Anno IX - Numero 84 pro-manuscripto 1/2000 Gennaio della … · 2016. 8. 12. · Il Nicodemo -...

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Parrocchia S. Maria della Visitazione Pace del Mela IL NICODEMO Anno IX - Numero 84 pro-manuscripto 1/2000 Gennaio v Fogli della Comunità

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  • Parrocchia

    S. Maria

    della Visitazione

    Pace del MelaIL NICODEMO

    Anno IX - Numero 84 pro-manuscripto 1/2000 Gennaio

    v

    Fogli della Comunità

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

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    SOMMARIO

    2 Ci sarà ancora “vita” nel Terzo Millennio?di Franco Biviano

    3 La Chiesa serva del regno di Diodi fr. Egidio Palumbo, carmelitano

    5 Settimana della Missione 2000Programma

    6 Bambini in guerradi Gabriella La Rocca

    7 Santa Eustochia Smeraldadi Emanuela Fiore

    8 La Purificazionedi Angelina Lanza

    9 2000, L’anno del Giubileodi Emanuela Fiore

    10 A proposito di Baby gangsdi Carmelo Parisi

    11 Sognodi Lori D’Amico

    12 Com’erano i savoiardi nel ‘700?di Franco Biviano

    13 L’Europa pensa all’agricolturaa cura della SOAT di Spadafora

    14 Il Giudice Unicodi Angela Calderone

    15 L’inferno du Messinadi Fortunato Pellegrino

    17 U stagnatarudi Mimmo Parisi

    18 Il baco è stato veramente sconfitto?di Maria Grazia Tuttocuore

    19 Breve storia della cucina sicilianadi Lidia Rizzo

    20 I fatti nostria cura di Franco Biviano

    20 Anagrafe parrocchialeNovembre-Dicembre 1999

    Giornata per la VitaCI SARA’ ANCORA “VITA”

    NEL TERZO MILLENNIO?

    di Franco Biviano

    Siamo ridotti veramente male! Se dobbiamo dianno in anno ricordarci principi che un tempo era-no insiti nel cuore dell’uomo, siamo ridotti vera-mente male! La giornata per i diritti del Fanciullo(con lettera maiuscola, mi raccomando), la giorna-ta per la Vita, la giornata della Donna e chi più ne hapiù ne metta.

    Il terzo millennio, questo concetto altisonante eal tempo stesso privo di reali contenuti, dovrebbe li-berarci per magia da ogni comportamento inuma-no. E invece il rischio è esattamente l’opposto.

    Se ci aspettiamo che le cose cambino per magia,tutto rimarrà esattamente come prima. Se non cam-biamo dentro, il terzo millennio tanto atteso non cisarà. Non certo il terzo millennio apportatore di unmondo migliore.

    Se l’umanità non si decide a volgersi a Cristo perseguirne il dolce insegnamento, per scegliere final-mente i valori veri, in una parola per essere intrinse-camente “umana”, il terzo millennio potrebberivelarsi anche peggiore di quello che sta per con-cludersi.

    La prima inversione di rotta che l’umanità dovràeffettuare riguarda la concezione della vita. Ci aiu-ta, come ogni anno, il messaggio del Consiglio epi-scopale permanente.

    Diventeremo uomini del nuovo millennio se sare-mo capaci di riappropriarci del concetto che la vita èsacra, appartiene ad una dimensione superiore,non può essere né creata né soppressa in laborato-rio; se sapremo accettarla come dono che ci realizzae ci matura; se ne apprezzeremo la fragilità che ri-chiede, in ogni momento e in ogni età, uno sforzo diaccoglienza e di sostegno; se comprenderemo cheessa ha uno sbocco meraviglioso sull’eternità, nonè destinata a finire in un vicolo cieco; se sapremo ri-spettarne il mistero, che solo la fede riesce ad illu-minare.

    Allora la Tv e il cinema non saranno più scuole diviolenza, non ci saranno più uccisioni e guerre, nébarboni che muoiono all’addiaccio, né commerciodi armi e di droga, né aborto né eutanasia; nessunolavorerà per morire e per far morire, ci sarà rispettoper gli anziani e per i disabili. Allora l’Amore trion-ferà veramente sulla “morte”.

    Da tutto questo dipende se ci sarà ancora “vita”nel terzo millennio.q

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    Missione 2000

    LA CHIESA SERVA DEL REGNO DI DIOfr. Egidio Palumbo, carmelitano

    Per questo Anno Giubilare lanostra Diocesi ha program-mato la “Missione 2000”come azione pastorale da

    viversi in ogni Vicariato. È un impe-gno — scrive l’Arcivescovo — “a ri-pensare in ottica missionaria tutto ciòche viviamo e facciamo nelle nostrecomunità e a riscoprirlo come donoche rimanda ai fratelli per raggiungerlilà dove essi vivono. Si tratta di diveniresempre più “Popolo in missione” piut-tosto che “Missioni al Popolo””. Valela pena, allora, di riflettere sul sensodella Missione oggi.

    Due “perle preziose”. “Il regno deicieli è simile ad un mercante che va incerca di belle perle...”. Nell’ultimaparte del secondo millennio la Chiesaci ha fatto il dono di due “perle”, bel-lissime e preziose, che attengono allasua missione nel mondo. La prima ri-chiama l’attenzione sull’origine trini-taria della missione. La troviamo neldecreto conciliare sull’attività missio-naria della Chiesa, Ad Gentes n. 2: “LaChiesa peregrinante per sua natura èmissionaria, in quanto trae originedalla missione del Figlio e dalla mis-sione dello Spirito Santo, secondo ildisegno di Dio Padre”. L’affermazioneè importantissima, perché dire Trinitàsignifica dire Relazione di Amore: lamissione della Trinità è motivatadall’Amore incondizionato, gratuito euniversale di Dio Padre per l’umanitàtutta, Amore espresso nella massimatrasparenza dalla concretezza storicadell’esistenza del Figlio, Amore rie-spresso e dilatato dalla presenza crea-trice dello Spirito Santo, che sostienee guida la sua Chiesa “fino agli estremiconfini della terra”, che spessol’anticipa nel suo cammino e dilata isuoi confini soffiando dove vuole. Laseconda “perla”, legata alla prima, ri-chiama l’attenzione sulla prospettivadel regno di Dio. La troviamonell’enciclica di Giovanni Paolo II sul-la permanente validità del mandatomissionario, Redemptoris Missio. Qui

