Gaspare Armato - Appunti della storia

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Interviste ipotetiche a personaggi storici importanti e gente comune

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Gaspare Armato vive e risiede a Pistoia. Per contattarlo: [email protected] Sito internet: www.babilonia61.com

Ha pubblicato: -Epistemi, poesie, Albatros Editrice, 1983 -41 mesi di guerra, saggio storico, Mazzotta editore, 1983 -Ex novo epistemi, poesie, Lalli editore, 1983 -Piante mediterranee per giardini, saggio, Edagricole, 1986 -Giardini al mare, saggio, Edagricole, 1990 -Charlette, itinerario di un amore, poesie, Mazzotta editore, 1990, 1^ ed. -Charlette, itinerario di un amore, poesie, Lulu. com., 2007, 2^ ed. -Piante esotiche per climi miti, saggio, Zanfi editore, 1991 -Passeggiando per la storia, dal 1200 al 1800, saggio storico, Lulu.com, 2007

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Alcuni dei premi letterari vinti: - Premio Martin Luther King per la poesia, 1983 - Premio Giuseppe Ungaretti per la poesia, 1983 - Premio Cesare Pavese per la poesia, 1983 - Premio Rebecca-Francavilla M. per la saggistica, 1984 - Premio Jacopone da Todi per la poesia, 1984 - Premio International Award- Malta per la poesia, 1984 - Premio Città di Alanno per la saggistica, 1984 - Premio Città di Pomezia per la poesia, 1985 - Premio Histonium per la poesia, 1990

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APPUNTI DELLA STORIA

GASPARE ARMATO

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© 2008 Gaspare Armato Prima edizione 2008 © Copertina ideata da Maria Catalina Alvarez Tutti i diritti riservati. È vietata per legge la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

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Senza dubbio, anche se la storia dovesse essere giudicata incapace d’altri compiti,

rimarrebbe da far valere, in suo favore, ch’essa è divertente.

(Marc Bloch, Apologia della storia.)

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APPUNTI

DELLA STORIA

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INTRODUZIONE

Quando ero piccolo, il mio sogno ricorrente era quello di viaggiare per il tempo, con un apparato ultramoderno pieno di connessioni, fili, chips, circuiti e ogni sorta di attrezzatura fantascientifica. Vaneggiavo a occhi chiusi con l’idea di accomodarmi in una speciale poltrona, indossare una sorta di casco, scrivere delle date su una tastiera, manovrare qualche pulsante, e come per incanto essere catapultato nell’epoca da me prestabilita. Ero tutto eccitato! Tuttavia il sogno non terminava qua. Seguiva con la caratteristica che era mio compito andare a intervistare persone più o meno famose: re, imperatori, duchi, principi, ma anche pittori, contadini, architetti, letterati, cittadini. Stranamente ritornavo a casa con un taccuino, un taccuino di colore a volte bianco a volte nero, che attraversava anch’esso fisicamente un’ideale spazio-temporale, pagine piene di appunti e schizzi, che, riordinandoli, li mandavo a un immaginario quotidiano, un foglio che li avrebbe pubblicati poco dopo.

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Che affascinanti le fantasie dei bambini! A volte mi chiedo se in esse non vi sia già un po’ di futura realtà, come presentimento dei tempi che verranno. Adesso, che in un certo qual modo non sono più un ragazzino, ho ripreso quell’affascinante idea e, immedesimandomi nelle varie personalità, ho cercato di rispondere con cognizione storica a delle ipotetiche domande che avrei rivolto ai miei intervistati. Riunisco in tal modo, in queste pagine, articoli pubblicati su giornali e foglietti d’epoca, che avrebbero dovuto rivelare l’essenza dei miei incontri. Ecco, pertanto, da dove e come nasce la bizzarra idea di questo libro. Certamente non posso dire di essere originale, lungi da me l’idea, in quanto ben altri importanti studiosi e letterati hanno, prima del sottoscritto, affrontato codesto tema. Ho vagabondato, dunque, con l’immaginazione per tutta Europa, per le varie corti, ho incontrato Elisabetta I, Carlo V, Rodolfo II, ho passeggiato per Firenze, per Roma, Urbino, ho desinato con gente comune, ho bevuto tè con architetti e giornalisti, per farla breve, cari amici, ho lasciato lavorare la fantasia a più non posso. Eppure, alla base di questo libro c’è la storia, ci sono idee, azioni e fatti realmente accaduti,

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fatti visti con gli occhi di coloro che li hanno vissuti. Ci sono, quindi, eventi avvenuti nel 1200, nel 1500, nel 1700 e via discorrendo, ci sono particolari noti e meno noti, curiosi e insoliti, insomma c’è la nostra storia, c’è quella storia che tento di descrivere, nei limiti del possibile, con il massimo distacco e il massimo rigore. È un modo, quello dell’intervista, anzi, uno dei tanti modi, per cercare di avvicinare i giovani e la gente in generale alla storia, alla comprensione del passato, alla consapevolezza che quegli episodi hanno, ancora oggi, un imprescindibile valore e che si ripercuotono sul nostro modo di vivere. Per cui, senza coscienza storica non si può affrontare sapientemente il presente, quel presente che a volte ci sfugge, che critichiamo e rifiutiamo senza saperlo analizzare con cognizione di causa. Alla fin fine, le nostre decisioni sono conseguenza dell’accaduto, giacché la vita è un continuo divenire, spesso in un insieme di corso e ricorso, di un ciclo, di una rotazione quasi periodica. Dunque, le interviste, anche se inventate, illustrano in modo semplice il carattere di un personaggio, la sua epoca, il suo dintorno, la sua mentalità, le sue scelte, i suoi dubbi, rivelando altresì il lato umano.

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Fra duecento, trecento anni, ugualmente noi, la presente società, l’attuale realtà sarà fonte di ricerca del futuro storico che investigherà particolari e dettagli del nostro modus vivendi, del nostro modo di pensare, per intendere il perché delle nostre decisioni. Probabilmente avrà documenti ben precisi, studi minuziosi, elaborati, libri e cronache che lo aiuteranno e faciliteranno la sua analisi, ma pur sempre, alla base di tutto, resta la curiosità del sapere, la curiosità senza la quale la vita sarebbe un piatto vuoto. Per concludere, in queste pagine c’è quella storia che tuttavia impregna la nostra quotidianità che ci accingiamo ogni giorno a sognare come migliore. Gaspare Armato Pistoia, piacevole giugno 2008.

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GIUSEPPE DA SETTIGNANO

(1265- ?) Mio padre diceva sempre che nella vita bisogna essere amici di tutti, che bisogna dialogare con tutti i gruppi sociali, siano questi alti o bassi, di qua o di là, del nord o del sud, dell’est o dell’ovest. Diceva che la bellezza della vita sta nell’universalità del particolare, nell’indipendenza della dipendenza. Parole che, da piccolo, a malapena riuscivo a capire e che ora, giunto alla soglia dei cinquant’anni, entrano in me con una forza preponderante e distinguono il mio carattere, il mio modo di relazionarmi. E nel mio lavoro ho sempre cercato di seguire il suo consiglio. Cosicché mi sono trovato a mio agio in piacevoli chiacchierate anche con persone comuni, persone semplici, lavoratori, spesso ingenui, analfabeti, persone che lottano per sopravvivere onestamente. Tento di capire come stanno, quali problemi hanno, cosa pensano, cosa li preoccupi, come fanno a vivere con quel poco che la vita offre.

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Giuseppe da Settignano, quinto figlio di una numerosa famiglia, è un contadino toscano, nato appunto a Settignano, vicino a Firenze, nel 1265, cresciuto in campagna e che attualmente è andato a vivere in città, con la speranza di guadagnare qualche fiorino in più e condurre una vita più comoda. Suo padre, buon uomo, oramai vecchio e alla soglia dei sessant’anni, era contrario, desiderava rimanesse con lui ad aiutarlo nei lavori dei campi, ma, si sa, i giovani cercano sempre nuove avventure, nuove soluzioni. L’unica istruzione che ha ricevuto è stata quella trasmessa verbalmente dai suoi genitori, gente illetterata, come la maggior parte di coloro che vivono fuori città, non avendo frequentato nessuna persona colta in grado di insegnargli a scrivere e leggere. Di conseguenza, nessuna istruzione, a parte una buona educazione e un modo di fare serio e rispettoso. Giuseppe è garbato, cortese, dedito al suo lavoro, rispettando il suo superiore, anche se, afferma, questi non capisce un bel niente del proprio mestiere. Incontrai Giuseppe in una taverna a Firenze, nell’ora del suo riposo, desinando e parlando animosamente con i suoi amici. Lo avevo visto altre volte, giacché era venuto a casa mia a realizzare dei piccoli lavoretti di riparazione,

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per cui mi fu facile scambiare con lui alcune parole. D.: Giuseppe, come va? Giuseppe: Che vuoi che ti dica, si tira a campare. E tu? Quei bugnati che ti ho fatto, sono garbati a tua moglie o no? D.: Sì, tantissimo. Addirittura desidera che tu continui per tutto il perimetro della casa. Non ora, magari un giorno, i fiorini se ne vanno presto dal portamonete. Però, dimmi, questo benedetto fiorino funziona o no? Giuseppe: Oddio con questo fiorino! E chi l’ha visto? Dicono che è di 24 carati, oro di 24 carati... mi pagano con il soldo... quando mi pagano. D.: Ormai sono anni che circola, mi sembra dal 1250. Lo accettano tutti, finanche fuori le mura, è entrato nel commercio internazionale. Giuseppe: Inter... che? Guarda, fammelo vedere. Beh, lasciamo stare! Gli affitti sono aumentati, un mio amico paga 80 soldi l'anno per un'abitazione con bottega, accipicchia, non ti sembra troppo, ma siamo matti! Comprare un maiale ci vogliono 120 soldi, una pecora costa 60 soldi, dove

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andremo a finire di questo passo... non si può più mangiare. 1 D.: In ogni modo tu guadagni bene, non ti puoi lamentare. Giuseppe: Bene? Ho lasciato la campagna per venire a Firenze a fare il muratore, con la speranza di racimolare qualche soldo in più. Sai quanto mi danno al giorno? Lo sai? 7 soldi, 7 soldi per 10-12-14 ore di lavoro e alcune giornate si lavora sino a tardi. D.: Sempre più di un manovale che prende 3,5 soldi e di un bracciante, 3 soldi. Giuseppe: Lascia perdere, amico mio. Certe volte preferirei ritornare in campagna da mio padre a lavorare la terra, almeno là non c'è nessuno che mi sgrida e non dipendo dagli altri... là posso avere ortaggi, frutta e verdura fresca a sufficienza e si mangia e si beve meglio. Forse il babbo aveva ragione, avrei dovuto aiutarlo a coltivare quel podere. D.: Mi sembra che tanta gente sia venuta in città in questi ultimi anni. Giuseppe: Finanche i miei fratelli e qualche amico che conosco si sono trasferiti qua,

1 N.d.R.: Una lira equivale a 20 soldi.

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credendo di poter vivere meglio. In ogni modo, chi cambia la vecchia via per quella nuova non sa cosa trova e alla fine non ha né la vecchia né la nuova. D.: Però c'è lavoro! Giuseppe: Sì, è vero. Bisogna dire che questo governo sta facendo innalzare un nuovo giro di mura, allargando strade, preparandone nuove, insomma stanno seguendo la politica del buon decoro.2 L'altro giorno ascoltavo un aiutante di Arnolfo di Cambio dicendo che devono ampliare piazza Santa Maria Novella e piazza Santo Spirito, inoltre pavimentare con lastre di pietra vecchie strade, speriamo! Insomma, il lavoro c'è, è duro, ma c'è. D: Però, tu stai con i guelfi o i ghibellini? Giuseppe: Eh, no! Questo non te lo dico, non voglio grane, anche perché attraversiamo un brutto periodo. Lasciamo da una parte la politica.

