journal of General Psychology», non rappresenta tanto il risultato di un programma sperimentale di ricerca quanto un’analisi storico-critica alla Mach di tale concetto e un’analisi epistemologica dello stesso, utilizzando le categorie dell’operazionismo di Bridgman. Con l’atteggiamento ostentatamente anti-teoretico, che lo caratterizzerà lungo tutto il suo percorso intellettuale, Skinner si basò, riguardo l’arco rifiesso, non tanto sulla concettualizzazione di esso quanto su ciò che è implicato negli esperimenti sui rifiessi, giungendo alla conclusione che la ricerca reflessologica non deve consistere tanto nello studio dell’arco, quanto nella rilevazione nell’impostazione strettamente sperimentale di correlazioni tra due ordini di eventi, vale a dire gli stimoli e le risposte. Skinner propose quindi il superamento delle indagini propriamente fisiologiche del riflesso, come processo isolato da altre attività corporee, per aderire a uno studio dello stesso quale regolarità che coinvolge l’organismo nel suo insieme, e quindi quale strumento per una descrizione autonoma e pervasiva del comportamento degli organismi. Se l’oggetto di una scienza è determinato dagli interessi dello scienziato e se tali interessi si focalizzano sull’attività totale dell’organismo in quanto organizzazione globale e integra, lo psicologo può individuare nel comportamento l’oggetto specifico e indipendente dei propri studi. Come ha occasione di osservare Skinner, nella descrizione del comportamento si è impegnati con le «relazioni» che esistono all’interno di una serie regressiva di eventi che vanno dal comportamento osservabile a quelle modifiche di energia che avvengono alla periferia dell’organismo e che noi designiamo con il termine di stimolo. Seguendo un credo epistemologico, definito da altri anti-riduzionismo metodologico, Skinner può affermare che «il comportamento non è semplicemente il risultato di attività più fondamenta-Ii [ ... ], ma è un fine in sé e per sé». Egli si distacca però dalla prevalente psicologia che

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privilegiava il legame causale tra stimolo e risposta, dedicandosi piuttosto alla rilevazione delle regolarita tra queste due classi. In particolare, focalizza la sua attenzione sulle frequenze piuttosto che sulla qualità della risposta e identifica la variabile chiave del controllo del comportamento non negli antecedenti causali, ma nelle conseguenze della risposta, cioè nel rinforzo. Con una distinzione che sarebbe stata prontamente accettata da tutto il comportamentismo, Skinner distingueva tra due tipi di comportamenti: i rispondenti, derivanti da riflessi innati o appresi per condizionamento classico (assodazione S-S, stimolo condizionato stimolo incondizionato), e gli operanti, emessi spontaneamente dall’organisrno e la cui probabilità di occorrenza aumenta o diminuisce a seconda del rinforzo (premio o punizione) che l’organismo riceve in corrispondenza della loro emissione; appresi per associazione S-R. Con l’opera, del 1938, Behavior of Organisms, Skinner istituì la sua scienza del comportamento e il suo impero terminologico, che però non vennero presi estesamente in considerazione dalla comunità scientifica statunitense, all’epoca più interessata ad altre proposte emerse in seno al comportamentismo (Hull, Tolman). Solo negli anni Cinquanta la fortuna di Skinner conosce un’impennata sia tra il grosso pubblico, con il romanzo utopico Walden two (1948), sia presso la comunità scientifica, con le opere sistematiche Science and Human Behavior e Schedules of Reinforcement. L’accento sulla programmabilità e modellabilità del comportamento conduce dal mito della vecchia frontiera al nuovo confine tecnologico - e tecnologia in senso proprio sono tutte le proposte che fa Skinner di applicazione delle tecniche di condizionamento alla vita quotidiana, dagli studi sull’istruzione programmata alle teaching machines o al baby glass box, la scatola trasparente e sterile, con tutti gli stimoli sapientemente programmati e sottratti alla casualità dell’intervento del genitore, inventato dal babbo Skinner per la figlia Deborah. Ma il vento doveva cambiare, a partire dagli anni Cinquanta, e ben presto queste proposte tecnologiche vennero rifiutate, anche perché più complicate e artificiali delle pratiche educative che avrebbero dovuto sostituire, semplificandole. L’utopia è sconfitta, quando si rivela incubo. Demarcazioni : «cons traints of l earning», mediazione verbal e e «shi f ts» Negli anni Cinquanta, il comportamentismo era all’apice del suo successo e dominava incontrastato la psicologia nord-americana. Ma il crollo era vicino, e sarebbe giunto tanto più repentino e totale quanto meno, era atteso. L’agente del crollo sarebbe stato il cognitivismo. Per capire questo snodo determinante nella storia della psicologia nell’ultimo secolo è però importante esaminare più da vicino la situazione del neocomportamentismo. La prospettiva skinneriana si esaurì in se stessa. Lo stesso antiteoreticismo di Skinner di fatto impedì il crearsi di una scuola. Peraltro, le demarcazioni all’nterno del neocomportamentismo crearono in parte il necessario ponte tra questo movimento e il cognitivismo, che negli ultimi decenni lo avrebbe sostituito. La prima demarcazione è quella dei cosiddetti constraints of learning. Lo spazio non ci ha qui consentito di parlare di altre branche della psicologia animale, e in particolare dell’apporto dell’etologia. Tale apporto può, schematizzando, essere sintetizzato sotto due aspetti: il primo, più precisamente teorico, è quello del porre in luce gli aspetti specie-specifici del comportamento; il secondo, metodologico, è quello del rifiuto dell’osservazione in laboratorio e il privilegio dell’osservazione del comportamento in ambiente naturale (ovviamente i due aspetti sono distinti solo per comodità espositiva). L’approccio etologico implica un ritorno alla concezione darwiniana del comportamento e si scontra nettamente con alcuni postulati del comportamentismo e degli studi di psicologia animale condotti in quest’ambito, e principalmente a) il postulato della non differenza qualitativa tra comportamenti animali e umani; b) il postulato empirista; c) il postulato della controllabilità della situazione stimolo e delle contingenze di rinforzo.

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Ma la scoperta di comportamenti specie-specifici era stata fatta anche all’nterno del comportamentismo, e l’ironia del destino ha voluto che gli studi in questo campo venissero iniziati proprio da due allievi di Skinner, Breland e Breland (1961), che, in due parole, hanno, dimostrato che la specificita della specie determina dei precisi vincoli sugli apprendimenti che possono essere conseguiti: non tutti gli animali possono apprendere le stesse cose. E se è vero che le ricerche sui limiti biologici del comportamento, che hanno dovuto tenere in larga misura conto dei dati dell’etologia, si sono staccate in maggiore o minor misura dal filone comportamentista classico, è altrettanto vero che tutta la problematica dei constraints of learning (limiti dell’apprendimento) è tuttora ben lontana da quella cognitivista. Comunque, la scoperta dell’esistenza di comportamenti specie-specifici non significa di per se stessa un’accentuazione dello studio dei fattori innati dell’apprendimento, e soprattutto una ricerca delle basi biologiche, geneticamente determinate, di certi processi cognitivi. È però certo che tale scoperta ha scosso notevolmente la radicata idea che le stessi leggi psicologiche potessero valere per tutte le specie animali. Un altro aspetto di particolare rilevanza per quel che riguarda il neocomportamentismo e le variabili intervenienti è quello delle cosiddette mediazioni verbali, sostenute in particolare da Osgood (per esempio, 1957). Per capire meglio di cosa si tratta, esaminiamo un concreto paradigma sperimentale: il cosiddetto reversal non reversal shift. Questa linea di ricerca è stata introdotta da Kendler e Kendler per la prima volta nel 1959 (ma le origini di questo paradigma si possono già rintracciare nei lavori di psicologia animale sulle «ipotesi» dei ratti di Krechevsky 1932). Le ricerche sugli shifts hanno avuto un’enorme diffusione in tutto il mondo, e si sono rivelate soprattutto utili riguardo i processi cognitivi nello svantaggio sociale, su soggetti in età evolutiva, cioè, nei quali particolarmente evidente è la deprivazione linguistica (cfr. Luccio, Sala Borroni 1979; Larcan 1984). Le ricerche sugh shifts si inseriscono in quel più ampio settore della psicologia dell’apprendimento relativo alla cosiddetta formazione dei concetti. In cosa consista un concetto è presto detto: per concetto si intende grosso modo una categoria, una classe di eventi a cui può essere assegnata un’unica etichetta - così la classe (o categoria) dei cani è un concetto il concetto, appunto, di cane) e lo stesso la classe dei quadrati, dei democristiani, dei provveditori agli studi, dei ciotoli e dei valvassori. Un esperimento sulla formazione dei concetti assume una forma di estrema semplicità. Lo sperimentatore presenta degli eventi (ad esempio, disegni su cartoncini) e chiede al soggetto di pronunciarsi sulla loro eventuale appartenenza al concetto (ancora indeterminato) che lo, sperimentatore ha in mente. Il soggetto può rispondere con un «sì» 0 un «no», lo sperimentatore approvare o meno quanto risponde il soggetto. Supponiamo allora che lo sperimentatore presenti quadrati bianchi o neri, piccoli o grandi. Supponiamo ancora che il concerto che lo, sperimentatore vuole che il soggetto si formi sia il nero. Lo sperimentatore approverà allora tutte le risposte «sì» ai quadrati neri e «no» ai bianchi, e disapproverà le risposte «no» ai neri e «sì» ai bianchi, indipendentemente dalla grandezza dei quadrati; quel che interessa sapere sarà il numero di prove necessario perché il soggetto non compia più errori o, secondo questa prospettiva, abbia acquisito il concetto. Ora, un esperimento sullo shift non è altro che un esperimento sulla formazione dei concetti nel quale, una volta acquisito un concetto, si chieda ai soggetti di acquisirne un altro, incompatibile con il primo. Quel che allora interessera sapere è quanto tempo impiegherà il soggetto a lasciar da parte il primo concetto, per acquisire il secondo. Così nell’esempio precedente, il soggetto che ha acquisito il concetto «nero» dovrà passare o al concerto inverso («bianco») o al concerto non inverso («grande» o «piccolo»). Intuitivamente, il passaggio al concetto inverso sembra più facile. E difatti, per ottenere questo shift sia gli adulti che i bambini al disopra dei 6-7 anni impiegano meno prove che non per lo shift non inverso. Il curioso è che i bambini più piccoli acquisiscono invece prima lo shift non inverso.

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Risultati analoghi si riscontrano negli svantaggiati sociali, con forte deprivazione culturale, specie linguistica, anche ad età superiori ai 7 anni. Il fatto che bambini più piccoli, o deprivati, abbiano meno difficoltà con un compito più impegnativo per bambini più grandi (e per adulti) non poteva non incuriosire gli studiosi. La conclusione che si è potuta trarre è sostanzialmente questa. Nella prima parte dell’esperimento, i bambini più piccoli solo apparentemente acquisiscono il concetto di «nero»; in realtà, come ha potuto dimostrare Saltz, essi operano quella che è stata chiamata una «sovradiscriminazione» del campo, e in luogo di un concetto, ne hanno acquisiti due compatibili: «piccolo nero» e «grande nero». Nel momento in cui si chiede di operare uno shift non inverso (per esempio, «piccolo»), essi dovranno compiere questo sforzo solo per quel che riguarda il «piccolo bianco», avendo gia acquisito il «piccolo nero». Se si chiede invece di operate lo shift inverso, essi non hanno nessun concetto preacquisito da poter riutilizzare, ma devono rico-minciare da zero, e trovano quindi il compito più difficile. Ma cosa fa sì che i ragazzi più grandi riescano a formare un concetto unico dei due tipi di quadrato nero, il grande e il piccolo? La risposta non può che essere una: l’uso del linguaggio, la capacità di utilizzare la parola «nero» come etichetta per contrassegnare la categoria corrispondente al concetto. Anche il bambino più piccolo, o lo svantaggiato, possiedono la parola «nero»; il fatto è che non la utilizzano a questo fine. Uno specifico addestramento linguistico in questo senso riesce a diminuire nettamente le differenze tra grandi e piccoli.

Perché sono importanti queste ricerche? I comportamentisti potevano ben seguitare a sostenere che la mediazione verbale non è altro che un costrutto ipotetico. Ma di fatto, con queste e con altre ricerche di senso analogo, entrava con chiarezza nell’immaginario collettivo dello psicologo americano l’idea che nella testa ci sono parole, e parole organizzate in struttura, e che i processi di pensiero devono tenere conto di queste strutture. Di qui a convincersi che quel che c’è nella testa, la mente, potrebbe essere realmente esistente non c’è che un passo .

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6. Freud e la psi coanal i s i 11 1. Definizione e campo della psicoanalisi

Il termine «psicoanalisi» compare per la prima volta nel 1896 in uno scritto di S. Freud (L’ereditarietà e l’etiologia della nevrosi) e si sostituisce a una serie di altri termini – come «analisi psichica», «analisi ipnotica» o, più semplicemente, «analisi» – impiegati precedentemente dallo stesso Freud per designare un insieme di accorgimenti osservativi e terapeutici rivolti alla conoscenza e al trattamento di determinati disturbi psichici.

Sulla base dell’osservazione dedicata ai fenomeni psicopatologici (isteria, nevrosi ossessiva, fobie, ecc.) la psicoanalisi freudiana andò progressivamente saldando, nel tentativo di costruire un modello teorico-esplicativo unitario, i fenomeni relativi ai quadri psicopatologici con quelli riconducibili ai processi psichici normali, estendendo, nel contempo il proprio interesse a diversi campi del sapere umano, quali la creazione artistica, la linguistica, l’antropologia, ecc.

Alla luce di queste considerazioni la psicoanalisi può essere intesa come: a) un metodo rivolto, all’indagine, delle modalità in cui si svolgono, e si manifestano i

processi psichici e basato sull’assunto che la nostra vita psichica in ogni sua manifestazione sia prevalentemente interessata e caratterizzata da processi inconsci, non altrimenti affrontabili;

b) una tecnica terapeutica, che assumendo come quadro di riferimento l’impostazione del

punto a), intende analizzare il tipo di difese e le resistenze che il soggetto instaura nei confronti dei propri desideri, pensieri e tendenze inconsci che sono alla base dei suoi disturbi;

c) un’impostazione teorica in cui confluiscono i risultati delle osservazioni sistematiche

compiute in sede psicoterapeutica e quelli derivati dall’impiego del metodo psicoanalitico in altri campi (arte, religione, antropologia, linguistica, ecc).

È chiaro che l’aspetto teorico della psicoanalisi, nelle sue diverse angolazioni, è

strettamente connesso con l’osservazione empirica e quindi con i problemi inerenti alla tecnica impiegata nei trattamenti psicoanalitici. In via generale, cioè, non è possibile disgiungere i due momenti intendendoli come indifferenti l’uno all’altro. Secondo la psicoanalisi l’accadere psichico è soggetto alle leggi dell’inconscio e quest’ultimo non va più considerato come una cieca forza biologica e istintuale, bensì come un mondo dotato di senso, che si manifesta secondo una determinata logica e che traspare, all’osservazione diretta e alla percezione cosciente, mediante un insieme di fenomeni che si esprimono in codice e che richiedono quindi una chiave interpretativa. L’aspetto propriamente inconscio e le sue innumerevoli modalità espressive vengono perciò inferiti da ciò che è direttamente osservabile e cioè: intendibile nella verbalizzazione del soggetto, osservabile nei suoi atti, nelle sue manifestazioni mimiche, ecc.

11 Questo capitolo è di Enzo Funari, Freud e la psicoanalisi, in Legrenzi P. (1980) Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna.

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Quindi l’analista che intraprende e conduce un trattamento ha presente sullo sfondo questo quadro generale in cui si inscrive la psicoanalisi. In particolare S. Freud, ha individuato, sin dall’inizio, l’importanza che riveste anche nella vita adulta il mondo fantasmatico, rappresentativo e simbolico che si anima sin dalla primissima infanzia: la teoria della sessualita infantile e il modo in cui le prime relazioni oggettuali si innestano sui bisogni, le richieste e i desideri dell’individuo, a partire dalla situazione neonatale, viene collegato al processo di rimozione, meccanismo difensivo inconscio che allontana dalla coscienza o rende inaccessibili alla stessa pensieri, fantasie, desideri ritenuti spiacevoli e pericolosi.

Ciò che interessa è un quadro – scrive Freud in Konstruktionen in der Analyse [1937] – attendibile e completo in tutti i suoi elementi essenziali degli anni dimenticati nella vita del paziente [ ... ]. Tutti sappiamo che l’analizzato deve essere portato a ricordare qualcosa che egli stesso ha vissuto e rimosso; ebbene, le condizioni dinamiche di questo processo sono talmente interessanti che in compenso l’altra parte del lavoro, la prestazione dell’analista, è sospinta nel fondo. L’analista nulla ha vissuto e nulla ha rimosso di ciò che è oggetto del nostro interesse [ ... ] e allora, qual è il suo compito? L’analista deve scoprire o per essere più esatti costruire il materiale dimenticato dalle tracce che quest’ultimo ha lasciato dietro di sé [Freud 1937].

Questo andamento del processo dell’analisi rivela anche un interesse tecnico

fondamentale: il terapeuta nulla può dare di suo; è il soggetto in analisi che, gradualmente, nel rapporto che ha instaurato con l’analista, si riappropria delle parti e degli elementi dimenticati e che pur tuttavia sono attivi e agiscono in lui. Questa riappropriazione graduale di un senso è accompagnata nel soggetto dall’acquisizione di un dato paradossale: e che cioè egli è l’unico depositario di una conoscenza che non sapeva di possedere. In altri termini, l’analista ha la funzione di aiutare il soggetto in analisi a disvelare la natura dei processi e degli elementi che sono in lui presenti, utilizzando il materiale fornito dallo stesso analizzando.

Il lavoro di costruzione [dell’analista] – prosegue Freud – o se si preferisce di ricostruzione, rivela un’ampia concordanza con quello dell’archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio. I due lavori sarebbero in verità identici se non fosse che l’analista opera in condizioni migliori, dispone di un materiale ausiliario più cospicuo sia perché si occupa di qualcosa che è ancora in vita e non di un oggetto distrutto sia, forse, per un altro motivo ancora. Ma proprio come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati, determina il numero e la posizione delle colonne dalla cavità del terreno e ristabilisce le decorazioni e i dipinti murali di un tempio dai resti trovati tra le rovine, così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni e dalle altre manifestazioni dell’analizzato [ibidem].

Nella situazione analitica, il paziente o analizzando, tende a trasferire sull’analista tutti

quegli stati emotivi, quegli affetti positivi e negativi che ha vissuto nella propria infanzia e che ancora sono attivi nella vita adulta condizionando anche in gran parte il comportamento del soggetto nelle relazioni che egli intrattiene nella sua vita quotidiana con gli altri. Questo fenomeno che costituisce una delle scoperte base di Freud è il cosiddetto transfert o translazione e consiste appunto nel ripetersi e nel riattivarsi di antiche situazioni affettive ed emotive infantili, cariche di significati e di valori per il soggetto, che trovano nella relazione analitica il terreno ideale per esprimersi. È appunto attraverso l’analisi della situazione transferale che, non solo si può recuperare ciò che è stato dimenticato, dall’interessato, ma si può altresì procedere alla liquidazione di quei sintomi (idee fisse, ansie, fobie per determinati oggetti o situazioni, ecc.) che avevano la funzione di rappresentare, sostituire altri elementi non accettabili dalla coscienza e quindi rimossi. Ciò che è accaduto sotto rimozione e ciò che viene significato dall’inconscio non

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è, di norma, aggredibile in modo diretto: le resistenze che il soggetto inconsciamente attiva sono indici di meccanismi di difesa di natura diversa.

E sono allora – come dice Freud – i frammenti di ricordi, le idee che emergono nel soggetto senza un legame apparentemente logico, i sogni, determinate azioni involontarie ma inconsciamente intenzionali, che costituiscono altrettante vie da esplorare e che fanno trapelare i significati e i conflitti ad essi sottesi. L’analogia tra psicoanalisi e archeologia adottata da Freud consente la visualizzazione di un apparato psichico – come veniva allora definito – caratterizzato da una dinamica che pone in contraddizione affetti, pensieri e tendenze e che, in definitiva, indica come la nostra psiche non vada intesa come una realtà unitaria, bensì come un insieme di processi diversi e molto complessi. Ma l’analogia regge fino ad un certo punto, difatti:

Abbiamo detto che l’analista – precisa Freud – lavora in condizioni più favorevoli [dell’archeologo] perché dispone altresì di un tipo di materiale che non ha corrispettivo negli scavi archeologici; tale è, ad esempio, il ripetersi di reazioni che traggono da epoche remote e tutto ciò che in merito a queste ripetizioni si evidenzia mediante la translazione. Inoltre c’è comunque da tenere presente che chi effettua uno scavo ha a che fare con oggetti distrutti di cui senza alcun dubbio pezzi grandi e importanti sono andati perduti a causa di forze meccaniche, incendi o saccheggi [...]. La faccenda è diversa se si ha a che fare con l’oggetto psichico di cui l’analista vuol fare emergere la storia passata. Qui si verifica invariabilmente ciò che per l’oggetto archeologico è accaduto solo in circostanze eccezionali e fortunate [...]. Tutto l’essenziale si è preservato, persino ciò che sembra completamente dimenticato è ancora presente in qualche modo o in qualche parte, solo che è sepolto, reso indisponibile all’individuo [ibidem].

Vanno qui fatte alcune considerazioni: esiste una indistruttibilità di ciò che appartiene alla

sfera inconscia, soprattutto se determinati elementi non hanno mai avuto la possibilità di entrare nella sfera della coscienza e di venire così modificati, attenuati o liquidati; c’è la presenza attiva degli stessi elementi in questione che possono infiltrarsi nel mondo della coscienza senza che questa – per così dire – se ne accorga, influenzandola nelle più svariate maniere. Ciò che appartiene al passato è presente nascostamente, ciò che – per seguire il modello della stratificazione – appartiene ad uno strato inferiore (ad esempio, un elemento associato ad un periodo della prima infanzia) può servirsi di elementi più recenti, collegati alla nostra esperienza psichica successiva, per riformulare le proprie richieste. Così – per terminare con l’analogia archeologica – anche l’analista deve stabilire, insieme all’analizzando, l’epoca a cui risalgono determinati ricordi, con tutta la loro, tinta emotiva, così come talvolta resta da decidere se quel determinato elemento «appartenga a quello strato o se sia giunto a quella profondità a causa di un perturbamento avvenuto in seguito». Si ha così la possibilita di concettualizzare la realtà psichica e di operare su di essa in una duplice prospettiva: in senso diacronico, tenendo cioè presente l’evolversi della realtà psichica stessa del soggetto nel tempo, con i suoi richiami al mondo dell’infanzia ancora presente nei pensieri e negli affetti dell’adulto; in senso sincronico, per cui la realtà psichica si manifesta in modo tale da tenere compresenti i vari strati su cui è costruita ed in cui ogni processo ed ogni evento che si produce e si modifica comporta una generale modificazione del campo dello psichismo e del senso presente in esso.

Vedremo in seguito come questo secondo aspetto sia più ricco di implicazioni. I punti che si sono sin qui stabiliti possono essere individuati come segue. La psicoanalisi è sia una tecnica esplorativa, con scopi terapeutici, sia un modello interpretativo e teorico della vita psichica umana. Essa si presenta come una psicologia del profondo e si contrappone ad ogni altro tipo di psicologia che tenda a mantenere l’equivalenza psiche-coscienza. La psicoanalisi tuttavia, sia sul piano della tecnica operativa sia su quello della teoria, pone l’accento sulla dialettica, sullo scontro-incontro, che regola il rapporto tra inconscio e coscienza, non eliminando quindi quest’ultima dalla propria osservazione, ma interpretandola nel rapporto che essa

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difensivamente intrattiene con la sfera inconscia. Un altro punto da ribadire è che per la psicoanalisi l’inconscio è costituito da quell’insieme di significati, di vissuti e di pensieri che il soggetto porta dentro di sé e che, in ultima analisi, viene a condizionare la sua condotta; nella concettualizzazione freudiana non viene designato quindi, con il termine inconscio, un mondo istintuale e biologico bensì un campo di significazione che, pur ponendosi come rappresentante del mondo dell’istintualità, evidenzia una propria natura simbolica e va affrontato mediante un modello teorico autonomo rispetto alle scienze naturali e rivolto alla comprensione dei fenomeni e dei processi psichici. 2. Le origini e il senso della psicoanalisi

Si tratta ora di individuare, per linee essenziali, il clima scientifico e culturale in cui è nata la psicoanalisi: questo per meglio comprendere il significato della sua origine e della sua natura.