    si sottolineano le molteplici prospetti-ve del regno di Dio. È bene evidenziar-le. “Il regno di Dio è destinato a tuttigli uomini... La liberazione e la salvez-za portate dal regno di Dio, raggiun-gono la persona umana nelle suedimensioni sia fisiche che spirituali”(n. 14); “Il Regno mira a trasformare irapporti tra gli uomini e si attua pro-gressivamente, man mano che essi im-parano ad amarsi, aperdonarsi, a servirsia vicenda... Perciò lanatura del Regno è lacomunione di tuttigli esseri umani tradi loro e con Dio” (n.15); “Il Regno ri-guarda tutti: le per-sone, la società, ilmondo intero. Lavo-rare per il Regnovuol dire riconosceree favorire il dinami-smo divino, che èpresente nella storiaumana e la trasfor-ma. Costruire il re-gno vuol direlavorare per la liberazione dal male intutte le sue forme. In sintesi, il regno diDio è la manifestazione e l’attuazionedel suo disegno di salvezza in tutta lasua pienezza” (n. 15); “La Chiesa è ef-fettivamente e concretamente a servi-zio del Regno. Lo è, anzitutto, conl’annunzio che chiama alla conversio-ne... poi... fondando comunità e istitu-endo chiese particolari... inoltre...diffondendo nel mondo i “valori evan-gelici”, che del Regno sono espressio-ne e aiutano gli uomini ad accogliere ildisegno di Dio” (n. 20). Se la Chiesa ègerme e segno del Regno ed è a servi-zio del Regno, tuttavia — come giàscriveva Paolo VI — “la Chiesa non èfine a stessa, ma tutta di Cristo, in Cri-sto e per Cristo, e tutta degli uomini,fra gli uomini e per gli uomini” (n. 19).A queste importanti affermazioni Gio-vanni Paolo II ne aggiunge un’altra diinestimabile valore: “La realtà inci-piente del Regno può trovarsi anche aldi là dei confini della Chiesa

    nell’umanità intera, in quanto questaviva i “valori evangelici” e si apraall’azione dello Spirito che spira dovee come vuole (cf. Gv 3,8); ma bisognasubito aggiungere che tale dimensionetemporale del Regno è incompleta senon è coordinata col regno di Cristo,presente nella Chiesa e proteso allapienezza escatologica” (n. 20). Que-sto vuol dire che la Chiesa non si iden-

    tifica con il Regno di Dio. Esso è moltopiù vasto della Chiesa; la sua presenzanella storia attraverso l’azione delloSpirito supera i confini strettamenteecclesiali, perché lo Spirito “èall’origine stessa della domanda esi-stenziale e religiosa dell’uomo, la qua-le nasce non soltanto da situazionicontingenti, ma dalla struttura stessadel suo essere. La presenza e l’attivitàdello Spirito non toccano solo gli indi-vidui, ma la società e la storia, i popoli,le culture, le religioni” (n. 28).

    Dialogo e Annuncio. Le due “perlepreziose” — dimensione trinitaria eprospettiva del regno di Dio — vannovalorizzate, sull’esempio del protago-nista della parabola evangelica: “...trovata una perla di grande valore, vavende tutti i suoi averi e la compra”. Siaprono così vasti e nuovi orizzonti allamissione della Chiesa. La qualificanocome annuncio del Parola di Dio, fattosoltanto per amore e senza interesse.

    tGesù Maestro in una miniatura medievale.

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    Annuncio che entra in dialogo con lesituazioni concrete della vita quotidia-na, con i processi della modernità, conle culture, i popoli, le religioni. Avendola consapevolezza che la Parola di Dioè “sacramentalmente” più efficacedelle nostre parole o dei nostri balbet-tii, perché è Presenza di Dio che illu-mina, guarisce, salva; Presenza umile(kenotica!) che lavora dall’interno del-la vita, facendo sì che le nostre parole ele nostre mani siano poste al serviziodel regno di Dio, ovvero del primatodell’esperienza di Dio e della promo-zione e liberazione integrale di ogniuomo e donna. La missione, dunque,si fa dialogo, non conquista di privile-gi; dialogo paziente, non omologazio-ne incosciente con le mode culturalieffimere e disumane; dialogo esigentenella verità e nella fedeltà al Vangelo,nel discernimento serio e rigoroso del-le situazioni, nella profezia che guardaoltre i luoghi comuni, nella gestionesapienziale delle realtà di questo mon-do.

    Tre priorità. Guardando alla situa-zione odierna, ne annoto soltanto tre.Riscoprire il valore dell’iniziazione cri-stiana. È la prima priorità. Si tratta diricominciare dall’abc della vita cristia-na: porre al centro come sorgente eforza plasmatrice di una vita cristianamatura la Parola e i Sacramenti, e lamistagogia, ovvero l’educazione ai mi-

    steri della fede finalizzata a legareParola, Sacramenti e vita quotidiana.Di cristiani maturi ce ne sono ben po-chi. In genere il panorama ci offre unavasta gamma di cristiani che va dai su-perficiali, agli appassionati di eventimiracolistici, agli “artigiani” di una re-ligione “fai da te” abili miscelatori dipsicologia-elementi-di-cristianesi-mo-elementi-di-religioni-orienta-li-esoterismo-pseudomisticismo, finoagli indifferenti. Per molti non è colpaloro. Non hanno incontrato cristianimaturi in grado di accompagnarli nelloro cammino di fede. Riscoprire il va-lore dell’alterità. È la seconda priorità.Oggi viviamo in una società pluralisti-ca, e sarà sempre di più così per il futu-ro. Bisogna educarsi a saperincontrare l’altro, il diverso. Sappia-mo che la maturità personale si rag-giunge solo con l’apertura all’altro eche, viceversa, l’apertura all’altro è au-tentica solo se si è consapevoli dei pro-pri valori; più si è ospitali verso l’altroattingendo dai suoi valori, più si vivemeglio la propria identità, e, viceversa,più si vive meglio la propria identità,più ci si apre all’altro. Il valoredell’alterità è il vero presupposto peruna relazione dialogica autentica conl’altro. Umanizzare l’economia. È laterza priorità. “Globalizzazione” è ilverbo del terzo millennio. La primaglobalizzazione già speditamente av-viata è quella dell’economia (quella

    dell’informazione è già sulla buonastrada). Sappiamo che qui non tutto èinnocente e pulito. Anzi, l’economiaglobale, che in teoria doveva distribui-re benessere e ricchezza per migliora-re la qualità della vita di tutti, invece lasta concentrando nelle mani di pochiprivati (attualmente il 20% della popo-lazione mondiale possiede l’80% dellericchezze del pianeta, per il 2025l’ONU prevede una concentrazioneancora maggiore nelle mani di pochi).La logica della globalizzazionedell’economia è la ricerca della massi-mizzazione del profitto. Non interessala qualità della vita: soddisfare i biso-gni primari, migliorare la produzione,il prodotto e il lavoro. Interessa, inve-ce, il profitto per il profitto, il denaroper il denaro. Interessa avere di piùperché è di più. È questa una economiache uccide i poveri: lo dimostral’immane debito estero che i paesi delSud del mondo oggi non sono più ingrado di sopportare (non riescono apagare nemmeno gli interessi). ScriveDon Enrico Chiavacci, noto teologoesperto di economia: “Siamo di fronteal vitello d’oro che si deve adorare, difronte al quale ogni altro valore umanoe anche religioso deve inchinarsi. Noicristiani, come singoli e come Chiesa,siamo mandati nel mondo e nella sto-ria per annunciare ben altro Vangelo:l’annuncio del Vangelo del Regno è lamissione”.