2 N.d.R.: In quegli anni, fra il 1260 e il 1300 si costruirono via degli Spadai (già via Martelli), via Cafaggio (già via Ricasoli) e tante altre.

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D.: Un amico mi diceva che a Firenze siete quasi 85.000.3 Pensa, Giuseppe, che una ventina d'anni fa eravate solo 75.000, vi moltiplicate in maniera veloce. Giuseppe: Che voi che sia! Si fa quel che si può, alle mogli non si può dire di no! Adesso devo andare, ho da preparare dei paramenti murari per quel palazzo che siamo costruendo, e poi aspettiamo un carico di pietra serena che viene dalle Cave di Maiano. D.: Allora, Giuseppe, resti a Firenze o ritorni a Settignano a lavorare col babbo? Giuseppe: Ovvia, resto, resto, ho ancora lavori da finire. I miei amici sono tutti qua, inoltre mio padre dice che si è già abituato a stare solo e, domenica scorsa quando è venuto a trovarmi, mi ha portato tanto cibo. Oramai mi sono ambientato e non posso fare a meno di questa città. Firenze è sempre Firenze, la ami anche se lei non vuole essere amata, bensì solo rispettata. Giuseppe inzuppò un ultimo tozzo di pane nel brodo della scodella, poi finì di bere il suo quotidiano bicchiere di buon vino rosso, rosso come il suo viso. Lasciò delle monete sul

3 N.d.R.: Siamo nel 1280.

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tavolo, si alzò, prese i suoi logorati scalpelli, il suo martello, qualche indumento che aveva sulla panca. Salutò qualcuno, infine mi diede una bonaria pacca sulla spalla e si allontanò con passo calmo e tranquillo, per continuare la sua giornata di lavoro. Firenze aveva ancora bisogno di lui e lui di Firenze. Ritornai a casa pensieroso e mentre scrivevo queste righe, seduto in una comoda sedia dietro un raffinato scrittoio, pensavo alla pacata contentezza di coloro i quali si soddisfano con poco, pur dando loro, la vita, dure giornate di lavoro e di sudore, pur avendoli quasi costretto a lasciare le proprie case, le proprie famiglie alla ricerca di un sogno da avverare, quel sogno che sperano realizzare per cambiare in meglio la loro esistenza.

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FEDERICO DA

MONTEFELTRO (1442-1482) Con la mia infelice intelligenza non penetravo il mistero del perché non riuscivo a incontrarmi con Federico da Montefeltro. Malgrado tutti i miei sforzi e tentativi, qualcosa ci bloccava: cosa impediva il nostro incontro? Più pensavo, più la mia mente restava senza risposte. Trascorse il tempo e con esso la speranza di conoscere il Duca, ma lui restava pur sempre nella mia mente come un’intervista irrealizzata. Un giorno, oramai passati diversi anni, ricordo bene era una domenica, senza avere ben precise mete, mi incamminai verso Urbino, con il fine di trovare un’idea, un tema, qualcosa da scrivere per il giornale, aspettavo che l’ispirazione venisse dal cielo mascherata in una musa. I casi della vita sono strani, insoliti, spesso indecifrabili: destino volle che mi incontrassi con il professor Pietro, Pietro da Urbino, grande studioso che, proprio in quei giorni stava scrivendo le memorie del duca di Urbino, scomparso da qualche anno.

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Lo trovai seduto, intento a riscaldarsi al tiepido sole, quel pomeriggio di fine aprile. Ci conoscevamo già, perché avevo avuto l’occasione di dialogare con lui a proposito dell’aspetto economico e sociale dell’Italia e della Spagna ai tempi di Filippo II. Giocherellava con un foglio di carta, arrotolandolo e muovendolo qua e là come fosse una palla. Sembrava un ragazzino che si divertiva, distratto, ma nello stesso tempo presente e cosciente che mi stavo avvicinando a lui. Si alzò, ci salutammo, mi diede la mano e una pacca sulla spalla come fossimo vecchi conoscenti. Confesso che lo avrei desiderato come mio precettore sia perché riusciva a presentare la storia in maniera semplice, sia perché non faceva pesare la sua profonda cultura, sia perché aveva un linguaggio chiaro e unico. Ponderava correttamente le sue parole e, tramite gesti, spiegava senza sforzo certi eventi che in realtà erano complessi e ardui da capire. D.: Professore, buon pomeriggio. Pietro: Giovanotto, come va? Che sorpresa vederlo in queste remote parti! Che buon vento la porta?

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D.: Sono in crisi, stavo facendo due passi per cercare un argomento da proporre al giornale per la prossima uscita. Giacché l’ho incontrata, mi piacerebbe scambiare due parole sulla figura di Federico da Montefeltro, posso farle alcune domande? Pietro: Crede che sappia rispondere?4 D.: Certo. Chi era Federico? Pietro: Un Signore, un dotato e intelligente condottiero al servizio della Chiesa e degli Sforza di Milano. Conte di Urbino nel 1444 e nominato duca dal papa Sisto IV, nel 1474. D.: Perché Urbino, in quei tempi, divenne un rilevante centro artistico e letterario? Pietro.: Semplicemente perché Federico amava le arti, la letteratura, amava circondarsi di persone colte, nella sua corte c’erano sempre personaggi famosi che venivano da tutta Italia. Il suo palazzo fu frequentato da gente istruita: poeti, musici, letterati, pittori, scultori. A Federico piaceva dialogare di filosofia, di arte, di letteratura. E lo faceva ogniqualvolta ritornava da una

4 N.d.R.: Pietro sembrava scherzosamente prendermi in giro.

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campagna militare. Desiderava trovare l’armonia, la vera bellezza; era, forse, un modo per riposarsi dalle fatiche belliche, dalle tensioni che riceveva dopo ogni assedio, dopo ogni attacco. Fece quindi costruire quel palazzo come fosse una “città in forma di palazzo”, come dirà Baldassare Castiglione, un luogo di ritrovo. Il suo nido era lo studiolo, dove raccoglieva libri e volumi pieni dl’antica sapienza. D.: Sembra che nel palazzo lavorassero tantissime persone? Pietro: Necessariamente. Federico aveva una corte di circa cinquecento persone, ancora oggi se ne parla e qualcuno lo ricorda. Fra i tanti, aveva quattordici scrivani impiegati negli uffici, quattro professori di grammatica, logica, filosofia, aveva architetti, ingegneri, scultori, c’era Luciano Laurana, Pippo Fiorentino, Fra Carnevale, c’erano anche astrologi, copisti, lettori, maestri di danza, insomma una corte eclettica. D.: Tutti conoscono il suo lato bellicoso, come si combinava il suo essere mecenate con l’arte della guerra?

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Pietro: Bellicoso? Non so se definirei Federico bellicoso. Era solo il suo lavoro, era ciò che sapeva fare bene, era il suo mestiere, quel mestiere delle armi che allora come adesso fa vivere tanta gente. Certo, è più facile parlare di guerra che di cultura, è più facile dire che il duca vinse la battaglia di Cesano o che assediò questa o quell’altra città, la cultura invece interessa a pochi. Eppure, è ricordato come uomo colto, come uomo che seppe lasciare un’impronta nella storia di questa città, e, tutt’oggi, ne godiamo i risultati. D.: Che altro le piace menzionare di lui, cosa trova singolare nel suo modo di fare? Pietro: Come storico, come ricercatore, come studioso del passato, ma anche come semplice essere umano, cerco di comprendere il perché accaddero determinati fatti. Cosicché di lui indago anche il suo lato privato. Si racconta che in estate, quando era a Urbino, si alzava presto, percorreva a cavallo i dintorni, parlava con la gente. Ogni giorno andava a messa, poi concedeva udienza a qualcuno che desiderava parlare con lui. Mentre pranzava c’erano continuamente lettori che lo intrattenevano con Tito Livio o qualche altro autore da lui

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preferito. Poi sorvegliava la giustizia, casi particolari che richiedevano la sua attenzione, desiderava occuparsi personalmente dei suoi sudditi, desiderava il bene del suo popolo, aiutava chi lo necessitava. Finiva la giornata con un ultimo giro a cavallo o a piedi sul calar della sera, seguivano altre letture, la cena. D.: E la sua biblioteca? Pietro: Vasta, assortita, ben rifornita. Raccoglieva libri dei padri della Chiesa: San Gregorio, San Girolamo, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio. Accoglieva libri in latino, greco, ebraico, arabo, ma anche in volgare. Aveva volumi di Dante, Petrarca, Boccaccio, come anche altri autori meno conosciuti. Caratteristico era che la maggior parte erano rilegati in velluto cremisi con fermagli d’argento: e tutti manoscritti. D.: Dunque fu un personaggio importante? Pietro: Senza ombra di dubbio. Fu un uomo poliedrico, mecenate, pieno di interessi e ciò che si proponeva desiderava farlo bene, sia fosse un assedio a una roccaforte, la costruzione del suo palazzo o un qualunque lavoro quotidiano. E fino all’ultimo giorno

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della sua vita, quel 10 settembre 1482, dette il meglio di sé stesso. D.: Di che morì il duca? Pietro: Di malaria. D.: Grazie professore. Parlare con lei è stato davvero avvincente, lei è riuscito a farmi vivere nella sua Urbino del 1400. Pietro: Giovanotto, la storia è fatta anche di piccoli dettagli, piccoli particolari che servono a completare un quadro, servono a ultimare un mosaico, anche se spesso non ci si riesce. Talvolta bisogna avvicinarsi al lavoro per meglio dettagliarlo, a volte allontanarsi per ponderare l’insieme e ricercare l’armonia. In ogni modo, tutto fa parte di un grande quadro che stiamo colorando, poco alla volta e ognuno di noi come meglio sa fare. Buona serata, amico mio. Torni presto. Arrivederci. Pietro riprese a giocare con la sua pallina di carta, tirandola con l’indice qua e là, mentre con l’altra continuava salutandomi con un genuino sorriso. Rimasi un paio di giorni, albergato in una buona camera, bighellonando per la città, parlando con la gente, ascoltando talvolta

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qualche anziano che tramandava ricordi e aneddoti su Federico e che diceva essere, il Duca, ancora presente, pronto a proteggerli dai loro nemici. Tanto aveva lasciato d’eredità!

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TOMMASO DE’ CAVALIERI

Quando visitai Roma per la mia prima volta, agli inizi del 1530, questa brulicava di gente di tutte le razze, spagnoli, francesi, italiani, siciliani, arabi, ognuno con la loro lingua, le loro usanze, le loro monete, i loro modi di vivere e vedere la vita. Un guazzabuglio difficile da capire, che, in un modo o nell’altro, riuscivano a convivere. Qualche anno prima, nel 1527, le truppe dei lanzichenecchi di Carlo V, l’avevano devastata e portato alla decadenza: Roma era una città in rovina che aveva bisogno di essere riorganizzata e necessitava grandi opere e insigni artisti per risollevare il suo eterno nome. Ebbene, nei primi giorni di questo corrente anno 1533 5 sono ritornato nell’Urbe per riprendere gli studi riguardanti l’architettura della Roma imperiale, studi che mi affascinano e mi servono a preparare un libro illustrato.