La vicenda – per così dire – la si può far cominciare quando Freud si iscrive alla facolta di medicina di Vienna nel 1873. Qual era il clima scientifico di quel tempo? Lo stesso Freud entra nel mondo accademico sulla spinta di un grande interesse per la dottrina di C. Darwin; il pensiero evoluzionistico darwiniano forniva una spiegazione dell’origine e dell’evoluzione degli esseri viventi, basata fondamentalmente sulla possibilita adattiva della specie e sugli esiti della lotta per la sopravvivenza. Il riferimento di tipo «biologico» si voleva contrapporre ad ogni posizione d’ordine speculativo-metafisico e ad ogni spiegazione non derivata dall’osservazione basata su metodi di ricerca appartenenti alle scienze naturali. Il metodo darwiniano sembrava quindi offrire agli studiosi un rigore scientifico al passo con le esigenze dei tempi. D’altra parte il messaggio, dello stesso Darwin a Vienna, come del resto nell’Europa centrale, si innestava su altre correnti che, per diverse vie, perseguivano obiettivi analoghi. Freud stesso, appena entrato all’universita, seguì volontariamente due corsi non previsti dal suo piano di studi, a testimonianza del tipo di interessi allora correnti: quello di Claus, zoologo e studioso di anatomia comparata, e quello di Brücke, fisiologo. Claus si richiamava, appunto, alla dottrina darwiniana: il suo intento era quello di confermare, mediante l’osservazione sistematica, l’ipotesi della continuità esistente tra le varie specie animali, continuità governata dai processi di selezione naturale.

Brücke rappresentava a Vienna uno dei riferimenti più solidi del pensiero scientifico di quei tempi: la Scuola fisica di Berlino. Lo stesso Brücke aveva fatto parte a Berlino di un gruppo di ri-cercatori – tutti allievi del fisiologo J. Müller – noto per aver rivoluzionato, intorno agli anni ‘30, il modo di impostare la ricerca in campo fisico e fisiologico sia sul piano della sperimentazione sia sul piano della teoria.

Il gruppo di Berlino si era venuto progressivamente contrapponendo alla concezione allora corrente che alla base dei fenomeni vitali (biologici), sia a livello di genesi sia di evoluzione, agisse una forza vitale non meglio identificata ma solamente ipotizzata, la quale presiedeva sia alla costituzione sia allo sviluppo degli organismi. Questa idea – contestata dal gruppo di Berlino come concezione metafisica – non aveva naturalmente impedito che tra gli stessi sostenitori della forza vitale si trovassero grossi ricercatori anche sul piano sperimentale come il medico Bichat in Francia, il chimico Liebig e lo stesso fisiologo J. Müller, maestro dei componenti il gruppo di contestazione. La Scuola fisica di Berlino, le cui figure principali erano – oltre a quella di Brücke – Helmholtz, Du Bois-Reymond e Ludwig, tutti eminenti studiosi di fisica e fisiologia, si proponeva quindi di abolire ogni residuo di pensiero non scientifico e di richiamarsi a una disciplina base, l’unica che potesse garantire un rigore sul piano dell’osservazione sperimentale e dell’elaborazione teorica: la fisica.

Il linguaggio della fisica veniva perciò posto come il linguaggio base per la spiegazione di tutti i fenomeni – compresi quelli biologici, fisiologici e anche psichici. La fisiologia-fisica – come veniva allora chiamata – nella sua lotta contro la fisica speculativa (vedi vitalismo e le posizioni

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che si rifacevano alla filosofia della natura) giunse a comprendere in una visione che si richiamava all’unità della scienza il comportamento umano nell’ambito dei fenomeni fisici.

L’uomo – cosi si può riassumere questo aspetto dell’elaborazione teorica dei berlinesi – è come una macchina, funziona cioè secondo processi governati da forze fisiche che si contrappongono si uniscono e si bilanciano. Gli stessi fenomeni psichici devono essere spiegati quindi secondo questo modulo teorico. L’unica differenza tra le macchine e l’essere vivente è determinata dal fatto che quest’ultimo è dotato di assimilazione. Naturalmente non tutti i ricercatori della Scuola erano riconducibili o riducibili a questa impostazione radicale che – per certi aspetti – può essere intesa come un richiamo alle posizioni materialistiche settecentesche; si possono tuttavia riconoscere in essa i tratti fondamentali e più generali degli esiti a cui giunse la contrapposizione alla teoria della forza vitale. Il termine «energia» (Energie) si andò sostituendo progressivamente a quello di forza (Kraft): il concetto di energia più si adattava, per altro, alle esigenze della mentalità sperimentale: controllo, ripetibilità del fenomeno, misurazione, ecc.

Come si vede, le prospettive avanzate dalla Scuola di Berlino facevano riferimento a una impostazione razionalistica, basata sulla ricerca empirica e sulla osservazione sistematica e sfociante, almeno in alcuni suoi rappresentanti, in posizioni radicali di tipo naturalistico e meccanicistico (nel senso sopra esposto). Tutto ciò Brücke portò a Vienna quando ottenne la cattedra di fisiologia presso l’università.

Si può inoltre notare come, per certi aspetti, le idee avanzate dai ricercatori berlinesi si accostassero alle indicazioni ricavabili dalla concezione darwiniana, pur presentando quest’ultima un campo teorico e un’articolazione di tipo diverso. Freud percorse il suo itinerario di studente facendo riferimento a questo tipo di impostazioni; gli si prospettava, inizialmente, un futuro di fisiologo e di neurologo, ma le cose non andarono in seguito così.

Dobbiamo qui tralasciare gli aspetti relativi ai motivi d’ordine strettamente personale che spinsero Freud a modificare il proprio, itinerario successivo: troppo spazio sarebbe necessario per fornire un quadro esauriente relativo a questo livello di problemi. Ci atterremo invece a quelle direttive più generali, rintracciabili nel movimento scientifico e culturale di quel tempo, che hanno avuto una decisiva influenza nello spingere Freud a rinunciare all’impostazione meccanicistica e naturalistica dei suoi maestri.

Occorre anticipare che, negli anni immediatamente successivi alla sua laurea, Freud si era andato convincendo che la pura fisiologia non era sufficiente a spiegare una serie di fenomeni psicologici – normali e patologici – che sembravano sfuggire all’osservazione impostata secondo i moduli assimilati, ad esempio, da Brücke. La decisione da parte di Freud di abbandonare la via fi-siologica non fu né subitanea né priva di conflitti personali.

Questo cambiamento progressivo, ma inesorabile, va ascritto a una serie di componenti diverse – come si è detto – e assai complesse. Anzitutto, durante gli anni da studente e quelli suc-cessivi da neo-laureato Freud aveva frequentato, oltre alle lezioni di Brücke, anche lo psichiatra T. Meynert. Mentre Brücke si era sempre occupato del sistema nervoso periferico, Meynert svolgeva le proprie ricerche sul sistema nervoso centrale, ed era già allora conosciuto come uno dei più eminenti conoscitori della struttura e delle funzioni cerebrali. Ma T. Meynert presentava anche un’altra particolarità: pur aderendo, ai dettami della fisiologia fisica, inseriva nel proprio modello teorico, relativo alle spiegazioni dei fenomeni psico-fisiologici, le idee del filosofo J.F. Herbart.

Al contrario della Scuola di Berlino, J.F. Herbart sosteneva (principalmente nel suo scritto del 1824-25, Psychologie als Wissenschaft) la preminenza della psicologia sulla fisiologia, proponendo, per la prima volta, un complesso modello di studio psicologico che faceva uso della quantificazione e della misurazione degli eventi psichici.

Non solo, ma nella psicologia herbartiana riveste una grande importanza il concetto di inconscio, e più precisamente di idee inconsce. La nostra vita psichica – secondo Herbart – è costituita in minima parte da idee coscienti; al di sotto della soglia della coscienza rimangono

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attive innumerevoli altre idee, pronte a precipitarsi nella sfera della coscienza, ogniqualvolta particolari circostanze facilitino questo processo. Questo motivo viene parzialmente ripreso da Meynert, il quale, accanto a studi e ricerche più particolari sulla struttura e sulla funzione del cervello, si occupò di problemi più generali di sistemazione teorica relativamente ai processi psichici. Nel suo libro Psychiatrie (1885) è rintracciabile infatti il tentativo di comporre le concezioni della Scuola di Berlino con la posizione di Herbart.

Occorre anche tener presente che la psicologia di Herbart circolava, come posizione ufficiale, anche nelle scuole secondade, e probabilmente Freud ebbe modo di conoscerla ed apprezzarla prima del suo ingresso in universita.

Due elementi sono quindi traibili dalla lezione di Herbart e contrapponibili alla Scuola di Berlino: la preminenza della psicologia sulla fisiologia; l’importanza dei meccanismi inconsci nella determinazione dei processi psichici. Due elementi che tanta importanza avranno nella successiva elaborazione della teoria psicoanalitica.

Si deve inoltre considerate che a Vienna negli anni ‘80 la posizione dei fisiologi veniva contrastata dal fenomenologo Brentano, le cui lezioni all’università erano state seguite da Freud per due semestri. Anche Brentano, pur con una impostazione molto diversa da quella di Herbart, sosteneva il primato della psicologia, studiando in particolare i diversi modi di manifestarsi dei fenomeni psichici, da quelli cognitivi (pensiero, percezione, memoria) a quelli affettivi (sentimenti, emozioni, ecc.).

Si può quindi dire che già nel Freud seguace del materialismo meccanicistico di Brücke, fossero compresenti – covassero per così dire – spinte non ortodosse che esperienze personali, ma soprattutto eventi di più vasta portata, dovevano successivamente fare esplodere.

Infatti come la spinta all’innovazione della scienza fu determinata dalla fisica e dalla biologia a partire dai primi decenni dell’Ottocento, cosi, verso la fine del secolo scorso, la crisi delle scienze naturali diede l’avvio a un generale ripensamento relativamente a quelli che erano ritenuti i punti saldi fino ad allora stabiliti. I modelli naturalistici che assegnavano regole immutabili alla base dello stabilirsi dei fenomeni di ogni ordine e grado non erano più ritenuti sufficienti. In questo clima di revisione, la fisiologia e la neurofisiologia incominciavano ad apparire, per alcuni scienziati e ricercatori, insufficienti anche a spiegare i fenomeni psichici.

A Vienna, uno dei centri dove più si era consolidato il pensiero naturalistico, il gruppo accademico sembrò ignorare per parecchio tempo gli scossoni che subivano gli ottimismi suscitati dalle scienze naturali.

Freud, che, come si è visto, aveva per qualche tempo aderito al pensiero fisicalistico, fu uno di quelli che cominciarono a dubitare delle certezze impiantate sulla riduzione della spiegazione di tutti i fenomeni, in ultima istanza, al discorso fisico. Lo studio dei processi psicopatologici, in particolare l’isteria – in cui si manifestavano disturbi anche a livello organico senza che fosse rintracciabile alcuna alterazione a livello dei tessuti e degli organi corporei – cominciò a indirizzare l’attenzione dello stesso Freud verso la possibilità di formulare un modello di spiegazione diverso da quello dei suoi maestri e della tradizione berlinese e viennese.

Ora, ogni crisi del pensiero razionale e scientifico, genera spinte e fughe di tipo irrazionalistico: «Quando la ragione dorme – si legge su un quadro di Goya – si svegliano i mostri». Le scelte di Freud non si indirizzarono mai in questo senso. Il problema era quello di trovare il modo di sostituire un impianto non più ritenuto idoneo con un nuovo tipo di approccio centrato sullo studio del mondo psichico: si imponeva una nuova strategia sia d’ordine epistemologico – basata quindi su assunti di base diversi – sia di ordine metodologico, articolata con strumenti e modalità operative nuovi. Si trattava perciò di non abbandonare un’impostazione di tipo razionale – frutto di secoli di riflessione e di ricerca – senza peraltro accogliere in modo acritico e passivo una formulazione accademica che era andata via via perdendo di senso. L’area in cui cominciò a muoversi il primo Freud, fu quindi in particolare un’accettazione delle

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indicazioni ricavabili dalle scoperte scientifiche precedenti e del relativo richiamo al rigore nell’osservazione e nei modelli di spiegazione; accettazione combinata con la trasposizione di tale rigore nello studio dei fenomeni psichici.

Così l’insieme dei processi psicopatologici (isteria, nevrosi ossessive, fobie, psicosi, ecc.) divenne un terreno strategico, sia sul piano della riflessione teorica che della pratica clinica, per comprendere la fondamentale continuità esistente tra gli stessi fenomeni patologici e il cosiddetto comportamento «normale». A prima vista può apparire paradossale come l’atteggiamento scientifico e razionale di Freud stabilisse la propria identità sulla ferma convinzione che ogni comportamento, ogni espressione della vita psichica fossero determinati da pia processi e da più elementi appartenenti a una dimensione inconscia.

Tale impressione può essere tuttavia annullata se si pensa come il pensiero scientifico prefreudiano, nel suo complesso, mentre prestava una grande attenzione ai fenomeni osservabili della fisica, della biologia, ecc., richiamandosi continuamente all’esigenza di rigore, tendeva a ignorare la possibilità di studiare in modo sistematico i processi psichici, e relegava una serie di tali fenomeni nell’ambito delle stranezze, delle cose di poco conto ascrivibili al mondo della casualità.

D’altro canto la crisi del pensiero tradizionale provocherà soluzioni diverse sul piano dell’impostazione teorica: Freud ipotizza una dimensione inconscia, non più intesa come un insieme di cieche forze, bensì come un mondo caratterizzato da un senso che rimane occultato per la riflessione cosciente, pur influenzandola. Questa soluzione aggirava l’ostacolo della normatività, secondo la quale si poteva parlare solo di ciò che è direttamente osservabile, normatività che era sfociata in un vicolo cieco. Il tipo di soluzione freudiana che inferiva la dimensione inconscia dagli effetti che essa determina sui fenomeni osservabili (sintomo, sogno, ecc.) – è accostabile peraltro ad altre posizioni successive risposte alle crisi scientifiche del tempo. In campo biologico: Weismann ipotizzera la linea germinale, a sostegno dei processi di ereditarietà, rifacendosi al concetto di plasma germinale: e questo proprio dopo che, per una malattia agli occhi, aveva dovuto abbandonare l’uso del microscopio! Il fisico Bohr anticiperà a livello teorico il discorso sull’atomo, prefigurando la struttura atomica: le anticipazioni teoriche di Bohr si riveleranno in seguito estremamente utili per la fisica atomica. 3. L’opera di Freud e il suo sviluppo

Abbiamo visto come il primato della fisiologia sulla psicologia veniva pertanto confermato, da parte di tutti i ricercatori dell’Università di Vienna. Freud crebbe scientificamente all’interno di questa Scuola e, durante il primo periodo della sua attività di ricercatore, aderì a questo tipo di impostazione. Ora la costante osservazione di alcuni disturbi – quali ad esempio i fenomeni isterici – andò convincendo Freud che alla base di determinate alterazioni funzionali (cecità temporanee, anestesie parziali, convulsioni, ecc.) non era riscontrabile un’alterazione organica e quindi si affacciò in Freud l’ipotesi di un’origine ideogena dell’isteria, vale a dire un processo causale di origine psichica, mentale e non somatica. Il passaggio di Freud da una posizione come quella dei neurofisiologi viennesi a un tipo di spiegazione che affrontava il problema della malattia mentale da un punto di vista prettamente psichico, fu facilitato da molteplici fattori. Alla fine dell’Ottocento si era verificata una crisi diffusa della scienza fisica e di quei modelli scientifici che si rifacevano al linguaggio fisico: gli accademici viennesi non sembrarono accorgersi tempestivamente di questo processo secondo il quale le certezze accumulate sulla conoscenza di particolari fenomeni sembravano dissolversi. Freud nel campo specifico della sua attivita, ebbe il sentore che la vita psichica non è semplicemente riducibile a una serie di energie biofisiologiche

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che la regolano, combinandosi e contrastandosi tra loro, ma che lo psichismo nasconde una maggiore complessità ordinantesi sulla dimensione affettivo-ideativa che si manifesta in modo simbolico. Questa convinzione veniva corroborata dalle teorie di Charcot, un medico francese assai noto in quel tempo, che a Parigi conduceva ricerche nel carnpo dell’ipnosi e, in particolare, dell’ipnosi applicata alla cura dell’isteria. Freud frequentò nel 1885, le lezioni di Charcot ed ebbe modo di incrementare la propria convinzione circa le ipotesi che lo avevano reso dubbioso relativamente al fisiologismo dei suoi maestri viennesi.

Tomato a Vienna nel 1886, mise in pratica ciò che aveva appreso alla scuola di Charcot. Quest’ultimo riteneva che l’isteria avesse una base psichica (ideogena) e che si originasse in rapporto a determinati traumi psichici che si tradurrebbero successivamente in manifestazioni sintomatiche a livello organico. L’ipnosi, e cioè una particolare tecnica suggestiva che pone il soggetto ipnotizzato in uno stato simile al sonno, permetteva di far scomparire i sintomi isterici, cosi come consentiva di farli ricomparire una volta assenti. Freud intraprese quindi l’uso dell’ipnosi per curare i soggetti afflitti da questi particolari disturbi (conversione somatica da trauma psichico). Ben presto tuttavia si rese conto che un tale metodo incideva semplicemente sul sintomo, senza interessare minimamente le probabili cause del sintomo stesso, cause peraltro associate a qualche esperienza traumatica psichica verificatasi nel passato del soggetto. Negli anni tra il 1886 e il 1894, Freud insieme a J. Breuer, un medico più anziano di lui e assistente presso l’istituto di fisiologia di Brücke, adottò una variante del metodo ipnotico, consistente sempre nel mettere in stato ipnotico il soggetto sofferente, ma invitandolo contemporaneamente a ricordare quelle particolari esperienze dolorose che venivano ipotizzate come la causa dei sintomi nevrotici. Questo metodo detto «catartico», costituì il primo passo verso la futura tecnica psicoanalitica. In queste condizioni il soggetto riusciva a far riemergere particolari ricordi penosi e, verbalizzandoli, riusciva a rivivere determinate esperienze passate con una forte partecipazione emotiva. L’ap-plicazione del metodo catartico (catarsi = liberazione, scarica emotiva) consentì a Breuer e Freud di giungere a due risultati molto importanti. Anzitutto alla rilevazione che i sintomi isterici sono i sostituti di processi psichici normali. Si stabilì pertanto che il sintomo isterico si origina allorché di fronte a una determinata situazione traumatica non si verifica per ragioni soggettive ed oggettive una reazione affettiva ed emotiva adeguata e quindi gli effetti psichici di tale trauma, non venendo liquidati al momento opportuno, rimangono per così dire incapsulati all’interno dell’apparato psichico: il sintomo isterico quindi è il sostituto di una reazione psichica normale non verificatasi e nel contempo, una reminiscenza del motivo che l’ha originata. Un altro aspetto messo in luce dal metodo catartico, e di grande portata sia teorica che operativa, era costituito dall’emergere di un senso sconosciuto, di un collegamento simbolico e dinamico fra i sintomi e i ricordi traumatici rimossi i quali, riattivandosi nella coscienza, consentivano la scornparsa o l’attenuazione dei sintomi stessi.

Ma il metodo catartico, che fu alla base della collaborazione tra Breuer e Freud, sfociata nella pubblicazione di Studi sull’istetia (1895), doveva ben presto presentare dei punti deboli. I sintomi scomparivano per un certo periodo, per fare poi la loro ricomparsa una volta che la cura veniva sospesa e inoltre si verificava una forte dipendenza da parte dei pazienti nei confronti della figura del terapeuta. Sul piano teorico invece, i due autori si trovarono sempre più in disaccordo. Breuer riteneva che gli elementi psichici alla base dei sintomi fossero patogeni in quanto originati in una situazione, definita da Breuer stesso, come «stato ipnoide», uno stato in cui cadrebbe spontaneamente il soggetto e riducibile ad una predisposizione organica; stato inoltre in cui le facoltà e le prestazioni psichiche subirebbero, una forte riduzione. Freud invece era sempre più convinto che gli elementi psichici (rappresentazioni) all’origine dei disturbi, fossero patogeni in quanto il loro significato e i loro contenuti si contrapponevano alle tendenze dominanti della vita psichica, alla coscienza, sì da indurre una difesa da parte del soggetto. Non più una spiegazione di tipo organico quindi, bensi un riferimento ad una dinamica e a significati dello psichismo. Ma un

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altro punto venne a dividere i due autori in forma definitiva: Freud accertò che l’incompatibilita di determinati pensieri, tendenze, desideri, con la vita cosciente dipendeva dal fatto che essi erano fortemente associati a significati della vita sessuale, e in particolare con vissuti, ricordi e affetti riconducibili a esperienze originatesi nell’infanzia e ancora presenti nella vita dell’adulto.

Breuer reagì, come reagì del resto in quel periodo la scienza ufficiale, negativamente: rifiutò sia l’impostazione di metodo di Freud, sia il riferimento alla sessualità infantile e alla teoria emergente della libido, concettualizzata da Freud come una energia psichica che presiede sia alle vicende autoerotiche sia ad ogni tipo di relazione oggettuale che il soggetto imposta e intrattiene, a partire dal suo iniziale rapporto con la figura materna e i suoi sostituti.

Il distacco da Breuer assunse quindi un valore emblematico e il pedodo che va dal 1895 al 1900, vide sempre più acuirsi le difficoltà di Freud nei confronti dell’ambiente scientifico ufficiale e in particolare medico e psichiatrico. Lo studio dei fenomeni nevrotici aveva condotto Freud sulla soglia di una nuova soluzione relativa alla spiegazione dei processi psichici. Esiste un mondo psichico sconosciuto alla dimensione cosciente: esso non solo si manifesta in maniera evidente nei sintomi della nevrosi, ma è individuabile nella condotta psichica normale attraverso l’analisi dei sogni, dei lapsus e del motto di spirito. Questi ultimi fenomeni, che sono universali e appartengono alla normalità, risultano l’effetto – come il sintomo della condotta patologica – di un compromesso tra tendenze perturbanti, non accettabili dalla coscienza del soggetto, e le forze rimoventi dell’io, che ne vuole negare l’esistenza.

Negli anni immediatamente precedenti il 1900, Freud formulò la sua celebre concezione dell’attività onirica: il sogno è l’appagamento allucinatorio di un desiderio infantile. L’analisi dei sogni, con il metodo delle cosiddette associazioni libere, diventò il cardine dell’interpretazione psicoanalitica. Nel novembre del 1899 comparve L’interpretazione dei sogni, l’opera più celebre di Freud. In essa viene impostato il primo modello della psicoanalisi, al quale modello è dedicato, in particolare, il settimo capitolo del volume; sempre in ques’opera, è presentata la tecnica interpretativa tendente ad aggirare l’ostacolo, presentato dalle resistenze del soggetto ad accettare, a ricordare ciòche opera in esso inconsciamente. L’analisi dei sogni, unitamente a tutti quei pensieri, anche apparentemente sconnessi, che si affacciano alla mente del soggetto, i ricordi formatisi nella vita passata, costituiscono altrettanti anelli di una lunga catena che consente al soggetto stesso di riappropriarsi dei significati, dei valori e delle tendenze desideranti che gli appartengono. La rinuncia a ogni atteggiamento critico da parte del soggetto – pur difficile a mettere in opera – costituisce la base del metodo delle associazioni libere e consente l’individuazione di quelle lunghe e complesse serie di nessi la cui graduale scoperta è indispensabile alla comprensione della vita psichica. Tutto ciò che era stato considerato casuale e insignificante negli atti psichici degli uomini, diviene quindi per la psicoanalisi oggetto di attento studio. Il sogno era diventato un prezioso strumento per la conoscenza della vita psichica inconscia.

