Antony D Smith. Nazioni e Nazionalismo Nell'Era Globale

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Nazioni e nazionalismo nell’era globale “Le tesi dell’autore sono presentate con uno stile convincente e trascinante e con un’instancabile attetizione alle realtà della vita moderna”. Times Literary Supplement In un mondo dominato dall’economia transnazionale e dalle comunicazioni di massa, i conflitti etnici e il nazionalismo sono recentemente riemersi come forze politiche di grande spessore. Ma la cultura globale potrà alla fine soppiantare il nazionalismo? In realtà, sembra proprio l’opposto: la rivoluzione portata dalla modernità ha rivitalizzato le memorie e le comunità etniche, in quanto gli individui, cercando stabilità e punti di riferimento in un’era interessata da cambiamenti senza precedenti, stanno tornando a volgersi verso le eredità del loro passato. In questo modo, il nazionalismo etnico sfida, ma anche rinforza, lo stato nazionale. Al suo confronto, gli ideali sovranazionali sembrano vaghi e sbiaditi, mentre il sogno di una cultura cosmopolitica globale resta un’utopia. Anthony D. Smith sostiene che, nonostante tutti i loro difetti, la nazione e il nazionalismo rimarranno probabilmente gli unici ideali popolari, realistici e diffusi di comunità. Nazioni e nazionalismo nell’era globale si presenta come un testo destinato certamente a diventare una lettura essenziale per gli studiosi e gli operatori nel campo della sociologia, della politica, delle relazioni internazionali. L’autore: Anthony D. Smith è professore di Sociologia alla London School of Economics. Tra i suoi lavori pubblicati in Italia vi sono II revival etnico (1984) e Le origini etniche delle nazioni (1992).

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Nazioni e nazionalismo nell’era globale“Le tesi dell’autore sono presentate con uno stile convincente e trascinante e con un’instancabile attetizione alle realtà della vita moderna”.

Times Literary Supplement

In un mondo dominato dall’economia transnazionale e dalle comunicazioni di massa, i conflitti etnici e il nazionalismo sono recentemente riemersi come forze politiche di grande spessore. Ma la cultura globale potrà alla fine soppiantare il nazionalismo? In realtà, sembra proprio l’opposto: la rivoluzione portata dalla modernità ha rivitalizzato le memorie e le comunità etniche, in quanto gli individui, cercando stabilità e pu n ti di riferim ento in un ’era interessata da cambiamenti senza precedenti, stanno tornando a volgersi verso le eredità del loro passato.In questo modo, il nazionalismo etnico sfida, ma anche rinforza, lo stato nazionale. Al suo confronto, gli ideali sovranazionali sembrano vaghi e sbiaditi, mentre il sogno di una cultura cosmopolitica globale resta un’utopia. A nthony D. Smith sostiene che, nonostante tu tti i loro d ifetti, la nazione e il nazionalismo rimarranno probabilmente gli unici ideali popolari, realistici e diffusi di comunità. Nazioni e nazionalismo nell’era globale si presenta come un testo destinato certamente a diventare una lettura essenziale per gli studiosi e gli operatori nel campo della sociologia, della politica, delle relazioni internazionali.L’autore: Anthony D. Smith è professore di Sociologia alla London School o f Economics. Tra i suoi lavori pubblicati in Italia vi sono II revival etnico (1984) e Le origini etniche delle nazioni (1992).

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Nazioni e nazionalismo nell’era

Anthony D

Asterios

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ÜiPARHMfcNTO DI FILOSOFIAe TEORIA DELLE SCIENZE

Anthony D. Smith

Nazioni e nazionalismo nell’era globale

Traduzione di Alessandro Sfrecola

Asterios EditoreTrieste

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Prima edizione: ottobre 2000© Asterios Editore S.r.l. via Pigafetta, 1 - 34148 Trieste tel. 040/811286 - fax 040/825455 e-mail: asterios.editore@asterios. it

Titolo originale:Nations and nationalism in a global era ©A. D. Smith 1995

Traduzione:Alessandro Sfrecola

Grafica e impaginazione: Davide Martinelli

Stampato in Italia

ISBN 88-86969-29-5

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Indice

Prefazione all’edizione italiana................................................................ 11Prefazione................................................................................................... 15Introduzione..............................................................................................19

1. Una cultura cosmopolitica?....................................................................252. L’errore modernista................................................................................ 453. Un revival etnonazionale?.......................................................................674. La crisi dello stato nazionale..................................................................995. Sovra- o super-nazionalismo?...............................................................1276. In difesa della nazione.......................................................................... 155

Bibliografia.............................................................................................. 169

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Prefazione all’edizione italiana

Nell’ultima decade siamo stati testimoni di uno dei più grandi rivolgi­menti nella storia dell’umanità. Al posto dei due grandi e monolitici blocchi di potere che dominavano il pianeta, ci troviamo infatti di fron­te alla ripresentazione del precedente quadro politico multipolare, all’in- terno del quale una molteplicità di “stati-nazione”, grandi e piccoli, manovra in un mondo più fluido e a volte persino anarchico per miglio­rare la propria condizione e il proprio status. Come accadeva in passato, in questo momento tutti gli stati-nazione, dal Portogallo alla Corea del Sud, devono trovare il modo di inserirsi nell’economia globale e nei siste­mi regionali interstatali, senza tuttavia avere più a propria disposizione dei ben distinti schieramenti ideologici o di potere. A questa maggiore libertà si accompagna comunque un più elevato livello d’incertezza. La situazione è espressa molto bene dal più forte e vivo attaccamento alla “nazione” e alla collegata “identità nazionale”, ma si può ritrovare anche nella maggiore indecisione e nella grande instabilità che contraddistin­guono l’odierno significato e la vitalità storica di queste due idee. Ulteriori sintomi di un tale mutamento possono anche essere scorti nel numero e nell’intensità dei conflitti etnici attualmente in corso in nume­rose zone del pianeta e, inoltre, nel riaccendersi di antiche lotte a carat­tere nazionale in aree come il Caucaso, il Medio Oriente, il Corno d’Africa, l’India e i Balcani.

Il grande beneficiario dei cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio è stato il nazionalismo. Essendosi sostituito alle ideologie dominanti del capitalismo liberale occidentale e del marxismo sovietico, il nazionalismo etnico forma le basi e il linguaggio dei movimenti e delle rivendicazioni politiche del mondo attuale. Ai nostri occhi, sembra quindi di vedere risvegliarsi dei territori che, come ha detto Ernest Gellner, languivano in una sorta di stato comatoso. È come se queste aree, dove il cammino del progresso era stato in pratica “congelato”, si fossero rianimate e avessero

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cominciato a muoversi lungo strade che l’Occidente ha già percorso da lungo tempo nel corso del suo sviluppo. Un forte processo di moderniz­zazione implica il passaggio e il superamento di una fase storica domina­ta dal nazionalismo e il finale approdo alle quiete pianure della società “postmoderna”. Questa è la ragione per cui l’epoca presente, contraddi­stinta dal revival nazionalista, si presenta come un’era ricca di timori e disordini; ed è sempre per questa stessa ragione che stiamo assistendo al sorgere di così tante manifestazioni di scontento a livello etnoregionale, che vanno dall’Italia del Nord e dai Paesi Baschi al Kurdistan e alle regio­ni settentrionali dello Sri Lanka.

Ma esiste un’ulteriore spiegazione. Al contrario della precedente epoca del nazionalismo ottocentesco, gli anni attuali sono caratterizzati dalla globalizzazione. Il massiccio incremento dell’interdipendenza economica e della comunicazione di massa, con il relativo fenomeno di compressio­ne del tempo e dello spazio, stimola in molti individui una reazione deter­minata dalla paura di dover assistere allo snaturamento e allo sradica­mento della propria cultura e delle proprie strutture sociali. A causa del brusco aumento della mobilità geografica e sociale, un numero di perso­ne ogni giorno maggiore viene gettato negli enormi crogioli etnici che sono le grandi città e il mercato del lavoro, controllati da stati burocra­tizzati sempre più invadenti. Privati dei legami con i propri luoghi d’ori­gine, questi uomini si sentono vulnerabili e minacciati dagli effetti delle trasformazioni economiche e degli spostamenti di popolazioni in corso. Non c’è quindi da meravigliarsi se molti di loro cercano un sollievo dai propri timori nelle lingue tradizionali, nell’appartenenza etnica, nelle reli­gioni. Si può in sostanza affermare che, più il pianeta si trasformerà senza sosta in un luogo privato delle sue peculiarità locali, più saranno gli indi­vidui sradicati che andranno in cerca di protezione nelle tradizioni e nei legami etnici a loro familiari.

Ma questi affascinanti resoconti sull’attuale rinascita dei nazionalismi resistono a un’accurata verifica? E inoltre, stiamo realmente ripercorren­do epoche passate, cercando rifùgio nella sacralità della tradizione? Questo è sicuramente vero per alcuni, particolarmente per coloro i quali riprendono letteralmente le credenze nelle “antiche scritture” per dare nuove fondamenta alle loro scosse esistenze. Ma in molti altri casi, le interpretazioni moderniste insistono troppo sulla rottura con il passato e non riescono a intravedere la persistenza delle tradizioni all’interno della modernità. Quest’ultima, infatti, non significa semplicemente sradica­mento e distruzione del passato, ma anche il riadattamento di molte componenti di quest’ultimo. Gli esseri umani non gettano a mare volta per volta le culture e le tradizioni dei loro progenitori, ma tendono inve­ce a reinterpretare le eredità del passato in sintonia con le loro nuove esi­

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PREFAZIONE 13

genze e vedute. Tenendo ben presente questa considerazione, ci si troverà quindi di fronte a una più bilanciata e convincente prospettiva dalla quale poter osservare l’attuale ritorno del nazionalismo etnico.

In sostanza, non dobbiamo porre troppa enfasi sul concetto di “revival” del nazionalismo: si tratta più che altro della sua sopravvivenza, dopo la parziale eclissi dovuta alle ideologie del periodo della guerra fredda. Le tradizioni, difatti, sia a livello nazionale che regionale, sono coesistite accanto ai grandi progressi; le lingue indigene si sono sviluppate insieme alla scienza moderna; le comunità etniche si sono adattate alle nuove situazioni. Ciò è esattamente quello che doveva aspettarsi chi aveva rico­nosciuto che — come del resto avevo fatto io stesso in miei studi prece­denti come The Ethnic Origins o f Nations (1986)1 e National Identity ( 1991 ) — gran parte delle nazioni e dei nazionalismi vanta profonde radi­ci nelle culture e nelle strutture etniche del passato. Per tale motivo, non sono solo i sostenitori del nazionalismo a volgersi indietro per autentica­re la natura peculiare dei fenomeni nazionali e legittimarne il destino: tutti noi, infatti, possiamo rintracciare gli echi e le continuità presenti dei trascorsi etnici che hanno interessato generazioni successive e mantenuto vive in molti individui le antiche tradizioni. È questo “passato vivente” del “popolo” - cioè della massa della popolazione designata - a conse­gnare all’odierno nazionalismo etnico le basi sociali e culturali per la mobilitazione politica della “nazione”. Questa è la stessa considerazione che ha permesso a molti nazionalisti, da Mazzini a Tilak e a Nasser, di imbarcarsi in programmi di mobilitazione delle masse popolari contro gli elementi culturali “estranei”.

A mio giudizio, la prospettiva appena delineata fornisce le basi per una più convincente e sostenibile analisi dell’attuale ondata di nazionalismo etnico. Allo stesso tempo, un tale punto di vista spiega il nostro sconcer­to di fronte all’emergere di una singola cultura globale, come anche le dif­ficoltà che stanno incontrando l’edificazione di una comunità sovrana- zionale e di un’“identità europea”. Il nazionalismo rimane dunque una potente forza storica proprio a causa della sua specificità, cioè del suo profondo radicamento in particolari contesti sociali e dei suoi anteceden­ti culturali diversi per ogni regione. Esso attinge il suo significato e la sua vitalità dalla rievocazione del passato delle singole comunità e popolazio­ni, che si sforza poi di trasformare nella nazione moderna. Il potere e la persistenza del nazionalismo non vanno dunque cercati nell’energia della modernizzazione e della globalizzazione, bensì nella storia e nella cultura delle varie comunità e categorie etniche, che, come possiamo constatare di persona, godono ancora di un grande ascendente su moltissimi indivi­1 Trad. it. Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, 1992 [N.d.T.]

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dui. La storia e la cultura seguitano quindi a costituire le fondamenta dei sentimenti e delle aspirazioni nazionalistiche, ed è assai probabile che continueranno a farlo anche in futuro.

Anthony D. Smith Londra, marzo 1998

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Prefazione

In ogni angolo del nostro pianeta, l’improvviso scatenarsi su scala mon­diale dei conflitti etnici e del nazionalismo ha lasciato interdetti e preoc­cupati moltissimi uomini.

Questi, infatti, avevano sperato in un mondo libero da contrasti etnici e nazionali, nella convinzione che identità etnica e nazionalismo fossero fenomeni ormai destinati a essere rapidamente superati: ci si era però scordati che le comunità etniche godono di una storia secolare, e che il nazionalismo, come ideologia e movimento, è stato un potente attore sulla scena politica mondiale fin dal tempo della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese. La recente riapparizione del nazionalismo può essere quindi compresa solo se inserita all’interno di un lungo pro­cesso storico, e qualsiasi analisi che parta dalla caduta del Muro di Berlino, o anche dalla seconda guerra mondiale, non può che risultare fuorviarne e superficiale.

L’obiettivo che mi sono quindi proposto con questo libro è di stabilire alcune delle metodologie con cui il ritorno del nazionalismo contempo­raneo è stato studiato e di presentare il mio punto di vista sulle attuali ten­denze dello sviluppo di nazioni e nazionalismi. In quest’indagine, mi baserò su alcune tesi da me brevemente adombrate nell’ultimo capitolo del volume National Identity e nel corso di un precedente articolo1. Non è quindi mio proposito fornire una rassegna dei nazionalismi odierni né esaminare l’evoluzione empirica degli avvenimenti in una particolare zona del mondo: il lettore non troverà qui alcuna analisi delle attuali lotte nel­l’ex Jugoslavia, nel Caucaso o in Sudafrica, né previsioni sul nazionalismo sikh, quello palestinese o altri.

1 Vedi A. D. Smith (1990a, 1991).

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Non cercherò neppure di impegnarmi in più ampi dibattiti su moder­nizzazione e “globalizzazione” e sulle loro conseguenze, a meno che non coinvolgano temi riguardanti il nazionalismo e le identità nazionali; ho fatto questa scelta in quanto convinto che la chiave di comprensione delle nazioni e dei nazionalismi, intesi come tendenze generali del mondo moderno, non stia negli effetti dell’interdipendenza globale, ma piuttosto nelle strutture e nelle eredità permanenti create dai legami etnici e dalle culture storiche. Con questo non intendo negare l’enorme importanza degli effetti della modernizzazione e della “globalizzazione”. Le loro prin­cipali conseguenze sul quadro delle associazioni umane sono state l’inde­bolimento delle strutture tradizionali delle comunità e la diffusione del nazionalismo come ideologia, attraverso lo “sradicamento” dal suo parti­colare contesto nazionale. Ma tale “sradicamento” era già stato realizzato durante e attraverso la Rivoluzione francese, al punto che, paradossal­mente, non è sbagliato identificare in questo processo addirittura una delle forze trainanti dell’interdipendenza globale.

La mia argomentazione consiste piuttosto nell’attribuire la forza del nazionalismo al suo radicamento storico. Come ideologia, il nazionali­smo si consolida solo quando tocca la sensibilità di un popolo, o quan­do particolari ceti e strati sociali raccolgono il suo richiamo e vi si ispi­rano. Tuttavia, il nazionalismo rappresenta molto più di un’ideologia. A differenza di altri moderni sistemi di credenze, per quanto è inerente alla sua forza, il nazionalismo dipende non solo dall’idea generica di nazione, ma anche dalla specifica personalità e dal carattere di quest’ul­tima, che il nazionalismo trasforma poi in concetto assoluto. Il succes­so del nazionalismo è quindi legato a determinati contesti culturali e storici; ciò significa che le nazioni che il nazionalismo contribuisce a creare derivano di volta in volta da aggregazioni etniche e lasciti cultu­rali preesistenti e già altamente caratterizzati. Questo, e non qualche formulazione rivoluzionaria ma astratta, è ciò che anima così tanti uomini e donne nei più diversi angoli del pianeta. Come Benedict Anderson ha sottolineato, il nazionalismo è molto più vicino alla reli­gione e alle comunità religiose che, ad esempio, al liberalismo o al socia­lismo. E questo il motivo principale per cui le attuali critiche “moder­niste” e “postmoderniste” al nazionalismo vanno così spesso fuori stra­da, e per cui diviene necessario cercare altrove le cause della durevolez­za della forza e della vitalità delle nazioni e del nazionalismo all’intemo di un mondo ormai interdipendente.

Sono grato a Anthony Giddens e alla Polity Press per avermi conces­so l’opportunità di esprimere la mia opinione su un argomento che ancora una volta è divenuto una pressante questione internazionale, oltre che sociale e culturale. Vorrei anche esprimere i miei più sentiti

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ringraziamenti ai professori Giovanni Aldobrandini e Maria Damiani Sticchi per avermi invitato alla LUISS di Roma a tenere agli studenti alcune lezioni che sono state poi il punto di partenza delle mie rifles­sioni. Vorrei ringraziare inoltre i membri dell’Associazione per gli studi sulle etnie e il nazionalismo e il Comitato di ricerca sui fenomeni etni­ci e il nazionalismo della London School of Economics per aver indet­to conferenze, seminari e incontri intorno ai più recenti contributi in questo settore.

Mi assumo infine ogni responsabilità rispetto alle opinioni espresse nel volume o a eventuali errori in esso contenuti.

Anthony D. Smith London School o f Economics

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Introduzione

In questo libro voglio esaminare il motivo per cui, alla fine del secondo millennio, dovrebbe realizzarsi una rinascita dei conflitti etnici e del nazionalismo, e questo proprio in un’epoca nella quale il mondo diventa sempre più unificato e conglobato e le barriere tra i gruppi etnici e le nazioni cadono e si fanno superflue.

In questi anni ci viene costantemente rammentato come il globo terrestre da noi abitato stia diventando sempre più piccolo e integrato. Dovunque vengono forgiati vincoli sempre più stretti tra l’economia e la società del nostro pianeta, mentre stati e nazioni prima indipendenti vengono avvi­luppati da una complessa ragnatela di organizzazioni e ordinamenti inter­statali, in modo da creare una comunità realmente internazionale. In ogni angolo della Terra, il passato etnico viene aggiornato e le antiche culture frammentate e ricomposte. Ovunque l’umanità si trova legata alla ruota della tecnologia automatizzata e attorniata dalla foresta delle comunicazio­ni di massa. In breve, il nostro mondo è diventato un unico luogo.

Questa “compressione” del tempo e dello spazio ha fondamentalmente cambiato i modi in cui gli esseri umani si rapportano gli uni verso gli altri e verso i propri sistemi sociali. Non c’è dubbio che la modernità abbia rivoluzionato la nostra maniera di concepire il mondo e di giudicare le società in cui questo è diviso. Forse è quindi giunto il momento di com­prendere la speranza di Marx ed Engels, cioè l’auspicio che dalle tante cul­ture e letterature nazionali potessero emergere una letteratura e una cul­tura comuni. D ’altronde, è forse arrivato anche il momento di rielabora­re le nostre convinzioni e le nostre ideologie politiche e di spazzare via divisioni superflue e vecchi antagonismi, in linea con l’emergente divisio­ne internazionale del lavoro, che sta facendo cadere le barriere commer­ciali e nello stesso tempo permette al mercato e al lavoro un libero movi­mento attraverso i continenti. Una simile rivoluzione è stata provocata dal crollo delle vecchie tradizioni e dei valori religiosi, che ha costretto molti

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individui a separare riti e credi dai loro contesti precedenti e a incorpora­re la diversità di “altri” — altre culture, altri popoli, altri stili di vita - nelle proprie autorappresentazioni e relazioni sociali1.

Ma questa è solo una faccia del quadro contemporaneo. L’altra è rap­presentata dall’ascesa e dal riprodursi di tutti i tipi di movimenti sociali e di protesta identitaria, che vanno dal femminismo fino alla lotta ecologi­sta, dal movimento per i diritti civili ai revival religiosi. Siamo testimoni, in particolare, di una rinascita del nazionalismo etnico, dei fondamenta­lismi religiosi e degli antagonismi fra i gruppi, e questo nonostante ci sia stato insegnato che essi erano da lungo tempo sepolti. Rivendicazioni etniche per l’autonomia e la secessione, guerre per l’irredentismo nazio­nale e conflitti razziali esplosivi nell’ambito del mercato del lavoro e dello stato sociale proliferano invece in tutti i continenti. Nell’era della globa­lizzazione e della trascendenza ci troviamo afferrati da un vortice di con­flitti che ruota intorno alle identità politiche e alla frammentazione etni­ca. In India, nel Caucaso, nei Balcani, nel Corno d’Africa e in Sudafrica sono esplose guerre sanguinose, e anche in società più stabili e più ricche, come il Canada, la Gran Bretagna, il Belgio, la Spagna, la Francia, l’Italia e la Germania, si percepiscono periodicamente i sussulti provocati dai movimenti etnici popolari, dal razzismo xenofobo e dal nazionalismo. Per molti abitanti del pianeta un nazionalismo “gretto” e fissiparo è diventa­to la principale fonte di pericolo politico presente nell’epoca attuale, men­tre in ogni luogo l’identità etnica e quella nazionale rimangono questioni delicate e del massimo rilievo.

Come si può spiegare questo paradosso? Si tratta forse del prodotto ine­vitabile della dialettica della globalizzazione culturale, che produce un nuovo tipo di politica di rivendicazione identitaria, sulla scia della rivolu­zione disgregante provocata dalla modernità, oppure è soltanto una “reli­quia” di una precedente età caratterizzata dall’odio nazionalistico e dalla guerra? Forse è semplicemente un’aberrazione temporanea, che verrà spazzata via dall’ulteriore progresso capitalista o postindustriale, regione dopo regione? Oppure questa contraddizione della cultura moderna cre­scerà e si intensificherà nel corso della sua espansione attraverso il globo?

Tre sono le soluzioni di base proposte per questo paradosso. La prima vuole indicare che le nazioni e i nazionalismi contemporanei sono sem­plicemente gli epigoni dei loro illustri predecessori, relitti di un’altra epoca, e quindi in ogni caso destinati a scomparire una volta compiuto il loro ciclo nelle diverse aree del globo terrestre. La tendenza attuale potrebbe proseguire per un paio di decenni e causare enormi sofferenze

1 Per i concetti di “globalizzazione” e “compressione spazio-temporale” vedi Featherstone (1990, in particolare il capitolo di R. Robertson).

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INTRODUZIONE 21

e spargimenti di sangue, ma, in linea di massima, gli odierni nazionali­smi etnici e le forme di razzismo, per quanto possa sembrare che proli­ferino e invadano le regioni vicine in breve tempo, secondo quest’inter­pretazione non sono destinati a durare, e verranno presto depoliticizzati e “normalizzati”. In ogni caso essi non fanno parte dei grandi movimen­ti della storia, del carro del progresso che è legato alle grandi strutture e alle forze trainanti dei cambiamenti storici: la divisione internazionale del lavoro, i vasti mercati regionali, le potenti alleanze militari, le comu­nicazioni elettroniche, la tecnologia dell’informazione computerizzata, l’educazione pubblica di massa, i mass media, la rivoluzione sessuale, e così avanti. Sono queste le forze del futuro, e l’attuale propensione verso una realtà in piccola scala e un mondo intimo non è altro che una sorta di diversione di comodo o di cortina di fumo disposta per nascondere il crescente processo di avvicinamento e di massimizzazione delle risorse presenti nelle comunità umane. Siamo infatti già testimoni sia del col­lasso della “nazione omogenea” che sta avvenendo in molte società - dove le culture e le letterature legate all’identità nazionale diventano sempre più ibride e ambivalenti - sia dell’emergere (qualcuno direbbe del riemergere) di società multietniche più libere. Nell’era “postmoder­na”, come nella sua controparte “premoderna”, non c’è quindi molto spazio per un’etnicità politicizzata o per il nazionalismo strutturato come forza politica autonoma2.

Una seconda argomentazione vede invece le nazioni e il nazionalismo come inevitabili prodotti — e produttori - della modernità. La moderniz­zazione, solitamente fatta risalire alla Rivoluzione francese e a quella indu­striale (e talvolta alla Riforma), ha trasformato il nostro modo di vivere a un punto e in un modo sconosciuti dal tempo della rivoluzione neolitica e della nascita dell’agricoltura sedentaria. Il capitalismo industriale, lo stato burocratico, la guerra totale, la mobilitazione sociale di massa, la scienza e il razionalismo, l’informazione computerizzata di massa, le comunicazioni elettroniche, il crollo dei valori della famiglia tradizionale e la rivoluzione sessuale hanno cambiato la vita di tutti gli individui del nostro pianeta, estirpandoli dalle loro abitudini e dalla loro routine quotidiana. I nuovi costumi e gli stili di vita non ortodossi hanno spaesato e disorientato grup­pi e individui in uguale misura, distruggendo le precedenti strutture socia­li e rendendo obsoleti i vecchi modi di pensare. La rivoluzione determina­ta della modernizzazione ha portato una notevole frammentazione, ma anche nuovi tipi di comunicazione e integrazione basati sulle recenti tec­nologie elettroniche d’informazione e di diffusione. In questa situazione

2 Riguardo al collasso delle nazioni vedi Kohr (1957); per una versione più recente vedi McNeill (1986).

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senza precedenti le nazioni e i nazionalismi diventano necessari - anche se non graditi — strumenti di controllo degli effetti distruttivi di un cambia­mento sociale così imponente; essi infatti vanno a fornire gli unici sistemi comunitari e di credenze potenti e su larga scala in grado di assicurare un minimo di coesione sociale, di ordine e di senso in questo mondo alie­nante e disgregativo. Inoltre, rappresentano le sole forze popolari in grado di legittimare e rendere comprensibili le attività del più potente agente moderno della trasformazione sociale, lo stato nazionale. E perciò impro­babile che le nazioni e i nazionalismi spariranno, almeno finché tutte le aree del globo non avranno compiuto la dolorosa transizione verso una modernità stabile e ricca, sul modello occidentale3.

Da un terzo punto di vista le nazioni e i nazionalismi sono invece perenni. Non sono né dei residuati di un’era nazionalista che sta per esse­re trascinata via o frantumata né inevitabili, se non deplorevoli, prodotti della modernità. Al contrario, saranno proprio la modernità e la cosid­detta età “postmoderna” a sparire, mentre le nazioni continueranno a costituire il fondamento della società umana. In base a quest’interpreta­zione, le nazioni e i nazionalismi costituiscono le forze e i processi di svi­luppo principali dell’età moderna, come anche di quella premoderna, mentre la modernizzazione e la modernità sono in verità semplicemente il modo in cui le nazioni si esplicano nel mondo contemporaneo. Secondo alcuni, e fra questi molti nazionalisti, tale processo è parte e bagaglio di un ordine naturale “primordiale”; i membri di una particola­re nazione possono essere stati indotti a “dimenticarla”, assieme al suo - solitamente glorioso - passato, ma alla fine l’ordine naturale si riassesterà ed essa nazione “rinascerà”. Per altri, le nazioni rappresentano le funzioni umane, fornendo coesione sociale, equilibrio, calore e realtà simili. E per questo motivo che alcune nazioni, sebbene non facciano parte di alcun “ordine naturale”, ispirano nei loro membri la sensazione di abbracciare la totalità delle cose e risalire a tempi immemorabili: a noi, d’altra parte, non resterebbe che ammettere il potere e il valore persistente di questi legami culturali fondamentali. In entrambi questi due casi, comunque, la comunità etnica e la nazione restano i fondamenti essenziali di qualsiasi nuovo ordine concepibile. Sebbene le loro forme possano subire cambia­menti, la sostanza dei legami etnici e nazionali permarrà nel tempo, a sca­pito di qualsiasi trasformazione politica e sociale possa sopraggiungere4.

3 Carr ( 1945) e Deutsch ( 1966) rimangono i testi di riferimento per lo studio del rap­porto modernità/nazione. Per una sintesi generale dei cambiamenti rivoluzionari apportati dalla modernità vedi Giddens (1991).4 Quest’interpretazione è stata proposta da Shils (1957) e in seguito elaborata da Geertz (1963).

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INTRODUZIONE 23

A ogni modo, a mio avviso, nessuno di questi punti di vista rende giu­stizia alla complessità della situazione. Tutti e tre sono imperfetti sia come base generale sia come guide nei confronti del paradosso dell’interdipen­denza globale e del nazionalismo fissiparo. Quindi, piuttosto che vedere le nazioni e i nazionalismi come inutili relitti di un’era più antica e più gretta o come prodotti inevitabili della modernizzazione globale o del tardo capitalismo, o ancora come elementi perenni e naturali della storia e della società umane, servirebbe ricondurli ai loro contesti etnici e terri­toriali di appartenenza. Dobbiamo allora collocarli in una più ampia intersezione storica fra i legami culturali e le comunità politiche, in quan­to questi due ultimi elementi hanno subito l’influenza, e a loro volta hanno influenzato, i processi di centralizzazione amministrativa, di tra­sformazione economica, di comunicazione di massa e di sgretolamento delle tradizioni che usualmente associamo alla modernità. Se quindi vogliamo comprendere l’onnipresente fascino e l’inesauribile presa degli ideali nazionali in un momento storico in cui altre forze sembrano prean­nunciare, e sollecitare, l’obsolescenza del nazionalismo, è necessario adot­tare sia una più ampia cornice temporale sia il recupero del sostrato etni­co che sta dietro alle forze nazionali.

Inizierò dunque considerando i punti di vista di coloro che ritengono le nazioni sorpassate dalla globalizzazione e dalla cultura globale (e i limi­ti di tali analisi dell’etnicità e del nazionalismo). Questo primo passo sarà seguito dall’esame dei meriti e degli errori dei temi modernisti, di cui for­nirò alcuni esempi empirici di replica. Infine, passerò alla posizione lega­ta al nazionalismo “perenne”, che, pur rivelatisi insostenibile, si è dimo­strata però significativa. Metterò in luce come ciascuno di questi punti di vista, nonostante evidenzi alcune importanti dimensioni degli sviluppi correnti del nazionalismo, si dimostri al contempo limitato. Il tema della “cultura globale” trascende l’evidenza e non riesce a cogliere il rilievo assunto dalla proliferazione dei nazionalismi etnici. Il punto di vista modernista è più realistico e molto ben motivato, ma anch’esso manca di profondità e specificità storica. La tesi che punta alla perennità, d’altra parte, è dotata di limitato peso esplicativo, sebbene richiami l’attenzione sulla necessità di una più ampia cornice storica.

La cornice storica crea infatti le basi per un approccio alternativo che ritengo sarà sia più completo sia più convincente dei suoi rivali. Da que­sta prospettiva, il problema viene inserito in un quadro che identifica la sua origine nella mutua influenza degli “strati” dell’esperienza sociale e storica e nella derivazione dei fenomeni nazionali dal sistema organizzati­vo e dal simbolismo etnico e territoriale. Quest’approccio attinge dalla vasta sfera dell’evidenza storica fornita dall’associazione e dall’identità umana per illuminare esattamente il problema implicito relativo alla

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profondità emozionale e alla presa sociale del nazionalismo, che costitui­sce l’argomento che continua a sconcertare tutti coloro i quali sono coin­volti in questo campo di ricerca. In tal modo, sarà inoltre possibile affron­tare il paradosso della frammentazione che interessa l’era della globalizza­zione da un punto di vista sociale e storico più approfondito.

Soltanto cogliendo il potere del nazionalismo e l’incessante attrattiva dell’identità nazionale attraverso il loro radicamento nel simbolismo etni­co premoderno e le loro modalità organizzative c’è qualche possibilità di comprendere la rinascita del nazionalismo etnico nel momento in cui potrebbe apparire che le condizioni “oggettive” lo rendano obsoleto. Senza questa presa di coscienza, rimarremmo semplicemente spettatori sconcertati degli imprevedibili drammi politici che si verificano in un mondo caratterizzato da attitudini contraddittorie e forze antagoniste.

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Una cultura cosmopolitica?

Nel suo studio sull’evoluzione del nazionalismo - principalmente di quel­lo europeo - Eric Hobsbawm dichiara che il fenomeno nazionalista di fine Novecento, ovvero la politica etnica, presenta “un diverso meccani­smo di funzionamento rispetto al nazionalismo’ e alle ‘nazioni’ nel con­testo storico del secolo XIX e dei primi anni del XX” 1.

La creazione delle nazioni intorno a stati nazionali ed economie indu­striali nel XIX secolo e i movimenti anticoloniali di liberazione nazionale e di emancipazione della metà del XX secolo erano entrambi - afferma Hobsbawn - fattori centrali rispetto allo sviluppo storico. Questo non però è il caso dei nazionalismi etnici e linguistici che sono emersi nella seconda metà del XIX secolo e che continuano tuttora a proliferare. I movimenti di edificazione e di liberazione nazionale erano “in maniera tipica, nello stes­so tempo unificatori ed emancipatori”, mentre i nazionalismi propri della fine del XX secolo sono “essenzialmente negativi, o, piuttosto, volti alla divi­sione. Donde l’insistenza sull’etnicità’ e sulla lingua in quanto differenza, talvolta combinate, singolarmente o assieme, con la religione”.

In linea con l’analisi marxista classica, Hobsbawm considera questi movimenti legati ai precedenti “movimenti delle piccole nazionalità che lottarono contro gli imperi asburgico, zarista o ottomano”2. Ma, in un

1 Hobsbawn (1990), p. 163 [trad. it. p. 193]. Hobsbawn colloca l’apogeo del nazio­nalismo all’inizio del XX secolo, mostrando di adottare una visione storica periodiz­zante, in linea con le precedenti analisi storiche del fenomeno. Su queste ultime vedi Snyder (1954).2 Ibid., p. 164 [trad. it. p. 194],

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altro senso, essi rappresentano l’esatto opposto, cioè un rigetto delle moderne strutture di organizzazione politica caratterizzato da:

reazioni dettate dalla debolezza e dalla paura, tentativi di erige­re barricate a difesa dagli assalti del mondo moderno, richia­mando, sotto questo aspetto, i risentimenti dei Tedeschi di Praga spaventati davanti all’“invadente” immigrazione ceca, più che non quelli dei Cechi in fase di avanzamento3.

Questi timori sono stati alimentati dai recenti movimenti internazio­nali a livello popolare e da rapide e fondamentali trasformazioni socioe­conomiche. Hobsbawm cita come esempi le risposte degli Estoni, dei Gallesi e dei Franco-canadesi all’immigrazione russa e anglofona, e aggiunge: “in qualsiasi società urbanizzata vi sono luoghi in cui entriamo in contatto con stranieri: uomini e donne privi di radici che ci rammen­tano la fragilità o il vero e proprio dissecamento delle nostre radici fami­liari”4. Egli continua poi a spiegare, usando una terminologia attinta dal­l’analisi condotta da Simmel sui conflitti nei gruppi, che:

il richiamo all’etnia o alla lingua non offre alcuna guida per il futuro. E si configura come una mera protesta contro lo status quo, o più precisamente, contro gli “altri” che minacciano il gruppo etnicamente definito.

E questo perché:il nazionalismo esclude per definizione dal proprio campo tutti quelli che non appartengono alla sua propria “nazione”, cioè la grande maggioranza del genere umano. Inoltre, mentre il fon­damentalismo è in grado, almeno in certa misura, di fare appel­lo a quanto sopravvive dei costumi e delle tradizioni genuine,o alla pratica passata in quanto incarnata nella pratica religio­sa, il nazionalismo, come abbiamo visto, è, di per se stesso, osti­le alle modalità caratteristiche del passato, quando, invece, non emerga addirittura dalle loro rovine5.

Per quale motivo, allora, i nazionalismi etnici e linguistici sono divenu­ti talmente predominanti al giorno d’oggi? Secondo Hobsbawm, perché

3 Ibid., p. 164 [trad. it. p. 195]. Questa considerazione è in linea i classici attacchi marxisti ai movimenti nazionali delle piccole nazionalità dell’Europa orientale. Vedi anche Cummins (1980).4 Ibid., pp. 166-67 [trad. it. p. 197]. A proposito del nazionalismo del Québec, Hobsbawn fa osservare in opposizione la crescente miscela etnica presente nelle gran­di città del Canada.5 Ibid., pp. 168-69 [trad. it. p. 199].

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essi costituiscono “una risposta alla preponderanza del principio di for­mazione statale non nazionale e non nazionalistico nella maggior parte del mondo nel secolo xx”. Questo comunque non significa che le reazio­ni etniche possano fornire un qualsiasi principio alternativo per la ristrut­turazione politica del mondo nel XXI secolo6.

Facendo richiamo a un tema ormai familiare, Hobsbawm sostiene che i principi propri di una simile ristrutturazione hanno poco a che fare con le nazioni e il nazionalismo. Le nazioni hanno infatti perduto le loro pre­cedenti funzioni economiche, sebbene egli ammetta che i grandi stati continueranno a mantenere un importante ruolo nell’economia mondia­le. Tuttavia, l’interdipendenza globale significa generalmente che saranno delle entità economiche molto più grandi a fornire in futuro i fondamenti delle comunità. A giudizio di Hobsbawm, è un assioma affermare che il nazionalismo “è nulla senza la creazione di stati-nazione; solo che un mondo composto di simili stati, rispondenti ai criteri di nazionalità su base etnico-linguistica, non costituisce al giorno d’oggi una prospettiva credibile”7.

Stabilito questo principio, ne consegue che, in quanto fenomeno etni­co o linguistico:

il nazionalismo, nonostante la sua posizione di grande rilievo, è ora storicamente meno importante. Non è più un program­ma politico di tipo globale, come invece direi sia stato nel seco­lo XIX e nei primi decenni del XX. Perché al massimo oggi sem­bra un elemento di complicazione, oppure un catalizzatore di altri processi storici.

Ritirandosi davanti, o adattandosi alla nuova “ristrutturazione sovrana- zionale del globo ... nazioni e nazionalismo continueranno a essere pre­senti in questa storia, ma in funzione subordinata e spesso piuttosto secondaria”. Prendendo spunto da Elie Kedourie, Hobsbawm conclude che, in considerazione dei rapidi progressi ultimamente compiuti dagli

6 Ibid., p. 173 [trad. it. p. 204]. Queste considerazioni sono contenute all’incerno di una nostalgica panoramica sui modi con i quali i regime comunisti della Jugoslavia e dell’URSS erano riusciti a limitare i “disastrosi effetti del nazionalismo” all’interno dei loro confini.7 Ibid., p. 177 [trad. it. p. 207]. Quest’affermazione presuppone uno scenario nel quale si prevede il raggiungimento della sovranità nazionale per ogni candidato etnonazio- nale. Ma questa è semplicemente un’ipotesi di comodo: un tale scenario non solo è impraticabile, ma non è neppure mai stato considerato come un obiettivo globale. E invece accaduto che particolari etnie o leader abbiano richiesto lo status di nazione. Ancora una volta, quindi, il nazionalismo, sradicata l’ideologia, ha mostrato la sua dipendenza da specifici legami etnici preesistenti.

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storici nell’analisi del fenomeno costituito dalle nazioni e dai nazionali­smi, è possibile affermare che:

come spesso avviene, il fenomeno abbia superato la sua fase acuta. Come dice Hegel, la nottola di Minerva, che reca la sapienza, prende a volare sul far della sera. E un buon auspicio che adesso stia aggirandosi dalle parti di nazioni e nazionalismo8.

Depoliticizzando la nazioneL’analisi condotta da Hobsbawm è una fra le tante che preannunciano la prossima scomparsa delle nazioni e del nazionalismo. Essa rappresenta la variante marxista di questa lettura, con la sua distinzione tra un naziona­lismo positivo e unificatore (appartenente però al XIX secolo) e un nazio­nalismo negativo e disgregante (quello contemporaneo). Questa precisa­zione è in linea con la distinzione storica che Hobsbawm, in conformità con l’analisi di Marx ed Engels, ha tracciato tra due tipi di nazionalismo, cioè quello europeo e quello non europeo. Il primo, che fiorì tra il 1830 e il 1870, è un nazionalismo politico democratico di massa; un naziona­lismo delle “grandi nazioni”, che prende spunto dagli ideali di cittadi­nanza della Rivoluzione francese. Il secondo, caratteristico del periodo che va dal 1870 al 1914, è invece un nazionalismo prettamente etnico e linguistico, una reazione delle piccole nazionalità agli obsoleti governi degli imperi ottomano, asburgico e zarista tipica soprattutto tra popoli periferici e spesso stanziati in zone arretrate9.

Nella seconda metà dell’Ottocento, secondo Hobsbawm, l’urbanizza­zione, le migrazioni di massa e le nuove teorie sulla “razza” diedero un nuovo significato politico e un supporto di massa alle attività degli intel­lettuali romantici tra le “classi intermedie dotate di un certo qual grado di istruzione”. Questo portò alla voga del nazionalismo etnico o linguistico (o etnolinguistico): il tipo di nazionalismo così superfluo nell’era globale delle economie e dei governi su vasta scala che, tuttavia, continua a infiammare l’immaginazione della gente o che, per meglio dire, fornisce le risposte alle loro paure e debolezze. Il nazionalismo più antico, quello

8 Ibid., pp. 181-83 [trad. it. pp. 213-15]; cfr. Kedourie (1960). Nel suo capitolo intro­duttivo Hobsbawn elenca una serie di opere pubblicate a partire dagli anni Settanta che a suo giudizio rappresentano degli avanzamenti nel campo degli studi sul nazio­nalismo. Dalla lista sono esclusi i numerosi traguardi raggiunti dai lavori pionieristici di Carlton Hayes, Louis Snyder, Boyd Shafer e Hans Kohn. Vedi in proposito A. D. Smith (1992b).9 Ibid., cap. 1. Per il giudizio di Marx e Engels sul nazionalismo europeo vedi Davis(1967).

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democratico-politico, avendo compiuto il suo percorso storico e chiuso il suo ciclo, è stato soppiantato dall’ondata dei più recenti nazionalismi etnolinguistici, da considerare poco più che risposte reazionarie o confu­se alla rapidità dei cambiamenti globali in atto. Anch’essi, però, presto appassiranno e si dissolveranno al cospetto degli inesorabili movimenti politico-economici a livello planetario propri della storia mondiale.

Bisogna ora dire che questa sorta di ottimistico evoluzionismo materia- lista non è rintracciabile solo negli studiosi marxisti. Di esso sono per­meate le critiche liberali al nazionalismo, e può anche essere ritrovato in una gamma di autori che va da Carr e Kohn a Smelser e Breuilly. Tutte queste critiche accettano tendenzialmente la persistente realtà e il ruolo storico dello stato nazionale diffusosi su vasta scala, ma cercano però di depoliticizzarlo e di renderlo inoffensivo col ridurre la nazione — nell’in­teresse di segmenti più ampi dell’umanità o persino di questa nella sua totalità10 - a un fenomeno puramente culturale e folcloristico privato di tutti i suoi significati politici.

Un modo di raggiungere questa depoliticizzazione è quello di separare il livello culturale della nazione dal livello politico dello stato, o meglio, dalle unioni economiche a livello regionale formate dagli stati. Solamente queste ultime aggregazioni, infatti, possiedono una “reale” importanza sociale e politica all’intemo dell’ordine mondiale in evoluzione, non potendo lo “stato-nazione” contenere ulteriormente nei suoi confini sia le strutture di mercato esistenti sul territorio sia la cultura pubblica di massa. Avendo perduto entrambe queste funzioni pubbliche, la nazione discende alla condizione di “etnicità” e “cultura”, o “folclore”: un attacca­mento puramente romantico a un’epoca anteriore, che fra l’altro si ade­gua bene all’espressività culturale romanticizzata di alcune correnti inter­pretative. Il concetto di nazione, così, perde tutte le dimensioni politiche che aveva in passato11.

Un secondo modo di depoliticizzare la nazione consiste nella sua demi­litarizzazione. La nazione, che sia legata a un determinato stato o no, non è più l’attore principale dell’arena internazionale, in quanto nella scena attuale c unita esistenzialmente ai suoi vicini o a un’alleanza militare regionale, e non può più quindi condurre una politica estera o di difesa realmente indipendente. Lo stato-nazione non si trova più libero di con­durre come desidera le sue relazioni estere: è legato non solo da norme

10 Carr (1945); Kohn (1967); Smelser (1968); vedi anche Deutsch (1966) e Breully(1982). Nonostante il diverso approccio teorico e disciplinare, l’evoluzionismo libera­le è comune tra questi e altri studiosi.11 Vedi Nairn (1977, cap. 5) per la distinzione tra realtà materiale oggettiva e sogget­tivismo romantico. Per l’approccio culturale fra gli studiosi vedi Meadwell (1989).

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generali e internazionali, come quelle della Carta delle Nazioni Unite, ma anche da specifici trattati regionali e da sodalizi in cui si trova coinvolto, volente o nolente. Con la perdita della garanzia militare, la sovranità nazionale viene ridotta radicalmente, se non addirittura abolita.

In terzo luogo, infine, si può normalizzare “la nazione” e ritualizzare il suo nazionalismo. Tramite le Nazioni Unite, per mezzo di forum e di con­ferenze internazionali, intese multilaterali, organizzazioni e simili, le aspi­razioni nazionali di ciascuna nazione vengono legittimate e quindi doma­te. Esse diventano parte dell’ordine istituzionale internazionale e della rete formata dagli obblighi sanciti dall’insieme dei vari accordi. Le “zanne” del nazionalismo in questo modo vengono estratte e diventano de rigeur un’identità nazionale e un patriottismo sani e giovevoli, con il loro ripetuto simbolismo di bandiere, inni e parate. Con il rispetto reciproco delle leggi e dei costumi nazionali, il nazionalismo è spogliato della sua forza politica e ridimensionato a una sfera simbolica, rappresentata, ad esempio, da una competitività a carattere economico, artistico o sportivo.

Quello che tutti questi tre aspetti hanno in comune è il concetto di scindere la nazione dal dominio politico e di restituirla alla società civile e all’ambito culturale da cui scaturì, come se il genio malvagio potesse venire nuovamente rinchiuso nella proverbiale bottiglia. Tale intenzione, sfortunatamente, è indice di un serio errore di comprensione della natu­ra del nazionalismo, in quanto non solo va ad asserire che il nazionalismo culturale e il nazionalismo politico siano due fenomeni distinti, ma addi­rittura che non siano neppure in relazione l’uno con l’altro. Ciò vuol dire scordarsi di una componente essenziale del potere del nazionalismo, cioè della sua camaleontica abilità di trasformarsi in base alle percezioni e ai bisogni di diverse comunità e strati sociali, di fazioni o singoli individui antagonisti fra loro. E inoltre fortemente deleterio non interpretare esat­tamente il rapporto tra cultura e politica che esiste all’interno del nazio­nalismo. Quest’ultimo non può infatti essere ridotto a un principio uniforme secondo cui l’unità culturale va resa congruente con l’unità politica. Tale interpretazione non solo omette numerosi e vitali principi del fenomeno nazionalista, ma manca persino di cogliere il fatto che lo sviluppo di qualsiasi nazionalismo dipende dal collegare strettamente - se non proprio armonizzare — la rigenerazione morale e culturale di una comunità con la mobilitazione politica e la volontà di autodeterminazio­ne dei suoi membri. Quindi, l’idea che il nazionalismo possa essere “cir­coscritto” in qualche ambito, anche fosse quello culturale, risulta ingenua e fondamentalmente scorretta. Quest’atteggiamento implica la rimozione della molla principale del nazionalismo, cioè l’ideale del recupero della rigenerazione comunitaria in tutti i domini della vita umana, e in più la sostituzione della “forma pura” della nazione territoriale con il suo conte­

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nuto emozionale (sulla falsariga dell’altrettanto vuota strategia “nazionale nella forma, socialista nel contenuto...”)12.

Anche dal punto di vista empirico, la ricomparsa continua del naziona­lismo in varie parti del mondo - senza il risparmio degli stati federali o delle società più avanzate - suggerisce quanto pericolosamente erronea e ingannevole sia la convinzione che la depoliticizzazione della nazione possa rappresentare una contromisura ai nazionalismi aggressivi. Infatti, il rico­noscimento conclusivo di Hobsbawm, riguardante la riapparizione e la dif­fusa rifioritura dei nazionalismi etnolinguistici anche nei paesi più indu­strializzati, scalza la sua precedente argomentazione secondo la quale le nazioni e i nazionalismi sarebbero man mano stati soppiantati dalle forze transnazionali insite nella tarda modernità. Non può non far riflettere anche gli evoluzionisti più ottimisti o accaniti il fatto che sono proprio le regioni degli stati più ricche e con il settore educativo più sviluppato quel­le che spesso spingono per un’autonomia radicale o persino per la secessio­ne - il Punjab in India, gli stati baltici nell’ex Unione Sovietica, la Slovenia e la Croazia nell’ex Jugoslavia, la Catalogna, i Paesi Baschi, il Quebec — e che continuano a farlo nonostante il nazionalismo sia sulla scena politica da quasi duecento anni. Con il destino di tanti stati multietnici e multina­zionali in equilibrio precario, solo una persona veramente superba tente­rebbe di dimostrare la veridicità di una propria tesi sul successo delle “nazioni pluralistiche” fondandosi sul modello americano o su quello australiano. In proposito, sarebbe più azzeccato affermare che i nazionali­smi etnici la fanno oggi da padroni nell’edifìcazione degli stati contempo­ranei e che il nazionalismo politico di uno stato nazionale e l’etnonaziona- lismo presente nelle sue diverse comunità convivono a disagio, se non sono proprio costantemente in conflitto: una situazione che esiste almeno dal 1945 e che non mostra tuttora segni d’involuzione o di risoluzione13.

Non ci sono, del resto, nemmeno sensibili segnali concernenti la demili­tarizzazione delle nazioni. E vero che le superpotenze nucleari stanno attuando profondi tagli nei loro enormi arsenali, ma, allo stesso tempo, i nuovi pericoli di proliferazione nucleare in Kazakistan, Ucraina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord sono stati accompagnati da un’imponen­

12 Riguardo a questo principio vedi Gellner (1983, cap. 1); per le critiche a questa let­tura unidimensionale del nazionalismo vedi Orridge (1981) e Hutchinson (1987).13 Sul riemergere postbellico delPetnonazionalismo in Occidente vedi Esman (1977) e Williams (1982a); su alcune delle cause dell’irredentismo e della secessione etnica in Asia e Africa vedi Horowitz (1985, cap. 6). Horowitz enfatizza il peso della povertà e dell’arretratezza di gruppi sociali o regioni, ma è, tuttavia, abbastanza evidente che anche i gruppi “avanzati” delle regioni più ricche siano suscettibili alle richieste di mag­giore autonomia, e persino alla secessione da stati multietnici non graditi.

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te crescita del commercio d’armi, rivolto soprattutto ai combattenti nelle aree di crisi, e da un costante aumento degli stanziamenti per le spese mili­tari nei bilanci di molti paesi. Un gran numero di stati, anche appartenen­ti all’Unione Europea, rimane saldamente legato a una politica estera e di difesa indipendenti, una tendenza attualmente alimentata dalle nuove preoccupazioni concernenti il terrorismo, la diffusione di epidemie, il traf­fico di stupefacenti e l’immigrazione di massa. La paura delle ondate di immigranti ha fomentato l’ostilità verso i nuovi arrivati, stimolando un rin­novato interesse verso l’identità culturale, la solidarietà interna e la difesa dell’interesse nazionale, ansie che vengono poi trasformate dagli estremisti in razzismo xenofobo e antisemitismo e dai gruppi più moderati nella riaf­fermazione di un nazionalismo rivolto alla difesa del proprio stato. Gli squarci molto violenti portati negli ultimi anni a quello che una volta era vantato come il “nuovo ordine mondiale” — in Iraq, Bosnia, Somalia, Sudafrica, Caucaso e altrove - hanno costretto gli stati nazionali a rivedere i loro impegni e orientamenti nel settore militare e in quello della sicurez­za. Nella maggioranza dei casi, questa revisione ha condotto gli stati ad agire in base a quello che le loro élite consideravano l’interesse nazionale.

Neanche la promozione della normalizzazione ha inoltre affievolito i “fuochi del nazionalismo”. Se a quest’ultimo è stata accordata una gene­rica legittimazione globale - almeno se guardiamo al diritto all’autode- terminazione sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, applicato però sol­tanto ai popoli delle ex colonie - , è anche vero che allo stesso tempo que­sta sta venendo erosa, se non altro nel senso che le rivendicazioni nazio­nalistiche di altre popolazioni continuano a essere regolarmente denun­ciate. Nonostante esista un’ampia accettazione della nazione come unica base per l’azione politica e la mobilitazione di massa, il nazionalismo, sia come ideologia che come movimento, resta sospetto, mentre il separati­smo nazionale viene generalmente disapprovato. Nemmeno l’idea di bar­dare il “nazionalismo sbrigliato” legando le nazioni di determinate regio­ni con unioni economiche e politiche ha riscontrato grande successo. Ciò non significa che in tutto il mondo molti stati nazionali non cooperino attraverso una moltitudine di progetti politici e pratici (come è successo del resto in passato), ma tali collaborazioni non costituiscono una garan­zia contro gli improvvisi risvegli delle passioni nazionali o del separatismo etnico, in qualunque momento le circostanze internazionali o le condi­zioni sociali li permettano o li incoraggino14.