5 N.d.R.: Il papa è Clemente VII.

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Tempo addietro un amico mi aveva parlato di Tommaso de’ Cavalieri, aiutante e braccio destro, a Roma, del grande Michelangelo, insigne pittore e scultore toscano. Poi, un giorno, lo vidi nella bottega del maestro, era lì che silenzioso abbozzava qualcosa su dei fogli stropicciati, schizzi di angeli, di santi, cose del genere. Caso volle che a fine gennaio del 1533, lo incrociassi per strada, mentre lui andava con passo veloce verso la bottega del Buonarroti. Era assorto nei suoi pensieri e aveva con sé un recipiente pieno di latte. Lo raggiunsi, lo salutai, mi riconobbe. Scambiammo quattro chiacchiere come fossimo vecchi amici. D.: Come va Tommaso? Tommaso: Guarda chi si vede! Bene e tu? Che ci fai da queste parti? D.: Bene, grazie. Sono a Roma per completare degli studi. Dove vai di fretta, cosa porti? Tommaso: Corro verso la bottega del maestro, sembra abbia lavorato tutta la notte a scolpire. Gli porto del latte, a lui piace tanto, specialmente se è appena munto ed è tiepido.

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D.: Possiamo percorrere la strada insieme e nel frattempo ti faccio qualche domanda? Tommaso: Certo, dimmi. D.: Queste botteghe dei maestri funzionano o no? Tommaso: Certo che funzionano e lavorano tanto, specialmente quelle famose. Basta essere organizzati, avere alle spalle una corporazione, essere difesi da un’autorità, come a Firenze dagli Speziali. Purtroppo viviamo tempi difficili, tutti si dicono esperti senza aver mai praticato. È necessario entrare, specialmente quando si è giovani, in una bottega, fare l'apprendistato, praticare, studiare, capire ogni cosa, insomma avere una minima esperienza. Poi, col tempo, ognuno può aprire la propria bottega. D.: E i clienti come si comportano? Tommaso: Di solito i clienti arrivano già raccomandati da altri, stipulano un contratto con il maestro, alcune volte verbalmente, ma se possibile scritto. Su quel foglio ci sono tutte le descrizioni di come un'opera deve essere eseguita, i personaggi da rappresentare, il periodo di consegna, le dimensioni, e tanti altri particolari, addirittura i colori da adoperare e dove comprarli, o che tipo di

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marmo deve essere, di che volume. Dopodiché il maestro si mette all’opera, fa degli schizzi, prepara un bozzetto e, alla fine, anche noi apprendisti possiamo aiutare. D.: Dunque, lavoro per tutti! Tommaso: Il lavoro è fatto da tutti, certo, ognuno mette la sua parte, sebbene sia realmente il maestro a eseguire i punti e i dettagli più rilevanti e delicati. Noi prepariamo i colori, li mescoliamo; nel caso si debba dipingere un quadro, allestiamo la tela, stendiamo il fondo, magari interveniamo nella base delle vesti o in determinate zone che lui ritiene possiamo noi eseguire. D.: E la sera? Tommaso: Beh! Alla fine della serata piace riunirci, chiacchierare sul lavoro eseguito. Ci intratteniamo discutendo di politica, di arte, di letteratura, di poesia, ma anche di donne. A volte, capita che restiamo a banchettare sino a tardi e allora il vino corre come l'acqua nel Tevere. E, ti assicuro, sono le più belle serate. D.: Dunque non di solo lavoro vivete voi artisti?

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Tommaso: Artista è una parola troppo grossa, siamo semplicemente artigiani, creatori di oggetti utili, oggetti che possono abbellire una parete, una dimora, una chiesa. Di veri artisti ce ne sono pochissimi, siamo comuni mortali, quanto meno noi aiutanti. D.: I pagamenti? Tommaso: Un amico che lavora da un maestro poco noto dice che questi riceve in cambio grano, olio, vino, in breve beni in natura, mentre il nostro Michelangelo o coloro già affermati sono retribuiti con monete d'oro, anche se talvolta in ritardo. D.: E voi? Tommaso: Gli apprendisti non sono pagati, anzi, siamo noi che dobbiamo qualcosa a lui, giacché ci insegna e ci fa partecipi del suo lavoro. Ti confesso che io non sborso neanche una moneta: che resti fra noi! Michelangelo spesso ci racconta che quando entrò a lavorare nella bottega del Ghirlandaio era costui che gli dava sei fiorini. Io sono contento di stare nella sua bottega, accanto a lui, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. D.: Sembra che tu lo ammiri.

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Tommaso: Come non potrei! Mi sta insegnando a vedere il bello, a creare il bello, a riprodurlo, a darle un'anima. Lui con me è davvero speciale. Pensa, caro amico, che talvolta, di domenica, andiamo sul Campidoglio o nel Foro a dipingere insieme. Ci piace conversare, passeggiare. Sto iniziando a vedere la vita con i suoi occhi, con la sua mentalità, con la sua grazia, mi fa notare la differenza fra guardare e vedere. Qualche giorno fa mi regalò due sonetti, che aveva dolcemente scritto per me: mi sono commosso, erano dei versi davvero belli. D.: Eccoci arrivati. Guarda, il maestro è seduto. Esamina la sua opera con quel profondo sguardo che lo distingue. Tommaso: Quando osserva con attenzione, nessuna cosa lo distoglie, tutta la sua concentrazione è focalizzata sull'oggetto, come se soggetto e oggetto fossero la medesima materia. Bene, ti lascio. E' stato piacevole parlare con te, speriamo rivederci presto. D.: Grazie Tommaso, sei davvero speciale. Arrivederci. Tommaso: Grazie a te, amico. Ciao.

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Rimasi a fissare qualche minuto Michelangelo, mentre Tommaso lo salutava e gli porgeva il recipiente del latte. Il maestro gli diede una pacca sulla spalla, bevve con calma, ritornò con lo sguardo al suo marmo, lo sfiorò con le mani. Poi si girò verso la strada, mi fissò, accennò un sorriso, si toccò la lunga barba, mi salutò con un delicato gesto. Me ne andai contento per le strade di Roma, pensando alla grande fortuna che aveva Tommaso de’ Cavalieri alla sua giovane età, appena 23 anni, aver incontrato un grande artista.

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CARLO V (1500-1558)

Carlo V era figlio di Filippo I d’Asburgo e di Giovanna la Pazza, nipote da parte di madre di Ferdinando II il Cattolico e Isabella I, mentre dalla parte del padre lo era dell’imperatore Massimiliano I d’Austria. Si trovava pertanto in possesso di un immenso impero avendo ereditato nel 1506 dal padre i territori della Borgogna e delle Fiandre, da Ferdinando, nel 1516, il vasto regno spagnolo e alla morte del nonno paterno i domini austriaci. Ecco quindi il personaggio che mi accingevo incontrare, pochi mesi prima della sua morte. Il giorno era soleggiato, poche nuvole ombreggiavano la Spagna centro-meridionale, la mia carrozza camminava lenta e strada facendo riflettevo sul fatto che vi sono interviste preparate in modo timoroso, ve ne sono altre che per ottenerle bisogna smuovere mari e monti, poi ve ne sono altre ancora che sembrano così facili da non crederci. Fra queste ultime devo annoverare proprio quella

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a Carlo V, così semplice e spontanea da non sembrare vero. Il nostro colloquio fu sincero, l’imperatore si sentiva a suo agio e le mie domande cercavano di scavare nel suo interno per capire meglio chi fosse. Ero arrivato da lui all’ora concordata e, benché fosse già disponibile, s’intrattenne qualche minuto con il suo segretario, dettandole una lettera da mandare al figlio. D.: Buon giorno, maestà. Come ricorda la sua infanzia? Carlo V: Buon giorno. In verità crebbi senza i miei genitori, dal momento che mi ritrovai orfano all'età di sei anni. Mia zia paterna, la buonanima di Margherita di Borgogna, mi allevò come se fossi stato suo figlio. Mi diede un insegnamento scientifico e umanistico accostato a un buon esercizio fisico. Le confesso che le lingue non mi piacevano, mentre mi dilettavo nel tiro con l'arco e nell'equitazione, mie vere passioni in cui spesso mi rifugiavo. D.: Cosa lo colpiva maggiormente di sua zia? Carlo V: Era una donna forte ed erudita. Era riuscita a riunire attorno a sé poeti, letterati, pittori, in sostanza la cultura della

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sua epoca. Maturai con loro, con le loro idee, con il loro insegnamento, con la loro educazione. La zia era un'abile diplomatica, amica di tutti, conseguiva mettere d'accordo addirittura fazioni estremiste. Sapeva quel che voleva e lo otteneva a qualunque costo. Ricordo ancora una lettera che mi mandò poco prima della mia elezione dove mi consigliava il modo di agire e ricordo bene che, mi diceva, bisognava lottare duramente contro certi nemici dello Stato. D.: Maestà, le è stato criticato aspramente aver ridotto in cenere Roma, nel 1527, quando i suoi lanzichenecchi attaccarono una città quasi indifesa. Non le sembra aver esagerato? Carlo V: Ebbene, talvolta le cose non vanno come dovrebbero andare. Certamente lei ha ragione, forse abbiamo ecceduto. Purtroppo i miei capitani non hanno saputo mantenere ordine e disciplina, anche perché erano mesi che non si pagava il soldo alla truppa, e poi non è facile comandare 14-15.000 soldati poco inclini all'ordine. Loro hanno approfittato delle ricchezze di Roma, della situazione, della loro rabbia contro i cattolici e noi, giustamente, siamo stati tacciati di barbari.

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D.: Lei riceve oro e argento dalle terre della Nuova India, ma sembra non bastare mai. Carlo V: Che vuole! Ho dovuto intraprendere troppe guerre, troppe lotte, troppi scontri, il mio regno ha avuto, e ha ancora, nemici da fronteggiare, iniziando dalla vicina Francia. Oggi, mantenere, rifornire, assoldare un buon esercito costa troppo, troppo. Qualche anno fa, se ricordo bene fra il 1538 e il 1542, abbiamo avuto un deficit di 3.153.000 ducati, dovuto anche a certi interessi che dovevamo pagare ai banchieri per prestiti da noi ottenuti. D.: Il nostro Andrea Doria è stato ai suoi servizi, che opinione ha di lui? Carlo V: Indubbiamente un buon comandante. A lui, qualche anno fa, credo sia stato il 1535, delegai la spedizione in Africa. Ritornò, dopo aver sconfitto a Tunisi i turchi, con circa 20.000 schiavi cristiani liberati. Un eccellente risultato, un grande risultato ancora oggi ineguagliato. D.: Si racconta che ci fu tanta violenza. Carlo V: Quella necessaria, bisognava concedere i tre classici giorni di saccheggio ai

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nostri soldati che si erano distinti nell’assedio.6 D.: Lei ha sempre odiato gli eretici. Carlo V: Sì, e li ho perseguiti con forza, determinazione e coraggio. Non hanno ragione di esistere... la religione è una sola, quella cattolica, il resto è semplice eresia. Ho detto finanche a mio figlio Filippo di appoggiare la Santa Inquisizione, di aiutarli e favorire loro ogni cosa necessaria affinché si mantenga in buona vita l’unica vera religione. D.: E' vero che le piace la birra e la buona cucina? Carlo V: Noto che le notizie corrono per le corti europee! Sì, adoro bere calici della mia buona birra, magari fredda. Amo il pasticcio di anguille, il pesto di capponi con il latte e, appena sveglio, qualche zucca e un po' di spezie mi danno forza ed energia. I medici dicono che mangiare esagerato fa male alla mia salute, sfortunatamente il cibo è uno dei

6 N.d.R.: Si racconta che già nel primo giorno di saccheggio furono uccisi più di diecimila fra bambini, donne e anziani.