La forza motrice che presiede alla formazione della scena onirica è costituita da un’aspirazione inconscia, veicolante desideri e tendenze rimossi durante la veglia, i quali, entrando in contatto con i resti diurni (i residui di pensieri, propositi, tendenze; agenti durante lo stato di veglia stessa), pone le condizioni per l’appagamento dei desideri inconsci. Ciò che il soggetto reputa, inconsapevolmente come vietato a se stesso, porta all’animarsi di questo processo di appagamento il quale si unisce alla funzione di preservare lo stato di sonno e di soddisfare quindi anche l’esigenza di dormire. I pensieri onirici latenti che agiscono, per così dire, al di sotto della scena manifesta (ciò che il dormiente effettivamente vede mentre sogna) vengono trasformati in una diversa modalità espressiva (appunto in un susseguirsi di immagini e scene spesso strane e incomprensibili) dal lavoro onirico che presiede alla manipolazione dei pensieri rimossi e dei significati ad essi connessi. A questo processo di trasformazione concorre anche un’istanza critica – la censura – che, in forma attenuata continua l’opera di arginamento delle aspirazioni inconsce, opera svolta, allo stato di veglia, dalla rimozione. La scena onirica quindi nasconde in sé una serie

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di significati non direttamente accettati da parte del dormiente. Il materiale onirico inoltre subisce, sin dal momento in cui si origina, una elaborazione secondaria, la quale ha lo scopo di rendere il sogno più coerente e comprensibile; l’elaborazione secondaria, inoltre, aumenta la propria incidenza man mano che ci si avvicina al risveglio ed opera decisamente quando ad esempio si racconta il sogno.

L’analisi dei sogni, la teoria dinamica della formazione del sogno e il metodo delle associazioni libere, vanno considerati quindi i capisaldi della tecnica interpretativa psicoanalitica. Essi si saldano alla teoria della sessualità infantile [Freud 1905] la quale, congiuntamente alla scoperta della dinamica della translazione [Freud 1912] e della sua funzione nel trattamento psicoanalitico, forma alcuni dei temi centrali della dottrina freudiana.

Si era precedentemente accennato allo studio rivolto da Freud [1901] ad altri fenomeni – oltre che al sogno – della vita psichica: i cosiddetti atti mancanti e le azioni casuali.

Scrive Freud in una breve presentazione della sua dottrina:

Fu un trionfo per l’arte interpretativa della psicoanalisi quando riuscì a dimostrare che certi frequenti atti psichici dell’uomo normale, per i quali sino allora non si era presa in considerazione una spiegazione psicologica, sono da intendere allo stesso modo dei sintomi nevrotici, ovvero hanno un significato ignoto al soggetto ma facilmente rintracciabile mediante l’analisi. I fenomeni in questione, la dimenticanza temporanea di parole e nomi, per altro ben noti, le dimenticanze di propositi, i frequenti lapsus verbali di lettura e di scrittura, la perdita e lo smarrimento di oggettti, alcuni tipi di errori, atti di auto-lesione apparentemente accidentali, e infine movimenti che si eseguono d’abitudine, senza intenzione e come giocando, melodie che si canticchiano «soprappensiero» e altro ancora, tutto ciò fu sottratto alla spiegazione fisiologica, se mai questa era stata tentata, e dichiarato rigorosamente determinato, nonché riconosciuto come espressione di intenzioni rimosse della persona e come conseguenza dell’interferire di due intenzioni, una delle quali precedentemente e permanentemente inconscia [Freud 1922].

Il campo dell’osservazione psicoanalitica si allarga così enormemente, venendo ad abbracciare

tutti gli accadimenti della vita psichica e del comportamento, in una concezione unitaria che, nel contempo, tendeva a colmare la distanza – sostenuta dal pensiero psichiatrico tradizionale – tra mondo psichico normale e patologico.

Secondo tale concezione, inoltre, ogni atto, manifestazione, siano essi «normali» o «patologici», sono il risultato del confluire di più fattori che, unificandosi, danno luogo al fenomeno insorgente. La psicoanalisi pertanto non fa ricorso ad una teoria strettamente deterministica, bensì rivendica, nel manifestarsi di un fenomeno, il concorso di più cause e di più fattori che vanno stabiliti contestualmente, di volta in volta; inoltre i processi che sottendono l’insorgere dei fenomeni sono dotati di senso, si esprimono, per così dire, come un linguaggio che va decifrato.

La vicenda culturale e scientifica, iniziata con l’apparizione dell’Interpretazione dei sogni ha avuto un decorso ricco di implicazioni teoriche e operative.

Sono molteplici gli argomenti presenti nell’opera freudiana e in quella del movimento psicoanalitico nella sua generalità, tali cioè da non consentire qui un’adeguata e soddisfacente trattazione. Soltanto in Freud – che rimane ancor oggi il punto di riferimento più valido del pensiero psicoanalitico – sono diversi i punti degni di trattazione. Il complesso edipico e la sua incidenza nella vita infantile e adulta, la teoria delle pulsioni libidiche e distruttive, le due successive concettualizzazioni dello psichismo (Conscio - Preconscio - Inconscio/Es - Io - Super-io), il tema del narcisismo, il confronto tra principio del piacere e principio della realtà, l’estensione dell’indagine psicoanalitica alla creazione artistica, alla religione, alle scienze sociali, ecc., sono altrettanti

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momenti significativi del pensiero freudiano, ripresi peraltro in innumerevoli lavori di altri studiosi ed operatori della psicoanalisi.

Nel decennio che va dall’inizio del secolo al 1910, la dottrina psicoanalitica uscì dall’isolamento e cominciò a suscitare un forte interesse che si concretizzò nel costituirsi di un primo gruppo di psicoanalisti che fondarono la Società Psicoanalitica di Vienna. Nel 1908 si tenne a Salisburgo il primo Congresso Intemazionale di Psicoanalisi e questo segnò l’uscita dai confini fino allora limitati della nuova teoria di Freud. Nel 1910 venne fondata, al secondo Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Norimberga, l’Associazione Psicoanalitica Internazionale.

Nel movimento psicoanalitico si sono verificate successivamente alcune scissioni: sono note quelle di C. G. Jung e di A. Adler, che fondarono rispettivamente due movimenti assai diversi per impostazione teorica e per soluzioni tecniche. Inoltre, nell’arco di settant’anni, a partire dalla comparsa dell’Interpretazione dei sogni sono emersi, all’interno della psicoanalisi che si richiama a Freud, alcuni indirizzi con propri tratti caratteristici: si possono qui ricordare la cosiddetta «scuola kleiniana» (dal nome della psicoanalista di origine ungherese Melanie Klein), la corrente che si rifà a W. Reich e la più recente École freudienne de Paris, fondata dallo psicoanalista francese J. Lacan. Non è compito di questo scritto entrare nel merito del significato e della portata di tali fenomeni di revisioni e di cambiamento; per questo si rimanda alle opere dei singoli autori, in particolare Klein [1957; 1978] e Lacan [1970]. 4. Il messaggio psicoanalitico

Al di là degli aspetti che sono andati via via arricchendo il sapere psicoanalitico, rendendolo sempre più complesso e problematico, occorre stabilire qual è il significato fondamentale presen-te nella dottrina freudiana e, in questo senso, il richiamo a Freud va visto come un espediente metodologico volto a definire l’asse portante del messaggio scientifico e culturale della psicoanalisi.

La costruzione di un metodo esplorativo e di una teoria che mettessero in rilievo l’incidenza, in ogni forma di atto psichico e di condotta, di una dimensione inconscia, ebbe luogo nel mo-mento in cui si riproponevano – e non per la prima volta nella storia del pensiero – due tipi di soluzione contrapposti. Da un lato una scienza ufficiale in crisi, che si rivolgeva sempre di più a una concezione naturalistica dell’uomo, ripetendo moduli esplicativi di tipo riduttivo; dall’altro, proprio in contrapposizione e in relazione a questa crisi, l’emergere di soluzioni e di teorie di tipo metafisico o spiritualistico, come puntuale reazione ad un’opprimente insistenza di concezioni naturalistiche svuotate da ogni fermento creativo ed innovativo. Freud individuò la possibilità di rifiutare la soluzione spiritualistica e nel contempo di superare la crisi della ragione, mettendo in luce la connessione dialettica esistente tra ciò che apparentemente non è logico (il mondo della significazione inconscia) e il mondo della coscienza e della ragione. Veniva così ribaltato il cogito cartesiano: la ragione, per essere veramente tale, doveva cessare di negare l’esistenza al proprio interno di un insieme di fenomeni, di tendenze, di significati che fino allora non avevano avuto diritto di cittadinanza. L’inconscio freudiano – fin dalla sua prima concettualizzazione – si palesò come una dimensione dotata di una sottile logica e di senso. La psicoanalisi quindi trovò difficoltà di accoglimento sia da parte delle tendenze irrazionalistiche sia da parte del pensiero razionale di tipo tradizionale.

Se si riconduce peraltro questo discorso generale al piano riguardante la cura psicoanalitica si rintraccia una perfetta coincidenza dei due livelli, quello teorico e quello operativo. Nello stato ipnotico e in qualsiasi situazione di suggestione, usati come tecniche terapeutiche, il soggetto diviene passivo ricettacolo di processi ai quali non partecipa coscientemente oppure non è nel pieno delle sue facolta critiche; d’altro canto in una psicoterapia condotta allo stato di veglia, dove

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il terapeuta consiglia, interviene criticamente, esprime giudizi, ecc., e dove le condizioni generali della situazione non offrono la possibilità al soggetto di prendere contatto con stati profondi della propria psiche, necessariamente tende a prevalere l’aspetto indiscriminatamente critico e difensivo. Nella situazione analitica invece il soggetto, da sveglio – e quindi in possesso di tutte le armi critiche e di controllo – si pone nella condizione di far emergere (attraverso le associazioni libere, il racconto dei propri sogni, le sensazioni che prova e che comunica nel momento in cui si svolge la terapia, ecc.) una serie di elementi di fronte ai quali mette continuamente in atto i propri meccanismi difensivi e le resistenze che li accompagnano. Nella situazione di translazione affettiva, che è al servizio della resistenza e che consente il riattivarsi di ciò che è stato rimosso o comunque disturba il soggetto, l’analizzando partecipa attivamente ai conflitti che si scatenano tra l’apparato difensivo e i significati che tendono a emergere nella comunicazione. Non si trova cioè né nel discorso del delirio non codificabile, né nella sfera della coscienza critica che tutto vuol controllare e negare; è in una zona, per così dire, intermedia, dove conscio e inconscio si affrontano per dirimere ciascuno i propri diritti.

La psicoanalisi, lo si è detto già, è una psicologia del profondo ma, occorre aggiungere, nella misura in cui serve a far sì che L’Io del soggetto si riappropri, almeno in parte, di ciò che è stato rimosso e che gli appartiene, e comprenda (nel senso di «prendere con sé», di «accogliere») ciò che lo determina inconsapevolmente. La parte critica del conscio, che a sua volta si avvale di difese inconsce, deve dar luogo all’assunzione dell’esistenza di parti in cui essa non si riconosce. Alla luce di queste considerazioni, la psicoanalisi, cioè la psicologia dell’inconscio, è tale nel momento in cui fa partecipativo del suo discorso anche l’aspetto cosciente.

A uno psicoanalista che osservava come «l’inconscio non ha uno sbocco per le sue tensioni e i suoi desideri, sia che ci si ricordi dei sogni, oppure no» – Freud rispose: «È la mente cosciente ad avere queste tensioni».

Si è iniziato ricordando un passo di Freud tratto da Costruzioni nell’analisi; come si è visto, in questo scritto compariva il termine di costruzione e, più precisamente, di ricostruzione. Secondo tale concetto, utilizzando il materiale fomito dal soggetto materiale che si esprime sia in forma logica, sia in modalità non immediatamente chiare alla comprensione (per cui occorre attendere il delinearsi di un senso che colleghi i vari momenti della comunicazione, di per sé incomprensibili) – l’analista procede appunto a una ricostruzione di quanto è venuto emergendo e ripropone al soggetto stesso il messaggio che gli è stato indirizzato e che l’analizzando, nel momento in cui l’ha espresso in analisi, ha proposto a se stesso. Col termine «ricostruzione» Freud indicava quindi un lavoro di ricomposizione in cui il linguaggio dell’inconscio, apparentemente sconnesso, si fa significativo e, nel contempo, con questo concetto si sostituiva quello di interpretazione usato sino ad allora. L’opportunità di questa modificazione concettuale e terminologica poggiava fondamentalmente sulla considerazione che nel lavoro interpretativo si può verificare maggiormente il pericolo che l’interprete possa confondere i propri problemi con quelli dell’analizzando. E noto infatti il meccanismo inconscio della proiezione – messo in luce dalla dottrina psicoanalitica – secondo il quale si tende ad espellere fuori di noi e ad attribuire agli altri una serie di tendenze, di affetti, di pensieri e di fantasie che ci appartengono: è in questo senso che l’interpretazione – laddove l’analista non riesca a porsi al servizio del processo che si snoda nella relazione terapeutica calandosi, per cosi dire, in essa – può diventare la sede appunto di proiezioni nei confronti del soggetto.

C’è inoltre un altro aspetto messo in luce in modo chiaro da C. L. Musatti:

Le prime interpretazioni effettuate da Freud presentavano veramente il carattere di ricostruzioni razionali. Ma a mano a mano che l’attività interpretativa veniva sviluppandosi, il pensiero latente – ad esempio dei sogni – risultava sempre meno conforme nella sua struttura a quello del comune pensiero cosciente, e rivelava invece una propria struttura di tipo diverso [Musatti 1974].

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In questo senso l’ipotesi della razionalità, nel senso comune, del pensiero latente e quindi inconscio, doveva essere abbandonata per riconoscere ai processi inconsci una modalità espressiva affatto diversa. Questo portò gradualmente Freud, e successivamente il pensiero psicoanalitico, alla constatazione che anche il passato storico del soggetto non sempre mantiene una importanza decisiva per comprendere ciò che sta verificandosi nel soggetto stesso. All’inizio della sua attività psicoanalitica, Freud aveva ipotizzato, alla base delle nevrosi, la presenza di un trauma infantile specifico, connesso in particolare con un’aggressione sessuale subita da parte degli adulti e in particolare dai genitori. Questa ipotesi (teoria del trauma specifico) si dimostrò ben presto decisa-mente erronea: nella maggior parte dei casi, i pazienti portavano delle fantasie, fornendo loro il carattere di un ricordo, che non corrispondevano ad alcuna realtà se non a quella costituita da desideri e da vissuti infantili inconsci. La teoria del trauma specifico, inoltre, sembrava più rispondere ad un bisogno iniziale di Freud – legato per certi aspetti alla mentalita positivistica del tempo – di individuare un elemento nascosto la cui scoperta non solo avrebbe tutto spiegato ma avrebbe condotto all’eliminazione del quadro sintomatico.

La psicoanalisi quindi, per trovare il rapporto tra logica dell’inconscio e logica del pensiero cosciente, deve stabilire i collegamenti tra questi due piani strettamente intrecciati e l’analista deve mantenere, nel rapporto con l’analizzando, un’mpostazione che gli consenta, da un lato di partecipare al mondo fantasmatico e delirante dell’inconscio e, dall’altro, di decodificarlo continuamente, secondo le regole della comunicazione cosciente.

L’analista per effettuare il proprio lavoro deve anzitutto familiarizzarsi con la logica dei processi primari [inconsci], cogliendo tale logica nella propria personale attività inconscia. Deve cioè ascoltare il proprio inconscio e cercare di reagire con esso ai messaggi che gli vengono trasmessi dal paziente abbandonando quell’esigenza di razionalità a cui, nelle comunicazioni interpersonali dei normali rapporti sociali, siamo costretti ad obbedire. O per dire meglio, mentre l’analista, nei suoi stessi rapporti col paziente, da un lato procede sul piano di comunicazione di tipo razionale, dall’altro intrattiene con lui un colloquio che si svolge invece fuori degli schemi della ragione [ ... ]. Si giunge così ad una conclusione strana. Il colloquio tra paziente ed analista, quando è effettivamente attuata la situazione analitica, è un colloquio delirante: un colloquio cioè che si mantiene fuori degli schemi della logica ordinaria [ibidem].

Si può aggiungere che è proprio questa possibilità di penetrare e di compartecipare

all’apparente stranezza di ciò che emerge nel comportamento e nella verbalizzazione del soggetto, che consente poi di procedere ad una decodificazione, a un livello diverso, dei vari significati in gioco. Ma questo tipo di razionalità non è più quella costruita sulla negazione rivolta alla presenza di significati inconsci, ma acquista un valore diverso, in quanto – per così dire – consente una lettura e una comprensione della compresenza di due piani diversi e interconnessi. Questo ci dice che, se è vero che la psicoanalisi può essere uno strumento estremamente utile per meglio comprendere anche fenomeni di tipo sociale, artistico, antropologico, ecc. – consentendo di individuare, ad esempio, sul piano negativo, l’origine della distruttività e dell’ostilità o, su un piano più generale, il senso dei legami affettivi, dei rapporti intersoggettivi e della produttività umana – è pur vero che la psicoanalisi stessa richiede contemporaneamente un continuo esercizio nel disciplinare l’attività dell’interprete sui due piani sopra accennati, senza che questi si abbandoni all’uno o all’altro (al delirio pieno o alla razionalizzazione difensiva e occultante).

Rimane da osservare che il passaggio dall’interpretazione alla ricostruzione, non elimina l’aspetto interpretativo, il quale rimane comunque uno dei fattori più significativi dell’indagine psicoanalitica, sia presentandosi come uno dei particolari momenti intuitivi, che aprono improvvisi orizzonti di comprensione in situazioni molto complesse, sia conservando il valore di ipotesi di lavoro, in attesa di ulteriori verifiche. Intesa in queste due accezioni, l’interpretazione è recuperata all’interno del più vasto e articolato lavoro ricostruttivo, che vede impegnati, sul piano

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terapeutico, l’analista e l’analizzando o, su un piano più generale, l’indagine psicoanalitica e il campo dei fenomeni studiati.

È in tale prospettiva che il concetto di ricostruzione nasconde l’ambizione di una obbiettività che, lungi dall’essere raggiunta e realizzata, va intesa come meta da perseguire e quindi come una sorta di ideale della ragione.

Freud, a questo proposito, aveva osservato maliziosamente: Deuten, Das ist ein garstiges Wort! (Interpretare, che brutta parola!).

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7. Jean Piaget (1896-1980) 12 La vita Jean Piaget nacque a Neuchâtel, in Svizzera, nel 1896 il padre era uno studioso di storia, uomo di intelligenza lucida e critica, come scrisse Piaget nell’autobiografia; la madre, «una donna estremamente intelligente ed energica», ma affetta da disturbi nevrotici, e proprio questa sua «scarsa salute mentale» avrebbe spinto Piaget, come egli riconosceva nell’autobiografia, ad occuparsi all’inizio di psicoanalisi e psicopatologia. Bambino geniale, Piaget cominciò a interessarsi di zoologia e a dieci anni pubblicò il suo primo articolo su un passero albino. Iniziò a frequentare regolarmente il Museo di storia naturale di Neuchâtel come aiutante del direttore Paul Godet, divenendo presto un esperto di molluschi. I suoi articoli uscirono su autorevoli riviste specializzate e i lettori - ricorda Piaget - non pensavano fossero opera di un ragazzo, tanto che gli fu offerto di curare la collezione di molluschi al Museo di storia naturale di Losanna (Piaget rispose al direttore del Museo che non gli era possibile accettare: «fino a quando non ho finito i miei studi ginnasiali, cioè solo tra tre anni»; la lettera del 10 maggio 1912 è in Vidal, 1986). Si laureò in scienze naturali e nel 1918 si specializzò con una tesi sui molluschi.

In quegli anni maturò l’nteresse per la psicologia, preceduto da «crisi» connesse alla situazione famigliare e probabilmente alla intensa attività scientifica negli anni della pubertà e dell’adolescen-za. Nel 1918 Piaget pubblicò un romanzo filosofico (Recherche), in cui si trovano già abbozzate alcune sue idee future sul rapporto tra il tutto e le parti e sull’equilibrio. Sempre nel 1918 si trasferì a Zurigo, dove frequentò l’Ospedale psichiatrico Burghölzli diretto da Bleuler. Cominciò allora a leggere le opere di Freud e a seguire le conferenze di Pfister e di Jung. Fu analizzato per alcuni mesi da Sabina Spielrein. Tra il 1919 e il 1921 fu a Parigi. Alla Sorbona seguì le lezioni degli psicologi Georges Dumas (1866-1946), Henri Piéron (1881-1964) e Henri Delacroix (1873-1937) e dei filosofi André Lalande (1867-1963) e Léon Brunschwicg (1869-1944). Delacroix può esser stata una fonte importante di Piaget: in quel periodo si interessava di psicologia del linguaggio e nel 1924 scrisse il libro Le langage et la pensée. Nel 1922 Piaget partecipò al congresso di psicoanalisi di Berlino e conobbe personalmente Freud: «A quel congresso io tenni una conferenza e ricordo l’angoscia che mi prese a dover parlare davanti a un pubblico tanto numeroso. Freud era seduto in poltrona alla mia destra e fumava il sigaro. Io parlavo ad un pubblico che non mi degnava nemmeno di uno sguardo. Guardava solo Freud per scoprire se ciò che veniva detto era da lui approvato o meno. Quando Freud sorrideva, tutti nella sala sorridevano; quando Freud si mostrava serio, tutti nella sala si mostravano seri» (Piaget, 1973, p. 47).

Una svolta importante fu determinata dall’incarico offerto a Piaget, da parte di Théodore Simon, di standardizzare i test di Cyril Burt per i bambini parigini. Piaget lavorò quindi presso il laboratorio di Binet, che si trovava nella scuola elementare di Parigi in rue de la Grangeaux-Belles. Studiando non tanto le risposte fornite ai test, quanto i modi di ragionare e le strategie seguite per risolvere i test, Piaget, ottenne i suoi primi risultati sullo sviluppo mentale del bambino e li espose in due articoli pubblicati nel 1922 sul «Journal de Psychologie», diretto da Ignace Meyerson (cfr. cap. VI) e in un terzo nel 1923 sugli «Archives de Psychologie», diretti da Edouard Claparède. Colpito dalla novità delle ricerche di Piaget, Claparède lo invitò ad assumere il posto di direttore di ricerca presso l’istituto J.-J. Rousseau a Ginevra (fondato nel 1912). Nel 1921 Piaget si trasferì definitivamente a Ginevra e iniziò le sue ricerche sistematiche sullo sviluppo mentale infantile avvalendosi dei bambini che frequentavano la Maison des Petits dell’Istituto. I risultati furono illustrati nei libri Le langage et la pensée chez l’enfant (1923), Le jugement

12 da G. Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Laterza, Bari, 2002, pp.239-315.

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et le raisonnament chez l’enfant (1924), La répresentation du monde chez l’enfant (1926), La causalié physique chez l’enfant (1927), Le jugement moral chez l’enfant (1932).

Dal matrimonio di Piaget con una studentessa dell’Istituto, Valentine Châtenay, divenuta sua collaboratrice, nacquero tre figli sui quali i due coniugi condussero una serie sistematica di osser-vazioni riportate nei libri La naissance de l’intelligence chez l’enfant (1936), La construction du réel chez l’enfant (1937) e La formation du symbole chez l’enfant (1946).