    In questa prospettiva si sta muo-vendo la Chiesa italiana conl’iniziativa per la riduzione del debitoestero dei Paesi poveri, acquistando ildebito di uno o più Paesi poveri, can-cellandolo verso i creditori e trasfor-mandolo in finanziamento di progettidi sviluppo sociale.

    Questa iniziativa non dovrebbe ave-re il senso dell’elemosina, ma stimola-re una verifica evangelica seria ecoraggiosa riguardo al nostro stile etenore di vita, ai nostri consumi (peres., alcuni prodotti perché non acqui-starli nelle “Botteghe per il commercioequo e solidale”, ormai abbastanzadiffuse?) e ai nostri investimenti (peres., perché non investire nella “BancaPopolare Etica”?). Attraverso questescelte ognuno può dare il suo piccolocontributo all’umanizzazionedell’economia. Anche così si è a servi-zio del Regno.q

    Fraternità Carmelitanadi Pozzo di Gotto (ME)

    per “I Mercoledì della Bibbia – 2000”organizza dal 12 gennaio al 5 aprile

    i seguenti incontri di studio:

    12/gennaio e 19 gennaio:I movimenti religiosi nella Palestina al tempo di Gesù

    (Egidio Palumbo)

    26 gennaio:La preghiera nella sinagoga e nella famiglia (Aurelio Antista)

    2 febbraio e 9 febbraio:La preghiera dei Salmi (Alberto Neglia)

    dal 16 febbraio al 5 aprile:Lectio divina sul libro dell’Esodo (Gregorio Battaglia)

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    BAMBINI IN GUERRA

    UN MISSIONARIO TRA I RAGAZZI PERDUTIdi Gabriella La Rocca

    Quante volte ci è capitato dileggere nelle riviste o diascoltare in TV che contro ibambini si è scatenata una

    guerra: un massacro silenzioso e ag-ghiacciante perpetrato ognigiorno in ogni Paese del mondo- anche nel nostro evolutoOccidente – e scandalizzarciper gli orrori ma limitarci solo aquesto. Chiacchiere momenta-nee senza alcun risultato, tantola questione non tocca diretta-mente i nostri figli! Ci si na-sconde dietro il paravento chela vita non è tenera con chi è de-bole, con chi non ha nessuno sucui contare, con chi è povero esenza mezzi e che queste brut-ture avvengono per lo più in Pa-esi lontani.

    Tra tutti i minori del mondodi cui si calpestano i diritti,quelli la cui vita sembra valeremeno, sono proprio loro: ibambini reclutati, tanto dai go-verni quanto dagli eserciti diopposizione, che partecipano aguerriglie, guerre civili, guerreetniche. Vengono arruolati aforza, rapiti dai villaggi o daicampi profughi. Sono adde-strati a morire, armati già in te-nera età di kalashnikov AK47 o difucili d’assalto americani M16, leggericome giocattoli ma pronti a sparare600 colpi al minuto.

    L’età per l’arruolamento varia daidieci anni per l’esercito sudanese, ottoanni per combattere nel Burundi e nel-la Repubblica Democratica del Congoe addirittura sette per essere arruolatinelle forze paramilitari in Birmania.Non esistono differenze di sesso. Tuttii bambini sono guerrieri facili da adde-strare perché vengono resi, attraversol’assunzione di alcool e droghe, inca-paci di capire cosa è bene e cosa èmale. Uccidono per non essere uccisi.Le bambine, spesso, vengono rapite epoi utilizzate come spie, portaordini o

    prostitute per i militari.Per tutelare i diritti di questi bambi-

    ni si stanno battendo diverse associa-zioni umanitarie come la “Humanrights watch” che, insieme ad altre as-sociazioni non governative, ha lancia-to una campagna internazionale

    contro l’utilizzo dei minori in guerra.In Italia è nata una coalizione, allaquale aderiscono diverse associazioni(Amnesty International, Unicef e cosìvia), che ha questi stessi obiettivi. Nelmese di ottobre 1999, infatti, è statacelebrata una giornata nazionale chia-mata “Stop ai bambini soldato”. Lefirme raccolte - per una petizione ri-volta al Presidente della Repubblica, alParlamento e al Governo – servirannoa convincere i Paesi, attraverso l’Onu,a non arruolare negli eserciti regolariminori di 18 anni.

    Recentemente in Sierra Leone 227bambini soldato sono stati liberati dailoro oppressori, ma non dagli stravol-gimenti che una guerra provoca. Essivivono in uno stato confusionale: ave-

    vano imparato ad uccidere, ora nonsanno più chi sono. Molti sono i mis-sionari che si sono stabiliti nei Paesipiù poveri della Terra e la loro missio-ne è, appunto, insegnare nuovamentea questi piccoli soldati come si gioca,quali sono i valori umani, cos’è il bene

    e cos’è il male. Tra questi c’è Pa-dre Giuseppe Berton, missiona-rio saveriano. Si trova in SierraLeone ormai da ventisette anni ela sua missione si occupa di rie-ducare, nei due centri che haaperto nella capitale Freetown, ibambini soldato coinvolti nellaferoce guerra civile che ha insan-guinato per nove anni il Paese.Egli stesso racconta che, quandoè stato catturato dai ribelli neltentativo di comprare dei bambi-ni soldato dalla cosiddetta poli-zia, ha riconosciuto proprio tra isuoi carcerieri alcuni ragazzi cheaveva “salvato”, strappandolidalle mani della polizia. Il suo èun lavoro particolarmente inten-so e arduo, più che mai adessoche il trattato di pace è stato fir-mato e i bambini non combatto-no più. Ma la cosa piùpreoccupante, secondo PadreBerton, non è tanto la ricostru-zione materiale della Sierra Leo-ne, quanto la ripresa morale.Come far ritornare alla consape-

    volezza, alla capacità di distinguere ilbene e il male, ragazzi che hanno resonulla ogni legge morale? I combonia-ni, missionari presenti in quindici Sta-ti dell’Africa, affermano che ilproblema è la guerra, l’odio razziale, imercanti d’armi. Cristiani o non cri-stiani, tutti dobbiamo ricordarci cheogni guerra è contro il Vangelo e con-tro l’uomo.