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miei punti deboli... sebbene questa maledetta gotta mi tormenti spesso. D.: Maestà, un'ultima domanda. Si vocifera che lei possa ben presto abdicare a favore di Filippo. Quanto c'è di vero? Carlo V: Sono stanco, sono vecchio, questo malessere arroventa le mie giornate, tutti vogliono la mia morte... beh! Avrà capito che non sono una persona ben gradita. 7 D.: Grazie Maestà, è stato gentile a rispondere. Riporterò le sue risposte ben presto nel nostro foglio e le farò avere una copia. Le auguro una lunga vita. Carlo V: Grazie a lei, giovanotto. Prima di andarsene la prego di brindare con me. Proprio ieri mi hanno portato una nuova botte di birra. Beviamo dunque alla vita! Per inciso, Carlo V ebbe la fortuna di essere stato educato nelle Fiandre dall’umanista Adriano di Utrecht - che sarà poi papa Adriano VI - e consigliato dall’abile

7 N.d.R.: Gli occhi di Carlo V diventarono lucidi.

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funzionario Mercurino da Gattinara: due figure di rilievo nella sua vita giovanile. Questa intervista è apparsa sul foglio proprio poco dopo che Carlo V aveva abdicato a favore del figlio Filippo II: era il 1556. Si ritirò a vivere gli ultimi mesi della sua vita in una villa presso il monastero di San Jerònimo de Yuste, in Spagna. Il suo commiato sembra essere stato: "Addio, figli miei, addio, vi porto per sempre nel più profondo della mia anima". Lui resterà nella mia memoria come uno dei personaggi più interessanti che abbia mai intervistato.

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PIETRO DA URBINO (1530-?)

Viviamo una nuova e promettente epoca,8 un'epoca piena d’innovazioni, d’interessanti scoperte, d’invenzioni. Questo XVI secolo sta cambiando le maniere di relazionarci con la realtà, basta solo pensare che qualche decennio fa il nostro buon Colombo, grazie ai regnanti di Spagna e dopo aver navigato per tre mesi, giunse in una terra abitata da popoli sconosciuti, le Nuove Indie. La scoperta rivoluzionò la vita quotidiana di tutti noi. Poi, agli inizi del 1500, tante guerre, tanti misfatti hanno interessato l'Europa, ma anche l'Italia. Siamo andati a parlarne con un precettore di Historia dell'Università di Urbino, il professor Pietro da Urbino, che ha pubblicato diversi libri di analisi economica. Nei suoi scritti sono presenti personaggi che lo hanno, in un certo qual modo, influenzato, parliamo di Leonardo Bruni (1370-1444), che scrisse, fra le altre cose, i dodici volumi Historiae Florentini populi libri XII del 1420,

8 N.d.R. Seconda metà del 1500.

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poi Niccolò Machiavelli (1469-1527) con Istorie fiorentine del 1525, continuando con Francesco Guicciardini (1483-1540) di cui si rammenta Storia d’Italia, redatta fra gli anni 1537 e 1540, tutti ricercatori che hanno cambiato il modo di vedere e analizzare la Storia. Pietro è una persona facile da riconoscere, oltre a una folta e bianca barba, ha sempre sottobraccio una cartella piena di fogli, viaggia con loro, vive con loro, dorme con loro. Non vuole rivelarne il contenuto, seppur occhi indiscreti affermino essere gli appunti per un suo prossimo lavoro dedicato alla vita economica e sociale di Urbino durante l’epoca di Federico da Montefeltro, che lui afferma influire ancora sulle decisioni odierne di mezza Italia. Dopotutto, il professore, nelle sue lezioni, sostiene che il passato storico vive occulto nelle decisioni del presente, manifestandosi nei momenti meno desiderati. È convinto che certi avvenimenti si ripetano, abbiano un loro corso e ricorso, sebbene con altri modi e sotto altre forme. Ai suoi allievi ripete spesso che bisogna avere una sicura comprensione storica del passato, capirlo, leggerlo con occhi distaccati, mai criticarlo, semplicemente accettarlo e rimediare agli eventuali errori che perdurano.

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D.: Buon giorno, professore. Come va? Pietro: Buon giorno a lei, giovanotto. Assetato, poiché ho appena finito la mia lezione, parlando di Venezia per ben due ore. Le sembra giusto alla mia avanzata età stare tuttora a insegnare invece di dedicarmi allo studio, alle traduzioni, alla scrittura? D.: Lei è giovane, professore! Però, cosa c’entra Venezia? Pietro: Sì, Venezia è stata ed è ancora oggi una delle maggiori città europee. Grazie ai suoi traffici marittimi, mantiene rapporti commerciali con mezzo mondo. È riuscita a creare non solo una fiorente industria nel bergamasco che si occupa della seta, ma anche un’altra dedicata alla produzione delle armi, lassù nel bresciano. I veneziani si danno da fare. D.: Genova non è da meno, penso! Pietro: Certamente no. I Grimaldi, i Doria, gli Spinola, i Centurione hanno solidificato le loro attività di banchieri. Sono riusciti persino a prestare denaro a Filippo II, insomma sono entrati nel commercio spagnolo. Pure Genova è forte, è solida, ha una buona marina mercantile e militare.

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D.: Dunque gli spagnoli sono messi male economicamente. Pietro: Le ultime notizie dicono che Filippo II ha dovuto dichiarare bancarotta, e sono già diverse volte che lo fa. L'oro e l'argento che gli arriva dalle colonie oltreoceano non riesce a soddisfare la sua sete di avere, la sua sete di combattere: troppe guerre insanguinano il suo regno. È in guerra contro i protestanti, gli ebrei, ha mandato soldati nei Paesi Bassi... D.: In che modo influisce sull’economia italiana? Pietro: Ebbene, da un lato la condiziona positivamente, in quanto i banchieri e i commercianti si arricchiscono sempre di più, da un altro negativamente, giacché i domini spagnoli qua da noi attraversano una profonda crisi economica. Milano, per esempio, sonnecchia, è in una fase di recessione, vuoi per la passata guerra franco-asburgica, vuoi per la forte pressione fiscale degli spagnoli. D.: Si salva Napoli, professore, o no? Pietro: Napoli? A Napoli si sta verificando che i nobili e gli aristocratici stanno

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accumulando grandi estensioni di terreno, parliamo di latifondismo, si è persa l'antica solidezza commerciale agricola. Un quarto delle terre coltivabili è in mano della Chiesa, il resto è stato ceduto in feudo a signori italiani e spagnoli, sicuramente dietro compenso di denaro. Stessa cosa accade in Sicilia, terra di cereali. Se lei crede che questa sia salvezza! D.: Insomma, siamo messi male? Pietro: Chi più, chi meno, anche se la Toscana ultimamente ha trasformato Livorno in un buon porto commerciale, mentre il ducato di Savoia lo ha fatto con Nizza e Oneglia. La Sardegna, poi, è povera di risorse, incolta, infeudata da diverse famiglie spagnole che la sfruttano. D.: Ultimamente ho potuto notare che i prezzi aumentano frequentemente. Pietro: Fino a quando quel Filippo II non riesce a frenare il suo sperperare, tutto andrà male. Le analisi, le ultime analisi economiche, dicono che l'oro della Nuova India degli spagnoli, oro che questi trasformano in monete, è speso disordinatamente, senza principio, senza senso. Quelli, mi riferisco agli spagnoli, comprano tutto, non

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producono nulla, cosicché a costante produzione e aumentando la richiesta i prezzi inevitabilmente rincarano. Che cosa succede? Succede che al povero contadino o all’umile massaia i soldi non bastano più per comprare viveri e beni di prima necessità, questi lievitano mese dopo mese. I ceti inferiori sono stati, e lo sono tutt'oggi, penalizzati dalla perdita di valore d'acquisto dei loro salari. D.: Beh! Speriamo che le cose migliorino. Pietro: Lo dubito, giovanotto. Filippo spende per il suo esercito e la sua corte più di quanto dovrebbe, più di quanto entra nelle sue casse. Suo padre, Carlo V, gli ha lasciato una parte importante dell’impero e lui lo governa malamente, lo dicono tutti, amici e nemici. D.: Grazie professore, è stato gentile a rispondere alle mie curiosità. Pietro: Non credo siano curiosità, penso siano fatti reali che toccano ognuno di noi, la nostra vita quotidiana. Sono notizie che tutti dovrebbero sapere, essere divulgate, il popolo deve conoscere la realtà dei fatti. Grazie a lei, comunque.

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Ritornai perplesso verso la mia città, sperando che le cose in un futuro sarebbero migliorate. Nello stesso tempo, pensavo all’arte, agli artisti, meditando sulla notizia che qualche giorno prima mi avevano dato: il nostro Luca Cambiaso, buon pittore, genovese di Moneglia, era stato chiamato alla corte di Filippo II per affrescare la chiesa del Monastero dell’Escorial. Chissà se la pittura poteva intenerire il cuore di un sovrano e renderlo più riflessivo!

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ELISABETTA I

D'INGHILTERRA (1533-1603) Nella mia carriera d'intervistatore ho avuto la fortuna d'incontrare personaggi di tutti i tipi, dittatori, re, imperatori, regine, musici, pittori, scultori, ma anche gente comune, lavoratori, contadini, piccoli commercianti, impiegati, insomma tutti coloro che hanno vissuto nella storia, storia intesa come insieme di eventi, di fatti, di misfatti, come romanzo da raccontare. Ognuno di loro aveva e ha una particolarità, un determinato carattere, un peculiare modo di fare, di vivere la vita, così come la regina d'Inghilterra Elisabetta I, regnante della dinastia Tudor, figlia di Enrico VIII e della sua seconda moglie Anna Bolena. Ciò nondimeno, andiamo con ordine. Per raggiungere l’Inghilterra viaggiai per terra e per mare, attraversando in pieno inverno il canale della Manica che la separa dal resto dell’Europa. Credevo che non sarei mai arrivato, poiché un’infuriata tempesta, con onde così alte che non avevo mai visto, costrinse la nostra nave a ritornare nel porto

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francese per ben due volte. Confesso avevo un po’ di paura. Finalmente, dopo tre giorni di maltempo, una mattina di cielo sereno e mare quasi calmo salpammo con vento propizio e raggiungemmo le coste britanniche con una buona dose di coraggio. Alloggiai a Londra, città mercantile per eccellenza e in piena crescita. Ben presto, grazie a degli amici influenti, ebbi il piacere di parlare con la regina. Domanda: Maestà, come ricorda suo padre? Elisabetta: Grande uomo con una forte personalità. Lo ricordo come un essere imponente, era alto quasi due metri, dai bei capelli rossi. Gli piaceva ballare, amava ascoltare musica, bere buon vino e... anche le donne. Era duro di carattere sia con i sudditi che con la famiglia. Mia madre mi raccontava sempre un particolare che la colpì, non essere venuto, lui, al mio battesimo. D.: Lei è riuscita a dare all'Inghilterra un lungo periodo di pace e prosperità, tutti le vogliono bene e la considerano una regina davvero speciale. Ci descriva una sua giornata tipica, cosa fa, a che ora si alza?