Negli anni ‘20 e ‘30 Piaget insegnò filosofia a Neuchâtel, psicologia infantile e storia del pensiero scientifico a Ginevra. Nel 1929 divenne direttore del Bureau International de l’Education, in seguito una branca dell’UNESCO. Nel 1940, dopo la morte di Claparéde, divenne direttore dell’Istituto J.-J. Rousseau e professore di psicologia sperimentale a Ginevra. Diresse anche gli «Archives de Psychologie», in seguito divenuti sempre più il periodico della scuola piagetiana. Dopo la guerra Piaget ebbe importanti incarichi all’UNESCO e cominciò a ricevere riconoscimenti ufficiali in tutto il mondo. Dal 1952 al 1963 insegnò psicologia genetica alla Sorbona di Parigi. Nel 1956 fondò il Centre Internation d’epistém0logie Génétique a Ginevra. Nel 1950 Piaget publicò i tre volumi della Introduction à l’épistémologie génétique, cui fecero seguito altre numerose pubblicazioni di epistemologia genetica e psicologia genetica. Tra il 1963 e il 1965 uscirono gli otto volumi del Traité de psychologie expérimentale (curati da Piaget assieme a Paul Fraisse), la «summa», della psicologia francese di quegli anni. Nel 1965 Piaget sferrò un duro attacco alla filosofia speculativa nel libro Sagesse et illusions de la philosophie. Infaticabile, negli anni ‘70 continuò a scrivere e a tenere conferenze. Morì nel 1980.

Piaget fu una personalità geniale, un ricercatore nato: «sono fondamentalmente un inquieto che solo il lavoro può placare», disse di sé nell’Autobiografia (1950, p. 145), ma anche un carattere difficile ed egotista. Lo psicologo americano David Elkind (1979) ne ha tracciato il ritratto, così come appariva negli ultimi anni della vita: «È ancora, a 74 anni, un’immagine familiare per le vie di Ginevra, mentre pedala in bicicietta o passeggia lentamente; alto, con le spalle curve, è qualcosa di imponente, come se stesse rimuginando tra sé su qualche nuovo problema sorto dalle sue re-centi ricerche sul mistero di come la conoscenza si sviluppa nei giovani esseri umani. La pipa sporge dalle sue labbra e una massa di bei capelli bianchi sfugge di sotto al basco blu. Nei luoghi chiusi il basco non c’è più, ma resta la pipa di schiuma ambrata; lui tira boccate di fumo, l’indice attorno al cannello, e gli occhi, dietro le lenti cerchiate di corno, si stringono con interesse quando gli viene mossa una domanda. E risponde - in francese - con un linguaggio lucido e chiaro, intercalando nelle risposte qualche lieve battuta; i suoi modi hanno il fascino del Vecchio Mondo» (p. 15). La teoria di Piaget Introduzione. Nell’opera dello psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980) lo studio dello sviluppo psichico infantile si inquadra in una problematica più ampia, in parte già prospettata da Baldwin, relativa alla genesi della conoscenza umana e al rapporto tra la mente e il mondo esterno. Si tratta di una tematica (quella di come si sivluppa la conoscenza e quale sia la corrispondenza tra essa e gli oggetti esterni) che aveva alle spalle una lunga tradizione filosofica, rispetto alla quale Piaget volle distaccarsi in quanto scienziato della natura che studia la struttura della mente abbandonando il metodo dell’argomentazione speculativa e ricorrendo al metodo scientifico. Nel libro Sagesse et illusions de la philosophie del 1965, Piaget svolse una critica durissima contro la filoso-fia, accettabile sotto forma di saggezza fatta di riflessioni teoriche e di massime etiche, ma condannabile nelle sue invasioni speculative nel campo della scienza, compresa la psicologia. Eppure, come è stato spesso sottolineato, Piaget è stato anzitutto un filosofo, un filosofo in una accezione nuova, con una competenza in discipline diverse, dalla biologia alla logica e alla

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matematica, dalla fisica alla psicologia e alla pedagogia. Come scriveva il filosofo Lucien Goldmann (1973), «che lo voglia o no, Piaget finisce col fare della ‘filosofia’, portando un contributo essenziale alla soluzione di un certo numero di questioni dibattute dai filosofi da più di venti secoli» (p. 7). Vygotskij (Pensiero e linguaggio, 1934) notava che «Piaget non è riuscito ed in fondo non poteva riuscire a sfuggire le costruzioni filosofiche, perché l’assenza stessa della fi-losofia è una filosofia assai precisa» (p. 66). L’epistemologia genetica elaborata da Piaget ha rappresentato di fatto la proposta di una nuova filosofia della mente, fondata su basi empiriche e su una integrazione interdisciplinare che erano mancate alla filosofia. Si tratta comunque di una teoria generale che non riguarda solo la mente umana nella sua dimensione psicologica, ma le strutture della conoscenza nel senso filosofico. Questa considerazione preliminare non vuole ricacciare Piaget nel mondo delle argomentazioni filosofiche illusorie da lui respinte, ma dovrebbe far comprendere come Piaget stesso si fosse posto in definitiva come l’erede di una tradizione occidentale di pensiero che considerava centrale il problema della conoscenza. Piaget ha mostrato come questo problema possa avere soluzioni nuove, basate su indagini empiriche e sulla integrazione tra discipline diverse, e soprattutto su una teoria della mente che ha come presupposto fondamentale la nozione di sviluppo. La conquista delle modalità adulte di co-noscere non è immediata, ma procede per stadi successivi, ciascuno dei quali svolge un ruolo necessario e ineludibile per la progressiva ristrutturazione del loro funzionamento. La mente che studiarono un Cartesio, un Locke o un Kant era una mente adulta, già data, immune dallo sviluppo. Con Piaget fu portata a compimento la scoperta di una «mente infantile», intravvista e approssimativamente abbozzata già negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma mai indagata sistematicamente. Piaget compì una serie incredibile, per numero ed originalità, di ricerche su bambini, aprendo un varco definitivo per accedere al mondo cognitivo infantile, proprio negli stessi anni in cui la psicoanalisi si poneva il problema dell’«analisi infantile» per svelare direttamente il mondo psicodinamico infantile. Infine, con Piaget, l’indagine sullo sviluppo psichico non è più la raccolta di aneddoti e la registrazione di fatti sporadici, ma diviene un’impresa sistematica, fondata su metodologie precise e su presupposti teorici rigorosi. E sebbene si possa rintracciare l’influenza di vari autori, in particolare di Baldwin, sulla concezione piagetiana, a Piaget va riconosciuta una grande originalità teorica e metodologica. È comprensibile che per decenni si sia pensato allo sviluppo mentale nel bambino nei termini della concezione piagetiana. Il metodo clinico. Come abbiamo notato più volte, nella tradizione wundtiana si era posto il problema della validità dello studio della psiche infantile e della possibilità di estendere i risultati conseguiti alla spiegazione dei processi psichici dell’adulto. Questo problema si intrecciava con quello della metodologia più adeguata da adottare nel momento in cui non si aveva più a che fare con soggetti adulti, istruiti (gli studenti e i professori di psicologia), ma con bambini con i quali era difficile poter applicare le stesse istruzioni e procedure. Per quanto riguarda i soggetti della psicologia infantile ai suoi esordi, va rilevato che si trattò – soprattutto nei casi di registrazione diaristica del comportamento – dei figli degli psicologi stessi. Questo apsetto portò poi alla critica rivolta a tali ricerche di aver generalizzato I risultati ottenuti con i propri figli – ancora una volta appartenenti ad un ambiente socio-culturale privilegiato – estendendoli a tutti ibambini senza tener conto della peculiarità dei rapporti stretti tra l’osservatore (il genitore) e il soggetto (il figlio). Questa critica fu estesa anche all’assunzione che lo sviluppo accertato in un gruppo, sia pure più ampio, di bambini di un certo ambiente socio-culturale potesse essere sovrapposto a quello di bambini di un altro ambiente. Si tratta della critica rivolta a Piaget e lla psicologia del «bambino svizzero», considerato implicitamente il prototipo di tutti i bambini del mondo. Scriveva in proposit Vygotskij (Pensiero e linguaggio, 1934): «Le regole che Piaget ha fissato i fatti che ha trovato, hanno un significato non universale, ma limitato. Sono validi hic et nunc, qui e ora in un

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ambiente sociale dato e determinato. Così si sviluppa non il pensiero del bambino in generale, ma il pensiero di quel bambino che ha studiato Piaget» (p. 81). Piaget usò nelle sue ricerche metodi non propriamente sperimentali, bensì metodi quasi-sperimentali e in particolare il metodo clinico. Piaget si oppose da una parte al metodo dei test e, dall’altra, a quello dell’osservazione pura. I test (o reattivi) permettono, per Piaget, di accertare in molti bambini una serie di conoscenze e comportamenti rispetto a domande e compiti uguali per tutti; ma la procedura è rigida, deve seguire certe tappe uguali per tutti, senza consentire di ampliare e aggiustare le domande e i compiti in modo da mettere in evidenza il reale percorso mentale e le effettive strategie mentali di ciascun bambino. Anche l’osservazione pura, per Piaget, non è sufficiente per lo studio della mente del bambino, perché questi è lasciato libero nei suoi pensieri e nei suoi comportamenti senza la possibilità di manipolarli per poter cogliere ciò che lo psicologo avverte come retrostante a tali pensieri e comportamenti. Così Piaget individuò il metodo per eccellenza della psicologia infantile nel metodo clinico nel quale l’osservawione si lega alla sperimentazione. Piaget aveva appreso questo metodo durante la sua permanenza al-l’0spedale psichiatrico Burghölzli di Zurigo nel 1918. Il suo interesse per la psicoanalisi in quegli anni contribuì alla sua impostazione clinica nella ricerca psicologica infantile (La psychanalyse et ses rapports avec la psychologie de l’enfant, 1920). Inoltre, anche la pratica con i test durante la sua permanenza a Parigi e la collaborazione con Théodore Simon gli fornirono gli elementi per in-dividuare la più adeguata metodologia di ricerca nel campo della psicologia, infantile. Nel metodo clinico lo psicologo è guidato da ipotesi e quindi orienta e dirige il comportamento del bambino in modo da poterle verificare; pone e articola le domande tenendo conto del percorso che momento per momento il bambino segue per arrivare a rispondere alle domande e a risolvere i compiti. In uno dei suoi primi libri, La représentation du monde chez l’enfant (1926, 19472), Piaget descrive il metodo clinico nei termini in cui era impiegato in psichiatria: «Dunque, è necessario a tutti i costi superare il metodo dell’osservazione pura e, senza ricadere negli inconvenienti dei reattivi, assicurarsi i principali vantaggi dell’esperimento. Impiegheremo a tale scopo un terzo metodo, che tende a riunire le risorse dei reattivi e dell’osservazione diretta, evitando gli inconvenienti di entrambi: il metodo dell’esame clinico che gli psichiatri usano come mezzo di diagnosi. Ad esempio, si possono osservare per mesi determinate forme paranoidi senza veder mai affiorare l’idea di grandezza, che tuttavia si intuisce in ogni reazione stravagante. D’altra parte non si posseggono reattivi differenziali per le diverse sindromi morbose. Ma il clinico può: 1) parlare col malato seguendolo anche nelle risposte, così da non perder nessuna eventuale idea delirante; 2) condurlo dolcemente verso le zone critiche (la sua nascita, razza, fortuna, titoli militari, politica, talento, vita mistica, ecc.), senza sapere dove affiorerà l’idea delirante, ma mantenendo costantemente la conversazione su un terreno fecondo. L’esame clinico partecipa così dell’esperimento, nel senso che il clinico si pone problemi, formula ipotesi varia le condizioni, e infine controlla ogni ipotesi in base alle reazioni provocate dalla conversazione. Ma l’esame clinico partecipa anche dell’osservazione diretta, nel senso che il buon clinico, pur dirigendo, si lascia dirigere, e tien conto di tutto il contesto mentale, invece di cadere vittima di ‘errori sistematici’ come spesso accade allo sperimentatore puro. Poiché il metodo clinico ha reso grandi servizi in una zona in cui altrimenti tutto sarebbe disordine e confusione, lo studio della psicologia infantile farebbe molto male a privarsene. Non esiste, infatti, a priori una ragione per non interrogare i fanciulli sui punti dove l’osservazione pura lascia incompiuta la ricerca […]. Un bravo sperimentatore deve riunire due qualità spesso incompatibili: saper osservare, cioè lasciar parlare il fanciullo, non perdere nulla, non falsar nulla; e nello stesso tempo saper cercare qualcosa di preciso, avere in ogni momento qualche ipotesi di lavoro, qualche teoria - giusta o falsa - da controllare. Bisogna aver insegnato il letodo clinico per comprenderne le difficoltà vere. Talvolta i principianti suggeriscono al fanciullo ciò che desiderano trovare, oppure non suggeriscono nulla, ma solo perché non cercano nulla ed è perciò naturale che non trovino nulla» (pp. 9-11).

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Lo sviluppo della mente. Piaget ha studiato lo sviluppo della mente affrontando sistematicamente in numerose ricerche, documentate in una lunga serie di monografie, i principali processi cognitivi, le rappresentazioni e le categorie mentali trattate tradizionalmente dalla filosofia: il linguaggio e il pensiero (1923), il giudizio e il ragionamento (1924), la rappresentazione degli eventi della realtà esterna e della vita psichica interna (1926), la causalità fisica (1927), il giudizio morale (1932), l’intelligenza (1936 e 1947), la costruzione della realtà (1937), il concetto di quantità fisica (1941), il concetto di numero (1941), la formazione del simbolo (1946), il concetto di movimento e velocità (1946), il concetto di tempo (1946), la rappresentazione dello spazio (1948), la geometria spontanea (1948), il concetto di caso (1951), la percezione (1961), l’immagine mentale (1966), la memoria (1968), la presa di coscienza (1974), la soluzione di problemi (1974). Buona parte delle ricerche e delle monografie furono realizzate in collaborazione prima con A. Szeminska e poi con B. Inhelder. Negli anni ‘50 Piaget sviluppò la propria rifiessione teorica verso la fondazione della epistemologia genetica, avviando un progetto di ricerca interdisciplinare di largo respiro presso il Centro internazionale di epistemologia genetica. Nelle prime opere degli anni ‘20 Piaget compì una ricognizione dei processi mentali mettendone in evidenza l’evoluzione ontogenetica; nelle opere degli anni ‘30 consolidò la nozione di stadi di sviluppo e fece risaltare la dimensione costruttiva della realtà operata dalla mente; negli anni ‘40 e ‘50, infine, Piaget approfondì i meccanismi funzionali di adattamento e regolazione dei processi mentali, richiamando l’attenzione più sulle funzioni che sulla struttura della mente. Il rapporto tra struttura e funzioni della mente rimandava ad una problematica centrale che il giovane Piaget aveva incontrato sin dai primi studi di biologia e che riguardava l’evoluzione della struttura di un organismo in relazione alle funzioni svolte per l’adattmento all’ambiente. In questa prospettiva biologica Piaget innestò la sua ricerca sullo sviluppo della struttura delle mente, considerato come un processo di continua riorganizzazione realizzatosi nell’interazione tra la mente e l’ambiente. Nell’ autobiografia scriveva a proposito delle sue riflessioni svolte poco prima del 1920: «Le mie osservazioni sul fatto che la logica non è innata ma si sviluppa a poco a poco apparvero coerenti con le mie idee sulla formazione dell’equilibrio verso cui tende l’evoluzione delle strutture mentali. Inoltre la possibilità di studiare direttamente il problema della logica si accordava con i miei precedenti interessi filosofici. Infine il mio desiderio di scoprire unasorta di embriologia dell’intelligenza si accordava con la mia preparazione biologica; fin dall’inizio del mio pensiero teoretico ero certo che il problema della relazione tra organismo e ambiente si estendeva anche al campo della conoscenza, essendo possibile considerarlo come un problema della relazione tra il soggetto agente o pensante e gli oggetti delld sua esperienza. Adesso avevo la fortuna di studiare questo problerna in termini di sviluppo psicogenetico» (1950, p. 133). La psicogenesi si delineava come una evoluzione - a partire dalla nascita del bambino - da strutture mentali semplici, fondate sull’azione a strutture sempre più complesse, fondate sul pensiero. Lungo questo sviluppo la mente assolve lo stesso ruolo delle altre strutture dell’organismo come sistema di adattamento all’ambiente, dapprima in forma subalterna alle strutture biologiche e poi sempre più con una funziine egemone rispetto a queste. L’adattamento avviene attraverso due processi fondamentali, l’assimilazione e l’accomodamento, già descritti da Baldwin. L’assimilazione permette all’organisrno (e alla mente) di incorporare nelle sue strutture gli elementi dell’ambiente esterno; l’accomodamento produce invece un cambiamento in tali strutture per gli effetti dell’assimilazione. Tra assimilazione e accomodamento si realizza un equilibrio che consente la riorganizzazione delle strutture mentali e il loro sviluppo ontogenetico. In La naissance de l’intelligence chez l’enfant (1936), Piaget chiarisce nel modo seguente il ruolo dell’assimilazione e dell’accomodamento nel processo di adattamento all’ambiente e di organizzazione delle strutture mentali: «Alcuni biologi definisicono semplicemente l’adattamento mediante la conservazione e la sopravvivenza, ossia l’equilibrio fra organismo e ambiente. Ma la

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nozione perde allora ogni interesse, poiché si confonde con quella della vita stessa. Vi sono gradi nella sopravvivenza e l’adattamento implica un più e un meno. Occorre dunque distinguere l’adattamento-stato e l’adattamento-processo. Nello stato non v’è nulla di chiaro. Considerando il processo, le cose si chiariscono. C’è adattamento quando l’organismo si trasforma in funzione dell’ambiente e questa variazione ha per effetto un accrescimento degli scambi fra ambiente e organismo favorevoli alla conservazione di quest’ultimo. Cerchiamo di precisare questi concetti, da un punto di vista formale. L’organismo è un ciclo di processi fisio-chimici e cinetici i quali, in relazione costante con l’ambiente, si generano a vicenda. Siano a, b, c, ecc. gli elementi di questa totalità organizzata e x, y, z, ecc. gli elementi corrispondenti dell’ambiente. Lo schema dell’organizzazione è dunque il seguente:

(1) a + x → b; (2) b + y → c; (3) c + z → a, ecc.

I processi (1), (2), ecc., possono consistere sia in reazioni chimiche (allorché l’organismo ingerisce sostanze x che trasformerà in sostanze b facenti parte della sua struttura), sia in trasformazioni fisiche qualsiasi, sia infine, in particolare, in comportamenti senso-motori (quando un ciclo di movimenti corporali a combinati con movimenti esteriori x porta a un risultato b che a sua volta entra nel ciclo d’organizzazione). Il rapporto che unisce gli elementi organizzati a, b, c, ecc., agli elementi x, y, z ecc. è dunque una relazione di assimilazione: il funzionamento dell’orgamsmo non distrugge, ma conserva il ciclo organizzativo e coordina i dati dell’ambiente in modo da incorporarli nel ciclo. Supponiamo dunque che nell’ambiente si produca una variazione che trasformi x in x1 0 l’organismo non si adatta affatto, e si ha la rottura del ciclo, oppure ha luogo l’adattamento, ciò che significa che il ciclo organizzato si modificato richiudendosi su se stesso:

(1) a + x’ → b1; (2) b + y → c; (3) c + z → a.

Se chiamiamo accomodamento questo risultato delle pressioni esercitate dall’ambiente (trasfomazione di b in b1), possiamo dunque dire che l’adattamento è un equilibrio tra l’assimilazione e l’accomodamento. Ora questa definizione si applica anche all’intelligenza. L’intelligenza è infatti assimilazione in quanto incorpora nei propri quadri tutto il dato dell’esperienza. Sia che si tratti del pensiero che, grazie al giudizio, riconduce il nuovo al noto riducendo così l’universo alle proprie nozioni, sia che si tratti dell’intelligenza senso-motoria che pure struttura le cose percepite riconducendole ai propri schemi, in ogni caso l’adattamento intellettuale comporta un elemento di assimilazione, ossia di strutturazione mediante l’incorporazione della realtà esteriore in forme dovute all’attività del soggetto. Quali che siano le differenze di natura che separano la vita organica (che elabora materialmente le forme e assimila ad esse le sostanze e le energie dell’ambiente), l’intelligenza pratica o senso-motoria (che organizza degli atti ed assimila allo schematismo di questi comportamenti motori le diverse situazioni offerte dall’ambiente) e l’intelligenza riflessiva o gnostica (che si contenta di pensare le forme, o di costruirle interiormente per assimilarvi il contenuto dell’esperienza), le une come le altre si adattano assimilando gli oggetto al soggetto. Che anche la vita mentale sia accomodamento all’ambiente non si può assolutamente mettere in dubbio. L’assimilazione non può mai essere pura, in quanto l’intelligenza, incorporando gli elementi nuovi negli schemi anteriori, modifica incessantemente questi ultimi per adattarli ai dati nuovi. Ma, inversamente, le cose non sono mai conosciute in se stesse poiché questo lavoro

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d’accomodamento non è mai possibile se non in funzione del processo inverso di assimilazione. Così vedremo che la nozione stessa di oggetto è ben lontana dall’essere innata e presuppone una costruzione ad un tempo assimilatrice ed accomodatrice. In breve, l’adattamento intellettuale, come ogni altro addttamento, è il costituirsi progressivo di un equilibrio fra un meccanismo assimilatore e un accomodamento complementare. Lo spirito non può trovarsi adattato a una realtà se non v’è perfetto accomodamento, ossia se in questa realtà nulla più viene a modificare gli schemi del soggetto. Ma, inversamente, non v’è adattamento se la realtà nuova ha imposto atteggiamenti motori o mentali contrari a quelli che erano stati adottati a contatto con altri dati anteriori: non c’è adattamento se non c’è coerenza e quindi assimilazione. Certo, sul piano motorio, la coerenza presenta una struttura completamente diversa che sul piano della rifiessione o su quello organico, e tutte le sistemazioni sono possibili: ma sempre e dovunque l’adattamento non è compiuto se non quando peviene ad un sistema stabile, ossia quando vi è equilibrio fra accomodamento e assimilazione. Questo ci conduce alla funzione di organizzazione. Dal punto di vista biologico, l’organizzazione è inseparabile dall’adattamento: sono i due aspetti complementari d’un meccanismo unico: il primo è l’aspetto interno del ciclo, di cui l’adattamento costituisce l’aspetto esterno. Orbene, per quanto concerne l’intelligenza, nella sua forma riflessa non meno che nella sua forma pratica, si ritrova questo doppio fenomeno della totalità funzionale e dell’interdipendenza fra organizzazione e adattamento. Quanto ai rappporti fra le parti e il tutto che definisconol’organizzazione, è ben noto che ogni operazione intellettuale è sempre relativa a tutte le altre e che i suoi stessi elementi sono retti dalla medesima legge. Ogni schema è così coordinato con tutti gli altri e costituisce esso stesso una totalità di parti differenziate. Ogni atto d’intelligenza presuppone un sistema di mutue implicazioni e di significazioni solidali. Le relazioni tra questa organizzazione e l’adattamento sono dunque le stesse che sul piano organico. Le principali categorie a cui ricorre l’intelligenza per adattarsi al mondo esteriore – lo spazio e il tempo, la causalità e la sostanza, la classificazione e il numero, ecc. – corrispondono ciascuna a un aspetto della realtà, così come gli organi del corpo sono relativi ciascuno a un caratter speciale dell’ambiente; ma otre ad adattarsi alle cose, esse sono implicate le une alle altre, a tal punto che è impossibile isolarle logicamente. L’ ‘accordo del pensiero con le cose’ e l’ ‘accordo del pensiero con se stesso’ esprimono questo doppio invariante funzionale dell’adattamento e dell’organizzazione. Ma questi due aspetti del pensiero sono indissociabili: soltanto adattandosi alle cose il pensiero organizza se stesso e soltanto organizzando se stesso il pensiero struttura le cose» (pp. 12-15).

Per Piaget lo sviluppo mentale del bambino si dispiega dall’infanzia all’adolescenza in due periodi principali (senso-motorio, nei primi due anni di vita; concettuale, dai due ai dodici-quindici anni) a loro volta suddivisibili in vari stadi. [...]