    E’ necessario aiutare con i fatti enon solo con le parole le opere chequesti missionari hanno intrapresocon molto coraggio. E ricordarli nellenostre preghiere affinché il Signoredia loro la forza necessaria per com-battere questi orrori e salvare tantepiccole vite innocenti.q

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    SANTA EUSTOCHIA SMERALDALa toccante concelebrazione in occasione del 515° anniversario della morte

    di Emanuela Fiore

    Tutto è pronto perché la ceri-monia abbia inizio. E rivedomentalmente la prima voltache venni in questa chiesa:

    avevo 12 anni, quando con la mia fa-miglia conobbi, per una triste circo-stanza, Santa Eustochia SmeraldaCalafato, nella chiesa di Mon-tevergine.

    Subito la figura della Santaesercitò in me un’attrazione in-contenibile. Ero desiderosa dicontemplare, di toccare e di ba-ciare quell’immagine dolce esanta. Erano circa le sedici e inquel luogo quasi irreale, meri-tatamente stimato e degno digrandi onori, era un crescendo,senza interruzioni, di andare evenire di fedeli, devoti ammira-tori che, come me lasciavanointravedere gli occhi umidi dilacrime.

    Stavo pregando, quandouna suora si diresse verso di noied ho avuto la certezza che fos-se una delle presenze angelicheche irradiano, con la loro luce,il felice Monastero, che è presa-gio di benefici. Sì! Era una mi-sericordiosa che dava il suocuore al bisognoso. E noi inquella circostanza avevamotanto bisogno di amore vero,sincero. L’amore è la chiave delcuore umano. Se c’è misericor-dia, la chiave apre il cuore. E daquella volta ci veniamo spessoda Santa Eustochia Smeralda,ma soprattutto nella ricorrenzadella sua morte.

    Così, giovedì 20 gennaio 2000 nericorre il 515° anniversario e siamo neltempio dove Eustochia Smeralda,sposa di Dio, si lasciò recidere le chio-me e seguì Cristo, abbandonando glisplendori del mondo. Come batte ilcuore dei pellegrini che si soffermanoa pregare fervorosamente!

    Molti di loro restano visibilmenteaffascinati da come il corpo di Santa

    Eustochia Smeralda reagisce al tem-po, da come accoglie in piedi i suoi de-voti, volgendo il suo sguardo verso diloro e rasserenando gli animi in tutta lasua Grazia, mentre io vengo rapita peril senso di gioia vera che mi coglie, perun profumo stupendo di quel luogo(che non so spiegare), per l’oasi di cie-lo in cui mi trovo.

    E mi piace Santa Eustochia, mi pia-ce il suo nome, Smeralda, mi piacetanto quella chiesa dove mi rifugiospesso, e lei conosce le mie ansie, lemie fatiche, le mie vittorie, tutto di me.

    Spesso credo di essere una personafortunata: è bellissimo poter intessereun dialogo tanto speciale con una per-sona che adesso è così vicina a Dio.Allora, dopo un nostro incontro, misento felicemente appagata e non per-

    so un’occasione per far conoscereSanta Eustochia anche agli altri, laSanta messinese, patrona dei com-mercianti e protettrice delle gestanti.

    Nel Santuario di Montevergine, peril suo anniversario, l’accorrere di gen-te è diventato un’invasione di fedeli,che ha gremito la chiesa, lasciandotante persone in piedi, per seguire lo

    svolgersi delle ore di preghie-ra. Alla solenne concelebrazio-ne delle venti e trenta di Mons.Sgalambro, prendono partenumerosi confratelli, il delega-to della Santa Sede, il giornali-sta Urzì per scrivere su SantaEustochia e la coraledell’Istituto di S. Antonio chesostiene la liturgia con mottettimelodiosi, eseguiti magistral-mente a più voci.

    Ma i momenti più suggestivisono dati dai canti angelici del-le monache di Santa EustochiaSmeralda che, dall’alto delleloro grate, sussurranol’eccomi di chi si abbandonacompletamente nelle mani diDio. Sì, proprio come SantaEustochia.

    E così come lei ha dato vocealla sua vocazione, le suore ali-mentano, giorno per giorno, laloro missione. Quest’anno vo-gliono darvi inizio conl’apertura della porta del Mo-nastero, segno che dobbiamoproiettarci in Dio.

    Loro sono sostenute da unapresenza forte (ho semprepensato che deve essere bellis-simo vivere ogni giorno conuna santa), ma anche noi sicu-

    ramente riceviamo molto dall’esempiodi Santa Eustochia Smeralda. Unavolta il Signore le disse che la sua vignaavrebbe fatto ottimi frutti nel Regno diDio ed è stato così, è ancora così.

    Continua, Santa Eustochia, conti-nua ad insegnarci da dove vienel’Amore, proprio come quel 20 genna-io 1485, quando sei morta dicendo:“Gesù, Gesù, Gesù”.q

    tSanta Eustochia Smeralda Calafato(25/3/1434 - 20/1/1485)

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    LA PURIFICAZIONEdi Angelina Lanza

    La festa della purificazione è

    una solennità singolare tra le

    feste della Vergine.

    L’incontro di Maria col san-

    to vecchio Simeone è annoverato fra i

    sette dolori; eppure il cantico “Nunc di-

    mittis” è un inno di gloria e di acco-

    glienza al nato Messia. In esso

    l’umanità, già redenta, canta il suo pri-

    mo “Osanna al Figlio di Davide”.

    Dice il Vangelo che la Vergine e S.

    Giuseppe ascoltavano “meravigliati”; e

    aggiunge un pio commentatore “non

    per quello che udivano del Bambino,

    ma per la grazia di profezia ricevuta da

    Simeone”.

    E quella meraviglia di coloro che già

    sapevano, era insieme gratitudine, leti-

    zia e trionfo. Simeone rendeva testimo-

    nianza al Messia. Era la seconda

    testimonianza, dalla nascita, dopo quel-

    la degli Angeli apparsi ai pastori. La ter-

    za testimonianza la daranno i Magi; e la

    quarta testimonianza gli Innocenti col

    loro sangue.