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Elisabetta: Normalmente mi sveglio alle ore 6.30-7.00 del mattino, faccio una breve passeggiata nel giardino per prendere un po' d'aria. Alle 9.00 vengono i miei segretari, firmo alcune lettere, poco dopo il mio consigliere privato si avvicina per comunicarmi le ultime notizie. Beh! Sono una donna e ho le mie debolezze, mi piace ballare, così verso le 11.30 una mezzoretta di svago, qualche passo di danza e a mezzogiorno si serve il pranzo. Gli ambasciatori solitamente li ricevo il pomeriggio intorno alle 14.00 e alle 17.00 banchetto di Stato o cena privata con balletti o spettacoli musicali: la cultura a corte non deve mai mancare, addolcisce gli animi e rallegra la vista! Non è ancora finita: alle ore 20.00, altri documenti di Stato, ulteriori visite, magari private, infine alle 23.00-24.00 vado a riposare. D.: Una giornata intensa, maestà! Com'è diviso il suo palazzo, come ha distribuito le sue stanze? Elisabetta: Noto che lei è curioso, non dovevamo parlare della mia politica estera? Comunque... nella Sala del Trono faccio le mie apparizioni pubbliche davanti alla corte; poi vi è la Sala delle Udienze, dove ci troviamo in questo momento, qua ricevo

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ambasciatori, delegati, rappresentanti, ma anche gente comune, i miei sudditi; infine gli appartamenti privati, qualche camera, qualche soggiorno solo per me, alla fine mi basta ben poco per vivere. D.: Le dispiace se parliamo brevemente della sua vita privata? Elisabetta: Tutti sanno che non amo parlare di me stessa, né delle mie faccende private. In ogni modo, se questo serve a chiarire qualche ambiguità, ben vengano tali domande. Mi dica. D.: Ufficialmente, maestà, lei ebbe tanti pretendenti, ora, alla sua venerabile età, guardando il passato, chi crede l'avrebbe fatta felice? Elisabetta:9 È vero, tanti erano i miei pretendenti: Filippo II di Spagna, che inseguiva il sogno di annettere anche l'Inghilterra ai suoi possedimenti e di avermi come alleata; poi c'era quel pazzo di Eric di Svezia, realmente matto d'amore per me, a cui dovetti dirgli per ben 4 volte che non

9 N.d.R.: Lunghissimo momento di riflessione, sembrava che la regina non volesse rispondere.

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desideravo avere nulla a che fare con lui; poi ancora, il re di Danimarca, mi lasci ricordare che era davvero comico, andava in giro con un corpetto di velluto su cui c'era ricamato un cuore trafitto, poverino! Poi l'arciduca Carlo d'Austria, questa è una storia particolare. E sicuramente qualcun altro che non ricordo. D.: Maestà, raccontano che lei abbia scritto una lettera al conte di Leicester, Robert Dudley, suo consigliere, in cui si dice che aveva un... Elisabetta:10 No comment! D: Un'ultima domanda, come giudica le opere di Shakespeare? Elisabetta: è un genio, è un grande scrittore, un prolifico commediografo. Gli avevo proposto di pensare a una commedia da eseguire in corte, lui, da ubbidiente suddito, dopo un paio di settimane, ha rappresentato "Le allegre comari di Windsor". Bella, davvero interessante.

10N.d.R.: M’interruppe. Diventò rossa, sembrava al punto di cacciarmi via.

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D.: Maestà, la ringrazio per il tempo concessomi e mi scusi per qualche domanda poco pertinente. Elisabetta: Non si preoccupi, il popolo deve sempre sapere la verità, dopotutto io vivo per la mia Inghilterra, questo è uno dei motivi per il quale non mi sono sposata, perché amo tanto la mia patria che non ho tempo per gli uomini. Arrivederci, buon uomo. D.: Arrivederci, maestà. A questo punto desidero trascrivere un paio di righe di quella lettera che si dice, ripeto, si dice, scritta da Elisabetta, in cui si rivela un certo sentimento d'amore per Robert Dudley: " (...) Il Signore ha voluto allontanarti da me, unico uomo che io abbia mai amato. Di fronte al tuo fascino, Rob, la mia volontà di vivere e morire senza uno sposo andava sempre più indebolendosi e questo non avrebbe portato che guai. (...) " Rimasi perplesso dopo quell'intervista, vi era un'aria misteriosa nelle riposte della regina, eppure è una donna forte, coraggiosa, sicura di sé, una donna che con il suo forte carattere ha portato l'Inghilterra a essere una delle prime potenze d'Europa, che ha aiutato

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artisti, che è riuscita a riorganizzare e rimodernare lo stato. Con queste conclusioni mi avviai verso il porto, dopo aver sostato ancora per qualche giorno nella città, notando i floridi commerci e una brulicante attività economica. L’Inghilterra stava potenziando la sua flotta, le sue navi commerciavano con mezzo mondo, il popolo sembrava felice di avere Elisabetta come regina, pareva amarla e rispettarla. Partii di buon’ora, lasciandomi alle spalle le incantevoli e bianche scogliere di Dover che illuminavano con la loro luce il verde dei campi. Stavolta il buon tempo permise una piacevole attraversata.

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RODOLFO II (1552-1612)

Quindici minuti, solo quindici minuti durò l'intervista con Rodolfo II d'Asburgo, figlio e successore di Massimiliano II, nella sua dimora di Praga. Ma andiamo con ordine, anche perché ritengo interessante descrivere il percorso che mi condusse da lui. Orbene, un giorno mi trovavo a Mantova ed ebbi il privilegio di chiacchierare con Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato. La sua corte è continuamente affollata di pittori, musici, scultori, artigiani, scrittori; lui, amando l’armonia e il bello, è ammaliato intrattenendosi con le cose affascinanti della vita. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto intervistare Rodolfo II, suo cugino. Vincenzo mi guardò sorpreso e mi rispose che non era facile parlare con lui, giacché sempre indaffarato a ricevere artisti da tutte le parti del mondo, non avrebbe avuto tempo da dedicare alle mie domande. Il tema cadde nel dimenticatoio, finché un giorno mi mandò a chiamare informandomi

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che doveva portare degli oggetti all'imperatore e mi chiedeva se volessi accompagnarlo. Non esitai, era l’occasione giusta. Caricati i muli, i carretti, le carrozze, partimmo di buona ora e dopo un lungo viaggio giungemmo a Praga al castello di Hrad: era il 2 agosto 1589. Poco tempo dopo fummo ricevuti. Rodolfo ringraziò Vincenzo per i bei quadri e le stupende selle che gli aveva donato. Il duca mi presentò, invitandolo a rispondere alle mie domande. Rodolfo: Va bene, solo quindici minuti. Devo andare a rivedere i tuoi preziosi doni, Vincenzo. D.: Grazie maestà, è davvero un piacere poter parlare con lei. Rodolfo: Mi dica, giovanotto, che le interessa sapere? D.: Maestà, cosa cerca nella pittura? Rodolfo: La bellezza, l'armonia, il pacifico accostamento dei colori, l'espressione della vita. Adoro Correggio, Tiziano, oltre a Brugel... che dire della Dama dell'ermellino del vostro Leonardo da Vinci o Gli amori di Giove del Parmigianino. E non solo la

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pittura, anche la scultura o un mobile ben intarsiato o una semplice sella è arte se fatta con gusto, delicatezza e passione. D.: Corrono voci che tanti artisti sono da lei ospitati? Rodolfo: Certo, è vero. Una trentina di loro dormono in un'ala del palazzo, lavorano giorno e notte, alcuni addirittura hanno portato con loro la famiglia. Mi piace averli attorno e visitarli per notare i loro progressi. E poi ve ne sono alcuni che hanno il permesso di desinare con i nobili e qualcuno con me. Non vedo nulla di strano. L'importante è che lavorino in silenzio, odio i rumori, detesto i frastuoni. D.: Maestà, ha attorno a lei anche alchimisti, astronomi, astrologi: è attratto dalle arti magiche, le piace il mistero? Rodolfo: Giovanotto, la vita va investigata, scrutata, va indagata. Loro sono alla ricerca della Pietra Filosofare, studiano il segreto per trasformare il comune grezzo metallo in prezioso oro. Tycho, il buon Tycho Brahe, ci sta provando. Anche suo figlio Arturo lo aiuta e dicono essere vicini alla scoperta, dicono che bisogna insistere, un giorno o

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l’altro sono sicuri riusciranno nel loro intento. D.: Nel frattempo i Turchi sono alla sua porta. Rodolfo: Tranquillo, tranquillo. Non amo le guerre, mi piace sempre colloquiare e risolvere i problemi a tavolino. Le guerre sono da persone deboli. E poi, se proprio devo combattere, ho tanti amici che mi sosterranno.11 D.: Maestà, cosa le affascina collezionare? Rodolfo: Di tutto, tutto ciò che è bello e attira l’attenzione. La mia passione viene da quando ero giovane. Adesso ho la possibilità economica di farlo, ho la gente che mi aiuta, ho il luogo dove mettere i miei oggetti. Inoltre tante persone sono in giro per l'Europa a ricercare sempre qualcosa per me. Taluni dicono che è una mia ossessione e che, certe volte, trascuro i problemi dello stato, per dedicarmi al collezionismo. Mi piace toccare un oggetto, annusarlo, soppesarlo, scrutarlo,

11N.d.R.: Vincenzo Gonzaga qualche anno prima aveva lottato contro i turchi, per conto dell'imperatore.

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mi piace sapere che è mio. Che vuole, anch'io ho tanti difetti! E se costa caro e non posso comprarlo, mi faccio prestare i soldi da Meisel, da quel ricco ebreo che è Mordechai Meisel, lui i soldi ce li ha e ben volentieri me li anticipa. D.: E Arcimboldo, maestà, che pensa di lui? Rodolfo: Ah! Lui è straordinario, è il più eccentrico dei miei pittori, ha un’immaginazione davvero unica, ha il dono dell’allegoria, del grottesco. Pensi che sta preparando dei bozzetti per dipingermi come se fossi un insieme di pere, mele, ciliegie, uva, melograni, cetrioli, fiori... È anche un grande organizzatore di feste, spettacoli, balli in maschera. Mah! Lui è unico. Adesso devo andare,devo andare dal mio leone.12

D.: Grazie Maestà, è stato davvero gentile e cortese con me. Rodolfo: Con tutti, giovanotto, io sono cortese con tutti. Arrivederci.

12N.d.R.: L'imperatore aveva un leone nel suo giardino e quando poteva andava a trovarlo per dargli da mangiare.

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D.: A presto. L'incontro con Rodolfo II, oltre a farmi conoscere nuove terre, mi diede un nuovo parametro per analizzarlo, avrei dovuto cambiare il mio giudizio su di lui e cancellare dalla mia mente le dicerie che correvano sul suo conto. Dicono che non presta attenzione agli affari dello stato, lo accusano di non saper mai decidere o procrastinare la soluzione a un problema, forse è vero, ma lui è fatto per l'arte, l'alchimia, l'astrologia, la pittura, è nato per degustare il bello, è nato per essere un mecenate. E grazie a lui, artisti e letterati possono palesare le loro doti, arricchendo la vita di coloro che sanno approfittare delle loro virtù. In fin dei conti, ognuno di noi deve scegliere la strada che più gli si addice.

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PIERRE LE PAUTRE (1648 ca.-

1716)

Avevo da qualche tempo preso appuntamento con Jules Hardouin-Mansart, famoso architetto francese, ma purtroppo il re Luigi XIV lo aveva chiamato improvvisamente a corte per dei lavori. Seppi più tardi che stava progettando di ampliare la reggia di Versailles. Cosicché mi trovai a Parigi, girovagando qua e là, cercando qualcuno da intervistare. Bisognava che preparassi un articolo da pubblicare per la prossima uscita del foglio e non avevo la minima idea di cosa fare. Il destino venne in mio soccorso e, grazie a un collega francese, ebbi la fortuna di conoscere Pierre Le Pautre, decoratore d'interni e collaboratore di Hardouin-Mansart. Pierre è figlio del ben conosciuto Jean Le Pautre (1618-1682), autore di numerose

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incisioni13 che solo ai giorni d’oggi stanno avendo popolarità. Dopo averci scambiato, tramite il suo lacchè, un paio di lettere per concordare il nostro incontro, una soleggiata e fresca mattina di primavera, seduti in un comodo caffè a Montparnasse, iniziammo a chiacchierare come fossimo vecchi amici. D.: Pierre, non ti sembra che ultimamente si stia esagerando, nel senso che negli arredamenti domina la frivolezza? Pierre: Non credo, l'arredamento è lo stesso di qualche decennio fa: molti quadri alle pareti, qualche grande tavolo al centro della stanza, poche e rigide poltrone, suppellettili un po' ovunque. Ben poco è mutato. D.: A mio avviso, in questo inizio '700 qualcosa sta cambiando. Pierre: Forse sì. In ogni modo, i saloni sono diventati più spaziosi e ariosi, grandi specchi abbelliscono i muri dei salotti, le pareti sono con frequenza adornate da motivi vegetali in stucco color oro. Oltre a ciò si usa tappezzare

13 N.d.R.: Le sue raccolte contengono disegni di architettura, ebanisteria, oreficeria e collezioni di motivi ornamentali.