I precedenti punti indicano la vacuità delle previsioni e i fallimenti delle politiche che intendono superare l’idea di nazione e soppiantare il nazio­

14 Sulle condizioni internazionali e le dimensioni del nazionalismo vedi Hinsley (1973) e Wiberg (1983). Il diritto all’autodeterminazione nazionale nella Carta delle

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nalismo attraverso la loro “depoliticizzazione”. Quest’atteggiamento vanta una lunga storia, risalendo infatti al tempo della Società delle Nazioni. I ripetuti fallimenti dei tentativi di “depoliticizzazione” non sono però sufficienti a scoraggiare i diffusi approcci evolutivi al naziona­lismo (fra l’altro incoraggiati dal nazionalismo stesso), ma dovrebbero almeno metterci in guardia di fronte alle affermazioni più radicali dei sostenitori di tali approcci sull’inevitabile “cammino della storia” e le irre­versibili forze della globalizzazione.Nuovi imperialismi?Sia nell’approccio dell’evoluzionismo socialista che in quello liberale è sempre stato sottinteso l’assunto che la nazione su grande scala — o la “grande nazione”: comunque sempre uno stato nazionale - fosse l’unico veicolo del progresso storico e sociale. Quindi, una volta che questa aves­se esaurito la sua funzione nella storia mondiale, consistente nel convo­gliare tutti i popoli verso il processo di civilizzazione, sarebbe stata sosti­tuita da forme ancora più grandi e potenti di aggregazione umana. In quanto passaggio obbligato nell’ascesa dell’umanità, la grande nazione avrebbe ceduto il passo, volente o nolente, a unioni o comunità a livello continentale e regionale. Queste considerazioni ci portano comunque verso il concetto di un “nuovo imperialismo”15.

Nelle più recenti interpretazioni della questione, il principale fattore di sviluppo nella storia mondiale viene identificato nelle gigantesche compagnie multinazionali, nei grandi blocchi di potere e nei vasti siste­mi di comunicazione di massa che ormai circondano il globo. Secondo i teorici del “capitalismo avanzato” nella sua fase globale, sono proprio le grandi multinazionali - con i loro imponenti bilanci, i veri eserciti di personale specializzato, gli investimenti massicci, i mercati a livello pla­netario, le tecnologie avanzate - il motore primario della modernità capitalista. La loro posizione dominante e la loro preponderanza su quasi tutti gli stati — con l’eccezione delle potenze principali — rappre­sentano un nuovo stadio del capitalismo. Il loro campo d’azione esige però una classe transnazionale di capitalisti, come anche una potente ideologia globale e una cultura ispirata al consumismo di massa, con le relative teorie e pratiche della pubblicità di massa e il confezionamento degli incentivi materiali che possano trascinare sempre più persone e

Nazioni Unite è stato ristretto ai movimenti di liberazione dai domini imperiali e colo­niali, ma ci sono segnali (vedi Slovacchi, Sloveni, Croati, Palestinesi) di un suo amplia­mento ai movimenti di autodeterminazione etnica dagli stati nazionali.15 Per una versione marxista vedi Davis (1967) e Connor (1984a).

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popolazioni intere nel regno delle multinazionali. Tutte queste pratiche, immagini e idee, sradicate da qualsiasi contesto individuale, sono ormai come una moneta corrente interscambiabile nel mercato mondiale della cultura consumistica: lo stato e le identità nazionali vengono, di conse­guenza, bypassati e relativizzati16.

Le teorie del “postindustrialismo” sono state particolarmente impres­sionate dalle potenzialità politiche dei nuovi sistemi di comunicazione elettronica di massa. Queste ampie reti di telecomunicazioni, grazie agli enormi progressi compiuti nel campo dalle tecnologie informatiche più sofisticate, ai quali si è innestato l’impatto della nuova generazione dei mass media visivi, hanno certamente promosso l’assemblaggio standar­dizzato di prodotti, immagini e mercati da parte delle compagnie multi­nazionali. Allo stesso tempo, queste reti hanno fornito alle grandi orga­nizzazioni internazionali, come il FMI o la Banca mondiale, l’opportunità di crescere e di sfidare gli stati nazionali (a parte i maggiori), indicando anche degli obiettivi alla nuova cultura cosmopolitica globale, capaci come sono di superare i confini e di liberarsi dalle limitazioni imposte dall’ambito nazionale. Pare che lì dove l’esperanto ha fallito, possa riusci­re la tecnologia dell’informazione17.

Ma esiste anche un’altra possibilità. I nuovi sistemi di comunicazioni di massa — radio, televisione, videoregistratori, personal computer — stanno anche incoraggiando comunità linguistiche e gruppi sociali e politici molto più piccoli a creare e sostenere delle proprie dense reti socioculturali, che si oppongono sia agli stati nazionali sia a una più ampia cultura su scala con­tinentale o globale. Questa è una causa, forse inaspettata, della rinascita dei nazionalismi etnici, ma non è certo la sua anima, come denunciano Hobsbawm e altri; questo fenomeno continua comunque a rafforzarsi all’ombra di organizzazioni più grandi e più slegate, come l’Unione Europea, e delle loro ideologie pretenziosamente onnicomprensive18.

Il sogno dell’unità globale non è comunque una novità. Risale difatti a quegli imperi universali - Hammurabi e Alessandro, Giustiniano e Harun al-Rashid, Genghis Khan e Carlo V, Napoleone e l’Impero britan­nico — che si sono considerati e proclamati i corrieri della civilizzazione e hanno guardato agli altri come a selvaggi arretrati e barbari. Questi impe­ri si sono inoltre presentati come civiltà universali e sacre, dominando il

16 Questa tesi è stata avanzata da Sklair (1991); cfr. anche Mandel (1975). Per il con­cetto di “sradicamento” vedi Giddens (1991).17 Per una critica delle descrizioni dell’imperialismo dei media e dell’impatto globale dei mass media vedi Schlesinger (1987).18 Ciò è quanto sostenuto da Richmond (1984) nel contesto di un più ampio muta­mento da una società di tipo industriale a uria società di servizi “postindustriale”, il

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mondo conosciuto e propagandosi tramite un linguaggio elitario e una cultura “elevata” che non conosceva confini (e ciò nonostante il fatto che la maggior parte dei loro abitanti trascorresse la propria esistenza entro orizzonti culturali molto più ristretti e fosse toccata solo occasionalmen­te dalle tradizioni delle élite).

Oggi, certamente, quest’imperialismo antiquato, sebbene non sia anco­ra scomparso, è stato invalidato e scacciato da un nazionalismo assertivo.I fedeli della cultura globale sono comunque ben lontani dal desiderio di essere in qualche modo associati alle antiche aspirazioni imperiali, anche nelle varianti culturali più miti. Il loro relativismo culturale e il loro espli­cito cosmopolitismo ecumenico si trovano infatti in netta opposizione non solo rispetto a un nazionalismo divisore, ma anche a tutti i generi d’imperialismo aggressivo e autoesaltatore.

Ma può una cultura globale evitare l’imperialismo culturale? Può diventare realmente cosmopolitica? L’inglese, ad esempio, non è forse sempre più una globale lingua fianca?. Le istituzioni europee (in prevalen­za quelle inglesi e francesi) e lo stile di vita americano non hanno forse cominciato a definire gran parte di quella che viene considerata la cultu­ra internazionale, cioè il contenuto culturale di telefilm come “Dallas”, della musica pop e dei jeans, ma anche della tecnologia dei computer, dei mass media, dell’architettura urbana modernista, della legge, della demo­crazia e della giustizia sociale costituzionalizzate? Perfino le cornici ideo­logiche semiuniversali, cioè il capitalismo e il socialismo, erano legate a uno specifico contesto storico, a particolari formazioni statali e a distinti blocchi di potere regionali, basati rispettivamente sull’egemonia statuni­tense e quella russa. Ma noi possiamo sfuggire agli attributi di un nuovo imperialismo, di una nuova Pax Americana (o Japonica o Europeana), ponendoci sotto la protezione cosmopolitica della cultura globale? In realtà, troppo spesso gli esempi scelti per illustrare l’avanzata di quest’ul­tima traggono le loro motivazioni e gran parte della loro attrazione dalla forza e dal prestigio di uno dei grandi centri metropolitani di potere o da una delle culture del mondo contemporaneo, cioè dai nuovi “imperi cul­turali” della modernità. Questo fatto suggerisce almeno che la ricerca della cultura globale e l’ideale del cosmopolitismo sono continuamente sovvertiti dalle realtà della politica di potere e dalla natura e dai vari aspet­ti sotto cui si presenta la cultura stessa19.

tu tto sotto l’egida del capitalism o e del comuniSmo. Per i m ovim enti sociali com e reti di pro testa interpersonale vedi M elucci (1989) e, p iù generalm ente, A. D. Sm ith (1990a).1J Sull’imperialismo culturale e l’autonomia nazionale vedi Tomlinson (1991, in par­ticolare il cap. 3).

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Una cultura senza memoria?Ma tentiamo per un momento di immaginare una cultura globale con una reale connotazione non imperiale, non legata a un particolare ambito spa­zio-temporale e, inoltre, priva al suo interno di un’origine e di un carattere nazionale. Una tale forma di cosmopolitismo viene talvolta giudicata una fortuita concomitanza o un prodotto della cultura “postmoderna”. Senza entrare nella dibattuta questione riguardante le diverse forme e i significati da attribuire al “postmodernismo” nelle sue varie espressioni, ciò che la giu­stapposizione fra globalismo e postmodernismo sembra esprimere è un movimento contrassegnato da ambivalenza ed eclettismo culturale o da una mescolanza di particolarità locali sposate a una tecnologia scientifica stan­dardizzata e semplificata. Da una parte c’è il giocoso e talvolta satirico uso, filtrato dai mezzi di comunicazione, di svariati stili, immagini e parole tra­dizionali estratti da culture più antiche e impiegati nell’ambito letterario, musicale, artistico e nella moda; dall’altra parte c’è la verniciatura unifican­te di un discorso “scientifico” semplificato e uniforme che risponde alle qualità dell’infrastruttura determinata dalle comunicazioni tecnologiche20.

A giudizio di alcuni, in verità, la narrazione della nazione stessa e, in par­ticolare, il concetto attuale di “popolo” condividono qualcosa di queste forme ibride ed eclettiche. Entrambi sono infatti composti da “brandelli e frammenti” di culture storiche e caratterizzati da un “tempo doppio” e da una frattura tra l’autorevole narrativa storica e pedagogica del popolo e la narrativa ripetitiva e performativa del significato assunto nell’esistenza quo­tidiana e tramite il quale il popolo viene riprodotto. In questo scenario, l’“identità nazionale” è diventata ibrida e ambivalente: in sostanza, un assemblaggio delle storie narrate su di essa da tutti i tipi di gruppi sociali e di individui, specialmente da figure come l’emarginato, l’outsider, l’immi­grato, l’esiliato, il subordinato, il cittadino delle ex colonie. Anche una cul­tura globale, presumibilmente, rivelerebbe un carattere altrettanto ibrido, ricco di componenti ambivalenti, se non addirittura contraddittori: una miscela di motivi e stili tradizionali locali, popolari e nazionali; un discorso scientifico moderno, quantitativo e tecnologico; una cultura dove prevale il consumismo di massa, composta da un mercato, immagini, usanze e slogan standardizzati e massificati; e, infine, l’interdipendenza a livello planetario dei precedenti elementi, strutturata sulla pressione unificatrice globale delle telecomunicazioni e dei sistemi d’informazione computerizzati21.

20 Per una descrizione più ampia, dalla quale attinge il presente capitolo, vedi A. D. Smith (1990b).21 II carattere ibrido e ambivalente delle identità nazionali nell’Occidente moderno - e la loro ridefinizione nei termini dell’“altro”: in questo caso minoranze, immigranti e abitanti delle ex colonie - è stato messo in luce da Bhabha (1990, cap. 16).

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Nella pratica, una cultura cosmopolitica ibrida acquisterebbe certa­mente sia tratti “moderni” che “postmoderni”. Ci aspetteremmo quindi che essa racchiudesse il discorso razionalista, tecnologico e scientifico della modernità, ma anche la manipolazione ambivalente e nostalgica, seppure cinica e artificiale, di un passato pluralistico ed eterogeneo, con le sue tradizioni popolari, le sue lingue e le sue culture nazionali (una manipolazione che contraddistingue la reazione “postmoderna” alla modernità). E tutto quest’insieme si appoggerebbe sulla base quantitativa e tecnologica di reti informatiche sempre più sofisticate e di sistemi elet­tronici di comunicazione di massa.

Nella concezione appena presentata, una cultura globale ibrida mostra di possedere tre attributi che indicano la sua reale novità: essa è infatti universale, tecnologica ed eterna. È universale nel senso in cui nemmeno l’impero più esteso e la sua connessa cultura “cosmopolitica” potrebbero mai essere. Né la civiltà cinese, né quella romana, buddista o islamica avrebbero mai potuto aspirare a una tale universalità, in quanto esse hanno sempre avuto altri imperi e altre culture a contrastarle sul loro limes. Queste civiltà sono sempre state un’espressione delle caratteristiche di determinate popolazioni in altrettanto determinati periodi della loro storia; inoltre, per quanto tenue potesse divenire tale rapporto, questi imperi erano comunque legati a specifici luoghi e momenti storici, men­tre la loro cultura era quasi sempre diffusa attraverso eserciti conquistato- ri. Anche civiltà grandiose come l’islamica e la cristiana, considerate da John Armstrong le matrici di una simbologia culturale valida per nume­rose comunità etniche più piccole, tradivano il carattere del loro luogo d’origine o della loro fonte di legittimazione. La cultura globale di oggi o di domani, d’altra parte, sebbene sia più sviluppata in America e in Europa occidentale, non può essere facilmente ascritta a un particolare contesto spaziale e temporale. Nel mosaico di elementi di cui è compo­sta, infatti, essa ha perso molto della sua specificità spazio-temporale, ma è sicuramente destinata a lasciare per strada ancora parecchi dei suoi attri­buti: essa diventerà veramente planetaria22.

L’odierna cultura globale è anche la prima civiltà puramente tecnologi­ca. Il suo uso dell’elemento etnico o nazionale è emotivamente neutrale. Il suo modo di mescolare tali elementi è giocoso e calcolato ed elimina ogni forma di passione dalle diverse problematiche, riducendole a rompi­capi tecnici che richiedono soluzioni puramente tecniche. Il suo cosmo­

22 Sull’Islam e la Cristianità medievali come civiltà etnoreligiose, comprendenti iden­tità etniche più piccole nutrite da entrambe con risorse a carattere simbolico vedi Armstrong (1982, cap. 3). Per quanto riguarda gli imperi a burocratizzazione centra­lizzata vedi Eisenstadt (1963) e M ann (1986, voi. l). Sui regni sacri vedi Anderson (1983, cap. 2).

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politismo riflette la sua base tecnologica uniforme, con i numerosi siste­mi di comunicazione che creano reti sociali interdipendenti e che si espri­mono attraverso un identico discorso standardizzato, nonché tecnico e molte volte anche quantitativo. Per questo motivo l’intellighenzia tecnica è diventata cruciale per la nuova modernità e ha soppiantato gli intellet­tuali umanisti e spesso nazionalisti. Sono i tecnici che devono far funzio­nare e gestire i sistemi globali di comunicazione di massa, mentre è la loro cultura tecnica legata al discorso critico che determina il carattere specifi­co dell’emergente cultura globale23.

Inoltre, una cultura globale non ha età. Inseguendo continuamente un presente inafferrabile, una cultura universale artificiale e standardizzata non possiede un background storico, né un ritmo di sviluppo, né il senso del tempo e dell’ordine. Senza un proprio dominio e fuori da ogni epoca, tale cultura artificiale può scavare nel passato per meri fini illustrativi, oppure può cinicamente servirsi di temi estratti da particolari contesti storici con capriccio eclettico, ma comunque rifiuta di darsi una localizzazione stori­ca. Priva di ogni senso dello sviluppo, a parte un presente performativo, ed estranea a qualsiasi idea di “legame”, la vera cultura globale è fluida, onni­presente, priva di forma e superficiale dal punto di vista storico.

Ma perché le persone si figurano e temono l’avvento di una simile cul­tura cosmopolitica e senza radici? Ed essa potrebbe mai realmente autoso- stenersi? La gente, comunque, immagina e paventa il suo arrivo a causa della rapida avanzata dei grandi blocchi di potere, delle enormi multina­zionali, dei sistemi di comunicazione di massa e dell’inevitabile cultura del consumismo di massa di cui abbiamo parlato in precedenza. Dopotutto, è palese una crescente uniformità culturale ed economica in tutti i tipi di set­tore e di prodotto. L’avanzamento della cultura americana e di quella pop, della lingua inglese, dei media visivi e della tecnologia informatica com­puterizzata rappresenta chiaramente una significativa tendenza verso la formazione di una cultura globale — e questo trend, a quanto pare, non cambierà, almeno per alcuni decenni. Ma a cosa equivalgono, in realtà, tali cambiamenti? Un numero così grande di uomini e donne potrà vivere di essi, oltre che con essi? E ancora, essi corrispondono a una cultura nuova? A un nuovo stile di vita che è anche un modo di vivere e che può infon­dere speranza, oltre che conforto, agli esseri umani in presenza di perdite materiali, di un lutto o della morte? Quali ricordi, quali miti e simboli, valori e identità può offrire una simile forma di cultura globale?

Questo è quanto, in sostanza, le culture del passato hanno sempre cer­cato di fornire. Queste ultime, a differenza della cultura globale - priva di

23 Vedi Gouldner (1979) per la distinzione tra intellighenzia umanistica e intellighen­zia tecnica.

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memoria e storicamente superficiale, basata presumibilmente sul discorso performativo delle abitudini quotidiane — erano costruite anche attorno a ricordi, tradizioni, miti e simboli condivisi dalle successive generazioni degli elementi culturali o politici della popolazione, della classe, della regione, del governo, della comunità etnica o religiosa che esse tentavano di cristallizzare ed esprimere. Quindi, al contrario della cultura cosmopo­litica demitizzata e ambivalente del “qui e ora”, le culture del passato posavano le loro fondamenta su miti, simboli, memorie e valori origina­ri, narrati, ri-narrati e riaffermati dalle successive generazioni di ciascuna delle descritte comunità-culture. Se la futura cultura planetaria è priva di tradizione e neutra di fronte ai valori, le numerose e distinte culture pas­sate e presenti hanno invece sempre cercato di preservare i loro “insosti­tuibili valori culturali” - come li chiamava Max Weber — e i simboli, i riti, gli ideali e le tradizioni peculiari di coloro che le avevano forgiate e vi erano appartenuti24.

Ma forse non dovremmo misurare la cultura cosmopolitica del futuro secondo gli standard adottati per le culture passate, vincolate al loro tempo e con tutti i loro limiti e particolarismi. Per definizione, le cultu­re radicate nel passato, qualunque pretesa avessero, non si consideravano in possesso delFuniversalità necessaria per affermarsi come patrimoni globali dell’intera umanità. Questo dato è finora indubbiamente corret­to, ma esiste qualche prova per la quale noi saremmo ora in grado di for­giare una cultura realmente universale, che possa attrarre la totalità degli esseri umani e soddisfare i loro bisogni con le modalità proprie delle cul­ture passate? In quest’eventuale cultura globale l’adozione di motivi e simboli presi da tanti e particolari trascorsi etnici e nazionali suggerisce forse che questi ultimi continuano a pervadere la nostra sensibilità e a permeare le nostre strutture sociali? Ma saremmo davvero capaci di immaginarci sufficientemente liberi dal nostro passato, ancora vivo e penetrante, con tutte le sue credenze e presunzioni, e di iniziare dacca­po, per così dire, con la grande impresa di costruire una cultura globale, tecnologica, universale, senza tempo? Questo non ci indica pure che una tale cultura globale andrebbe dopotutto a rappresentare un taglio radi­cale con il passato nazionalista, che fra l’altro è proprio ciò che i suoi sostenitori sembrano credere e desiderare che sia? E, in fondo, la cosa migliore in cui si potrebbe sperare nel XXI secolo non è proprio il conse­guimento di quella “diversità nazionale nell’unità” predicata da alcuni eurofederalisti?

Resta il fatto che le culture sono storicamente specifiche, e così pure il loro immaginario. L’immaginario preconfezionato della cultura globale

24 Weber (1947, p. 176).

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visionaria può essere triviale e superficiale - una questione di pubblicità per prodotti di massa — oppure radicato nelle culture storiche esistenti, da cui attinge tutti i significati e il potere che ne può ricavare. Queste cultu­re passate e presenti esprimono le esperienze di particolari gruppi sociali che compaiono appena sotto la superficie del ben assemblato immagina­rio dell’ibrida e derivativa civiltà dei prodotti di massa. Per un periodo potremmo comunque essere in grado di tirare avanti “inventando tradi­zioni” e creando miti. I miti e le tradizioni devono risuonare tra un gran­de numero di persone e attraverso più generazioni, nel caso si voglia che siano mantenuti, e questo significa che devono inserirsi nell’esperienza collettiva e nella memoria di particolari gruppi sociali. Se vogliono anda­re oltre la generazione dei propri fondatori, anche le nuove tradizioni devono quindi essere culturalmente specifiche e capaci di attrarre e mobi­litare i membri di determinati gruppi sociali, escludendo tacitamente gli outsider25.

In breve, una cultura globale senza tempo non risponde ad alcun biso­gno esistenziale e non evoca alcuna memoria. Se poniamo la memoria al centro dell’identità, non possiamo percepire nella creazione di tale cultu­ra alcuna identità globale, come neppure un’aspirazione a quest’ultima o un’amnesia collettiva che possa far rimpiazzare le esistenti culture “radi­cate” con una cultura cosmopolitica “piatta”. Questa rimane quindi un sogno confinato in pochi intellettuali, non suscitando alcuna emozione tra le grandi masse di persone, divise ancora nelle loro abituali comunità di classe, genere, regione, religione e cultura.

Immagini, identità, culture: tutte esprimono la pluralità e il particola­rismo di storie singole e la loro lontananza da qualsiasi nuovo imperiali­smo e da qualsiasi visione di un ordine globale cosmopolitico. Il falli­mento dei poteri egemonici nel controllo dei nazionalismi di comunità etniche disposte a combattere o di stati nazionali esaltati scorre parallela- mente alla continua riaffermazione dell’autonomia comunale o nazionale di fronte alle richieste e agli incitamenti deH’imperialismo culturale e del cosmopolitismo senza tempo dei beni di massa. Che siano nella sfera dei mass media, delle arti, dell’educazione o degli stili di vita quotidiani, le pretese deU’imperialismo e del cosmopolitismo culturali d’élite vengono continuamente contestate, mentre, dietro il quasi-universale riconosci­mento dei prodotti per il consumo di massa, i loro confini sono ritrac­ciati. In ciascun caso, le richieste e le domande sono contestualizzate dalle tradizioni e dalle percezioni della comunità ricevente, come del resto

25 II concetto di “tradizioni inventate” è analizzato e illustrato in Hobsbawn e Ranger(1983); cfr. Schlesinger (1987) per le differenti accoglienze nazionali e la comprensio­ne dell’immaginario televisivo.

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fanno le generazioni successive delle intellighenzie locali, che cercano di adattare per sé e per le proprie comunità le esigenze di occidentalizzazio­ne e di una cultura autoctona. In questa cronica guerra culturale il ruolo chiave è comunque giocato dal concetto di nazione26.ConclusioneDue presupposti sono alla base di tutte le precedenti argomentazioni. Il primo tocca il concetto di “livello”. Per Marx e Hobsbawm, storicamen­te il nazionalismo presupponeva una nazione in possesso di una determi­nata “soglia” economica, cioè una nazione che potesse ospitare la moder­na economia capitalista in virtù della sua capacità di garantire la popola­zione e lo spazio territoriale bastanti per l'autosufficienza economica non­ché per l’indipendenza politica. Tale nazione assicurava un vasto mercato territoriale per gli scambi, gli investimenti, il lavoro, la produzione di beni. Anche se il territorio in questione non possedeva risorse naturali proprie, perlomeno non in quantità sufficiente, esso avrebbe comunque potuto sostenere una popolazione che avesse l’adeguata competenza per la produzione di beni di consumo di massa indirizzati alle aree meno svi­luppate del pianeta. Un simile criterio economico esclude le “mini-nazio­ni” dalle unità politiche autosufficienti, considerandole in verità delle spine fastidiose sulla strada del progresso capitalistico27.

Proprio questo progresso sociale e politico fu la conquista storica del classico nazionalismo politico di massa dell’Occidente dall’epoca della Rivoluzione francese fino agli anni Sessanta del XIX secolo. La presun­zione in proposito riguardava il fatto che le nazioni in grado di soddi­sfare il descritto criterio economico e politico, che poteva fornire i mer­cati territoriali per il capitalismo avanzato e la sua cultura di massa, ave­vano - e hanno ancora - un ruolo centrale da giocare nello sviluppo del potere politico e dei rapporti geopolitici. Questi ultimi contribuirono decisamente e in modo sproporzionato - se non intenzionalmente - alla divisione internazionale del lavoro. Le nazioni che avessero fallito di soddisfare il criterio dell’autosufficienza economica e politica non pote­vano trovare un ruolo nel grande movimento della storia, e l’incorpora­zione nell’economia capitalista globalizzante, attraverso la breve stagio­ne della loro indipendenza politica, segnava anche la loro imminente scomparsa come nazioni politiche autonome e capaci di autodetermi­nazione. Quest’opinione è condivisa da buona parte dei nazionalisti,

Tomlinson (1991, cap. 3); cfr. il dibattito sulla globalizzazione e la pluralizzazione contenuto in Arnason (1990).27 Vedi anche Hobsbawn (1977).

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solitamente da quelli appartenenti a una o l’altra delle “grandi nazioni”.In questo senso il nazionalismo era effettivamente il “tic nervoso” del capitalismo28.

Il problema insito in questa prospettiva è certamente il fatto che, al con­trario di qualsiasi condizione esistente nel XIX secolo - quando il capitali­smo richiedeva un’industria pesante e un vasto ma non specializzato prole­tariato - il tipo di capitalismo avanzato odierno (o “postindustrialismo”) richiede invece grandi industrie dei terziario, una manodopera altamente qualificata e una sofisticata tecnologia informatica, che possano incoraggia­re la tendenza verso la specializzazione flessibile, la diversificazione e le reti economiche interdipendenti. Nei fatti, però, l’assenza dell’“autosufficienza 1 economica” e una grandezza e una posizione limitate della pretesa nazione non hanno ostacolato la strada delle comunità culturali più piccole verso la ricerca di autonomia o il mantenimento dell’indipendenza politica ed eco­nomica, una volta che questa era stata raggiunta. L’Islanda, il Portogallo, la Norvegia, la Svizzera, Singapore, Taiwan, la Nuova Zelanda, Israele e la Tunisia sono soltanto alcuni fra gli stati nazionali più piccoli la cui indi- pendenza non è stata ostacolata da limitazioni di grandezza e livello (nono­stante la mancanza di risorse naturali si sia dimostrata in alcuni casi uno svantaggio); e neppure il loro relativo benessere, sebbene certamente dipen­dente dal più ampio sistema del capitalismo avanzato (ma quale prosperità non lo è?), ha richiesto o incoraggiato la diminuzione della loro indipen­denza politica o della loro distinzione culturale. Al contrario, agli occhi dei nazionalisti delle piccole nazioni, l’indipendenza politica si è dimostrata un singolare vantaggio economico, in quanto ha permesso di tentare di sce­gliere tra le offerte delle grandi potenze rivali di “aiuti-e-scambi” e “allean- za-e-difesa”, manovrando a proprio favore una potenza contro l’altra in un modo che sarebbe stato impossibile come colonia o come provincia incor­porata in un impero o una federazione più ampi29.

Inoltre, sono spesso le aree e le comunità più piccole ma più ricche e più produttive economicamente, e ciò soprattutto all’interno dei ricchi stati occidentali o europei, che recentemente hanno cercato, o stanno attual-

28 Questo concetto va associato all’economista Friedrich List. Il suo parallelo politico era la teoria di Hegel sui “popoli senza storia”, cioè l’idea che solo le grandi nazioni che avevano posseduto un proprio stato nel passato avrebbero potuto costruire dei propri stati nel futuro. Vedi, ad esempio, Kahan (1968) e Rodolsky (1964).29 Vedi la critica implicita a Hobsbawn contenuta in Warren (1980). Per quest’ultimo, l’indipendenza politica è un prerequisito per lo sviluppo economico capitalista. Le grandi differenze esistenti nel numero degli abitanti e nell’estensione territoriale delle nazioni riconosciute è un altro dato che poi va ricordato: si va dai 250 mila abitanti dell’Islanda agli 80 milioni della Germania e ai 130 milioni della Russia (per non men­zionare l’India e la Cina).

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mente cercando, l’indipendenza economica. Ultimamente, questa tenden­za ha ricevuto nell’ambito della comunità internazionale un più ampio con­senso, sebbene ancora contraddistinto da cautela e diffidenza. Ciò è valido per quanto riguarda comunità come il Quebec, i Paesi Baschi, la Catalogna, la Repubblica Ceca, la Slovenia, la Croazia, gli stati baltici, ma anche Singapore, Taiwan e il Kuwait. La grandezza e il livello, quindi, sono diven­tati molto meno importanti nell’economia morale delle nazioni del mondo contemporaneo, mentre l’indipendenza politica è rimasta un importante obiettivo e valore intrinseco delle comunità etniche di ogni continente30.

Se il punto di vista di Hobsbawm su tale problematica è essenzialmen­te condizionato dall’esperienza classica del nazionalismo nel XIX secolo e nella prima parte del XX, esso raccoglie anche quell’altro errato presuppo­sto ottocentesco che è il riduzionismo economico. Quello che il XIX seco­lo ci ha certamente insegnato è il fatto che dobbiamo resistere a quelle argomentazioni che vogliono suggerire come i diversi livelli di cultura — o culture — devono o dovranno conformarsi e divenire funzionali a definiti modelli e stadi delle strutture economiche e politiche e come le tendenze economiche e politiche globali devono essere accompagnate (dopo un debito lasso di tempo) da corrispondenti cambiamenti nella scala, nel­l’organizzazione e nel tipo di unità culturale. La scala, i bilanci, la tecno­logia, il personale e la portata delle operazioni delle organizzazioni eco­nomiche sono grandemente aumentati negli ultimi due decenni, ma ciò non vuol dire che la natura, la scala e le azioni delle unità politiche — e ancora meno di quelle culturali - debbano subire cambiamenti propor­zionati. Tali unità appartengono a diversi domini. Di questi ultimi, poi, ciascuna unità presenta le propensioni e i processi specifici. Nel dominio culturale, le comunicazioni di massa hanno aperto nuove possibilità ai gruppi e alle comunità culturali più ristretti di incrementare la loro den­sità sociale e di aumentare il proprio livello di partecipazione popolare, e ciò nel tempo stesso in cui il numero di centri di potere e la scala delle organizzazioni economiche sono cresciuti. C’è infatti poca rispondenza tra il crescente livello tecnologico e il successo economico da una parte e l’ascesa dei nazionalismi etnici nella sfera culturale o politica dall’altra, oppure tra la stagnazione o il declino economico e l’emergere delle nazio­ni — come Walker Connor ha in conclusione dimostrato31.

30 Ciò è anche vero per quanto riguarda il passato: vedi anche l’analisi contenuta in Argyle (1976) sul nazionalismo delle minoranze etniche dell’Impero asburgico. Sui movimenti attuali vedi, ad esempio, Tiryakian e Rogowsky (1985); cfr. anche Hall (1979).31 Sulla necessità di tenere queste due sfere separate vedi Mouzelis (1990). Per una vigorosa critica della diffusa tendenza di spiegare il nazionalismo etnico nei termini dei processi economici vedi Connor (1984b).

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Con questo non si vuole negare che gli stati e le culture hanno subito mutamenti radicali, equivalenti in intensità e profondità a quelli che hanno interessato la sfera economica. La natura di questi cambiamenti e le loro cause non possono però essere semplicemente dedotte dalle tra­sformazioni economiche, ma devono essere scoperte e analizzate con stru­menti a loro consoni, poiché le società civili e le culture possiedono carat­teristiche e tratti che sono piuttosto differenti da quelli dei sistemi eco­nomici. In nessun campo questo fatto è più evidente che nella sfera delle nazioni e dei nazionalismi.

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L’errore modernista

Le opinioni probabilmente più diffuse nel settore di studi qui preso in esame sostengono: che le nazioni e il nazionalismo sono essenzialmente fenomeni appartenenti al XIX e all’inizio del XX secolo; che prima di que­sto periodo le nazioni e il nazionalismo erano fenomeni perlopiù scono­sciuti; e, infine, che gli sviluppi politici ed economici così decisivi in pas­sato per la loro formazione e la loro proliferazione, ora, alla fine del secon­do millennio, cominciano a renderli obsoleti.

Alla base di tali convinzioni ci sono delle tesi sulla natura delle comu­nità etniche e delle nazioni che possono essere sintetizzate come segue. Primo: le nazioni e i nazionalismi sono intrinsecamente moderni - nel senso di recenti - , ovvero emersi negli ultimi due secoli in seguito alla Rivoluzione francese. Secondo: le nazioni e i nazionalismi sono prodotti dai fenomeni specificatamente moderni del capitalismo, deH’industriali- smo, della burocrazia, delle comunicazioni di massa e del secolarismo. Terzo: le nazioni sono costruzioni essenzialmente recenti, mentre i nazio­nalismi sono il loro cemento moderno, mirante a soddisfare i requisiti della modernità. Infine: le comunità etniche, o ethnies1 — per usare un ter­mine francese più adatto - , sebbene molto più antiche e diffuse, non sono né naturali né prestabilite all’interno della storia umana, ma sono per la maggior parte risorse e strumenti usati dai leader e dalle élite nelle loro lotte per il potere. A monte di tutte queste posizioni c’è, ovviamente, la

1 Vedi Lowenthal (1985); per alcuni dei morivi in base ai quali si considera la moder­nità una rivoluzione vedi Giddens (1991).

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tesi fondamentale che la modernità costituisca una rivoluzione nella sto­ria umana, o forse la rivoluzione, cioè quella i cui effetti sono onnipre­senti e universali. A questa considerazione si unisce la tesi che le età pre­moderne siano giunte al capolinea, e con esse tutte le strutture e le cre­denze fiorite in passato che hanno sostenuto quelle epoche lontane e ormai da tanto tempo scomparse. Il passato è ora, effettivamente, “un altro mondo”2.Approcci “strumentalisti”e “legamiprimordiali”Queste sono quindi le premesse fondamentali alla base di quelli che chia­merò i punti di vista “modernista” e “strumentalista” sull’etnicità e sul nazionalismo, così prevalenti al giorno d’oggi. Innanzitutto dirò qualco­sa relativamente all’approccio strumentalista.

Per dirla in breve, un approccio “strumentalista” è quello secondo cui gli esseri umani sono sempre vissuti e hanno sempre lavorato nell’ambito di una vasta serie di gruppi sociali. Come risultato, i popoli possiedono una varietà di identità collettive, che vanno dalla famiglia e dal genere alle affiliazioni di classe, religione ed etnia. Gli esseri umani si muovono con­tinuamente dentro e fuori da queste identità collettive, scegliendo e costruendo le loro identità in base alle situazioni nelle quali vengono a trovarsi. Quindi, per gli strumentalisti, l’identità tende a essere “situazio­nale”, più che pervasiva, e deve venire analizzata come un attributo dei singoli piuttosto che delle collettività 3.

Per comprendere questi punti di vista, dobbiamo guardare alle identità collettive come a tante risorse e categorie circoscritte, dalle quali, attra­verso i loro diversi ambienti, gli esseri umani possono attingere. Famiglie, scuole, congregazioni, ceti sociali, gruppi etnici, genere sono tutti unità delimitate di risorse da dove noi, in quanto individui, possiamo attingere in diversi momenti e in varie circostanze. I loro contenuti e i loro signifi­cati sono per noi altamente malleabili. D ’altra parte, il confine sociale tra “loro” e “noi” è solo relativamente permanente. I contenuti e i significati culturali delle identità etniche tendono infatti a mutare con le culture, le

2 Vedi Okamura (1981).3 Per l’approccio del “confine sociale” vedi Bardi (1969, “Introduction”). In un senso, quello di Barth non è puro strumentalismo - per non dire poi situazionalismo - , dal momento che l’autore ritiene le identità etniche, nonostante siano create e rielaborate da continui scambi confinari, in qualche modo (pre)esistenti (in termini di processi duraturi di separazione sociale rinforzati da simbolici “guardiani dei confini”); vedi anche Jenkins (1988). Per un approccio strumentale che riconosce l’importanza del “rapporto affettivo”, cioè degli attributi emozionali dell’etnicità, ai quali si accosta l’in­teresse sociale, vedi Bell (1975).

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epoche, i periodi, le congiunture economiche e politiche, come anche secondo le percezioni e le attitudini di ogni individuo. Essi non sono mai statici o fissi, ed è poi inutile cercare un'essenza” nelle identità, poiché queste vengono continuamente trasformate e possono essere in ogni occa­sione rimodellate secondo le necessità. Come il fiume di Eraclito, le loro forme e i loro contenuti sono in continuo mutamento, cambiando in rap­porto alla situazione corrente e ai bisogni e alle preoccupazioni degli indi­vidui. Solo i loro confini sociali rimangono fissi.

Le comunità etniche, o etnie, costituiscono per gli individui una delle descritte risorse circoscritte, o meglio un insieme di esse. Lungi dall’essere radicate nella storia e nella natura umana, non solo tutte le etnie sono diverse tra loro, ma sono costantemente sottoposte a mutamenti. Oggi, agli occhi dei membri dell’intero gruppo come agli estranei, essere italiano o russo non è quello che poteva esserlo nel 1980, per non parlare del 1960. Nondimeno, l’etnicità fornisce agli individui e alle élite anche un preciso spazio simbolico e organizzativo di mobilitazione dei mezzi atti alla ricer­ca di obiettivi comuni all’interno di uno stato. I simboli, quindi, sono importanti nella formazione degli insiemi di risorse (incluse le singole per­sone), nel delineamento dei confini e nel fornire ai membri dei gruppi uno scopo e una direzione. Tuttavia, i simboli, come ogni altro codice cultura­le, sono variabili e malleabili; essi possono essere adattati — e perfino inven­tati - per soddisfare gli interessi e le condizioni dei gruppi e dei singoli4.

In netto contrasto con la visione strumentalista sono gli approcci più datati nei confronti dell’etnicità, che attribuiscono alle identità culturali collettive, e soprattutto alle etnie, delle radici più profonde nella società e nella storia umana. Ci sono in proposito diverse posizioni, che spesso ven­gono sommariamente inglobate sotto la generica etichetta di “primordia- lismo”. Secondo la versione estremista di quest’ultima tendenza, gli esseri umani sarebbero in possesso di un’identità etnica così come sono in pos­sesso del dono della parola, della vista e dell’olfatto. Questa forma di pri- mordialismo considera gli esseri umani appartenenti “per natura” a comu­nità etniche fisse, nello stesso modo in cui fanno parte delle famiglie. Questa è una posizione comune fra i nazionalisti, sebbene non apparten­ga a tutti: la troviamo presente soprattutto nella versione “organica” del nazionalismo, elaborata per la prima volta dai romantici tedeschi all’inizio dell’Ottocento (nonostante possa già essere riscontrata fra i seguaci di Rousseau in Francia). Secondo quest’interpretazione, proprio come le nazioni possiedono dei “confini naturali”, così hanno pure un’origine e un ruolo specifici in natura, come un carattere, una missione e un destino

Vedi Brass (1979) per un’applicazione di quest’approccio elitario ai musulmani dell’India settentrionale.

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peculiari. Da questo punto di vista, non c’è distinzione tra nazione ed etnia: entrambe sono considerate uguali componenti dell’ordine naturale, e il nazionalismo un attributo innato dell’umanità5.

Una seconda versione del primordialismo è quella associata al recente revival della sociobiologia. In base a quest’argomentazione, le etnie e le nazioni sono unità “naturali” in quanto estensioni di ceppi famigliari sele­zionati dall’evoluzione genetica per la loro complessiva idoneità: un punto di vista che ha ricevuto ulteriore slancio quando le formulazioni di sociobiologi come Wilson, Trivers e Badcock sono state applicate all’etni- cità. Il successo individuale nella riproduzione è massimizzato dal “nepo­tismo” come dalla reciprocità, e anche la somiglianza culturale viene trat­tata come un importante mezzo per la guida degli individui nella ricerca della riproduzione genetica realizzata attraverso ceppi famigliari inclusivi. La realtà delle origini biologiche dei gruppi etnici si può riscontrare nei loro miti culturali sull’origine e la discendenza. L’opera di Pierre van den Berghe costituisce un succinto esempio dell’applicazione del revival socio­biologico all’etnicità6.

Una terza versione del primordialismo afferma che l’etnicità è in genera­le un vincolo sociale primario, costante ed efficace, sebbene talvolta oppri­mente o “ineffabile”. Questo potere emotivo non è però innato all’interno del vincolo etnico stesso, ma è sentito dai partecipanti a un determinato contrasto etnico o dai membri di una particolare etnia. Sono gli stessi mem­bri di un’etnia o gli individui coinvolti nello scontro ad attribuire una qua­lità “primordiale” alla loro peculiare etnia; ai loro occhi il legame etnico pos­siede una priorità logica e temporale rispetto agli altri vincoli, ed essi rico­noscono il suo “effetto” e il suo potere irresistibili. Ciò non significa che le etnie sono fisse o statiche, ma, al contrario, che le comunità etniche stori­che si formano, fioriscono e si dissolvono, oppure vengono assorbite dalle etnie vicine o conquistatrici, persino quando le loro pretese sono piena­mente riconosciute. Secondo questa concezione, ogni essere umano deve appartenere a una o a un’altra comunità etnica; l’etnicità diviene essenziale per la nostra comprensione della storia; i vincoli etnici scavalcano le altre lealtà. Tuttavia, le etnie prefissate possono comunque perdere la propria vitalità, sbiadire e languire, per essere poi rivitalizzate da forze esterne7.

5 Vedi Cobban (1964, cap. 4) per quanto riguarda Rousseau e le dottrine della Rivoluzione francese e Reiss (1955) per il romanticismo politico tedesco.6 Van den Berghe (1979); per un resoconto generale sulla sociobiologia vedi Badcock(1991).7 La tesi sostenuta da Geertz (1963), che a sua volta attinge da Shils (1957), sostiene che i membri e gli individui inseriti in un’etnia dotano questi legami di una qualità pri­mordiale. La primordialità è un problema di attribuzione, che non è inerente agli

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Le diverse versioni del primordialismo si prestano a numerose obie­zioni. La più scontata concerne il fatto che gli esseri umani vivono in una molteplicità di gruppi sociali, alcuni dei quali, in momenti diversi, sono più significativi e rilevanti di altri. Quindi, il legame etnico non occupa una priorità assoluta, bensì è solo uno fra i vincoli diffusi ma variabili che possono avvicinare tra loro gli esseri umani in momenti definiti. In secondo luogo, i legami etnici, come gli altri vincoli sociali, sono soggetti alle forze economiche, sociali e politiche, e dunque flut­tuano e cambiano secondo le circostanze. Inoltre, i frequenti matrimo­ni fra membri di gruppi diversi e l’arrivo esterno di ricercata manodo­pera qualificata - risultanti da fenomeni di spopolamento causati nella storia da eventi come le ripetute epidemie nelle aree urbane, i continui legami commerciali con altri popoli e regioni e la frequenza di conqui­ste straniere — hanno reso molto probabile il fatto che solo un esiguo numero di etnie piuttosto isolate abbia mai posseduto l’omogeneità cul­turale e l’essenza “pura” ipotizzate dalla maggior parte dei primordiali- sti (e dei nazionalisti). In terzo luogo, come effetto dei sopraccennati cambiamenti storici, gli individui hanno una libertà molto maggiore di scegliere la comunità etnica cui preferiscono appartenere - e quindi di essere arbitri del proprio destino e di quello delle proprie famiglie - di quanto non sia ammesso dai primordialisti, e questo è vero in partico­lare per il XX secolo8.

Oltre a tutto, i processi proposti dai sociobiologi per spiegare la lealtà a comunità molto più grandi delle famiglie - cioè meccanismi come il nepotismo, la proiezione e l’identificazione - sono argomentazioni cir­condate da una considerevole incertezza. Non è affatto chiaro perché la ricerca dell’affermazione riproduttiva individuale dovrebbe estendersi al di là della famiglia estesa, verso unità culturali molto più vaste come le etnie; oppure, quanto a fondo un comportamento costante di questo tipo possa aiutare a spiegare il fenomeno variabile della nazione moderna. Anche le versioni più flessibili di Geertz e Shils soffrono di una certa esa­gerazione del lato affettivo e vincolante a priori dell’etnicità, e non rie­scono a vedere come le scelte etniche siano influenzate dalle circostanze. Nei fatti, le solidarietà etniche sono spesso il risultato di strategie perfet­tamente razionali di massimizzazione del reciproco soccorso messe in atto

oggetti cognitivi: si tratta di un potere conferito al suo oggetto dagli esseri umani. Cfr. anche Stack (1986, “Introduction”).8 Per queste argomentazioni vedi Brass (1979, 1980). McNeill (1986, cap. 1) affer­ma che la civilizzazione richiede la specializzazione del lavoro e pertanto non può non presentare delle gerarchie multietniche.

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da individui e gruppi, in particolare in presenza di una controparte di un certo peso9.

Ci sono quindi molti equivoci in queste analisi. Mentre una parte delle critiche delle versioni “forti” (o naturaliste) del primordialismo coglie nel segno, parecchie valutazioni tuttavia tralasciano, o piuttosto spiegano in maniera sbrigativa, la qualità duratura e vincolante di molte etnie, come pure la loro spesso caparbia persistenza attraverso i secoli, anche quando (e forse proprio perché) entrano a far parte di gerarchie o mosaici mul- tietnici più ampi. Queste critiche, inoltre, trascurano o spiegano superfi­cialmente anche i fortissimi sentimenti provati da chi è partecipe o mem­bro di etnie e nazioni nei confronti delle collettività in cui è inserito. Il senso di appartenenza e del dovere, del costume e della dignità, come il sentimento di un legame prioritario e più forte degli altri, sono dati vita­li per se stessi e in se stessi per qualunque ricerca sui significati dell’etni- cità, e non possono essere trascurati solo perché alcune delle interpreta­zioni primordialiste che li riguardano sono inadeguate o tautologiche10.

Ancor più importante è il fatto che queste critiche confondono il livel­lo individuale con quello collettivo. Per il livello collettivo, considerato come opposizione a quello individuale, l’etnicità rimane una forza poten­te, esplosiva e spesso duratura. La categorizzazione e l’organizzazione etni­ca sono state al centro dei rapporti e dei conflitti umani in gran parte delle epoche e dei continenti. Molti esseri umani hanno sperimentato il persi­stente potere e la presa dei legami etnici e spesso considerato la propria etnia come esistente da tempo immemorabile. Nomi, patrie, memorie e simboli possono trascinarsi per secoli, nonostante l’assoggettamento, la colonizzazione o la migrazione della popolazione cui erano legati e deli­mitati in origine. Ciò accadde alla cultura punica con la distruzione romana di Cartagine, e nuovamente in Iran ai Persiani, dopo che venne­ro conquistati dagli Arabi musulmani e dal VII secolo in poi islamizzati. I Persiani mantennero patria, nomi, miti e memorie: in questo senso, si può parlare di “primordialismo dei partecipanti”, cioè di un sentimento di legame etnico duraturo tra i discendenti della comunità originaria, dovunque essi possano trovarsi11.

Vedi V. Reynolds (1980) per una critica della sociobiologia. Per il modello della “scelta razionale” vedi Hechter (1987, 1988). La versione di Geertz della primordia- lità è stata fortemente criticata da Eller e Coughlan (1993) e difesa da Grosby (1994).10 Vedi Grosby (1991) per un’efficace e sapiente applicazione delle tesi di Geertz alla nazione e alla religione dell’antico regno di Israele.11 Sulla persistenza della cultura punica vedi Moscati (1973, pp. 168-69); sulla gra­duale islamizzazione dell’Iran e la rinascita persiana vedi Frye (1966, cap. 6); la fonda-

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l limiti del “modernismo”Ora passerò al dibattito parallelo fra quelli che possiamo definire “peren- nisti” e “modernisti”.

Questo è comunque un discorso sulle nazioni, piuttosto che su etnie ed etnicità. Per alcuni studiosi anche le nazioni sono antichissime e perenni. Le loro radici vanno al Medioevo, o perfino all’antichità. Non c’è mai stata un’era senza le sue nazioni e i suoi nazionalismi, sebbene la dottrina dell’autodeterminazione si sia sviluppata solo in età contemporanea. Ogni essere umano sente “nelle sue ossa” il durevole potere della propria nazione e la qualità pressoché eterna del carattere nazionale. Le nazioni si possono intravedere fin nella più remota antichità, dalle prime testimo­nianze lasciate dai Sumeri e dagli Egiziani, e a partire da allora hanno dominato la vita politica di ogni epoca12.

Quella appena descritta non è una visione apprezzata dalla grande mag­gioranza degli studiosi, che su nazioni e nazionalismo sottoscrive piutto­sto il rivale approccio modernista. Secondo quest’ultimo punto di vista, le nazioni e i nazionalismi sono fenomeni piuttosto recenti (solitamente si fanno risalire alla Rivoluzione francese, ma talvolta anche alla Riforma), cioè il prodotto delle rivoluzionarie forze moderne dell’industrialismo, del capitalismo, della burocrazia, delle comunicazioni di massa e della secolarizzazione. Alcuni studiosi associano al modernismo una particola-— re enfasi sul carattere artificiale, addirittura inventato, della nazione come manufatto culturale; a ciò uniscono una forte convinzione nella natura storicamente specifica e transitoria di nazioni e nazionalismo. Per questi studiosi, le nazioni e il nazionalismo appartengono essenzialmente al XIX e al XX secolo e sono legati a una particolare epoca della “modernità”, che in Occidente sta gradualmente giungendo a termine. Alle soglie del XXI secolo, l’inutilità di questi fenomeni nelle società industriali avanzate sta quindi cominciando a divenire evidente13.

Il punto di vista modernista, tuttavia, si occupa più dell’adeguatezza e dell’“adattamento” alla modernità del nazionalismo che della sua sostitu­zione. Per i modernisti, sia le nazioni che i nazionalismi devono essere trattati come elementi intrinseci della modernità, e come componenti

mentale natura consanguinea e la metafora del “sangue” proprie dell’etnicità sono bre­vemente discusse in Nash (1989) e messe in rilievo anche da Connor (1993).12 Le prime analisi perenniste della nazionalità nel mondo antico e medievale si trova­no in Koht (1947) e Levi (1965).13 Vedi, fra gli altri, Kedourie (1960), Gellner (1964, cap. 7) e Nairn (1977, cap. 2). Cfr. anche Anderson (1983) e Hobsbawn (1990) per osservare una maggiore enfasi sulle capacità di “costruzione sociale” di nazioni e nazionalismi. Le differenze tra que­ste analisi sono in realtà meno importanti della loro comune dedizione di base al modernismo.

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inevitabili dell’ascesa dello stato moderno. Secondo una versione di que­st’interpretazione, le nazioni e il nazionalismo derivano direttamente dal sorgere e dalla natura del moderno stato territoriale e professionalizzato, sviluppatosi prima in Occidente all’inizio dell’età moderna e poi, attra­verso il colonialismo, esportato nelle colonie d’oltremare di America Latina, Africa e Asia. Fu la trasformazione degli stati sovrani monarchici dopo la Rivoluzione francese, attraverso la democratizzazione di massa e il diffondersi dell’ideale della sovranità popolare, a dare prominenza alla nazione e a trasformare gli stati assolutisti in stati nazionali. Come abbia­mo visto nel caso dell’analisi di Hobsbawm, in questa lettura il naziona­lismo trae la sua forza e il suo significato solamente dall’unione della nazione con lo stato moderno, ed è quest’ultimo che determina la porta­ta e la potenza di qualsiasi nazionalismo. Nello stesso tempo, le nazioni e il nazionalismo richiedono referenti esterni, che sono forniti da una serie di stati nazionali in concorrenza fra loro all’interno di un sistema globale interstatale14.