Nelle linee essenziali, le caratteristiche di questi stadi sono le seguenti. Nel periodo senso-motorio, il bambino sviluppa progressivamente le proprie modalità di

interazione con l’ambiente. Passa dall’uso esclusivo dei rifiessi (succhiare, piangere, ecc.) alle prime coordinazioni visuo-motorie. Nel primo mese di vita la percezione e il movimento sono funzioni scoordinate. Il bambino vede un oggetto, ma non sa afferrarlo. Successivamente, organizza le due funzioni separate, dapprima secondo una sequenza fissa e poi in modo sempre meno rigido per adattare le proprie azioni alle varie condizioni ambientali. II bambino apprende tra i 4 e gli 8 mesi che gli oggetti sono entità separate da lui e che questi oggetti continuano a esistere anche se scompaiono dal campo visivo: la «permanenza dell’oggetto» è preceduta dalla «permanenza della persona»: il bambino verifica che la madre si allontana da lui, ma poi ritorna; è un’entità che scompare momentaneamente ma continua a esistere. Il bambino si forma così delle immagini delle persone o degli oggetti che non percepisce direttamente. La mente può allora

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operare mediante rappresentazioni interne che non necessitano di una corrispondenza immediata con oggetti e persone.

Il periodo concettuale si divide in tre sottoperiodi ed è caratterizzato, in generale, dall’introduzione del linguaggio e dei simboli nelle operazioni mentali. Il primo sottoperiodo, lo stadio preoperatorio, va dai 2 ai 7 anni circa. In una prima fase (fino ai 4 anni circa), denominata fase preconcettuale, il bambino sviluppa ulteriormente le rappresentazioni interne degli oggetti esterni. Ad esempio, comincia a classificare gli oggetti in categorie secondo alcune proprietà (colore, grandezza, ecc.). La capacità di classificazione si sviluppa notevolmente dopo i 4 anni. Una caratteristica importante della fase preconcettuale è il gioco simbolico. Il bambino usa nel gioco un oggetto (sedia) al posto di un altro oggetto (cavallo). L’oggetto perde il suo significato reale e acquista quello prodotto dalla mente del bambino. Nella seconda fase (dai 4 ai 7 anni), denominata fase del pensiero intuitivo, il bambino sviluppa le operazioni mentali di classificazione e seriazione degli oggetti. Può raggruppare facilmente gli oggetti secondo le loro proprietà fisiche (colore, grandezza, forma) o la loro classe di appartenenza (animali, piante, cose da mangiare, ecc.). Può ordinare quegli stessi oggetti in una serie, dal più grande al più piccolo e viceversa.

Nello stadio delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni), [...] il bambino sa compiere operazioni mentali sugli oggetti usando i concetti di numero, peso, volume, ecc. sempre però riferendosi a oggetti concreti, persone o cose. Fondamentale è l’acquisizione in questo stadio del principio di conservazione. Nello stadio preoperatorio il bambino valuta le proprietà fisiche degli oggetti secondo la loro apparenza. Egli ritiene, ad esempio, che il liquido contenuto in un recipiente stretto e lungo sia di più di quello contenuto in un recipiente largo e basso, anche se ha visto che si tratta dello stesso liquido travasato da un recipiente all’altro. Nello stadio delle operazioni concrete il bambino riconosce invece che la quantità conservata indipendentemente dalla forma assunta. Nello stadio delle operazioni formali (dai 12 ai 15 anni) si completa lo sviluppo mentale del bambino. Egli può compiere operazioni mentali indipendentemente dal riferimento a oggetti o persone concrete, usando concetti e simboli. Può affrontare la soluzione di problemi scientifici, introducendo il metodo ipotetico-deduttivo (formula un’ipotesi, ne deduce le conseguenze sul piano teorico e sperimentale ed esegue l’esperimento per verificare l’ipotesi). L’epistemologia genetica. Negli anni ‘50, a cominciare dai tre volumi della Introduction à l’épistémologie génétique (1950), Piaget dedicò numerose pubblicazioni alla fondazione dell’epistemologia genetica. Nella collana «Etudes d’épistémologie génétique» sono apparsi dal 1957 fino al 1980, quando Piaget morì, ben 37 volumi con saggi di Piaget stesso e dei suoi collaboratori. L’epistemologia genetica era divenuta per Piaget il fulcro della sua riflessione teorica, costituiva la realizzazione del suo progetto di fondazione di una nuova teoria della formazione e della struttura della conoscenza. Secondo la definizione di Piaget (1973) «l’epistemologia genetica si occupa della formazione e del significato della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente umana passa da un livello di conoscenza inferiore ad uno giudicato superiore. Non è compito degli psicologi decidere quale conoscenza sia inferiore ma è loro compito, piuttosto, spiegare come avviene il passaggio dall’una all’altra. La natura di questi passaggi, che sono storici, psicologici e talvolta anche biologici, è un problema reale. L’ipotesi fondamentale della epistemologia genetica è che ci sia un parallelismo tra il progresso compiuto nell’organizzazione razionale e logica della conoscenza e i corrispettivi processi psicologici formativi» (p. 28). La struttura della conoscenza (un tema classico della filosofia) si rivela quindi attraverso lo studio della sua evoluzione nella storia della scienza da una parte e nello sviluppo mentale del bambino dall’altra. Storia della scienza e psicogenesi si fondono per descrivere e spiegare il cammino percorso dall’uomo nella costruzione scientifica della realtà, l’uomo nella sua dimensione storica, dall’uomo primitivo all’uomo della cultura scientifica occidentale, e l’uomo nella sua dimensione

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psicologica, dal neonato all’adulto. Al progetto di fondazione dell’epistemologia genetica contribuirono psicologi, pedagogisti, matematici, logici, cibernetici, fisici, linguisti, storici della scienza, filosofi. Dal Centro internazionale di epistemologia genetica si sviluppò la «scuola di Ginevra», che ebbe il momento di massima espansione negli anni ‘50 e ‘60. Sviluppi e fortuna della teoria piagetiana. La teoria piagetiana fu elaborata dapprima dal solo Piaget, poi assieme alle sue collaboratrici, la moglie, la Szeminska e la Inhelder, e infine assieme ad un folto gruppo di collaoratori attivi al Centro di Ginevra. Fuori dell’ambiente ginevrino, la teoria piagetiana, benché conosciuta e apprezzata, cominciò ad essere assimilata da altri psicologi, confrontata con altre teorie dello sviluppo mentale e sottoposta a nuove verifiche empiriche soltanto a partire dagli anni ‘50. Importante fu la diffusione della teoria piagetiana negli Stati Uniti ad opera di J. H. Flavell (The developmental psychology of Jean Piaget, 1963) e di altri psicologi come D. Elkind e H. Furth. Negli anni ‘60 la conoscenza delle concezioni di Piaget contribuì notevolmente a minare le basi del comportamentismo americano, poiché si metteva in evidenza una concezione raffinata ed articolata della struttura e dello sviluppo dei processi cognitivi assente nel modello comportamentista. Infine, la teoria piagetiana è stata decisiva per il rinnovamento della pedagogia e per le ricerche su nuovi programmi attenti alle tappe dello sviluppo cognitivo. Negli anni ‘70 la diffusione del cognitivismo ha spinto sia gli allievi di Piaget sia altri psicologi che in Europa e in America si riferivano alla sua teoria, ad un arricchimento concettuale e metodologico dell’impostazione piagetiana (questa evoluzione si può rilevare in particolare nella stessa Inhelder, che ha spostato il centro delle ricerche sue e dei suoi allievi dalle grandi strutture operatorie della mente allo studio di specifici processi cognitivi in condizioni concrete, sperimentalmente manipolabili. Infine, l’epistemologia genetica è confluita in un progetto, episte-mologico rinnovato alla luce di nuovi concetti interdisciplinari quali quelli di «auto-organizzazione», «autopoiesi» e «complessità» (cfr. il libro di Huberto Maturana e Francisco J. Varela, Autopoiesis and cognition del 1980).

La teoria piagetiana, tuttavia, è stata sottoposta a continue critiche fin dalle prime formulazioni degli anni ‘20. Un primo appunto fu forse quello espresso da Lurija e Vygotskij al congresso internazionale di psicologia a New Haven nel 1929, in merito al problema dell’egocentrismo. Nel 1931 l’antropologa Margaret Mead, nel capitolo su The primitive child dello Handbook of child psychology, curato da C. Murchison (dove compariva anche lo stesso Piaget con il capitolo su Children’s philosophies), affermò che lo sviluppo per stadi descritto da Piaget poteva valere per una determinata cultura, ma non era generalizzabile per ogni contesto culturale: una critica, sul versante antropologico, simile a quella fatta al «bambino svizzero» da altri psicologi come Stern e Vygotskij. Negli anni ‘60, anni in cui esplose l’interesse per la teoria piagetiana, comparve la traduzione americana dell’opera principale di Vygotskij contenente una critica sistematica al concetto di egocentrismo e a tutto l’impianto teorico piagetiano. Si originò un dibattito, spentosi solo negli anni ‘80, tra le tesi piagetiane e quelle vygotskijane. La grande fortuna di Piaget in campo pedagogico dege-nerò nell’abuso di un riferimento meccanico alla nozione di stadio nella preparazione dei programmi di insegnamento e nella verifica del processo di apprendimento scolastico. Negli anni ‘70 ad esempio, in Italia l’approccio vygotskijano in campo psicopedagogico fu proposto come più fiessibile e più compatibile con le differenze individuali e socio-culturali rispetto a quello di Piaget.

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8. I l cogni t i vi smo 13

La Gestalt e il comportamentismo entrarono sulla scena della psicologia del primo Novecento annunciati da due articoli, quello di Wertheimer del 1912 e quello di Watson del 1913, che rappresentarono il punto di riferimento teorico e metodologico per le ricerche che in seguito si collocarono in tali prospettive. Il cognitivismo, che costituì una delle principali correnti di ricerca degli anni ‘60 e ‘70, non fu presentato in un manifesto altrettanto decisivo. Quando nel 1967 uscì Cognitive psychology, di Ulric Neisser, le indagini di orientamento cognitivistico erano in corso già da una decina di anni. Il libro di Neisser divenne uno dei libri più letti dalle nuove generazioni di psicologi non tanto perché presentava una nuova prospettiva quanto perché, attraverso una chiara e accurata sistematizzazione della letteratura, esplicitava l’esistenza di un orientamento che di fatto era già seguito da molti ricercatori. Anzi si può dire che quando fu pubblicata la sintesi di Neisser, il cognitivismo era ormai al massimo delle proprie potenzialità teoriche e sperimentali. I contributi più importanti, infatti, per questa prospettiva erano stati prodotti nella seconda metà degli anni ‘50 e nei primi anni ‘60; inoltre il cognitivismo si impose, soprattutto nel campo della psicologia sperimentale, gradualmente e non come un movimento di completa e immediata rottura: da una parte emergeva dall’ambito stesso delle indagini comportamentistiche di laboratorio e, dall’altra, continuava una tradizione di ricerca che era rimasta apparenternente nell’ombra nel primo Novecento, ma che ora riacquistava tutta la sua importanza teorica e metodologica. Se quindi il cognitivismo è un orientamento che si organizzò come tale intorno agli anni ‘60 nella psicologia nord-americana, vi era però una tradizione di ricerca, una prospettiva che aveva una storia più lontana e affondava le proprie radici nelle indagini dei laboratori europei dell’inizio del secolo.

In una visione d’insieme dai primi decenni del Novecento fino agli anni ‘60, la prospettiva cognitivistica comprende una varietà di indirizzi e ambiti di ricerca che possono essere accomunati da una serie di principi fondamentali.

In primo luogo (principio delle basi biologiche dei processi psichici), la psicologia studia essenzialmente le strutture e le funzioni del sistema nervoso, nella sua massima complessità, e i processi psichici, che controllano l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Inoltre, i processi psichici si sviluppano in relazione alla maturazione del sistema nervoso (principio dello sviluppo). Lungo questo sviluppo i processi psichici operano in modo attivo sull’ambiente, filtrando l’informazione esterna e producendo risposte motorie in funzione dei propri schemi di conoscenza e di azione (principio del costruttivismo). Parlando di mente, invece che di psiche, ci si riferisce in particolare all’organizzazione tipica del processi psichici, caratterizzati non tanto dalla produzione di risposte agli stimoli (come si poteva pensare, ad esempio, per la psiche vegetativa o sensoriale aristotelica), ma da modelli («modelli mentali»), spesso coscienti, che guidano il comportamento attraverso una rappresentazione interna del mondo esterno (principio del mentalismo). La costruzione dei modelli mentali avviene attraverso l’elaborazione dell’informazione esterna e interna compiuta da unità specializzate all’interno della mente (Principio della elaborazione dell’informazione). L’elaborazione dell’informazione può essere simulata su macchine non organiche (calcolatori) perché sia la mente che il calcolatore operano fondandosi su processi e regole simili (principio della simulazione).

Questi principi, tra loro connessi, non sono stati condivisi nel loro complesso da tutti gli psicologi di orientamento cognitivistico, fatta eccezione per il cognitivismo degli anni ‘60 e ‘70 che li fece propri pressoché in blocco. Va notato che per questa prospettiva, l’influenza dei fattori sociali, storici e culturali sullo sviluppo cognitivo ha scarsa rilevanza. Anche se alcuni psicologi di 13 da G. Mecacci, Storia della psicologia del Novecento, Laterza, Bari, 2002, pp.239-315.

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questo orientamento hanno preso in considerazione tali fattori, non si è mai pervenuti a ritenerli il presupposto fondamentale dello sviluppo dei processi cognitivi, contrariamente a quanto so-stiene la teoria storico-culturale. La metafora della mente come un calcolatore considera la mente in modo astratto e universale, appunto come una macchina che agisce al di fuori del contesto storico, sociale e culturale.

In questo quadro più esteso, che ingloba sotto la prospettiva cognitivistica una vasta gamma di ricerche svolte lungo tutto il Novecento fino al cognitivismo vero e proprio degli anni ‘60 e ‘70, vanno presi in esame in primo luogo tutti gli studi sul processi cognitivi svolti dalle varie scuole. La scuola di Würzburg, tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, mise in evidenza alcune caratteristiche dei processi di pensiero esclusi dall’indagine della scuola wundtiana. Altri psicologi, in particolare Otto Selz e Frederic C. Bartlett, compirono importanti elaborazioni teoriche sul pensiero e sulla memoria.

Le teorie dell’intelligenza (con il problema connesso degli strumenti per misurarla, ovvero i test) contribuirono ad arricchire le conoscenze sulla struttura multifattoriale della mente e a porre in evidenza la questione del rapporto tra fattori ereditari e fattori ambientali nelle prestazioni cognitive. Questo problema fu affrontato in un’ottica diversa dalle teorie dello sviluppo psichico (le teorie principali del primo Novecento furono quelle di James M. Baldwin e Heinz Werner).

La sintesi più importante e innovativa sui processi cognitivi nella loro dimensione evolutiva fu elaborata da Jean Piaget, a partire dagli anni ‘20. Le ricerche di Piaget sullo sviluppo cognitivo nel bambino furono alla base di un progetto interdisciplinare sulle strutture della conoscenza umana (epistemologia genetica) avviato negli anni ‘50. La teoria di Piaget rimane tuttora un riferimento fondamentale degli studi sullo sviluppo cognitivo infantile.

Le ricerche sulla percezione furono approfondite, a cominciare dagli anni ‘40, mettendo in evidenza come la percezione non sia un sistema di recezione passiva dell’informazione, ma interagisca con altri processi psichici in una rappresentazione attiva della realtà. Gli orientantenti teorici più importanti furono il transazionalismo, il funzionalismo probabilistico di Egon Brunswik, e il New Look. Negli anni ‘60 e ‘70 ha avuto una vasta risonanza la teoria della percezione (ottica ecologica) elaborata da James J. Gibson.

Negli anni ‘60 emerse nell’ambito della psicologia nord-americana il nuovo indirizzo di ricerca denominato cognitivismo, frutto della convergenza di indagini teoriche e sperimentali svolte in ambiti disciplinari diversi: la psicologia sperimentale, la teoria dell’informazione e la cibernetica, la linguistica, le neuroscienze. Il libro che sistematizzò la leteratura in questa prospettiva sui processi cognitivi fu, come abbiamo detto, Cognitive psychology (1967) di Ulric Neisser. La produzione cognitivistica degli anni ‘60 e ‘70 sui vari processi cognitivi, concepiti come unità di elaborazione dell’informazione, fu ricchissima. Nella seconda metà degli anni ‘70 i principi teorici e i risultati del cognitivismo furono sottoposti ad una revisione critica che sottolineò l’esigenza di una ricerca attenta alle condizioni naturali in cui opera la mente umana (approccio ecologico) e che non si limitasse a studiare i processi cognitivi in condizioni di laboratorio. Alla fine degli anni ‘70 si sviluppò l’orientamento della «scienza cognitiva». È uno studio interdisciplinare dei processi cognitivi in un’ottica nella quale la simulazione al calcolatore è una caratteristica fondamentale per comprendere la struttura e il funzionamento di tali processi. La realizzazione sul calcolatore di programmi che svolgano complessi compiti cognitivi, non necessariamente simili a quelli umani, è un ramo fondamentale (intelligenza artificiale) della scienza cognitiva. Un ultimo orientamento di ricerca all’interno della scienza cognitiva è il connessionismo, sviluppatosi negli anni ‘80.

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Il cognitivismo Introduzione. Sono quasi tutti concordi, gli storici della psicologia e gli psicologi cognitivisti stessi, nell’indicare il 1956 come una data fondamentale nella storia del cognitivismo. Dal 10 al 12 settembre di quell’anno si tenne al Massachusetts Institute of Technology di Boston un simposio sulla teoria dell’informazione, in cui furono presentate relazioni di straordinaria innovazione per la ricerca psicologica. Precisamente il giorno 11 settembre, come ricorda Howard Gardner in The mind’s new science del 1985, furono lette le comunicazioni di George A. Miller sulla memoria a breve termine e sui suoi limiti fissata in 7 (più o meno 2) elementi, di Allen Newell e Herbert A. Simon sul loro modello («General Problem Solving») e di Noam Chomsky sulla sua nuoya teoria del linguaggio. Psicologi sperimentali, scienziati della simulazione su calcolatore e linguisti cominciarono a interagire per un progetto comune di indagine interdisdplinare sui processi co-gnitivi. La seconda metà degli anni ‘50 vide non solo il fiorire di nuove impostazioni teoriche e procedure sperimentali per lo studio dei processi cognitivi, ma anche la diffusione di una prospettiva differente da quella dominante negli Stati Uniti, che era stata essenzialmente quella comportamentistica: la prospettiva della psicologia cognitiva o del cognitivismo. Questa prospettiva [...] si distaccò come orientamento autonomo dallo scenario della psicologia contemporanea solo alla fine degli anni ‘50. Innanzitutto vi confluirono i contributi di discipline diverse: oltre alla psicologia sperimentale, alla linguistica, alla teoria dell’informazione e alla cibernetica, le neuroscienze e la filosofia della mente. Tra il 1956 e il 1960 uscirono i seguenti libri o articoli fondamentali, relativi a tali ambiti disciplinari diversi:

1956: A study of thinking di J.S. Bruner, J.J. Goodnow e G.A. Austin; 1956: articolo di G.A. Miller sulla memoria a breve termine («il magico numero sette»); 1957: Syntactic structures di N. Chomsky; 1958: Perception and communication di D.E. Broadbent; 1958: The computer and the brain di J. von Neumann; 1958: articolo di A. Newell, J.C. Shaw e H.A. Simon sul problem solving; 1959: articolo di D.H. Hubel e T.N. Wiesel sui campi recettivi della corteccia striata del gatto; 1959: articolo di J.Y. Lettvin, H.R. Maturana, W.S. McCulloch e W.H. Pitts su «che cosa dice

l’occhio della rana al cervello della rana»; 1960: saggio del filosofo H. Putnam su Minds and machines; 1960: Plans and the structure of behavior di G.A. Miller, K. Pribram e E. Galanter; 1960: articolo di G. Sperling sulla memoria iconica. Oltre all’impostazione interdisciplinare, la psicologia cognitiva era caratterizzata da altri aspetti

che la differenziavano dal comportamentismo. In primo luogo, si interessava appunto dei processi cognitivi (la percezione, l’attenzione, la memoria, il linguaggio, il pensiero, la creatività), che erano stati trascurati dai comportamentisti o considerati come dei “prodotti” dell’appren-dimento. A questi processi veniva riconosciuta sia un’autonomia strutturale sia una interrelazione e interdipendenza reciproche. In Perception and communication (1958), lo psicologo inglese Donald E. Broadbent ipotizzava che l’informazione fosse recepita (da strutture devolute all’analisi sensoriale), filtrata (in base al meccanismo dell’attenzione divenuto noto come «filtro di Broadbent») e trasmessa ad altre strutture per l’immagazzinamento in memoria e altre codificazioni. Questa elaborazione si sarebbe verificata secondo una sequenza stadio per stadio.

La mente era quindi concepita - e questa è un’altra importante caratteristica della psicologia cognitiva - come un elaboratore di informazione che ha un’organizzazione prefissata di tipo sequenziale e una capacità limitata di elaborazione lungo i propri canali di trasmissione. L’analogia tra mente e calcolatore, o la metafora della mente come calcolatore, era basata sulle nozioni di

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informazione, canale, sequenza di trasmissione ed elaborazione dell’informazione, strutture di entrata (input) e uscita (output) dell’informazione dall’elaboratore, strutture di memoria. Per spiegare tale organizzazione e interrelazione strutturale e funzionale si diffuse l’uso di «diagrammi di flusso», formati da unità («scatole») aventi ciascuna compiti definiti (percezione, attenzione, ecc.) e da vie di comunicazione. Nei primi modelli cognitivistici, fino ai primi anni ‘70 circa, l’elaborazione dell’informazione era concepita come un processo che avviene stadio per stadio, terminate le operazioni proprie di uno stadio si passa al successivo, e così via. Negli anni ‘70 furono presentati nuovi modelli che mettevano in evidenza sia la possibilità di retroazioni di uno stadio successivo su quelli precedenti, sia la possibilità che si attivassero le operazioni di uno stadio successivo senza che quelli precedenti avessero già elaborato l’informazione per quanto li riguardava.

Un altro aspetto importante dell’emergente cognitivismo fu l’accentuazione del carattere finalizzato dei processi mentali. Il comportamento veniva ora concepito come una serie di atti guidati dai processi cognitivi ai fini della soluzione di un problema, con continui aggiustamenti per garantire la migliore soluzione. La nozione di «retroazione» (feedback) sviluppata dalla ciberne-tica divenne centrale in questa coneezione del comportamento orientato verso una meta. Il libro Plans and the structure of behavior, apparso nel 1960, di George A. Miller, psicologo sperimentale del linguaggio, Karl Pribram, neuroscienziato, e Eugene Galanter, psicologo matematico, rappresentò un’autentica svolta nella rappresentazione del comportamento (termine che in effetti significava mente, ma era ancora conservato come retaggio del morente comportamentismo): il comportamento era visto come il prodotto di una elaborazione della informazione, quale è compiuta da un calcolatore, per lo svolgimento di un «piano» utile alla soluzione di un problema. Il comportamento non era quindi l’epifenomeno di un arco riflesso (input sensoriale-elabo-razione-output motorio), ma il risultato di un processo di continua verifica retroattiva del «piano» di comportamento secondo l’unità TOTE (test-operate-text-exit): l’atto finale (exit) non consegue direttamente ad un input sensoriale o a un comando motorio, ma è il risultato di precedenti operazioni di verifica (test) delle condizioni ambientali, di esecuzioni (operate) intermedie e di nuove verifiche (test). Nel 1967 uscì il libro dello psicologo statunitense Ulric Neisser Cognitive psychology, nel quale venivano sintetizzate le ricerche condotte nei dieci anni precedenti secondo la prospettiva che, appunto dopo questo libro, fu definitivamente chiamata cognitivistica. Il primo manuale universitario in cui si esponeva la psicologia secondo l’orientamento cognitivistico fu quello di Peter H. Lindsay e Donald A. Norman, Human information processing, pubblicato nel 1972 (tradotto in italiano nel 1983 con il titolo L’uomo elaboratore di informazioni). Nel 1970 cominciò la pubblicazione della rivista «Cognitive Psychology» e nel 1971 di «Cognition», i periodici più diffusi del cognitivismo. La letteratura sperimentale sui processi cognitivi crebbe a dismisura sostituendo le prospettive passate con la nuova prospettiva: ad esempio, nello studio della percezione l’impostazione fenomenologica e gestaltista trovava un numero sempre minore di sostenitori, così come accadeva per lo studio dell’apprendimento e della memoria, precedentemente campo privilegiato di indagine del comportamentismo. La prospettiva cognitivistica si diffuse inoltre anche nel campo della psicologia sociale e della psicopatologia. È comprensibile quindi che nei primi anni ‘70 si parlasse ormai di «rivoluzione cognitivistica» nella ricerca psicologica.