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i mobili di damaschi e broccati, si adoperano le specchiere, che servono a riflettere la luce e illuminare maggiormente, e nello stesso tempo dare un senso di grandezza. D.: Ho visto certi lampadari davvero enormi, impressionanti. Pierre: Sfavillanti, direi. A me piacciono molto, danno un senso di pienezza e distinzione, oltre che a riempire uno spazio. D.: E i soffitti, Pierre? Pierre: Sono affrescati con soavi scene mitologiche e allegoriche, alcune volte carichi di immagini, ma, alla fine, mi sembra, di piacevole fattura. D.: Quale é la differenza fra la decorazione di inizio '600, la cosiddetta Barocca, e quella di oggi? Pierre: C'è stata una piccola evoluzione nell'idea di arredare gli interni, anche se il concetto è più o meno uguale. Una volta i mobili erano semplici adorni, erano pochi, si era austeri nel loro uso. Adesso - qualcuno dice stiamo eccedendo - questi devono essere comodi, leggeri, utili. A me incanta decorare con piccoli divani, mobiletti intarsiati o laccati, sedie imbottite, mensole con

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candelabri e orologi, qualche cineseria, qualche statuetta di porcellana, insomma l'arredamento, a mio avviso, deve garbare, ma nello stesso tempo essere forte e vistoso, non importa se sovrabbondante e superfluo, gli occhi devono riempirsi vedendo masse elegantemente accostate. D: E i marmi? Pierre: Francesi! Sto adoperando, come del resto quasi tutti, marmo francese: abbiamo messo da parte quello italiano. D.: Tu lavori anche con Jules Hardouin-Mansart. Pierre: Sì, stiamo eseguendo lavori nel castello di Marly e nella reggia di Versailles. In questa ultima, abbiamo creato una sala con grandi specchi.14 Tutte le nostre energie sono rivolte a ideare ambienti che possano stupire, affascinare e, perché no, essere anche sfarzosi. Jules ha ben progettato le due possenti e poderose ali, quella settentrionale e quella meridionale: il risultato è davvero sbalorditivo, il re è contento.

14N.d.R.: In realtà è una galleria.

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D.: Mi sembra, forse sbaglio, siete di due concezioni stilistiche diverse? Pierre: Non tanto. Jules predilige il Barocco classico, mentre io talvolta enfatizzo l'uso di certi elementi. Alla fine nasce una via di mezzo, un qualcosa armonioso, di equilibrato, bello a vedere, potrei dire sontuoso, ne siamo contenti ambedue. D.: Grazie Pierre per avermi dedicato del tempo. Ti auguro una buona giornata. Pierre: Grazie a te, anche per offrirmi il tè. Ritorna presto. Adieu. Prima di andare via ebbi la fortuna di gironzolare per i giardini di Versailles, giardini progettati e realizzati dall’architetto francese André Le Nôtre (1613-1700) negli anni fra il 1662 e 1669. Notai immediatamente un’eleganza insolita, semplice, armoniosa, dove risaltava una rigorosa simmetria e un gioco di figure geometriche che si distinguevano per la fine composizione. Era bello passeggiare per cespugli ornamentali e fiori, ascoltare il melodioso scorrere dell’acqua nelle fontane, nei ruscelli, ammirare e toccare sculture, busti, statue che adornavano angoli e luoghi sapientemente disegnati. André era famoso, e lo è ancora, per

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aver inventato il giardino alla francese, stile che esporterà anche all’estero, in Inghilterra progettando parchi reali come Hampton Court e Greenwich, a Torino il Palazzo Reale. I suoi lunghi e alberati viali rettilinei e il suo creare larghe viste prospettiche caratterizzano, insieme agli elementi in precedenza tratteggiati, il suo ideale di giardino. E di ciò Pierre Le Pautre ne era a conoscenza, giacché diceva spesso che il giardino è il prolungamento della decorazione interna. Non immagino che cosa ne avrebbe pensato invece André Le Nôtre. Lasciai Parigi con gli occhi pieni di bellezza, pieni di forme fastose, lussuose e, mentre viaggiavo, cercavo d’immaginare come potrebbe essere lo stile francese nelle nostre case.

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FEDERICO IL GRANDE (1712-

1786) Federico Guglielmo II di Prussia è figlio di Federico Guglielmo I di Prussia e di Sofia Dorotea di Hannover e nipote di Federico I di Hohenzollern. Nel 1733, si sposò con Elisabetta Cristina, figlia di Ferdinando Alberto II di Brunswick. È sovrano dal 1740. Il suo modo di governare e amministrare il suo regno, oltre alla fama che circola per le corti di tutta Europa, mi spinsero, curioso come sono, a chiedergli un appuntamento, ma, vuoi per i suoi impegni bellici, vuoi perché preso a riordinare lo Stato e le recenti conquiste, vuoi per le frequenti parate militari, solo qualche giorno fa ebbi il privilegio di rivolgergli qualche domanda. Giunsi all'appuntamento in orario, giacché lui tiene tanto alla tempestività, essendo stato educato alla maniera militare. Lo incontrai seduto dietro la sua scrivania, dettando, una dopo l'altra, lettere ai suoi ministri.

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Domanda: Maestà, non sarebbe più facile riunire il Consiglio dei Ministri, invece di dedicare intere ore a scrivere a ciascuno di loro? Federico: Certamente, ma solo una volta l'anno, anche perché i problemi, invece di chiarirsi, si complicano, vengono fuori rivalità individuali, per cui si perde l'unità d'azione del governo. Oltre al fatto che è impossibile mantenere il segreto sulle decisioni che si stanno per prendere. In fin dei conti, loro devono semplicemente eseguire i miei ordini.15 D.: E vero che lei non delega? Federico: Delegare è di coloro che sono deboli e hanno paura del lavoro, degli incompetenti. A me piace controllare tutto personalmente, fino ai bottoni delle divise, ai conti dello stato, tutto, devo controllare ogni dettaglio.

15N.d.R.: Federico è solito riunire i ministri una volta l'anno, per comunicare il bilancio e la somma di denaro che hanno a disposizione da spendere.

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D.: Si dice che lei abbia un debole per i Gesuiti? Federico: Diciamo che ho bisogno di gente che insegni, di maestri, di precettori. Non posso affidare l'incarico, come ho dovuto fare certe volte, ai miei militari, loro mi servono altrove. E poi non capisco perché il papa voglia sopprimere la Compagnia di Gesù, mi sembrano persone colte, devote.16 D.: Eppure lei, maestà, è stato criticato per accoglierli? Federico: I vostri governanti non hanno capito nulla di come si dirige uno stato. Io ho accolto i gesuiti e ho costruito per loro delle chiese cattoliche. E se i turchi e i pagani vorranno venire a lavorare qui e arricchire il paese, io costruirò per loro moschee e tempi, perché qui ciascuno deve andare in paradiso alla sua maniera. D.: A proposito dell'esercito, lei dedica tanto tempo a prepararlo, a strutturarlo, a ispezionarlo.

16N.d.R.: Clemente XIV ordinò il loro scioglimento nel 1773.

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Federico: L'esercito è la mia vita, è il mio passato, il mio presente, il mio futuro, è la mia principale preoccupazione, senza di esso non esisterebbe la Prussia. Mio padre, alla sua morte, desiderava si creassero 5 nuovi reggimenti entro sei mesi, ebbene, io ne organizzai 9, tutti bene armati, organizzati, efficienti. Hanno le migliori armi, le migliori uniformi, le migliori razioni, il miglior addestramento, sono sempre pronti a difendere i nostri interessi. D.: Non le sembra strano per un regnante come lei abituato ai campi di battaglia dedicarsi all'arte, alle lettere, alla musica? Federico: Giovanotto, l'una non esclude l'altra. Le mie campagne belliche sono state necessarie per lo spazio vitale del mio popolo, per la nostra sopravvivenza. E non dica che sono stato sempre in guerra, perché sono dieci anni che viviamo in pace con tutti. Parliamo di quadri, invece. Sa che posseggo tre bellissime tele di Leonardo, cinque di Raffaello e nove di Tiziano! A volte mi soffermo ad ammirarle e mi sento tanto piccolo in loro confronto che non riesco neanche a modulare parole e pensieri. Bella l'arte, è una nobile attività, così come le lettere e la musica.

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D.: E Voltaire? Federico: Voltaire, quel birichino! Beh, che dire! Ho una debolezza per lui. Ci siamo sempre mantenuti in contatto, gli scrivo sovente e lui ha la compiacenza di rispondermi. È un grande intellettuale, lo ammiro, mi piace leggere i suoi libri. Ricordo una volta, lo invitai e rimasi con lui tre giorni a parlare dell'immortalità dell'anima, della libertà, del destino e altri argomenti del genere.17 Certamente, abbiamo avuto le nostre piccole discussioni, ma alla fine ci siamo sempre voluti bene. D.: Da dove le viene questa passione per le arti in generale? Federico: Vede, mia madre era una donna molto colta ed ebbi la sorte di essere stato affidato a dei buoni tutori che mi fecero amare la filosofia, la musica, la letteratura francese. Ciò attirò l’ira di mio padre che desiderava che io fossi stato solo un buon soldato. Così, oltre all’arte della guerra ho imparato l’arte vera, quella che appaga i sensi e armonizza i sentimenti.

17 N.d.R.: In questo momento a Federico gli s’illuminano gli occhi.

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D.: Maestà, come si svolge una sua giornata di lavoro? Federico: Lei è curioso! D.: In effetti, maestà. Nondimeno mi sembra importante che il popolo conosca la vita e le quotidianità di un buon regnante, come lei. Dopotutto, la gente si chiede sempre come vive un sovrano, cosa fa, quali sono le sue abitudini. Federico: Ha ragione, bisogna avvicinarsi ai sudditi! Bene, mi faccio svegliare piuttosto presto, alle quattro, barba tutti i giorni, un po’ di cipria sui capelli, indosso la mia divisa militare, i miei stivali. I domestici mi portano la posta, la leggo, nel frattempo sorseggio un buon caffè, magari accompagnato da una frutta... mi piace la frutta fresca. Poco dopo arrivano i miei militari, si parla, si discute, si organizza, si nominano nuovi ufficiali e così via sino a metà mattinata quando giunge l'ora d'ispezionare qualche reparto. Rientro al palazzo, ricevo qualche cittadino che ha qualcosa da dirmi. Poi l’ora del pranzo. Adoro perdermi nei gusti dei vari piatti e nello stesso tempo dissertare su argomenti militari con qualche invitato. Dopodiché un breve riposo pomeridiano, passeggiata con

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uno dei miei cavalli o a piedi, firma della corrispondenza. Nel tardo pomeriggio, quando ho tempo, mi diletto ascoltando musica, qualche concerto, qualche piccola divagazione. La mia cena è solitamente alle dieci di notte, qualche ora dopo vado a letto. D.: Ha già preso il suo caffè? Federico: Sì, ho aggiunto, come mio solito, un po’ di champagne. Abitualmente ne prendo 20-25 tazzine il giorno, sa, mi fa bene, mi sveglia e mi mantiene attivo. Ora devo lasciarlo, ho un appuntamento con Bach. D.: Bach? Johann Sebastian Bach, il compositore? Federico: Certo, con lui. A me piace suonare il flauto. Devo fargli ascoltare una marcia che ho appena composto. Ebbene, arrivederci, ritorni quando vuole. D.: Arrivederci maestà, è stato un piacere dialogare con lei. Federico II si allontanò dalla sala, accompagnato da un generale, con passi cadenzati e decisi. Tuttavia prima di lasciare il suo studio si girò, mi guardò, mi sorrise come volermi dire che guerra e pace sono due

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aspetti della stessa medaglia, di quella medaglia che è la vita e che devono per forza di cose convivere.