In un’altra versione, le nazioni e il nazionalismo possono essere consi­derati un ponte sullo squarcio fra stato e società civile apertosi in Europa al tempo della Riforma e la conseguente disaffezione che ciò ha generato. Il nazionalismo tenta di risolvere il problema della dissociazione stato/società attraverso il richiamo specioso all’idea di una comunità-cul­tura naturale e storica, usando argomenti sull’autenticità e sulla cultura organica derivanti da Herder. In questo modo, esso tenta di evocare un sentimento di appartenza a una comunità organica che mascheri i con­flitti di classe e le divisioni della società moderna con passionali appelli alla solidarietà. Più recentemente, è stato anche affermato che la natura riflessiva dello stato - con il suo monopolio dei poteri di amministrazio­ne, coercizione e sorveglianza e le esigenze del sistema interstatale - ha formato il locus delle nazioni e dei nazionalismi. Il richiamo a una comu­nità popolare sovrana e culturalmente distinta, nell’epoca moderna degli spostamenti, dell’alienazione e della detradizionalizzazione, completa e legittima i poteri dello stato moderno nel moderno sistema interstatale: si tratta qui del locus della violenza e della guerra. Con questa lettura, le nazioni e il nazionalismo divengono inerenti a una modernità autorifles­siva che è diventata oggi realmente globale in portata e penetrazione. Nondimeno, i nuovi modelli di distanziamento da tempo e luogo e lo “sradicamento” di molti elementi dal loro ambiente, aspetti così caratte­ristici della modernità, hanno creato un nuovo desiderio di fattori locali che diano fiducia e cooperazione di fronte a un mondo estraniante. La

14 Questo tipo di analisi riporta a Cobban (1945, cap. 2); vedi anche Tilly (1975, “Introduction”, “Conclusion”).

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nazione rappresenta dunque uno strumento per risolvere queste tensioni dialettiche prodotte dalla modernità15.

In una visione alternativa, le nazioni e il nazionalismo sono fatti deri­vare dalle esigenze dell’organizzazione sociale industriale moderna e dalle sue pressioni per la mobilità e l’alfabetizzazione di massa. A differenza dei governi e delle società antecedenti all’era moderna, con le loro rigide sepa­razioni tra le élite clericali e aristocratiche e la massa dei produttori di generi di sostentamento con le loro numerose culture locali, la società industriale è fluida e orientata alla crescita, e trae la sua spinta e la sua legittimità dalla propria capacità di rispondere alle aspettative materiali. Una siffatta società, la cui base materiale è l’urbanesimo industriale, è caratterizzata dal lavoro semantico piuttosto che da quello manuale. Il lavoro ha perduto ogni suo ancoraggio ai rapporti di ruolo ascritti e ristretti e può trovare una sua fonte di solidarietà sociale solo in un parti­colare tipo di cultura: una cultura “alta” o “coltivata”, ottenuta sia tra­sformando le culture “basse”, spontanee e orali, in culture evolute e lette­rarie, sia forgiando queste ultime dai “brandelli e dai frammenti” dei materiali culturali esistenti in accordo con i bisogni di una società di massa fluida ed egalitaria. Soltanto una società moderna orientata verso la crescita, in grado di assicurare uno sviluppo economico su vasta scala, genera il bisogno di culture nazionali “alte”; queste, poi, possono essere sostenute solo dai sistemi di educazione pubblica di massa, diretti dallo stato e standardizzati16.

Le teorie moderniste rappresentano l’ortodossia dominante nell’anali­si scientifico-sociale di nazioni e nazionalismi. Ci sono però varie obie­zioni intorno a questo punto di vista. La prima è a carattere storico: è vero che il nazionalismo, come ideologia e movimento, è un fenomeno piuttosto recente, che risale alla fine del XVIII secolo, ma è anche possi­bile identificare la crescita di sentimenti nazionali trascendenti i legami etnici nel XV e nel XVI secolo — se non prima — in numerosi stati dell’Europa occidentale. Nei ceti del clero e della burocrazia più bassi troviamo espressioni di un fervente attaccamento al concetto di nazione, in quanto comunità territoriale-culturale e politica, nel XIV e nel XV seco­lo in Francia, Inghilterra, Scozia, Spagna e Svezia, come in Polonia,

15 Per un’analisi secondo cui il nazionalismo rappresenta una particolare risposta all’alienazione prodotta dalla spaccatura tra stato e società moderna vedi Breully (1982, “Conclusion”). Sull’idea che il nazionalismo integri a livello psicologico la natura riflessiva dello stato moderno, offrendo un territorio di fiducia e cooperazio­ne, vedi Giddens (1985, cap. 8, e 1991).16 Gellner (1983) accresce il materialismo e il funzionalismo delle sue tesi precedenti (1964, cap. 7), ponendo un’enfasi minore sulla lingua e insistendo invece maggior­mente sui legami tra istruzione pubblica di massa, cultura d’élite e industrialismo.

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Russia e - probabilmente - Svizzera, se non addirittura anche in Galles e Irlanda. Entro il XVI secolo, in Inghilterra e in Olanda, se non anche in Francia, un nazionalismo della “classe media” più sviluppato, nato dalla cultura urbana, cominciò a imporsi; era un nazionalismo che elevava “il popolo” a una posizione sovrana, che presto sarebbe stata rinforzata dal mito dell’elezione etnica incoraggiato dalle dottrine puritane. Queste sono le “vecchie e costanti nazioni”, quelle che Seton-Watson ha con­trapposto alle molto più giovani “nazioni costruite”, create da e sull’on­da del nazionalismo17.

Anche da una prospettiva sociologica, la costruzione delle nazioni si è dimostrata sfuggente. Troppo spesso, infatti, è stata paragonata all’edifi­cazione di uno stato. Ma il costruire uno stato, sebbene possa favorire un forte nazionalismo (che sia leale o resistente allo stato in questione), non deve essere confuso con la creazione di un’identità nazionale culturale e politica tra popolazioni spesso culturalmente eterogenee. La fondazione di istituzioni statali incorporanti non rappresenta alcuna garanzia per l’i­dentificazione culturale di una popolazione con lo stato né per l’accetta­zione del “mito nazionale” dell’etnia dominante; in effetti, l’invenzione di una mitologia nazionale più completa da parte delle élite, attuata per sostenere la legittimità dello stato, può lasciare significativi segmenti della popolazione imperturbati o indifferenti. In molti dei nuovi stati dell’Africa o dell’Asia, il potere assimilativo dello stato modernizzante non è riuscito a prevenire la protesta e la disgregazione etnica, e tanto meno a minare le culture e i confini etnici. In parecchi casi - come Filippine, Sri Lanka, Iraq, Etiopia e Angola — non si è assistito alla fusio­ne delle etnie attraverso l’identità territoriale nazionale, bensì alla persi­stenza di profonde spaccature e antagonismi etnici minacciami l’esisten­za stessa dello stato. In altri casi ancora, la tentata fusione è stata vista, spesso a ragione, come etnocida (se non genocida), e la popolazione o la regione da sacrificare si sono volte alla resistenza e alla protesta di massa, se non all’aperta rivolta e alla secessione. Questi tipi di antagonismo pos­sono spesso essere provocati da rapporti etnici precoloniali o precedenti l’istituzione dello stato, fra cui antiche ostilità, o, alternativamente, dalle conseguenze sociali, economiche o culturali della “modernizzazione” giunta con il colonialismo. Ciò indica la necessità di usare una certa cau­tela nel concedere troppo peso ai poteri dello stato moderno quando si analizzano le nazioni e i nazionalismi recenti. Esistono infatti altre forze

17 Vedi Seton-Watson (1977, capp. 2-3); sull’ascesa del nazionalismo nell’Inghilterra del Cinquecento vedi Greenfeld (1992, cap. 2). Per i precedenti dibattiti sul naziona­lismo nel Medioevo vedi Tipton (1972). Per la presenza di sentimenti nazionali nelle élite dell’Europa medievale vedi S. Reynolds (1984) e Guenée (1985, cap. 3).

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e altri fattori in gioco, che possono predisporre popolazioni e aree cultu­rali all’attuazione di un programma ideologico nazionalista18.

Un terzo problema sorge a causa dello strumentalismo presente nella maggior parte delle teorie moderniste. Queste hanno trovato diffìcile spiegare la natura dinamica, esplosiva e talvolta irrazionale dell’identità etnonazionale e del nazionalismo etnico in un mondo sempre più inter­dipendente. Milioni di uomini e donne hanno annullato se stessi, e per­fino immolato la propria vita, per la patria, per la Francia, l’Italia, Israele, il Vietnam. L’approccio strumentalista all’etnicità, considerato sopra, nonostante tutta la sua indagine sull’importanza dei simboli, non è in grado di spiegare perché le persone, invece della classe o la religione, dovrebbero scegliere proprio l’etnicità o il nazionalismo come veicolo di progresso. Perché quindi milioni di persone dovrebbero essere sensibili a bandiere e inni, monumenti e santuari nazionali, feste e commemora­zioni? La teoria della “scelta razionale” ha tentato di ovviare a questa dif­ficoltà in termini di strategie individualiste razionali per la massimizza­zione del bene pubblico nella popolazione culturalmente definita, ma si continua tuttavia a scontrarsi con lo spirito disuguale, esplosivo, spigo­loso di una tale quantità di etnonazionalismo. Per quale motivo tanti individui dovrebbero essere pronti a combattere e morire per comunità etniche le cui lotte sembrano disperate e in cui qualunque bene pubbli­co appare sempre elusivo? Perché tanta prontezza di fronte alla prospet­tiva di diventare martiri per le cause di minoranze etniche che appaiono senza speranza19?

Questo fatto suggerisce l’esistenza di un’ulteriore lacuna negli approc­ci modernisti e strumentalisti. Essi infatti si concentrano in larga parte sulla manipolazione delle “masse” condotta dalle élite, piuttosto che sulla dinamica della mobilitazione di massa in sé. Questo è il risultato del metodo “top down” utilizzato in gran parte delle analisi moderniste. Mentre il ruolo delle élite, cioè dell’intellighenzia, è ritenuto fonda- mentale, da un’altra parte non viene posta sufficiente attenzione alle prospettive e ai bisogni dei poveri e degli esclusi, come neppure alle modalità con cui i loro interessi e i loro bisogni si differenziano in base alla classe sociale, al genere, alla religione, all’etnicità. Inoltre, non è stato dato neppure rilievo agli schemi con i quali ognuno di questi

18 Per il processo di “edificazione nazionale” vedi Deutsch e Foltz (1963); per una sua critica incisiva vedi Connor (1972). Sulla secessione e l’irredentismo in Asia e Africa vedi Horowitz (1985, cap. 6).15 Per un modello di secessione basato sulla “scelta razionale” vedi Hechter (1992) e cfr. Meadwell (1989). Sulle componenti autosacrificali del nazionalismo vedi Anderson (1983).

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gruppi e strati sociali può essere — o è stato — mobilitato, in accordo con le sue tradizioni culturali e politiche, le sue memorie, i miti, i simboli e le forme locali di espressione. Ciò vale anche per quanto riguarda gli studiosi che, come Hobsbawm, riconoscono l’importanza delle comu­nità e dei sentimenti “protonazionali” tra i ceti più bassi, ma che rifiu­tano tuttavia di collegarli in qualsiasi modo ai successivi nazionalismi politici moderni. Tale impostazione ci impedisce di afferrare l’attrazio­ne sul popolo del nazionalismo, la sua capacità di realizzare la mobilita­zione delle masse, il ruolo vitale e stimolante giocato dalla cultura e dal simbolismo20.

Forse ancora più importante è il fatto che quello che ho chiamato “il mito della nazione moderna” non riesce a cogliere il valore e il potere costante dei sentimenti e dei legami etnici premoderni nel fornire una solida base per le future nazioni. A causa della loro determinazione di confermare come tutti gli elementi della “tradizione” siano collassati o siano stati erosi dalle rivoluzioni della modernità, i modernisti non sono riusciti a mostrare che la portata globale dei cambiamenti è stata più accentuata in alcune zone rispetto ad altre e, inoltre, che alcuni ceti o set­tori sociali ne sono stati influenzati più profondamente. In effetti, l’etni- cità e la religione sono state due sfere che hanno resistito all’assimilazione condotta dal dominante ethos secolare e universalista della modernità. Sebbene la forza politica della religione si fosse notevolmente affievolita in Occidente (tranne che in Irlanda, Spagna e America), non è un caso accidentale che i potenti stati nazionali dell’Europa occidentale siano stati costruiti attorno a “nuclei etnici” di dimensioni considerevoli - gli Inglesi, i Francesi della Francia centro-settentrionale, i Castigliani, gli Svedesi - , che erano in grado di incorporare, se non di assimilare, i loro vicini minori in uno stato nazionale più vasto (benché questo processo sia avvenuto con vari gradi di successo). Al di fuori dell’Occidente, le reli­gioni tradizionali e fondamentaliste detengono invece un potente ascen­dente su milioni di persone: questo è vero sia per quanto riguarda il sub­continente indiano sia per le terre islamiche. Oggi, in modo analogo, molti stati non occidentali sono riusciti a forgiare nazioni che si sono fon­date sulla base culturale di un’etnia dominante. Ciò è valido sia per alcu­ni paesi dell’Europa orientale (Polonia, Romania, Grecia) che per i nuovi stati dell’Asia (Thailandia, Vietnam, Giappone e Corea), che hanno tutti

20 Hobsbawn (1990, cap. 2). Persino per quest’autore, però, il nazionalismo russo più tardo potrebbe dovere qualcosa alla comunità “protonazionale” legata allo zar e alla Chiesa; su quest’ultimo argomento vedi Cherniavsky (1975). Vedi anche Robinson, in Taylor e Yapp (1979), per una critica all’approccio elitario applicato da Brass (1974) al caso dei musulmani dell’India settentrionale.

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subito una lunga tradizione di dominazione storica da parte di un’etnia centrale strategica21.

Il “mito della nazione moderna”, in breve, deve essere riconosciuto per quello che è: un’analisi semi-ideologica delle nazioni e dei nazionalismi, che si trova in buona sintonia con i preconcetti e i bisogni moderni, par­ticolarmente con quelli di un’intellighenzia mobile e universalista, per la quale lo stato-nazione rappresenta soltanto una tappa obbligata nell’asce­sa deH’umanità verso una società e una cultura globali. Quest’ultimo è un ulteriore mito, in quanto rappresenta una rappresentazione largamente accettata e drammatizzata di un passato sacralizzato che serve gli scopi del presente ma anche lo stesso mito del nazionalismo, e che per questo moti­vo andrebbe trattata con le stesse precauzioni22.Modernità e nazionalismoEsistono inoltre importanti obiezioni di tipo empirico agli approcci modernisti.

Innanzitutto, la loro mancanza di considerazione dell’epoca in cui una determinata popolazione comincia il suo “ingresso nella modernità”, par­tecipando all’operazione culturale e politica rappresentata dalla creazione di una nazione. Aver intrapreso questo progetto, ad esempio, all’inizio delXIX secolo in Europa o in America Latina è un’impresa estremamente diversa e porta a risultati ben dissimili da quelli ottenuti dal nazionalismoo dal processo di edificazione nazionale in Africa o Asia a partire dalla seconda guerra mondiale. L’epoca postbellica è stata testimone di un ordi­namento molto più “globalizzante” dell’interdipendenza fra i settori eco­nomico, tecnologico e politico di quanto si potesse immaginare - per non dire realizzare — quasi due secoli fa. Inoltre, lo sfasamento temporale è importante in relazione alle manifestazioni molto diverse dei vari nazio­nalismi e alle forme radicalmente differenti di nazioni che questi ultimi aiutano a creare. La lingua e il simbolismo della nazione, se non altro, sono fortemente pervasi dall’epoca da cui emergono, essendo spesso influenzati da uno o più centri nazionali - Inghilterra, Francia, Russia,

21 Seton-Watson (1977). In D. E. Smith (1974) si trovano esempi del revival religio­so, mentre A. D. Smith (1989) sottolinea il ruolo dei nuclei centrali etnici. E necessa­rio aggiungere che la funzione della religione nel passato continua a incidere su molti degli attuali conflitti etnici, come anche sulla configurazione delle nazioni. Irlanda, Polonia, Serbia e Grecia sono ovvie dimostrazioni europee di questo fatto, ma si può anche ritenere che la fredda risposta delle popolazioni scandinave al processo di unifi­cazione europea debba qualcosa ai sospetti protestanti nei confronti di un continente a guida cattolica.22 Riguardo al mito politico vedi Tudor (1972); per il mito della “nazione moderna” vedi A. D. Smith (1988).

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Giappone, Cina - che agiscono da pionieri e modelli o chiavi del succes­so dello sviluppo nazionale23.

In più, occorre dire che gli approcci nazionalisti sottovalutano in modo critico i contesti culturali e sociali locali. Questi ultimi sono trattati come tante “variazioni indigene”, che illustrano i temi complessivi della moder­nizzazione nazionalista. Ma un solo momento di riflessione ci convincerà della natura fuorviarne di tali esercitazioni interpretative. L’introduzione di elementi di “modernità” può al massimo contribuire a spiegare la manife­stazione temporale delle spinte verso il nazionalismo e la formazione delle nazioni, ma non ci dice nulla sul carattere, l’intensità, la durata o i raggi d’azione dei processi legati ai fenomeni nazionali. Non c’è dubbio che la “modernità” abbia avuto un suo ruolo nell’alimentare il nazionalismo degli Aborigeni in Australia o dei Mohawk in Canada, proprio come l’aveva avuto in Francia e in Russia. Ma cosa ancora ci suggerisce questa conside­razione, anche solo relativamente alla collocazione temporale - per non parlare poi della portata e del carattere — di nazionalismi totalmente diffe­renti, che altrimenti divengono realmente dei “mondi a parte”?24

Altrettanto importante è il fatto che il nazionalismo continua a fiorire, sebbene talvolta in forme meno violente ma sempre con molto vigore e tenacia, in alcune delle società industriali più avanzate, come Francia, Canada (Quebec), Catalogna e Stati Uniti. Questo suggerisce che i movi­menti come il nazionalismo etnico sono relativamente indipendenti dai processi legati alla modernità; tale punto solleva quindi importanti inter­rogativi di fronte all’approccio modernista nelle teorie sul nazionalismo.

In un paese come la Francia, con la sua tradizione di rivoluzioni — dove un’economia avanzata, uno stato fortemente centralizzato e una burocra­zia professionalizzata, uniti a una popolazione colta e relativamente bene­stante, esemplificano i tratti di una società totalmente modernizzata posta nel cuore dell’economia globale - , le ideologie sono andate e venute, ma il nazionalismo e un forte senso di identità nazionale sono rimasti forti, costanti e potenti. In senso negativo, questa permanenza è stata espressa negli anni Cinquanta con le obiezioni francesi alla Comunità europea di difesa, negli anni Sessanta e Settanta con l’opposizione gollista alla NATO e all’egemonia americana e ancora negli anni Settanta, Ottanta e Novanta con la resistenza alle richieste culturali statunitensi nell’Uruguay round del GATT e con l’insofferenza manifestata da molti uomini e donne francesi di fronte agli immigranti musulmani, agli Ebrei, a “les Anglo-Saxons” e alla loro dominazione culturale. In senso positivo, questi sentimenti sono stati

23 Su questi “modelli e pionieri” vedi Bendix (1966).24 Per le differenze temporali nel sorgere del nazionalismo nelle diverse zone del mondo vedi Orridge (1980).

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invece accompagnati da una passione ugualmente fervida per il ricco patri­monio culturale e ambientale francese, da un forte attaccamento alle tra­dizioni storiche, da un amore ardente per la lingua nazionale, da un’acuta sensibilità nei confronti delle frontiere storiche, da un evidente orgoglio per i simboli della gloria della Francia e delle sue conquiste, che fossero nell’architettura e nella letteratura o nella cucina e nel cinema. Tutto que­sto è avvenuto nonostante il forte regionalismo ancora presente in Francia e i tanti dubbi e critiche sollevati sulle tradizioni nazionali ormai consoli­date che in anni recenti sono comparsi nei manuali di storia o attraverso i canoni della storia dell’arte, della museologia, ecc. Il gollismo e il suo con­cetto di un’“Europe des Patries” sono stati soltanto una delle espressioni politiche del sottostante nazionalismo culturale che affonda le sue radici nello stato, nella cultura e nella società francesi25.

Anche in Quebec troviamo una società industriale relativamente ricca e progredita, inserita nell’ampia economia globalizzante nordamericana, che però presenta tutte le manifestazioni di un fervente nazionalismo, incerto tra “sovranità o associazione” nel momento in cui insegue comun­que la completa indipendenza culturale. Qualcuno poteva aspettarsi che dopo la “rivoluzione pacifica” degli anni Sessanta e il riuscito trasferi­mento di molte delle attività professionali e commerciali della provincia ai francofoni, i québécois si sarebbero accontentati dell’assicurazione del­l’egemonia culturale francese e dell’“autogoverno” provinciale. Ma le cose non sono andate così. I sentimenti e le ideologie dei Franco-canadesi sono rimasti forze vibranti e potenti all’interno della vita politica della provin­cia, suscitando opposte reazioni a carattere etnico e nazionale nelle altre province della federazione canadese. In effetti, ci sono timori che, dopo il fallimento dell’accordo di Meech Lake e i nuovi poteri del partito d’op­posizione franco-canadese nel parlamento federale, un nuovo movimen­to secessionista che sorgesse fra una delle componenti etniche più ricche potrebbe alla fine condurre allo smembramento dello stato26.

Dalla fine del XIX secolo la Catalogna ha cominciato a diventare una delle regioni commercialmente e industrialmente più avanzate della Spagna, mentre Barcellona si è trasformata in un grande punto franco e in uno dei maggiori centri della cultura europea. Il nazionalismo cultura­le catalano è nato con la Renaixenca letteraria e culturale di metà

25 Sulle iniziali attitudini francesi vedi Benthem van den Berghe (1966). Per la revi­sione delle passate tradizioni condotta all’interno dell’insegnamento della storia fran­cese, basato sui diversi testi di Lavisse, vedi Citron (1988). Per il persistente regionali­smo francese vedi Braudel (1989).26 La composizione sociale dei sostenitori del nazionalismo franco-canadese è analiz­zata da Pinard e Hamilton (1984).

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Ottocento, che poi fiori a cavallo del Novecento attraverso numerosi movimenti letterari, culturali, artistici e scientifici, come anche accade­mie, riviste e partiti. Da allora, la Catalogna è una fra le regioni europee economicamente e politicamente più avanzate e, dopo una lunga resi­stenza popolare all’oppressione culturale condotta dal regime franchista, è emersa nuovamente come un forte centro etnonazionalista, conquistan­do una larga autonomia politica nei confronti della capitale Madrid. Nonostante la sua totale modernizzazione — ma forse proprio a causa di questa — la Catalogna rimane una nazione caratterizzata da un vigoroso senso della sua identità nazionale e storica e dalle sue appassionate aspi­razioni a una massima autonomia nell’ambito della penisola iberica27.

Negli stessi Stati Uniti d’America - la più dinamica arena della moder­nizzazione - un potente nazionalismo a carattere continentale non è dif­ficile da mobilitare in caso di opportunità. Ogni volta che dei soldati sta­tunitensi sono uccisi o catturati in una missione delle Nazioni Unite, ogni volta che il Presidente si tormenta su una scelta di politica estera che implica la presenza militare americana, ogni volta che le negoziazioni commerciali minacciano di favorire i rivali degli Stati Uniti, la percezio­ne di una storia e di un destino americani distinti e unici emerge sullo sfondo, incoraggiando i cittadini statunitensi a credere nella loro comu­ne missione storica di araldi della libertà e della democrazia. La condivi­sione del patriottismo, la fede messianica neU’America e il senso quasi religioso del destino comune sembrano essere indipendenti dagli avveni­menti economici e politici che toccano gli Stati Uniti o la società ameri­cana, poiché emergono in ogni situazione e non sembrano diminuire con la sempre crescente opulenza né con l’alto consumismo di massa. La fede in un Credo, in una Costituzione e in uno stile di vita americani, creando un arco sovrastante le tante culture delle etnie che formano gli Stati Uniti, è rimasta un elemento dotato di una grande capacità di ripre­sa, e ciò nonostante le delusioni incontrate dagli Americani in casa e all’estero28.

In altre società meno sviluppate ma in rapido processo di modernizza­zione, come la Polonia, la Norvegia e l’Irlanda, il nazionalismo etnico rimane un fattore potente, mentre il sentimento di appartenere a una stessa nazionalità è radicato e largamente diffuso fra la popolazione. Quest’ultimo elemento è alimentato, ovviamente, dalla paura di un nemi­co comune - nel caso polacco dal timore dell’ex Unione Sovietica; nel

27 Per un confronto con il nazionalismo basco vedi Payne (1971); per un’analisi più dettagliata vedi Conversi (1984).28 Sulla “prowidenzialità” del nazionalismo americano vedi Kohn (1957a) e Tuveson(1968).

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caso norvegese dall’ansietà per l’impatto economico, politico e culturale dell’ingresso in un’Unione Europea guidata da Francia e Germania; in Irlanda dalla storica diffidenza verso l’Inghilterra —, ma emerge anche dal­l’eredità storica fornita da un’esistenza statale separata e/o dall’incorpora­zione di una comunità emarginata, e addirittura repressa o oppressa, in uno stato più grande e avanzato. Mentre è possibile interpretare le vivaci espressioni di nazionalismo in questi paesi come lasciti e residui della pre­cedente epoca nazionalista, il fatto che esse riappaiano e che siano anco­ra largamente diffuse suggerisce come sia necessario osservare più atten­tamente le origini sociali ed etniche di queste aspirazioni e di questi sen­timenti collettivi29.

Esiste poi anche il fenomeno più recente della feroce xenofobia e della violenza etnica indirizzata verso gli immigrati, i Gastarbeiter e i profughi in cerca di asilo. Queste manifestazioni assumono sia forme popolari che ufficiali. A livello popolare, negli ultimi anni si è assistito a violente esplo­sioni di antisemitismo in Germania, Francia, Polonia, Ungheria e altri stati, affiancate da manifestazioni d’odio ancora più estreme contro gli immigrati o i Gastarbeiter turchi, albanesi e rom in Germania, Italia, Francia e nella Repubblica Ceca. Questi sentimenti sono stati infiamma­ti da diverse organizzazioni neofasciste o neonaziste, che pretendono di difendere, sotto la bandiera del patriottismo, la purezza dell’eredità cul­turale nazionale, nonché di salvaguardare le opportunità di lavoro per gli autoctoni. A livello ufficiale, una politica sia nazionale che paneuropea ostile ai rifugiati politici e agli immigrati è stata coordinata dagli stessi governi; i requisiti per l’accoglimento sono stati ristretti, e questo nello stesso momento in cui l’Atto unico europeo e il trattato di Maastricht hanno unificato le popolazioni native dell’Europa nell’Unione Europea, concedendo loro l’entrata e la mobilità libera all’interno dei territori della comunità. Anche in questo caso, colpisce l’evidenza del paradosso fra uni­ficazione e frammentazione e la difficoltà di far coincidere la recente rina­scita del nazionalismo etnico con un qualsiasi concetto di modernizzazio­ne inteso come transizione dolorosa, la cui felice traversata nel regno della democratica opulenza di massa verrebbe poi però premiata con l’armonia nazionale e la pace sociale30.

29 La persistenza del nazionalismo irlandese nel corso del XX secolo è analizzata in Lyons (1979) e Hutchinson (1987); su religione e nazionalismo nella Polonia postbel­lica vedi Chrypinski (1989); sulle prime tendenze del nazionalismo norvegese vedi Mitchison (1980), mentre, per quanto concerne sviluppi più recenti, fra cui lo scetti­cismo - per non dire la resistenza - nei confronti della Comunità Europea vedi Waever(1992).30 Su questi modelli di neofascismo vedi Wilkinson (1983) e Husbands (1991).

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Identità, continuità e trasformazioneIl costante richiamo dell’etnicità e la persistenza dei nazionalismi etnici anche nelle società industriali avanzate costituiscono quindi i maggiori ostacoli per i miti della trascendenza dell’etnicità attraverso la moderniz­zazione, come pure per le teorie moderniste su nazioni e nazionalismo. La principale ragione del fallimento modernista sta nel rifiuto di collegare le conseguenze della modernità con la comprensione del ruolo costante gio­cato dalle identità etniche e dai legami culturali nati in epoca premoderna. Questi ultimi sono rintracciabili all’interno di comunità particolari e regionali, cioè tra i ceti più bassi - contadini, minoranze indigene, artigia­ni, operai - che hanno spesso formato la base sociale dei nazionalismi loca­li all’origine delle mobilitazioni di massa. Gli errori delle teorie moderni­ste hanno determinato la sistematica trascuranza delle fondamenta popo­lari e della cornice culturale del nazionalismo. Per fornire un’analisi reali­stica del paradosso dei nazionalismi disgreganti che prosperano in mezzo alla trascendenza globale, la ricerca deve iniziare dalle basi popolari e dal passato etnico, come dalle memorie, i miti, i simboli e le tradizioni delle comunità culturali. La critica ai tanto in voga approcci modernisti al nazionalismo fornisce quindi il punto di partenza necessario per una migliore comprensione di tutte le recenti tendenze politiche e sociali.

Qualsiasi tentativo di comprendere l’inclinazione postmoderna dell’e­clettico globalismo trascendente e del nuovo localismo deve quindi rap­portarli non semplicemente ai processi di modernizzazione, ma anche alle più remote identità ed eredità premoderne, che continuano a costituire le fondamenta di molte nazioni attuali e a esercitare una forte influenza a tutt’oggi. La Francia e la Russia medievali non formano soltanto il piedi­stallo e il crogiolo della Francia e della Russia contemporanee: i rapporti sociali e le consuetudini culturali di questi paesi sono radicate in tradi­zioni, miti, memorie, simboli e valori che sono stati tramandati di gene­razione in generazione, esercitando fino a oggi un’elevata influenza - seb­bene talvolta nascosta - sulle tradizioni politiche, la legge e i costumi, il paesaggio e i suoi luoghi sacri, la lingua e la letteratura, le forme architet­toniche, i lasciti artistici e musicali, le danze, i costumi, i cibi e i passa­tempi degli individui. Ciò significa che, nel caso si desideri spiegare l’at­tuale proliferazione delle identità culturali e degli etnonazionalismi in ogni parte del mondo, le continuità con le influenze delle epoche premo­derne devono essere analizzate in relazione alle tendenze moderne e “post­moderne” e alla loro evidente interrelazione31.

31 Per una più completa esposizione di queste influenze premoderne vedi A. D. Smith (1986a, cap. 8).

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Concludo quindi con un particolare esempio che ho in mente. Anche degli stati nazionali piccoli e neutrali come la Svizzera, che hanno resisti­to per tanto tempo alla tentazione di essere coinvolti nelle alleanze e nelle rivalità politiche europee, cominciano ora a sentire l’influenza delle comunicazioni di massa, delle compagnie e dei mercati transnazionali e dell’unificazione politica del Vecchio Continente. Questo avviene al punto che, nel 1991, persino le celebrazioni del settecentesimo anniver­sario del mito della fondazione politica della Svizzera sono passate pres­soché in sordina; i problemi del paese, causati in particolare dalla sua gio­vinezza, sembravano aver poco a che vedere con l’epoca dell’eroica fon­dazione o con le semplici e solide virtù associate all’indipendenza svizze­ra. Oggi, infatti, i problemi sembrano essere locali oppure globali, piut­tosto che semplicemente nazionali, mentre il tradizionale racconto peda­gogico sulla nazione tanto diffuso in Svizzera fino agli anni Settanta appa­re sempre meno rilevante.

Tuttavia non sono passati nemmeno due decenni da quando la Svizzera è stata scossa da una campagna che intendeva tenere fuori i lavoratori stra­nieri, soprattutto gli Italiani, e serbare il lavoro svizzero per gli Svizzeri, mantenendo così intatti la purezza della cultura politica e lo stile di vita del paese. Con questo si guardava alla preservazione della sovranità dello stato nazionale fondato nel 1848 - o della precedente Repubblica Elvetica nata nel 1798 —, che si era così ben mantenuta fino agli anni Settanta delXX secolo. Dietro l’insistenza sull’indipendenza politica vi era una storia ben più antica, nel corso della quale la vecchia Confederazione svizzera aveva difeso i suoi diritti cantonali e le sue culture politiche da una lunga serie di nemici esterni; questo processo si era protratto a lungo e aveva portato a forgiare la comunità attraverso la lotta e la separazione di una crescente identità svizzera da quella dei suoi grandi vicini32.

Possiamo delineare tre grandi epoche nella continuità e nella trasfor­mazione della Svizzera. All’inizio vi è un lungo periodo premoderno di formazione etnica, quando fra i diversi cantoni vi erano accordi superfi­ciali, e spesso ambivalenti, strutturati sulle consuetudini delle valli ale­manne e delle istituzioni urbane, ma anche sulla lotta comune per pre­servare o ripristinare i privilegi locali erosi dagli Asburgo. Questa fu suc­cessivamente vista come l’età eroica, venne associata a numerose leggen­de sulla fondazione (il patto del Rütli, Guglielmo Teli) e fu infine incor­niciata da guerre esterne contro gli Asburgo e i Borgognoni. Solo dal sedi­cesimo secolo le città e i cantoni francofoni di stirpe non alemanna ten­tarono di unirsi alla Confederazione, costringendo gli Svizzeri a cercare

32 Steinberg (1976) fornisce una vivida descrizione della complessità dell’identità nazionale degli Svizzeri.

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altre basi - non linguistiche - per la loro identità politica. Questo proces­so fu poi seguito da un periodo di consolidamento, che ebbe come pro­tagonisti i patriziati urbani e le oligarchie interdipendenti33.

Quando nel XVIII secolo quest’identificazione minacciò di fossilizzarsi, un movimento di rinnovamento culturale e politico sorto a Zurigo, Berna e Ginevra creò un’atmosfera favorevole all’accoglimento dell’influenza e dell’intervento francesi. Questa svolta aprì una seconda e moderna sta­gione di nazionalismo ideologico e di formazione nazionale, nella quale le varie élite secolari cercarono di diffondere l’idea di un’identità nazionale svizzera fra i loro compatrioti. Il tentativo culminò nella proclamazione della Confederazione Svizzera e della Costituzione del 1848, avvenuta dopo la breve guerra a carattere religioso del 1847, nonché nell’istituzio­nalizzazione di un moderno stato nazionale34.

Si è da allora verificato il graduale emergere di uno stato nazionale sviz­zero neutrale e attento alla difesa, e nello stesso tempo di una cultura poli­tica aperta alle influenze politico-economiche esterne: un processo inizia­to negli anni Sessanta del XX secolo e da allora in costante accelerazione. E ancora troppo presto per dire dove porterà questa fase “postmoderna”, e se essa potrà arrivare a intaccare l’ordinamento civile o l’identità cultu­rale e politica della Svizzera. Il punto, comunque, riguarda il fatto che non è possibile cominciare a valutare quest’eventualità senza prima aver preso in considerazione l’intera portata della passata storia e dell’identità della Svizzera, almeno come base di partenza per un’ulteriore analisi35.

Quest’ultima osservazione tocca sia la sostanza sia il metodo. Sostanzialmente, qualsiasi nuovo modello di identificazione svizzera sarà composto da memorie, simboli e tradizioni delle identità precedenti. Questo è inevitabile, nonostante una parte degli Svizzeri più giovani che abita nelle città desideri rigettare i sensi di identificazione più antichi. In ogni caso, ogni tipo di nuova identità a carattere europeo fra la gioventù svizzera sarà probabilmente permeata dalle identità locali più antiche. Dal punto di vista metodologico, invece, qualsiasi analisi più approfondita dei cambiamenti nell’identificazione collettiva degli Svizzeri deve dare il dovuto peso ai modelli di riconoscimento passati, che hanno guidato per tanti secoli la maggioranza degli uomini e delle donne del paese. A lungo

33 Per una completa analisi della formazione dell’unità e dell’identità nazionale svizze­re vedi Im H of (1991), che fa risalire il processo di costruzione nazionale al tardo Quattrocento.34 Per dei sunti generali vedi Kohn (1957b) e Thurer (1970).35 Vedi la storia“modernista” della Svizzera di Fahrni (1983), che minimizza il signifi­cato dei miti della fondazione e dei legami etnici; vedi anche Kreis (1991) per un approccio di tipo “social-costruzionista” al mito nazionale svizzero del 1291, interpre­tato come il materiale con cui si è poi fabbricato il nazionalismo di fine Ottocento.

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termine, ogni nuovo modello di identificazione sarà altrettanto debitore sia con le antiche identità del paese sia con le recenti tendenze europei­stiche e globali. Su entrambi i livelli, cioè sostanziale e metodologico, l’e­sempio svizzero fa da utile guida per la comprensione della natura degli attuali paradossi che interessano il nazionalismo e per afferrare il signifi­cato dei moderni etnonazionalismi che hanno vissuto in questi anni una rinascita così ampia ed eloquente.

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Un revival etnonazionale?

Il fallimento dell’interpretazione modernista nello spiegare la rinascita del nazionalismo fornisce all’iniziale paradosso rilevato in precedenza un rilievo più accentuato. Come abbiamo visto, la rivoluzione della moder­nità non si è assolutamente esaurita. Allo stesso tempo, la frammentazio­ne etnica e il nazionalismo separatista sono tendenze fondamentali della storia recente, che persistono anche in aree di avanzata modernità: non si tratta quindi di episodi secondari temporanei. Perché mai, dunque, fram­mentazione e separatismo si starebbero rivitalizzando con tanta forza in un momento in cui la strada della modernità e l’erosione dei valori tradi­zionali sembrano contraddire il particolarismo e le divisioni generate con­tinuamente dal nazionalismo etnico? Cosa può significare un revival etni­co alle soglie del XXI secolo? Come mai si sono riaccese le fiamme di un nazionalismo feroce, neppure quarant’anni dopo che parevano essersi spente nel Götterdämmerung del Terzo Reich?La critica delperennismoE se invece fossimo veramente in presenza di una ripresa e di una rinasci­ta? Se forse fossimo stati semplicemente delusi? In realtà, le fiamme del nazionalismo non erano mai state spente, ma solo temporaneamente nascoste dai nostri sensi di colpa legati alla presa di coscienza delle loro terribili conseguenze. Anche in Occidente, il nazionalismo etnico era sopravvissuto dietro una sottile patina di democrazia sociale e di liberali­smo; di conseguenza, l’origine di una grande percentuale dei movimenti postbellici per l’autonomia etnica apparsi in Europa alla fine degli anni Cinquanta e Sessanta può essere risalire molto più indietro nel tempo. I

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gruppi per l’autonomia bretone e fiamminga vennero fondati subito dopo la prima guerra mondiale; il movimento per l’autonomia della Scozia emerse nel 1886, mentre il predecessore del Partito nazionale scozzese nacque nel 1928; il movimento basco di Sabino Arana fu costituito nel 1894; quello catalano negli anni Ottanta dell’Ottocento1.

Sebbene in Occidente questi e altri gruppi abbiano conosciuto una rinascita di massa negli anni Sessanta del XX secolo, le loro radici cultura­li possono essere collocate agli inizi dell’Ottocento, mentre le loro prime manifestazioni politiche risalgono alla fine dello stesso secolo. Solo quel senso di repulsione nei confronti del razzismo e di ogni cosa potesse esse­re collegata all’etnicità scatenato dagli orrori della seconda guerra mon­diale può aver mascherato alla nostra vista la persistenza dei nazionalismi etnici e aver determinato tanta sorpresa al momento della loro apparente improvvisa rinascita2.

Ma le date non bastano a spiegare l’intera faccenda. Che cosa è esatta­mente sopravvissuto, e che cosa si è rianimato? Esisteva un nazionalismo popolare nel XIX secolo, che è poi rinato negli anni Sessanta del Novecento? E possiamo parlare di comunità etniche sopravvissute intatte fin dai tempi più remoti, dalle epoche premoderne? Oppure si è in pre­senza di una “nazione” premoderna che, come affermano i nazionalisti, si è “addormentata”, per poi ridestarsi “con un bacio” nell’inebriante atmo­sfera dei “ruggenti anni Sessanta”?3

Queste domande ci avvicinano di molto alla posizione di quelli che ho chiamato “perennisti”. Dal loro punto di vista, le nazioni moderne sono semplicemente le espressioni recenti di un fenomeno antichissi­mo, cioè della nazione immemorabile, di cui si possono facilmente tro­vare le tracce nell’antichità e nel Medioevo. Non c’è nulla di veramen­te nuovo nella nazione “moderna”, se non il periodo in cui essa emer­ge e la tecnologia e gli apparati di governo controllati dalle sue élite amministrative e militari. La nazione in quanto tale, che i perennisti considerano una comunità eletta che condivide una cultura, una storia e una lingua comuni all’interno della propria patria, non è pratica- mente mai mutata. Ciò cui si è assistito alla fine del XX secolo è sem­plicemente una riaffermazione della “base” nazionale sulla “sovrastrut­tura” politica ed economica (per ribaltare, come gli stessi nazionalisti

1 Sulle origini di questi movimenti vedi Mayo (1974); sul movimento scozzese vedi Hanham (1969); sui movimenti basco e catalano vedi Payne (1971).2 II neonazionalismo occidentale ha prodotto una vasta letteratura: vedi, fra gli altri, Esman (1977), Williams (1982a) e Tiryakian e Rogowski (1985).3 Sulla metafora della “Bellezza Dormiente” vedi Minogue (1967a); per le immagini del risveglio, della rinascita e del rinnovamento nazionale vedi Pearson (1993).

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UN REVIVAL ETNONAZIONALE? 69

sono soliti dire, la metafora marxista). In altre parole, la cultura - intendendo la cultura nazionale — ha voluto riconfermare il suo pri­mato sulla politica, l’economia e la tecnologia, in quanto essa è l’inva­riabile impalcatura della società, con i suoi lenti ritmi di comunicazio­ne, il suo profondo radicamento nella psiche umana, i suoi onnicom­prensivi codici simbolici, le sue reti di relazioni sociali4.

Ma si può sostenere l’idea della “nazione immemorabile”? Si può affermare che la nazione, in qualche modo, sia sempre “esistita”, nel­l’antichità come nell’epoca moderna? Si può realisticamente asserire che le nazioni moderne sono le discendenti dirette delle loro copie medievali? E, di conseguenza, che le moderne nazioni russa o inglese sono in tutte le loro componenti essenziali identiche a quelle della Russia e dell’Inghilterra medievali; oppure, che queste comunità eranoi “veri antenati” degli Inglesi (o dei Russi) di oggi, come dichiara l’in­troduzione al catalogo della mostra sugli Anglosassoni The Making o f England?5

Una simile opinione vuole indicare sia che la “modernità”, nonostante tutti i progressi tecnologici ed economici portati, non ha influito sulle strutture di base delle associazioni umane sia che, al contrario, sono la nazione e il nazionalismo che in ciascun caso determinano o ci conduco­no verso ciò che chiamiamo “modernità” (con ogni nazione che definisce poi questa a modo suo). Quindi, l’antica confederazione ebraica guidata dagli Asmonei (Maccabei) e dagli Idumei poteva, ad esempio, vantare le stesse caratteristiche di patria, popolazione, storia, lingua, culto centrale - come anche il potere monarchico, l’esercito e la capitale — di tanti dei suoi vicini (e molte di queste sono qualità che troviamo nelle nazioni moder-

4 Per un’incisiva esposizione perennista vedi Fishman (1980). Un’interpretazione più complessa è abbozzata da Armstrong (1982, cap. 1), che considera l’etnicità e la nazio­nalità come strette alleate interscambiabili, in quanto insiemi di percezioni, attitudini e sentimenti legati a sensi d’identità sia religiosi che di classe; in ogni caso, uno spar­tiacque storico - l’introduzione del nazionalismo - distingue le nazioni dell’epoca 1775-1815 da quelle del periodo seguente (Armstrong, 1992a).5 Johnson (1992) ha sollevato alcune di queste problematiche in riferimento al catalo­go della mostra The Making o f England (vedi Webster e Backhouse, 1991), dove l’in­troduzione storica di Nicolas Brooks si apre così:

Gli Anglosassoni, le cui conquiste artistiche, tecnologiche e culturali del VII, Vili e IX secolo sono esibite in questa mostra, furono i veri antenati degli Inglesi di oggi. All’epoca in cui queste opere vennero realizzate, esistevano fra gli Anglosassoni numerosi regni rivali, ognuno con una propria dinastia, una pro­pria aristocrazia e delle distinte lealtà e tradizioni. La lingua inglese parlata mostrava già ampie differenziazioni dialettali a livello regionale. Ciononostante, negli Anglosassoni era presente il sentimento di appartenza a uno stesso popolo (Webster e Backhouse, 1991, p. 9).

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ne). Non potrebbe dunque essere possibile che il concetto e la realtà della nazione siano dopotutto perenni, e che essi determinino la nostra visione della storia, inclusa quella che denominiamo età moderna, con tutti i rela­tivi processi di sviluppo?6

E ora certamente sempre possibile definire l’idea di nazione in modo che possa essere estesa a ogni principale identità territoriale e culturale di qualsiasi epoca. In questo senso, la nazione non può essere distinta dalla comunità etnica o da ogni altra identità o gruppo culturale collettivo. Nondimeno, come punto di vista generale, il perennismo mostra delle incrinature, in quanto propone delle interpretazioni generiche sulla natu­ra sottostante alle comunità culturali, sorvola le importanti differenze tra le culture-comunità premoderne e quelle moderne e semplifica il quadro — spesso complesso — delle associazioni umane. Tanto per iniziare, partia­mo dal fatto che le nazioni moderne sono le “nazioni di massa”: si appel-

' lano, cioè, all’intera popolazione, e quando la elevano a nazione, lo fanno includendovi teoricamente tutti gli strati della popolazione designata in una nazione sovrana (anche se ci sono voluti diversi secoli prima che que­sta rivendicazione fosse messa completamente in pratica con l’emancipa­zione delle donne all’inizio del XX secolo). Trovare dei paralleli nell’anti­chità e nel Medioevo è difficile, e gli antichi Ebrei costituiscono forse un’eccezione significativa. La nazione di massa, quando emerge, è sotto molti aspetti diversa dai piccoli gruppi elitari che solitamente passano per le “nazioni” antiche e medievali e che generalmente abbracciavano solo le fasce più alte della popolazione. Nella “nazione di massa” moderna, ogni membro è un cittadino; esiste, inoltre, una teorica uguaglianza fra tutti gli appartenenti alla comunità. Le leggi della nazione sono uguali per l’inte­ra cittadinanza e, sempre a livello teorico, non dovrebbero esserci ele­menti mediatori fra quest’ultima e lo stato nazionale. Ciò significa anche che il complesso dei cittadini delle nazioni di massa è generalmente molto più numeroso dei membri politicamente attivi nelle etnie premoderne o nelle città-stato7.

In secondo luogo, la nazione moderna, oltre a essere una comunità cul­turale storica, è anche una comunità “politico-legale”. Ci sono in propo­

6 La tesi secondo cui la nazione e il nazionalismo sono gli elementi centrali che defi­niscono i contenuti della modernità si trova in Greenfeld (1992, cap. 1); vedi anche Armstrong (1992a). Le caratteristiche dell’antica confederazione ebraica sono delinea­te in Mendels (1992), il quale comunque chiarisce come il suo uso del concetto di nazionalità nel mondo antico sia più affine alle idee di etnia e etnicità che alle nazioni e ai nazionalismi moderni.7 Esiste un particolare problema connesso alle città-stato dell’antichità, che potrebbe­ro essere meglio descritte come nazioni precoci, sebbene su piccola scala. Le dimen­sioni dell’antica Atene coincidevano più o meno con quelle dell’odierna Islanda (250

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sito due aspetti da sottolineare. Il primo è interno: la nazione moderna è una comunità governata da comuni codici di legge e l’appartenenza a una simile comunità rappresenta uno status legale, oltre che sociale. “Cittadino” viene definito chi, per il fatto di condividere la comune cul­tura pubblica della nazione, esercita determinati diritti e assolve determi­nati doveri verso i suoi concittadini. Tali diritti e doveri sono stabiliti dalle costituzioni formali o dalle norme consuetudinarie, o da entrambe, ma l’idea di base sottostante è che queste ultime sono costituite da codifica­zioni della volontà nazionale, la quale a sua volta esprime il modello con­diviso dei valori e delle tradizioni della comunità. L’aspetto eterno delle nazioni moderne è rivelato dai concetti di autonomia e sovranità. La nazione moderna, nel suo esercizio di autogoverno e di autonomia, è di fronte alle altre nazioni una “comunità politica”, che sia all’interno di una federazione oppure in qualità di stato sovrano fra altre entità sovrane. Essa diviene una comunità politica nazionale nella misura in cui richiede cheil suo governo assuma la forma dell’autogoverno nazionale dell’intera comunità8.

In terzo luogo, le nazioni moderne sono legittimate da un’ideologia universalmente applicabile: il nazionalismo. Come ideologia, il nazio­nalismo considera il mondo diviso in nazioni, ciascuna delle quali con un proprio carattere e destino. Il nazionalismo sostiene poi che la lealtà di un individuo deve in primo luogo essere indirizzata alla sua nazione; che quest’ultima è la fonte di tutto il potere politico; che per essere libe­ro e completo l’individuo deve appartenere a una nazione; che ogni nazione deve esprimere la sua natura autentica cercando l’autonomia; che un mondo di pace e giustizia può essere costruito solo sulle fonda- menta di un insieme di nazioni autonome. Questa “dottrina centrale” dell’ideologia nazionalista è emersa soltanto nel Settecento, prima in Europa e in seguito nelle altre aree del mondo, sebbene alcune delle sue componenti fossero apparse già nel XVI e nel XVII secolo. Prima del Cinquecento era però sconosciuta in Europa o altrove: quindi, nel caso fosse allora comparso qualcosa di rassomigliante alla moderna nazione

mila abitanti). D ’altra parte, solo i 30 mila ateniesi maschi erano considerati cittadini; meteci, donne e schiavi ne erano invece esclusi. Inoltre, da un punto di vista naziona­lista, agli ateniesi mancava l’elemento chiave dell’individualità culturale (piuttosto che l’omogeneità); la loro cultura era infatti una variante della più ampia cultura etnica ionia, e dell’ancora più vasta rete culturale ellenica — vedi Alty (1982) e Finley (1986, cap. 7). Sull’idea che le nazioni e i nazionalismi siano esclusivamente fenomeni di massa, e quindi appartenenti al XX secolo, vedi Connor (1990).8 Riguardo all’ultimo punto vedi Kedourie (1960); sulla cittadinanza e la nazione moderna vedi Bendix (1964) e Breully (1982, “Conclusion”); sulla nazione federale vedi Birch (1989).

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di massa (puntellata dal nazionalismo), si sarebbe trattato probabil­mente di un episodio fortuito, oltre che raro. Le nazioni moderne sot­toscrivono implicitamente questo tipo di ideologia nazionalista e spes­so invocano alcuni dei suoi elementi per rafforzare le varie rivendica­zioni e questioni in sospeso9.

Quarto punto: la nazione moderna è parte integrante di un sistema i internazionale più ampio, nell’ambito del quale il mondo intero si trova diviso in distinti stati nazionali, messi in rapporto fra loro da idee e pra­tiche comuni, incluse quelle implicite nell’ideologia nazionalista. Questo tipo di organizzazione cominciò a svilupparsi nel continente europeo dopo la pace di Westfalia del 1648, divenendo il modello dominante in Europa, America settentrionale e America Latina dopo il 1815. In segui­to, venne esportato attraverso il colonialismo e gli stati-nazione postcolo­niali in altre parti del mondo, come il Medio Oriente, l’Asia e l’Africa. Come sosterrò più avanti, i principi dominanti del mondo moderno sonoil pluralismo culturale e quello politico. Essi garantiscono che lo stato nazionale divenga la norma sia per quanto riguarda le relazioni governa­tive che quelle interstatali, e allo stesso tempo che il consenso popolare sia l’unica giustificazione teorica per la permanenza in carica di un determi­nato potere politico10.

Il quinto punto, infine, si riferisce al fatto che la nazione moderna è " dotata di un carattere preminentemente territoriale: si tratta cioè di una

popolazione umana delimitata da uno spazio — all’interno del quale è comunque in possesso di una certa mobilità - e i cui membri apparten­gono a un particolare territorio, riconosciuto come “loro” di diritto. C’è una stretta corrispondenza, perfino una coincidenza, tra la patria e le sue risorse e il popolo; una corrispondenza filtrata attraverso la storia nel modo in cui è vista dagli occhi dei membri della comunità, e spesso dei confinanti. Popolo e terra sono uniti da un paesaggio comune e dalla base ecologica di un’economia unificata, ma anche in conseguenza di una sto­ria composta da esperienze e memorie affini e dalla condivisione di gioie e sofferenze, che hanno legato gli eventi a particolari luoghi (campi di bat­taglia, sedi di trattati, dimore di principi, eremi di santi, riunioni di saggi,

9 Un sostenuto attacco alle dottrine sul nazionalismo è contenuto in Kedourie (1960); cfr. anche A. D. Smith (1971, cap. 7) e il cap. 6 del presente volume. Per la tesi che le società “agro-letterate” premoderne, con la loro rigida divisione tra masse ed élite, non presentassero alcuna opportunità per nazioni e nazionalismo vedi Gellner (1983, cap.3). Sui primi sviluppi delle idee sul carattere nazionale vedi il competente studio di Kemiläinen (1964).10 Sullo sviluppo del sistema interstatale in Europa occidentale vedi Cobban (1945) e Tilly (1975).