Alla metà degli anni ‘70 ebbe inizio un’opera di revisione teorica e metodologica all’interno del cognitivismo che arrivò fino ad una autocritica su quanto era stato acquisito negli ultimi dieci an-ni. Fu nuovamente Ulric Neisser, con il libro Cognition and reality. Principles and implications of cognitive psychology (1976), a riassumere gli aspetti problematici essenziali emersi nella letteratura psicologica cognitivistica. Era evidente - affermava Neisser - che il cognitivismo aveva apportato nuovi e importanti contributi alla comprensione dei processi cognitivi, ma allo stesso tempo era

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degenerato in una miriade di esperimenti e di modelli privi spesso di effettivo valore euristico. Si trattava di modelli generalmente relativi a situazioni di laboratorio e non estrapolabili a situazioni di concreto funzionamento della mente nella vita quotidiana; inoltre avevano un interesse più teorico che applicativo. In buona parte erano gli stessi aspetti negativi che i cognitivisti avevano rimproverato al comportamentismo.

Nell’introduzione a Cognition and reality, Neisser ha limpidamente riassunto sia il significato dello sviluppo del cognitivismo, sia i motivi della necessità di una revisione dei suoi «principi» e delle sue «implicazioni»: «A partire dalla prima guerra mondiale fino ai primi anni ‘60, il comportamentismo e la psicoanalisi (o le discipline che ne sono derivate) hanno a tal punto dominato la psicologia in America che i processi cognitivi sono stati completamente ignorati. -Non erano molti gli psicologi interessati al problema di come venga acquisita la conoscenza. La percezione, che è l’atto cognitivo più importante, venne studiata principalmente da un ristretto gruppo di scienziati seguaci della tradizione della Gestalt e da pochi altri psicologi che lavoravano sulla misurazione e la fisiologia dei processi sensoriali. Piaget e i collaboratori studiarono lo sviluppo cognitivo, ma il loro contributo ricevette scarsi riconoscimenti. Non c’era alcun lavoro sull’attenzione. Le ricerche sulla memoria non vennero mai del tutto abbandonate, ma si occupavano soprattutto dell’apprendimento di ‘sillabe senza senso’, nell’ambito di procedimenti di laboratorio rigorosamente definiti e con scarsa possibilità di generalizzazione. Ne risultò così che l’immagine pubblica della psicologia era quella di una scienza che studiava principalmente il sesso, l’adattamento, e il controllo comportamentale.

In questi ultimi anni tale situazione ha subito cambiamenti radicali. I processi mentali sono tornati ad essere un vivace centro d’interesse. Ha cominciato a svilupparsi un nuovo campo di studi definito psicologia cognitivista, che tratta temi quali percezione, memoria, attenzione, riconoscimento di pattern, soluzione di problemi, psicologia del linguaggio, sviluppo cognitivo, e una miriade di altri argomenti lasciati a sonnecchiare per mezzo secolo. Le riviste tecniche, che un tempo privilegiavano gli articoli sul comportamento animale, attualmente straripano di relazioni su esperimenti cognitivi, e nascono continuamente nuove riviste: «Cognitive Psychology», «Cognition», «Memory and Cognition», «Perception and Psychophysics». [...]

Neisser faceva un continuo riferimento alla impostazione ecologica di Gibson, che aveva avuto una prima diffusione nella seconda metà degli anni ‘60 e che sarebbe stata rilanciata nel 1979 con l’uscita del libro The ecological approach to visual perception. La concezione cognitivistica di una costruzione della realtà esterna da parte della mente, secondo un’organizzazione sequenziale dell’elaborazione dell’informazione, stadio per stadio, era criticata in base all’assunto che l’organismo nel corso dell’evoluzione si è dotato di sistemi sempre più economici e adeguati che consentono un’analisi diretta e immediata della realtà. Se la metafora della mente come calcolatore aveva comportato che si pensasse alla mente come una macchina auto-dotata di sistemi di elaborazione dell’informazione e indipendente dall’ambiente, l’approccio ecologico ribadiva il carattere funzionale della mente, incorporata in un organismo a sua volta in continua interazione con l’ambiente esterno. Il richiamo alla validità ecologica degli esperimenti cognitivistici (essi devono poter simulare in laboratorio delle situazioni reali della vita quotidiana); la critica alla modellistica dei «mi-croprocessi» e «micromodelli» all’infinito (le unità di elaborazione contenevano delle sotto-unità di elaborazione, e queste a loro volta delle altre sotto-unità, e così via, come nelle bambole russe); l’esigenza di introdurre nel flusso dell’elaborazione dell’informazione processi relativamente trascurati, come la coscienza e la produzione di immagini; le innovazioni nel campo dell’informatica e della simulazione su calcolatore dei processi mentali; le nuove acquisizioni nel campo delle neuroscienze; tutti questi furono elementi fondamentali che attenuarono l’interesse per il cognitivismo già nei primi anni ‘80. Nel 1981, dedicando una serie di articoli al

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cognitivismo, a dieci anni dalla pubblicazione del primo numero della rivista «Cognition», nell’editoriale si riconosceva che vi erano stati dei progressi importanti nella ricerca psicologica grazie alla nascita e alla diffusione di questo nuovo orientamento; tuttavia, si aggiungeva che in fondo ben poco era veramente cambiato e non si poteva certamente parlare di «rivoluzione». Non vedendo realizzata effettivamente una vera e propria rivoluzione paradigmatica, nei primi anni ‘80 molti psicologi finirono con lo sminuire la rilevanza teorica e metodologica del co-gnitivismo arrivando persino a ritenerlo come una continuazione, seppure in forma più sofisticata, del comportamentismo. In fondo, si diceva, il cognitivismo ha aggiunto dei processi intermedi tra lo stimolo e la risposta, ma il paradigma rimane sempre quello di un sistema che accetta informazione in entrata e produce informazione in uscita. In sostanza la mente è sempre concepita come un arco riflesso, nonostante l’articolazione e la complessità dei processi interposti tra le unità sensoriali e quelle motorie. In questo contesto, di riflessioni autocritiche da una parte, e di nuove acquisizioni in discipline di confine dall’altra, si sviluppò il nuovo orientamento della «scienza cognitiva». Precursori e fonti del cognitivismo. La diffusione della prospettiva cognitivistica alla fine degli anni ‘60 fu associata alla individuazione di un filone di studi che era sorto autonomamente già agli inizi del secolo e che poteva configurarsi come cognitivistico o pre-cognitivistico. Si trattava di ricerche che erano state dedicate ai processi psichici superiori e avevano dimostrato l’organizzazione e la struttura complessa di processi cognitivi come il pensiero e il linguaggio. Anche all’interno di altre tradizioni, come quella gestaltistica o quella comportamentistica, era possibile rintracciare contenuti e risultati inquadrabili in un modello cognitivistico della mente. Furono rivisitati e «riscoperti» autori classici (vi fu una lettura «cognitivistica» di James e dello stesso Wundt, e suscitarono un nuovo interesse gli studi della scuola di Würzburg; il libro di Arthur L. Blumenthal, The process of cognition del 1977, fu dedicato ad un recupero di molti studi passati pre-cognitivistici); inoltre si cercarono punti di convergenza teorica con scuole classiche, soprattutto con la teoria della forma (ad esempio, fu importante il convegno del 1975 a Roma sul rapporto tra Gestalt e psicologia cognitivistica).

I precursori principali del cognitivismo furono comunque indicati in Bartlett, Piaget e Vygotskij. Il riferimento a Bartlett concerneva in particolare il suo concetto «schema» e l’ipotesi costruttivista della memoria. Piaget tornò di nuovo ad essere tradotto in inglese, dopo diciotto anni dall’ultima traduzione, nel 1950; e nel 1963 uscì il libro di Flavell sulla teoria piagetiana. L’impatto di Piaget sulla psicologia nord-americana fu notevole soprattutto per quanto riguardava l’idea di autonomia dello sviluppo dei processi cognitivi rispetto ai processi di apprendimento e condizionamento. La relazione tra processi cognitivi, maturazione organica e contesto sociale fu affrontata nella nuova ottica teorica illustrata nell’opera principale di Vygotskij dedicata al pensiero e al linguaggio, che diveniva nota con la traduzione americana nel 1962 (significativamente, questa traduzione aveva una prefazione di Bruner e un commento in appen-dice di Piaget).

Indubbiamente, anche nel comportamentismo erano presenti fermenti innovativi in chiave pre-cognitivistica. Tutto il dibattito sulle variabili intervenienti, infatti, si era incentrato sull’esigenza di introdurre dei processi (ad esempio la «forza dell’abitudine» di Hull) tra lo stimolo e la risposta per spiegare la varietà del comportamento rispetto a condizioni ambientali e di stimolazione omogenee. Il concetto di «mappa cognitiva» di Tolman rientrava in questa problematica. Un tentativo interessante di «aggiornamento» del compotamentismo fu quello operato da Daniel E. Berlyne (1924-77), professore alla università di Toronto. Oltre che essere influenzato da Hull, Berlyne risentì anche dell’approccio cognitivistico di Piaget, con il quale lavorò a Ginevra e scrisse un libro in collaborazione (Théorie du comportement et opérations, 1960). Nei libri su Conflict, arousal, and curiosity (1960) e Structure and direction in thinking (1965), Berlyne di-

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mostrò che per spiegare i processi di apprendimento occorreva introdurre nuovi concetti come quello di «complessità» dello stimolo (per cui stimoli relativamente complessi sono spesso prefe-riti a stimoli semplici) e «curiosità» dell’animale. Il cognitivismo non emerse negli anni ‘50 soltanto da questa tradizione più o meno sotterranea di ricerche sui processi cognitivi, ma fu anche il prodotto del confluire di contributi molto originali che provenivano da discipline vicine alla psicologia: la cibernetica e la teoria del’informazione, la linguistica e le neuroscienze.

Nell’articolo del 1943 del fisiologo Arturo Rosenblueth, del matematico Norbert Wiener e dell’ingegnere Julian H. Bigelow, intitolato Behaviour, purpose, and teleology, considerato il manifesto della cibernetica, si univa il concetto di finalizzazione del comportamento a quello di sistema di autoregolazione e controllo per il conseguimento dello scopo (purpose). Qualche anno dopo, nel 1948, Norbert Wiener (1894-1964), professore di matematica al Massachusetts Institute of Technology, pubblicò il libro Cybernetics con cui, come chiariva il sottotitolo, si presentava la nuova scienza del «controllo e della comunicazione negli animali e nelle macchine». La cibernetica metteva quindi in evidenza le analogie funzionali tra il comportamento di un organismo e l’attività di una macchina, entrambi accomunati dall’esigenza di risolvere un problema. Nello stesso anno 1943, nell’articolo di Warren S. McCulloch e Walter H. Pitts, A logical calculus of the ideas immanent in nervous activity, l’analogia tra sistemi organici e sistemi meccanici veniva basata sulla rappresentazione dell’attività dei neuroni in termini di proposizioni logiche: la stessa logica che reggeva il funzionamento neuronale poteva essere alla base della logica del funzionamento di una macchina, come il calcolatore. Questa concezione si legava a quella sviluppata, come «teoria dell’informazione», da Claude E. Shannon (A mathematical model of communication, 1948) e per la quale il messaggio trasmesso in un sistema, organismo o macchina che sia, è appunto indipenden-te dal sistema per quanto attiene alle sue proprietà intrinseche: l’informazione ha regole di trasmissione e elaborazione che prescindono dal sistema di supporto e dal contenuto trasmesso. Il modello della comunicazione elaborato da Shannon prevede una fonte del messaggio, un’unità di codificazione, canali di comunicazione, un’unità di decodificazione, un’uscita del messaggio, e la possibilità di trasformazione e distorsione del messaggio per gli effetti sia dei processi di codificazione e decodificazione che del rumore di fondo. Le prime applicazioni di questo modello in campo psicologico furono presentate negli articoli di G.A. Miller, What is information measurements? (1953) e di D.A. Grant, The discrimination of sequences in stimulus events and the transmis-sion of the information (1954), entrambi pubblicati sulla rivista «American Psychologist».

Recenti studi sulla storia della cibernetica e della teoria dell’informazione, compiuti da Roberto Cordeschi, hanno messo in evidenza che importanti presupposti teorici di questi nuovi orientamenti di ricerca possono essere individuati nelle riflessioni teoriche e nei primi tentativi di simulazione del comportamento negli anni ‘30 e ‘40 svolti da psicologi sperimentali. L’approccio simulazionale era stato proposto da Hull già alla metà degli anni ‘20 e fu descritto in Principles of behavior (1943) come il modo di «considerare di volta in volta l’organismo che si sta comportando come un automa del tutto autoregolato, costituito di materiali il piùpossibile differenti da quelli organici» (p. 29). Oltre ai progetti di Hull e dei suoi collaboratori di simulare meccanicamente la formazione dei riflessi condizionati e costruire delle «macchine psichiche», vi furono altri lavori dedicati alla simulazione «meccanica» del comportamento, tra cui quelli del biofisico Nicolas Rashveski (Possible brain mechanisms and their physical models, 1931) e dell’ingegnere elettronico Thomas Ross (Machines that think, 1933). Tuttavia lo studioso che rappresenta l’anello di congiunzione tra la psicologia sperimentale, i primi tentativi di simulazione del comportamento e la cibernetica è Kenneth J.W, Craik (1914-45), psicologo a Cambridge, sperimentatore brillante e teorico originale. Nei suoi scritti editi e inediti degli anni ‘40 - tra cui il libro The nature of explanation (1943), gli articoli postumi sulla Theory of the human operator in control systems (1947-48) e i saggi raccolti nel volume The nature of

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psychology (1966), dove si trova l’importante scritto The mechanism of human action del 1943 -, Craik espose chiaramente un progetto di ricerca («metodo sintetico») che doveva sostituire quello tradizionale di indagine anatomica, fisiologica e psicologica dei processi comportamentali («metodo analitico»), basandosi sulla concezione del comportamento degli animali e dell’uomo come un sistema di autoregolazione e controllo ai fini dell’adattamento all’ambiente. In questo modo era possibile sviluppare una analogia tra il sistema macchina, animale e umana, e il sistema macchina realizzato ingegneristicamente. Nel capitolo introduttivo a The mechanism of human action (1943), Craik caratterizza i metodi analitico e sintetico nel modo seguente: «Con il primo [metodo analitico] mi riferisco allo studio anatomico, psicolo-gico e fisiologico delle strutture e dei processi effettivi presenti nell’uomo e negli-animali nel corso dell’apprendimento e del comportamento rigido e modificabile; con il secondo [metodo sintetico] mi riferisco alla ricerca teorica dei principi fondamentali di cui un organismo dovrebbe costituire un’esemplificazione perché si mostri in grado di apprendere, e alla costruzione di dispositivi meccanici che stiano ad indicare le potenzialità e le lacune delle varie strutture e dei vari meccanismi che è possibile postulare in questo approccio teorico [...]. Nell’approccio sintetico considerererno più da vicino la teoria dell’autoregolazione e dei servomeccanisrni, con i loro apparati sensori e di calcolo, con le valvole di controllo e gli amplificatori di potenza; i feedback positivi e negativi con e senza le costanti di tempo; gli effetti dei ritardi temporali e delle diverse funzioni di controllo sulla loro stabilità; i metodi disponibili per ottenere variazioni qualitative della risposta, per quanto riguarda sia gli schemi spaziali che quelli temporali; le possibilità di imitare meccanicamente le facoltà di ‘raggruppamento’ e ‘generalizzazione’ proprie degli animali e dell’uomo. Analogamente, nell’approccio analitico ci ispireremo alla conoscenza attuale della struttura e della funzione degli organi di senso nell’uomo e negli animali, della trasmissione degli impulsi nelle fibre nervose e nelle sinapsi, e del controllo delle risposte muscolari. In certi casi potremo ispirarci ai più semplici sistemi di autoregolazione interna del corpo (quali la regolazione della temperatura e quella della respirazione), dove, ancora una volta, il comportamento del sistema è determinato dalle sue richieste e l’intenzionalità è presente a livello inconscio» (pp. 177, 189-90).

L’altra importante area di ricerca alle origini del cognitivismo della metà degli anni ‘50 è la linguistica. Il linguaggio era stato affrontato da alcuni psicologi negli anni tra le due guerre (Piaget e Vygotskij, in particolare), i quali ne avevano colto alcune proprietà essenziali e specifiche rispetto agli altri processi cognitivi. Nella tradizione comportamentistica, gli studi sul linguaggio erano stati impostati generalmente come indagini sull’apprendimento verbale nel bambino (vedi il capitolo di D. McCarthy, Language development, nella seconda edizione dello Handbook of child psychology, curato da C. Murchison nel 1933). L’attenzione degli psicologi agli sviluppi della linguistica era stata molto tiepida, se si fa eccezione per Vygotskij e, tra gli psicologi americani, per A.P. Weiss che nel 1925, nel primo numero della rivista «Language», scrisse un articolo dedicato a Linguistics and psychology, suscitando in vari studiosi statunitensi l’interesse per il raccordo tra linguistica e psicologia. Anche il linguista Leonard Bloomfield (1887-1949), autore di Language, un libro, che ebbe un forte influsso negli anni ‘30 e ‘40, si era riferito all’approccio comportamentistico di Weiss.

Il quadro degli studi linguistici e psicologici sul linguaggio cambiò radicalmente negli anni ‘50. Si tennero seminari dedicati alla psicolinguistica, il nuovo approccio interdisciplinare allo studio del linguaggio, e apparvero libri che mettevano in relazione il linguaggio umano con altre forme di comunicazione o riproponevano il rapporto tra linguaggio e pensiero. Il contesto teorico di riferimento diveniva sempre più quello della teoria dell’informazione e sempre meno quello comportamentistico.

Nel 1951, dopo un seminario tenutosi alla Cornell University, si costituì un Comitato nazionale per la linguistica e la psicologia che tenne la sua prima riunione alla Indiana University nel 1953 (gli atti furono pubblicati nel 1954, a cura di C.E. Osgood e T.A. Sebeok, con il titolo significativo Psycholinguistics). Sempre nel 1951 uscì il libro di G.A. Miller, Language and

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communication, e nel 1957 quello di R. Brown, Words and things. Il 1957 fu un anno importante anche per la pubblicazione di al tri due libri fondamentali: Verbal behavior di B. F. Skinner e Syntactic structures di N. Chomsky. La concezione comportamentistica del linguaggio fu espressa in forma definitiva da B.F. Skinner nel libro del 1957 sul «comportamento verbale». È importante notare che Skinner spiega l’apprendimento verbale riferendosi ai risultati ottenuti nei suoi esperimenti sul condizionamento operante di processi elementari, senza fornire dati sperimentali specifici sul linguaggio. Molto semplicemente, secondo Skinner, il bambino apprende a parlare in base a un processo di rinforzo positivo delle parole emesse correttamente e di rinforzo negativo di quelle errate, nella de-nominazione di oggetti. Il libro di Skinner fu recensito sulla rivista «Language» nel 1959 da Noam Chomsky (1928), professore al Massachusetts Institute of Technology di Boston, unanimemente considerato il maggior linguista del secondo Novecento. Le critiche di Chomsky furono nette: la teoria di Skinner era semplicistica perché permetteva di spiegare soltanto l’acquisizione di alcuni parole e frasi, ma non teneva conto del fatto che un parlante è capace sia di produrre un numero infinito di frasi senza averle apprese precedentemente sia di riconoscere se una frase ascoltata è grammaticalmente corretta. Nel libro del 1957 sulle «strutture della sintassi» e poi in Aspects of theory of syntax del 1965, Chomsky elaborò una teoria del linguaggio che introdusse una nuova impostazione di ricerca in linguistica (si parlò di «rivoluzione copernicana» prodotta dal libro del 1957) e allo stesso tempo influenzò notevolmente la ricerca psicologica. Gli psicologi che si stavano orientando verso la prospettiva cognitivistica furono particolarmente interessati alla concezione di un sistema innato nella mente umana per controllare la generazione delle frasi in base a leggi di trasformazione. Si poteva mettere in evidenza l’esistenza di strutture innate e universali che guidano l’apprendimento del linguaggio nel bambino. La distinzione tra com-petenza (competence) ed esecuzione (performance), introdotta da Chomsky nel 1965, permetteva di concepire l’esistenza di sistemi innati di cui è dotata la mente umana, con proprie caratteristiche strutturali e funzionali, per lo svolgimento dei processi cognitivi. Poiché lo studio del linguaggio rientrava in quello più generale dei processi cognitivi, Chomsky affermò che la linguistica doveva diventare una branca della psicologia cognitiva. Questi sistemi innati avevano per Chomsky un fondamento biologico essendo appunto una caratteristica propria della specie umana. L’in-tegrazione tra linguistica e neuropsicologia, psicologia e altre scienze limitrofe per lo studio delle basi biologiche e celebrali del linguaggio, fu svolta nel diffusissimo libro Biological foundations of language (1967) di Eric H. Lenneberg (1921-75), professore di psicologia all’università del Michigan, prematuramente scomparso. L’impatto della teoria chomskiana sulla nascente psicologia cognitiva fu così riassunto da George A. Miller (n. 1920), uno dei maggiori esponenti della psicolinguistica degli anni ‘60, nel suo articolo pubblicato nel 1965 sulla rivista «American Psychologist» e intitolato Some preliminaries to psycholinguistics: «Se accettiamo una definizione realistica del problema, credo che saremo pure costretti ad accettare un approccio più cognitivo: a parlare di verifica di ipotesi invece di apprendimento per discriminazione, di valutazione di ipotesi invece di rinforzo di risposte, di regole invece di abitudini, di produttività invece di generalizzazioni, di capacità umane innate e universali invece di metodi speciali per insegnare risposte vocali, di frasi invece di parole o rumori vocali, di struttura linguistica invece di catene di risposte, in breve di linguaggio invece di teoria dell’apprendimento» (p.20). Sempre nella seconda metà degli anni ‘50, furono ottenuti sorprendenti risultati anche nel campo degli studi sul sistema nervoso. Ciò che in particolare fu assimilato dalla psicologia cognitiva fu la scoperta del carattere estremamente selettivo del funzionamento dei singoli neuroni: il cervello è dotato di unità funzionali, ciascuna delle quali risponde a determinate caratteristiche dell’informazione. Il cervello, considerato dai comportamentisti come una «scatola nera», risultava invece un insieme di strutture ben differenziate sul piano funzionale nel processo di elaborazione dell’informazione. L’esigenza sia di superare la concezione comportamentistica della «scatola

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nera», sia di introdurre nuovi modelli del funzionamento del cervello che non ricalcassero la sequenza stimolo-risposta dell’arco riflesso, fu espressa da psicologi come Donald O. Hebb e Karl S. Lashley, considerati per queste ragioni fra i principali protagonisti della storia della psicologia nord-americana nel passaggio dal comportamentismo al cognitivismo.