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JEAN MICHEL (1745-?)

In questi ultimi anni in Francia, e non solo a Parigi, ma anche a Marsiglia, a Orléans e in altre città, si sta diffondendo l’usanza di stampare piccoli fogli informativi, sottoforma di periodici, che sono distribuiti alla gente, sia per abbonamento sia per acquisto diretto. Nello stesso tempo, gli articolisti realizzano interviste e sondaggi su determinanti usi e costumi della popolazione per analizzare le tendenze, i cambiamenti e l’eventuale sviluppo sociale. Un grande passo avanti nella libera diffusione della cultura! Orbene, premesso quanto sopra, dopo una fitta corrispondenza, sono andato a chiacchierare col collega Jean Michel, vice-direttore dal 1770 del Journal di Parigi, su com'era l'illuminazione nelle strade parigine e come ci si riscaldava proprio alla fine del 1700. Qualche mese fa Jean Michel ha realizzato un'investigazione a tal proposito. Lo incontrai nel suo studiolo, con un bicchierino di absinthium in mano, sorseggiandolo con calma, immerso in mille

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fogli pieni di grafici, curve, cifre, cercando di riassumere la ricerca e poter trarre delle conclusioni. Mi disse che per oltre 3 mesi il suo unico compito fu quello di gironzolare per la capitale, intervistando e parlando con tutti coloro lo potessero aiutare, da negozianti, a gente aristocratica, a cittadini comuni, a nobili, a impiegati, a contadini che venivano a scaricare ortaggi e frutta al mercato centrale. Dopo aver riempito cartelle e pagine di notizie, pensò che fosse tempo rivedere il tutto e preparare un lungo articolo da pubblicare sul Journal, articolo che attirò la mia attenzione e mi spinse a preparare codesto viaggio. D.: Buon giorno, Jean Michel. Grazie per aver accettato la mia richiesta. Mi hanno detto che lei è stato indaffarato, per diverse settimane, a elaborare risultati e dati di quest’analisi, ma... alla fine cosa ne sta venendo fuori? J.M.: Buon giorno anche a lei, collega. Sì, è vero, ho lavorato e continuo a lavorare su questa investigazione da oltre 5 mesi, credo però essere già arrivato al termine. Tante cose interessanti, sono venute alla luce certi fatti poco noti che dovrebbero far riflettere e

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capire che i tempi stanno cambiando e il popolo è più cosciente della propria forza. D.: Per esempio? J.M.: Per esempio, per quando riguarda l'illuminazione, a Parigi c'è stato un netto miglioramento rispetto al 1600. Guardi queste tabelle: nel 1697 avevamo solo 2736 lanterne pubbliche accese di notte, mentre 43 anni dopo, nel 1740, erano ben 6400, un gran salto. Poi nel 1766 siamo arrivati a 7000. Parigi ha più luce notturna, si può passeggiare senza paura di inciampare né di avere brutte sorprese, indubbiamente ci sono ancora tante strade da illuminare, molto lavoro da realizzare, in ogni modo siamo nella giusta direzione. D.: Nelle case in generale, nelle case dei parigini, cosa è cambiato? J.M.: Il progresso è bilanciato. Ciò che avviene fuori spesso accade anche dentro le costruzioni. Parlando con i negozianti, dicono aver avuto un incremento delle vendite di candelabri e di lanterne. Si calcola che ogni abitazione abbia 4-5 candelabri per stanza, sia nel ceto elevato che nel medio. Tutto ciò sembra essere iniziato nella seconda

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metà del 1700, intorno al 1760 e si stima continuare ad aumentare. D.: E a casa sua, per fare un esempio concreto? J.M.: Mia moglie adopera i candelabri a 5 braccia, sono economici e si possono trasportare ovunque, ne abbiamo una decina che illuminano la nostra cucina e il nostro piccolo salotto. Poi se ne porta un paio nella nostra camera, poco prima di addormentarsi. A quell'ora io sono in redazione a correggere le bozze del foglio e lei approfitta per leggere. D.: È noto che nel febbraio del 1695 nel palazzo di Versailles l'acqua e il vino si gelavano nei bicchieri per il forte freddo. Oggi, come ci si protegge da quelle situazioni estreme?

J.M.: Le cose sono migliorate. A fine '600 a Parigi c'era una media di due camini per ogni casa e più o meno uno ogni due stanze, quantomeno nei palazzi dei più ricchi. Nel 1720 quasi ogni ambiente ne aveva uno. Indubbiamente vi sono eccezioni, forse troppe, ma la gente cerca di rendere più vivibile l’ambiente casalingo. Per esempio, su tremila intervistati, quasi nessuno riscaldava

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le gelide camere dei domestici, della servitù. Continuando, e siamo già nel 1770, sono entrate in uso le stufe, mentre in campagna, i contadini adoperano ancora i bracieri, nondimeno qualche casa ha già dei camini. D.: I camini sembrano essere un'invenzione italiana? J.M.: Esattamente. A quanto risulta, furono i veneziani a introdurli verso il 1230, almeno quelli a parete laterale. Da lì si diffusero in Francia e nel resto d'Europa. Le stufe, invece, sono originarie dell'Austria, Svizzera e paesi limitrofi. Qua da noi, non hanno avuto tanta diffusione, ai parigini piace vedere il fuoco scoppiettare, la fiamma rossa e calda, il romanticismo che deriva dallo stare insieme davanti un camino, magari leggendo un buon libro di Voltaire. D.: La legna? J.M.: La legna arriva dai campi, vi sono i legnaioli che vengono in città a venderla con i loro carri, così come vendevano, e qualcuno vende ancora oggi, l'acqua. Chiaramente loro sono avvantaggiati, dico là in campagna, loro hanno tutta quella di cui hanno bisogno.

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D.: Ho sentito dire che il carbone fossile lo adoperate poco. J.M.: Sì, è dal 1600 che è stato vietato il suo uso, qua a Parigi. Abbiamo un'aria troppo inquinata, spesso irrespirabile e il governo ha fatto bene a proibirlo. D.: Quali sono le tue conclusioni, dunque? J.M.: Insomma, diciamo la verità, si sta meglio. Oltre al fatto che quasi tutte le nostre finestre hanno oramai vetri, abbiamo sostituito la carta e la tela oleata. Adesso entra meno freddo, si hanno meno spifferi d'aria, un'abitazione si riscalda prima, le candele non si spengono più per il venticello che entrava. Le nostre case sono fatte con pietra, mattoni, tetti di tegole, sono più sicure e protette. Lei certamente ricorderà la notizia, che fece rapidamente il giro dell’Europa, dell'incendio di Londra del 1666, quell'incendio che bruciò oltre 13.000 case. Ebbene, i londinesi ricostruirono buona parte delle loro case adoperando un’altra volta legno. Come se nulla fosse, come se non avessero appreso dai fatti. D.: La ringrazio per il tempo dedicatomi. Buon lavoro e speriamo vederla dalle nostre parti.

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J.M.: Grazie a lei. Mi fa piacere che queste notizie arrivino anche nel suo Paese. Il mondo sta cambiando, la grande opera dei nostri Diderot e D'Alembert sta avendo successo, le parlo della loro Encyclopédie, tante ricerche si sono intraprese e tanti successi verranno, la Francia sta cambiando, e con essa l’Europa intera. Aveva ragione, Jean Michel diceva il vero, tutta Europa era in agitazione, nuove idee stavano sostituendo il vecchio modo di pensare, la ragione prendeva il potere, i vecchi regimi assolutistici erano in pericolo. Riuscirò a vedere qualche cambio politico?

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VICTOR HUGO (1802-1885)

A soli vent’anni, Victor Hugo pubblicò il suo primo volume di versi, poi seguirono i romanzi Han d’Islanda nel 1823 e Bug-Jargal nel 1826. Poi ancora un’altra raccolta Odi e ballate, 1826; accompagnato dal dramma storico del 1827 Cromwell. Da allora il suo nome è strettamente legato al movimento romantico francese. Fra le tante opere teatrali ricordo Il re si diverte, 1829, Foglie d’autunno, 1831, Le voci interiori, 1837, e tantissime altre. Cosicché, incuriosito dal grande successo delle sue opere, un giorno mi decisi andarlo a trovare. Nondimeno, all’inizio mi fu difficile riuscire intervistare Victor Hugo. In quell'epoca viveva esiliato nella piccola isola britannica di Guernsey. Varie volte gli scrissi; purtroppo, le mie lettere non volevano proprio arrivare. In seguito, grazie un nostro amico comune, ebbi la fortuna di contattarlo tramite questi e lui mi invitò un giorno a incontrarlo. Era la fine del 1867, anno speciale

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per la Francia di Napoleone III, anno dell'inaugurazione della Mostra Universale. Lo trovai in casa quel pomeriggio uggioso e annebbiato, dietro una catasta di libri, libriccini, libelli, fogli sparsi, carta annerita con i suoi pensieri: stava scrivendo. Mi offrì un tè, dei pasticcini e iniziammo la nostra conversazione. D.: Grazie Signor Hugo, ho veramente tribolato per avere il piacere di stare un po' con lei a conversare. Hugo: Grazie a lei per venire a trovarmi in questa sperduta isola inglese. Non capisco come si siano potute smarrire le sue lettere. Sa, io ricevo di continuo corrispondenza, specialmente dopo la pubblicazione, qualche anno fa, del mio ultimo romanzo, I miserabili. D.: Comunque, non importa. Mi piacerebbe iniziare parlando di Parigi, della sua storia, della sua evoluzione, considerando che proprio quest’anno si inaugura la Mostra Universale. Hugo: Che dire! Parigi ha tanto da raccontare, ha una lunghissima storia, una storia seducente. Agli inizi stava tutta nell'isola di Notre Dame, poi ha gettato un

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ponte, come un uccellino che vuole uscire e dà una beccata al guscio, così sotto Filippo Augusto, ha avuto una superficie di settecento arpenti, stupefacendo Guglielmo il Bretone; sotto Luigi XI, un perimetro di tre quarti di lega, entusiasmando Filippo de Comines; infine, nel XVII secolo, ha avuto quattrocentotredici strade e Félibien ne fu abbagliato. Nel XVIII secolo ha fatto la rivoluzione e ha suonato la campana a raccolta, con 660.000 abitanti. Oggi ne ha 1.800.000. È un braccio più grosso, in grado di scuotere una corda più grossa. D.: Quest'anno è stata inaugurata l'Esposizione Internazionale. Cos'è per lei quest'avvenimento, che significa per la Francia? Hugo: Milioni di mani che si stringono nella grande mano della Francia: ecco cos'è l'Esposizione. È anche il mondo che s'incontra. Si chiacchiera un po' insieme. Si mettono a confronto gli ideali. Insomma, un incontro di nazioni, di paesi, di civiltà, è una grande Convenzione pacifica.

D.: Non ho avuto ancora modo di visitarla, ma dicono che partecipino tanti Stati?