    Più tardi, a dodici anni, Gesù testi-

    monierà di Se stesso, dicendo nel tem-

    pio a sua madre: “Io venni per compiere

    la volontà del Padre mio”.

    Nella Presentazione al tempio, per-

    ché la nostra devozione a Maria si ali-

    menti, dobbiamo guardare a due virtù

    altissime che Ella manifesta: sacrificio

    e umiltà. Queste ci addita la Chiesa, ma-

    dre di sapienza.

    Maria è colei alla quale S. Bernardo

    applicò le parole che S. Paolo aveva det-

    to riguardo all’Eterno Padre: “Così Ma-

    ria amò il mondo, da dare, per

    redimerlo, l’Unigenito Figlio suo”.

    Ella, offrendo Gesù nel tempio, non

    l’offrì al modo delle altre madri, per

    mera formalità o per una comune prati-

    ca, anche sentita interiormente, di culto

    e di omaggio al Creatore. Maria sapeva

    bene Chi fosse quel Figlio che Ella an-

    dava ad offrire.

    L’anima sua esultava ancora delle

    parole del “Magnificat”. L’umile ancel-

    la del Signore andava al tempio per rico-

    noscere dal padre il dono insigne che le

    era fatto, ma insieme per offrire a Lui,

    come all’unico vero donatore, quel pe-

    gno preziosissimo.

    Maria, ai piedi del santuario, il cui

    velo sacro sarà squarciato dal grido di

    Gesù morente, offre Gesù neonato

    come vittima divina, e Se stessa come

    pura offerta umana, perché la gloria di

    Dio finalmente si riveli agli uomini e sia

    fatta ad essi misericordia, secondo la

    Promessa.

    Maria ci insegna che non vi è dono di

    Dio, del quale non si debba fare l’offerta

    a Lui; ci insegna che non vi è vero amore

    senza sacrificio, né vero zelo della glo-

    ria divina senza martirio interiore. La

    letizia per il riconoscimento del Messia

    è insieme santa ebbrezza di sacrificio.

    Ella sa di offrire Gesù come Ostia di

    olocausto, cioè come quella vittima che

    va consumata interamente col fuoco, ad

    onore di Dio. Il fuoco che consumerà

    Gesù è l’amore che Egli è venuto ad ac-

    cendere in terra, fuoco che già si comu-

    nica alla sua Vergine Madre, prima fra

    le vittime dell’amore di Gesù, dopo

    Gesù.

    E poiché questo santo Amore invade

    tutta l’anima purissima della Vergine, il

    suo olocausto è insieme dolore e gioia

    più che serafica, ed è veramente trionfo.

    Ella vince la sua perfetta umanità. La

    consapevolezza del Suo cuore materno,

    la sua volontà cosciente e ferma, glorifi-

    cata tanti secoli avanti nella figurazione

    profetica della donna forte di Salomo-

    ne, ne fanno la vera vittoriosa.

    Maria ci dice con le parole del suo fe-

    dele S. Bernardo: “Ubi amor est, labor

    non est, sed sapor”.

    Contempliamo oggi l’augusta gran-

    dezza e bellezza della Madre nostra.

    Oggi Maria si incorona per la prima

    volta, effettivamente, della corna di

    Regina dei martiri. Oggi incomincia

    non solo ad accettare, ma a volere e ad

    assaporare il suo supplizio materno.

    Mentre Ella muove incontro al suo do-

    lore, a cui solo prelude il dolore eroico

    della madre dei Maccabei, pare che

    Dio Padre le accresca intorno alla

    fronte quell’aureola di santità di cui

    volle adornarla nel primo istante del

    suo essere.

    Quale luce di Spirito Santo, quale

    fiamma di ardente carità dovette accre-

    scersi nell’anima sua santissima nel

    momento che Ella si presentò solenne-

    mente alla Giustizia di Dio, per dire:

    Eccomi pronta a salire il Calvario col

    Figlio mio!

    Il martirio di Gesù è insieme il marti-

    rio di Maria. L’offerta di Gesù è insieme

    l’offerta di Maria. La Redenzione di

    Gesù è insieme la corredenzione di Ma-

    ria.

    Ma vi è un’altezza di santità che su-

    pera la santità del sacrificio accettato e

    voluto; ed è l’umiliazione accettata e

    voluta.

    Noi, nati nella colpa comune, non po-

    tremo mai adeguatamente immaginare

    l’umiliazione di Colei che è senza mac-

    chia, e nonostante ciò si presenta al sa-

    cerdote peccatore per essere purificata.

    Noi vorremmo dirle: “Madre, che

    cosa fai?”. Ed Ella pare che ci risponda

    le parole di Gesù al Precursore: “Lascia

    fare per ora, poiché così conviene a noi

    di adempiere ogni giustizia”.

    E quel “noi” associa mirabilmente la

    Madre e il Figlio nella bellezza del sim-

    bolo che è nascosto sotto le tre cerimo-

    nie umilianti: circoncisione,

    purificazione, battesimo di penitenza.

    Questo simbolo è l’atto di ubbidien-

    za contrapposto alla disubbidienza,

    l’atto di abbassamento contrapposto

    alla ribellione di Adamo.

    Quando Maria accetta il suo Calva-

    rio, trionfa della sua sensibilità umana;

    ma quando si presenta al tempio

    nell’aspetto di una povera donna ebrea,

    peccatrice in Adamo, Ella, che è

    l’Immacolata Concezione, l’unica Spo-

    sa dello Spirito Santo, noi dobbiamo ve-

    nerare in Lei la più perfetta attuazione

    della santità creata.

    Ella calpesta Satana con un colpo

    così mortale, che quella testa maledetta

    non si risolleverà più.

    Non è soltanto la Regina dei martiri,

    ma la Regina di tutti i Santi e di tutte le

    gerarchie angeliche, la Madre di tutte le

    grazie e di tutte le misericordie, questa

    creatura di umiltà e volontaria abbiezio-

    ne, che esce dal tempio, confusa tra la

    folla, portando, fra le pieghe del suo

    manto, un Bambino.q

    (Da: A. LANZA, Pagine spirituali,

    Domodossola 1950, vol. II, pp. 117-121)

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

    9

    2000, L’ANNO DEL GIUBILEOdi Emanuela Fiore

    “Amico, tu che corrisenza mai fermarti,perché hai mille in-teressi che ti entu-

    siasmano, la gloria, il denaro, ilpiacere; tu che hai occhi e non vedi ilfratello che muore, che hai orecchi enon senti il lamento del vicino; tu cheparli per attirare su te stessol’attenzione altrui, fermatiun po’, guarda, ascolta”.