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9. Scienza cogni t iva

Scienza cognitiva oggi e domani di Domenico Parisi, CNR, Roma

Una definizione minima di scienza cognitiva Che cos’è la scienza cognitiva? Non è che sia molto facile rispondere a questa domanda. Noi oggi vogliamo creare una società italiana di scienza cognitiva ma quando cerchiamo di dire che cosa è la scienza cognitiva abbiamo qualche difficoltà ad arrivare a una definizione che copra tutto quello che vorremmo far rientrare nella scienza cognitiva e che però non sia troppo vaga e generica - e che metta d’accordo tutti. Ma questo non deve spaventarci perchè la ricerca nella scienza spesso si trova di fronte a situazioni di questo genere, e una situazione dinamica e che non manca di contrasti come è quella della scienza cognitiva può essere anche una situazione di sviluppo e di innovazione. In realtà la scienza cognitiva è una importante novità nello studio della mente emersa negli ultimi decenni del Novecento. La scienza cognitiva è formalmente nata negli Stati Uniti alla fine degli anni 70, ma già nei due decenni precedenti, cioè dagli anni 50, la “rivoluzione cognitiva” aveva posto le premesse della scienza cognitiva e in effetti aveva fatto scienza cognitiva senza usare l’espressione. In effetti dalla “rivoluzione cognitiva” degli anni 50 la scienza cognitiva eredita il principio anticomportamentista in base al quale per capire il comportamento bisogna studiare la mente, cioè bisogna andare al di là degli stimoli e delle risposte e ricostruire quello che c’è in mezzo tra gli stimoli e le risposte. In ogni caso la Cognitive Science Society è nata nel 1978, e la rivista Cognitive Science, che poi diventerà la rivista ufficiale della società, è nata un anno prima, nel 1977. Siamo quindi, in Italia, con un ritardo di quasi un quarto di secolo. Ma il nostro ritardo può essere un vantaggio perchè possiamo partire da più avanti, dato che ovviamente in questo quarto di secolo la scienza cognitiva è cambiata e si è evoluta. Quello che dobbiamo evitare è partire da una scienza cognitiva invecchiata, una scienza cognitiva che oggi non c’è più, senza tener conto di quello che è successo in questo quarto di secolo. Perchè la scienza cognitiva rappresenta una novità importante nello studio della mente? Perchè la scienza cognitiva solleva due problemi che oggi sono cruciali nella ricerca sulla mente. Se dovessimo dire quali sono i due requisiti minimi per parlare di scienza cognitiva, oltre al principio anticomportamentista che è alla base della “rivoluzione cognitiva” di cui ho già parlato, diremmo che, primo, la scienza cognitiva è un approccio interdisciplinare allo studio della mente e, secondo, che la scienza cognitiva chiama in causa, in un modo o nell’altro, il computer, mettendo in relazione lo studio della mente “naturale”, così come si presenta “in natura”, negli esseri umani, con lo studio della mente “artificiale”, così come si presenta, o cerca di presentarsi, in artefatti, in sistemi fatti da noi. L’interdisciplinarietà e il rapporto naturale/artificiale sono due problemi fondamentali che oggi si pongono nello studio della mente. Prendiamo l’interdisciplinarietà. Le divisioni disciplinari esistono in tutta la scienza. Esse sono una ovvia necessità pratica, dato che non tutto può essere studiato insieme e da un’unica disciplina, ma rimane il fatto che la realtà non è divisa secondo le linee che separano le discipline scientifiche. Nelle scienze della natura, nella fisica, nella chimica, nella biologia, le divisioni disciplinari fanno poco danno. Le differenti discipline che studiano la natura fanno tutte riferimento a uno stesso quadro concettuale e esplicativo (tutti i fenomeni

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sono effetti di cause in ultima analisi fisiche e hanno tutti una natura intrinsecamente quantitativa) e usano tutte uno stesso metodo di ricerca, l’esperimento di laboratorio. Invece nelle scienze che studiano il comportamento umano - sia la mente e il comportamento individuale che i comportamenti e le istituzioni collettive - le divisioni disciplinari fanno parecchio danno, dato che le scienze dell’uomo hanno quadri concettuali e esplicativi spesso molto differenti l’una dall’altra e metodi di ricerca differenti, con il risultato di produrre un mosaico di conoscenze in cui le tessere non si combinano bene l’una con l’altra. La scienza cognitiva ha posto questo problema con chiarezza, e nonostante che i problemi del dialogo tra le discipline rimangano, in un certo senso ha imposto questo dialogo. Se una persona si qualifica come scienziato cognitivo, è uno psicologo o un ingegnere o un neuroscienzato o un linguista o uno scienziato sociale che non crede di poter capire tutto quello che vuole capire restando dentro alla sua disciplina. E questo è già un primo passo importante. Anche l’altra caratteristica definitoria della scienza cognitiva, il mettere in collegamento lo studio della mente “naturale” con lo studio della mente “artificiale”, tocca un problema cruciale della scienza attuale. L’idea che si sta facendo strada oggi nella scienza è che si possa conoscere la realtà non solo osservandola e descrivendola con cura e obbiettività, e proponendo teorie che la spiegano, come fa da sempre la scienza, ma anche riproducendola in un sistema costruito da noi. Questa idea è emersa con forza con l’avvento del computer perchè solo il computer è una macchina abbastanza potente per poter pensare di riprodurre la realtà. Se riusciamo a riprodurre la realtà, in qualche modo l’abbiamo capita, cioè analizzata, spiegata, e ricostruita pezzo per pezzo. In effetti, mettendo lo studio della mente artificiale accanto a quello della mente naturale, la scienza cognitiva si inserisce in una tendenza di fondo di tutta la scienza di oggi: il diventare sempre più vicine, fino quasi a confondersi, della scienza e della tecnologia, del cercare di conoscere e capire la realtà così come è, e del cercare di modificare la realtà perchè risponda meglio - si spera - ai nostri bisogni. Fin qui abbiamo parlato dei requisiti minimi per parlare di scienza cognitiva, e abbiamo visto che i due requisiti minimi che definiscono la scienza cognitiva sollevano problemi fondamentali della scienza di oggi. Ma c’è un altro punto di carattere generale che voglio discutere subito: quale è esattamente l’oggetto di studio della scienza cognitiva? Che cosa studia la scienza cognitiva? Già qui le cose si complicano e le posizioni tendono a divergere. Certe volte l’espressione “scienza cognitiva” viene interpretata nel senso che la scienza cognitiva è la scienza che studia non la mente in generale ma la cognizione, gli aspetti cognitivi della mente, la sua intelligenza. Questo punto di vista ha radici antiche. Nell’editoriale del primo numero della rivista Cognitive Science, nel 1977, in cui si cerca di definire che cosa è la scienza cognitiva, l’editor della rivista, Allan Collins, dice che la scienza cognitiva avrebbe potuto anche chiamarsi “teoria dell’intelligenza” o “epistemologia applicata” (l’epistemologia è quella parte della filosofia che si occupa della conoscenza). E ancora oggi, per qualche motivo un po’ curioso, è successo che il nostro istituto è stato chiamato Istituto per le Scienze e le Tecnologie della Cognizione, invece che Istituto per le Scienze e le Tecnologie Cognitive. La formula “scienze e tecnologie della cognizione” definisce un oggetto di studio, la cognizione. Invece la formula “scienze e tecnologie cognitive” definisce un certo modo di studiare tutta la mente, quello della scienza cognitiva. Invece, come ha chiarito molto bene Margaret Boden nella sua relazione dedicata alla scienza cognitiva al convegno sulla scienza all’inizio del nuovo millennio tenutosi a Londra per l’inaugurazione del Millennium Dome, la scienza cognitiva studia la mente, non la cognizione, cioè studia tutta la mente e il comportamento umano, non solo i suoi aspetti cognitivi. La consapevolezza che è necessario studiare tutta la mente, incluse le sue componenti psicodinamiche e emotive e le sue componenti sociali, senza le quali non è possibile capire neppure quelle cognitive, è uno degli sviluppi positivi della scienza cognitiva di cui oggi dobbiamo tener conto - e che ci dovrebbe spingere a non cercare di dare una lettura

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esclusivamente cognitiva delle componenti emotive e sociali. Ma, nonostante questo, oggi ci sono oggi importanti direzioni di ricerca nello studio dei comportamenti collettivi umani e delle istituzioni sociali umane che rispondono pienamente ai due requisiti minimi per parlare di scienza cognitiva (sono fortemente interdisciplinari e cercano di capire i fenomeni “naturali” riproducendoli in sistemi “artificiali”) e che tuttavia non rientrano nella scienza cognitiva ufficiale. Scienza cognitiva computazionale e scienza cognitiva neurale Ma lo sviluppo più importante che si è verificato di recente nella scienza cognitiva e che rende il quadro attuale della scienza cognitiva piuttosto diverso da quello degli inizi è che oggi esistono non una ma due scienze cognitive, e avere chiara consapevolezza del fatto che esistono due scienze cognitive è importante perchè quello che distingue le due scienze cognitive è forse oggi la divisione e la contrapposizione fondamentale nello studio della mente. Da un lato esiste la scienza cognitiva computazionale, dall’altro esiste la scienza cognitiva neurale. Le due scienze cognitive sono caratterizzabili in base a due differenze fondamentali. Per la scienza cognitiva computazionale, la mente è come il software di un computer, è un sistema computazionale, e di conseguenza, come il software del computer può e deve essere studiata ignorando la macchina fisica, l’hardware, che fa da supporto al software, cioè il cervello e, più generalmente, il corpo. Per la scienza cognitiva neurale invece la mente non ha nulla a che fare con il software di un computer, non è un sistema computazionale, e per capire la mente bisogna partire dal cervello e dal corpo. Si tratta in entrambi i casi di scienza cognitiva in quanto in entrambi i casi l’approccio è interdisciplinare, in entrambi i casi viene chiamato in causa il computer, e in entrambi in casi il principio resta quello della “rivoluzione cognitiva” di guardare a quello che c’è in mezzo tra stimoli e risposte. Solo che il mix di discipline è diverso (soprattutto psicologia cognitivista, informatica e linguistica formale per la scienza cognitiva computazionale, soprattutto psicologia non cognitivista, neuroscienze, fisica e, in misura crescente, scienze sociali, per la scienza cognitiva neurale), il computer ha un ruolo diverso (fonte di ispirazione per i modelli della mente per la scienza cognitiva computazionale, semplice strumento per fare le simulazioni per la scienza cognitiva neurale), e quello che lo scienziato cognitivo trova quando guarda a quello che c’è in mezzo tra stimoli e risposte è diverso (la scienza cognitiva computazionale ci trova il computer, quella neurale il cervello). Le due scienze cognitive differiscono anche in altri aspetti, inclusi i loro orientamenti più generalmente culturali. Mi limiterò a elencare queste differenze senza discuterle. La scienza cognitiva computazionale:

- parte dalla mente ormai fatta e, eventualmente, studia come si sviluppa, nell’individuo, nella specie e nel mondo animale

- ritiene che le componenti cognitive della mente siano più importanti di quelle dinamiche - ha una visione della realtà come costituita da sistemi semplici - tende ad essere scientista: la scienza è l’unico o almeno il migliore modo di conoscere la

realtà. Invece la scienza cognitiva neurale:

- studia l’origine e lo sviluppo della mente per arrivare alla mente ormai fatta - ritiene le componenti dinamiche più importanti di quelle cognitive - ha una visione della realtà come costituita da sistemi complessi - tende a non essere scientista: la scienza non è l’unico e talvolta neppure il migliore modo

di conoscere la realtà. Invece alcune pretese differenze tra la scienza cognitiva computazionale e la scienza cognitiva neurale in realtà non ci sono. Ad esempio non è vero che la scienza cognitiva computazionale è modulare e la scienza cognitiva neurale è nonmodulare, dove un modulo è una componente specializzata e relativamente autonoma della mente. La sola cosa che è vera è che i moduli per la

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scienza cognitiva computazionale sono definiti in modo non neurale (e solo dopo, eventualmente, si cerca la base neurale di moduli definiti in modo non neurale), mentre per la scienza cognitiva neurale i moduli sono definiti in modo neurale fin dall’inizio, cioè come strutture anatomiche e fisiologiche del sistema nervoso. Un altro esempio di non differenza è che non è vero che la scienza cognitiva computazionale è innatista e la scienza cognitiva neurale è anti-innatista. Quello che è vero è che la scienza cognitiva computazionale (con quella che oggi si chiama la psicologia evoluzionistica) si limita a postulare o a dedurre dal comportamento le basi innate del comportamento umano mentre la scienza cognitiva neurale realizza delle simulazioni in cui le possibili basi innate del comportamento emergono usando gli algoritmi genetici. Ma le differenze di fondo tra la scienza cognitiva computazionale e quella neurale emergono anche considerando le cose da altri punti di vista. La mente è stata studiata per millenni dai filosofi, dal De anima di Aristotele in poi, ma solo alla fine dell’Ottocento si dice che sia nata una scienza della mente, cioè la psicologia. La psicologia è scienza della mente e non più soltanto filosofia perchè alle fine dell’Ottocento, con la creazione dei primi laboratori sperimentali di psicologia, i fenomeni della mente sono stati studiati per la prima volta con lo stesso metodo usato dalle scienze della natura, cioè con il metodo sperimentale. Ma la psicologia per tutto il Novecento è rimasta una rivoluzione a metà. Gli psicologi hanno adottato il metodo delle scienze della natura ma hanno continuato ad usare un vocabolario mentalistico e qualitativo nell’interpretare e spiegare i fenomeni del comportamento e della mente ben diverso dal vocabolario delle scienze della natura che fa riferimento solo a cause fisiche che producono effetti fisici e a entità e processi aventi una natura intrinsecamente quantitativa. La scienza cognitiva computazionale non ha cambiato nulla da questo punto di vista. Anzi ha rafforzato il dualismo concettuale della psicologia dandogli una nuova legittimità sulla base dell’analogia con la distinzione tra software e hardware del computer. La scienza cognitiva neurale è invece un tentativo di completare la rivoluzione scientifica della psicologia, adottando nello studio della mente non solo i metodi delle scienze naturali ma anche il loro vocabolario concettuale. Lo strumento usato a questo scopo sono le reti neurali, modelli nello stesso tempo del sistema nervoso e del comportamento che risulta dal funzionamento del sistema nervoso. In una rete neurale non accade nulla che non siano cause fisico-chimiche che producono effetti fisico-chimici e ogni entità, meccanismo e processo ha natura intrinsecamente e fino in fondo quantitativa. Un’altra differenza di fondo tra le due scienze cognitive riguarda la relazione che le due scienze cognitive hanno con la filosofia. La filosofia ha svolto e continua a svolgere un ruolo molto importante nella scienza cognitiva computazionale. Questo si spiega con il dualismo concettuale che è ancora alla base della scienza cognitiva computazionale. In una scienza cognitiva che ancora adotta un apparato di concetti mentalistici in buona parte derivato non soltanto dall’uso quotidiano del linguaggio con cui parliamo nella vita di tutti giorni del comportamento nostro e altrui ma proprio dalla tradizione filosofica, c’è ancora spazio per un contributo della filosofia. Se invece, come fa la scienza cognitiva neurale, si adotta lo stesso apparato concettuale delle scienze della natura (cause fisiche che producono effetti fisici, natura non più qualitativa ma puramente quantitativa del fenomeni), la filosofia sembra destinata a ritirarsi dalle scienze della mente così come ha fatto ormai da un paio di secoli dalle scienze della natura (il suo fondamentale ruolo critico, ovviamente, resta nei riguardi di tutti e due i tipi di scienze.) La differenza può essere vista considerando il ruolo del linguaggio. La filosofia è analisi e ragionamento concettuale, che in pratica vuol dire che la filosofia ha a che fare con i concetti espressi nelle nostre parole. Perciò il linguaggio è la vita stessa della filosofia. Ma il linguaggio è centrale anche nella scienza cognitiva computazionale, dato che questa scienza cognitiva concepisce la mente come manipolazione di simboli. Per questo la venerazione per il linguaggio unisce la filosofia e la scienza cognitiva computazionale. Le cose stanno diversamente per la

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scienza cognitiva neurale. Adottando il vocabolario concettuale delle scienze della natura la scienza cognitiva neurale si schiera nettamente per una concezione della scienza come di un’impresa conoscitiva che per conoscere la realtà deve guardare al di là del linguaggio. Il linguaggio per la scienza cognitiva neurale non è che un fenomeno empirico tra i tanti, a cui la mente arriva partendo da qualcosa che non è linguaggio. Quello che è cambiato nella scienza cognitiva La comparsa della scienza cognitiva neurale è il maggior cambiamento avvenuto nella scienza cognitiva dalla sua comparsa. Ma non è l’unico. Ci sono altri cambiamenti. Vediamo quali. (a) Psicolinguistica La psicolinguistica è stata storicamente la punta di diamante della rivoluzione cognitiva e della scienza cognitiva. La psicolinguistica è un approccio interdisciplinare perchè mette insieme due discipline, la psicologia e la linguistica, nello studio del linguaggio. Inoltre la psicolinguistica è stata all’inizio in larga misura il tentativo da parte degli psicologi di dimostrare con i loro esperimenti la “realtà psicologica” dei modelli della competenza linguistica, soprattutto sintattica, elaborati da Chomsky e dai suoi seguaci. Questi modelli sono esempi paradigmatici di modelli formali ispirati al computer e in effetti Chomsky è stato negli anni 50 e 60 con la sua teoria delle grammatiche un autore importante non solo per la linguistica ma anche per l’informatica. Le cose però da allora sono cambiate. Gli psicolinguisti non si dedicano più molto a dimostrare la realtà psicologica dei modelli chomskiani della sintassi e anzi hanno preso parecchio le distanze dalla linguistica chomskiana, che ha poco da dire su aspetti del linguaggio che interessano molto gli psicolinguisti come il lessico e il significato o come i fattori che influenzano l’ “esecuzione” in quanto distinta dalla “competenza”. La psicolinguistica rimane un campo molto attivo e produttivo di ricerca ma è meno al centro della scena nella scienza cognitiva. Gli articoli di psicolinguistica sulla rivista Cognitive Science sono diminuiti con il tempo. (b) Intelligenza artificiale L’idea che la mente funzioni come un computer rimane viva e viene presa alla lettera nell’intelligenza artificiale ma è spesso poco più di un’idea generale o di una metafora per gli altri scienziati cognitivi computazionali. I modelli a “scatole e frecce” della mente come sistema di elaborazione dell’informazione raramente sono abbastanza dettagliati da poter essere tradotti in programmi e “girare” in un computer. Per questo, mentre la scienza cognitiva neurale usa quasi esclusivamente le simulazioni come strumento di ricerca, la scienza cognitiva computazionale non usa quasi mai le simulazioni. D’altro canto raramente un sistema di intelligenza artificiale viene oggi considerato come utile per capire come funziona l’intelligenza naturale, e chi costruisce sistemi di intelligenza artificiale raramente cerca fonti di ispirazione nella letteratura psicologica e nei dati empirici della psicologia. Un altro problema dell’intelligenza artificiale è che esplicitamente, almeno nel nome, è ristretta a studiare l’intelligenza, non la mente in genere, anche se oggi approcci di tipo scienza cognitiva computazionale sono usati per studiare aspetti non intelligenti o non cognitivi come quelli emotivi e quelli sociali del comportamento umano. (c) Reti neurali “classiche” e reti neurali della vita artificiale Cambiamenti ci sono stati anche all’interno della scienza cognitiva neurale. All’inizio, verso la metà degli anni 80 e per parecchio tempo dopo, le reti neurali sono state studiate in isolamento dal resto del corpo, dall’ambiente in cui vivono gli organismi, dal DNA che ogni individuo eredita dai suoi genitori e che è il risultato di una lunga storia evolutiva nella popolazione di cui l’individuo è membro. Le reti neurali sono state viste in modo astratto, come sistemi di elaborazione di informazione che differivano dai sistemi della scienza cognitiva computazionale

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solo per un diverso “stile neurale di computazione” (Rumelhart). La mancanza del corpo e dell’ambiente nelle simulazioni che usano le reti neurali “classiche”, quelle del libro di Rumelhart e McClelland del 1986, ha impedito di considerare molti aspetti che invece sono fondamentali per capire la mente e il comportamento. Per fare degli esempi, gli input di una rete neurale spesso provengono dall’interno del corpo o addirittura dall’interno stesso della rete neurale e per questo motivo hanno quella caratteristica di privatezza che caratterizza la vita mentale, di contro agli input pubblici che provengono dall’ambiente esterno. D’altra parte solo vivendo in un ambiente sociale e interagendo con i conspecifici ci si può accorgere che certi input sono pubblici e altri sono privati. Ma se in una simulazione con le reti neurali non c’è corpo e non c’è ambiente esterno, questa fondamentalmente distinzione non può emergere e non può essere studiata. Oppure, per fare un altro esempio, l’output della rete neurale si traduce spesso in movimenti del corpo che modificano o la relazione del corpo con l’ambiente esterno o questo stesso ambiente esterno. Il risultato è che gli organismi hanno un controllo almeno parziale sugli input che arrivano al loro sistema nervoso dall’ambiente esterno, e questo secondo circuito esterno di causa e effetto, che va dall’output all’input, è altrettanto importante di quello interno che va dall’input all’output per capire il comportamento Le reti neurali oggi però non sono più soltanto quelle “classiche” e sono viste sempre di più come un capitolo della vita artificiale, un nuovo approccio emerso di recente che cerca di studiare con le simulazioni ogni fenomeno del mondo vivente. La vita artificiale vede le reti neurali come modelli di un sistema fisico, il sistema nervoso, contenute in un sistema fisico più grande, il corpo, contenuto a sua volta in un sistema fisico ancora più grande, l’ambiente. Per una specie altamente sociale come quella umana l’ambiente è costituito in buona parte dai conspecifici, e questo permette di studiare non solo gli individui singoli, come ci si limita a fare con le reti neurali “classiche” (la singola rete che viene addestrata con la backpropagation), ma anche i comportamenti collettivi che emergono quando molti individui interagiscono tra loro all’interno dello stesso ambiente. Inoltre le simulazioni di vita artificiale usano gli algoritmi genetici per simulare i processi evolutivi che avvengono nelle popolazioni di organismi e questo trova applicazione sia all’evoluzione biologica che all’evoluzione culturale e tecnologica. 4. Quello che cambierà Se guardiamo al futuro della scienza cognitiva ci sono tre direzioni di cambiamento che si intravedono. Si tratta di cambiamenti che già sono cominciati ma che guideranno lo sviluppo futuro della scienza cognitiva. (a) Mente e sistema nervoso Il sistema nervoso non era molto importante per la scienza cognitiva computazionale dato che il principio alla base della scienza cognitiva computazionale è che la mente, come il software del computer, può e deve essere studiata indipendendentemente dal cervello. Le cose sono cambiate e cambieranno sempre di più in futuro nel senso che il sistema nervoso diventerà sempre più importante per chi studia la mente. La ragione non è solo che oggi esistono le reti neurali, le quali sono modelli del comportamento esplicitamente ispirati alle caratteristiche fisiche e al modo di funzionare del sistema nervoso, ma è che i progressi delle neuroscienze (neuroimmagini, genetica dello sviluppo del sistema nervoso, neurropsicologia, ecc.) sono talmente tanti e talmente rapidi e cumulativi che diventa sempre meno plausibile studiare la mente ignorando il cervello. Ma anche se ci si vuole occupare di sistema nervoso resta la differenza nel modo in cui la scienza cognitiva computazionale e quella neurale vedono il sistema nervoso. La scienza cognitiva computazionale prima costruisce modelli mentalisti, possibilmente ispirati al computer, dei comportamenti e delle capacità e, solo dopo, cerca di trovare i correlati di tali modelli nel sistema nervoso. Invece la