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ecc). È lungo le rive di quei fiumi, su quelle colline e quelle montagne, in quelle vallate che ciò che chiamiamo “il nostro popolo” è nato, cresciuto e continua a fiorire: i paesaggi della nazione definiscono e caratterizzano l’identità delle sue genti11.

Questi sono alcuni degli elementi distintivi che stanno alla base del concetto di nazione nel mondo moderno. Essi suggeriscono una defini­zione funzionale che abbina agli elementi territoriali, legali e della cul­tura pubblica la memoria comune e i lasciti del passato che caratteriz­zano ogni identità culturale collettiva. Attraverso questa lettura, una nazione può quindi essere definita “una specifica popolazione umana che condivide miti, memorie, una cultura pubblica di massa, una patria designata, un’unità economica e uguali diritti e doveri per tutti i suoi membri”12.

Ma, come indica anche quest’ultima definizione, con questo abbiamo risolto solo una parte del problema. È vero che possiamo non incontrare le “nazioni” nelle epoche premoderne, almeno non nella forma di massa, legale, pubblica e territoriale che hanno assunto negli ultimi secoli. D ’altra parte, incontriamo nel passato un numero di unità culturali col­lettive più labili, che possiamo chiamare “etnie” e definire come “specifi­che unità di popolazione con comuni miti di ascendenza, alcuni agganci con un territorio storico e una certa misura di solidarietà interna, almeno fra gli appartenenti alle élite”. Queste collettività culturali, o etnie, di cui ho già discusso altrove, appaiono nelle testimonianze storiche almeno dalla fine del terzo millennio A.C. - cioè dagli antichi Sumeri, Elamiti ed Egiziani - e sono poi riapparse in ogni continente in diverse epoche sto­riche13.

Se le nazioni sono moderne, almeno come fenomeni di massa legitti­mati dall’ideologia nazionalista, devono comunque molto del loro attua­le carattere e forma ai preesistenti legami etnici che discendono da etnie precedenti insediate nell’area pertinente. Ovviamente, molte etnie più antiche sono scomparse o sono state assorbite da altre, oppure si sono scomposte in varie parti. Si possono citare in proposito gli esempi dei Fenici e degli Assiri nell’antichità e dei Vendi e dei Burgundi nell’era medievale. Tuttavia, alcuni legami etnici sono sopravvissuti ai periodi pre­moderni, almeno fra determinati segmenti delle popolazioni, trasforman­

11 La componente territoriale della nazioni - la “patria” - è analizzata in A. D. Smith e Williams (1983).12 Per una definizione di “nazione” vedi, fra gli altri, Deutsch (1966, capp. 1 e 4), Condor (1978) e A. D. Smith (1991, cap. 1).13 Discussioni più ampie su etnia ed etnicità si trovano in Schermerhorn (1970), de Vos e Romanucci (1975), Armstrong (1982) e A. D. Smith (1986a, cap. 2).

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dosi spesso nelle basi per la formazione delle nazioni e dei movimenti nazionalisti odierni. L’odierno movimento bretone deve chiaramente il suo richiamo alla persistenza di tradizioni, miti, memorie e simboli della Bretagna, sopravvissuti sotto varie forme nel lungo periodo di dominio della Francia metropolitana, avviato dall’incorporazione della regione avvenuta con l’alleanza dinastica nel 1532. Similmente, il nazionalismo catalano, emerso negli anni Ottanta del XIX secolo, che ha vissuto dei periodi di rinascita negli anni Trenta e di nuovo negli anni Settanta del Novecento, ha tratto ispirazione dalla lunga storia marittima della Catalogna, quando la provincia era una potente monarchia semi-indi- pendente, e dal fascino e dal prestigio della lingua e della cultura catala­ne. Il nazionalismo croato e serbo di oggi si riallaccia a precedenti stagio­ni di nazionalismo popolare risalenti alla metà del XIX e poi del XX secolo e a loro volta derivanti dalle rielaborazioni moderne dei simboli e delle memorie popolari dei regni medievali indipendenti e di antiche differen­ze religiose14.

Questo non è il luogo per esplorare ulteriormente ogni altra possibilità per quanto riguarda il caso delle nazioni premoderne. E comunque evi­dente che, sebbene alcuni recenti nazionalismi occidentali si rifacciano ai nazionalismi popolari dell’Ottocento, le loro forme e i loro obiettivi sono oggi significativamente differenti; inoltre, mentre nelle epoche premo­derne incontriamo molte etnie e diversi stati etnici, la stessa evidenza per quanto riguarda le nazioni premoderne è nel migliore dei casi discutibile e problematica15.Etnie premoderneLa precedente discussione ha evidenziato che, nel caso si intenda cogliereil valore di una qualsiasi “rinascita etnica” o resurrezione del nazionalismo nel mondo contemporaneo, le fonti del potere di queste forze politiche devono essere ricondotte al “substratum etnico” della comunità e dell’i­dentità collettiva. Questa considerazione richiede una breve ricapitolazio­ne dei principali concetti usati nell’analisi delle etnie premoderne che ci permetta di individuare i diversi percorsi attraverso i quali sono sorte le nazioni moderne.

14 Sul nazionalismo bretone vedi Berger (1977) e Beer (1977); i primordi del nazio­nalismo catalano e basco sono confrontati in Conversi (1990); per una succinta storia dei Serbi e di Croati vedi Singleton (1985) e, più in dettaglio, Jelavich (1983, special- mente il cap. 6).15 Una più ampia analisi delia questione delle nazioni premoderne è contenuta in A. D. Smith (1994), dove i criteri proposti sono meno restrittivi di quelli impiegati da Connor (1990).

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Etnie “laterali” e “verticali”Il paesaggio storico premoderno è caratterizzato da diversi tipi di comu­nità etniche stanziate in aree differenti. Le più comuni categorie di etnia sono state quelle definite “laterali”, o aristocratiche, e quelle “verticali”, o demotiche. Le etnie “laterali” hanno un carattere piuttosto esteso e diffu­so, ma la loro cultura etnica è confinata nelle classi alte (la corte, la buro­crazia, il clero, la nobiltà e i ricchi mercanti); in questo caso, dunque, l’et­nia rappresenta anche l’appartenenza a un gruppo di condizione sociale alta. Le etnie “verticali” sono invece territorialmente più compatte e pre­sentano una cultura etnica che si estende a tutte le classi della comunità; le barriere poste all’accesso a quest’ultima tendono a essere forti; i loro membri, infine, possono essere più facilmente mobilitati da movimenti etnoreligiosi di rinnovamento o da capi carismatici, che spesso emergono dalla “gente comune”. Entrambe queste categorie di etnia possono essere stimolate dal senso della missione e da miti relativi all’elezione etnica: ciò vale tanto per i cavalieri ungheresi e la nobiltà catalana che per le tribù arabe o israelitiche, tanto per i contadini guerrieri svizzeri che per i mili­tanti sikh. In ciascuno di questi casi, possiamo identificare il permanere di diversi miti, memorie, tradizioni, rituali e simboli locali collettivi. Questi elementi, sia fra le etnie laterali che in quelle verticali, contribui­scono a forgiare e a preservare una cultura-comunità storica, che si distin­gue per i suoi peculiari stili di vita e lavoro. Molte di queste culture- comunità, nonostante abbiano subito numerosi cambiamenti, sono sopravvissute per generazioni, con le etnie verticali o demotiche spesso cristallizzate in un composito mosaico di gruppi sociali (solitamente subordinati). Tale processo ha fatto sì che nell’era moderna alcune cultu­re-comunità presentino vari livelli di reti di interazioni e sentimenti già pronti o “disponibili”, che forniscono alle unità di popolazione un senso di intimità familiare e di una distinta identità ancestrale, in contrasto con gli stili di vita e i credi “alieni” degli estranei16.

L’era moderna non è assolutamente, da questo punto di vista, una tabu­la rasa. Al contrario, essa emerge dalle complesse formazioni sociali ed etniche delle epoche precedenti e dai diversi tipi di etnie, che le forze moderne trasformano, ma senza mai cancellare. In quest’ottica, l’età moderna assomiglia a un palinsesto su cui sono state incise le esperienze e le identità di diverse epoche e di una varietà di formazioni etniche, cro­nologicamente influenzate e modificate da quelle successive fino alla pro­duzione di un composito modello di unità culturale collettiva che possia­mo chiamare “la nazione”. Come vedremo, le differenze e i conflitti tra le

16 Le differenze sui modelli di etnia premoderna sono descritte in Armstrong (1982, capp. 1, 3 e 7) e A. D. Smith (1986a, cap. 4).

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due forme fondamentali di etnia — la laterale e la verticale — possono esse­re ritrovate alla base di molti dei problemi e dei conflitti politici nel mondo contemporaneo.

La situazione è simile per quanto riguarda il movimento e l’ideologia del nazionalismo. Certamente, in Olanda e in Inghilterra nessun movi­mento o ideologia secolare di questo tipo si sono manifestati prima del XVIII secolo oppure, sotto forma religiosa, prima del XVI secolo. Vi erano però antecedenti ideologie e movimenti che preannunciavano il naziona­lismo: si trattava di movimenti etnicisti sorti in difesa di particolari etnie, sia laterali che verticali, e di un etnocentrismo la cui base era un senso di missione legato alla predestinazione etnica. Talvolta questi movimenti erano sfociati in aperte guerre e ribellioni, come quando gli Ioni e gli Egiziani si rivoltarono contro i Persiani Achemenidi, i Galli e gli Ebrei contro i Romani, gli Svizzeri e gli Scozzesi contro gli Asburgo e i Plantageneti. Gli ideali e le leggende eroiche che si sono poi sviluppati attorno a queste gesta hanno indubbiamente influenzato le moderne aspi­razioni nazionaliste di alcune etnie, mentre un successivo nazionalismo secolare ha modificato, pur mantenendoli, alcuni dei miti sull’elezione etnica e delle tradizioni eroiche più antiche17.

» « • r •dentro e periferiaUna seconda importante eredità etnica lasciata dalle epoche premoderne è la sopravvivenza delle cosiddette etnie “periferiche”. Queste sono di soli­to a carattere “verticale” o demotico: degli esempi tratti dal mondo occi­dentale dovrebbero includere i Franco-canadesi, i Baschi, i Catalani, i Corsi, i Bretoni, i Gallesi, gli Scozzesi, i Frisoni (tanto per nominarne solo alcuni); al di fuori dell’Europa possiamo invece indicare gli Ewe, i BaKongo, i Copti, i Curdi, i Drusi, i Sikh, i Naga, i Tamil, i Moro e gli Aborigeni australiani.

Queste comunità etniche mostravano in passato (e in alcuni casi lo mostrano tuttora) un rapporto di disaffezione e subordinazione rispetto a etnie dominanti più grandi, le cui élite governavano lo stato in cui le prime erano state incorporate secoli prima da signorie o monarchie espansioniste o, in periodi più recenti, dalle potenze coloniali europee. I leader di queste etnie periferiche, o i capi di movimenti che proclamano di parlare a loro nome, dichiarano spesso che le loro comunità continua­no a essere sfruttate e oppresse a vari livelli. In passato, le questioni socia-

17 Per un singolare mito dell’elezione etnica che ha nutrito il nazionalismo olandese nella prima età moderna vedi Schama (1987, cap. 2). Cfr. anche Kohn (1940) per un nazionalismo puritano inglese riguardante gli individui “eletti” etnicamente. Sui miti dell’elezione etnica in generale vedi A. D. Smith (1992a).

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li, culturali e politiche formavano le basi della protesta, ma oggi, predo­minando le rivendicazioni economiche, si vedono le comunità periferiche denunciare lo sfruttamento delle loro risorse e del loro lavoro, come anche la trascuranza e l'emarginazione della propria regione da parte di governi dominati dall’etnia che ha un ruolo centrale o strategico all’inter­no dello stato18.

Ci sono diversi considerazioni da fare di fronte a questa situazione. In primo luogo, come si è affermato precedentemente, gli stati occidentali moderni sono stati costruiti sulla base di etnie “centrali” - i Castigliani, i Francesi, gli Inglesi, gli Svedesi —, le cui élite e i cui sovrani avevano crea­to potenti stati che hanno poi hanno inglobato le popolazioni minorita­rie circostanti. Un simile processo si è verificato in altre aree dell’Europa, sebbene con minore successo (Russia, Polonia, Ungheria e Jugoslavia).Nei casi relativi all’Europa orientale, in particolare, era esistita un’etnia predominante - Russi, Lituani, Polacchi, Ungheresi, Serbi — attorno alla quale era stato poi edificato uno stato il cui territorio aveva incluso diver­se etnie “periferiche” di una certa rilevanza: Ucraini e Tartari, Ebrei, Rom, Croati, Musulmani, ecc. Questo “mosaico” di relazioni etniche dominan­te-subordinato, centro-periferia, ha fornito lo sfondo storico per il sorge­re dello stato nazionale in molti dei territori europei, sebbene possa esse­re rinvenuto anche al di fuori del Vecchio Continente19.

In secondo luogo, rispetto a un determinato stato e alla sua etnia domi­nante, le comunità e le categorie etniche incorporate venivano trattate, dal punto di vista sociologico, come minoranze: non erano quindi sol­tanto considerate minoranze in termini numerici, ma erano allo stesso tempo emarginate e discriminate anche sotto altri aspetti. Il modo di dire francese “nessun bretone, nessuno sputo” è indicativo dei tanti pregiudi­zi nei confronti delle minoranze etniche causati dal loro status subordi­nato. Come Michael Hechter ha documentato per l’Occidente industria- J lizzato, queste minoranze sono state oggetto di un’ampia gamma di sfrut­tamenti economici, esclusioni sociali e discriminazioni culturali. I loro sistemi economici sono stati distorti per soddisfare i mercati e le richieste di particolari prodotti da parte delle etnie dominanti; la loro manodope­ra qualificata è spesso stata costretta a emigrare; le loro élite sono state cul­turalmente assimilate; le posizioni coincidenti con un alto status sociale

18 La discussione globale sugli effetti dello sfruttamento del centro nei confronti delle etnie e delle regioni periferiche è documentata da Hechter (1975). Per dei casi specifici vedi Stone (1979).19 Per una penetrante analisi delle variazioni etnoregionali negli stati europei vedi Orridge (1982). Sui nazionalismi e i modelli di subordinazione etnica in Europa orien­tale vedi Sugar e Lederer (1969).

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riservate ai membri dell’etnia dominante; i benefìci sociali per le comu­nità minoritarie ridotti; infine, anche un più elevato tasso di alienazione sociale è stato riscontrato tra i loro membri (maggior numero dì crimini, alcolisti, divorzi, e così via)20.

Il terzo punto riguarda il fatto che queste minoranze etniche hanno comunque mantenuto nell’epoca moderna un senso della loro distinzio­ne culturale. Ciò potrebbe essere il risultato sia del “congelamento” del loro status di subordinate sia della mancanza di penetrazione dei com­merci e del capitalismo. Troviamo infatti delle comunità etniche dove per­mane un senso di separazione negli stati agrari “arretrati” come in quelli industriali “avanzati”, all’interno di gruppi relativamente illetterati come in altri culturalmente più progrediti. Questa realtà non si applica solo alle etnie caratterizzate da una diaspora, come Armeni, Greci, Ebrei e Rom, ma anche a quelle stabili, come Baschi, Sloveni, Cechi, Ucraini, Finlandesi, Tartari, Curdi e Tamil. Attualmente, le stesse considerazioni valgono per comunità distanti e culturalmente differenti, come i Mohawk in Canada, gli Uiguri in Cina e gli Aborigeni in Australia. In tutti questi ; casi, molti valori, tradizioni e simboli che distinguono la minoranza dal­l’etnia dominante e dallo stato mantengono la loro presa su ampi seg­menti della popolazione21.

Un’etnostoria inegualeVi è tuttavia un altro attributo dell’eredità premoderna che doveva evi­

denziare le più profonde conseguenze una volta che il processo di moder­nizzazione cominciò a interessare le differenti aree del mondo: si tratta della difforme diffusione dell’etnostoria.

Con il termine “etnostoria” non intendo un’indagine obiettiva e spassio­nata dello storico sul passato, bensì la visione soggettiva, presente genera­zione dopo generazione, di una determinata unità culturale di popolazio­ne rispetto alle vicende dei loro reali o presunti progenitori. Tale visione è inseparabile da quello che gli storici o gli studiosi di scienze sociali chia­merebbero “mito”. Come sostenuto prima, il mito non significa “fabbrica­zione” o pura invenzione: in generale, i miti - e in particolare i miti poli- : tici - contengono un fondo di realtà storica attorno al quale si sono inne- : state esagerazioni, idealizzazioni, distorsioni e allegorie. I miti politici sono

20 Vedi Hechter (1975) e la revisione della sua posizione, al fine di tener conto della “divisione segmentaria del lavoro” in Scozia, contenuta in Hechter e Levi (1979). Per un’applicazione critica ad altre zone industriali periferiche del concetto di “coloniali- smo interno” vedi i saggi contenuti in Stone (1979); cfr. anche A. D. Smith (1981a, cap. 2).21 Per le comunità oggetto di diaspore vedi Armstrong (1976).

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storie narrate - e largamente credute — su un passato eroico che soddisfa­no alcune esigenze collettive presenti o future. L’etnostoria, o il mithistoire etnico, rappresentano di volta in volta un amalgama di verità e idealizza­zioni storiche selettive, con vari livelli di miti politici ed eventi documen­tati, elementi romanzati più o meno accentuati, eroismo e singolarità; l’o­biettivo è presentare un ritratto commovente ed emozionalmente profon­do della storia della comunità, costruito e osservato dal punto di vista delle successive generazioni dei membri della comunità stessa22.

L’etnostoria è una particolarità rintracciabile nella maggior parte delle comunità culturali di tutte le epoche, mentre una storia imparziale e acca­demica resta un fenomeno ristretto e peculiare solo a poche civiltà e società. I poemi omerici e la Bibbia sono fra gli esempi più familiari della tradizione occidentale della scrittura etnostorica: l’epica e la cronaca, del resto, hanno sempre costituito le principali forme di etnostoria nelle età premoderne. Questo tipo di storia didattica presenta ulteriori caratteristi­che: l’enfasi sugli aspetti eroici e nobili; la fede negli esempi forniti dalla virtù; la cronaca delle origini e delle prime peregrinazioni della comunità, e forse anche della liberazione dall’oppressione e dai tentativi di soffoca­mento della sua identità; una descrizione della fondazione dello stato; e soprattutto, un mito su un’età aurea di guerrieri, santi e saggi, che forni­sce un modello interno per tutta la comunità, un exemplum virtutis per susseguenti emulazioni e uno stimolo e un punto di riferimento per la rigenerazione etnica. Gli antichi Greci potevano guardare all’Atene della classicità o alla Bisanzio di Giustiniano, i Romani alla prima epoca repub­blicana di Cincinnato e Catone, gli Ebrei ai regni di Davide e Salomoneo all’era dei Patriarchi, gli Arabi al periodo dei primi Compagni del Profeta, i Persiani a quello sassanide, gli Indiani a quello vedico, i Cinesi all’epoca classica di Confucio23.

Queste etnostorie non si trovano egualmente distribuite fra tutte le popolazioni presenti al mondo. Al contrario, alcune comunità ne possie­dono di riccamente e pienamente documentate e ne sono quindi ben for­nite, mentre altre sono prive di un passato etnico e fruiscono di poche testimonianze sulle vicende e le attività dei loro antenati. Nell’insieme, le etnie maggiori sono riuscite, principalmente per mezzo del monopolio politico, a conservare e preservare il proprio retaggio etnico, e in partico­

22 Sul mito politico vedi Tudor (1972); per lo studio del mito in generale vedi Kirk (1973). I miti politici descritti, o mithomoteurs, sono centrali nell’analisi dell’identità etnica dell’Islam e della Cristianità medievali condotta da Armstrong (1982). Per una critica radicale del mito e dell’etnostoria vedi l’introduzione in Tonkin, McDonald e Chapman (1989).23 Per alcuni esempi vedi A. D. Smith (1984).

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lare la loro etnostoria. Esse erano infatti in possesso di resoconti comple­ti, di ricordi ricchi e diversi, di codici di comunicazione ben sviluppati, di un sistema istituzionalizzato di trasmissione delle memorie e di una clas­se specializzata nel creare, tutelare e tramandare queste ultime (usual­mente preti e copisti, ma anche bardi, profeti e artisti). Molte delle etnie più piccole, periferiche e demotiche, d’altra parte, prive degli strumenti per la propagazione politica e di supporti istituzionalizzati, e talvolta mancanti di una classe specializzata e di codici di comunicazione progre­diti, non sono state capaci di trasmettere la maggior parte delle loro etno- storie, se non per il corso di qualche generazione. I loro ricordi sono tenui, gli eroi nebulosi, le tradizioni, se non irretite da quelle di altri e più potenti vicini, frammentate e scarsamente documentate24.

A ciò va aggiunta una considerazione: altre etnie, a causa dei loro alter­nativi ed efficaci e sistemi di comunicazione - usualmente tramite rap­presentanti della propria cultura o religione itineranti o decentralizzati —, sono comunque riuscite a mantenere e tramandare le loro eredità e le loro etnostorie di generazione in generazione: si pensi a popoli vittime di dia­spore come gli Ebrei e gli Armeni, ma anche a etnie stabili ma oppresse come gli Irlandesi, i Baschi, i Curdi e i Sikh25.Riappropriarsi della propria culturaLa difforme diffusione dell’etnostoria ha esercitato una notevole influen­za sullo sviluppo della mobilitazione delle masse condotta dal nazionali­smo, un fenomeno che prosegue per la sua strada anche nella nostra era della modernità avanzata. Si può distinguere un certo numero di fasi cul­turali sovrapposte del processo attraverso il quale le etnie verticali, o demotiche, si trasformano in nazioni etniche. In principio, esili nuclei di intellettuali indigeni, esposti alle culture di stati più avanzati e sperimen­tanti una crisi nei confronti dell’autorità legittima, si accendono di fron­te al desiderio di riscoprire il passato etnico della propria comunità, cominciando a realizzare la misura o la mancanza dell’ignoranza di que­sta storia e ad avviare un confronto con ciò che conoscono dei miti, delle tradizioni e delle memorie comuni di altre comunità. Questa fase può essere denominata il “primo stadio della riappropriazione storica”. I lin­guisti, gli scrittori e gli storici cercano di riscoprire il passato della comu­nità e di elaborare, codificare, ordinare e ottimizzare in una singola e coe-

24 Gli Slovacchi e gli Ucraini forniscono due esempi del recupero di un passato etnico dimenticato e scarsamente documentato da parte di comunità messe in ombra da vici­ni più avanzati culturalmente; su questi casi vedi gli acuti studi saggi di Paul (1985) e Saunders (1993).25 Vedi in proposito Armstrong (1982, cap. 7) e A. D. Smith (1986a, cap. 5).

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rente etnostoria i vari miti, tradizioni e ricordi collettivi che sono stati tra­smessi a frammenti di generazione in generazione. Nel momento in cui ritrovano un’etnostoria ben consolidata, con una sua forma canonica, essi selezionano e utilizzano gli elementi che a loro giudizio possono soddi­sfare dei precisi scopi politici.

Con quest’operazione, in primis gli intellettuali, poi i più ampi strati dell’intellighenzia e dei ceti professionali e infine le altre classi vengono restituiti a costumi e usanze locali, linguaggi e simboli, miti e memorie reali o presunti, molti dei quali ancora esistenti in qualche forma tra le campagne o in alcune zone dove si ritiene si siano conservate delle tradi­zioni autentiche. Un esempio in proposito è stato il pellegrinaggio in Bretagna di un certo numero di artisti e intellettuali francesi alla scoper­ta di una cultura antica, religiosa e quindi “autentica”. Lo stesso si è veri­ficato in Finlandia per la Carelia, regione dove Elias Lönnrot, Akseli Gallen-Kalela e altri artisti e intellettuali si rifugiarono per riscoprire un passato autentico ed eroico, considerato l’ultimo residuo dell’antica storia finlandese, incarnato in quelle ballate contadine locali che Lönnrot poi raccolse nella sua epopea nazionale, il Kalevala16,

Il recupero di un’etnostoria precedente, inoltre, costituisce il punto di partenza per un successivo processo di mobilitazione vernacolare. Per qualsiasi aspirazione nazionalista che voglia essere soddisfatta, è infatti essenziale che la comunità prescelta sia provvista di un passato adeguato e autentico. E per questa ragione che il concetto di autenticità è così importante: esso attesta l’originalità e la natura autogenerante di una determinata cultura-comunità. Sin da quando Anthony Ashley Cooper, 3° conte di Shaftesbury, divulgò il concetto di un “genio della nazione” e Herder si vece portavoce dell’idea di un genuino e originale “spirito della nazione”, l’autenticità è divenuta la prova del nove per ogni rivendicazio­ne culturale, e dunque politica. Sostenere che un’etnia è priva di una sua autentica cultura ed etnostoria significa negare il suo diritto al riconosci­mento nazionale27.

L’autenticità e la dignità sono comunque le caratteristiche di ogni aspetto della cultura etnica, non solo della sua etnostoria. Di tali qua­lità, la più importante e conosciuta è la lingua, in quanto essa distingue

26 Sul pellegrinaggio artistico in Bretagna a fine Ottocento, condotto alla ricerca di una religiosità etnica pura e primitiva, vedi Royal Academy o f Arts (1979; in partico­lare la figura di Emile Bernard). La compilazione della Kalevala da parte di Lönnrot nel 1835 è documentata in modo esaustivo in Branch (1985, “Introduction”) e discus­sa in Honko (1985).27 Sulle idee di Herder vedi Berlin (1976); sull’influenza dell’opera di Lord Shaftesbury vedi Macmillan (1986).

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con chiarezza chi la usa da coloro che ne sono estranei, richiamando immediatamente un senso di intimità fra gli individui che la parlano. Il ruolo preminente giocato da filologi, grammatici e lessicografi in così numerosi movimenti nazionalisti sottolinea l’importanza tanto spesso legata alla lingua, che risulta un autentico codice simbolico abbraccian- te le peculiari vicende intime di un’etnia. Sebbene la lingua non sia l’u­nico elemento significativo della nazione, come ha proclamato un gran­de numero di nazionalisti dell’Europa centrale e orientale e come l’e­sperienza di molti nazionalismi asiatici e africani ha invece contraddet­to, essa rimane una vitale sfera simbolica di autenticazione e mobilita­zione di una popolazione28.

Il processo di mobilitazione vernacolare si estende poi ad altri settori: le arti, come musica, danza, cinema, pittura, scultura e architettura; l’ap­propriazione nazionale del paesaggio, dei monumenti storici e dei musei; la costruzione di una mitologia e di un simbolismo politico della nazio­ne. Le arti visive e la musica hanno goduto di un particolare rilievo nella cristallizzazione di un immaginario nazionale autentico e nella sua diffu­sione a un pubblico più vasto. L’accoglienza popolare concessa ad alcuni dipinti etnici e “nazionalisti” di David e Delacroix, Mihàly Muncasi e Akseli Gallen-Kallela, Vasilìj Surikov e Diego Rivera, ai film etnostorici di Ejzenätein e Kurosawa, alle opere di Verdi, Wagner e Musorgkij, alle sinfonie e ai poemi sinfonici di Elgar, Dvorak e Cajkovskij - o di Bartók, Janàdek e Sibelius nel Novecento - rivela il crescente coinvolgimento di più ampi gruppi sociali nella cultura etnica vernacolare ripresa e sostenu­ta dai ceti intellettuali indigeni29.

La “vernacolarizzazione” del simbolismo politico è particolarmente importante per dimostrare l’insostituibilità dei valori della cultura etnica in un’economia morale di tipo globale. I nazionalisti elevano determina­ti eventi ed eroi, e determinati simboli, a icone nazionali: si tratti della figura di Cesare o di re Alfredo il Grande, di un’epoca come l’età aurea di Atene o i regni di Davide e Salomone, di monumenti come il Grande Zimbabwe o l’Angkor Wat, di una tradizione rinnovatrice come l’adora­

28 Per una valutazione critica dei rapporti fra lingua e nazionalismo vedi Edwards (1985, cap. 2); il ruolo di filologi, grammatici e lessicografi nella mobilitazione delle masse condotta dai nazionalismi europei è messo in rilievo da Anderson (1983, cap.5).29 Sulla musica e il nazionalismo romantico vedi Raynor (1976); sui temi nazionali nella musica di Sibelius ed Elgar vedi rispettivamente Layton (1985) e Crum p (1986). Sul nazionalismo e la pittura a carattere storico in Europa vedi Rosenblum (1967, cap. 2) e, più in generale, A. D. Smith (1993a). La pittura moderna in America Latina e le immagini dell’identità nazionale sono analizzate in Ades (1989, capp. 7 e 9).

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zione dell’Imperatore nel Giappone Meiji. Questi atti possono anche coinvolgere una rivoluzione, una mitologia nazionale o una rifondazione, come la celebrazione del Giorno della Bastiglia in Francia, del Quattro di Luglio negli Stati Uniti oppure del “Grande Trek” e della battaglia del Blood River festeggiate ogni anno dagli Afrikaner. Tutti questi tentativi traggono incitamento dal bisogno di dimostrare il possesso di un passato etnico e di un’eredità culturale unici, autentici e appropriati, capaci di reggere il confronto con quelli delle altre nazioni. Il fatto che gli intellet­tuali nazionalisti devono così spesso adoperarsi per fornire la propria comunità di tali valori culturali testimonia la diffusione estremamente difforme di questi ultimi, e allo stesso tempo l’ardente desiderio di tanti gruppi di compensare le carenze che essi ritengono affliggano la propria storia e cultura etnica30.Politicizzazione e purificazione culturaleLa fase successiva della rigenerazione nazionale passa attraverso l’arena politica e coinvolge due distinti processi: la politicizzazione della cultura e la purificazione della comunità.

Come descritto in precedenza, alcuni simboli, eventi, personaggi e monumenti del passato vengono rivestiti di nuovi significati nazionali. Mosè, ad esempio, era tradizionalmente per gli Ebrei il “più grande fra i profeti”, il primo servitore di Dio. Per i sionisti, tuttavia, divenne un eroe nazionale, il liberatore del suo popolo, un leader e un legislatore nazionale. Allo stesso modo, nella tradizione islamica, Maometto è il più grande messaggero di Allah e il suo messaggio è la rivelazione finale; i nazionalisti arabi, invece, lo hanno trasformato principalmente in un leader nazionale arabo, nel fondatore della loro nazione e nella maggio­re espressione del genio nazionale del loro popolo. Questa forma di “nazionalismo retrospettivo” può politicizzare intere epoche passate, e nello stesso modo mutare i loro contenuti: l’era vedica delle città-stato classiche diviene così l’età aurea dell’India ariana, con Arjuna come pro­totipo dell’eroe senza paura, mentre l’epoca pagana di Cuchulain, Finn

30 La celebrazione da parte degli Afrikaner della Convenzione e della battaglia del Blood River è oggetto di un particolare dibattito, sia a livello accademico che poli­tico. L’impatto delle cerimonie del giuramento e del rituale è valutato in Breully (1982, cap. 16), che giudica cerimoniali e simbolismi come la componente più forte del fenomeno nazionalista. La veridicità storica dei miti dei Voortrekkers e della Convenzione è esaminata minuziosamente da Thom pson (1985), il quale giunge alla conclusione che le manifestazioni legate alla celebrazione di questi eventi sono perlopiù invenzioni di Paul Kruger risalenti ai prim i anni O ttanta del XIX secolo.

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MacCool e dei re di Tara nell’Irlanda del IV secolo viene investita di una grandezza eroica e si trasforma nel periodo più splendente della gloria nazionale irlandese31.

Così, non solo il passato, ma anche la cultura popolare del presente pos­sono assumere sembianze politiche. Le usanze e le istituzioni contadine dei Polacchi, degli Svizzeri o degli Ungheresi sono divenute i modelli perlo stile di vita e la rigenerazione nazionale dei logori ceti urbani cosmo­politi. Questa forma di populismo etnico, con la sua coltura delle usanze, le tradizioni, i mestieri e le forme di svago proprie delle campagne, si è fatta quasi inseparabile dal perseguimento degli ideali nazionali. In que­sto è stata largamente assistita dal movimento del romanticismo politico, che ha mobilitato l’intellighenzia e altri strati sociali fin dall’inizio del XIX secolo. Per i romantici, le arti, la letteratura, l’architettura, i mestieri, le canzoni, le danze, l’abbigliamento e i cibi erano tutti fattori imbevuti dello spirito creativo e ardente del popolo e dimostravano la genialità innata di quest’ultimo. Solamente ricongiungendo il popolo tramite la sua cultura vernacolare le classi urbane moderne avrebbero potuto “rea­lizzare” se stesse nella loro autentica e incorrotta essenza32.

La politicizzazione della cultura indigena, inoltre, andava spesso di pari passo con la purificazione della comunità. Questo significava in primo luogo il rigetto di tutti i tratti culturali “estranei” - parole, usanze, modi di vestire, pietanze, stili artistici — e la riappropriazione dei caratteri loca­li, al fine di rinnovare la cultura autoctona. Ma ciò denotava anche la purificazione del popolo stesso, attraverso la forgiatura di un “uomo nuovo” e di una “donna nuova” ispirati a un modello puro rintracciabile solo in un passato idealizzato di eroico splendore. Gli scrittori völkisch dell’Ottocento, quindi, proponevano l’immagine dell’antico pioniere ger­manico: un colonizzatore di terre vergini, che conduceva una vita sem­plice e genuina in armonia con la natura. Allo stesso modo, gli scrittori slavofili russi ottocenteschi idealizzavano la vecchia Russia senza classi precedente a Pietro il Grande e la sua unione sacra di Chiesa, terra e popolo retta dagli zar redentori33.

31 Riguardo all’eroicizzazione del passato etnico, specialmente in India, vedi Kedourie (1971, “Introduction”); per lo stesso processo in ambito arabo vedi Sharabi (1970) e Kedourie (1992, cap. 6). L’utilizzo dell’“età aurea” dell’Ulster da parte dei nazionalisti irlandesi è analizzato da Lyons (1979) e Hutchinson (1987, capp. 3 e 4).32 Sulle variazioni nazionali del romanticismo vedi Porter e Teich (1988). L’interpretazione in base alla quale il nazionalismo - la più romantica e soggettivista delle ideologie - è tuttavia spiegabile in termini di sviluppo capitalistico irregolare vedi Nairm (1977, capp. 2 e 9).33 Questi scrittori völkisch e la loro glorificazione del suolo sono esaminati da Mosse (1964); il nazionalismo conservatore-religioso degli scrittori slavofili è analizzato in profondità daThaden (1964).

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Purificare una comunità richiedeva l’indurimento degli atteggiamenti con cui rivolgersi agli elementi stranieri e alle minoranze etniche presen­ti nel paese. Dove in precedenza minoranze e forestieri erano tollerati come gruppi o enclave commerciali svolgenti funzioni mediatrici, ora gli stessi venivano considerati non dei semplici rivali economici, bensì ele­menti culturali indigesti o - ancora peggio - i soggetti che erodevano in maniera insidiosa la purezza biologica e la fibra morale della nazione. Il desiderio di preservare intatta la straordinaria eredità culturale del popo­lo si trasformò in breve in uno stato d’ansia di fronte a qualcosa che minacciava il destino della comunità, nel senso di un incombente decli­no della nazione, e da qui, infine, in un odio fanatico verso tutto quanto fosse straniero. A sua volta, ciò portava alla stigmatizzazione di quelle minoranze etniche che per tanto tempo, benché talvolta faticosamente, avevano vissuto fianco a fianco tra loro o insieme alle maggioranze e che ora venivano considerate un pericolo imminente per il carattere e la stes­sa esistenza della nazione: un pericolo che, dove possibile, andava rimos­so chirurgicamente.

In questo modo, la volontà di creare una comunità morale omogenea, degna dei suoi eroici antenati e rigenerata attraverso la politicizzazione della sua cultura popolare, va a richiedere la purificazione della sua citta­dinanza e la rigorosa esclusione — o distruzione — di ogni componente straniera. Le vicende della Legione dell’Arcangelo Michele di Corneliu Codreanu sono un valido esempio di questa progressione. Partita come movimento intriso di populismo romantico-nazionalista contrario ai valori urbani e al capitalismo borghese, la Legione predicava la difesa della cultura indigena e delle campagne rumene dalle devastazioni portate dal cosmopolitismo delle città. Ben presto, però, essa degenerò in un vigoro­so e brutale protofascismo, che mirava alla purificazione del popolo rumeno mediante un’attiva e violenta crociata diretta contro gli Ebrei e gli stranieri34.

Anche oggi, in Russia e in Europa orientale si può essere testimoni del­l’incipiente desiderio di purificare delle comunità appena risorte. Piccoli ma chiassosi movimenti per la rigenerazione nazionale chiedono con urgenza per le nazioni dell’Est, ora libere, una purificazione radicale da condursi attraverso l’esclusione degli elementi stranieri (e ancora una volta, sulla scia del nazionalismo romantico-conservatore, l’antisemitismo segue tenace). Movimenti come Pamjat’ (Memoria) in Russia o Vatra Romaneasca (Culla rumena) in Romania adoperano metafore etnoreli- giose — la Madre Russia; la Russia come un sacro monastero; gli slavi come popolo eletto; la casa e la patria rumene - per accendere nei loro

34 Vedi l’eccellente analisi del movimento di Codreanu contenuta in E. Weber ( 1966).

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seguaci l’ideale di una comunità purificata dalla contaminazione portata dall’elemento straniero cosmopolita, specialmente dagli Ebrei: finché questi non saranno rimossi, la Russia (o la Romania) non potranno riprendere nelle loro mani il proprio destino e la propria missione come autentiche comunità elette del mondo slavo-ortodosso35.

In forme più mitigate, il richiamo della cultura vernacolare, la politi­cizzazione di quest’ultima e l’aspirazione a purificare la comunità hanno lasciato la loro impronta anche nei movimenti per l’autonomia etnica sorti in Occidente a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Pochi di questi gruppi, comunque, hanno tratto le piene e logiche conseguenze dei propri ideali nel modo in cui lo hanno invece fatto i loro omologhi dell’Europa orientale prima della seconda guerra mondiale o anche di recente, sebbene lo stesso desiderio di ringiovanire una cultura e una comunità abbandonate pervada i movimenti scozzesi, gallesi, bretoni, baschi, catalani e occitani36.

Fra tutti questi gruppi è presente la stessa logica della mobilitazione popolare, della politicizzazione culturale e della purificazione comune. Con la musica folk e l’arte, il movimento bretone cerca di ricreare un revival culturale che possa opporsi all’influenza dilagante della cultura francese; la Welsh Language Society ha provato a rinverdire la lingua gal­lese e a limitare la dominante presenza della cultura e del popolo ingle­se; i Baschi hanno combattuto per escludere gli elementi stranieri e le intromissioni castigliane adoperando dei concetti razziali. In ognuno di questi casi, sebbene a diversi livelli, le preoccupazioni si sono concentra­te su una lingua morente, sui timori del declino e della mescolanza etni­ca e culturale, sull’ansia che fronteggia la perdita degli stili di vita tradi­zionali e, talvolta, sul violento desiderio di mobilitare il popolo minuto contro il potere etnico dominante, che siano i Francesi, gli Inglesi o i Castigliani37.Il retroterra sociale del neonazionalismoSi può obiettare che l’attuale etnonazionalismo - in particolare i movi­menti occidentali — non concordi realmente con lo schema culturale da me qui esposto, e che di conseguenza sarebbe meglio cercare le radici e i

35 Sul recente nazionalismo russo vedi Dunlop (1985) e Pospielovsky (1989).36 Su questi movimenti vedi Williams (1982a); per un’interpretazione generale del neonazionalimo in Europa occidentale vedi Allardt (1979) e A. D. Smith (1981, capp.I e 9).37 II movimento bretone è descritto in Berger (1977) e Beer (1977). La Welsh Language Society e il nazionalismo gallese sono trattati in Williams (1977 e 1982b); sui Baschi vedi Medhurst (1982).

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tratti distintivi di questo fenomeno nelle tendenze economiche e sociali più recenti.

Le ragioni teoriche alla base della mia parziale omissione degli aspetti economici connessi al nazionalismo etnico dovrebbero essere chiare. Le interpretazioni “moderniste” generalmente enfatizzano le cause socioeco­nomiche, indicando nazioni e nazionalismo come prodotti dei cambia­menti su larga scala associati all’ascesa del capitalismo. La mia analisi si dissocia da questa visione “modernista”, sostenendo invece come nazioni e nazionalismi moderni poggino su legami etnici preesistenti e sulla cor­relata mobilitazione politica di questi e siano quindi composti da tale retaggio: un punto di vista che lascia inevitabilmente uno spazio minore agli elementi meramente economici. Sarebbe assurdo affermare che fatto­ri socioeconomici come il capitalismo, l’urbanizzazione e l’industrialismo siano irrilevanti nella nascita e nello sviluppo del nazionalismo, oppure che essi non abbiano avuto un ruolo significativo nel sorgere dei conflit­ti etnici e nell’atteggiamento verso le minoranze etniche. L’assunto che le lotte etniche e il nazionalismo vadano attribuiti in prevalenza a cause eco­nomiche sembra però ugualmente parziale. Accanto all’omissione della cruciale sfera della politica, una simile visione vorrebbe indicare che i recenti etnonazionalismi possono comunque essere largamente spiegati evitando ogni riferimento alle componenti sociali e storico-culturali del­l’identificazione e della categorizzazione etnica: un punto di vista che è allo stesso tempo intrinsecamente non plausibile e poco convincente sotto l’aspetto empirico. Nel caso dei nuovi movimenti etnonazionalisti occidentali, i fattori socioeconomici possono essere d’aiuto nello spiegare la composizione sociale degli stessi, ma d’altro canto ci dicono poco sul loro carattere, la loro forma e la loro intensità, oppure sulle ragioni in base alle quali tali movimenti sono sorti solo tra determinate etnie periferiche europee, e non in altre. Gli aspetti economici non ci aiutano quindi a risolvere il problema del perché sono i Baschi e i Bretoni, piuttosto che i Siciliani o i Frisoni, a inseguire l’autonomia etnica.

Possiamo spingere un po’ oltre queste considerazioni prendendo in esame le note tesi sui mercati del lavoro etnico. Queste sostengono che i più recenti conflitti etnici sono alla fine riconducibili agli antagonismi sociali che nascono dalla competizione per i mercati del lavoro in atto all’interno della società capitalista. I capitalisti, infatti, tentano di divide­re direttamente la forza lavoro sulla linea delle categorie etniche attraver­so dei salari disuguali, mentre gli stessi lavoratori sfruttati cercano da sé di migliorare gli stipendi, la sicurezza e le condizioni d’impiego con politi­che basate sulla discriminazione etnica e l’accaparramento dei posti di lavoro. Similmente, i colletti bianchi e gli altri ceti medi possono cercare

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di restringere agli individui etnicamente affini le opportunità di educa­zione e impiego in un mercato concorrenziale38.

In questa sede è sufficiente dire che tali argomentazioni traggono il loro unico valore dal fatto di accettare implicitamente sia la realtà sia il senti­mento comune della categorizzazione e dell’identificazione etnica. Non avrebbe senso tentare di dividere lungo linee etniche una forza lavoro le cui caratteristiche culturali erano omogenee (e in tale modo erano anche percepite). Inoltre, si dimostrerebbe impossibile riservare i posti di lavori a persone della stessa etnia se il senso della differenza e dell’identità etni­ca fosse assente in una specifica popolazione. Sotto un certo aspetto, que­st’ultima affermazione è una verità palese, ma da un altro punto di vista ci indica la natura e l’indipendenza delle variabili etniche in qualsiasi assetto sociale: l’importanza dei miti di una stirpe comune, di una memo­ria storica e di una cultura condivisa, dell’attaccamento alla terra e al popolo. Sono proprio queste caratteristiche a costituire la pervasiva ere­dità delle etnie premoderne nel mondo moderno.

La mia tesi non vuole indicare che i fattori economici hanno solo un piccolo peso nella genesi e nello sviluppo dei neonazionalismi etnici: chia­ramente, un siffatto ruolo esiste, ma assume semplicemente la forma di catalizzatore. Le tendenze o le crisi economiche spesso spiegano l’insor­genza temporale dell’etnonazionalismo, ma, come Walker Connor ha dimostrato in maniera convincente, i nazionalismi etnici possono emer­gere in ogni sorta di cornice economica (avanzata, arretrata, in crescita, in declino, stagnante). Il nazionalismo etnico, quindi, non ha generalmente legami con l’andamento di un’economia39.

Sono invece gli effetti a lungo termine del corso economico sulla crea­zione delle nazioni e dei nazionalismi che dovrebbero essere rapportati alla formazione delle classi e al ruolo più rilevante assunto da queste ultime. Ciò vale in eguale misura sia per le società capitalistiche che per quelle dove è presente un socialismo di stato: nazioni e nazionalismi etnici, infat­ti, assumono una posizione di spicco in entrambi questi sistemi economi­ci. Le variabili economiche forniscono il retroterra per la formazione delle classi e degli strati sociali che hanno solitamente assunto la guida dei movi­menti etnonazionalisti nei due citati sistemi economici. Si tratta in parti­colare dell’essenziale intellighenzia secolare, dalla quale tali movimenti hanno preso molto del loro impeto: le sue necessità, preoccupazioni e aspi­

38 Per le teorie sul ruolo mediatore delle minoranze vedi Bonacich (1973) e il som­mario di tali interpretazioni contenuto in Zenner (1991, cap. 1). Un approccio criti­co si può ritrovare in Horowitz (1985, cap. 2).39 Connor (1984b); per il supporto dell’evidenza storica vedi A. D. Smith (1971, cap. 6).

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razioni hanno sempre avuto la tendenza a dettare gli obiettivi e le strategie degli etnonazionalismi, comunità dopo comunità. Sebbene l’importanza di questo ceto sociale sia variata di società in società, in ogni parte del mondo esso è sempre stato l’avanguardia dei movimenti nazionalisti40.

Quest’ultimo fatto è particolarmente vero per quanto riguarda i recen­ti nazionalismi etnici sorti in Occidente e nell’ex mondo socialista. Sia in Nord America che in Europa, negli anni Sessanta e Settanta del XX seco­lo una nuova intellighenzia, più tecnica rispetto al passato e sostenuta da imprenditori e commercianti, ha guidato la protesta contro lo stato nazio­nale centralizzato di stampo occidentale, seguita poi, negli anni Ottanta e Novanta, dalla sua controparte dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica. Esaminiamo prima l’Occidente: in Quebec, ad esempio, i ceti professionali di ogni genere - avvocati, medici, giornalisti, insegnanti, ingegneri, farmacisti, tecnici e figure simili — mandarono avanti con osti­nazione quella che in seguito prese il nome di “rivoluzione silenziosa” dei primi anni Sessanta. Questa classe strappò il potere nella provincia dalle mani dei leader tradizionali di una comunità agraria e dominata dalla Chiesa, cominciando a rivendicare il riconoscimento della lingua france­se in tutti i settori della vita pubblica e la sua parificazione con l’inglese. Il ritorno alle espressioni locali in una società moderna fu accompagnato da un movimento per l’innalzamento dei francofoni alla posizione di clas­se media e, attraverso il Parti québécois, per la conquista del potere poli­tico nella provincia. Da qui, il passo verso la domanda della piena auto­nomia etnica — e alla fine della secessione — era breve41.

Anche nel Regno Unito, i movimenti per una maggiore autonomia etnica sono stati guidati da un’intellighenzia in ascesa, particolarmente in Scozia. Qui, infatti, il Partito nazionale scozzese, sostenuto in prevalenza dai ceti professionali e dai piccoli imprenditori, ha cominciato a battersi per una piena indipendenza almeno a partire dagli anni Sessanta. Tuttavia, sebbene a prima vista la situazione economica apparisse favore­vole grazie alla scoperta dei giacimenti di petrolio del Mare del Nord, la maggioranza degli Scozzesi non ha risposto all’appello, specialmente in

40 Sulla prevalenza dei ceti intellettuali e professionali o dell’intellighenzia all’interno dei movimenti nazionalisti vedi Kedourie (1971, “Introduction”), Gella (1976), A. D. Smith (1981a, capp. 5 e 6), Anderson (1983). Una valutazione critica si trova in Breully (1982, cap. 15). Hroch ha proposto un’interpretazione sociale a tre fasi dei nazionalismi dei popoli senza stato dell’Europa orientale, nella quale è accordato un ruolo preminente agli intellettuali e all’intellighenzia nelle fasi A e B.41 Gouldner (1979) traccia una divisione tra le due ali dell’intellighenzia, quella uma­nistica e quella tecnica, e descrive la transizione dalla prima alla seconda. Per alcune prove a evidente sostegno della prevalenza dell’intellighenzia nel caso del Quebec vedi Pinard e Hamilton (1984).

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occasione del voto per il decentramento del 1979, che andò ben al di sotto del 40 percento richiesto (in seguito, però, l’autonomia e il decen­tramento si sono nuovamente ripresentati sull’agenda politica). Queste vicende politiche non sembrano comunque essere in relazione con la forte e persistente coscienza di un’identità nazionale e culturale scozzese e con la diffusa aspirazione a una maggiore autonomia. Mentre la maggioranza degli Scozzesi dà l’impressione di volere una maggiore partecipazione locale, il processo di mobilitazione politica è stato frenato dalla lunga tra­dizione del coinvolgimento scozzese nel più ampio quadro del governo e della società inglesi e dalla tenace tenuta dei laburisti nella Scozia stessa. La flessibilità dimostrata dello stato britannico nel corso dei decenni è stata un altro fattore di limitazione delle richieste separatiste, almeno sino a tempi recenti, come del resto l’abilità della Scozia nel far sentire in modo adeguato la sua voce politica sia nel governo e nella legislazione locale sia attraverso istituzioni nazionali come lo Scottish Office42.

In Galles il processo di mobilitazione vernacolare ha invece avuto minore successo. Nonostante gli sforzi degli intellettuali della Welsh Language Society, la lingua gallese è rimasta sostanzialmente confinata nel Nord rurale del paese; il Sud industrializzato, impregnato da forti tradi­zioni legate alla classe operaia, ha optato per un’identità gallese contrasse­gnata dalla lingua inglese. Sebbene una distinta cultura gallese sia comun­que mantenuta - come dimostrato dalla preferenza delle cappelle rispet­to alle chiese, dalla tradizione poetica, dai cori e dallo sport, dalla cura dedicata alle memorie storiche collettive dell’Eisteddfodau e del Gorsedd—, il sostegno al Partito gallese (Plaid Cymry) è debole, mentre resta marca­ta l’influenza dello stato britannico e della società inglese. L’impatto del­l’intellighenzia nazionalista gallese è stato quindi limitato, nonostante almeno due delle università della regione (Bangor e Aberystwyth) siano conformi al ben noto schema di fervore nazionalista riscontrabile fra i quadri accademici e gli studenti43.

Anche in Catalogna il ruolo della lingua e degli intellettuali catalani è stato penetrante. Questo processo va fatto risalire alla Renaixenca lettera­ria di metà Ottocento (vedi il cap. 2) e al nazionalismo politico e cultu­rale di figure influenti come Prat de la Riba di inizio Novecento. La repressione franchista della lingua e della cultura catalana ebbe l’effetto di allargare e accrescere l’influenza di entrambe, dal momento che la resi­

42 Sul retroterra del nazionalismo scozzese vedi Hanham (1969) e Nairn (1977, cap. 2); per l’ascesa del Partito nazionale scozzese vedi Webb (1977), Brand (1978) e Maclver (1982).43 Lo sviluppo del nazionalismo gallese è trattato in K. Morgan (1982); sul revival delle tradizioni culturali gallesi, fra cui YEisteddfodau, vedi P. Morgan (1983).

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stenza si incentrò naturalmente sulla loro protezione all’interno della sfera dei rapporti privati. A partire dalla transizione alla democrazia si è assisti­to a un’energica rinascita della cultura catalana e delle pubblicazioni in questa lingua; a ciò si sono affiancate crescenti richieste per la massima autonomia, molte delle quali sono state soddisfatte attraverso il ripristino di istituzioni di autogoverno a carattere etnoregionale44.