    Anno 2000, anno delGiubileo. Ci domandiamose tale avvenimento, decisi-vo per un frate e per una su-ora, può dire qualcosaanche a noi, uomini distrattida questo tempo, anche achi religioso non è.

    Ed il miracolo si è avve-rato: la folla delle grandissi-me occasioni non potevamancare (non senza disagiper Roma che è stata lette-ralmente invasa), Gesù e ilPapa meritavano ancora dipiù, specie ora…

    Difatti, andando con lamemoria ai primissimi gior-ni del Grande Giubileo, ilgrande incontro con il Papaci fa vedere l’entusiasmo su milioni divolti, bandiere di molte nazioni, colorisgargianti, cappelli variopinti, manifestanti levate in aria, canti e musica digioia di ogni paese della terra. Imma-gini e suoni pieni di vita.

    Ma in particolare l’occasionedell’apertura della Porta santa ha volu-to essere momento grande che carat-terizza i sentimenti di tutti i fedeli delmondo (in numerosissimi hanno par-tecipato alla funzione, trasmessa inEurovisione, la sera del 24 dicembre1999). Sono stati momenti ricchi dispiritualità, colmi di preghiera. Non èpossibile rimanere indifferenti dinanzialla verità delle cose, quando i conte-nuti stimolano verso la Chiesa del Si-gnore. E’ verità incontestabile quelladel richiamo degli animi, verità che ac-canto ai valori dell’insegnamento ca-nonico, trova la spinta per amare.

    Dall’esperienza comunitaria il dia-

    logo oggettivo con Gesù è emerso rin-vigorito e rinnovato nel cuore di tutti.Malgrado gli stimoli del mondo con-temporaneo a ridurre sempre più gliorizzonti di trascendenza per sogget-tivizzare e materializzare l’esistenza,dinanzi a Gesù, questo circuito, sor-retto dall’orgoglio, si spezza: lo prova-no momenti come questo in cui tuttala fragilità umana si riversa nella fede

    per diventare forza, tutta la gioia siesplicita nell’Amore a Dio e tutta lacomunità riavverte più prepotente ilsuo essere in comunità. E allora anno2000, anno del Giubileo.

    Come il Papa ha aperto le famosePorte, anche noi possiamo aprire ochiudere una porta. Se la si apre, è se-gno di fiducia verso colui al quale la siapre. Se la si chiude, è segno di sfidu-cia verso colui al quale la si chiude. Avolte, con gesto di estremo sconforto,si sente dire: “Mi ha chiuso la porta infaccia”. Anche il nostro cuore metafo-ricamente ha le sue porte. A chi vannoaperte e a chi vanno chiuse?

    Quando sotto il peso della colpamorale, la nostra coscienza è agitata eforse disperata, non commettiamomai l’errore di aprire le porte del no-stro cuore all’operatore di iniquità.Apriamole piuttosto all’Agnello chetoglie i peccati del mondo. Solo così

    saremo guariti e quando saremo gua-riti nello spirito, la felicità ci trascen-derà. E Gesù diventa luogo delperdono definitivo dei peccati, perchécomunica il dinamismo del suo Amo-re, ma soprattutto rende possibile pertutti gli esseri umani una nuova intimae profonda comunione con Dio, per-ché la sua Parola possa effettivamentepenetrare nell’intimo santuario della

    persona. Sì, è Dio che bussa evuole entrare in modo nuovonella nostra vita. Noi dobbia-mo solo aprire la porta. Sfon-dare la porta non è nello stiledi Dio. Il non aprire la portapotrebbe frustrare l’iniziativadivina, ed è sempre una terri-bile responsabilità verificareil progetto di Dio su di noi.Dobbiamo alzarci dalla no-stra abituale mediocrità,prendere un tono dinamico enon solo aprire la porta, maandare incontro al Signore:“Entra, Signore, nella vita,perché dove entri tu, imme-diatamente fioriscono mera-viglie e la vita illuminata dallaParola di Dio, divenetrà pre-sto un giardino”.q

    Ieri, 29 Gennaio, il nostroparroco ha compiuto 59 anni.

    Il Nicodemo

    e tutta la comunità

    parrocchiale,

    nell’augurare al proprio

    pastore lunga vita,

    invocano su di Lui

    la benedizione

    del Signore

    e la Grazia

    di poter continuare

    ad affrontare

    il Ministero sacerdotale

    con spirito giovanile.

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

    10

    A proposito di baby gangsE’ una strana società la nostra: non fa mancare nulla di materiale ai propri

    ragazzi tranne poi ad infischiarsene dei loro problemi veri

    di Carmelo Parisi

    La cronaca di questo ultimoperiodo di fine secolo - ini-zio nuovo millennio, non cistupisce più. Non passa

    giorno che leggendo dei nostri fattiquotidiani non si parli di comporta-menti violenti che interessano i nostrigiovani.

    Ma, a dire il vero, nonè solo in questi ultimitempi che ci imbattiamoin notizie brutte che li ri-guardano. Vi ricordatequel caso clamoroso diqualche anno fa? Di queigiovani che, riuniti in ungruppo spensierato, lan-ciavano sassi dai cavalca-via, chissà se per gioco oper noia? Allora non sia-mo riusciti a capirlo edancora oggi non sappia-mo la verità. In quella oc-casione fu una coppia digiovani sposi a farne lespese. La moglie fu col-pita a morte sotto gli oc-chi del marito stupefattoed attonito per la brutalee gratuita violenza di cui era stata vitti-ma la sua compagna.

    Parlammo allora, anche sul nostrogiornalino, di giovani senza valori,senza ideali; di giovani che vivono unaesistenza in apparenza normale, mache in realtà sono spesso vuoti e pienidi noia.

    Ora è la volta di quelle che i mediahanno definito baby gangs. Giovani,anzi giovanissimi, che delinquono ingruppo e che nel gruppo trovano laforza per compiere le loro azioni diviolenza.

    Gli adolescenti odierni imparanosin da piccolissimi a stare in gruppocon i loro coetanei. I loro genitori la-vorano spesso entrambi, specie nellenostre città e di conseguenza i figlivengono affidati alle istituzioni statalio parastatali già dalla tenera età e vivo-

    no, in un certo qual modo, più con iloro coetanei che con i loro genitori.Asili nido, scuole materne, scuole ele-mentari: hai voglia a crescere e socia-lizzare con il gruppo.

    Vivono insieme durante la giornata,frequentano la scuola, giocano insie-me ed insieme ne combinano di cotte edi crude.