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scienza cognitiva neurale by-passa completamente i modelli mentalistici e cerca, con le reti neurali, di costruire direttamente modelli ispirati al sistema nervoso. La scienza cognitiva del futuro non sarà soltanto più vicina alle neuroscienze ma a tutte le scienze biologiche in genere: biologia evoluzionistica, genetica, biologia dello sviluppo, il corpo al di fuori del sistema nervoso, comparazione tra le specie. Le “basi innate” del comportamento umano non saranno più soltanto postulate e dedotte come hanno fatto finora la sociobiologia e la psicologia evoluzionistica, ma saranno oggetto di ipotesi da tradurre in simulazioni. reti neurali, che sono lo strumento di collegamento con le neuroscienze, verranno viste sempre di più come un semplice capitolo della vita artificiale (b) Le simulazioni basate su agenti Quello che certamente diventerà più importante in futuro è la scienza cognitiva sociale, cioè la scienza cognitiva applicata ai fenomeni sociali umani, ai comportamenti collettivi e alle istituzioni sociali. In questo campo si stanno facendo strada le simulazioni basate su agenti, cioè su collezioni di entità che interagiscono tra loro in modo tale che dalle numerose loro interazioni emergono fenomeni collettivi non prevedibili e non deducibili anche conoscendo alla perfezione le singole entità e le regole che governano le loro interazioni. Le simulazioni basate su agenti caratterizzano tutta la nuova scienza cognitiva. Anche le reti neurali sono collezioni di agenti - le unità della rete, i neuroni - che interagiscono tra loro determinando fenomeni collettivi - il comportamento e la vita mentale - non prevedibili e non deducibili conoscendo i singoli neuroni e il modo in cui si influenzano l’uno l’altro. (È per questo che la scienza cognitiva neurale, pur mettendo le neuroscienze al centro della scena, non implica nessun riduzionismo dello studio del comportamento e della vita mentale allo studio dei neuroni e delle sinapsi.) In realtà le simulazioni basate su agenti non sembrano altro che l’applicazione allo studio del comportamento del punto di vista che vede la realtà come composta essenzialmente da sistemi complessi. Ma le simulazioni basate su agenti sono particolarmente importanti quando sono applicate allo studio dei fenomeni di cui si occupano le scienze sociali. Il metodo della simulazione promette di rinnovare radicalmente le scienze sociali risolvendo molti dei problemi che affliggono da sempre queste scienze. Un modello basato su agenti non può che essere studiato con delle simulazioni. I trattamenti puramente analitici e matematici, per non parlare di quelli puramente verbali, hanno possibilità molto limitate da questo punto di vista. Ma lavorare con le simulazioni significa dover formulare le teorie e i modelli in modo molto esplicito e dettagliato, altrimenti il modello/programma non gira nel computer, e significa dover costruire teorie con un chiaro contenuto empirico, dato che i risultati della simulazione non sono che le predizioni empiriche derivate dalla teoria incorporata nella simulazione. In questo modo c’è la possibilità di superare la vaghezza e l’incerto contenuto empirico di molte delle teorie delle scienze sociali. Inoltre l’uso delle simulazioni, date le enormi capacità di memoria e di calcolo del computer, consente di incorporare in una stessa simulazione fenomeni e fattori studiati separatamente dalle diverse scienze sociali, superando così l’irragionevole frammentazione tra scienze come la sociologia, l’antropologia, l’economia, la scienza politica, la storia. L’estensione dell’approccio della scienza cognitiva ai fenomeni sociali, con l’uso delle simulazioni basate su agenti, consentirà di non dover più scegliere tra il privilegiare l’individuo rispetto alla società che è tipico delle scienze della mente e il privilegiare la società rispetto all’individuo che è tipico delle scienze sociali. Quello che ci aspetta è di scoprire quali sono le influenze reciproche tra le menti degli individui e le strutture sociali. Uno dei campi in cui questo avverrà nel modo più chiaro e più fecondo di risultati è lo studio della trasmissione e del cambiamento culturale, un fenomeno centrale per capire gli esseri umani che finora nessuna scienza è riuscita ad affrontare

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seriamente, cioè con modelli espliciti e dettagliati (a parte i tentativi di qualche genetista e di qualche ecologo/antropologo). (c) I rapporti con la tecnologia La scienza cognitiva è comunque vicina alla tecnologia dato che il computer è alla base sia della scienza cognitiva che di molta della tecnologia attuale. Ma i rapporti della scienza cognitiva con la tecnologia sono cambiati e continueranno a cambiare in futuro. Per la scienza cognitiva computazionale la tecnologia significava praticamente soltanto intelligenza artificiale, dato che sia la scienza cognitiva computazionale che l’intelligenza artificiale si basano su una ricostruzione razionale dell’attività mentale. Oggi la tecnologia ha un significato più ampio per la scienza cognitiva. Ci sono le nuove tecnologie, la multimedialità, l’interattività, Internet, la nuova telefonia, la realtà virtuale, le simulazioni. Il corpo, i sensi, l’interazione tra utente e tecnologia sono diventati più importanti con queste nuove tecnologie, e la scienza cognitiva è interessata a queste nuove tecnologie, sia per influenzarle che per essere influenzata, al di là della loro “intelligenza”. Inoltre la robotica biomorfica e neuromorfica apre nuove possibilità per lo sviluppo di sistemi fisici utilizzabili in molti campi applicativi, al di là della robotica industriale classica. Infine le simulazioni basate su agenti di comportamenti e organizzazioni sociali hanno applicazioni pratiche per consentirci di capire meglio come funzionano gli individui e le istituzioni all’interno delle società, per fare previsioni e per valutare le conseguenze dei nostri interventi prima di realizzarli. Quello che ci aspetta dalla nuova scienza cognitiva è che entri più direttamente e con più autorità nella ricerca e sviluppo riguardante le nuove tecnologie. Per parlare solo delle nuove tecnologie, le nuove tecnologie. nonostante le loro meraviglie, non trattano bene l’utente e in realtà sfruttano solo in piccola parte le proprie potenzialità proprio perchè sono sviluppate da ingegneri e tecnologi che sanno poco di come funziona la mente umana. Questa è una delle ragioni della crisi attuale della nuova economia, cioè dell’economia che incorpora e si basa sulle nuove tecnologie. La nuova economia sta transitando da una fase in cui le nuove tecnologie venivano adottate perchè erano nuove e perchè facevano molte promesse un po’ confuse di grandi vantaggi e nuove possibilità a una fase in cui per adottarle si vuole vedere chiaramente il loro “valore aggiunto”, cioè i vantaggi che offrono rispetto ai modi tradizionali di fare le cose. Le nuove tecnologie sono tecnologie cognitive, cioè tecnologie che aiutano gli esseri umani a lavorare meglio con la loro mente, non con il loro corpo. Data la sua conoscenza della mente e data la sua familiarità con il computer che è alla base delle nuove tecnologie, la scienza cognitiva è ottimamente piazzata per dare un contributo importante al loro sviluppo. Quello che bisogna ottenere è che la nuova scienza cognitiva, più flessibile e pluralistica di quella del passato, dia effettivamente questo contributo. Conclusione: evitare i rovesci della medaglia La scienza cognitiva è senza dubbio una cosa buona. Si assume il compito fondamentale di indagare su quello che c’è dietro al comportamento, senza fermarsi agli stimoli e alle risposte. Cerca di coordinare tra loro i diversi modi in cui le discipline tradizionali guardano al comportamento umano ricomponendo un quadro che le discipline tradizionali lasciano frammentato. Studia la mente nel modo nuovo e potenzialmente molto fecondo che la scienza ha scoperto da quando esiste il computer, cioè non solo osservandola e elaborandone teorie, ma cercando di riprodurla in sistemi artificiali. Eppure ci sono dei rovesci di questa medaglia. Ci sono cose meno buone nella scienza cognitiva che noi, per mostrare la nostra maturità di scienziati cognitivi, non possiamo ignorare. La scienza cognitiva è piena di teorie e di modelli. Questa è una cosa buona dato che molta scienza si riduce a osservare e a descrivere fatti, cercando al massimo correlazioni tra i fatti, mentre solo le teorie e

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i modelli possono farceli capire. Ma la scienza funziona bene quando tra fatti e teorie c’è un forte dialogo, quando le teorie fanno predizioni empiriche specifiche che possono essere essere messe a confronto con i fatti e i fatti vengono illuminati e spiegati da teorie. Forse nella scienza cognitiva certe volte ci sono troppe teorie e modelli e troppo pochi fatti empirici. Questo è collegato con l’interdisciplinarietà, un’altra cosa buona della scienza cognitiva. Qui il rovescio della medaglia è che con tante discipline che vengono chiamate in causa nella scienza cognitiva si rischia di non entrare veramente in contatto con nessuna di esse e perciò di rimanere in un limbo empirico, ignorando l’enorme patrimonio di conoscenze che le discipline tradizionali hanno accumulato e continuano ad accumulare sui fenomeni che studiano. Anche cercare di capire la mente riproducendola in un sistema artificiale ha il suo rovescio della medaglia. Quando si costruisce un sistema artificiale non sempre è chiaro se lo si costruisce perchè serve a capire meglio come è fatta e come funziona la realtà, perchè quel sistema artificiale può servire a risolvere problemi pratici e a produrre tecnologie utili, oppure semplicemente perchè è divertente e creativo inventarsi cose. Ci sono evidentemente legami molto stretti tra queste tre diverse attività ma certe volte si vorrebbe che fosse più chiaro quali sono i criteri da applicare per valutare quello che si è costruito. Io credo che la scienza cognitiva, in tutte le sue versioni, abbia dato contributi importanti alla nostra conoscenza del comportamento umano e continuerà a darli, specie se emergeranno in primo piano i collegamenti tra la mente e la sua base biologica da un lato e la sua espressione nelle strutture collettive e nelle società dall’altro. Però, come tutte le cose umane, la scienza cognitiva ha i suoi rovesci della medaglia. Il nostro compito è di tenere la medaglia dal lato dritto.

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Pensiero e Azione: roba per macchine di Orazio Miglino, II Università di Napoli

Il tentativo di costruire macchine intelligenti e viventi ha convogliato l’interesse ed il lavoro di studiosi, ricercatori e tecnici provenienti dalle più disparate discipline. Tale impresa, in funzione degli obiettivi e del retroterra culturale dei protagonisti (ed anche dalle cordate di interessi accademici ed industriali), viene di volta in volta etichettata come Cibernetica, Intelligenza Artificiale, Vita Artificiale, Robotica, Connessionismo, Scienza Cognitiva, ecc. Comunque, al di là delle sfumature tecniche/teoriche, le motivazioni dichiarate che spingono il lavoro di ricerca e sviluppo in questo campo sono fondamentalmente due: a) la possibilità, tramite la costruzione di macchine, di dettagliare e formalizzare teorie scientifiche sul vivente; b) imitare i sistemi naturali per realizzare prodotti da usare nella vita quotidiana. In realtà esiste anche una motivazione più profonda e spesso poco dichiarata: la voglia di creare. Vale a dire la pulsione a realizzare oggetti che potranno vivere di vita autonoma ad immagine e somiglianza degli esseri viventi. Forse questa volontà di dar vita alla materia inerte, presente da sempre nella storia dell’uomo, è il fattore principale di stimolo dell’interesse del grande pubblico ai temi di Intelligenza Artificiale. D’altra parte c’è da dire che la storia della costruzione delle macchine intelligenti è stata spesso un susseguirsi di insuccessi e di elusioni di aspettative fantascientifiche. In effetti stiamo ancora aspettando il robot maggiordomo che alla cibernetica degli anni cinquanta appariva a portata di mano. È vero, si sono costruite macchine che sconfiggono al gioco degli scacchi il campione del mondo. Ma, come ha fatto notare in un titolo di un suo famosissimo articolo Rodney Brooks (capo del laboratorio di Intelligenza Artificiale al MIT di Boston), “Gli elefanti non giocano a Scacchi”. Vale a dire: siamo sicuri che il giocare a scacchi sia la massima espressione dell’intelligenza? Se si, come mai non riusciamo a costruire macchine che si comportino come degli esseri viventi, come per esempio gli elefanti, ritenuti inferiori? A quest’ultima domanda si risponde invocando deficienze del nostro livello tecnologico attuale (Ah! Se avessimo dei computer più potenti!!) oppure delle forti carenze della nostra conoscenza sul mondo e sull’uomo. Comunque, a prescindere dalle varie posizioni, la riflessione ed il dibattito culturale è particolarmente accesso e affollato di protagonisti grandi e piccoli. Infatti, analizzando la recente produzione italiana di settore, balza all’occhio l’estremo eclettismo dei contributi. Si va da libri tecnici (veri e propri manuali di informatica e ingegneria elettronica), ad opere di rilevanza scientifica, a saggi di riflessione filosofica che a volte sono attraversati da sottili venature mistiche. In questo scritto cercheremo di estrarre dal calderone in ebollizione alcuni pezzi particolarmente riusciti che, a parere di chi scrive, ben rappresentano i vari “sapori” del menù complessivo. Innanzitutto è da segnalare la bella opera di Vernon Pratt intitolata “Macchine Pensanti. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale”. L’autore introduce il lettore non esperto ai temi di intelligenza artificiale adottando una prospettiva storica. Parte infatti dalla logica filosofica di matrice scolastica e approda al progetto settecentesco di Liebniz di meccanizzare i processi di ragionamento umano. Da questo punto di partenza il discorso costruito da Pratt si dipana con ordine andando a toccare alcuni momenti fondamentali della storia del pensiero e della tecnica. In particolare, l’autore, individua due nuclei di evoluzione delle aspirazioni di Liebniz: il progetto di Babbage (XIX secolo) e quello di Turing (XX secolo). La possibilità di individuare gli antecedenti storici di alcuni sviluppi recenti è, forse, il maggior pregio di quest’opera. Inoltre il libro è arricchito da numerose tavole e fotografie che fanno toccare con mano quanto cammino è stato fatto in questi ultimi duecento anni. C’è da dire che Pratt dando molto peso alla logica formale nello sviluppo delle cosiddette macchine pensanti ha, di fatto, mantenuto sullo sfondo il ruolo della biologia e delle neuroscienze che da sempre hanno orientato la ricerca in intelligenza artificiale. Comunque, la lucidità

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intellettuale di Vernon Pratt evita di infondere al lettore una falsa identificazione tra Pensiero e Logica formale. Anzi nel capitolo finale viene introdotto un interessante approccio su ciò che viene ritenuto “intelligente” : «…Noi dobbiamo tentare di immaginare alternative a quel concetto di intelligenza che influenza il nostro lavoro quotidiano oggi, ma che appartiene ad un quadro di idee che sicuramente passerà, come i suoi predecessori…» (pagina 303, op. cit.). Vale a dire che le nostre definizioni sono relative ad un contesto culturale e di possibilità tecnologiche in continuo fermento, ciò che oggi viene identificata come attività intelligente potrebbe non esserlo domani. Da tutt’altra prospettiva è da collocarsi l’ormai classico La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva dello psicologo britannico Philip Johnson-Laird. In questo caso, l’autore fornisce un quadro abbastanza esaustivo di quello che, grazie al computer, si è riuscito a conoscere (ed a simulare) dei meccanismi della mente umana. Infatti, Johnson-Laird, con una prosa divertente e divertita porta con mano il lettore ad affrontare temi centrali della psicologia come la visione, la memoria, l’apprendimento, il concetto di coscienza ecc. Il tutto ovviamente secondo un’ottica “cognitivista”. Vale a dire secondo un approccio tipicamente costruttivista: un’attività mentale viene compresa e spiegata solo quando è possibile ricondurla ad un processo (modello) ricostruibile mediante una macchina da calcolo. Uno dei capitoli più belli riguarda il ragionamento deduttivo. Johnson-Laird, in queste pagine, introduce la sua ormai famosa teoria sui “modelli mentali” in modo semplice e chiaro. Un processo di ragionamento deduttivo mette in relazione delle premesse con delle conclusioni. La veridicità delle premesse è la condizione necessaria (ma non sufficiente) delle validità delle conclusioni. La derivazione logica di teoremi da un insieme di assiomi iniziali è un classico caso di ragionamento deduttivo. In genere, una psicologia di matrice prettamente formalista ritiene che il ragionamento deduttivo si realizzi attraverso l’applicazione più o meno fedele di regole logiche riconducibili a strutture formali astratte (come per esempio l’algebra di Boole). Johnson-Laird per spiegare i meccanismi di ragionamento deduttivo ha introdotto dei processi mentali che ricorrono alla esplicita rappresentazione (in termini di immagini visive) di scene e situazioni. In tal caso, il ragionamento non avviene mediante l’applicazione di regole logiche formali astratte, ma su peculiari processi psicologici detti appunto “modelli mentali”. L’opera di Johnson-Laird, come sopra accennato per l’opera di Pratt, è fortemente orientata in senso mentalistico. Infatti, i modelli basati sulla neurofisiologia e sulle dinamiche cerebrali sono tratteggiati e riassunti in una ventina di pagine (all’interno della sezione dedicata all’Apprendimento, Memoria, Azione) che certamente non fanno giustizia dell’enorme lavoro di ricerca che ne è alla base. La scelta è sicuramente comprensibile, Johnson-Laird oltre ad essere un ottimo divulgatore è un attore importante della ricerca internazionale per cui sarebbe eccessivo attendersi un’equidistanza epistemologica con approcci da lui poco apprezzati. In Oltre la mente modulare Annette Karmiloff-Smith, una psicologa de La Jolla University di San Diego, usa la prospettiva cognitivista per costruire un’originale sintesi di diverse teorie psicologiche (modularismo fodoriano, costruttivismo piagetiano, innatismo, connessionismo). Il lavoro si fonda su un obiettivo principale: portare all’attenzione degli psicologi e teorici di Intelligenza Artificiale il ruolo fondamentale dello sviluppo nella manifestazione delle cosiddette attività intelligenti. In effetti una caratteristica fondamentale di ogni essere vivente è rappresentata dal cambiamento: tutto è in movimento ed in continua trasformazione. Eppure questa banale considerazione è spesso negletta nei modelli di Intelligenza Artificiale (almeno quelli più tradizionali). Spesso le attività cognitive vengono rappresentate come strutture immutabili che tendono a fotografare il livello cognitivo umano ad un particolare stadio (infantile, adulto, senile ecc.). È anche vero che negli ultimi anni, grazie al connessionismo, si è cominciato ad affrontare il ruolo dello sviluppo nella costruzione dell’intelligenza. I sistemi connessionisti, infatti, tramite particolari formalismi matematici, simulano l’attività del sistema nervoso in continua interazione con l’ambiente esterno. Il tipo di interazione governa il cambiamento della struttura interna di tali

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sistemi. In tal senso si afferma che i modelli connessionisti sono strutture che “apprendono” (ovvero si modificano nel tempo). Purtroppo, lo stato dell’arte del connessionismo è estremamente orientato alla produzione di micro modelli che tentano di studiare fenomeni molto circoscritti (come per esempio il riconoscimento acustico dei fonemi) e soprattutto in maniera avulsa da una teoria dello sviluppo cognitivo generale. Il contributo della Karmiloff-Smith si inserisce proprio in questo contesto. L’autrice sfrutta le potenzialità simulative del connessionismo per costruire un’ardita sintesi tra teorie psicologiche in forte contrasto tra di loro. In sostanza, si tende di far incontrare il modularismo fodoriano con il costruttivismo piagetiano. Vale a dire quanto di più distante possa esistere nell’attuale dibattito scientifico. Da un lato Fodor propone una concezione della mente come fondamentalmente organizzata e strutturata in moduli cognitivi visti come i mattoni costitutivi dell’architettura della mente. Tali moduli sono fissi ed immutabili nel tempo e le uniche dinamiche previste sono quelle del tempo di maturazione e, ovviamente, dal livello di interazione tra i moduli. All’opposto la teoria piagetiana propone una mente in continua evoluzione in cui il raggiungimento di alcune abilità cognitive condiziona inevitabilmente tutta l’architettura interna. Nella visione piagetiana la mente è un tutto indivisibile che si modifica ed adatta all’ambiente non per compartimenti stagni ma globalmente. La Karmiloff-Smith contesta a Fodor l’eccessiva staticità della sua concezione ed a Piaget l’estremo globalismo e propone una terza via. Senza addentrarci nei dettagli del pensiero della Karmiloff-Smith si può sicuramente affermare che l’opera rappresenta l’introduzione di una teoria di ampio respiro sull’intelligenza e sullo sviluppo dell’intelligenza che sta orientando l’attuale ricerca in psicologia ed in intelligenza artificiale. Paul M. Churchland in La natura della mente e la struttura della scienza si pone un obiettivo molto simile a quello della Karmiloff-Smith: usare l’artificiale come terreno di costruzione di un ampia teoria In questo caso, l’autore tenta di dare una lettura dell’epistemologia scientifica in termini di concetti e processi mutuati dalle neuroscienze ed in particolare dai modelli artificiali, i sistemi connessionisti, che simulano la realtà neurofisiologica. L’orientamento materialista dell’opera è evidente. Churchland tenta di rileggere i processi cognitivi in termini di attivazione di gruppi neurali, apprendimento come modificazione neurale ecc. In sostanza cerca di dare un’alternativa alla posizione fortemente mentalistica della scienza cognitiva. In questo senso, Churchland si pone dal punto di vista opposto a quello di un Johnson-Laird: la mente non esiste (e non può essere né studiata, né simulata), se non come prodotto di un oggetto fisico che si chiama cervello. Per cui le caratteristiche e le leggi fisiche che sostanziano e governano un sistema nervoso non sono un dettaglio, ma diventano il punto centrale da cui partire sia per costruire delle macchine intelligenti che per spiegare processi cognitivi come quelli implicati nella costruzione di teorie scientifiche. Indipendentemente dalle diverse posizioni di ogni singolo autore, le opere riportate e brevemente commentate fino a questo punto, sono il prodotto di accademici. In realtà il tentativo di costruire macchine intelligenti varca ampiamente i limitati confini della ricerca istituzionalizzata. È ovvio, che gli ambienti industriali siano molto interessati all’impresa. Ma da questa sponda vengono oggetti concreti certamente non libri e riflessioni. Certo c’è da chiedersi se un libro abbaia più impatto sulla nostra cultura di un prodotto ben progettato e (soprattutto) ben pubblicizzato. Ma questa domanda esula dagli obiettivi di questo scritto. Un’area che sta a cavallo tra la divulgazione scientifica, la futurologia e le avanguardie mass-mediologiche è un altro terreno di fertili spunti per la riflessione sulle discipline dell’artificiale. In questo ambito l’opera più innovativa e pirotecnica è, a parere di chi scrive, “Out of Control” di Kevin Kelly. Già dal titolo l’autore compie una precisa scelta di campo: si propone di affrontare le macchine che sebbene siano il frutto di un progetto umano sfuggono al controllo dell’uomo e cominciano ad avere vita proprio. Il grande pregio dell’opera di Kelly è quello di usare un linguaggio semplice, comprensibile ed alcune volte ironico nell’affrontare argomenti complessi. Il

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libro è un’introduzione ad una molteplicità di approcci, idee, progetti, prodotti che sono accomunati dal fatto di tendere a costruire un universo artificiale parallelo al nostro mondo, per cui il lettore viene introdotto in un vorticoso turbinio di proposte: Sistemi dinamici complessi, Vita Artificiale, Robotica Evolutiva, Realtà Virtuale, Reti Telematiche ecc. Il tutto è sostenuto dalla penna di Kelly che con leggerezza presenta degli oggetti ostici attraverso una dettagliata descrizione dei loro creatori. È questa la chiave di volta dell’intera trattazione dell’opera: prima gli uomini, poi gli oggetti. E per uomini si intende sia chi ha creato, sia chi dovrà competere e convivere con le nuove tecnologie. Certo, l’entusiasmo e la partigianeria dell’autore per il nuovo e l’innovazione è particolarmente evidente. Ma forse questa comunicazione calda permette ad ogni lettore di appassionarsi e di prendere posizione su temi che altrimenti apparterebbero alle categorie: “roba da ingegneri” o “roba da psicologi”. Ma attenzione, come ogni buona medicina anche quella prodotta da Kelly ha delle controindicazioni ed effetti collaterali. Controindicazioni: leggete ogni dichiarazione di effettiva realizzabilità ed uso quotidiano di una particolare tecnologia come una possibilità tutta da verificare. Effetti collaterali: credere acriticamente alle tesi dell’autore vi potrebbe causare una pericolosa forma di misticismo tecnologico leggermente venato di new-age. Bibliografia Churchland P. M. (1992). La natura della mente e la struttura della scienza. Il Mulino: Bologna Jonson-Laird P. N. (1997). La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva. Il Mulino: Bologna. Karmiloff-Smith A. (1997). Oltre la mente modulare. Il Mulino: Bologna Kelly K. (1996). Out of Control. Urra Apogeo S.r.l.: Milano Mantovani G. (1995). Comunicazione e Identità. Il Mulino: Bologna Pratt V. (1990). Macchine Pensanti. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale. Il Mulino: Bologna