Nei casi descritti, i moti etnici dell’intellighenzia secolare locale per una maggiore autonomia sono stati frenati sia dalla presenza storica di una più estesa identità politica sia dalla possibilità di una risoluzione democratica delle rimostranze etniche. Da una parte, l’incorporazione a lungo termine delle etnie periferiche e il potere d’intervento dello stato centrale dell’etnia egemone hanno creato un elemento aggiuntivo di lealtà e identità politica rispetto a quello etnonazionale originario; i Bretoni, gli Scozzesi e i Catalani possono sentirsi — e in effetti si sento­no - anche Francesi, Inglesi e Spagnoli (specialmente gli emarginati o gli emigrati all’estero). A livello collettivo, lo stato nazionale storicamente centrale è stato capace di forgiare una propria identità politica e nazio­nale imperniata sul territorio, la legge, la cittadinanza e la cultura politi­ca, usualmente nel corso di vari secoli (persino quando all’inizio que­st’obiettivo non era voluto o solo debolmente sentito). Da un’altra parte, poi, lo sviluppo delle pratiche e delle istituzioni democratiche ha aiuta­to a vari livelli a mitigare il senso d’alienazione presente nelle etnie peri­feriche e nelle loro classi intellettuali. Queste ultime hanno potuto pro­curarsi dei canali attraverso i quali le proprie rimostranze collettive e i propri interessi potessero essere compensati e accomodati. Sebbene nes­suno stato occidentale multietnico possa dire di aver “risolto” i suoi pro­blemi etnici di base, le formazioni statali con una lunga tradizione democratica sono riuscite a moderare la protesta etnica, realizzare una mitologia e un simbolismo politico a carattere aggregatore e formulare un sistema di valori comuni e di memorie politiche validi per tutte le etnie costituenti il paese. Questi stati hanno potuto disporre della ric­chezza e del potere politico — spesso imperiale e coloniale - per garanti­re delle posizioni di spicco agli ambiziosi e istruiti membri delle etnie periferiche: esempi che balzano subito agli occhi sono i Corsi in Francia e gli Scozzesi nell’Impero britannico45.

44 Per una dettagliata analisi della crescita e dell’attuale revival del nazionalismo cata­lano vedi Conversi (1994).45 La duplice lealtà - verso lo stato nazionale territoriale e la nazione etnica — pre­sente in Occidente e le condizioni che la hanno resa possibile sono analizzate da A. D. Smith (1986b) e Birch (1989). Per uno studio storico dello sviluppo di un pecu­liare nazionalismo britannico nel xvill secolo vedi Colley (1992).

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Intellettuali, miti etnici e religioneMentre in Occidente l’intellighenzia secolare vanta un ruolo importante all’interno del neonazionalismo etnico popolare, il peso di questo ceto in Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica è stato recentemente decisivo. Per quanto concerne queste regioni, la leadership assunta da uno strato anche ridotto di intellettuali “puri” o “disimpegnati” è largamente ricono­sciuta. Questo ci riporta alla nota distinzione formulata da Hans Kohn, che aveva infatti sostenuto come, al contrario dei nazionalismi “occidenta­li”, con il loro carattere civile e razionale e la loro base sociale borghese, i nazionalismi dell’Est (inteso come Est del Reno) dovessero il loro caratte­re spesso autoritario, mistico e “organico” a una leadership che, in assenza di una borghesia, era formata da un esiguo strato di intellettuali. Sicuramente una tale visione semplificava i problemi: gli intellettuali ave­vano avuto un peso cruciale nel nazionalismo inglese o in quello francese, che non si possono immaginare senza Rousseau e Michelet o Milton e Burke. A ogni modo, c’è uno sfondo di verità anche nel collegamento con epoche più vicine, in quanto l’economia dirigista, nello stile del comuni­Smo sovietico, lasciava libera l’area della disaffezione e dello scontento sociale e politico a un’intellighenzia dissidente, incoraggiata dalle oppres­sive politiche comuniste in Europa orientale e in URSS a legare le proprie apprensioni per i diritti umani alle rimostranze etniche e nazionali46.

Gli intellettuali di questa categoria “organica” hanno comunque gioca­to un ruolo significativo pure nel neonazionalismo occidentale. Hugh McDiarmid in Scozia, Saunders Lewis in Galles, Yann Fouere in Bretagna, Frederico Krutwig nei Paesi Baschi hanno preparato e articola­to la rinascita etnica delle rispettive comunità e proposto strategie per la sua realizzazione. All’Est, però, i ceti intellettuali e professionali sono stati ancora più rilevanti nella politica nazionale. Il ruolo degli intellettuali in movimenti popolari come la Primavera di Praga e la “rivoluzione di vel­luto” del 1989, il movimento croato dei primi anni Settanta o Solidarnos'c in Polonia è ben noto. Egualmente vitale si è dimostrato il contributo di questo ceto a Sajudis, il movimento nazionale lituano, e a Rukh, il movimento nazional-democratico ucraino; molti leader, fra cui il primo presidente della Lituania indipendente, erano difatti intellettua­li. L’intellighenzia è stata inoltre fondamentale per la crescita del nazio­nalismo populista russo, mentre, sempre in Russia, il ceto intellettuale ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo del nazionalismo dissidente ebrai­

46 Riguardo a questa distinzione vedi Kohn (1967, cap. 7); cfr. anche Plamenatz (1976). Vedi poi le critiche contenute in A. D. Smith (1971, cap. 8) e Hutchinson (1987, cap. 1). Sul declino dell'Unione Sovietica vedi G. E. Smith (1989).

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co dei refiisenikA1 dopo il 1967. In verità, uno dei più pressanti problemi affrontati dall'Unione Sovietica nella sua agonia riguardava la crescente richiesta, da parte dell’intellighenzia delle repubbliche e di varie etnie, di un maggiore potere politico: una domanda che non poteva essere soddi­sfatta all’interno delle strutture dello stato di allora e neppure conciliata con le rivendicazioni delle tante comunità di Russi stanziate nelle repub­bliche dove la maggioranza non apparteneva a quest’etnia48.

Con il dissolvimento dell’universalismo insito nel comuniSmo marxi­sta, prima in un nazionalcomunismo policentrico e quindi nel nazionali­smo etnico, i ceti intellettuali e professionali sono ritornati alle rispettive eredità e mitologie etniche, sperando così di realizzare la promessa mes­sianica di una trasformazione rivoluzionaria della società all’interno della propria comunità. Ma tale universalismo non è stato soddisfatto, in quan­to trasferito su un terreno arido e circoscritto, del tipo incontrato da Eduard Shevardnadze nella sua Georgia e da Leonid Kravcuk, comunista trasformatosi in nazionalista, in Ucraina. In altri casi, la resistenza al comuniSmo è stata alimentata da un nazionalismo da lungo tempo sop­presso. In Polonia, Solidarnosc ha mostrato dei collegamenti stretti sia con la Chiesa cattolica nazionale che con gli intellettuali nazionalisti, mentre anche i successivi governi del paese hanno posto l’interesse nazio­nale polacco al centro delle loro preoccupazioni e delle loro politiche49.

Nella Cecoslovacchia dei tardi anni Ottanta, Vaclav Havel e il suo Forum civico hanno fuso il loro impegno per i diritti umani con una riso­luta forma di solidarietà nazionale da contrapporre al regime di stile sovie­tico appoggiato dai Russi. In realtà, al disotto delle apparenze, le tensioni fra le più povere regioni cattoliche slovacche e la più avanzata e occiden­talizzata società ceca - un contrasto che aveva trovato una chiara espres­sione nei differenti regimi e condizioni sociali emersi dopo la seconda guerra mondiale - hanno inserito una forte vena di nazionalismo etnico nell’epilogo della cosiddetta rivoluzione di velluto, aprendo così la strada alla pacifica dissoluzione del paese. Non sarebbe dunque possibile descri­vere con disinvoltura il recente distacco sopravvenuto tra le tradizioni lin­guistiche, la storia e il retroterra culturale delle etnie ceca e slovacca e tra

4/ Questo termine indica gli Ebrei ai quali non era accordato il permesso di espatriare dall’Unione Sovietica [N.d.T.].48 Sulle nazionalità dell’URSS vedi in particolare G. E. Smith (1990) e Bremmer e Taras (1993). Sulla rinascita dei nazionalismi in Europa orientale vedi Ramet (1989), Vardys (1989) e Glenny (1990). Per una spiegazione del differente sviluppo dei nazionalismi in Europa orientale nei termini delle sue fasi evolutive vedi Gellner (1992).^ Il ruolo della Chiesa cattolica nel recente nazionalismo polacco è descritto in Chrypinski (1989).

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le loro patrie, come anche l’uso fatto di questi elementi dalle élite delle due parti. A ogni modo, la differente presa e la difforme distribuzione delle rispettive etnostorie, l’ex condizione periferica e la messa in ombra degli Slovacchi da parte dei loro vicini meglio preparati sul piano cultu­rale e l’aspirazione slovacca ad affermare la propria individualità naziona­le hanno rappresentato il substrato culturale, i punti di riferimento fon­damentali e la legittimazione storica dei movimenti e della pratica politi­ca recente del paese50.

Il ruolo di tali memorie, miti e simboli etnici e il loro uso da parte degli intellettuali e di altre élite hanno costituito il soggetto del considerevole dibattito sorto intorno all’interpretazione dei recenti conflitti in Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica. Pochi metterebbero in discussione la centralità dei ceti intellettuali e professionali aH’interno della leadership di gran parte dei movimenti etnonazionali emersi in questi paesi, ma la loro funzione è considerata in maniera molto differente da strumentalisti e primordialisti. I primi vedono gli intellettuali come i modellatori e gli orchestratoti dei conflitti nazionali; ciò si compie attraverso la manipola­zione condotta dall’intellighenzia dei simboli, della memoria etnica e dei miti; è la sua ricerca di strategie razionali basate sul proprio interesse e sta­tus economico a determinare in larga parte le fattezze e il contenuto di un gran numero degli etnonazionalismi dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’ex Unione Sovietica. Questo è vero in particolare per quanto concer­ne l’ex Jugoslavia: Franjo Tudman, lo storico, si confronta con Radovan Karadzic, il poeta, ma entrambi costruiscono e modellano i simboli e gli obiettivi del conflitto per la guida del quale essi hanno così tanto lottato, sebbene per meri scopi personali. I primordialisti, dall’altro versante, sono inclini a minimizzare il peso delle élite, fra cui gli intellettuali, e a scorge­re le origini della contesa tra Serbi e Croati in un antagonismo storico di fondo, che vede l’intellighenzia come semplice organizzatrice ed esecutri­ce. In base a quest’interpretazione, sono le profonde differenze religiose e i conflitti storici risalenti all’epoca medievale, come anche i percorsi molto diversi presi da Serbi e Croati rispettivamente sotto l’Impero otto­mano e quello asburgico, ad aver prodotto i contrasti collettivi così bru­talmente manifestatisi con i massacri della seconda guerra mondiale e ripetutisi oggi51.

50 Sull’ascesa del nazionalismo in Slovacchia vedi Brock (1976) e Paul (1985); per le successive relazioni fra Cechi e Slovacchi vedi Glenny (1990, pp. 137-44).51 Per una storia dell’area vedi Jelavich (1983). Una tesi che imputa il sorgere di un “dilemma della sicurezza” tra Serbi e Croati alle condizioni di anarchia suscitate dal collasso di stati dove le azioni delle masse appaiono minacciose — specialmente quan­do sono rafforzate da ricordi ancora vividi di conflitti di gruppo - è contenuta in Posen (1993).

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Nessuna delle due precedenti interpretazioni appare comunque ade­guata a spiegare le complessità di questi conflitti. L’inimicizia — e la fra­tellanza — serbo-croata sono in realtà abbastanza recenti, risalendo al più tardi agli anni Venti del XX secolo, quando i due popoli si trovarono per la prima volta incorporati nel Regno di Jugoslavia dominato dai Serbi. Prima di quel periodo, nonostante il sogno degli intellettuali di un’unità degli Slavi del Sud manifestatosi con il movimento deH’illirismo di inizio Ottocento, i due popoli, trovandosi all’interno di due differenti imperi, avevano avuto una storia e una tradizione politica separate. Sotto un altro aspetto, la manipolazione politica degli intellettuali serbi e croati potè dimostrarsi efficace solamente dove un numero sufficiente dei loro soste­nitori etnicamente designati era pronto a rispondere al richiamo dell’et- nicità e ai contenuti di miti, memorie e simboli. Tuttavia, se oggi nell’ex Jugoslavia la religione è più un’“insegna” deU’etnicità che una sentita forza spirituale, la sua efficacia politica deriva da secoli di differenziazione cul­turale e di reciproca esclusione sociale tra Serbi, Croati e ultimamente Musulmani, elemento divenuto parte della struttura delle società balcani­che. Quello che rimane, e quello che può ed è stato usato per arrivare a tali devastanti effetti, è un ricco raccolto di simboli, memorie, miti e tra­dizioni in cui l’epopea delle battaglie, le leggende sui santi e i saggi e le ballate su eroi e banditi sono trasmesse di generazione in generazione sotto forma di una tradizione culturale viva nelle comunità dei piccoli paesi e dei villaggi. E negli usi popolari e intellettuali e nei rispettivi limi­ti, di queste fondamentali componenti simboliche dell’etnicità che dob­biamo cercare risposte più adeguate ai cambiamenti nelle relazioni inte­retniche e all’invocazione del nazionalismo come ultima soluzione politi­ca e territoriale ai rapporti fra etnie nelle aree miste52.

Il ruolo dei ceti intellettuali e professionali va quindi inserito all’inter­no di cornici storiche di lungo periodo e di contesti culturali più ampi. Il perno di una tale analisi non deve essere costituito dagli obiettivi e dalle attività degli intellettuali, dei ceti professionali o di altre élite, e neppure dai sentimenti e dalle memorie di massa della gente comune, ma piutto­sto dai rapporti, spesso più complessi, esistenti tra questi due elementi. Nella funzione politica e sociale dell’intellighenzia possiamo vedere un microcosmo del nostro iniziale paradosso, cioè la ben conosciuta “crisi d’identità” che colpisce un così gran numero di uomini e donne istruiti al momento di spostarsi da un ambiente chiuso e tradizionale a uno più aperto, dinamico e pluralistico e che rispecchia le contraddizioni delle52 Per i primi movimenti nazionali fra gli Slavi del Sud vedi Stavrianos (1961); per una veduta critica della transizione dall’Ortodossia al nazionalismo vedi invece Kitromilides (1989).

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società più ampie. L’educazione dei ceti intellettuali e professionali in via di modernizzazione, con la sua cultura del discorso critico e il suo ethos universalista razionale e tecnicizzato, li lega alle loro controparti in ogni paese. Ma da un’altra parte, separando questi ceti dai loro consanguinei etnici, dal “popolo”, il razionalismo professionale causa sensi di estrania- mento emotivi e culturali a carattere compensatore, che possono essere risolti solamente da un nuovo modello identitario e comunitario basato sulla mobilitazione vernacolare e sulla riappropriazione della storia auten­tica: quella della nazione moderna, un’autonoma comunità politica dove gli intellettuali e le classi professionali possono utilizzare la loro prepara­zione e la loro competenza al servizio però del popolo, cioè dei loro com­patrioti civici ed etnici53.

Questo processo di riappropriazione di un passato etnico ha inoltre aiu­tato la promozione di un notevole revival religioso. Il ritorno di tanti musulmani secolarizzati all’Islam in Bosnia, la crescita di forti movimen­ti islamici tra le comunità musulmane che vivono in Occidente, la vigo­rosa, spesso fanatica, adesione all’Induismo o all’Islam nel subcontinente indiano e persino il ritorno alla Chiesa ortodossa nazionalista in Russia sono tutti fenomeni connessi al rafforzamento dei legami etnici e al senso dell’elezione etnica presente in comunità chiamate a raccolta all’interno di quelli che considerano degli ambienti estranei, se non proprio ostili. A ciò si deve aggiungere la doppia ambivalenza che si accompagna ai valori della modernità: da un lato, il potere economico, tecnologico e militare associato alla modernità occidentale incute un senso di rispetto, e persino di emulazione; dall’altra parte, esiste però una profonda repulsione verso quella che appare una decadenza morale e sociale generata da un raziona­lismo senza regole e da un progresso sfrenato. Questo rigetto assume in breve una dimensione religiosa ed etnica. L’“Occidente” o la “Cristianità occidentale” vengono categorizzate come l’“altro”, rispetto al quale il “puro”, il “nobile” o 1’“eletto” devono realizzare i loro autentici valori e allo stesso tempo redimersi: ciò significa il rigetto dell’anomia dei “valori occidentali” in favore del mantenimento delle tradizionali strutture fami­liari, delle antiche usanze, delle credenze comunitarie, dei valori etnici. E comunque mediante la loro esemplificazione etnica che la rinascita isla­mica, induista, ortodossa, ebraica e buddista diviene politicamente effica­ce, come mostrano gli esempi di Iran, Siria, Algeria, India, Russia, Israele, Sri Lanka, Birmania e Tibet. Lo stesso discorso vale finanche per la rivo­luzione sciita che ha minacciato di travolgere l’intero Medio Oriente: la sua nascita e il suo sviluppo in Iran hanno assicurato la considerevole influenza del nazionalismo di Teheran - come anche dei religiosi e delle

53 Vedi Gouldner (1979) e la nota 40 di questo capitolo; vedi inoltre Shils (1960).

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scuole islamiche iraniani - sulle attività e le manifestazioni politiche dei rivoluzionari musulmani sciiti54.

In questo punto si nasconde una contraddizione particolarmente acuta. Il diffondersi di schemi globali di politiche e di comunicazioni ha contri­buito a ravvivare i legami etnici fra molte comunità attraverso il ritorno di tanti individui alla religione e alle mitologie religiose (ciò si verifica parti­colarmente in India, Africa e Medio Oriente). Ma non si tratta semplice- mente di una risposta collettiva dettata dal timore e dalla protesta contro le pressioni della globalizzazione nelle sue incarnazioni occidentali; il revi­val della religione può infatti essere riscontrato anche nelle patrie occiden­tali od occidentalizzate della modernità; in America, Paesi Bassi e Giappone, come del resto in Israele, Polonia, Irlanda e Messico. Il risveglio protestante e il rifiorire del Cattolicesimo e dell’Ebraismo, sebbene meno sconcertanti della ripresa dell’Islam e dell’Induismo, hanno un seguito rile­vante e si legano spesso all’autorivendicazione e ai miti dell’elezione etni­ca. In questi casi, le mitologie religiose agiscono come garanti della reden­zione delle etnie oppresse o come agenti di ripristino di stili di vita o valo­ri etnici sorpassati. Per mezzo dei miti della religione rinascente e dei suoi prescelti araldi, le forze della modernità possono essere governate e asser­vite agli interessi delle classi e delle etnie emarginate o in ascesa55.ConclusioneÈ dunque uno sbaglio vedere nel ritorno a forme religiose radicali sola­mente un sintomo di paura e risentimento o del collasso dei simboli e dei valori tradizionali. Il quadro globale è infatti più complesso. Sia a causa della propensione della maggior parte di miti, tradizioni e simboli reli­giosi ad agire come fucine delle comunità, sia per la longevità e la diffu­sione della loro influenza, non c’è nulla di inaspettato o di ragguardevole nel ritorno delle élite o di più ampi ceti popolari a tradizioni o sistemi simbolici al fine di vedere come questi ultimi possano sfruttare, e aiutare a capire, le opportunità e i problemi sprigionati dai rapidi cambiamenti e dalla modernità. Più di ogni altra cosa, la ripresa della religione e dei rela­tivi miti dell’elezione etnica permette sia alle élite sia al popolo di relati­vizzare le proprie conoscenze dirette attraverso tradizioni che continuano

54 Le radici religiose della rivoluzione islamica in Iran sono trattate in Keddie (1981); vedi anche Halliday (1979) per una rassegna del più ampio panorama geopolitico del­l’area. Per lo Sri Lanka vedi Roberts (1993); sull’Ortodossia in Russia vedi Pospielovsky (1989).33 Sul potenziale relativo alla mobilitazione delle masse presente nelle tradizioni reli­giose vedi A. D. Smith; cfr. anche Banuazizi e Weiner (1986). Per una significativa trat­tazione della rinascita cristiana e islamica nella Nigeria odierna vedi Igwara (1993).

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a promettere la salvezza tramite un’immortalità che va al di là del presen­te ordine dell’esperienza. Nello stesso tempo, questa classica aspettativa è sempre di più combinata con la speranza della redenzione terrena con­cessa ai prescelti nella vita futura grazie al giudizio dei posteri, cioè al giu­dizio dei discendenti che andranno a formare le successive generazioni di una comunità unita da un destino e una storia comuni.

Quello che sta poi verificandosi in tante parti del mondo è una doppia appropriazione collettiva: la prima riguarda il tradizionale messaggio di una salvezza individuale e collettiva che segue l’esperienza mondana; la seconda, invece, tocca un nuovo messaggio nazionalista d’immortalità collettiva per gli eletti per mezzo della posterità e del suo verdetto. L’unione di questi due tipi di appropriazione costituisce il singolare tra­guardo raggiunto dalla visione storicista dell’umanità e il riconoscimento che questa concede all’unicità dei valori e dei destini culturali di ogni seg­mento storico dell’umanità stessa. Avere fornito un’espressione politica a queste due appropriazioni gemelle è la vera impresa del nazionalismo, conseguita legando la memoria tipica dell’etnostoria e gli antichi miti reli­giosi dell’elezione alla lotta per il riconoscimento territoriale collettivo e all’autonomia politica nell’ambito di una “patria storica”. Nel mondo moderno, infatti, il riconoscimento e l’autonomia sono più sicuri e pro­tetti all’interno di un proprio stato.

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La crisi dello stato nazionale

Sostenere che lo stato-nazione ha fatto il suo tempo e che altre forme di aggregazione politica sono divenute dei veicoli più adatti alla trasmissione delle tendenze e dei processi postmoderni o postindustriali, implica allo stesso tempo presentare un certo numero di considerazioni. La prima, come spiegato in precedenza, riguarda il fatto che le comunicazioni e i sistemi economici globali oltrepassano i confini nazionali e che lo stato- nazione non può pertanto mantenere più a lungo il suo controllo su que­sto e altri processi. Quest’argomentazione è stata però respinta nel capito­lo 1. Una seconda e correlata asserzione - anche questa sfiorata in prece­denza - è la relazione a somma zero che esisterebbe tra l’associazione nazio­nale e le altre forme di aggregazione politica; le nuove forme di aggrega­zione politica, inoltre, implicherebbero necessariamente per lo stato-nazio- ne la perdita della sua posizione di punto di convergenza della lealtà poli­tica. A ogni modo, intendo ritornare su tale questione nel capitolo 5.

Qui intendo prendere in considerazione un terzo punto, cioè il fatto che lo stato-nazione contemporaneo sta venendo sottoposto a un’erosio­ne, se non a una vera e propria disintegrazione, in quanto il suo carattere pluralistico, o multietnico, è minato dai processi di espansione e di modernizzazione statale e dai problemi generati da tali fenomeni.L’incorporazione burocraticaE allo stesso tempo vero e significativo che la maggior parte degli stati presenta un carattere pluralistico. Sotto questo aspetto, non si tratta chia-

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ramente di stati-nazione, ma tu tt’al più di “stati nazionali”. In termini stretti, possiamo definire un soggetto come “stato-nazione” solamente quando e se un singolo gruppo etnoculturale è inserito nei confini di uno stato che a sua volta si estende fino a includere al suo interno i con­fini territoriali del gruppo etnoculturale in questione. Questo è certa­mente un criterio in base al quale si escluderebbero degli stati etnica­mente omogenei che però presentano elementi di popolazione affine sotto il piano etnico e culturale in stati confinanti, o persino altrove. In questo senso, gli stati-nazione diventano ben pochi: Portogallo, Islanda, Giappone (esclusi gli Ainu e i Coreani), Danimarca (esclusi gli abitanti delle Faer 0er) ne costituiscono alcuni esempi. Parecchi altri stati, come la Polonia, si avvicinano a questo modello; tuttavia, solo il 10 percento degli stati membri delle Nazioni Unite sono stati-nazione. La maggio­ranza degli altri stati ha infatti un carattere multietnico; inoltre, molti di essi sono anche rigidamente divisi lungo linee di separazione etnica: alcuni presentano al loro interno minoranze etniche numericamente significative, mentre altri sono frazionati fra due o un numero maggiore di grandi etnie (vedi Birmania, Indonesia, Malaysia, Kenya, Nigeria, Belgio, Canada, Gran Bretagna)1.

Come si è creata una tale situazione? Le nazioni, come ho indicato, si sono formate attraverso due percorsi principali. Il primo che ho discusso è quello che transita per il processo di mobilitazione popolare e che ha interessato la maggior parte degli stati nazionali attuali. La seconda stra­da è invece sostanzialmente un processo di incorporazione burocratica avviato da una base di etnie laterali piuttosto estesa, dai contorni non ben definiti e perlopiù confinata negli strati alti della popolazione. Nella mag­gior parte dei casi, in effetti, un ceto aristocratico, guidato solitamente da un re o un principe e dalla sua corte e dai suoi assistenti, e inoltre soste­nuto dal clero, governava una o più comunità regionali o etniche, che a loro volta fornivano la forza lavoro e i servizi necessari al mantenimento del tenore di vita dell’aristocrazia stessa. Questo è stato lo schema di svi­luppo per gran parte dell’Europa, rimasto attivo nella metà orientale del continente dopo la piena stabilizzazione dei tre grandi imperi — asburgi­co, zarista e ottomano. Tale schema si mantenne poi senza grossi proble­mi nel XIX secolo in altre regioni del mondo, come Medio Oriente, Asia meridionale e Corno d’Africa. Nel corso dell’Ottocento, gli imperi colo­niali europei imposero una versione modificata di questo schema base, dove il ceto aristocratico in questione era rappresentato da un’élite ammi­nistrativa proveniente dal Vecchio Continente - talvolta appoggiata nel

1 Vedi Connor (1972) e Wiberg (1983); cfr. anche le distinzioni contenute in Tivey (1980).

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suo compito da coloni e missionari - che andava a formare una “società parallela”, come si era del resto verificato in America centrale e in America Latina nel XVI secolo2.

Queste etnie “laterali” o aristocratiche erano normalmente paghe della preservazione dei sistemi base di differenziazione culturale e di gerarchia politica. Ciò è vero per quanto concerne le tante antiche aristocrazie dominanti del mondo antico, come gli Hittiti, i Medi, i Persiani e anche1 Filistei, che fecero poco o nulla per incorporare, a qualsiasi livello, i membri delle etnie subordinate nella loro cultura e nella loro società pri­meggiami. Soddisfatte di ricevere tributi, lavoro e servizi, le élite dell’et­nia dominante mantennero con gioia il fossato culturale esistente tra esse e le comunità o le categorie etniche conquistate e i cui territori erano stati annessi e sfruttati3.

Ma, per ragioni che non sono del tutto chiare, un ridotto numero di queste etnie laterali o aristocratiche - o i loro governanti e il clero - cominciarono a sentire il bisogno di diffondere la loro cultura etnica verso il basso e all’esterno, cioè in direzione di alcuni dei ceti medi (se non tal­volta anche minori) e delle regioni più remote dei loro domini. In entrambi i casi, delle considerazioni difensive possono aver giocato un ruolo cruciale. Le costanti incursioni di predoni o di altri stati avrebbero quindi sollecitato una più ferma politica di incorporazione culturale nella terre di frontiera degli stati aristocratici, come avvenne ai confini del Galles, in Linguadoca, in Provenza o in Finlandia. Quest’obiettivo era spesso raggiunto insediando dei coloni appartenenti all’etnia centrale sulle frontiere instabili o attraverso il rafforzamento del controllo ammi­nistrativo, oppure in entrambi i modi. Anche il controllo ecclesiastico poteva essere utilizzato a questo fine: il riconoscimento della giurisdizio­ne dell’alto clero sui territori etnicamente misti o contesi poteva assicura­re questi ultimi al dominio dello stato aristocratico. Nel caso della Spagna, la difesa del Cattolicesimo dai musulmani si trasformò in una componente fondamentale della più tarda identità nazionale spagnola, mentre in Francia il sostegno papale ai diritti franchi e poi capetingi come “scelta” etnica a protezione dell’influenza cattolica si dimostrò cruciale per la successiva espansione della giurisdizione reale francese, in particolare di fronte alle inclinazioni eretiche della Linguadoca. Più tardi, la religione fu utilizzata dalla monarchia inglese dei Tudor non solo per rafforzare la pro-

2 Per la “società parallela” vedi Balandier (1954); cfr. anche J. H. Kautsky (1962, “Introduction”). Per il modello delle relazioni sociali in Europa orientale vedi Sugar (1980).3 Per queste antiche aristocrazie vedi Moscati (1962), Cook (1983) e M ann (1986, cap. 5).

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pria posizione, ma anche, con l’estensione del controllo dell’Inghilterra i sull’Irlanda attraverso la diffusione del Protestantesimo, per impedire alle potenze cattoliche continentali di attaccare il suolo inglese partendo dall’Irlanda stessa4. ;

E certamente in Europa che i processi di incorporazione burocratica delle regioni periferiche e dei ceti medi si dimostrarono più evidenti. In : linea di massima, le monarchie assolutiste cercarono con sempre più , tenacia di standardizzare e rendere omogenee le proprie comunità etni­che. All’inizio si trattò di un effetto secondario del bisogno di incre­mentare le entrate e le risorse militare al fine di massimizzare la propria competitività nell’ambito degli stati dinastici, che a partire dalla fine del ■ Quattrocento diventarono l’elemento politico dominante in Europa. A metà del Cinquecento, le nefaste conseguenze politiche delle lotte di reli­gione all’interno dei vari regni, successive alla Riforma, accelerarono il processo di omogeneizzazione. Entro il Settecento, la standardizzazione S e l’omogeneizzazione culturale e religiosa erano sempre di più conside­rate delle precondizioni per arrivare al successo nelle dispute internazio­nali. Le misure di Richelieu per la riforma linguistica e la revoca da parte j di Luigi XIV dell’editto di Nantes ne costituiscono solo gli esempi più ovvi. Un secolo più tardi, la leadership dell’Inghilterra era attribuita alla sua precoce unità religiosa, politica e linguistica e alla conseguente ideo­logia di libertà5.

I processi di incorporazione burocratica sono stati comunque variabi­li. Essi hanno incluso i noti provvedimenti per la costruzione degli stati: creazione di un singolo codice di leggi e di tribunali su tutto il territo- 2 rio; realizzazione di un unico sistema di tassazione e di politica fiscale; g costruzione di un sistema unificato di comunicazione e trasporto; snelli- f mento dell’apparato amministrativo e centralizzazione del controllo * nelle mani dei governanti nella città capitale; formazione di quadri pro- . fessionali di personale specializzato per le istituzioni amministrative chiave; infine, l’ideazione di una tecnologia e di una struttura militare effìcenti e poste sotto il controllo centrale. In una fase successiva, altre misure per il benessere sociale, la tutela del lavoro, le assicurazioni, la salute e l’istruzione cominciarono a entrare nel processo di edificazione statale, usualmente accompagnate o seguite dall’ampliamento di tali

4 Sull’Inghilterra dell’epoca Tudor vedi Corrigan e Sayer (1985, cap. 2); per le proble­matiche religiose in Francia e Spagna vedi Armstrong (1982, cap. 3).5 Per il processo di centralizzazione linguistica in Francia vedi Rickard (1974); per il nazionalismo inglese e britannico del XVIII secolo vedi Newman (1987) e Colley (1992).

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benefici ai ceti medi e poi a quelli più bassi, e come ultimo passo anche alle donne6.

Parallelo a questo processo di costruzione degli stati vi è lo sviluppo di una forte coscienza nazionale. Ciò è in parte la conseguenza della stessa edificazione statale, ma è pure il prodotto, e in seguito anche la causa, della sovrapposizione di un analiticamente distinto movimento di “costruzione della nazione”. Quest’ultimo è un termine spesso utilizzato in maniera interscambiabile con il processo di edificazione statale, ma i punti focali e rilevanti della costruzione della nazione sono piuttosto dis­simili.

Essi includono:• lo sviluppo, la cura e la trasmissione dei miti, delle memorie e dei sim­

boli condivisi dalla comunità;• lo sviluppo, la selezione e la trasmissione dei riti e delle tradizioni sto­

riche della comunità;• la scelta, la cura e la trasmissione degli elementi “autentici” della cultu­

ra comune del “popolo” (lingua, costumi, religione, ecc.);• l’impressione nella popolazione designata dei valori, della conoscenza e

degli attributi “autentici”, realizzata attraverso istituzioni e metodi stan­dardizzati;

• la demarcazione, la trasmissione e l’attenzione verso i simboli e i miti di un territorio o una patria storici;

• la selezione e l’economizzazione delle risorse e della manodopera quali­ficata entro il territorio demarcato;

• la definizione dei diritti e dei doveri comuni per tutti i membri della comunità prescelta.L’accento posto su ognuno di questi processi è soggettivo, in quanto si

è di fronte prevalentemente ad attitudini, percezioni e sentimenti legati a simboli, miti, memorie, tradizioni, rituali, valori e diritti. Ma troviamo anche coinvolti degli insiemi di attività “oggettive”: l’autenticazione, l’at­tenzione, la selezione, la scelta, la conservazione e l’impressione di valori, i simboli, le memorie e concetti similari. Questi processi di edificazione nazionale si collegano inoltre alla nostra definizione pratica di nazione, cioè di “una specifica popolazione umana che condivide miti, memorie,

6 Sul processo di affrancamento vedi Bendix (1964); sulla crescita deU’amministrazio- ne centralizzata e la professionalizzazione della guerra vedi Tilly (1975) e Giddens (1985).

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una cultura pubblica di massa, una patria designata, un’unità economica e uguali diritti e doveri per tutti i suoi membri”7.La penetrazione dello stato e la crisi della legittimitàDurante il XIX e il XX secolo si è tuttavia assistito a un enorme incremen­to del potere e delle capacità di penetrazione dello “stato scientifico”, come componente chiave del più ampio processo di modernizzazione. Ciò si è concretizzato sostanzialmente nell’ambizione dello stato burocra­tico a usare la scienza e le tecnologie più recenti per rafforzare la propria efficacia ed efficienza sia nelle questioni interne che in quelle estere. Se il controllo economico dello stato viene attualmente sfidato dalle grandi multinazionali e dalle pratiche che dominano in gran parte del globo, se la sua supremazia militare è stata limitata prima dalle potenzialità nuclea­ri delle due superpotenze e poi dall’internazionalizzazione delle strutture di comando e della tecnologia bellica, la sua infiltrazione e il suo potere socioculturali si sono semmai accresciuti, nonostante le trasformazioni senza precedenti scaturite dalla tecnologia informatica computerizzata e dai sistemi globali di comunicazione di massa.

Questo fatto può essere brevemente illustrato considerando tre settori: l’istruzione pubblica, i mass media, le politiche sociali e culturali - tutti fattori che hanno infatti rapporti stretti con le caratteristiche etniche e l’i­dentità nazionale delle popolazioni statali.

L’istruzione pubblica è giudicata da alcuni studiosi un fattore centrale nella produzione di una cultura letteraria “alta”, e di qui di una nazione omogenea. A partire dalla fine dell’Ottocento, la maggioranza dei gover­ni ha certamente considerato uno dei suoi principali compiti l’organizza­zione, il consolidamento e il controllo sempre più rigido di un sistema d’istruzione di massa - obbligatoria, uniformata, gerarchica, supervisio- nata tramite le scuole, legata al rilascio di un titolo —, che aveva lo scopo di creare una forza lavoro efficiente e una cittadinanza omogenea e leale. Questo era l’obiettivo dichiarato della Terza Repubblica dopo la sconfit­ta francese nella guerra franco-prussiana del 1870: un sistema d’istruzio­ne pubblica standardizzato e di massa fu quindi preparato come uno degli strumenti chiave per unificare e produrre il “Francese”, che doveva dimo­

7 Vedi pp. 72-73 per questa definizione; per una visione piuttosto differente della “costruzione della nazione” vedi Deutsch e Foltz (1963). Il modello di comunicazione sociale di Deutsch pone un accento particolare sul volume di messaggi e i meccanismi della loro trasmissione, sebbene non riesca a chiarire il contenuto delle memorie comu­ni - cultura, comunità, patria - che si trasmettono di generazione in generazione, né a dare il giusto rilievo al potere di simboli, miti e tradizioni racchiusi nelle usanze, nei rituali e nelle cerimonie.

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strarsi capace di opporsi alla Prussia e di riconquistare le province dell’Alsazia e della Lorena perdute in quel conflitto. A tal fine, per sosti­tuire il precedente disdegno del corpo e dell’attività fìsica tipico di intel­lettuali e cattolici, furono adottati sia nuovi esercizi per migliorare la forma fisica sia nuovi ideali ispirati all’armonia atletica degli antichi Greci. Per inculcare una consapevolezza comune della passata grandezza della Francia, come anche dei suoi eroi, delle sue virtù e del suo posto di spicco tra le nazioni, i leader della Terza Repubblica ricorsero anche all’in- segnamento di una storia uniformata, attraverso i goffi libri di testo di Lavisse approntati per le scuole di vario grado. Il criterio scelto per misu­rare la grandezza era preminentemente territoriale, cioè la capacità di estendere i confini francesi e di integrare e unificare i suoi abitanti. In questo modo Richelieu e Luigi XIV, in virtù delle loro aspirazioni monar­chiche, erano oggetto di ampie lodi, mentre la raffigurazione di Napoleone, a causa del suo originale patriottismo repubblicano, era profondamente ambivalente: dopotutto, egli aveva perso entro gli anni 1814-15 la maggior parte dei territori guadagnati dalla Francia nel corso delle guerre rivoluzionarie. Ancora più importante era il fatto che le ragioni della grandezza del paese, fatta risalire all’epoca di Clodoveo, erano intraviste nella successione dinastica e nella persistenza delI’“esago- no”8 territoriale al cuore del concetto stesso del regno e dello stato fran­cese. Era dunque questa la storia a carattere nazionalista che per decreto statale i bambini francesi (e delle colonie) dovevano imparare nelle scuo­le di ogni ordine e grado9.

Anche in Giappone l’adozione dell’istruzione pubblica di massa si è rive­lata altrettanto importante. Qui, infatti, alcuni anni dopo la Restaurazione Meiji del 1868, la classe aristocratica riformatrice che era alla guida del paese emanò l’editto imperiale sull’educazione (1890), nel quale si stabili­va come fosse la lealtà all’Imperatore il principio base dell’istruzione stata­le giapponese. Senza dubbio, l’obiettivo era copiare e competere con le società e gli stati occidentali sul loro stesso terreno, in quanto i riformato­ri nipponici erano convinti che la chiave del successo economico e milita­re dell’Occidente stesse nell’istruzione secolare; per conseguire questo tra­

8 “Esagono” (hexagone) è un termine utilizzato come sinonimo della Francia in virtù del profilo geografico di quest ultima e impiegato dall’Ottocento come una sorta di codice per identificare il paese [N.d.T.]. Vedi Gellner (1983, capp. 3-4) per una particolare sottolineatura del ruolo cruciale

di un sistema d’istruzione pubblico di massa e standardizzato nella creazione delle nazioni. Per il caso della Terza Repubblica francese vedi il classico lavoro di E. Weber (1979); per uno studio sui libri di testo dal 1880 al 1980 vedi Citron (1988); per il tentativo di inculcare gli ideali greci sulla salute del corpo dopo la sconfitta subita a opera della Prussia vedi Leoussi (1992).

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guardo fu elaborato un sistema d’educazione gerarchico e su larga scala, che doveva imprimere le conoscenze moderne e i valori imperiali giappo­nesi. Esempi più recenti di omogeneizzazione nazionale per mezzo dell’i­struzione pubblica di massa possono essere riscontrati nei nuovi stati asia­tici e africani. Nella maggioranza di questi casi, dei libri di testo di storia e letteratura standardizzati elencano le imprese e il passato della nazione e dei suoi eroi; in altre situazioni, in particolare alcuni stati islamici, una dimensione religiosa è chiamata in causa a sostenere e reinterpretare quel­li che sono sostanzialmente dei valori e delle finalità nazionalistiche. Nell’Egitto di Nasser, ad esempio, le politiche governative per l’istruzione armonizzarono l’elemento arabo con quello islamico, nonostante al Cairo - come del resto in Siria - il nazionalismo fosse di orientamento essen­zialmente secolare. Importante resta comunque il fatto che il sistema d’i­struzione di massa mirante a inculcare negli individui valori e vedute comuni è un apparato dello stato e da quest’ultimo controllato. In Nigeria e Kenya, in Siria e in Iraq, in Israele e in Egitto, in Malaysia e a Singapore,10 stato è intervenuto direttamente a guidare - come a fondare e consoli­dare — la struttura educativa di massa10.

Pure i mass media hanno avuto un ruolo sempre più crescente e vitale nel puntellare il potere statale e permettergli di introdursi nella coscienza sociale. Ciò era scontato negli stati fascisti o comunisti a partito unico degli anni Trenta del Novecento; successivamente, negli anni Cinquanta, Daniel Lerner e i suoi colleghi scoprirono che lo sfruttamento della radio e della televisione da parte statale stava avendo un forte impatto sulle clas­si medie. Il timore dell’impiego che ne avrebbero potuto fare organizza­zioni rivali come i Fratelli musulmani, ad esempio, spinse molti stati arabi, anche quelli che non ne avevano ancora l’intenzione, ad assumere11 controllo diretto dei mass media, soprattutto delle stazioni radio e tele­visive. Nella mani dei regimi libici, algerini e iraniani (solo per citarne alcuni), i mass media hanno esteso l’influenza dello stato, associandolo indissolubilmente all’identità e al destino della nazione.

Il valore di questi strumenti di comunicazione di massa pareva tale che la prima mossa di ogni autore di un colpo di stato era quella di impadro­nirsi dei trasmettitori e delle stazioni radiotelevisive, al fine di trasmette­re l’annuncio dell’awenuta liberazione; gli stati, a loro volta, hanno poi compreso l’importanza vitale del mantenere i mass media sotto il loro controllo11.

10 Per il Giappone Meiji vedi Lehmann (1982, cap. 8, specialmente pp. 259-65); sul ruolo dello stato nei paesi islamici vedi Rosenrha) (1965); sull’Egitto di Nasser vedi Vatikiotìs (1969).11 Vedi Lerner (1958); cfr. anche Netti e Robertson (1968, parte III).

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Persino in Occidente, nonostante la maggiore libertà di stampa e la qualità tradizionalmente più liberale dell’interventismo statale, si assiste a una pesante intrusione dello stato nei programmi radio e, a minor livel­lo, in quelli televisivi. Anche in presenza di un alto grado di libertà, il con­tenuto di molte trasmissioni - che siano notiziari, documentari o addi­rittura rappresentazioni teatrali — è di gusto e inclinazione spiccatamente nazionale: il mondo è ancora prevalentemente osservato attraverso le lenti del proprio stato nazionale.

Anche l’intervento dello stato all’interno e nel controllo nelle politiche sociali e culturali è vistosamente aumentato. L’emergere di un nazionalismo culturale “ufficiale” negli stati europei del tardo Ottocento è un fatto noto, esemplificato dalle varie azioni di magiarizzazione, russifica­zione e germanizzazione (dei Polacchi della regione di Poznan). Entro il XX secolo, le politiche statali di nazionalismo culturale si erano fatte più sofi­sticate. Nel Messico degli anni Venti, i regimi postrivoluzionari di Obregón e Vasconcelos idearono una politica onnicomprensiva di nazionalismo cul­turale basata sull’idea della “fusione delle razze” e sull’unione delle tante componenti culturali sotto l’egida dello stato messicano. Sfruttando le sco­perte archeologiche di Teotihuacàn, le ricerche di antropologi come Manuel Gamio e il talento di pittori come David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco e Diego Rivera, lo stato commissionò e presentò al popolo un panorama di successive culture attraverso il quale un moderno mito della fusione delle razze (mestizaje) poteva essere tracciato fino all’età precolombiana; in questo modo la discendenza del moderno stato messi­cano veniva saldamente radicata in un passato millenario. Allo stesso tempo, il moderno stato nazionale poteva essere presentato come la sintesi e il legittimo erede delle susseguenti e diverse civiltà — ispanica e indiana - che formavano l’area culturale e l’eredità che il Messico rappresentava (a spese, si dovrebbe aggiungere, delle “popolazioni indiane” indigene)12.

Nel XX secolo, anche il cinema si è dimostrato un potente strumento per l’esibizione delle politiche culturali statali e degli ideali nazionali, che in questo modo potevano raggiungere milioni di persone. I grandi film storici di Sergej EjzenStejn come La corazzata Polémkin, Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile riuscirono a cristallizzare e diffondere in milioni di cit­tadini il senso che la nazione e lo stato russo (sovietico) fossero minaccia­ti da nemici interni (o anche inesistenti). Altri famosi registi, come Akira Kurosawa, Luis Bunuel, Ingmar Bergman, Satyajit Ray, Andrzej Wajda, sono stati ugualmente capaci di comunicare un senso di individualità nazionale, ricreando con la cinepresa l’unicità del passato e del presente,

12 Sul nazionalismo “ufficiale” vedi Anderson (1983, cap. 6). Per il rinascimento cul­turale messicano e i muralisti vedi Franco (1970) e Ades (1989, cap. 7).

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dei paesaggi, delle leggende e delle atmosfere delle proprie nazioni. La maggioranza di questi artisti ha operato al di fuori delle specifiche politi­che ufficiali, talvolta addirittura criticandole, ma nonostante ciò il loro lavoro ha parimenti trasmesso il senso dell’esistenza di un destino e di una storia nazionale distinti, avendo sottolineato indirettamente l’attacca­mento dei cittadini ai propri stati nazionali. Ai giorni nostri, inoltre, la simbiosi tra stato e nazione è andata rafforzandosi grazie al crescente con­trollo ministeriale su molti aspetti delle politiche sociali e culturali. Questo è palesemente evidente per l’istruzione, in particolare per quella di tipo superiore, ma si sta dimostrando altrettanto indiscutibile per quanto riguarda altri settori come la regolamentazione di stampa, radio e televisione, la sanità e i servizi per la salute pubblica, le professioni libe­rali, la condizione delle famiglie e delle relative agevolazioni a esse indi­rizzate, l’ingegneria genetica, la giustizia, la polizia e il sistema carcerario. Attraverso l’uso delle più avanzate scoperte tecnologiche e scientifiche, lo stato burocratico è riuscito a introdursi in ogni aspetto della vita sociale e professionale, estendendo il suo raggio d’azione ai più remoti angoli del proprio dominio territoriale e ai nuclei familiari di tutte le regioni del paese da esso governato13.

Il potere e l’infiltrazione davvero notevoli del moderno stato nazionale hanno già prodotto una crisi di coesione e legittimità di quest’ultimo. Come discusso sopra, pochi stati si possono considerare monoetnici, e quindi stati-nazione genuini. Nella maggior parte dei casi si tratta di “stati nazionali” pluralistici, che generalmente includono rilevanti minoranze etniche e nazionali. Queste ultime si possono dividere in due categorie: minoranze sparse di immigrati, spesso provenienti da ex possedimenti coloniali d’oltremare, e minoranze stabili territorialmente compatte, soli­tamente presenti sul luogo da lungo tempo. In genere, le prime vivono e lavorano in un clima di discriminazione, emarginazione e razzismo, men­tre le seconde sono oggi considerate “legittimi” coinquilini — anche se meno favoriti - dello stato nazionale, che comunque in periodi prece­denti hanno dovuto sperimentare la discriminazione e il disinteresse da parte delle élite dell’etnia dominante. Entrambe queste categorie di mino­ranze etniche rappresentano sempre di più un elemento di frattura del­l’omogeneità e della purezza di un’identità nazionale che è stata dipinta per fini politici e didascalici come un insieme organico. In questa fami­liare “narrativa pedagogica”, gli immigrati, i cittadini delle ex colonie e gli emarginati — e, possiamo aggiungere, le etnie “periferiche” residenti nello stesso stato - , a causa delle loro richieste per un trattamento distinto ma

13 Per un incisivo resoconto sugli attacchi del governo della Thatcher alle professioni in Gran Bretagna vedi Burrage (1992).

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paritario, delle loro specificità culturali e delle loro aspirazioni all’autono­mia e alla diversità, sono visti in misura sempre maggiore come un fatto­re di indebolimento dello stato. Questi sentimenti, poi, sono motivati dalla trasformazione sociale operata dalla fortissima espansione e penetra­zione dello stesso stato nazionale e dai suoi progetti di acculturazione e di omogeneizzazione nazionale14.

La diffusione dell’istruzione pubblica, dei mass media e di politiche burocratiche culturali a carattere nazionale alle etnie minoritarie e alle aree periferiche e i tentativi statali di pervadere — e persino assimilare — gli emi­granti, gli abitanti delle ex colonie e i cittadini emarginati con la cultura dell’etnia dominante hanno incontrato solo un parziale successo. Gli stati nazionali hanno provato a mettere in piedi un sistema nazionale di istru­zione, e quindi a costringere molti immigrati o membri delle etnie mino­ritarie a far passare i propri figli attraverso quest’apparato scolastico unifor­mato o qualche sua variante. Gli stati hanno poi tentato di porre le mino­ranze e gli immigrati entro il raggio d’azione dei mass media elettronici; allo stesso tempo, anche le politiche culturali statali — in settori come le arti e la museologia, le università e le scuole superiori, l’utilizzazione della scienza e della medicina, i valori della famiglia, e cosi via - si sono intro­dotte in molti degli spazi legati alle attività di lavoro e d’intrattenimento di immigrati e minoranze. Dall’altro versante, alla modernizzazione e all’irruzione dello stato si è troppo spesso accompagnato un fallimento nel mantenere le promesse fatte sul piano sociale ed economico (come il pieno impiego, alloggi migliori, maggiori fondi per l’istruzione, una sanità pub­blica più efficiente, ecc.). Questi insuccessi si sono manifestati sicuramen­te a livello generale, nel senso che hanno coinvolto l’intera popolazione, sebbene abbiano pesato maggiormente sui più poveri, i meno istruiti e i rami più periferici dello stato nazionale. Con le sue azioni e i suoi falli­menti, lo stato sovraesteso ha contribuito ad attizzare la protesta e a far sorgere forme di resistenza alle sue insistenti pressioni per l’irreggimenta- zione e la conseguente discriminazione delle minoranze etniche e regiona­li più povere e meno istruite. Gli strumenti principali usati per l’incorpo­razione e l’assimilazione della cittadinanza, cioè la comunicazione, la mobilitazione e la partecipazione, sono stati volti contro lo stesso stato nazionale e utilizzati per mettere in discussione, e perfino negare, le fon­damenta nazionali del potere e della legittimità di statali.

Si è qui in presenza di due distinte critiche del potere e della legittimità dello stato. Si devono dunque distinguere due diverse forme dell’attuale14 Quest’elemento strutturale è omesso nell’analisi, altrimenti percettiva, di Bhabha (1990, cap. 16). Per un’esplorazione del multiculturalismo e della sua critica in Australia vedi Castles et al. (1988, capp. 6-7); cfr. anche Kapferer (1988, capp. 6-7), in particolare la critica a Blainey.

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NAZIONI E NAZIONALISMO NELL’ERA GLOBALE

crisi che affligge tale istituzione: la prima è a carattere esterno e riguarda il malessere (e le critiche) che coinvolgono il potere economico e militare dello stato nell’ambito di un mondo dominato da grandi compagnie mul­tinazionali, blocchi militari e organizzazioni su scala continentale collega­te fra loro dal sistema di comunicazione elettronica di massa; il secondo tipo di crisi e critica è invece interno e si esplica nella sfida all’efficienza dello stato nazionale e ai suoi attributi di legittimità e rappresentanza in qualità di risposte ai bisogni e agli interessi dei cittadini. E quest’ultimo fatto che intendo ora esaminare attraverso l’analisi dei problemi connessi alle questioni dell’identità e dei modelli di ordine politico nazionale.Problemi legati al nazionalismo civico ed etnicoLa teoria dello stato nazionale ha comunemente presunto l’esistenza di una forma civica di nazionalismo. L’idea della sovranità popolare ha infat­ti sempre presupposto una chiara visione della natura e dei confini del “popolo” che componeva i cittadini dello stato nazionale. E infatti con l’appartenenza a un “popolo” che vengono accordati a un individuo i diritti e i doveri legati alla condizione di cittadino: solo i membri di un determinato popolo possono quindi essere cittadini e godere dei vantag­gi che solo l’appartenenza alla cittadinanza di uno stato nazionale può conferire; solo a chi condivide la cultura pubblica del popolo, a chi ade­risce alla “religione civile” dello stato nazionale, è conferita una quota di quei diritti e doveri che costituiscono la cittadinanza. Se i diritti e i dove­ri del singolo cittadino sono in linea di principio universali e presuppon­gono per la loro applicazione una base uniforme in ogni parte del globo, essi sono in pratica disponibili solo per gli individui che sono — o sono divenuti - membri di un popolo. Quindi, gli Ebrei, anche dopo esser stati emancipati dalla Rivoluzione francese, dovevano comunque privarsi delle loro particolarità etnoreligiose se volevano trasformarsi in individui “uni­versali” come “tutti gli altri” e godere così dei benefici della modernità legati all’ottenimento dello status di cittadino.

In pratica, però, essi scambiarono un antico particolarismo collettivo per uno più moderno. Per approfittare dei vantaggi della modernità, dovevano diventare cittadini dello stato nazionale di Francia e sposare la cultura pubblica francese, incluse la lingua, la storia e l’istruzione15.

15 Questa separazione della religione dail’etnicità fu realizzata da Napoleone - vedi anche le considerazioni di Hetzberg (1960, “Introduction”) sugli Ebrei in Occidente.Si trattava del prodotto dell’ascesa del nazionalismo di massa in Francia e si differen­ziava parecchio dalle varie imposizioni cui erano stati soggetti gli Ebrei negli stati monarchici medievali, fra le quali possiamo includere la loro espulsione di massa nel 1492 dalla Spagna cattolica appena unificata; vedi Almog (1990, “Introduction”).