    Giovani di 15 o 16 anni che, nel Mi-lanese, entrano, a forza, in casa di unpovero anziano, lo minacciano, lo sot-topongono a violenze psicologiche, loderubano delle uniche 250.000 lire edinfine lo picchiano selvaggiamente.Nel lasciare la casa gli rubano anche lamacchina parcheggiata nel cortile e simettono a scorrazzare in città fino aquando non vengono intercettati e fer-mati dalle forze dell’ordine.

    E non sono solo i maschietti a delin-quere. Basta pensare a quella ragazzagenovese di 16 anni, abitante in unquartiere popolare di Ponente, rimastavittima di una baby gang femminile.La giovane, descritta nel rapporto re-datto dai carabinieri, come una bellaragazza dai capelli neri, fisico atleticoed occhi verdi, una domenica pome-riggio era andata al luna park con al-

    cune amiche. Qui era stata oggettodelle attenzioni insistenti di un ragaz-zo appartenente ad un’altra compa-gnia. Tre amiche di questo ragazzo,indispettite o ingelosite, se la sonopresa con lei e, dopo averla ripetuta-mente insultata, l’hanno aggredita apugni e calci tanto da farla finireall’ospedale con una prognosi di sette

    giorni.Ma gli esempi sono

    ormai tanti che c’è soloimbarazzo della sceltanel raccontare dell’uno odell’altro.

    A Napoli, un paio diragazzi di 15 anni, anchequesti incensurati comequelli di Milano, sonostati arrestati dai carabi-nieri dopo aver ferito acoltellate un loro coeta-neo a cui volevano ruba-re il motorino. Giravaquesto in sella alla pro-pria moto quando si è vi-sto fermare da duequindicenni che, senzamezzi termini, gli hannointimato di consegnareloro il motore. Alla legit-

    tima reazione di diniego hanno reagitoviolentemente accoltellandolo al ven-tre. Solo la presenza di spirito di alcunipassanti, prontamente intervenuti, èvalsa ad evitare il peggio.

    Giovani alla conquista degli statussymbol: il motorino, il piumino firma-to, l’orologio, il telefonino cellulare, eche nella bramosia di impossessarsenenon guardano niente e nessuno.

    Giovani di 14 anni che, nel Manto-vano, violentano una loro coetanea ecompagna di scuola. La invitano,all’uscita dalla scuola, con la scusa diun giro in motorino, la portano fuoricittà, in periferia, e qui, a ridosso di unmuro, mentre lei si rifiuta recalcitran-te, la minacciano prima, la stordisco-no di botte e calci poi ed infine laviolentano. Sono compagni di scuolaquesti o stupratori incalliti? Come de- Ø

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

    11

    finirli meglio?Non sono forse balordi o vigliacchi,

    talmente vigliacchi che da soli non sa-rebbero in grado di fare del male nep-pure ad una mosca, ma che nel brancodiventano spavaldi e trovano la forzaper compiere le loro bravate?

    Ed in molti, tra questi ragazzi o ra-gazzini finiti nei guai, non c’è nemme-no la percezione della prepotenzamessa in atto, della sopraffazione deiloro pari, della gravità di quello chehanno commesso. Alcuni di questi, fi-niti in Questura, dopo aver ripulito unloro coetaneo di un orologio, conti-nuavano a ripetere, ossessionati, aipoliziotti? “ Non è mica una rapina,non abbiamo mica rapinato una ban-ca.” Che dire di questi giovani? Chedire delle loro famiglie?

    Le hanno definite famiglie difficili.Famiglie all’interno delle quali tutto èproblematico: dal rapporto tra padri emadri, al rapporto tra genitori e figli,agli stessi rapporti fra fratelli. Famiglieche invece di essere le cellule buonedella società civile, diventano le cellulecancerogene di una società malvagia eviolenta, di una società opulenta econsumistica. Famiglie nelle qualiperfino il semplice dialogo è difficile;anzi forse alla base di tutto c’è propriola mancanza di comunicazione, lamancanza dell’aprirsi, di confidare iproblemi agli altri, di cercare aiuto econforto nei genitori, nei fratelli, neipropri cari insomma. E’ una strana so-cietà la nostra. Non fa mancare nulladi materiale ai propri ragazzi trannepoi ad infischiarsene dei loro problemiveri. Che il Buon Dio ci aiuti e ci illu-mini nel crescere i nostri figli.q

    Sogno“Si vede con chiarezza solo attraverso il cuore.

    L’essenziale è invisibile agli occhi”

    di Lori D’Amico

    Eil sogno è diventato real-tà. profetiche furono leparole di “Con te par-tirò”, il brano che ha reso

    Andrea Bocelli famoso in tutto ilmondo, ed ora con i suoi due nuovialbum “Sogno” e “Arie sacre” (rac-colta di arie sacre e canti religiosidedicati al giubileo), che sbancanegli Stati Uniti e fa impazzire tuttal’Europa, diventando così il piùamato d’America, e non solo.

    Pensate che è giàdisco d’oro in Fran-cia, Austria e Olandaed è al primo posto inSvizzera e Portogal-lo. Lui non le defini-sce “canzonid’amore”, ma di“vita”, perché la mu-sica è diventata un bi-sogno; l’ha ascoltata,l’ha inseguita, l’hatrovata, l’ha corteg-giata, l’ha adorata.

    È la storia di unabattaglia difficile, magrazie alla passioneper la musica e per ilcanto e una grandetenacia, il piccolo ra-gazzino diventa uomo e riesce a realiz-zare i suoi sogni. Forte fu anchel’influenza dei suoi genitori che glianno insegnato a non accettare maipassivamente le difficoltà, ma piutto-sto a trarne forza. E da quel momentonella sua vita arriva la musica, carica diquegli ingredienti capaci di suscitareemozioni, forti, dolci, appassionate,crudeli. Quella musica che ti colpisceinconsciamente, non sai perché certenote messe in fila possano parlare me-glio di un discorso, ma è così. E scopriche ne hai bisogno come dell’acqua edel pane, come dell’amore. E Andreadella musica ne aveva bisogno più dialtri. La sua voce limpida, pastosa, èqualcosa di straordinario che ti riem-

    pie dentro.Scoperto da Caterina Caselli, ora

    sua manager insieme a Michele Torpe-dine, la sua carriera ha inizio al Festi-val di Sanremo del ‘92 e piano pianoha incantato tutto il mondo, come èsuccesso il 21 dicembre a Messina, inpiazza Duomo, allorché ci ha estasiaticon la sua voce nell’interpretazionedell’inno ufficiale del grande giubileo2000, “Gloria a Te Cristo Gesù”, il so-lenne brano, composto da un sacerdo-te di Lourdes, Padre Lecaut, cheaccompagnerà ogni momento istitu-

    zionale dello straordinario momentodi fede.