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Hugo: Tantissimi, addirittura la lontana Cina, il Giappone, lo sconosciuto Nepal, gli esotici Caraibi, la Prussia, la Crimea, la Finlandia, la Norvegia, la Russia, il Canada. Si parla di 42.217 espositori di tutto il mondo. Tanta strada si è fatta dal 1809, da quella prima esposizione internazionale, allora gli aderenti erano solo 200. D.: Che cosa manca, che cosa avrebbe consigliato lei di fare? Hugo: A quel palazzo d'Esposizione manca ciò che gli avrebbe dato un significato supremo, quattro statue colossali ai quattro angoli, raffiguranti quattro incarnazioni dell'ideale: Omero per la Grecia, Dante per l'Italia, Shakespeare per l'Inghilterra, Beethoven per la Germania e davanti alla porta, nell'atto di tendere la mano a tutti gli uomini, Voltaire, a rappresentare non il genio francese ma lo spirito universale. D.: Come vede il futuro? Hugo: I re si organizzino pure militarmente, diamo loro la soddisfazione di ripeterlo a sazietà: il futuro non è odio, ma intesa; non è il frastuono delle bombarde, è la corsa delle locomotive. È l'affermazione della

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democrazia, della pace, del nostro tempo. Sia benvenuta l'Europa. D.: Però, mi sembra, si espongono anche armi, grossi cannoni, nuovi fucili. Hugo: Purtroppo! La morte è ammessa all'Esposizione. Entra sotto forma di cannone, non di ghigliottina. Per delicatezza. Mi dicono che è stato offerto un bellissimo patibolo, ma lo hanno rifiutato. D.: E la cultura, che gioco ha in tutto questo? E l'editoria? Hugo: Nel 1864 la Francia ha esportato 18.230.00 franchi di libri. I sette ottavi di questi libri sono stati stampati a Parigi. Ecco ciò che completa e incorona Parigi: il suo essere letteraria, il suo essere colta, il suo divulgare liberamente le idee. D.: Indiscutibilmente, tutto è bello dal punto di vista di un romantico come lei, però... Hugo: Però... però la verità sta nei fatti, Parigi è l'incudine della fama. Parigi è il punto di partenza dei successi. Chi non ha ballato, cantato, predicato, parlato sulla scena di Parigi non ha mai veramente ballato, cantato, predicato e parlato. E poi, cari signori, non dimentichiamo che in uno

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stambugio Thèophraste Renaudot ha inventato il giornalismo e in un'ala del Louvre ha prosperato l'Accademia francese: eventi che hanno dato l’avvio a una nuova rivoluzione culturale. D.: Malgrado lei sia in esilio dal 1855, mi sembra che continui ad amare Parigi? Hugo: Parigi è tutto, è economia, è storia, è vita, è cultura. Si ricordi che Dante Alighieri, da studente, ha alloggiato in rue du Fouarre. A Parigi è sbocciata la civiltà, una civiltà cresciuta fra guerre e carestie, basta guardare la storia. Tutto quel che è morto come fatto, è vivo come insegnamento. Soprattutto, non fate la cernita. Contemplate a caso. D.: Un'ultima domanda, ritornerà in Francia? Hugo: Vede, sino a quando non cambia la situazione politica, sono costretto a stare lontano dalla mia Parigi. Sicuramente un giorno tutto migliorerà e allora potrò rivedere i miei boulevards. D.: La ringrazio signor Hugo per il tempo concessomi. Arrivederci.

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Hugo: Grazie a lei per essere venuto sin qua. Il mio viaggio di ritorno fu volutamente lento e tranquillo. Pensavo e ripensavo al timbro della sua voce, calmo, pacato, soave, una voce piena di romanticismo, una voce sicura delle sue idee, una voce che si starebbe ore ad ascoltare. L’intervista a Hugo resta per me una delle più belle interviste che abbia mai fatto, non solo per la profondità del personaggio, ma anche per la forza dei suoi ideali, ideali che bisognerebbe prendere come esempio.

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FRANCESCO GIUSEPPE I

(1830-1916) Francesco Giuseppe è figlio dell’arciduca Francesco Carlo, fratello ed erede dell’imperatore austriaco Ferdinando I. Dopo la rivoluzione del 1848, lo zio Ferdinando abdicò lasciando il trono al fratello, ma questi rinunciò al diritto, cosicché salì al potere Francesco Giuseppe. Signore, lei è il numero 14, viene dopo la Signorina Katharina Schratt che ha il numero 12. Sicuramente saprà che non adoperiamo il 13, è una vecchia usanza. Un'altra cosa, quando esce dal colloquio con il Kaiser, non gli volti le spalle immediatamente, vada indietro pian pianino sino a raggiungere la porta, dopodiché si potrà girare, ma solo sull'uscio. A bassa voce il maestro di cerimonie mi spiegava come comportarmi davanti a Francesco Giuseppe I, imperatore del regno austro-ungarico.

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Attesi il mio turno fissando le due alte guardie davanti alla porta d'entrata del suo ufficio. Erano robuste, immobili, impassibili, con lo sguardo fermo in un solo punto, come fossero statue. L'imperatore giunse puntuale alle nove, come sempre. Entrai alle ore 10:30, avevo 30 minuti per la mia intervista, dopodiché dovevo lasciare la stanza. D.: Buon giorno Altezza, come sta? F.G.: Bene ragazzo, bene. D.: Per prima cosa desideravo ringraziarla per avermi concesso l'opportunità di scambiare con lei alcune parole. F.G.: Bene, mi dica. D.: Altezza, mi piacerebbe parlare della sua giovinezza. Desideravo domandarle, come sono stati i suoi primi anni di vita, cosa ricorda di quei tempi? F.G.: Lo studio, le lezioni, la mia formazione, ecco cosa ricordo. A sette anni dedicavo 32 ore settimanali all'istruzione, a dodici anni aumentai a 50 ore. Avevo tanto da imparare: italiano, ceco, polacco, francese, inglese, oltre a filosofia, religione, scienze, musica, storia, disegno, quest’ultimo

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vera mia passione, insomma tutto quanto mi sarebbe servito nella vita. A volte mi fermo a riflettere e mi vengono in mente i corsi di scherma e di nuoto, attività che hanno formato il mio corpo. E poi, le lezioni di passeggiata, sì, lezioni di come passeggiare, con quale andatura, con quale velocità, con che passo, cosa guardare, come guardare. Per questo adesso mi piace tanto camminare, specialmente prima di iniziare la mia giornata di lavoro. D.: Che influenza ha avuto nel suo modo di pensare il principe Metternich? F.G.: Grande uomo. Lui mi dava insegnamenti sull'arte di governare e mi intratteneva con le sue idee. D.: Quando suo nonno morì, lei era ancora piccolo, mentre sua nonna... F.G.: Di mio nonno ricordo appena il suo viso, pallido e magro, e le sue mani ossute. Con lui giocavo con i soldatini, era un maestro nelle manovre militari. Anche a mia nonna volli bene tutta la vita, lo adoravo, era per me una persona speciale. Ci piaceva stare insieme, io esultavo ogniqualvolta mi portavano da lei. Ho ancora la lettera che mi mandò quando fui incoronato imperatore e

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ricordo a memoria le ultime righe: "Stringendoti al mio cuore con un attaccamento materno io resto la tua nonna Carolina Augusta che ti ama".18 Dicevamo? Ah, sì! Mia nonna, persona tanto gentile. Una volta mi regalò una roccaforte, una di quelle che si dovevano montare e distruggere con un cannone, c'erano anche tanti piccoli soldatini di cartone. D.: Altezza, mi sembra che a lei piaccia dipingere. F.G.: Quando ero giovane mi dilettavo e passavo le mie ore libere a schizzare qualche figura e qualche paesaggio. Mandavo spesso qualche disegno a mio fratello Maxi.19 Adesso non ho tempo, gli affari di stato non mi danno tregua. D.: Altezza, lei trascorse la sua giovinezza alla Hofburg, le piaceva?20

18 N.d.R.: L'imperatore fa una pausa, i suoi occhi azzurri gli brillano, ma non si scompone e riprende. 19 N.d.R.: Massimiliano, fratello minore dell'imperatore. 20 N.d.R.: Francesco Giuseppe sorride.

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F.G.: Giovanotto, bella domanda. Sa perché rido? Perché mi sono ricordato degli angosciosi lezzi che venivano dalle latrine della Guardia imperiale e che si diffondevano per le mie stanze. In estate era davvero insopportabile e io ne approfittavo per andare nel parco a disegnare. Poi mi trasferirono al castello di Schönbrunn. Fu qui che iniziai a prendere freddo e a tossire spesso. Talvolta avevo la bronchite. Insomma, vecchie rimembranze. D.: Altezza, che ci racconta di sua madre Sofia? F.G.: Donna piena di temperamento, forte, sicura di sé, intelligente. Sapeva cosa voleva e lo otteneva quasi sempre. Nello stesso tempo aveva dei buoni sentimenti, desiderava il meglio per noi figli. È indubbio che avesse un debole per me, non si può nascondere. In fin dei conti mi ha aiutato nei momenti di maggiore bisogno e io ho sempre ben accettato i suoi consigli. D.: Bene, credo il mio tempo sia finito. Desidero ringraziarla per la sua disponibilità. F.G.: Porti i miei omaggi alla sua Terra. Arrivederci.

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D.: Arrivederci, Altezza. M'inchinai, indietreggiai pian pianino, senza fretta. Giunsi alla porta. Per magia si aprì. Mi girai, si richiuse. Erano le ore 11:00 in punto. L'imperatore seguiva un preciso programma! Nel viaggio di ritorno a casa ebbi il piacere di fermarmi a Trieste e fare due passi nel porto, dov'era ancorata la Marina imperiale. Poi ripresi la carrozza e nel tragitto pensai che ben 11 paesi, paesi diversi per cultura, per storia, per tradizioni, formavano il regno Austro-Ungarico.

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BIBLIOGRAFIA

- G. Armato, Passeggiando per la storia, dal 1200 al 1800, Lulu.com, 2007 - A. Tenenti, L’età moderna, Il Mulino, 1990 - A. Rossi, Modelli di città, Einaudi, 1987 - J.P.Gutton, La società e i poveri, A. Mondadori, 1976 - R. Baiton, La riforma protestante, Einaudi, 1958 - P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, A. Mondadori, 1990 - M.S. Anderson, L’Europa nel 1700, Comunità, 1972 - M. Rosa, Religione e politica nel Settecento europeo, Sansoni, 1974 - V. Hugo, Parigi, 1867, Medusa, 2002 - F.B. Bocchieri, Federico II, Laterza, 2004 - B. Hamann, Sissi, Tea, 2006 - M. Rosa, M. Verga, Storia dell’età moderna, Bruno Mondadori, 2000 - I. Stone, Il tormento e l’estasi, Corbaccio, 2005 - M. Simpson, Elisabetta I e le sue conquiste, Salani, 2004

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- R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, 1954 - H. Jedin, Riforma cattolica e controriforma, Morcelliana, 1957 - R. de La Sizeranne, Federico di Montefeltro, Argalìa ed., 1984 - E. Ferri, Rodolfo II, Mondadori, 2007 - R. De Carli Szabados, Kaiser Franz Joseph I, Epistolario imperiale, MGS Press, 2006 - M. Lavorini, Carlo V, Giunti ed., 2006

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INDICE

Introduzione pag. 13 Giuseppe da Settignano “ 19 Federico da Montefeltro “ 27 Tommaso de’ Cavalieri “ 35 Carlo V “ 43 Pietro da Urbino “ 51 Elisabetta I d’Inghilterra “ 59 Rodolfo II “ 67 Pierre Le Pautre “ 73 Federico il Grande “ 79 Jean Michel “ 87 Victor Hugo “ 95 Francesco Giuseppe “ 103 Bibliografia “ 111

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Finito di stampare in USA da Lulu.com Settembre 2008

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