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In Francia, come pure nella Germania di Guglielmo II e in quella di Weimar, gli Ebrei fecero del loro meglio per integrarsi, ma alla fine ci riu­scirono (eventualmente) solo in casi individuali. Le forze dell’antisemiti- smo - economiche, sociali o razziste, ma motivate da precedenti antago­nismi e pregiudizi spesso a carattere religioso — non permisero infatti alcu­na assimilazione collettiva o su larga scala. Questo non è semplicemente un altro esempio della generica “sopravvivenza” nell’era moderna di ini­micizie e categorizzazioni premoderne, ma va considerata una conse­guenza della contraddizione interna che sta al cuore della stato nazionale, cioè quella fra una concezione universale della cittadinanza, con diritti e doveri uniformi, e l’inevitabilmente particolaristica concezione del “popolo” (la comunità della quale è membro ogni cittadino). A tale pro­posito, dobbiamo riconsiderare le origini etniche di così tante nazioni. Le comunità stesse discendono spesso da popolazioni premoderne di cui hanno ereditato memorie, tradizioni, miti, simboli e valori; “il popolo” è poi l’erede di queste “popolazioni”, delle quali spesso conserva ancora alcuni legami e attributi etnici. Sebbene lo stato nazionale possa essere “rinato” nel primo anno della Rivoluzione francese, i suoi membri e la comunità che essi formano possiedono degli antecedenti: una storia pre­cedente di subordinazione, peregrinazione, esilio e sofferenze, ma tuttavia sempre una storia e, quindi, la coscienza di aver vissuto un’esperienza comune, che va a separare quel popolo dagli altri e lo fornisce di un senso di appartenenza16.

Non siamo comunque in presenza di una semplice questione di discen­denza etnica. Molto spesso troviamo anche la forte convinzione comune di una superiorità morale e il senso della centralità e dell’insostituibilità dei valori culturali della propria comunità nazionale (elementi che posso­no essere riportati alla precedente cura assegnata dalle élite delle etnie pre­moderne al mito dell’elezione etnica).

Laddove nel passato tali miti presentavano un carattere fondamental­mente religioso, oggi si tratta spesso di espressioni secolarizzate della superiorità etnica, almeno nelle versioni ufficiali. A ogni modo, anche attualmente, al di sotto della trasposizione pubblica, i sentimenti legati al valore e alla dignità della comunità nazionale sono permeati da un più profondo contenuto religioso, che inevitabilmente conferisce un’aura di esclusivismo alla comunità etnica centrale della nazione. Questo senso della dignità e dell’elezione nazionale esiste in Francia o in Sudafrica,

16 Le “grandi rivoluzioni” si verificano fra popoli in possesso di un’etnostoria antica, con il nazionalismo che presto comincia a influenzare - se non a motivare almeno in parte - il loro corso. Vedi ad esempio C. Johnson (1969) sul nazionalismo nella Cina maoista e Gildea (1994) per quanto riguarda la Francia rivoluzionaria.

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negli Stati Uniti come in Israele o Giappone, in Australia come nello Sri Lanka17.

In altre parole, le nazioni moderne sono simultaneamente e necessaria- j mente civiche ed etniche. In rapporto allo stato nazionale, l’individuo è Jt un cittadino con doveri e diritti civici, che riceve i benefìci della moder­nità attraverso la mediazione di una burocrazia imparziale e impersonale.Il nazionalismo dello stato nazionale è quindi sia burocratico che civico, in quanto, nelle relazioni con i cittadini, lo stato è istituzionalizzato e rap­presentato dalla burocrazia e dai suoi organi. In questo modo, la buro­crazia e il suo personale formano in misura sempre maggiore il locus del nazionalismo dello stato nazionale, e ciò non semplicemente in termini di guadagno materiale o di posizione per i titolari degli organi burocratici, ma sotto l’aspetto del potere, dell’unità e dell’interesse dello stato nazio- « naie stesso, i cui rappresentanti, sia internamente che esternamente, sono jj i funzionari e gli impiegati civili che lavorano per le sue istituzioni e met- m tono in atto le sue leggi e decisioni politiche. | j

Tuttavia, in rapporto alla comunità etnica o al “popolo”, gli individui ® sono membri con legami e affinità basati sulla storia e la cultura verna- m colare, ed è per questo motivo che sono loro concessi i diritti di citta- x dinanza - e i relativi vantaggi della modernità - dello stato nazionale, • che rappresenta, racchiude e protegge la comunità. Pertanto, il nazio- » nalismo della comunità nazionale - della comunità territoriale legata da f i storia e cultura - presenta aspetti sia etnici che popolari; ciò accade poi- « che la nazione e la sua identità si esprimono e si rivelano negli “auten- « tici” miti, simboli, lasciti, memoria e cultura vernacolare del “popolo”, j | che va a formare una comunità unita da storia e destino, dove gli intei- 1 lettuali e i ceti professionali cercano di autenticare, salvaguardare e § incarnare le eredità e la cultura del passato attraverso istituzioni educa- m tive e culturali inserite all’interno di una madrepatria autonoma. Il biso- » gno di protezione, riconoscimento e appartenenza incoraggia la nazio- f ne e i suoi membri, in particolare i ceti intellettuali e professionali, a 1 tentare l’istituzionalizzazione dei propri simboli e lasciti e della propria cultura, dentro e tramite una stato nazionale che li personificherà e sod- disferà il descritto bisogno. I ceti intellettuali e professionali, a guardia : e a guida delle istituzioni culturali ed educative presenti nella madrepa-17 Per alcuni miti dell’elezione contemporanei vedi Thompson (1985), che tratta la Convenzione degli Afrikaner; Kapferer (1988) sul mito d e ll’ANZAC [Australian and New Zealand Army Corps: il corpo di spedizione militare australiano-neozelandese in Europa durante la prima guerra mondiale. N.d.T.] in Australia; O ’Brien (1988) sui miti della fondazione e del destino degli Stati Uniti d’America; Yoshino (1992) sulla § fede dei giapponesi nella loro unicità culturale. Per alcuni dilemmi sui miti identitari 1 d’Israele e degli Ebrei vedi Segre (1980) e A. D. Smith (1992c). i

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tria autonoma o nello stato nazionale, formano dunque il locus della nazione etnica e popolare; queste classi agiscono non solo nei termini del loro interesse materiale o di quello legato al loro status, ma anche come espressione e incarnazione dell’identità, dell’unità e dell’indipen­denza della popolazione nazionale, generalmente rappresentata etnica­mente dagli intellettuali e dai ceti professionali, che dirigono le politi­che culturali della nazione e di questa autenticano le eredità, la cultura e i simboli per conto del “popolo”18.

In questa lettura, la nazione riproduce una simbiosi necessaria, anche se r talvolta scomoda, tra componenti etniche e civiche, che si basa su fonda- menta sociali burocratiche e professionali-popolari. Il successo di una qualsivoglia nazione nel mondo moderno dipende proprio da tale sim­biosi e dal relativo supporto sociale. Quest’allineamento di forze sociali - le prime capaci di comandare gli organi dello stato,, le seconde di mobi­lizzare le energie del popolo - si rispecchia nella convergenza tra l’ele­mento etnico e quello civico, con la quale gli individui vengono simulta­neamente considerati cittadini e membri dell’etnia. Quando la simbiosi si dimostra quasi perfetta, quando non c’è discrasia tra la componente etni­ca e quella civica, la cultura e la cittadinanza si rafforzano a vicenda, rea­lizzando pienamente le capacità della nazione. Al contrario, quando la simbiosi viene minata o divisa in due, come avvenne nella Francia di fine Ottocento durante l’affare Dreyfus, oppure quando l’elemento etnico prevale su quello civico - o viceversa - , l’unità e il potere della nazione si indeboliscono, mentre l’etnicità e la cittadinanza possono entrare in con­flitto19.

Si è spesso sostenuto che l’intrusione di fattori etnici e sentimenti di appartenenza collettiva nella vita della nazione genera inevitabilmente fenomeni di intolleranza ed esclusione; questa chiusura etnica è poi vista come la fonte principale di molti degli attuali conflitti nazionali che affliggono il pianeta. L’abituale denigrazione del nazionalismo va in realtà considerata come la condanna di una delle sue forme più comuni: l’etno- nazionalismo e i correlati atteggiamenti di esclusione a sfondo etnico. In ogni caso, i nazionalismi etnici presentano diverse varianti e livelli: alcu­ni sono relativamente pacifici, come i movimento ceco o catalano, altri invece aggressivi e a carattere esclusivo, del tipo osservato in Italia e Germania negli anni precedenti la seconda guerra mondiale o ai giorni nostri nell’ex Jugoslavia. Non esiste inoltre una relazione diretta tra nazio-

18 Sugli interessi ideali, come su quelli materiali, degli intellettuali e della loro missio­ne nazionale vedi M. Weber (1947, “The Nation”) e A. D. Smith (1982).19 Per il modo in cui 1’afFare Dreyfus divise la Francia vedi Kedward (1965). Sui nazio­nalismi civici ed etnici vedi Ignatieff (1993).

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nalismo ed esclusivismo: ancora una volta, i movimenti ceco e catalano ne sono una dimostrazione diretta20.

Il fatto più importante, comunque, è l’incapacità delle interpretazioni comuni di afferrare la natura del nazionalismo civico. Dal punto di vista delle minoranze coinvolte, questo tipo di nazionalismo non sembra né tollerante né equanime, come invece la rappresentazione che esso forni­sce di sé vorrebbe suggerire. Nei fatti, il nazionalismo civico può essere in tutto e per tutto altrettanto rigido e intransigente dell’etnonazionalismo, in quanto spesso richiede, come compenso a livello etnico per l’otteni­mento della cittadinanza e dei vantaggi connessi, l’abbandono della pro­pria comunità e individualità, l’isolamento della religione nella sfera del privato, la delimitazione della cultura e delle tradizioni delle minoranze

! nell’ambito dei confini dello stato nazionale. E in questo modo che il nazionalismo civico francese trattò le élite nere e gli Ebrei: le loro culture e tradizioni furono svilite, le religioni tradizionali disprezzate, emargina­te o soppresse, l’etnicità sradicata. Per diventare cittadini della Francia, essi furono costretti a diventare Francesi ebrei o di colore21.

Quindi, non solo il nazionalismo etnico, ma anche quello civico pos­sono chiedere lo sradicamento delle culture minoritarie e delle comunità proprio in quanto comunità, e ciò in base alle tesi comuni, condivise da liberali e marxisti, non solo dell’uguaglianza attraverso l’uniformità, ma pure dei più grandi valori necessariamente presenti nelle “culture alte” e nelle “grandi nazioni” rispetto alle culture “basse” e alle nazioni e alle etnie minori. La narrazione pedagogica delle democrazie occidentali diventa sotto ogni aspetto altrettanto esigente e rigorosa - e in pratica etnicamente unilaterale - di quella degli stati-nazione autoritari non occidentali, e ciò poiché presume l’assimilazione delle minoranze etniche presenti all’interno dei confini dello stato nazionale attraverso il loro inserimento nella cultura etnica della maggioranza egemone. L’eguaglianza sul piano civile di tutti i connazionali distrugge ogni orga­nismo o forma associativa che fa da intermediario tra stato e cittadini, mentre l’ideologia del nazionalismo civico relega gli usi e i costumi popolari ai margini della società, praticamente alla famiglia e al folclore. Con quest’atto, in modo cosciente e deliberato, il nazionalismo civico delegittima e declassa le culture etniche degli immigrati e delle mino­ranze residenti nello stato.

20 Vedi il cap. 6 di questo volume; per delle critiche vedi Porter (1965). L’esempio opposto dei Catalani si trova in Conversi (1990).21 L’assimilazione delle élite nere e lo svilimento culturale degli africani sono analizza­ti in W. H. Lewis (1985); per il trattamento degli Ebrei nella Francia repubblicana vedi Vital (1975).

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La denigrazione aperta e deliberata di usanze e culture che non siano quelle della “maggioranza civica” egemone ha contribuito a creare l'attua­le crisi interna dello stato nazionale. Non siamo dunque semplicemente in presenza del fatto che lo “stato scientifico” ha invaso ogni settore della società, estendendo le sue leggi, le sue regole e i suoi bisogni a ogni indi­viduo o territorio sotto il suo controllo, senza alcun riguardo verso le dif­ferenze etniche e culturali, ma anche alla sua parallela incapacità di sod­disfare le aspettative sociali ed economiche delle minoranze e dei più poveri (mancanza che dà così più forza alla consapevolezza e alla parteci­pazione di gruppi prima silenziosi o di regioni sfruttate). Ciò che ha estre­mizzato la questione dello “stato-nazione” è stato il suo carattere preva­lentemente multietnico e il risveglio - causato dall’invadenza sociale e dall’irreggimentazione culturale volute dallo “stato scientifico” retto dalle élite dell’etnia dominante - di etnie minoritarie in precedenza assopite e sommerse; a questi fattori si sono poi sommate la mancata soddisfazione delle aspettative popolari e la conseguente e crescente pressione delle minoranze scontente nell’agone politico gestito dal centro e dalla relativa comunità etnica dominante22.Rinforzare e ridefinire lo stato nazionale11 coinvolgimento nella descritta crisi di legittimità di stati nazionali democratici antichi e perlopiù fermamente consolidati, come la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio e persino la Svizzera, ha spinto molte persone a guardare ormai allo stato nazionale come a una forma di associazione politica obsoleta e ad annunciare la fine dell’“età dello stato-nazione”. Con l’eccezione delle pressioni esterne esercitate dalla globalizzazione e dalle spinte per l’unificazione europea, le prove a sostegno di questa visione della situazione provengono dall’attuale revival etnico presente al disotto della realtà rappresentata dallo stato nazionale e originato dalle intrusioni statali e da una democrazia maggioritaria dove prevale l’etnia dominante. Questo revival, che si può sintetizzare nello slogan “L’Europa delle etnie”, sembra quindi minacciare l’integrità e mettere in discussione la legittimità dello stato-nazione stesso. Si sono quindi potute constatare la forza e la portata della rinascita dell’etnonazionalismo in Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, come pure in Asia e Africa, e inoltre verificare la capa­cità di questo fenomeno di ridisegnare la mappa del mondo, nonostante la vigorosa resistenza di stati singoli o associati in comunità. Le disparità regionali, l’ineguale distribuzione delle risorse culturali o il ritorno di vec-

12 Questa pressione della periferia sul centro è studiata da Eisenstadt (1965) e appli­cata, come nuovo modello di spiegazione, agli stati occidentali da Hechter e Levi (1979) eO rridge (1982).

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116 NAZIONI E NAZIONALISMO NELL’ERA GLOBALE

chi antagonismi etnici sono tutti fattori che hanno potuto contribuire a questa rinascita, ma i bisogni fondamentali dello stato nazionale e la rapi­da estensione del potere statale - anche per quanto concerne gli stati colo­niali o postcoloniali —, a cui si associa l’egemonia dell’etnia maggioritaria, danno a tutte queste differenze, ineguaglianze e tensioni un nuovo peso e potere, in quanto, sotto l’egida dell’etnonazionalismo, prima avvicinano e poi mobilitano etnie, regioni e classi sociali escluse23.

Un siffatto tipo di mobilitazione nazionale, comunque, non si limita semplicemente a dissolvere vecchi imperi e stati nazionali: per quanto riguarda questi ultimi, ne crea infatti di nuovi, ciascuno appoggiato su un’etnia dominante. Ciò significa che l’idea, le strutture e il numero stes­so degli stati nazionali hanno ricevuto nuova forza da una rinnovata ondata di pluralismo politico e culturale. Non solo gli stati nazionali si sono numericamente moltiplicati, ma il concetto stesso si è effettiva­mente imposto con maggiore fermezza come la norma base dell’associa­zione politica nel mondo moderno; allo stesso tempo, anche le sue strut­ture sono state rafforzate dalla tendenza a una maggiore omogeneità cul­turale generata dal successo della secessione etnica. Sul piano pratico, ogni secessione produce sicuramente nuove enclave etniche, nuove mino­ranze “intrappolate”, ma gli stati nazionali di fresca formazione sono in genere più solidali e coesivi, poiché organizzati con maggiore saldezza e limpidezza attorno a una precisa etnia dominante (che siano i Cechi, gli Slovacchi, gli Sloveni, i Russi, i Lituani, gli Armeni o i Georgiani). Quest’obiettivo, a ogni modo, era proprio l’aspirazione dei secessionisti, sebbene in alcuni casi la geografia, la storia e la demografia abbiano com­binato le loro forze nel frustrare tali ambizioni — come ad esempio è avvenuto in Bosnia e Lituania o anche in Kazakistan, dove il numero dei Russi ha posto nuovi problemi di coesione e identità a questa neonata repubblica24.

Se vogliamo fare alcune generalizzazioni intorno alle questioni della rinascita o dell’obsolescenza dello stato nazionale, dobbiamo aver presen­ti le seguenti considerazioni:1. Al momento, lo stato nazionale rimane l’unica struttura di associazio­

ne politica riconosciuta internazionalmente. Solo gli “stati nazionali”

23 Esempi tratti dall’Africa subsahariana coloniale e postcoloniale sono contenuti in Markovitz (1977) e Young (1985). Sullo slogan “L’Europa delle etnie” vedi Heraud (1963). Per una teoria del nazionalismo spiegato come prodotto dei bisogni dello stato vedi J. Snyder (1993).24 Un’analisi dell’etnonazionalismo contemporaneo e delle sue prospettive nell’ex Unione Sovietica si trova in Armstrong (1992b); cfr. anche le analisi di casi specifici in G. E. Smith (1990) e Bremmer e Taras (1993).

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LA CRISI DELLO STATO NAZIONALE 117

regolarmente costituiti sono ammessi alle Nazioni Unite e nelle altre organizzazioni internazionali, sebbene le nazioni etniche “aspiranti” possano presenziare come osservatori.

2. Dal 1991, almeno diciotto nuovi stati nazionali hanno ricevuto il rico­noscimento di “stati successori”; anche il principio della secessione etnica in base alla volontà popolare è stato ammesso, pur se con rilut­tanza. Questi atti seguono un lungo periodo di generici rifiuti soste­nuti dalle superpotenze durante i quarant’anni di guerra fredda, che hanno visto le uniche eccezioni alla regola nei casi particolari di Singapore e del Bangladesh.

3. La creazione di nuovi stati nazionali è storicamente proceduta “a onda­te”, in genere successive a periodi di guerra o alla stipula di trattati di pace (gli anni dopo il 1783, 1830, 1878, 1918 e 1945 costituiscono gli esempi più ovvi). In altre parole, la creazione e il riconoscimento di nuovi stati non sono mai stati casi semplici né universalmente accetta­ti, essendo emersi da situazioni costrittive o di conflitto che gli eventi internazionali avevano improvvisamente trasformato. A ogni modo, occorre vedere le cose con una certa cautela e non pronunciarsi in maniera troppo categorica su un tema che, per sua natura, appare talmente esplosivo e imprevedibile25.

4. Dal punto di vista sociologico, le categorie di stati nazionali esisten­ti sono numericamente considerevoli. Da una parte troviamo stati nazionali in sostanza completamente dominati da un’etnia centrale (Polonia, Danimarca, Giappone), mentre all’estremo opposto ci sono stati nazionali profondamente divisi, come Belgio, Canada, Libano, Nigeria, Congo (ex Zaire), Angola, India e Pakistan. Nel mezzo vanno a collocarsi quegli stati dove esiste un’etnia centrale o dominante, ma in cui sono presenti all’interno una o più importan­ti minoranze etniche o nazionali (ad esempio Cina, Vietnam, Indonesia, Birmania, Iran, Egitto, Zimbabwe, Algeria, Messico, Perù, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Romania, Bulgaria e Georgia)26.

5. Anche politicamente, infine, troviamo una notevole differenziazio­ne. Alcuni stati nazionali sono democratici, ma altri autoritari e mal­disposti ad accontentare con facilità le richieste delle loro minoran­ze etniche. In certi stati nazionali, come la Spagna postfranchista e il

25 Vedi Tilly (1975, “Introduction” e “Conclusion”).Per una tipologia delle relazioni stato/etnia vedi Anderson, von der Mehden e Young

(1967), Geertz (1963) e Brass (1985). Per esempi tratti dall’Asia sudorientale vediBrown (1994).

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Canada, i governi che si sono susseguiti hanno messo in campo un grande impegno per accomodare le rimostranze etnonazionali delle varie etnie, mentre in altri, come il Sudan e la Birmania, le richieste e le aspirazioni delle minoranze hanno ricevuto concessioni scarse o nulle. In tutti questi casi, tuttavia, lo stato nazionale rimane l’unica sede di dibattito per la soluzione dei problemi etnici.

Da queste considerazioni sembrerebbe che, nonostante l’ampio spet­tro delle differenze sociopolitiche, la preminenza dello stato nazionale come regola generale non sia stata seriamente sfidata. Sono la condot­ta e l’efficienza dei singoli stati e di loro regimi, accanto alla distribu­zione dei poteri e delle risorse tra le diverse etnie costituenti uno stato nazionale, gli elementi che si trovano in misura sempre maggiormen­te messi in discussione. Nei fatti, i movimenti etnici hanno attuato una sfida vincente al proprio stato nazionale, fondandone uno nuovo basato sull’etnia secessionista, solamente in presenza di un fallimento nella risoluzione dei problemi a cui si è sopra accennato; dove, spesso per ragioni molto differenti, il potere dello stato aveva ricevuto una scossa; o, infine, in virtù della presenza di una superpotenza o di un potente protettore regionale che avevano deciso di appoggiare la causa secessionista27.

I risultati sono stati comunque la rìdefmizione e il rafforzamento del concetto e delle fattezze dello stato nazionale, realizzati attraverso un processo globale di pluralismo politico e culturale. Ciò significa che l’i­deale del nazionalismo di un mondo formato da stati nazionali dotati di una propria unicità ma paritari fra loro, ognuno in possesso di un destino e di un carattere insostituibili - ideale già proclamato nell’Ottocento da Fichte, Mazzini e Michelet - , ha cominciato a per­meare ogni parte del globo e a radicarsi profondamente in tutti i con­tinenti. Il vecchio pluralismo politico di un’Europa formata da stati sovrani e dai loro possedimenti coloniali è stato trasformato, rinforza­to e moltiplicato dal principio nazionalista del pluralismo culturale e dal diritto di ogni cultura-comunità storica - assieme ai suoi miti, tra­dizioni e memorie peculiari - a dotarsi, oltre che di un territorio stori­co, preferibilmente, di un proprio stato sovrano. In questo processo, l’originario ideale di purezza e omogeneità etnonazionale, che persino in passato era andato spesso violato, è sempre più abbandonato a favo­re di un modello di nazionalismo civico impostato sull’“etnia domi­nante”: un modello che implica sia un più cosciente tentativo di abbracciare l’ideale civico sia la simultanea insistenza su uno stato

27 Sulle cause dei movimenti secessionisti vedi Horowitz (1985, cap. 6). Sulle condi­zioni per il loro successo vedi Mayall (1990, cap. 4); cfr. anche Heraclides (1991).

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nazionale puntellato dalla cultura e dalle tradizioni della sua etnia cen­trale o dominante, alla quale la maggior parte dei cittadini sente di appartenere. Questo non semplice compromesso, caratteristico dei primi stati nazionali occidentali, ossessiona gli attuali stati successòri nell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, dove il timore comu­ne, alimentato dalle ondate di immigranti, è che un nazionalismo etni­co del tipo manifestatosi nell’ex Jugoslavia possa ancora una volta riu­scire a far precipitare quelle regioni nel disordine e a ridisegnare così la mappa di ampie zone del mondo. L’esito, ancora una volta, non è la sostituzione dell’idea e delle strutture dello stato nazionale, ma, al con­trario, la sua proliferazione e il suo rafforzamento sul piano etnico28.

In Occidente, tuttavia, sia il modello civico che quello etnico di nazio­ne sono stati messi in discussione e, apparentemente, indeboliti in maniera crescente. Ancora una volta, la massiccia immigrazione, l’in­fluenza degli abitanti delle ex colonie, le ondate di rifugiati e di persone in cerca di asilo e l’impatto dei Gastarbeiter hanno agito da catalizzatori, fornendo il materiale per la ridefinizione nazionale e per un nuovo modo di interpretare i sensi di appartenenza e di attaccamento collettivo. Di conseguenza, abbiamo assistito a tentativi di unire l’ideale civico al più recente concetto di nazione “pluralistica”, mediante il quale le etnie che compongono lo stato nazionale vengono considerate la sede dell’appar­tenenza e dell’attaccamento emotivo. Alle etnie è poi concesso un ampio potere di influenza in ambito socioculturale e, inoltre, sono incoraggia­te a preservare le eredità culturali, che sia tramite accordi federali o doga­nali. L’identità della nazione come unico insieme si esprime però nello stato nazionale, nelle sue leggi, nella cultura pubblica e nei miti di fon­dazione. Gli Stati Uniti d’America hanno fornito un modello per il con­cetto pluralistico di nazione: qui, la preminenza storica della cultura e della lingua bianca anglosassone e puritana, associata ai miti messianici sull’origine e la fondazione, ha offerto una solida base etnica per la suc­cessiva esperienza di pluralismo culturale. Attraverso la lìngua e la cultu­ra inglese, i codici di leggi e la struttura costituzionale regolata da accor­di federali, gli Stati Uniti, a partire dalla fine del XIX secolo, sono riusci­ti a saldare tra loro le successive ondate e generazioni di immigrati. Questo ha permesso alle numerose comunità etniche che formano il paese di acquistare una notevole libertà e disponibilità di risorse in ampi settori della vita sociale, della cultura e persino dell’organizzazione poli­tica (sebbene sia stato a lungo sostenuto che le culture etniche straniere e diverse cominciarono a essere corrose al momento dell’adozione

28 Questi timori sono descritti in Krol (1990) e Gienny (1990). Per un’analisi più completa vedi A. D. Smith (1985).

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del credo americano, con il suo mito “prowidenzialista”, l’eredità etnica e la cultura pubblica dei fondatori anglosassoni). Solo in tempi più recenti l’idea di una genuina diversità etnica nell’ambito di una com­plessiva unità basata sullo stato nazionale e sulla cultura pubblica anglo- sassone ha cominciato a ritagliarsi un maggiore spazio, nonostante non sia assolutamente accettata da tutti.

La qualità più distintiva del nazionalismo americano è il suo fervore inclusivo. Gi Stati Uniti sono uno dei pochissimi stati nazionali che, a dispetto della loro straordinaria diversità, hanno scansato il “problema delle nazionalità”, mentre allo stesso tempo molti dei loro gruppi com­ponenti presentano un profondo senso dell’esistenza di un destino ame­ricano sovrastante ogni cosa. Il paese è certamente disseminato di proble­mi razziali ed etnici, ma, in quanto gli immigrati sono sparpagliati in tutto il continente senza una base territoriale fissa, le rivalità non hanno mai condotto alla nascita di nazionalismi etnici (con l’unica eccezione di uno sporadico episodio che ha interessato alcuni gruppi di neri afroame­ricani negli anni Sessanta del XX secolo). Contemporaneamente, la mag­gior parte dei gruppi etnici immigrati, come pure la maggioranza dei neri e delle popolazioni indiane, ha sottoscritto l’ideale americano storica­mente fondato sulla cultura anglosassone; quando ciò non è avvenuto, come nel caso delle recenti ondate di immigranti ispanici, in molti stati si è verificata una forte, anche se difforme, reazione tra gli americani anglofoni in difesa della lingua inglese29.

In Canada, degli accordi federali similari, senza però la presenza di con­comitanti miti unificanti di origine e fondazione, hanno fatto sì che entro un sovrastante quadro nazionale politico e legale le comunità etniche godessero di ampi poteri nella sfera culturale, politica ed economica. Recentemente, dopo la “rivoluzione silenziosa” del Québec, si è assistito a un crescente impegno in favore della multiculturalità e dell’idea di una nazione pluralistica e multietnica, tanto che, anche in virtù delle conse­guenze delle tendenze secessioniste dei Franco-canadesi, qualcuno potrebbe affermare che la struttura stessa di ogni identità storica puntel­lante la federazione canadese è stata messa a repentaglio. Nella vicenda del Canada, la duplice origine culturale dello stato e della società e le politi­che di immigrazione liberali hanno creato una situazione unica, ormai al limite estremo della sostenibilità di un’identità nazionale.

L’importanza del modello “pluralistico” non dovrebbe comunque esse­re esagerata. Se confrontato con i modelli etnico e civico, solo recente­

29 Una trattazione del nazionalismo messianico statunitense si trova in Kohn (1957) e Tuveson (1968); sull’“etnicità simbolica” degli immigrati bianchi di terza generazione vedi Gans (1979).

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mente esso ha cominciato a disporre di appoggi — e solo in pochi stati nazionali, prevalentemente società di immigrati come Canada, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Argentina. Nella maggioranza di que­sti casi esisteva un’élite etnica dominante - pionieri e coloni creoli o anglosassoni — che ha poi creato il quadro educativo, linguistico e legale del nuovo stato nazionale, fornendo la gran parte dei miti originari e degli eroi (nonostante alcuni di questi siano recentemente stati oggetto di indagini critiche). Solamente dopo alcune decadi, un più largo afflus­so di immigranti ha iniziato a modificare il carattere della comunità nazionale e a pluralizzare la sua identità etnonazionale precedente. L’originale sostegno su base etnica ha però posto dei limiti a quella che possiamo considerare la “nazione pluralistica”, senza però minare com­pletamente le comunità e la loro solidarietà nazionale. Laddove si è anda­ti troppo oltre tali limiti, come in Canada, con la sua duplice eredità etnica, dei miti di fondazione alternativi e un movimento francofono militante, sono state messe in pericolo l’unità e l’integrità dello stato nazionale stesso, insieme al nazionalismo multiculturale e pluralistico. La principale difficoltà per il modello della “nazione pluralistica” è quin­di rivelata dalla sua incapacità di assicurare la necessaria coesione politi­ca in caso di perdita della solidarietà etnica e dell’uniformità civica30.

Anche in Europa occidentale si è assistito al diffondersi, senza chiari limiti, di quel “logoramento degli orli” riscontrato nelle identità nazio­nali ormai invalse nelle vecchie democrazie del continente. L’afflusso di un grande numero di immigranti, Gastarbeiter, rifugiati, abitanti delle ex colonie e stranieri ha certamente alterato l’odierno carattere dell’“identità nazionale” francese, olandese o britannica, che non pos­sono più essere descritte nei termini semplici e relativamente omogenei dell’epoca precedente alla seconda guerra mondiale. Esistono oggi parecchie nuove “facce” nell’identità nazionale di Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi - dove sono sempre comunque state presenti importante differenze - , con inedite variazioni nel colore, nella religio­ne, nella lingua, e così via. A ogni modo, il predominio storico, nume­rico e sociale di comunità “centrali”, egemoni e consolidate da lungo tempo, ha largamente segnato i confini e gran parte del carattere delle identità in mutamento di questi stati nazionali - che sia negli usi della vita pubblica, nella natura delle norme istituzionali e dei codici di legge, nel linguaggio politico e in quello dell’istruzione, nel contenuto di gran

30 Per questi stati a immigrazione “pluralistica” vedi Seton-Watson (1977, cap. 5); sulle loro origini creole vedi Anderson (1983, cap. 4). Per il caso del Canada vedi Pinard e Hamilton (1982) e Laczko (1994). Sul multiculturalismo e i québécoìs in Canada vedi Birch (1989) e Meadwell (1989).

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parte della storia e della letteratura insegnate nelle scuole, nelle tradi­zioni culturali e politiche.

In tutti questi settori, le comunità di stranieri, rifugiati, abitanti delle ex colonie e immigrati hanno fornito dei contributi vitali, il cui effetto cumulativo è stato quello di modificare la personalità ormai acquisita delle vecchie identità nazionali e di offrire una maggiore fluidità e diver­sità d’espressione. Ma, sebbene questi cambiamenti dell’identità abbiano costretto gli stati nazionali a ridefinire alcuni dei loro ruoli e delle loro funzioni, non si è assistito a una diminuzione in termini di attribuzioni e poteri statali. In conclusione, le crisi di legittimità che hanno accompa­gnato tali trasformazioni sono servite a rafforzare la fusione tra stato e identità aH’intemo dei vecchi stati nazionali (almeno per quanto riguarda le comunità centrali e periferiche, anche se ciò può non valere per la mag­gior parte degli immigrati). In qualche caso, il multiculturalismo implici­to nei tentativi di soddisfare alcune delle più grandi comunità di immi­grati ha prodotto una violenta reazione sul piano etnonazionale, che ha portato alla rivendicazione del “carattere originale” dell’etnia dominante e delle tradizioni native dello stato nazionale. Persino in quegli stati nazio­nali che hanno abbracciato il modello civico di nazione, l’etnonazionali- smo della popolazione centrale è una risorsa nascosta che può ancora esse­re mobilitata con efficacia e trasformata nello sciovinismo e nel razzismo esclusivi e aggressivi osservati di recente in Europa e ritenuti da molti individui la naturale espressione di ogni nazionalismo etnico31.

Ancora una volta, i cambiamenti nel carattere delle identità nazionali, persino nelle solide democrazie occidentali, non dovrebbero comunque essere sovrastimati. Le trasformazioni in questione si sono tutte verificate nell’ambito dello stato nazionale stesso, a dispetto degli appelli per l’“Europa” e per una “comunità mondiale” e il frequente utilizzo di con­fronti a livello nazionale. Questi ultimi servono solamente a fornire un sostegno al potere e alla centralità dello stato nazionale a spese delle nazio­ni senza stato e delle comunità di immigrati. Nella casistica relativa agli stati occidentali, ci sono finora sia poche prove di una reale e genuina ero­sione delle identità nazionali popolari fondate sulle stato nazionale in favo­

31 Per la risposta del Front National all’immigrazione musulmana in Francia vedi Husbands (1991). Anche negli Stati Uniti, comunque, si è assistito a una reazione anti- ispanica, mentre in Australia vi è stata una forte critica della destra alle politiche per il multiculturalismo e all’immigrazione proveniente dall’Asia; vedi Castles et al. (1988). In Gran Bretagna è sorta invece una forte opposizione all’immigrazione degli afroca­raibici e degli asiatici; vedi James (1989). Per il contributo femminile al processo di ricostruzione dei confini etnici e nazionali e la necessità di ripensare le concezioni della nazione in modo da includervi anche le donne vedi Yuval-Davis (1993); cfr. anche Gutierrez (1995).

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re di comunità etniche regionali o di immigrati, sia di qualche forte spin­ta in direzione di una concezione della nazione “pluralistica” e multicultu­rale.

In larga misura, questo è il risultato del primato storico dei modelli onnicomprensivi di nazione etnica e civica, prima in Europa e in seguito altrove, ma si tratta anche di una conseguenza della spinta nazionalista a voler legare l’identità nazionale a una comunità politico-territoriale. Ciò vale per entrambi i modelli di identità nazionale: in quello etnico, dove la nazione è immaginata come una comunità popolare di cultura e discen­denza vernacolare in cerca di autonomia politica aH’interno della sua madrepatria storica, la pressione del nazionalismo si indirizza verso la mobilitazione del popolo e la fusione della comunità etnico-popolare con quella politico-territoriale; nel modello civico, in cui la nazione è consi­derata una comunità territoriale di cittadini stretta da leggi comuni e dalla condivìsione di una cultura pubblica e di una religione civile, la tendenza del nazionalismo va verso l’unificazione della cittadinanza nel proprio ter­ritorio nazionale attorno a un insieme di simboli, miti e memorie comu­ni e alla sua fusione con una comunità culturale identificabile. In entram­bi i casi, si ottengono il consolidamento e il rafforzamento dell’ideale e delle strutture dello stato nazionale e la sua combinazione con un’identità nazionale popolare. Questo tentativo di unire e fondere stato e identità nazionale ha costituito un tema centrale della storia europea e mondiale, persino quando dei particolari tentativi di secessione sono falliti, facendo rimanere come unica opzione un nazionalismo culturale ad autonomia limitata. Il principio dell’autodeterminazione nazionale, custodito prima dal movimento della Giovine Europa di Mazzini e, un secolo dopo, dalla Carta delle Nazioni Unite (sebbene con limitate applicazioni), esprime sia la stretta relazione esistente tra nazionalismo etnico e civico, sia la spinta verso la fusione dell’identità e della comunità nazionale popolare con un’i­dentità politico-territoriale e il relativo stato nazionale32.ConclusionePer molti studiosi, il nazionalismo è un movimento che cerca di equipa­rare la nazione allo stato. Essi affermano che senza lo stretto legame tra questi due ultimi soggetti, il nazionalismo avrebbe uno scarso significato a livello politico o sociale. L’elemento di importanza centrale nella storia moderna non starebbe quindi nella misura di nazionalismo in quanto tale, bensì nel fenomeno stesso dello stato nazionale, che i nazionalisti,

32 Sui movimenti della Giovine Italia e della Giovine Europa di Mazzini vedi Mack Smith (1994, cap. 1); per alcune conseguenze attuali del diritto all’autodeterminazio­ne nazionale e alla secessione vedi Beitz (1979, parte III) e Mayall (1990, cap. 4).

LA CRISI DELLO STATO NAZIONALE 123

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attraverso il principio dell’autodeterminazione nazionale, hanno così for­temente elevato e perseguito. Senza la connessione allo stato, il naziona­lismo avrebbe goduto di un interesse meramente folclorico33.

C’è qualcosa di vero in quest’ultima affermazione, ma sono prima neces­sarie delle strette precisazioni. Il programma politico del nazionalismo ha generalmente coinvolto la conquista dello stato da parte della nazione e la fusione, in accordo con il principio dell’autodeterminazione nazionale, di un’identità e di una comunità nazionale e popolare con degli omologhi politico-territoriali. Questo processo sfociava da alcuni dei dogmi basilari dell’ideologia nazionalista; i principi fondamentali del nazionalismo inclu­dono infatti: l’idea che il mondo sia diviso in distinte nazioni, con queste ultime come fonti principali del potere politico; il concetto che sia la nazione l’oggetto supremo della lealtà individuale; la credenza che la nazio­ne debba godere della massima autonomia per essere autentica in un mondo, d’altra parte, composto da altre nazioni. Ma, proprio come pos­siamo constatare che l’ideologia del nazionalismo si focalizza sulla nazione piuttosto che sullo stato, così nella pratica riscontriamo casi in cui la mas­sima autonomia non dipende minimamente dallo stato e dove la comunità nazionale sembra appagata da uno status politico federale o particolare, come in Scozia e Catalogna (almeno sino a oggi). Queste due ultime osser­vazioni sono strettamente collegate: è la nazione che va alimentata, protet­ta e resa forte, e ogni sistemazione che permetterà tale protezione e confe­rirà tale forza sarà considerata quella appropriata. Lo stato territoriale è il candidato più ovvio e situato nella migliore posizione per svolgere questo ruolo protettivo, ma non è l’unico. Ne consegue che la spinta per la corri­spondenza tra stato e nazione è una componente del nazionalismo fre­quente ed energica, ma sotto nessun aspetto inevitabile.

Queste considerazioni implicano pure che il nazionalismo, in tutte le sue forme, andrebbe separato dallo stato nazionale, e lo stesso vale per l’i­dentità nazionale e la sovranità statale. L’obiettivo del nazionalismo è fare della nazione civica o etnica il modello e la misura dello stato, e ottenere che quest’ultimo sia succube, ed espressione, della volontà nazionale. Da questo punto di vista, il nazionalismo aggiunge alle classiche formulazio­ni democratiche l’ideale di una comunità storica di cittadini che condivi­de la stessa cultura ideologica pubblica - o, nella versione etnica, la stes­sa cultura ancestrale ed eredità vernacolare. E la voce del popolo - defi­nito come la nazione (civica o etnica) — che deve venire ascoltata e alla cui volontà bisognerà obbedire; è lo stato nazionale è l’unico soggetto a udire solamente la voce del popolo e a eseguire solo la sua volontà. In sé e di per sé, lo stato non è altro che uno strumento per l’esecuzione della

33 Vedi Kedourie (1960), Tivey (1980, “Introduction” e cap. 3), Breully (1982, “Introduction”), Giddens (1985, pp. 116-21, 209-21) e Hobsbawn (1990, cap. 1).

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LA CRISI DELLO STATO NAZIONALE 125

volontà nazionale, mentre il significato della nazione e del nazionalismo risiedono nella loro capacità di poter mobilitare un largo numero di per­sone in ogni zona del pianeta per un’azione politica concertata, attraver­so o contro lo stato e il sistema statale odierno.

Per afferrare il significato del nazionalismo nel mondo moderno, non è sufficiente mettere allo scoperto la sua secolare pressione per forgiare degli stati nazionali. Anche la direzione di questa spinta va compresa: dalla cul­tura alla politica, dalla comunità-cultura storica allo stato nazionale com­posto da cittadini. Lo stato che il nazionalismo ambisce a creare è una società civile definita e rivestita dalla cultura, che trae la sua raison d ’etre, come anche il suo carattere, dalla cultura storica dell’etnia dominante o, più raramente, dalla cultura storica di più di un’etnia. Ciò è vero anche in quei casi dove molti dei cittadini si sono solo di recente aggiunti alla comunità nazionale. Ancora una volta, entro ogni singolo stato naziona­le, il carattere e la formazione della nazione civica rivelano il potere coe­sivo e il primato storico delle comunità nazionali, accanto ai loro simbo­li, miti, valori e memorie.

Lo stato nazionale, a sua volta, attinge il suo potere e il suo sostegno dall’etnia dominante attorno alla quale si è formato e che essa aveva con­tribuito allo stesso tempo a unire e consolidare. A questo si era arrivati esprimendo e concretizzando la “volontà” del popolo, che lo stato aveva aiutato a modellare in una nazione coesiva, dotata di una cultura pubbli­ca e di un sistema d’istruzione uguali per tutti i cittadini. Persino dove tale cultura presentava delle varianti riconosciute, come nelle differenti lingue della Svizzera, l’identità nazionale emergente dall’interazione fra etnia dominante e stato territoriale è ora comunque espressa attraverso una sin­gola cultura pubblica e un insieme prioritario di miti etnici e memorie storiche, usualmente - anche se non invariabilmente - adottati da grup­pi e individui che hanno aderito più tardi allo stato nazionale (come nel caso dei cantoni francofoni e italofoni della Svizzera o delle successive ondate di immigranti verso partiti gli Stati Uniti o l’Australia). La descrit­ta cultura non è necessariamente omogenea o uniforme; nei fatti, può risultare compenetrata da molti elementi etnici e linguistici e rivelare inoltre sottili varianti regionali. Essa è però sufficientemente inclusiva e comune a tutti i cittadini per essere condivisa a livello pubblico, come anche per fornire loro un sentimento di affinità culturale con gli altri membri della comunità e un senso di distinzione dagli estranei34.

Questo reciproco sostegno tra stato e nazione ha assicurato allo stato nazionale la sua sopravvivenza e la sua capacità di recupero come forma

34 Per le varianti neH’identifìcazione culturale e politica degli Svizzeri e per i legami tra­sversali vedi Warburton (1976) e Steinberg (1976, cap. 2).

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di ordinamento culturale, e così continua a fare tuttora. Anche quando il conseguimento di un’entità statale non si dimostra strettamente necessa­rio per far sì che il nazionalismo consegua i suoi obiettivi — come nei casi di nazionalismo culturale o di autonomia (home rule) - , questa rimane comunque la normale modalità di autorealizzazione nazionale nel mondo moderno. Ciò avviene in parte per il senso di protezione fisica e psicolo­gica che il citato sostegno reciproco concede - come del resto i naziona­listi non si stancano mai di ripetere — e in parte a causa del riconosci­mento che in generale un sistema di stati nazionali conferisce a coloro i quali si conformano ai suoi principi. Ma questo è anche il risultato di uno sviluppo storico in base al quale i primi stati moderni professionalizzati con grande successo - Inghilterra (poi Gran Bretagna) e Francia - sono poi divenuti i modelli per un’identità nazionale coesiva fondata su un’et­nia centrale o dominante. Il modello anglo-francese, relativamente com­patto, rimane il più influente sulla scena internazionale. E più malleabile e imitato del modello “pluralistico” americano, che resta difficile da imi­tare a causa della sua grandezza, della sua scala, delle risorse di cui dispo­ne e del peculiare sistema di bilanciamento e controllo racchiuso nella sua Costituzione federale: tutte caratteristiche che mal si adattano alle esi­genze degli “stati-nazione” di Asia e Africa, più piccoli, più poveri e svi­luppatisi in periodi seguenti. Accanto a queste ragioni, il modello anglo­francese dimostra pure una sua priorità storica: la maggior parte degli “stati nazione” deve la sua esistenza come entità statale — e lo stesso vale per i loro confini - alle potenze coloniali europee, principalmente Francia e Gran Bretagna (ed è a queste che essi guardano ancora come a un modello fondamentale in base al quale la società e lo stato nazionale dovrebbero essere formati e configurati)35.

Fino a quando questo reciproco sostegno continuerà, fino a quando gli stati proteggeranno e plasmeranno le identità nazionali, attingendo allo stesso tempo il proprio potere e consenso dalla cultura-comunità mobili­tata nel loro nucleo centrale, gli stati nazionali rimarranno gli attori poli­tici principali del mondo moderno: è in questi ultimi, sovrani e territo­rialmente delimitati, che gli individui del nostro pianeta continueranno a indirizzare la loro fede e la loro lealtà.

35 Vedi Zartmann (1963) per il concetto di “stato-nazione” - cioè di uno stato che tenta di forgiare una nazione - in Africa e Asia; sull’influenza del colonialismo e del nazionalismo inglese e francese in Africa vedi Crowder (1968); per l’influenza dei con­fini territoriali sulle politiche etniche in Asia e Africa vedi Horowitz (1985, cap. 2).

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Sovra- o super-nazionalismo?

Se lo stato nazionale è afflitto da una crisi interna, esso si trova anche minacciato da forze esterne. Il suo ruolo come principale attore cultura­le, politico ed economico del globo è stato improvvisamente messo in discussione. Sebbene tale questione sia stata toccata nel capitolo 1 di que­sto volume, è necessario affrontarla più profondamente, in particolar modo alla luce dei recenti sviluppi politici che hanno interessato l’Europa.

Lo stato nazionale, a quanto sembra, conserva buone capacità di recu­pero, e anche le identità nazionali, pur se periodicamente rimodellate, non sono ancora sul punto di sfiorire. Se questa è la situazione, possiamo seriamente considerare l’idea di un mondo senza nazioni o nazionalismo, di un mondo dove gli stati nazionali consegnano spontaneamente i loro poteri a qualche organizzazione a livello continentale o planetario che si sostituirà alla nazione come oggetto della lealtà e dei sentimenti passio­nali della maggioranza degli individui?

Tale questione ha assunto nuovi risvolti d’attualità. Il fatto che nella metà occidentale dell’Europa lo stato nazionale sembra essere impegnato a spogliarsi dei suoi poteri, mentre in quella orientale appare ugualmente impaziente di riappropriarsi degli stessi dopo il lungo “inverno sovietico” di passività politica, ha aumentato il senso del paradosso, come del resto hanno dimostrato i tragici eventi di Bosnia, proprio a due passi dai terri­tori dell’Unione Europea.Verso una federazione regionale?Il problema che ho qui presentato non è nuovo. Ernest Renan, nella sua celebrata conferenza tenuta nel 1882 e intitolata Quest ce quune nation?,

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profetizzò la venuta di un’epoca nella quale l’Europa si sarebbe trovata unita in una sorta di federazione, aggiungendo però che tale evoluzione politica non era ancora possibile al tempo in cui egli viveva. Dopo oltre un secolo il problema si ripropone, sia in Europa che altrove1.

L’ammonimento di Renan si innesta in particolare sull’ormai familiare tesi secondo cui, a causa della scomparsa dello stato nazionale, una fede­razione a livello continental-regionale costituirebbe la struttura politica che meglio potrebbe esprimere e servire la configurazione economica assunta dalle grandi compagnie multinazionali e dalle società dell’era “postnazionale”. In sintesi, quest’opinione vuole in primo luogo sostene­re che lo stato nazionale non è più in grado di soddisfare i bisogni e gli interessi del mondo degli affari e dell’economia di mercato del capitali­smo avanzato e, inoltre, che esso non rappresenta più il punto focale della tecnologia militare e della sovranità; in secondo luogo, vuole indicare che una federazione continental-regionale, più attrezzata sia per venire incon­tro alle necessità del capitalismo transnazionale sia come ambito della sovranità, è adatta specialmente a quelle popolazioni che condividono un forte legame storico e una stessa eredità culturale.

La prima di queste rivendicazioni, essendo un argomento familiare che abbiamo in qualche modo esaminato nel capitolo 1, non ha bisogno di approfondimenti. Il nostro interesse non verte infatti sugli attori e le pra­tiche transnazionali per se, ma solo sull’impatto che hanno sulla nazione e lo stato nazionale. Mentre è vero che molte operazioni e istituzioni eco­nomiche trascendono lo stato nazionale - com’è del resto sempre avve­nuto - , è ugualmente ovvio che le economie nazionali permangono l’u­nità standard di regolamentazione e di distribuzione delle risorse. Al pre­sente, è difficile vedere come potrebbe essere altrimenti, mancando un ritorno alle strutture imperiali o il salto verso un sistema-mondo total­mente unificato che possa includere tutta l’umanità in una singola unità politica ed economica. Persino in termini di dati politici, sociali ed eco­nomici, lo stato nazionale resta quindi il principale fattore di riferimento, mentre il “nazionalismo metodologico” si conferma la regola2.

Dal punto di vista empirico, è certo che un elevato numero di compa­gnie multinazionali occupa il globo e che le loro attività sono ben poco' ostacolate dalle frontiere nazionali. Allo stesso tempo, però, siccome tali compagnie tendono a porre le proprie basi in uno o più stati industria- lizzati, che agiscono da centro delle loro operazioni, esse risultano vulne­rabili alle regole e alle politiche dello stato in questione. Le risorse a dispo­sizione delle maggiori multinazionali sono indubbiamente enormi, e in

1 Vedi Renan (1882).2 Vedi Merritt e Rokkan (1966).

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molti casi maggiori dei bilanci di tanti piccoli o medi paesi, ma queste imprese non possono comunque violare le regole dei più grandi stati nazionali, in cui di solito non controllano gli strumenti di violenza che sono a disposizione anche di entità statali non molto vaste. Vi sono evi­denti prove dell’esistenza di un sistema transnazionale composto da atto­ri economici - finanzieri, banchieri, alti dirigenti - per i quali le barriere nazionali sono sempre di più degli ostacoli irrilevanti; i ceti politici le élite transazionali devono alla fine influenzare e convincere rimangono però tuttora responsabili anche di fronte ad altri gruppi presenti all’interno di ogni stato nazionale, e attraverso il sistema elettorale, alla popolazione sta­tale nel suo insieme3.

Per quanto concerne poi il potere militare, l’internazionalizzazione delle strutture di comando ha certamente prestato dei sostegni alle tesi secon­do cui lo stato nazionale non è più la sede principale delle forze armate. Questo è particolarmente vero per l’apparato delle armi nucleari, nono­stante dei recenti dibattiti in Francia, Ucraina e Corea del Nord indichi­no l’opportunità di dover considerare la situazione con una certa cautela. Inoltre, al livello convenzionale al quale le guerre sono oggi combattute,lo stato nazionale rimane il centro fondamentale della violenza e della tec­nologia militare, come anche il principale fornitore e procacciatore di armamenti. Inoltre, finché manterrà questa prerogativa, lo stato naziona­le resta essenzialmente sovrano: si può ritirare dagli accordi e sostenere il suo rifiuto con il potere necessario, sebbene al costo di severi sacrifici eco­nomici. La storia è ricca di casi di comunità che sono state disposte a pagare tale prezzo al fine di liberarsi, anche a rischio di soccombere4.

Intendo comunque prendere in considerazione la seconda delle prece­denti affermazioni: infatti, anche se lo stato nazionale mantenesse un ruolo importante sia nel settore economico che in quello militare della società industriale avanzata, a lungo termine le associazioni e le federa­zioni su scala continental-regionale non si rivelerebbero più adeguate? E però innegabile che, avendo fatto registrare pochi casi di successo politi­co, lo stato di servizio di tali federazioni o associazioni non è incorag­giante: l’unione di Siria ed Egitto nella Repubblica Araba Unita (r a u ) ebbe vita breve, come anche l’inclusione di Singapore nella Malaysia o il limitato successo della fusione fra i tre stati dell’Africa orientale di Kenya, Uganda e Tanzania, e lo stesso discorso vale anche per l’abortita Federazione dell’Africa occidentale. In altre occasioni, delle strutture

3 Per un’esplicita esposizione del dominio del capitalismo transnazionale vedi Sklair (1991).4 Sulla relazione di guerra e strategia con le identità nazionali vedi Marvick (1974), A. D. Smith (1981 b) e Posen (1993).

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federali sono state sottoposte a forti tensioni, come in Belgio, India e Canada. Nell’ex Unione Sovietica, una versione centralizzata di federali­smo è collassata, e resta ora da vedere se qualche sorta di arrangiamento federale più blando riuscirà o no a tenere. Se si guarda poi alla Jugoslavia, rimane difficile da immaginare come si possa salvare qualcosa dal naufra­gio dello stato-partito di Tito.

I casi in cui delle federazioni hanno sostenuto la prova del tempo, in particolare gli Stati Uniti, l’Australia e la Svizzera, sono dipesi da una certa dose di iniziale affinità storica e culturale tra la popolazione. Vi era in essiil puntello di un’etnia centrale, oppure, nel caso degli Stati Uniti, di una larga base costituita da un’etnia maggioritaria. Ancora una volta, un nucleo etnico ha formato il substrato storico e culturale per una più alta percentuale di decentralizzazione e di delega dei poteri, aiutando nello stesso tempo il senso di solidarietà.

Ma le associazioni e le federazioni continental-regionali possono avere funzioni più ampie e fondamenta più profonde: mi sto riferendo a quel­le associazioni innalzate sulla base di affinità culturali e abbraccianti un’i­deologia “pan-nazionale”. Il panarabismo, il panafricanismo, il pantur­chismo, il panlatinoamericanismo ne sono degli esempi. Sono poi esistiti anche il pangermanesimo e il panslavismo di fine Ottocento, spesso tra­mutatisi nell’irredentismo tedesco e russo. Anche il panturchismo è stato sovente utilizzato per fini irredentistici dal regime dei Giovani Turchi — servendo a giustificare massacri e “spostamenti” di Armeni - attraverso l’appello alle affinità linguistiche e razziali delle comunità turcofone, fra cui i Mongoli!5.

Le funzioni di questi “pan-nazionalismi” sono ambivalenti. Da una parte, essi sembrano suggerire una sostituzione dello stato nazionale esi­stente nell’interesse di superstati o supernazioni di maggiore ampiezza. Sotto un altro aspetto, però, puntellano lo stato nazionale, collegandolo a una struttura più ampia di stati “protetti” e rafforzando il suo profilo cul­turale e la sua identità storica con l’opposizione a nemici e vicini cultu­ralmente differenti. I “pan-nazionalismi” forniscono un ennesimo assor­timento di “guardie di confine” e una nuova panoplia di simboli, miti, memorie e valori, che contraddistinguono un dato stato nazionale dagli altri. “Noi siamo tutti Africani” divenne negli anni Sessanta non solo uno slogan dei popoli colonizzati e spodestati, ma anche un’affermazione di diversità e dignità raggiungibili per mezzo dell’unità culturale6.

5 Per esempi dei successi culturali e del fallimento politico dei “pan’-movimenti vedi Kohn (1960) per il panslavismo e Landau (1981) per il panturchismo.6 Su questo slogan vedi Mazrui (1966). Per una storia completa del panafricanismo vedi Geiss (1974).

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Da un punto di vista più strettamente politico, i “pan-nazionalismi” costituiscono dei fallimenti. Essi hanno svolto una certa funzione come forum politici e centri d’influenza regionale, ma ben difficilmente facilita­no l’apertura di relazioni politiche o economiche che possono o potrebbe­ro soppiantare gli stati nazionali (se mai questo fosse stato il traguardo cui ambivano). Al contrario, si può pensare che la loro funzione sia normaliz­zare, e quindi legittimare, lo stato nazionale stesso. Alla fine, queste vaste associazioni su scala continentale o regionale dipendono dalla buona volontà e dalla cooperazione dei loro membri individuali, come si è potuto constatare in occasione della sfida lanciata da Saddam Hussein alla Lega araba poco prima della guerra del Golfo. Si suppone, comunque, che la cooperazione e l’associazione tra stati culturalmente affini possano esercita­re determinate pressioni nell’arena internazionale e sulla pubblica opinione, in parte attraverso l’uso di stereotipi positivi e in parte a causa della forma­zione di blocchi di voti. Persino al più limitato livello dei progetti intersta­tali di ambito economico o ecologico, le analogie culturali e le ideologie “pan-nazionaliste” possono rafforzare la cooperazione e le intese, sebbene gli stati nazionali abbiano sempre collaborato intorno a progetti e questioni specifiche giudicate rientranti all’interno del proprio “interesse nazionale”. E dunque un errore pensare che lo stato nazionale abbia mai raggiunto quella sovranità e quell’indipendenza delle quali gli piace ornarsi7.

Il rapido sviluppo delle telecomunicazioni e dei mass media ha senza dubbio incoraggiato la creazione di un’ampia rete su scala regionale e con­tinentale. E necessario quindi esplorare il grado al quale le associazioni con- tinental-regionali strutturate sul “pan-nazionalismo” possono generare cul­ture e identità predominanti in grado di competere con lo stato nazionale e le identità etniche, o persino di soppiantarli. Come sosterrò, queste asso­ciazioni regionali su base culturale sono capaci di soddisfare — e talvolta ci riescono - rilevanti esigenze sociali, culturali e filantropiche: per tale moti­vo non andrebbero scartate a priori, persino dal dominio della politica.Il progetto europeoQuanto detto non va scordato al momento di considerare l’impatto del nazionalismo e dello stato nazionale sulla crescente spinta alla formazio­ne di un’unità europea. E facile considerare questa relazione in termini esattamente contrapposti e a somma zero: più forte sarà l’Unione Europea, minore sarà l’identità nazionale di ogni singolo stato nazionale membro. Indubbiamente, quest’idea aleggia intorno al dibattito, spesso acceso, tra i pro- e gli anti-europeisti in Gran Bretagna e altrove, sebbene

7 Sui limiti del nazionalismo economico vedi Johnson (1968) e Mayall (1990, cap. 5).

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si colleghi poi ad altre dispute (sulla democratizzazione, lo stato sociale, l’allargamento dell’Unione Europea stessa). Gettando la sua lunga ombra attraverso il continente, da est a ovest, lo “spettro del nazionalismo” rifiu­ta dunque di essere esorcizzato.

Possiamo cominciare riconsiderando le vecchie e tanto ripetute dispute tra fìloeuropei ed euroscettici. A grandi linee, i filoeuropei sostengono che si debba “creare l’Europa” mediante uno stato federale (una minoranza diceva unitario), chiudendo in questo modo migliaia d’anni di distrutti­vi conflitti europei e le guerre nazionalistiche che hanno portato alle car­neficine cui abbiamo assistito nel XX secolo. Essi continuano poi a suffra­gare la loro causa affermando che l’Europa potrà in tal modo restaurare la sua precedente posizione di “grande potenza” sulla scena mondiale, alla pari con l’America, il Giappone e forse la Russia (l’ex Unione Sovietica); per mezzo di quest’unità e attraverso la creazione di un mercato libero dei beni e del lavoro, i popoli europei godranno di una prosperità mai cono­sciuta all’interno dei loro confini doganali. Gli antieuropeisti ribattono affermando che la ragioni primarie dell’unità europea sono state la guer­ra fredda e il relativo bisogno di opporsi al potere russo-sovietico e/o ame­ricano; essi aggiungono poi che il mercato interno favorirà solo alcune delle maggiori potenze europee e a spese degli stati minori; la chiusura dell’Unione Europea pregiudicherà economicamente il Terzo Mondo; un “club europeo” diverrà dal punto di vista politico-economico un insieme esclusivo. Con queste argomentazioni, gli antieuropeisti vogliono anche evidenziare sia l’aumento della possibilità che la Germania assuma il dominio politico ed economico di un’Europa unificata, sia la crescente tendenza all’esclusivismo razziale ed etnico che porterà necessariamente un’unificazione del continente. In breve, questa fazione considera la coo­perazione europea un benefìcio per gli interessi e i più ampi valori dei popoli, ma vede l’unificazione come un passo deleterio. L’“Europa delle Patrie” di De Gaulle continua a rimanere il suo ideale8.

Vi è poi un parallelo dibattito tra euro-ottimisti ed euro-pessimisti. Si tratta di una disputa che coinvolge le probabilità e i meccanismi di rea­lizzazione dell’unità. A causa dell’andamento economico e del sostegno delle generazioni più giovani, a giudizio degli euro-ottimisti il clima per la “creazione dell’Europa” sembra propizio e le possibilità di successo quindi alte (a patto che le precondizioni di un leadership vigorosa e di un quadro istituzionale ben disegnato vengano soddisfatte). L’Europa del futuro è un’Europa di network istituzionali retti dalle norme di una democrazia civile e sociale, che possa bilanciare i bisogni del mercato con

8 Vedi Gladwyn (1967) sul pro-europeismo; per il dibattito originato negli anni Sessanta dal gollismo vedi Camps (1965).

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i diritti umani sotto l’egida di un organismo burocratico imparziale e pre­sente in ogni settore, la Commissione, e di un ugualmente rispettato ramo giudiziario, la Corte europea di giustizia. Una variante di questo concetto sostiene invece che un forte esecutivo andrebbe bilanciato da un’altrettanto forte assemblea legislativa, in modo da garantire una mag­giore dose di controllo democratico e d’assunzione di responsabilità delle euroburocrazie.

Gli euro-pessimisti considerano le possibilità di riuscita dell’unificazio­ne europea molto remote a ogni livello, escluso il più superficiale (e buro­cratico), e guardano alla marea crescente del nazionalismo etnico, che sembra posporre il progetto ancora più lontano nel tempo. Rendere più incisiva la leadership e rafforzare le istituzioni non permetterà quindi di forgiare nessuna genuina unità europea a livello popolare, a meno che - e finché — non si assisterà a un’adeguata evoluzione dei sentimenti, delle percezioni e delle attitudini dei popoli che allontani dalla nazione e dallo stato nazionale e porti verso un’identità europea a carattere inclusivo. L’Europa del futuro, se mai dovesse emergere, sarà un’entità caratterizza­ta dall’identificazione di massa e dalla lealtà a un ideale europeo paralleloo persino capace di sostituire le identità e le devozioni nazionali, e in una misura tale da far sì che dei larghi segmenti di abitanti del Vecchio Continente non solo si vedano come i primi e i preminenti “Europei”, ma siano addirittura pronti a sacrificarsi per quest’ideale9.

Dietro le precedenti argomentazioni si notano valutazioni molto diffe­renti del reale valore dell’opera di aver legato gli individui all’Europa, vale a dire, alla nazione e allo stato nazionale. Le tesi economiche e politiche sperano, e spesso temono, di nascondere le molto più vaghe ed elusive problematiche connesse alla cultura nazionale, riguardanti i valori, i sim­boli, i miti, le memorie e le tradizioni che saldano i popoli fra loro, con­federandogli un destino e una caratterizzazione peculiari. Qual è la natu­ra di tali fattori culturali e di tali eredità rispetto a ciascuna comunità? Come questa natura è mutata nei recenti decenni? E quale sarà l’impatto dell’Europa su quest’insieme di culture e identità?

In proposito due punti vanno tenuti ben presenti. Il primo interessa la differente portata delle identità culturali a livello nazionale e collettivo. A livello individuale, infatti, le identità sono multiple e spesso situazionali. Come accennato nel capitolo 2, gli esseri umani possiedono identità mul­tiple - familiari, di genere, di classe, religiose, etniche e nazionali - , che di volta in volta, in relazione a molte circostanze, prendono la precedenza sulle altre. Nella nostra patria sentiamo di appartenere, e di fatto apparteniamo,

9 Per una storia del processo di avvicinamento all’integrazione europea vedi Wallace (1990).

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a una particolare classe o territorio; all’estero ci consideriamo, e siamo con­siderati, membri di un determinato gruppo nazionale o etnico. In altre occasioni, sarà invece la fede religiosa a definire la nostra identità, mentre per alcuni individui questa funzione sarà svolta dal genere o la famiglia. In pratica, gli esseri umani tendono, in queste situazioni, a passare da un’i­dentità a un’altra con relativa facilità e in accordo con le situazioni e il con­testo. Solo occasionalmente queste identità multiple causano delle reali fri­zioni, e solo raramente entrano in reale conflitto fra loro10.

Eppure le identità non sono solo solamente di tipo “situazionale”, ma possono essere anche pervasive. A livello collettivo, non sono le opzioni ei sentimenti degli individui a interessare, bensì la natura del legame comune. Mediante la socializzazione, la comunicazione, e talvolta la coer­cizione, ci troviamo legati a particolari identità fin dalla nascita. Possiamo cercare di resistere a questo potere, ma i nostri sforzi potrebbero rilevarsi inefficaci. Ciò accade frequentemente nel caso di legami etnici e naziona­li, e ci sono buoni esempi di quello che Émile Durkheim avrebbe descrit­to come la qualità avvolgente, generica ed esterna dei fatti sociali. Generazione dopo generazione, i legami identitari esercitano quindi una forte presenza nelle nostre vite, e possono rimanere forze durevoli e resi­lienti, noncuranti delle defezioni di un numero anche grande di indivi­dui. La sopravvivenza di tante nazioni e gruppi etnici molto antichi, mal­grado le rinunce individuali e il logoramento - vedi i casi degli Armeni, degli Ebrei, dei Cinesi o dei Giapponesi - , è un segno evidente dalla per­sistenza di almeno un certo numero di legami e di confini etnici nel corso dei millenni, nonostante le trasformazioni periodiche dei contesti cultu­rali, le espulsioni di massa e le defezioni di membri delle comunità11.

Teoricamente, inoltre, sarebbe perfettamente possibile per i popoli europei sentire di appartenere a più di un’identità culturale collettiva, cioè considerare se stessi Siciliani, Italiani ed Europei, oppure Fiamminghi, Belgi ed Europei (e allo stesso tempo sentirsi anche donne, appartenenti alla classe media, musulmani, ecc.). Ma, contemporaneamente, bisogne­rebbe anche chiedersi: quel è la forza relativa di queste “cerchie concen­triche di devozione”? Quali di queste “cerchie” hanno una connotazione politica decisiva? Quale di esse presenta la maggiore influenza sulle vite delle persone di oggi? E infine, quali tra queste lealtà e identità culturali è probabilmente la più duratura e pervasiva?12

10 Vedi il cap. 2, le note 2-3 di questo capitolo e A. D. Smith (1991, cap. 1).11 Per una spiegazione della sopravvivenza di queste etnie vedi Armstrong (1982) e A. D. Smith (1986a, cap. 5); per la teoria del confine sociale vedi Barth (1969, Introduction).12 I “circoli concentrici di devozione” sono analizzati in Coleman (1958).

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Il secondo punto da considerare riguarda il fatto che, in base alle diffe­renti aspettative, l’unificazione europea — se e quando verrà - indica e può indicare cose molto differenti. Nel linguaggio comune, questo termine assume spesso il significato connesso alla semplice creazione di un merca­to comune, privo di alcuna connotazione politica; in alternativa, esso può intendere un impegno in funzione federale, considerata il compimento dell’unione economica. Nessuna delle due interpretazioni contiene comunque dei riferimenti a un’unificazione a livello culturale. E vero che ritroviamo spesso il tacito assunto che il federalismo implica una certa dose di convergenza culturale, almeno in termini di un’identità e di una comunità europea sovrastante le già esistenti identità nazionali, ma que­sto è però combinare la politica con la cultura; sebbene queste ultime pos­sano trovarsi strettamente legate in casi particolari, i due campi andreb­bero tenuti separati13.

In ambito europeo, la tendenza moderna può essere ritrovata nell’equi­parazione di identità e stato nazionale, ma accomunare le sovranità non è la stessa cosa di fondere culture o amalgamare identità; inoltre, la crea­zione di un “super-stato” europeo non è l’identica cosa della formazione di una “super-nazione” europea. La spartizione dello stato polacco di fine Settecento, ad esempio, non comportò la scomparsa del suo popolo o della sua cultura. La conquista delle tribù cattoliche irlandesi da parte dei protestanti inglesi e l’unione fra Inghilterra e Irlanda dopo il 1800 rafforzò in modo efficace la cultura indigena e il senso di una comune etnicità irlandese. Neanche un’unione monetaria o economica implica la perdita della cultura e della tradizione di un dato soggetto. Dopotutto, i Valloni e i Fiamminghi, gli Inglesi e gli Scozzesi, i Baschi e i Castigliani sono associati in unioni economiche e politiche, ma nessuna di queste etnie o nazioni ha perso qualcosa della sua peculiarità culturale. È ben dif­ficile immaginare, poi, come un’unione economica o politica, o una fede­razione europea, possano eliminare o cominciare a erodere le culture e le identità storiche tanto profondamente radicate nei molti ed eterogenei popoli dell’Europa14.

13 Nell’antica Grecia, ad esempio, una comune cultura ellenica non produsse un’u­nione politica delle città-stato, sebbene alcune di queste furono indotte ad aderire alla Lega peloponnesiaca e alla Lega di Deio, condotte rispettivamente da Sparta e Atene (ciò si verificò anche durante alleanze successive). Di converso, l’unione politica del Belgio non ha dato vita a una cultura comune. Vedi Finley (1986, cap. 7) sull’antica Grecia e Zolberg (1977) sul Belgio.14 Vedi Davies (1982) per la storia della Polonia dopo le spartizioni; vedi Boyce (1982) per la storia irlandese nel XIX secolo. Per il caso dei Cechi e degli Slovacchi, uniti nel periodo tra le due guerre mondiali e sotto il comuniSmo ma culturalmente separati, vedi Pynsent (1994, cap. 4).

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Se poi una cale unione o federazione politica, accanto a essere possibi­le, sia anche desiderabile, è un’altra questione. Che la creazione in pochi decenni di una sorta di unione federativa sia per la maggior parte del con­tinente ormai in vista è un fatto non più in discussione. Quanto a fondo essa si radicherà, o in che misura i suoi poteri invaderanno nei settori vita­li quelli degli stati che la costituiscono, è ancora da stabilirsi. A ogni modo, tutte queste problematiche non dovrebbero andar confuse con la ben distinta questione della creazione di una cultura comune e di un’i­dentità condivise a livello realmente europeo.Un’identità europea?Siamo quindi in presenza di due contrastanti modelli di creazione di identità culturali collettive. Il primo riguarda le identità come artefatti costruiti socialmente, che possono essere prodotti e foggiati da una pro­grammazione e degli interventi attivi. Secondo questa visione, la crea­zione di un’identità culturale europea è parte di un processo dinamico di formazione di un quadro istituzionale per una comunità politica. Proprio come la “Germania”, sotto l’aspetto di identità culturale, è stata edificata attraverso il processo di preparazione della Zollverein del Reich bismarckiano, così l’“identità europea” emergerà dalla volontà attiva e dalla programmazione deliberata di leader ed élite dalle idee chiare e dalle prospettive ben determinata. In base a questa visione militante e focalizzata sulle élite, un’identità europea si diffonderà prevalentemente alla stessa stregua della cultura etico-aristocratica nelle etnie “laterali”, vale a dire tramite un processo di incorporazione burocratica delle classi medie e basse e delle regioni più periferiche condotto dall’élite guida centrale15.

Il secondo modello vede le identità culturali come il precipitato di generazioni di esperienze e memorie comuni. In quest’interpretazione, un’identità europea, se dovesse materializzarsi, si evolverebbe probabil­mente attraverso un processo lento, incipiente e spesso non pianificato, e solo alcuni aspetti selezionati sarebbero il risultato di tentativi di pro­grammazione deliberata. Come indicano gli euro-pessimisti, le unioni politiche ed economiche possono essere create consciamente formando infrastrutture comuni e identità collettive. D ’altra parte, queste ultime sono il prodotto dì un insieme di tradizioni culturali, politiche e sociali, valori, memorie e simboli a livello popolare che si sono fusi col tempo per

15 Sull’“analogia” tedesca vedi Breully (1982, pp. 65-82) e Hughes (1988, cap. 4): a ogni modo, furono necessarie l’arte di governo e la politica di Bismarck per ottenere dei successi.

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dare luogo a un’eredità comune e a un mithomoteur, cioè un mito politi­co costitutivo, allo stesso modo delle etnie demotiche, o “verticali”. E pos­sibile immaginare una vera identità culturale europea a livello popolare solamente come risultato della condivisione di memorie, esperienze, tra­dizioni, valori, simboli e miti unificanti da parte di numerose generazio­ni di popoli europei (condivisi, cioè, da tutti i popoli d’Europa). Ciò sol­leva un difficile problema: dove potremo trovare queste tradizioni, valori popolari, simboli ed esperienze paneuropee?

Ci troviamo qui di fronte a due questioni. La prima è la natura finora “top-down” (gerarchica) dell’unificazione europea. Il progetto europeo è stato costruito funzionalmente attraverso l’azione e i programmi di élite finanziarie, amministrative e intellettuali, le cui necessità non possono incontrare una piena soddisfazione nel contesto dello stato nazionale. Queste élite hanno quindi cercato di costruire l’infrastruttura economica e il quadro politico di una più vasta unione a livello europeo. In base a questo ragionamento, la cultura di massa viene a rimorchio delle élite economiche e della prassi politica; essa richiede, inoltre, un periodo di stabilizzazione per mettersi alla pari con i descritti mutamenti politico­economici, in modo da adempiere al suo compito nella divisione del lavo­ro. Dove comandano le élite politiche, le masse si conformano, come risultato di un’“infiltrazione dall’alto” delle nuove idee, delle pratiche e delle norme istituzionali dei ceti elitari16.

La difficoltà insita in quest’approccio funzionale sta nella sovrastima assegnata a élite e leadership. Ciò è stato ampiamente dimostrato dalle risposte popolari alle disposizioni del trattato di Maastricht in Danimarca, Francia e Regno Unito, e da una certa freddezza di fronte all’“Europa” nei paesi scandinavi candidati a entrare nell’Unione. I governi possono anche comandare, ma i loro popoli non sempre appaiono ansiosi di seguirli nella famiglia europea. Questa caratteristi­ca speculativa dell’attitudine verso l’Europa presente in molti ambienti suggerisce l’assenza di profondi ed emotivi legami tra i popoli del con­tinente, evidenziando allo stesso tempo i fievoli sentimenti sollevati da qualsiasi valore distintivo o sistema di credenze cui venga attribuita una condivisione esclusiva presso le popolazioni europee. Nonostante possa esistere in molti Europei il desiderio di cooperare, vivere e lavorare assieme, questo fatto non sembra essere sostenuto né da una chiara idea popolare del significato di “Europa” in termini di cultura, valori, ideali e tradizioni né da un vivido senso di appartenenza a una famiglia di popoli europei.

16 II paradigma funzionalista dell’integrazione europea è trattato in Haas (1964). Vedi anche Hoffman (1994).

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Questo tema può essere facilmente collegato al secondo dei problemi citati, cioè la difficoltà di definire la natura del “legame europeo” e la sua cultura distintiva. Un elemento della diatriba che circonda tale questione è stato trattato in precedenza, durante l’esame dei pan-nazionalismi. Questi fenomeni culturali su larga scala hanno spesso tentato, in genere senza successo, di legare stati diversi e le loro popolazioni sulla base dei criteri della condivisione e della comune eredità culturale, in modo da sal­darli in una singola unità supernazionale. Movimenti nazionalisti di que­sto tipo hanno incluso il panturchismo, il panslavismo, il panafricanismo, il panlatinoamericanismo e il paneuropeismo - con quest’ultimo termine intendo il paneuropeismo di Coudenhove-Kalergi, Jean Monnet e del movimento europeo fondato nel 1948 all’Aja, e non un semplice approc­cio lento e spezzettato verso un’unione a carattere economico. Si tratta di un paneuropeismo che parte dall’alto e si immerge nella società, guarda a leader ed élite, a istituzioni e norme, a una volontà cosciente e program­mata per istruire e motivare dei quadri che, una volta formati, diffonde­ranno il messaggio dell’unità europea, creando un legame a livello conti­nentale come unica realistica soluzione ai tanti mali che hanno per così lungo tempo afflitto i popoli dell’Europa17.

Il paneuropeismo era - ed è - una grande visione. Si tratta di un’idea che pone al cuore della nuova Europa la cultura e che cerca di edificare con istituzioni e cerimoniali una nuova mentalità: di creare, in effetti, dei nuovi europei, uomini e donne che siano. Ma è proprio qui che sta il pro­blema. Perché qualcuno dovrebbe scegliere una “cultura” e un’identità europea rispetto a qualsiasi altra? Su quale base si può formulare un simi­le appello e perché dovremmo aspettarci che esso ottenga una particolare risonanza, e fra chi?

Per i paneuropeisti la risposta è chiara: sono sempre esistite una cultu­ra e un’identità europee, sebbene vaghe e difficili da afferrare e formula­re, ed è questo, dopotutto, a costituire la base del loro richiamo. Nonostante i paneuropeisti possano parlare di nuova cultura e di nuovi Europei, in realtà essi guardano a versioni moderne di qualcosa già esi­stente in passato ma andato distrutto dallo stato nazionale e dalle guerre intestine, che ora deve essere recuperato e restaurato. In epoche prece­denti, infatti, l’unità europea poggiava sulla cultura cristiana e sull’iden­tità cattolica (pertanto nessuno dovrebbe rimanere molto sorpreso di fronte all’influenza del Cattolicesimo all’interno della leadership del movimento europeo). La cultura della Cristianità medievale era essenzial­mente quella dell’Europa occidentale, con un asse principale che scorreva

17 Sulla “freddezza” degli Scandinavi e la nostalgia del Nord vedi Waever (1992); la sto­ria del paneuropeismo è descritta da de Rougemont (1965) e Fallace (1990).

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lungo il Reno, le Fiandre, la Svizzera e l’Italia, i suoi centri di popolazio­ne e commercio nelle città della Lega Anseatica e i fulcri politici nella Francia, nel Sacro Romano Impero e nell’Italia dei Papi. Si trattava anche sostanzialmente di una cultura d’élite: una cultura latina del clero e della nobiltà, nonché dell’haute bourgeoisie. Questo era quindi il carattere del passato europeo: un’Europa cristiana in espansione, innovativa e militan­te, minacciata a oriente dai Saraceni e dagli ottomani; una struttura che fornisce un modello di unità anche all’Europa secolarizzata di oggi18.

Nessuno sta sicuramente patrocinando per la Cristianità un ritorno a quell’epoca idealizzata. È la forma, e non il contenuto, a fornire il model­lo. L’Europa moderna deve trovare un equivalente secolare composto da una fede comune e da un sistema di valori che leghi assieme gli Europei del passato. In questo modo, tuttavia, si complica solamente il problema: dove vanno cercati il sistema di valori e la fede comune? Quali simboli, memorie, miti e tradizioni possono dimostrarsi efficaci e richiamare la lealtà degli abitanti dell’“Europa” moderna?

Inoltre, il “pan-nazionalismo”, nella forma dell’ideale paneuropeo, identifica semplicemente il problema, ma senza indicare alcuna nuova soluzione. Sarebbe dunque necessario guardare altrove, magari al caratte­re spesso fragile, inventato, ibrido e ambivalente di tante identità e cultu­re del tardo XX secolo? La stessa ambivalenza e fragilità e il carattere ibri­do del manufatto culturale si ritrovano poi su scala continentale, e pure nei gradi nazionali di identità. In questo senso, seguendo il concetto di Wittgenstein di “giochi linguistici”, si potrebbe effettivamente parlare di una “famiglia di culture” europee, in quanto esistono parecchie esperien­ze, valori e tradizioni politiche e culturali incomplete, ambigue e sovrap­poste, che nel corso dei secoli si sono incrociate in molte aree e popoli del continente europeo. Molti di questi valori, tradizioni, esperienze e sim­boli intereuropei sovrapposti, che hanno influenzato i popoli del Vecchio Continente in maniere e a livelli differenti, potrebbero essere utilizzati per costruire la “comunità immaginata” della nuova Europa, pur rimanendo quest’ultima un affare riguardante perlopiù le élite. In molte vaste zone del continente, le élite della maggior parte delle popolazioni (se non di tutte) hanno adottato tradizioni come il diritto e la giurisprudenza roma­ni, il sistema giudeo-cristiano di valori etici, l’umanesimo rinascimentale,lo spirito della Riforma, della Controriforma e deH’illuminismo. Attraverso esperienze politiche, sociali e culturali come le grandi scoperte e il colonialismo, queste élite e i loro popoli hanno pure condiviso, seb­

18 Per l’Europa occidentale nel Medioevo vedi Keen (1969); de Rougemont sottolinea l’appello della Cristianità medievale come modello per l’unità europea; cfr. anche Krol (1990).

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bene in maniera diversa, le grandi rivoluzioni; l’espansione di capitalismo, industrialismo e urbanizzazione; i movimenti e il simbolismo del roman­ticismo, del realismo e del nazionalismo.

Ma il nazionalismo? E la divisione dell’Europa tra nazioni in lotta fra loro? Cosa c’è da dire su altre esperienze di massa micidiali per l’Europa, che devono così tanto al nazionalismo, come le due guerre mondiali? Tutti i simboli, le tradizioni e le esperienze che abbiamo elencato non possiedono anche dei lati oscuri, divisivi e ambivalenti? Persino all’apice della Cristianità cattolica, non vi sono state minoranze, come gli eretici, i lebbrosi e gli Ebrei, considerate estranee all’Europa ed emarginate dalla società del continente, spesso in quartieri separati? E tuttavia, esse non hanno in tal modo definito la stessa Europa attraverso l’immagine specu­lare dell’“altro”? Il Rinascimento non ha illuminato alcune parti dell’Europa solo per lasciarne altre nel buio? I dogmi della Riforma e della Controriforma non hanno generato i sanguinosi massacri delle guerre di religione? In sostanza, le tradizioni e le esperienze comuni, i valori e i sim­boli condivisi hanno semplicemente evidenziato la diversità sovrastante l’Europa, inasprito le divisioni e le ambiguità etniche e religiose e, infine, rivelato un caleidoscopio di distinte etnie e contro-culture, di minoranze, immigrati, stranieri e emarginati sociali indigeribili19.

Il puro e semplice numero di queste minoranze e la vitalità di queste etnie divise fra loro, uniti all’unicità delle loro culture, hanno significato che l’“Europa” stessa, un’espressione geografica di problematica utilità, sia stata considerata un soggetto sfuggente e mutevole a causa delle eredità e delle culture radicate che compongono il suo ricco mosaico. Se parago­nata all’esuberanza e alla tangibilità della cultura e delle tradizioni etniche francesi, scozzesi, catalane, polacche o greche, un’“identità europea” è sempre apparsa inespressiva e indefinibile, più che altro un insieme ina­nimato di tutti i popoli e le culture del continente, che aggiungeva poco a una realtà già esistente; in alternativa, l’Europa diveniva un’arena, un campo di scontro per identità e culture conflittuali20.

19 Sull’esclusione di eretici, lebbrosi ed Ebrei nel Medioevo vedi Moore (1987). Sul moderno mosaico europeo vedi Krejci e Velimsky (1981). Per il concetto di “famiglia di culture” vedi A. D. Smith (1992d, in particolare pp. 70-71), testo da quale attinge questa sezione.20 Vedi Schlesinger (1992). Vi è inoltre il connesso problema della demarcazione ter­ritoriale dell’“Europa”; ciò può essere d’aiuto per spiegare la sensibilità più sviluppata di fronte al concetto di Europa presente nei popoli della metà occidentale del conti­nente, protetta com’è dagli oceani, e nello stesso tempo la ricerca degli abitanti degli stati meridionali di distanziarsi dai popoli culturalmente “stranieri” dell’altra sponda del Mediterraneo, a dispetto dei tanti legami, antichi e moderni, esistenti con il Nordafrica. Ma perché poi questa relativa mancanza di attaccamento all’Europa fra gli

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Fatto ancora peggiore, un’identità europea suscita scarsi affetti di massao lealtà. È un po’ come i suoi vantaggi della sua unione: tutti li desidera­no, secondo quanto 1’“eurobarometro” ci dice da sempre. Tutti, a parte gli Inglesi (e talvolta i Francesi), che sembrano indifferenti, se non schietta­mente scettici, di fronte alle virtù dell’Europa. Ma neanche gli Europei impegnati non possono fare appello a quel senso di intimità, a quel calo­re, persino all’amore, che la propria etnia o nazione tanto spesso ispirano. Se il “nazionalismo è amore”, per citare Michel Aflaq, cioè una passione che richiede un impegno travolgente, l’astrazione della parola “Europa” compete a livelli ineguali con la tangibilità e il “radicamento” di ogni nazione, in questo modo, poeti e pittori hanno tramandato ed elogiato le bellezze di particolari luoghi dell’Europa, o di specifici scenari regionali, etnici e nazionali associati a storie e tradizioni uniche, ma mai il “paesag­gio europeo” in generale; e lo stesso discorso vale per i romanzieri chehanno descritto la scenario della vita sociale in specifici villaggi, città e

*21paesi .Il carattere astratto di un’identità europea non è sicuramente acciden­

tale. Come abbiamo visto, dare calore e vita a tale identità significhereb­be andare a ripescare ricordi che è meglio lasciare in pace: guerre, espul­sioni e massacri condotti da e fra i popoli europei (per non parlare di quelli nei confronti degli extraeuropei); tristi e recenti memorie. Secondo Renan, per la nazione il dimenticare è altrettanto importante del ricorda­re. Una memoria selettiva, aggiunta a una percentuale di amnesia, si rive­la essenziale per la sua sopravvivenza. Ma è però possibile scegliere ciò che dovremmo scordare? Come è concepibile cancellare - ammesso che lo sia — il recente ricordo dell’Olocausto? E gli Europei di oggi possono poi con­cedersi il lusso del dimenticare? Il revival dell’antisemitismo, gli attacchi dei neonazisti a immigrati e Gastarbeiter, la nuova messa in atto della pulizia etnica in terra bosniaca, lo spettro di una guerra balcanica per l’e­satto nome da assegnare alla Macedonia sono tutti episodi che hanno ripresentato la questione relativa alla condanna dei popoli europei alla ripetizione di quello che non sono interessati a ricordare.

Siamo qui in presenza di una controversia ancor più fondamentale, cioè

Scandinavi? L’“Est” e i Balcani presentano invece in proposito minori problemi: lo loro ambivalenza è il prodotto dell’indeterminatezza geopolitica e culturale, mentre i con­fini fluttuanti delle terre ortodosse continuano a ridurre la sensazione generale di una patria europea storicamente compatta. La “linea” europea deve dunque essere traccia­ta al confine fra Cattolicesimo e Ortodossia, al confine cristiano-musulmano, al Mar Nero, al Mar Caspio o agli Urali (dove la indicò De Gaulle)?21 Sulle idee di Michel Aflaq, il fondatore del partito siriano del Ba’ath vedi Binder (1964) e Kedourie (1971, Introduction). Per la penetrazione di temi nazionalisti nel­l’arte europea del XIX secolo vedi A. D. Smith (1993a).

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il ruolo della memoria nell’identità collettiva. Può una qualsiasi identità culturale collettiva concretizzarsi o sostenersi attraverso una completa rot­tura con il passato? Le rivoluzioni delle scorse epoche non si sono in qual­che modo adattate a schemi di valori, tradizioni, simboli e memorie delle precedenti generazioni della società in cui sono entrate di prepotenza? Persino dove non vi è stata una completa restaurazione di un ancien régi- me, come in Inghilterra, Francia e più tardi in Russia, si è assistito a spe­cifici tentativi di fondere differenti culture in una nuova civiltà mista, del tipo perseguito dai rivoluzionari del moderno Messico. Pure il caso ame­ricano non concede alcun controesempio: i Padri Pellegrini possono aver voltato le spalle alla madrepatria, i fondatori della Repubblica possono aver deciso di staccarsi il più possibile dal Vecchio Mondo, ma essi sono invece ripetutamente indietreggiati nel suo vortice, rivolgendosi tante volte, fino a oggi, alla loro ascendenza e ai loro antenati. Questo fatto ci indica come per un’identità culturale collettiva una memoria comune sia altrettanto essenziale per la sopravvivenza di un senso del destino comu­ne. “Dimenticare porta all’esilio, mentre il ricordo è il segreto della reden­zione”22: di fronte alla prova della memoria, l’Europa di oggi se la passe­rebbe male.M iti e simboli dell’EuropaSe la memoria dell’Europa è piena di ossessioni, se i suoi popoli condivi­dono solamente i tristi richiami di un passato costituito da nazioni divi­se, è forse possibile unirsi attorno a miti e simboli comuni che indicano una solidarietà e una diversità più profonde? Quale forza e quali signifi­cati i popoli dell’Europa attuale possono trarre da quei “complessi miti- co-simbolici” che potremmo identificare? E infine, dove dovremmo cer­care tali miti e simboli?

Forse nell’eredità greco-romana e nel diritto romano? Il retaggio del­l’antichità classica è rilevante in tutta l’Europa odierna: nelle strade e nei nomi delle città, nella scultura e nell’architettura tradizionale, nella storia e nella filosofia, nel teatro e nei miti degli eroi, nella tradizione democra­tica e imperiale, nel razionalismo e nello spirito della ricerca scientifica. Ma quest’eredità era - e rimane - sparsa in modo disuguale sul suolo con­tinentale. Le terre del Mediterraneo erano profondamente imbevute dalle influenze e dalle tradizione classiche, mentre l’Europa settentrionale e

22 Detto di Baal Shem Tov [1698-1760. Fondatore del movimento mistico-religioso ebraico del chassidismo; N.d.T.]. Per l’analisi condotta da Renan su memoria e oblio vedi Gellner (1982). L’esempio americano dell’“ancestralismo vernacolare” è discusso da Burrows (1982). Sulla questione generale del ruolo della memoria etnica, rispetto alle tradizioni greche rivali, vedi Just (1989) e A. D. Smith (1993b).

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orientale ne sono state in antichità escluse, sperimentandone solo una presenza tardiva dal Rinascimento in avanti. In più, la classicità è stata costantemente sfidata da altri ideali e tradizioni. La visione dell’antica Grecia come “giovinezza dell’Europa” può aver esaltato alcune élite, spe­cialmente durante l’era vittoriana, e ha comunque lasciato la sua impron­ta nella moderna civiltà occidentale (inclusa l’America), ma è ora troppo lontana per sollevare una qualunque emozione profonda negli Europei23.

Dovremmo invece forse guardare alla civiltà cristiana e al suo sistema di valori giudeo-cristiani? Anche qui le influenze sono profonde: nella tradi­zione delle Chiese stesse e nel ruolo del clero, nella traduzione della Bibbia nei linguaggi vernacolari, nel più ampio interesse verso la giustizia e lo stato sociale, nell’etica socialista e nei movimenti per l’uguaglianza degli oppressi e dei discriminati, in molte organizzazioni di carità e volon­tariato. Ma troviamo pure tante divisioni profonde e tante influenze ambivalenti: gli scismi tra Cattolicesimo e Ortodossia, tra Cattolicesimo e Protestantesimo, tra Chiese e sette influenzano infatti diverse zone dell’Europa in svariate maniere. Il complesso mitico-simbolico della Cristianità - di una civiltà cristiana prima unita dalle crociate contro gli infedeli, dal suo atteggiamento verso eretici ed Ebrei al suo interno e dalla lotta contro Bisanzio e i musulmani ai suoi estremi, e poi passata per le guerre di religione e andata dritta verso la bancarotta costituita della Germania nazista — si è ripetutamente mostrato incapace di fornire all’Europa quell’unità morale che è stata proclamata e che alcuni Europei vorrebbero ora resuscitare. Le divisioni religiose in aree chiave del conti­nente europeo sono ancora penetranti, anche se solo pochi individui restano devoti credenti; la religione come insegna, come fattore di unio­ne, come frontiera, la religione associata all’etnicità sono tutti elementi che possono venire incontrati in molti degli aspri conflitti che ancora affliggono il continente, oppure come flusso di fondo di più stabili ma ancora profonde spaccature24.

E, per caso, potremmo trovare quest’unità simbolica e mitologica nel retaggio indoeuropeo rappresentato dalle lingue e dall’origine comune? E infatti vero che molte delle lingue europee appartengono alla famiglia indoeuropea, e che alcuni studiosi ancora sostengono la teoria della lin­gua di Ur e di uno stesso luogo di provenienza, in un lontano passato,

23 Per le eredità classiche in epoca vittoriana vedi Jenkins (1992) e Leoussi (1992).24 II “complesso mitico-simbolico” della Cristianità occidentale è analizzato in Armstrong (1982, cap. 3); sui modelli di religione europea vedi Martin (1978). Le relazioni tra religione e identità nazionale in Irlanda e Jugoslavia sono descritte da Holmes (1982) e Alexander (1982). Per i complessi rapporti tra religione e coscienza nazionale in Europa orientale vedi Petrovich (1980) e Ramet (1989).

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delle tribù parlanti l’indoeuropeo, ma non si può negare che archeologi, linguisti e storici si mostrino divisi: esistono infatti molte lingue dell’Europa odierna che non appartengono a questo gruppo (il basco, il finnico, l’estone, l’ungherese); inoltre, fattore molto più importante, dopo l’uso fatto dai nazisti della teoria del gruppo linguistico come razza, in molti Europei l’interesse per il “mito dell’eredità indoeuropea” è dive­nuto molto scarso, se si eccettuano alcuni piccoli, ma rumorosi, raggrup­pamenti di storici revisionisti e di razzisti25.

Che cosa dire poi della tradizione imperialista dell’uomo bianco e della relativa esclusione degli uomini di colore? Non potremmo scovare pro­prio qui quell’unità mitico-simbolica che finora ci è sfuggita? Se il mito indoeuropeo resta un affare di minoranza, non lo è affatto il senso esclu­sivo di una superiorità europea basata sul pregiudizio del colore. Questo punto è certamente un potente ed esplosivo insieme di miti e simboli che potrebbe unire gli “Europei” contro gli “estranei” e creare le condizioni emotive di massa per politiche di discriminazione ed esclusione come quelle messe in atto da diversi governi degli attuali stati del continente. Si tratta indubbiamente di uno degli elementi chiave nel presente clima di timori etnici e panico morale di fronte a immigrati, persone in cerca d’a­silo e stranieri che alcuni governi, media e gruppi d’interesse hanno orchestrato in molti paesi dell’Europa occidentale negli anni recenti. La questione è dunque la seguente: può un mito della superiorità della razza bianca europea unire gli abitanti del continente e far superare le differen­ze interne, e, allo stesso tempo, può il colore della pelle servire da base di un simbolismo dell’“europeicità”.

Che questo fattore abbia così agito in passato, almeno fra alcune élite europee, e che abbia tuttora il potere di infiammare di passione le masse, è un dato incontestabile. Ma questo potere è negativo: esso non fiorisce grazie a valori comuni o a una specificità esclusiva degli Europei, bensì su differenze che sono percepite in differenti modi e a vari livelli. La “pelle bianca” può infatti arrivare sino ai confini dello stato nazionale oppure ai margini di un villaggio o di un distretto urbano. Per alcuni, i Turchi sono degli estranei, per altri possono esserlo i Polacchi, i Serbi o gli Albanesi - come anche i Francesi e gli Anglosassoni. Due particolari hanno fatto assumere alla questione dell’“altro” una grande rilevanza: l’immigrazione e l’IsIàm. Il tema dell’immigrazione rinforza le percezioni dell’identità nazionale - e non di quella europea - , in quanto è lo stato nazionale a

25 Una recente ricerca sulle origini indoeuropee è presente in Mallory (1989); una nuova teoria è invece presentata da Renfrew (1987). Sulle divisioni linguistiche in Europa vedi Armstrong (1982, cap. 8); sui precedenti del mito ariano elaborato dai nazisti vedi Poliakov (1974).

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controllare l’immigrazione; sono i media nazionali a diffondere informa­zioni e opinioni sugli immigrati; è il mercato nazionale del lavoro a com­piere discriminazioni; sono, infine, i membri della nazione a essere chia­mati in causa quando gli immigrati vengono perseguitati o espulsi. Di conseguenza, la sensazione della presenza di estranei non bianchi rinfor­za i pregiudizi e l’identità nazionali, sebbene in senso negativo attraverso la differenziazione, e non contribuisce in alcun modo a fornire un senti­mento vicino all’unità c all’identità europea26.

L’Islam, a prima vista, potrebbe sembrare contraddire la tendenza al nazionalismo, in quanto opera su base continentale. Esiste certamente un diffuso stereotipo dell’Islam e dei musulmani che risale alle crociate e alla lunga lotta con i Turchi ottomani. Questo stereotipo paneuropeo mina le aspirazioni della Turchia — nonostante il suo secolarismo ufficiale e l’at­tuale regime democratico - a diventare “europea” e aderire a ll’UE. Il carat­tere musulmano di gran parte della popolazione turca e il suo ruolo di nemico storico rendono questo stato sospetto a molti “europei”. D ’altra parte, l’Islam presenta anche una sfida ai singoli stati nazionali europei, e di qui una propulsione al loro nazionalismo. Le dimensioni della comu­nità islamica francese hanno fatto aumentare il sostegno al movimento di Le Pen, mentre quelle della comunità turca e di altre minoranze, cui viene negata la cittadinanza tedesca, hanno acceso la violenza e l’odio razziale fomentati dai gruppi neonazisti. Anche in Gran Bretagna si è assistito a disordini provocati da questioni legate all’Islam — come ad esempio l’af­fare Rushdie - che di volta in volta hanno sollevato il problema dell’i­dentità nazionale britannica e del suo rapporto con il carattere inglese27.

Se anche l’eredità imperialista dell’esclusivismo bianco e cristiano agi­sce in prevalenza sulla nazione, rafforzandone l’identità, è possibile trova­re nella storia dell’“Europa” qualche elemento comunitario e alcune figu­re eroiche che possano servire da ispirazione per una coscienza europea? È infatti una sorta di vexata questio affermare se in qualche modo esista o no una “storia europea” che non sia semplicemente una “storia dei suoi popoli”. Entro il continente possiamo osservare molte sequenze storiche e flussi di eventi che hanno influenzato varie aree in tempi diversi. Mi sono già riferito ad alcuni schemi culturali e a particolari tradizioni filtra­te in diversi modi attraverso i popoli europei, ma abbiamo anche visto

26 Sulle migrazioni nella nuova Europa vedi Miles (1993, in particolare R. Fernhout, ‘“Europe 1993’ and its refugees”, pp. 492-506); la situazione e le reazioni in Francia sono trattate in Miles e Singer-Kerel (1991).27 Per il sostegno a Le Pen in Francia vedi Husbands (1991); su minoranze e identità nazionale in Gran Bretagna vedi Samuel (1989, voi. II). Su nazionalismo e fascismo in generale vedi A. D. Smith (1979a, cap. 3).

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come persino su questo fatto non si possa porre troppa enfasi. Il concet­to dell’esistenza di alcuni grandi temi comuni che i diversi processi di svi­luppo avvenuti all’interno dell’Europa illustrano è una notevole forzatura dell’evidenza storica: un’idea che dovrebbe essere considerata parte di quella mitologia paneuropea in costruzione da parte di determinate élite e gruppi d’interesse odierni. Tutto ciò, almeno, appare chiaro dalla storia semiufficiale dell’Europa compilata da Jean-Baptiste Duroselle28.

In mezzo a questa situazione, possiamo scoprire qualche grande model­lo dell’umanità e dell’eroismo europei? A chi possiamo allora risalire? Ad Augusto, che piangengo la perdita di Varo e delle sue legioni nella selva di Teutoburgo rinunciava all’altra metà dell’Europa? A Carlomagno e ai suoi successori, il cui Sacro Romano Impero era ugualmente posizionato a occidente, ma i cui ideali medievali non hanno più risonanza nei demo­cratici e secolarizzati Europei moderni? A Napoleone, con le sue ambi­zioni e il suo impero effimeri e privi di attrattiva come quelli di qualsiasi dittatore moderno? O forse dovremmo rivolgerci ai grandi artisti, scritto­ri e scienziati “europei”: a uno Shakespeare, un Michelangelo, un Beethoven e un Einstein? Il loro genio è però universale, la loro arte e la loro scienza trascendono tutti i confini; inoltre, come i talenti meno noti, anch’essi sono generalmente stati nazionalizzati, e la loro influenza nazio­nale si rivela spesso maggiore del richiamo che queste figure esercitano in ambito europeo o globale29.

Vi è poi un altro problema che caratterizza i tentativi di edificare l’Europa attorno alla sua storia, i suoi miti e i suoi simboli: infatti, nella maggior parte dei casi, gli esempi provengono dall’Europa occidentale e dall’Italia. I modelli provenienti dall’Europa orientale, eccettuate alcune rilevanti eccezioni come Copernico, Cajkovskij, Chopin e Tolstoj, non hanno un grande rilievo per un’“Europa” originata prevalentemente dall’Occidente, mentre casi come Ivan il Terribile o Pietro il Grande evo­cano solo paura o repulsione. In relazione ai miti e ai simboli dell’Europa orientale, occorre aggiungere che, se paragonati a quelli che circondano il Rinascimento o la Rivoluzione francese, essi rivelano un carattere locale, poco familiare, perfino sospetto al di fuori dei loro paesi d’origine (con la possibile eccezione della guerra d’indipendenza greca). Ancora una volta,

28 Vedi Duroselle (1990), significativamente intitolato L’Europe: histoire de sespeuples-, vedi A. D. Smith (1992d) e Schlesinger (1992) per alcune critiche.29 Sulla tradizione nazionale del romanticismo vedi Porter e Teich (1988); per i con­trasti nazionali all’interno della tradizione neoclassica vedi Rosenblum (1967) e A. D. Smith (1979b). Per precedenti “epoche auree” e contributori a una storia “europea” vedi Duroselle (1990, capp. 9-11), che cerca di evidenziare la comunanza di esperien­ze, pur riconoscendo la natura spesso parziale di queste ultime e le profonde dissonanze interne tra i diversi popoli e le zone culturali dell’Europa.

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il predominio dell’Europa occidentale è evidenziato non solo dai suoi centri di ricchezza, tecnologia, popolazione e commercio, ma anche dalla scienza, la letteratura, l’istruzione e le arti, nonché dalla produzione e la divulgazione dei suoi miti, le sue tradizioni e i suoi simboli popolari30.

Sembra, quindi, che ben difficilmente si potranno trovare dei miti e dei simboli europei in possesso di un richiamo e di un significato per i moder­ni abitanti del continente e capaci di unificarli. Ci sono troppe lacune e zone d’esclusione e incomprensione, come ad esempio le terre delle chie­se ortodosse, con le loro differenti strutture sociali, tradizioni culturali, principi e simbolismi, oppure le tante minoranze non cristiane e gli stra­nieri - dai perseguitati Ebrei del Medioevo ai perseguitati Gastarbeiter di oggi - , i quali ben poco spazio potrebbero trovare in un’Europa che ritor­nasse agli ideali della Cristianità medievale. I più potenti “complessi miti- co-simbolici” del continente europeo presentano origini e un contesto molto più forti dal punto di vista nazionale che da quello europeo: che si tratti dei miti e dei simboli dell’Impero romano, dell’illuminismo, della Rivoluzione francese, del Risorgimento o della Rivoluzione bolscevica31.

Ed è ugualmente difficile trovare luoghi sacri o santuari di pellegrinag­gio che attraggano tutti gli Europei: Aquisgrana è troppo remota nel tempo; la cattedrale di San Paolo, Les Invalides o il castello di Wawel hanno un carattere troppo nazionale; persino Roma non domina più i cuori e i pensieri degli abitanti dell’Europa occidentale o settentrionale. Sotto quest’aspetto, il paneuropeismo è stato superato dal nazionalismo:i santuari e i monumenti connessi a quest’ultimo sono dovunque, occu­pando sia i centri ufficiali - con gli archi di trionfo o le tombe al Milite Ignoto — che molte periferie popolari. La statuaria della nazione, i suoi templi e i monumenti commemorativi dominano le colline, riempiono le piazze e decorano i municipi, ricordando alla cittadinanza la sua lealtà e richiamando il suo orgoglio. Ma accanto a questi memoriali di pietra, cosa è ancora capace di offrire l’“Europa”? I suoi emblemi possono evo­care le stesse passioni di quelli appartenenti alle sue nazioni?32

Si può forse parlare di riti e cerimonie europee commensurabili che col­

30 Sul predominio dell’Europa occidentale vedi Wallace (1990). Questo studioso sostiene che la Germania (nella maggior parte del suo territorio) è parte dell’Occidente, mettendo allo stesso tempo in evidenza gli importanti contributi scien­tifici, letterari e artistici dell’Europa orientale e della Russia.31 Vedi Atiyah (1968) e Ware (1984) per la Chiesa ortodossa e la Cristianità orienta­le; cfr. anche Ramet (1989, in particolare i saggi su Jugoslavia, Romania e Bulgaria).32 L’arte statuaria, i monumenti, le cerimonie e gli emblemi del nazionalismo europeo del tardo Ottocento sono descritti da Hobsbawn (in Hobsbawn e Ranger, 1983, cap. 7); per una panoramica turistico-satirica dell’Europa nazionalista e dei suoi attuali san­tuari e reliquie vedi Horne (1984).

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meranno i cuori e ispireranno l’immaginazione di tutti gli abitanti del con­tinente, nelle stesso modo in cui Washington, la Costituzione e il Giorno dell’Indipendenza riescono a unire gli animi e colpire l’immaginazione della maggior parte degli Americani? Forse col tempo, dopo parecchie generazioni, emergeranno dei riti e prenderanno forma delle cerimonie incentrate sul Parlamento europeo di Strasburgo e sulla sede della Commissione a Bruxelles. Tuttavia, il problema di tutte queste “tradizioni inventate” risiede nel fatto che i loro creatori non sono affatto certi se tali invenzioni troveranno un consenso più profondo nelle generazioni future. Da questo punto di vista, il nazionalismo si trova sempre un passo avanti: ha infatti sempre mantenuto uno sguardo sul giudizio della posterità, gra­zie al quale cerca di sostituire la salvezza oltremondana33.

Senza memorie e significati condivisi, senza simboli e miti comuni, senza santuari, cerimonie e monumenti - a parte gli amari promemoria delle guerre e degli olocausti recenti - , chi si sentirà europeo nel profon­do del suo essere, e chi si sacrificherà di sua volontà per un ideale così astratto? In breve, chi morirà per l’Europa?

Non è molto indicativo fare riferimento a una sicurezza comune e a una politica estera che mobiliteranno una “forza europea” in scenari bellici dei continente oppure oltremare, e neanche pensare alla reazione popolare al momento dell’uccisione dei primi “soldati europei”. In realtà, lo “stato di servizio” europeo sino a oggi non si è dimostrato in proposito esaltante: sono state le Nazioni Unite guidate dagli USA a intraprendere l’invasione del Kuwait nel 1990, mentre è stata la N A T O , piuttosto che l ’U E , a prende­re l’iniziativa nel 1994 in Bosnia, di fronte a un conflitto etnico che chia­ramente si stava verificando all’interno dei confini del continente europeo. La storia di una difesa europea e di iniziative di politica estera comuni è stata segnata da incomprensioni e dissidi (nelle occasioni più recenti riguardo ai casi di Bosnia e Macedonia). Le unità di difesa europea riman­gono esili, e vi è un supporto popolare minimo per una difesa integrata o per avventure militari persino nel cuore stesso del continente - e ancor meno ai suoi confini, che di volta in volta sono indicati estendersi dall’Irlanda alla Macedonia e agli stati baltici o dalla Francia al Caucaso e agli Urali34.

33 Sulle liturgie del nazionalismo vedi Mosse (1976); per i suoi riti e le sue cerimonie vedi Breully (1982, cap. 16) e la dettagliata descrizione delle celebrazioni patriottiche della Francia rivoluzionaria - alcune delle quali organizzate da Jacques-Louis David - contenuta in Herbert (1972). Le cerimonie religioso-nazionaliste americane sono descritte da O ’Brien (1988). Vedi anche Schlesinger (1994).34 Per differenti interpretazioni del background della questione macedone vedi Alexander (1982) e Kofos (1990).

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Anche i sacrifici militari sono inevitabilmente inseriti in un contesto nazionale piuttosto che europeo. In qualunque modo siano ufficialmente presentati, essi vengono interpretati dalla stampa e dalla popolazione come se riguardassero la propria nazione; di conseguenza, qualsiasi lutto sincero sarà riservato ai connazionali, non agli “Europei”. La nazione etnica ha sempre proposto se stessa come la “famiglia delle famiglie”; l’in­sieme e l’unione di ogni famiglia della comunità. Il suo mito è quello della “sovra-famiglia”, composta dal “sangue” e da una discendenza comune fittizi: questo significa che, di generazione in generazione, i membri di una nazione o di una comunità etnica hanno imparato a vedersi e sentirsi parte di una larga ed estesa famiglia. In questo modo, la difesa nazionale è percepita come un sacrifìcio necessario per i propri conoscenti, per la propria famiglia35.

Se confrontata con questa famiglia nazionale viva e tangibile, sebbene fittizia, la “famiglia delle culture” europea appare pallida e scheletrica. Come una conchiglia, nella quale le nazioni, le regioni e le etnie dell’Europa possono trovare rifugio, il progetto europeo fornisce una struttura dove risolvere i problemi e garantire dei benefici alle popolazio­ni del continente, ma allo stesso tempo non sembra capace di formare dei legami profondi, delle forze vive, una comunità di fede. Questo fatto può in effetti rivelarsi una delle primarie attrattive per tutte quelle regioni ed etnie minoritarie che ad alta voce proclamano la propria fedeltà alla nuova Europa: sotto la protezione dell’ombrello europeo, infatti, la fondamen­tale devozione delle persone tornerà a volgersi verso ciò cui esse appar­tengono, allontanandosi dai potenti stati nazionali e tornando alle neglet­te e oppresse etnie. Lo slogan “Europa delle Etnie” esprime concisamen­te quest’obiettivo, sebbene sul retro della stessa medaglia sia inciso “Europa delle Patrie”36.Una “supernazione europea”?Nessuno dei due precedenti obiettivi soddisfa comunque il sogno paneu­ropeo. Per i paneuropei, infatti, l’Europa non è né una cooperativa tra gli esistenti stati nazionali né uno scudo per proteggere le tante regioni ed etnie che mordono il freno al guinzaglio dello stato nazionale. La loro Europa è un’autentica unione “sovranazionale”, che realmente trascende la limitata prospettiva della nazione e cancella la faccia truce del naziona­

35 Queste metafore della consanguineità e la loro forza “primordiale” sono analizzate da Horowitz (1985, cap. 6) e Connor (1993); cfr. anche Grosby (1994).36 La tesi di un duplice attacco allo stato nazionale, condotto dall’alto attraverso l’u­nità europea e dal basso dalle comunità etniche, risale agli anni Sessanta: vedi, ad esempio, Heraud (1963).

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lismo. Nei fatti, però, una tale unione andrebbe al di là della nazione e soppianterebbe il nazionalismo, come sperano con così tanta fede i paneuropei? Oppure saremmo testimoni non della crescita di una nuova unità “sovranazionale”, bensì di un’altra limpida nuova/vecchia nazione, con una bandiera, uno stemma, una capitale a Bruxelles, un passaporto, una moneta e una banca, un parlamento, un esercito e una politica este­ra, università e scuole, feste annuali, parate cerimoniali e processioni, monumenti ai caduti, commemorazioni dei suoi fondatori, musei della storia e del folclore europei? E inoltre, una simile supernazione non com­porrebbe semplicemente i problemi legati a un mondo pieno di nazioni? In tal caso, l’unificazione europea, lungi da far suonare la campana a morto per il nazionalismo, lo eleverebbe a un nuovo grado di potere e legittimità37.

Questo è il timore non solo dei nazionalisti presenti negli attuali stati nazionali, ma anche degli euro-pessimisti, per i quali l’“Europa” può essere creata solamente a immagine della nazione e con le stesse fattezze e la stessa gestazione che diedero vita a quest’ultima. Essi sostengono che, a causa delle sue dimensioni e della sua diversità, una tale unione avrà sì alcuni nuovi tratti distintivi (quelli, in effetti, della nazione plu­rietnica); però, come ogni altra associazione umana a lungo termine, svi­lupperà pure quelle basi di identificazione collettiva - memorie condivi­se, miti, valori, simboli - che ogni gruppo culturale deve produrre nel caso voglia sopravvivere per parecchie generazioni. Nel contesto euro­peo, la sola via per la quale un’Europa realmente unificata potrebbe emergere transita attraverso la lenta formazione di memorie, tradizioni, valori, miti e simboli europei comuni, secondo lo schema proprio delle etnie e della nazione.

Comunque, come spiegato sopra, in questa prospettiva il concetto d’Europa è deficitario. Sebbene alcune tradizioni politiche e culturali siano a portata di mano, esse sono caratterizzate da ambivalenza e da una diffusione difforme; inoltre, eccetto gli ideali inutilizzabili della Cristianità medievale o dell’imperialismo, non esistono memorie, miti e simboli condivisi e al di sopra di tutto che possano legare gli Europei. Volendo essere persino più chiari, si può affermare che qualsiasi tentativo di costruire un’identità europea attorno a questi elementi culturali comu­ni dovrebbe competere con i miti, i simboli, le memorie e i valori etno- nazionali preesistenti e profondamente radicati di quelle nazioni ed etnie che costituiscono l’area geografica convenzionalmente assegnata all’Europa.

37 Per un prima interpretazione di questi timori vedi Galtung (1973); cfr. anche la discussione contenuta in Schlesinger (1992).

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È questa competizione etnico-simbolica a rendere il conseguimento dell’unità europea, sia a livello culturale che sociale e psicologico, così improbabile nell’immediato futuro. Mentre alcune élite mobili, nella scia della tradizione delle aristocrazie dell’Europa medievale e moderna, potrebbero essersi liberate dai legami etnonazionali, l’attaccamento popo­lare e la devozione delle masse alle nazioni e agli stati nazionali rimango­no ben saldi e sono rinforzati da una varietà di moderni meccanismi burocratici e culturali, fra cui il sistema d’istruzione, i mass media, la lin­gua, la letteratura e i codici di legge nazionali, e inoltre da più sfuggenti ma ugualmente pervasivi fattori come il paesaggio, l’arte, la musica, l’ab­bigliamento, i cibi, i divertimenti e il folclore. Questi elementi culturali non sono semplicemente invenzioni populistiche di intellettuali manipo­latori, e neppure vestigia folcloriche di uno stile di vita precedente o attaccamenti romantico-nostalgici a un lontano passato idealizzato (nonostante questi caratteri possano in certe occasioni essere presenti). Essi sono i componenti di modelli arroccati di cultura popolare che, seb­bene siano stati di recente sottoposti a un più rapido ritmo di cambia­mento, mantengono molte delle loro qualità e attributi distintivi; essi sono inoltre le parti costitutive di un’identità nazionale acquisita che, nonostante sia anch’essa soggetta a considerevoli modificazioni, è ancora in grado di unire le masse popolari di una nazione intorno a una visione condivisa di valori, memorie, tradizioni e simboli comuni38.

Da questo punto di vista, la creazione di più vaste entità “supernazio­nali” esterne alle identità nazionali chiaramente differenziate fra loro rimane un fatto problematico. Trasferire le lealtà e i sentimenti d’identi­ficazione della maggioranza delle popolazioni delle nazioni e degli stati nazionali e inserirli in un nuovo insieme di miti, memorie, valori e sim­boli europei richiede un capolavoro di ingegneria sociale, culturale e psi­cologica, da compiersi in sintonia con un quadro istituzionale pertinen­te: un’operazione che in passato era possibile solamente tramite la disso­luzione delle unità associative e delle collettività esistenti o attraverso movimenti religiosi di massa. Dal momento che nessuna di queste due condizioni sembra facile da soddisfare nel prossimo futuro, e siccome nel frattempo lo stato nazionale resta resiliente e non si riscontrano segnali di

38 L’importanza della “nostalgia” per gli stili di vita idealizzati non deve essere sottova­lutata - vedi Armstrong (1982, cap. 2). D ’altra parte, la grande crescita del turismo di massa e degli scambi di studenti, la divulgazione di informazioni sullo sviluppo del­l’unità europea presente nei media e l’inondazione di festival della musica, dell’arte e del cinema europei ha reso alcune delle nuove generazioni più aperte di fronte all’idea di Europa e ai benefici di una maggiore integrazione, sebbene non sia chiaro né se tale atteggiamento sia libero da deviazioni e stereotipi nazionali né quanto profondi e dure­voli potranno rivelarsi questi ultimi fattori.

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un qualsiasi indebolimento della consapevolezza etnica e dell’autodeter­minazione, sembra proprio che per lo sviluppo di un nuovo livello paneu­ropeo di identificazione popolare supernazionale ci sia veramente poco spazio culturale o emotivo.ConclusionePossiamo quindi considerare il progetto europeo e gli altri tentativi di unificazione in due maniere distinte: come eroici tentativi, anche se desti­nati al fallimento, di soppiantare la nazione, oppure come nuovi ed emer­genti modelli di comunità nazionale. Forse stiamo assistendo a un’altra svolta nel lungo ciclo di formazione e dissoluzione delle associazioni umani. La storia fin qui documentata è sempre stata interessata dall’o­scillazione fra modelli antagonistici di unità sociale e politica, con entità più vaste che si formavano dalla conquista o dall’unione di soggetti più piccoli o si scomponevano nuovamente nelle loro parti costituenti. Le vicende dei grandi imperi, seguite dall’interregno feudale, offrono il para­digma di questo processo storico. Al contrario delle convinzioni prece­denti, sembra improbabile che la transizione a una moderna società indu­striale possa interrompere questo schema o alterare lo schema della riu­nione e della dissoluzione. Sotto questo e altri aspetti, la cultura e la poli­tica possiedono dei propri ritmi di cambiamento che non possono essere ricondotti a movimenti economici e tecnologici.

La differenza risiede nel fatto che nelle società moderne i movimenti di riunione e dissoluzione vanno di pari passo, spinti dalle stesse forze della mobilitazione popolare di massa, della politicizzazione culturale e della purificazione della comunità che abbiamo discusso prima. Questo ci riporta al nostro paradosso iniziale: la coesistenza, nella politica e nella società contemporanee, di tendenze sia unificatrici che divisive, sia allar­ganti che frammentanti. Fio suggerito all’inizio del volume come queste ultime fossero il prodotto delle stesse forze generali della società moder­na, e ora posso spiegarlo in modo più dettagliato.

La tesi da me avanzata ritiene che gli sforzi di creare delle associazioni su larga scala in Europa occidentale o altrove — mentre in molte altre aree del mondo grandi imperi e stati multinazionali si stanno smembrando nelle loro componenti etniche costituenti - derivano più dalla pura e semplice varietà delle traiettorie storiche e dalle culture etnostoriche profondamente differenti dei vari popoli e regioni che dagli ineguali livel­li di sviluppo economico e politico. Difformi gradi di sviluppo politico, economico e tecnologico esercitano sicuramente delle importanti influen­ze, ma in se stessi sono più il prodotto che il produttore delle diverse cul­ture, etnostorie e traiettorie storiche.

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Nel capitolo 3 ho descritto come le due più importanti rotte storiche per la formazione delle nazioni nel mondo moderno — quella “laterale” o ari­stocratica e quella “verticale” o demotica - abbiano fortemente influenza­to le forme e i contenuti successivi delle nazioni fuoriuscite dai diversi tipi di etnia. In un caso, una cultura etnica d’élite veniva diffusa in tutta la popolazione da uno stato burocratico energico e incorporatore sia all’e­sterno che all’interno verso le classi basse. Questo era un processo partico­larmente accentuato in Europa occidentale. In altre parti dell’Europa e dell’Asia, una cultura vernacolare e popolare legata alla subordinazione e all’oppressione si è invece mantenuta come un luogo di custodia vivente, una risorsa attiva che l’intellighenzia nativa può mobilitare e politicizzare.

Gli stessi processi di incorporazione burocratica da parte degli stati più forti e di mobilitazione popolare delle masse urbane e rurali da parte del­l’intellighenzia etnica possono essere riscontrati in ogni continente - dalla Russia e dal Giappone all’Etiopia, all’India e al Messico. Le varie permuta­zioni di questi processi storici aiutano sia a spiegare le sembianze tanto discordanti acquisite dall’etnonazionalismo nelle diverse aree del mondo sia a fornire le basi per le insistenti rivendicazioni di distinzione culturale e divisione etnica che accompagnano la crescente interdipendenza globale. In verità, questa forte interdipendenza, portando a stretto contatto le culture più disparate ed evidenziando apertamente le loro differenze, incoraggia i confronti etnici e storici e la proliferazione della frammentazione etnica. Quando a ciò si aggiunge il potere delle moderne telecomunicazioni di massa, che amplifica e diffonde le diversità culturali e le caratteristiche sto­ricamente uniche, il nostro iniziale paradosso acquista maggior chiarezza.

Allo stesso modo, la crescente interdipendenza delle reti statali in diver­se aree del pianeta, come nelle stesse Nazioni Unite, mette in luce le diver­sità fra le culture e vincola più saldamente molti individui a eredità e a un’etnostoria che essi sentono minacciate. Il senso di insostituibilità dei propri valori culturali si acutizza quando l’uniformità globale diviene più rilevante. Non si tratta comunque solamente di una questione di reazio­ne popolare o elitaria alla percezione di un pericolo: il desiderio di pre­servare antichi valori e tradizioni non è una nostalgia da collezionista, ma la spinta alla restaurazione di una comunità perduta, a rivivere la propria “età aurea”, a rinnovare una comunità purificandola dagli elementi estra­nei, alla riappropriazione del proprio distintivo retaggio culturale.

Siamo ritornati alla fondamentale ricerca moderna di un’autenticità culturale. L’autonomia, chiave della dignità nel mondo moderno, richie- 1 de l’autenticità, la libertà dipende dall’identità, e il destino dalla memo­ria condivisa. In questo modo, il desiderio di sentirsi partecipi di un mondo moderno, dove sono presenti immense opportunità e conoscenze tecnologiche, necessita la realizzazione di comunità morali distinte con

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identità autentiche e incommensurabili. Ma se il segreto dell’identità è la memoria, il passato etnico deve essere recuperato e divenire oggetto di riappropriazione, in modo da rinnovare il presente e costruire un futuro comune in un mondo di comunità nazionali in competizione fra loro.

Non è facile prevedere una fine imminente per il duplice processo di rinnovamento che coinvolge separazione e interdipendenza. Questi due fenomeni sono interrelati e autoriproduttivi, e non sembra esserci una strada semplice per rompere tale circolo. Il solo fatto che le etnostorie siano diffuse in maniera così difforme, le culture differentemente politi­cizzate e i popoli mobilitati con sistemi ineguali in un mondo di comu­nicazioni di massa e d’interdipendenza economica suggerisce che, persino nel caso grandi progetti come l’unificazione europea si consolidassero, questi potrebbero assumere alcune delle caratteristiche dei nazionalismi etnici esistenti, facendo così sorgere nuove e più pericolose rivalità. Se queste sono le circostanze, difficilmente assisteremo alla prossima scom­parsa di quelle comunità nazionali unite da storia e destino e caratteriz­zate dalla promessa di immortalità collettiva concessa loro dal giudizio dei posteri.

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In difesa della nazione

Se consideriamo gli eccessi e le violenze delle quali i nazionalisti si sono resi responsabili in tutto il mondo, l’idea che le nazioni e il nazionalismo esisteranno ancora per un po’ di tempo, e che questo fatto abbia a che fare con la capacità del fenomeno nazionale di assicurare dignità e immorta­lità, può apparire sia pessimistica che perversa. I commentatori amano attribuire al nazionalismo molte delle responsabilità dei conflitti che infe­stano il nostro pianeta; essi tendono inoltre a sostenere che un mondo senza nazioni sarebbe libero dalla malefica compagnia del razzismo, del fascismo e della xenofobia. Un mondo privo di nazioni — dichiarano - sarebbe più stabile e pacifico, come anche più libero e giusto: un sogno che è di fatto comune sia ai liberali che ai socialisti, per i quali la nazione rappresenta, nel migliore dei casi, un passaggio necessario nell’evoluzione dell’umanità e, nel peggiore, una deviazione e una violenta minaccia.

Voglio comunque concludere esaminando brevemente le tesi contro il nazionalismo, al fine di evidenziare le ragioni per cui la nazione e il nazio­nalismo rimangono le sole basi realistiche per una libera società di stati nel mondo moderno.Nazionalismo: i pro e i controLe argomentazioni contro il nazionalismo sono di tre tipi: intellettuali, etiche e geopolitiche.

1) Dal punto di vista intellettuale, il nazionalismo è ritenuto incoeren­te sotto il profilo logico, essendo i suoi postulati di base indifendibili. Questi ultimi sono il principio dell’identità culturale collettiva, il princi­pio della volontà collettiva e la dottrina dei confini nazionali.

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Per quanto concerne l’identità culturale collettiva, viene fatto notare come vi siano dei criteri contrastanti per la determinazione dell’“io” nazionale. Tali criteri includono la lingua, la religione, la discendenza, le usanze e il territorio. Come Max Weber ha mostrato tanto tempo fa, nes­suno di questi criteri può essere applicato a tutte le identità culturali col­lettive che si dichiarano o sono riconosciute come “nazioni”. Nell’Africa subsahariana, ad esempio, esiste una serie di identità sovrapposte basate su differenti criteri identitari. Persino per quanto riguarda una singola comunità, i nazionalisti hanno presentato diverse norme per la determi­nazione della nazione1.

Le stesse difficoltà circondano il principio della “volontà” nazionale. Oltre a un plebiscito quotidiano, in realtà non esistono altri mezzi per accertare la sua natura o decidere se essa sia nei fatti la vera e libera espres­sione della “volontà popolare” o degli individui che compongono la nazione. Vi è poi anche il problema di stabilire chi andrà incluso nel “popolo”: è infatti sempre stato troppo facile per i demagoghi supporre di essere gli unici a poter interpretare la volontà popolare e quindi a decide­re chi appartenesse al popolo2.

Simili problemi hanno accompagnato la dottrina dei confini nazionali. Per i nazionalisti, in genere, i confini si evidenziano da soli, come Danton sosteneva per la Francia e Mazzini per l’Italia con il riferimento alle “fron­tiere nazionali”. E però semplice dimostrare che le frontiere non sono mai naturali, anche quando esistono da lungo tempo o sono particolari; il Tirolo meridionale, ad esempio, rimane un’area disputata tra Austria e Italia. Gli abitanti delle zone di frontiera hanno poi l’abitudine di rifiuta­re il riconoscimento della “naturalità” di determinati confini3.

Tutte queste considerazioni hanno portato alcuni studiosi a concludere che non può essere formulata alcuna valida dottrina del nazionalismo, in quanto esistono tanti nazionalismi quanti sono i nazionalisti e le nazio-

1 Questo capitolo è basato su una relazione presentata alla conferenza “Nations and Citizens” tenuta al Centre for Philosophical Studies del King’s College di Londra nel 1993. L’ultima parte di questo scritto è già apparsa in A. D. Smith, “Ties that Bind”, in: LSE Magazine 5, 1, 1993, pp. 8-11. Vedi anche M. Weber (1947, “The Nation”). In Neuberger (1986, cap. 3) sono analizzati i diversi criteri di autoidentificazione nazionale nellAfrica subsahariana.2 L’utilizzo dei plebisciti per l’accertamento della volontà popolare ha sollevato pro­blematiche complesse: vedi la vigorosa critica presente in Kedourie (1960 e 1971); cfr. anche Breully (1982, “Conclusion”).3 Sulla questione sudtirolese vedi Doob (1964) and Katzenstein (1977). Per un in te­ressante discussione sui confini nazionali e la geografia politica, in relazione all’“esago- no francese”, vedi E. Weber (1991, cap. 3).

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IN DIFESA DELLA NAZIONE 157

ni4. Questa sembra una lettura completamente erronea dell’ideologia del nazionalismo. Il solo fatto di poter provare ad analizzare un insieme di sentimenti, movimenti e idee tramite un termine collettivo - il naziona­lismo — indica una certa comunanza tra le differenti espressioni dei pre­cedenti elementi. Non c’è bisogno di negare la grande varietà delle inter­pretazioni del fenomeno nazionale per ammettere un modello fonda- mentale, sintetizzabile in ciò che ho indicato come la “dottrina centrale” del nazionalismo.

Per comprendere i fraintendimenti presenti in molte critiche del nazio­nalismo, è necessario richiamare alla nostra mente i principi fondamen­tali della dottrina e le idee alla base dei movimenti nazionalisti:• il mondo è diviso in nazioni, ognuna delle quali in possesso di un pro­

prio carattere e destino;• la nazione è la fonte di tutto il potere politico, e la fedeltà alla nazione

sorpassa ogni altra devozione;• per essere libero, un uomo deve identificarsi con una particolare nazio­

ne;• per essere autentica, ogni nazione deve essere autonoma;• affinché la pace e la giustizia prevalgano nel mondo, le nazioni devono

essere libere e sicure.Le idee basilari derivanti dalle precedenti proposizioni sono tre: l’i­

dentità nazionale, l’unità nazionale e l’autonomia nazionale. Questi sono gli obiettivi, variamente interpretati, dei nazionalisti di ogni epoca e continente, proprio come la “dottrina centrale” rappresenta la condi­tio sine qua non del loro credo, persino quando essi aggiungono nuovi temi per adattare il nazionalismo alla condizione della propria comu­nità. Se unite, le idee e le proposizioni base indicano una definizione di lavoro del nazionalismo come “movimento ideologico per il consegui- " mento e il mantenimento dell’autonomia, dell’unità e dell’identità da parte di una popolazione che i suoi membri giudicano una ‘nazione’”5.

4 Vedi anche la refutazione contenuta in Kedourie (1960, pp. 71-74). La più comune distinzione è quella derivante da Hans Kohn, che riguarda una dottrina organica e una dottrina “volontaristica” riscontrabili rispettivamente in Europa orientale e in Europa occidentale. A ogni modo, mentre la distinzione è importante, essa esprime due varian­ti dello stesso sistema di credenze generale, che nella pratica frequentemente si sovrap­pongono. Per una discussione delle diverse tipologie di nazionalismo vedi A. D. Smith (1971, cap. 8) e Gellner (1992).5 Per le definizioni di nazionalismo vedi L. Snyder (1954) e Connor (1978). Per le definizioni fornite qui vedi l’esposizione completa contenuta in A. D. Smith (1973, sez. 2, e 1991, cap. 4); per la definizione di nazione vedi il cap. 3 di questo volume.

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Da queste idee e da queste proposizioni è emerso un insieme di simbo­li, miti e concetti che delimitano il mondo del nazionalismo da quelli del simbolismo, della mitologia e del discorso e che, inoltre, hanno infuso energia e sorretto popolazioni in tutte le aree del pianeta. Le cerimonie, i simboli e i miti sono cruciali per il nazionalismo: è tramite essi che le nazioni sono formate e celebrate.

Ora, tutte queste proposizioni, idee e definizioni del nazionalismo e della nazione non fanno alcun riferimento a un criterio specifico per sta­bilire l’identità nazionale. Qualsiasi elemento culturale può agire come segno diacritico o emblema della nazione, sebbene in proposito possa esserci una considerevole differenza nella scelta compiuta in particolari circostanze. Non si dovrebbe comunque condannare il nazionalismo per l’incoerenza che manifesta a tale riguardo, in quanto non vi è nulla nella sua dottrina centrale o nelle sue idee che formuli quali elementi culturali debbano essere impiegati come criteri di definizione dell’identità nazio­nale (e lo stesso vale per i concetti di “volontà nazionale” e “frontiere naturali”). Il nazionalismo non dispone di una teoria che spieghi come la volontà del popolo o i confini naturali vadano accertati: esso deve quindi ricorrere ad altre ideologie per tale scopo, e per questo motivo è stato sem­pre combinato con tutti gli altri tipi di movimenti e dottrine: dal libera­lismo al comuniSmo, al razzismo. La dottrina centrale del nazionalismo non fornisce nulla di più che una cornice basica per un ordine sociale e politico del mondo, e va completata con altri sistemi d’idee e dei partico­lari elementi distintivi che interessano la condizione di una comunità in un preciso momento della sua esistenza. Tuttavia, attribuire al nazionali­smo un’incoerenza logica significa trascurare il punto fondamentale — e il potere - di questo movimento ideologico: esso infatti combina un alto grado di versatile astrazione con un’abilità unica nel fare presa sulle aspi­razioni e le necessità essenziali del popolo, ma senza aver mai la pretesa di offrire un’analisi esauriente e coerente della storia e della società.

2) Le argomentazioni etiche contro il nazionalismo puntano in primo luogo contro la sua natura necessariamente estremista, la sua preoccupa­zione per l’omogeneità culturale — che porta all’esclusivismo e alla chiu­sura sociale nei confronti delle minoranze - e la sua negazione dell’indi­pendenza, della diversità e dei diritti umani degli individui6.

Vi è una considerevole parte di verità in alcuni di questi argomenti, spe­cialmente se applicati a casi specifici di nazionalismo. Però, prima di trar­ne regole generali, c’è il bisogno di attente precisazioni. L’idea che tutti i nazionalisti siano fanatici dottrinari della volontà e che ogni nazionalismo

6 Per queste critiche vedi Minogue (1967b) e cfr. Porter (1965). A questi due autori risponde in parte Miller (1973).

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sia estremista per natura è smentita da tanti movimenti, leader e regimi che si sono nel complesso dimostrati democratici, liberali e moderati; i casi di Masaryk in Cecoslovacchia, Prat de la Riba in Catalogna, McDiarmid in Scozia e Snellman in Finlandia sono i primi a venire in mente. Se poi teniamo presenti le condizioni sociali e politiche profon­damente differenti, anche al di fuori dall’Europa possiamo trovare esem­pi di nazionalismi relativamente moderati: in Costa d’Avorio, in Zambia, in Ghana dopo Nkrumah, in Tunisia, in Egitto dopo Nasser, in Turchia dopo Atatiirk, nel periodo del primo nazionalismo indiano, in Giappone dal 1945, in Messico dopo Cardenas. Sebbene non si possa affermare che molti regimi degli stati dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia siano liberali o democratici, i loro difetti non possono essere attribuiti all’estre­mismo nazionalista; inoltre, molti altri fattori possono spiegare la natura spesso non democratica di questi governi. La questione importante è cheil nazionalismo si presenta in tante forme e a vari gradi, che non possono venire ammassati assieme nella singola rubrica deH’“estremismo”.

Non tutti i nazionalismi, poi, hanno lottato allo stesso modo per l’o­mogeneità culturale. Quello che ogni nazionalista chiede è un’unica cul­tura pubblica:, ci sono state infatti situazioni dove alle minoranze religio­se ed etniche è stato concesso senza grossi problemi un certo grado di cul­tura privata, a patto che ciò non avesse troppe ripercussioni sull’identità nazionale creata dalla cultura pubblica dello stato nazionale. Questi esem­pi non valgono, come in genere si suppone, solo per il nazionalismo civi­co: come detto in precedenza, nei confronti delle minoranze, le nazioni civiche possono dimostrarsi non meno rigide delle nazioni etniche. La tolleranza, piuttosto, tende a essere riscontrata nelle nazioni pluralistiche originate da società composte di immigrati, nonostante sia anche possibi­le trovare forme di rispetto dei diritti delle minoranze in nazioni a etnia dominante come la Finlandia, la Malaysia o l’ex Cecoslovacchia.

Non è neppure vero che tutti i nazionalismi negano i diritti umani fon­damentali e le diversità individuali. Questo è un elemento presente nel caso di adozione di ideologie nazionaliste secondarie. La “dottrina cen­trale”, pur richiedendo che la lealtà vada rivolta in modo primario alla nazione, non dice nulla a proposito dei diritti umani o della diversità. E nella versione “organica” del nazionalismo, diffusa dai romantici tedeschi, che si ritrova piuttosto la tendenza a considerare gli esseri umani come prodotti del loro gruppo nazionale; sarebbe però un errore guardare alla dottrina del romanticismo tedesco come alla fonte normativa del nazio­nalismo, almeno perché i principi della Francia rivoluzionaria sono stati molto più influenti (ad esempio in Africa, dove i diritti umani sono lega­ti alla liberazione nazionale). In ogni caso, mentre il nazionalismo è mani­festamente un movimento non democratico o liberale, è probabile che la

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negazione dei suoi dogmi centrali vada ad arrestare il progresso della democrazia e dei diritti umani, come del resto Engels aveva osservato in relazione al nazionalismo polacco7.

3) Le argomentazioni precedenti hanno anche un certo rilievo nella prin­cipale accusa di tipo geopolitico al nazionalismo: il fatto che esso sia desta­bilizzante e divisivo. Ancora una volta si tratta di un’esagerazione. Sicuramente esistono particolari casi di destabilizzazione e divisione e di nazionalisti che rimestano deliberatamente dei risentimenti tra le popola­zioni di aree etnicamente miste come la Bosnia o il Caucaso. Però, come dimostrano gli esempi dell’Unione Sovietica, della Jugoslavia, del Kurdistan e dell’Etiopia, non è il nazionalismo per se a essere responsabile della distru­zione degli stati: esso tende infatti a emergere dalle rovine di entità statali la cui esistenza, per varie ragioni oltre a quelle etniche, non è più sostenibile. Negli altri casi, il nazionalismo etnico può ingaggiare una lunga e vana bat­taglia, come è avvenuto con i Moro nelle Filippine o con i Naga in India. Laddove, per una ragione o per l’altra, l’esistenza di uno stato non è più sostenibile, il nazionalismo può offrire alla situazione locale - spesso insta­bile poiché coercitiva - un’alternativa più fattibile, in quanto più in sinto­nia con le aspirazioni popolari di particolari regioni. Il carattere divisivo e destabilizzatore comune a così tanti nazionalismi è semplicemente l’altra faccia della medaglia della loro dimensione popolare, unificatrice e solida­ristica. Non si può quindi imputare ai nazionalismi la responsabilità delle rivalità statali, che difatti precedono di molto il sorgere della dottrina nazio­nale. II nazionalismo non ha inventato alcun tipo di antagonismo8: quello che ha invece realizzato è stato fondare la competizione fra gli stati sovrani su una base culturale di massa, fornendo in tal modo alle società un certo grado di coesione in periodi di rapidi mutamenti sociali.Necessità, fimzionalità, radicamentoDa quanto ho sostenuto, si può vedere che, sebbene le accuse portate al nazionalismo si rivolgano con veemenza a specifiche dottrine e particola­ri movimenti, spesso non colgono il punto essenziale del problema, oppu­re amplificano il caso singolo di fronte al fenomeno del “nazionalismo in generale”.

7 Sull’osservazione di Engels vedi Davis (1967, p. 22). Le dottrine del romanticismo tedesco sono descritte da Kohn (1965), Robson-Scott (1965) e Hughes (1988, cap. 2).8 L’“inserimento” del nazionalismo in un ordine statale preesistente, prima in Europa e poi altrove, è documentato in Cobban (1945), Hinsley (1973) e Mayall (1990, capp. 2-3). Per le tesi che indicano la destabilizzazione (la distruzione dello stato) come una precondizione piuttosto che un effetto del nazionalismo vedi Snyder (1993) e Posen (1993).

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In conclusione, voglio esporre tre argomenti che, se associati, indicano sia una difesa qualificata dell’ordine pluralistico rappresentato dalle nazio­ni sia l’improbabilità di qualsiasi precoce sostituzione delle nazioni e del nazionalismo. Questi tre argomenti sono: la necessità politica del nazio­nalismo; la funzionalità sociale dell’identità nazionale; il radicamento sto­rico della nazione.

1) Nel capitolo 4 ho discusso dell’importanza del nazionalismo per l’or­dine pluralistico del mondo moderno. Considerato il grande numero di stati nazione riconosciuti almeno a partire dal 1648, l’introduzione dei principi nazionalisti dopo il 1789 può essere vista come un elemento di sostegno, di allargamento e di umanizzazione dell’ordine politico del sistema interstatale, ottenuto basando quest’ultimo su criteri storici Scul­turali, cioè sull’antecedente esistenza di culture-comunità storiche. Queste ultime sono comunità popolari fornite di culture e tradizioni che esprimono le loro aspirazioni come gruppo, e per le quali il nazionalismo cerca una collocazione all’interno della distribuzione del potere mondia­le. E per tale motivo che il nazionalismo lotta così frequentemente con­tro gli stati esistenti e l’ordine interstatale, in modo da fare spazio a cul­ture-comunità sommerse e non riconosciute in un mondo formato da stati nazionali. Inoltre, il nazionalismo combatte affinché ogni stato possa ottenere all’interno dell’ordine mondiale pluralistico una personalità poli­tica distintiva, fondata su una cultura-comunità o una nazione unica e particolare. Questo fatto, oltre che per i nazionalisti, divenne evidente anche per gli altri individui una volta che i poteri del monarca vennero man mano erosi e trasferiti al popolo sovrano. La domanda “chi è il popo­lo?” si fece inevitabile, e il nazionalismo fornì una risposta generale sotto la forma delle comunità storiche dotate di una cultura pubblica, che i nazionalisti stessi stavano aiutando ad adattare e completare. Ben presto, nessun’altra legittimazione per un ordine di stati sovrani pluralistico e per qualsiasi altra fonte di potere politico diventò accettabile.

Ne consegue che le nazioni e il nazionalismo rimangono necessità poli­tiche, poiché - e finché - solo essi possono radicare l’ordine interstatale nei principi della sovranità e della volontà popolare, in qualsiasi modo siano queste definite. Unicamente il nazionalismo, attraverso un senso di identificazione collettiva con la cultura-comunità storica della “patria”, è in grado di assicurare il consenso dei governati all’unità territoriale cui sono stati assegnati. Fino a quando un qualunque ordine globale si baserà sull’equilibrio di stati in competizione, così il principio della nazionalità fornirà l’unica legittimazione largamente accettabile, come anche il punto focale della mobilitazione popolare. Siccome si scorgono pochi segnali riguardo al fatto che la competizione fra gli stati, persino in Europa, stia venendo superata da un ordine politico completamente nuovo, restano

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quindi remote le possibilità che la nazione — costituente la raison d'etre dello stato e della comunità - venga sormontata. Persino nel caso un certo numero di stati si trovasse a riunire i propri poteri sovrani, e persino nel caso le loro comunità nazionali fossero d’accordo di federarsi in un sin­gola struttura politica, la nazione e il nazionalismo resterebbero a lungo l’unico valido centro d’interesse e di conferma elettorale per l’accerta­mento della volontà popolare. Al di fuori dell’Europa, invece, non si osservano particolari indizi di attività federative; di conseguenza, un mondo pluralistico di nazioni e stati nazionali rimane la sola salvaguardia contro la tirannia imperialista.

2) L’identità nazionale, in quanto opposta agli altri tipi di identità col­lettiva, è funzionale in modo preminente alla modernità, essendo adatta ai bisogni di un’ampia gamma di individui e gruppi sociali dell’epoca in cui viviamo. Ciò non è dovuto principalmente al fatto che il nazionali­smo è funzionale a una società industriale che richiede eserciti di cittadi­ni dotati di mobilità e istruzione per il suo efficace funzionamento: sono piuttosto i miti, le memorie, le cerimonie e i simboli legati al nazionali­smo a fornire le basi esclusive per quella coesione sociale e quell’azione politica cui devono fare appello le società moderne, con la loro composi­zione sociale etnica e sociale spesso eterogenea e i loro svariati obiettivi. Il nazionalismo è un’ideologia del territorio storico, che concentra le ener­gie degli individui e dei gruppi nell’ambito di una “patria” demarcata con chiarezza, dove tutti i cittadini sono ritenuti fratelli e sorelle e alla quale pertanto “appartengono”. Con la ripetizione nella madrepatria, a inter­valli periodici, dei riti di fraternità di una comunità politica, la nazione entra in comunione con se stessa e si autovenera, facendo sentire ai citta­dini il potere e il calore della loro identificazione collettiva e infondendo­gli un’autocoscienza e una riflessibilità sociale molto più forti9.

Come risultato, i membri individuali giungono a percepire le funzioni sociali della propria dipendenza dalla nazione, inclusi alcuni bisogni col­lettivi come la conservazione degli insostituibili valori culturali della loro

9 È strano che Durkheim, così interessato alla coesione sociale nelle società moderne, non abbia affrontato direttamente il problema del nazionalismo; forse anch’egli, come Weber, ha semplicemente assorbito gli assunti nazionalistici, oppure è stata la sua visio­ne della solidarietà sociale a costituire - attraverso le teorie “organiche” tedesche sulla società - un prodotto indiretto dell’epoca nazionalista. Fu solo durante la prima guer­ra mondiale che il nazionalismo di Durkheim venne allo scoperto, sebbene sia possi­bile leggere Le forme elementari della vita religiosa (orig. francese del 1912) - con le sue analogie tra riti totemici e riti secolari (della Rivoluzione francese) e il bisogno presen­te nelle società moderne di “religione” e di celebrazioni periodiche della vita collettiva - come il riconoscimento della centralità della nazione nel mondo moderno. L’elemento mancante, tuttavia, è il riconoscimento del mito della patria e della dimen­sione territoriale; vedi in proposito Mitchell (1931) e A. D. Smith (1983).

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comunità, la riscoperta delle sue radici autentiche, la celebrazione e l’e­mulazione degli esempi di virtù eroica, la ricreazione dei sentimenti di fraternità e consanguineità, la mobilitazione dei cittadini per obiettivi comuni. E da questi bisogni - che sono tanto spesso i temi degli appelli pubblici — che fuoriescono i rituali e le cerimonie, le usanze e le feste, le tradizioni e i simboli che in ogni generazione commemorano e celebrano la nazione. Lo scopo comune di queste manifestazioni è far sorgere nei cittadini una coscienza nazionale e dar vita a una volontà nazionale; tali obiettivi sono poi raggiunti attraverso un’ostentazione pubblica e di massa e un vivido immaginario. Sebbene alcuni animi valorosi possano opporsi a particolari regimi nazionali, la maggior parte della cittadinanza si è dimostrata fin troppo disposta a celebrare e a partecipare ai riti della nazione, accettando le storie e i miti dell’identità nazionale così come erano giunti sino a loro. Le defezioni sono sempre state minime e, alme­no fino a oggi, le maggioranze continuano a identificarsi con la versione ideale della nazione dipinta dal nazionalismo10.

Il senso dell’identità nazionale, inoltre, è di consueto sufficientemente forte a generare uno spirito di autosacrificio a favore della nazione in molti cittadini (se non nella maggior parte di essi). Ciò si rivela, in par­ticolare, in occasione di periodi di crisi e di guerra. In tali circostanze, si può verificare quanto sia pronta la maggioranza della cittadinanza a sop­portare privazioni e a sostenere sacrifici personali “in difesa della nazio­ne”, sino al punto di arrivare a immolarsi volontariamente, spesso in massa (come accadde in tanti dei paesi che hanno combattuto le due guerre mondiali). Un tale autosacrificio su larga scala non è immagina­bile in nome di qualsiasi altro tipo di identità culturale collettiva pre­sente nella nostra epoca (con la possibile eccezione di poche comunità religiose); d’altra parte, è il singolare potere della nazione di indurre al sacrificio di massa ad aver tanto spesso fatto di essa l’obiettivo di dema­goghi senza scrupoli. In questo modo, la nazione è diventata il principa­le strumento bellico, mentre l’identità nazionale la giustificazione pri­maria per la partecipazione a conflitti letali. Inghilterra e Irlanda; Francia e Germania; Grecia e Turchia; Israele e paesi arabi; India e Pakistan, Khmer e Vietnamiti: il richiamo degli antagonismi etnonazionali dell’e­poca moderna ci ricorda come i conflitti abbiano rinforzato la coscienza nazionale e come la mobilitazione delle nazioni abbia mutato per sem­pre la natura della guerra11.

10 Sul ruolo del tradimento e della lealtà vedi Grodzins (1956); sulle celebrazioni nazionali vedi Eri e jobbagy (1989, che tratta le celebrazioni del millenario ungherese del 1896) e, più in generale, Hobsbawn e Ranger (1983).11 Per l’impatto delle due guerre mondiali sulla coesione nazionale vedi Marvick (1974) e, più in generale, A. D. Smith (1981b). Il tema dell’autosacrificio eroico per

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Quanto detto è in se stesso insufficiente a presagire la persistenza delle identità nazionali. Come è stato spesso dimostrato, la funzionalità di un’i­stituzione o di un’ideologia non è una prova a sostegno del permanere della sua presenza o della sua influenza. Allo stesso tempo, le molte fun­zioni che l’identità nazionale continua a svolgere vanno comunque prese in considerazione nella valutazione della vitalità del nazionalismo con­temporaneo.

3) Come ho continuamente sostenuto, la nazione è storicamente radi­cata. Essa costituisce l’attuale erede e la trasformazione di etnie più anti­che e meno sviluppate, raccogliendo in tal modo in se stessa tutti i sim­boli e i miti dell’etnicità premoderna. Combinando questi legami e sen­timenti premoderni con la moderna carica esplosiva della sovranità popolare e della cultura pubblica di massa, il nazionalismo ha creato il moderno e unico dramma della liberazione nazionale e della mobilita­zione popolare in una patria ancestrale. Gli antichi miti dell’elezione etnica - cioè la credenza nell’elezione condizionata di determinate comunità, i cui privilegi divini sarebbero dipesi dal costante adempi­mento dei loro doveri — non sono comunque mai sfioriti. Il nazionali­smo gli ha semplicemente concesso nuovi orizzonti, ispirando il deside­rio di una rigenerazione collettiva della madrepatria e della salvezza del­l’elezione nazionale, pur condizionate alla riappropriazione dell’identità autentica e del suolo ancestrale (come è stato così manifestamente dimo­strato dal nazionalismo armeno e da quello sionista)12.

Ci sono ulteriori esempi di radicamento storico della nazione in cor­nici etniche molto più antiche. Mentre X idea di nazione può venire estirpata, generalizzata e trasferita in ambienti dove non è presente quel­la che sarebbe la sua ovvia patria ancestrale o etnia storica - vedi ad esempio delle comunità isolane di immigrati eterogenei come Trinidad o Maurizio - , le nazioni più attuali hanno attinto il proprio potere dai loro legami politici e popolari con identità o comunità etniche molto più remote. Questo fatto ha permesso ai nazionalisti di riscoprire, riappro­priarsi e ritornare a simboli, usanze e cerimonie tradizionali, alla manie­ra delYEisteddfodau gallese, che, nonostante numerosi adattamenti e cambiamenti, è restato nell’insieme in linea con il contesto del Galles medievale dei bardi, gradualmente scomparso nel XVI secolo ma soprav­vissuto nella coscienza popolare nel locale “almanacco eisteddfodau'. In alternativa, possono invece essere le élite religiose a preservare forme più

la nazione in voga nell’arte neoclassica è analizzato da Rosenblum ( 1967, cap. 2) e A.D. Smith (1987, cap. 8).

Quest’argomento è trattato più ampiamente in A. D. Smith (1992a). Sul naziona­lismo armeno e sionista vedi Walker (1980) e Almog (1987).

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antiche di celebrazioni, come nel caso delle feste agrarie degli Ebrei del­l’antica Palestina, mantenute di anno in anno dalle comunità sempre più urbanizzate della diaspora, per essere poi riprese come feste nazionali dai primi sionisti al momento del ritorno in Israele13.

Anche gli eroi e le saghe sono stati oggetto di riappropriazione da parte dei moderni nazionalisti per i loro fini personali. Maometto e Mosè hanno cessato di essere dei profeti e dei servitori di Dio, diventando dei leader nazionali per eccellenza; bardi appartenenti alla mitologia come Oisin (Ossian) e Vainamoinen sono divenuti i modelli dell’antica saggez­za nazionale irlandese e finlandese; gli eroi del Ramayana sono stati tra­sformati nei prototipi della resistenza nazionale dell’India. Rilevante in proposito non è comunque l’utilizzo che leader spesso senza scrupoli hanno fatto di questi antichi modelli, ma piuttosto il fervore delle masse che vi hanno creduto. La forza della loro identificazione con il passato etnico e le leggende, i miti, i simboli e i valori a questo collegati è stata decisiva per il successo delle iniziative dei nazionalisti, dimostrandosi vita­le anche per i contenuti del nazionalismo che ne è conseguito. Il passato etnico pone inoltre dei limiti alle manipolazioni delle élite e fornisce gli ideali per la restaurazione della nazione e il suo destino. In tal modo, la nazione rimane radicata in un passato che foggia il futuro della nazione stessa molto più di qualsiasi attuale tendenza a livello globale. Il “presen- tismo ostacolante” di tante analisi attuali non dovrebbe distogliere dalla continuità del potere, anche se talvolta nascosto, della discendenza nazio­nale e dalla persistenza di particolari sentimenti e legami etnici, nei quali la nazione è così spesso radicata14.

Ma non è semplicemente il radicamento della nazione come la cono­sciamo oggi a essere in discussione; anche il suo destino deve moltissimo del suo significato e della sua direzione a interpretazioni successive del passato etnico. È questo collegamento fra etnostoria e destino nazionale che opera nel modo più incisivo nel sostegno e nella preservazione di un mondo composto da nazioni. La nazione moderna si è trasformata in

13 II contrasto tra “nazionalismo formale” e “nazionalismo informale” a Trinidad e Maurizio è analizzato da Eriksen (1993); il revival dell’Eisteddfodau da P. Morgan (1983). Per l’urbanizzazione del giudaismo Mishnah vedi Neusner (1981); per il revi­val delle feste ebraiche da parte dei primi sionisti vedi Hertzberg (1960).14 Su questo “presentismo ostacolante” in relazione all’etnogenesi degli Yoruba vedi Peel (1989). Esempi di usi nazionalistici degli eroi e delle saghe del passato sono descritti da Kedourie (1971, “Introduction”); cfr. anche le critiche in Hutchinson (1987, cap. 1), Kapferer (1988) e Roberts (1993), che si focalizzano tutte sui limiti alla manipolazione nazionalista posti da relazioni sociali plasmate da una lunga storia di legami e sentimenti etnoreligiosi.

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quello che le comunità etnoreligiose erano nel passato: comunità con una storia e un destino comuni, che conferivano ai mortali un senso di immortalità fornito dal giudizio della posterità, piuttosto che dal giudizio divino dell’aldilà.

Quest’abilità nel soddisfare una più generale aspirazione all’immortalità distingue il nazionalismo dalle altre ideologie e dagli altri sistemi di cre­denze del mondo moderno. In alcune zone, ciò ha permesso al naziona­lismo di allearsi con religioni a diffusione mondiale come l’Islam o il Buddismo; in altre, è stato lo stesso nazionalismo a sostituirsi a tradizio­ni in declino. In entrambi i casi, tuttavia, quello che emerge come ideo­logia essenzialmente secolare e simbolismo politico-culturale rivela una dimensione trascendentale, che innalza l’individuo oltre il mondo terre­no e lo porta fuori dal tempo. In questo senso, il nazionalismo può esse­re considerato come un “surrogato della religione”, mentre la nazione come la continuazione, ma anche la trasformazione, della comunità etno- religiosa premoderna15.ConclusioneQuanto sostengo è quindi che, a dispetto delle potenzialità del nazionali­smo di generare terrore e distruzione su larga scala, la nazione e lo stesso nazionalismo costituiscono l’unica realistica cornice socioculturale per il moderno ordine mondiale: attualmente essi non hanno rivali. Anche l’i­dentità nazionale mantiene un’ampia attrattiva e una sua efficacia, essen­do considerata da tanti individui un elemento in grado di soddisfare i loro bisogni di appagamento culturale, stabilità, sicurezza e fraternità. Molte persone sono ancora pronte a rispondere al richiamo della nazione e a dare la vita per questa causa. In sostanza, le nazioni sono legate dai vin­coli della memoria, dei miti e dei simboli a quel tipo di comunità diffu-

15 È stato talvolta affermato che le nazioni richiedono un destino comune cui si può arrivare senza una storia condivisa: le “nuove nazioni” dell’Asia e dell’Africa ne costi­tuirebbero l’esempio. Molto spesso, tuttavia, si tratta di nuovi stati, non di nazioni, con un nucleo centrale che può vantare comunque una storia comune, anche se solo per poche generazioni. In questi casi, a ogni modo, la suddetta storia riguarda una regio­ne o una provincia in cui sono presenti numerose etnie (e religioni); qui, il mero pote­re di un’esperienza storica comune rappresentata da una lunga lotta di liberazione ha unito una popolazione etnicamente eterogenea. Il nazionalismo opera quindi in que­sti luoghi come un “surrogato di religione”, che va a sostituire precedenti etnie e reli­gioni. Un esempio può essere costituito dall’Eritrea, nonostante rimanga ancora da dimostrare se il nazionalismo locale sarà in grado di forgiare una nazione completa da una comunità unita da un destino comune; cfr. Cliffe (1989). Per un’interpretazione simile del nazionalismo, cioè di fenomeno collegato e in cerca di risposte di fronte alle questioni della morte e dell’oblio (cui possiamo aggiungere il “problema del male”) vedi Anderson (1983, pp. 17-19).

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so e durevole che è l’etnia: è questo a conferire loro un carattere unico e una profonda presa sui sentimenti e l’immaginazione di così tanti indivi­dui.

Nessuna delle precedenti affermazioni intende comunque negare la “faccia oscura del nazionalismo” e le sue potenzialità divisive, destabiliz­zanti e distruttive. La realtà da comprendere è il potere onnipresente della nazione e del nazionalismo nel mondo globale, e ciò può essere fatto solo cogliendo le basi etnostoriche di questi ultimi e il modo in cui le inclina­zioni dell’era moderna hanno rivitalizzato dei legami etnici persistenti, venendone a loro volta modellate.

Alla luce di tutte queste considerazioni, sarebbe dunque sciocco prean­nunciare la prossima sostituzione del nazionalismo e l’imminente supera­mento della nazione. Entrambi rimangono elementi indispensabili di un mondo interdipendente e del sistema delle comunicazioni di massa, in quanto una cultura globale sembra incapace di offrire le qualità di fede collettiva, dignità e speranza che solo un “surrogato di religione” può elar­gire attraverso la promessa legata a una cultura-comunità territoriale in grado di perpetuarsi generazione dopo generazione. Oltre e al di sopra qualsiasi beneficio politico o economico che il nazionalismo etnico possa concedere, è tale promessa di immortalità collettiva, benché terrena, sfi­dante la morte e l’oblio, ad aver sostenuto tante nazioni e stati nazionali in un’era di cambiamenti sociali senza precedenti e ad aver dato nuova vita a tante minoranze etniche che apparivano ormai segnate nell’epoca dell’uniformità tecnologica e del dinamismo delle grandi compagnie.

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Bibliografìa

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