    Sembrerà retorica, ma siamo pro-prio di fronte ad un artista, la cui musi-ca e la cui voce arrivano dritte al cuoredi chi ascolta, proprio perché lui quelleemozioni le vive veramente e le sa co-municare.

    I suoi prossimi concerti sono aNew York il 19 luglio alla statuadella Libertà, il 14 settembre a Sid-ney (Australia), per l’apertura deigiochi olimpici.

    Per tutti i suoi fans inoltre Bocelliha aperto un sito internet(www.bocelli.it) per rendere più di-retto ed intenso un rapporto che spes-so è mediato dai giornali.q

    La cupidigia

    del denaro

    è la radice

    di tutti i mali.

    (I Timoteo 6,10)

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

    12

    RECENSIONE

    COM’ERANO I SAVOIARDI

    NEL SETTECENTO?di Franco Biviano

    MICHELE SPADARO, Cronaca del-

    la città di Patti al tempo di Vittorio Ame-

    deo II di Savoia (1713-1720), Messina

    1999.

    Càpita talvolta agli storici locali

    di imbattersi, in maniera

    fortunosa, in documenti

    di importanza assoluta-

    mente marginale, ma che fanno per-

    dere loro il sonno e la pace. Un

    evento del genere è accaduto di re-

    cente a Michele Spadaro, un polie-

    drico personaggio pattese che, dopo

    essersi dedicato per parecchi anni

    alla professione medica, coltiva

    oggi, con risultati encomiabili, due

    passioni: la pittura e la ricerca stori-

    ca. Qualche anno fa è venuto in pos-

    sesso, non so dirvi come, della

    “patente” con la quale un certo Bal-

    dassare Drago il 16 agosto 1716

    venne nominato cannoniere nella

    torre della Marina di Patti. Qu-

    ell’insignificante documento è diventato

    per Spadaro il punto di partenza di una ri-

    cerca che lo ha condotto negli archivi sto-

    rici di Patti e di Torino e lo ha messo in

    contatto con biblioteche estere per rin-

    tracciare libri divenuti ormai rarissimi.

    Il risultato di questa ricerca è un agile

    e smilzo volumetto, dato alle stampe a

    Messina sul finire del 1999 dalle Edizio-

    ni Dr. Antonino Sfameni come 17E volu-

    me della collana intitolata “Messina e la

    sua storia”.

    Ovviamente (lo avrete capito) Spadaro

    non si è limitato a cercare notizie su quel

    Drago e sulla sua famiglia, ma scavando

    scavando ha tirato fuori dagli archivi uno

    spaccato della vita cittadina di Patti dal

    1713 al 1720 attraverso la lettura dei regi-

    stri della Corte Giuratoria (grosso modo,

    l’odierna “Giunta Municipale”). Le noti-

    zie, preziosissime per i pattesi che amano

    conoscere il proprio passato, diventano

    emblematiche anche per il resto della Si-

    cilia, in particolare per le “terre” gestite

    direttamente dall’ “università” locale,

    senza l’interferenza del potere baronale.

    Sfilano così davanti a noi, impegnati nelle

    loro incombenze amministrative, giudici,

    balivi, secreti, acatapani, gabelloti, notai,

    banditori e tutta una multiforme umanità

    ripresa, a sua insaputa, nello scorrere del-

    la quotidianità.

    Ma gli eventi sui quali Spadaro si sof-

    ferma abbracciano anche questioni di

    portata internazionale, rapporti diplo-

    matici fra sovrani europei, le immanca-

    bili interferenze della Santa Sede, per

    non parlare di un’atroce guerra per deci-

    dere le sorti della nostra isola.

    In tutto questo guazzabuglio trovia-

    mo invischiato anche un abate di S. Lu-

    cia, il trapanese mons. Francesco

    Barbàra, cappellano maggiore del Re-

    gno, che Vittorio Amedeo avrebbe volu-

    to a capo della diocesi di Patti, ma che si

    trovò il passo sbarrato da un altro con-

    corrente, Salvator Giuseppe Rodrigues,

    nominato dal sovrano uscente, Filippo V.

    La questione non si risolverà che nel

    1723, quando il vescovado di Patti, dopo

    10 anni di sede vacante, verrà assegnato

    a Pietro Galletti da Carlo VI di Borbone.

    Il Barbàra nel frattempo (essendo andata

    a monte anche la sua nomina a vescovo

    di Cefalù per l’opposizione della Santa

    Sede) era stato tacitato con una gratifica-

    zione di duemila scudi, mentre il Rodri-

    gues era stato sistemato in Spagna.

    La lettura della pubblicazione di Spa-

    daro ci fa fare la conoscenza con un altro

    personaggio legato a S. Lucia: una stra-

    na suora, Caterina Proto, clarissa, della

    quale si apprende che era sposata con il

    luciese Giuseppe Cucuzza e che in realtà

    non aveva mai preso i voti. Tuttavia si

    fregiava del titolo di “suora” per non pa-

    gare la tassa sui terreni agricoli di sua

    proprietà.

    Altre notizie riguardano aspetti speci-

    ficamente militari, legati alla “sargenzia”

    di Patti, che si estendeva da Gioiosa fino a

    Divieto. Spadaro riporta, per esempio, la

    consistenza, minuziosamente dettagliata,

    delle singole truppe e il contingente asse-

    gnato ad ogni singola “terra”.

    Apprendiamo così che S. Lucia dove-

    va fornire alla “sargenzia” di Patti 14

    cavalli e 55 fanti, contingente note-

    volmente superiore a quello previsto

    per i paesi circostanti.

    Il volumetto è arricchito da una

    lucida introduzione di Camillo Fi-

    langeri e contiene un discreto appa-

    rato iconografico che consente una

    migliore conoscenza dei personaggi

    e dei luoghi.

    Un solo appunto. Dopo avere

    “spolverato” tanti documenti

    d’archivio, l’autore avrebbe potuto

    inserire quelli più significativi in una

    bella appendice in fondo al volume.

    Sarebbe stato, senza dubbio, un pre-

    zioso servizio reso ai ricercatori e

    agli specialisti, che alla fine sono quelli

    che, meglio di altri, possono apprezzare

    l’improba fatica compiuta dallo studioso

    pattese.q

    OPERE EDITE DI

    MICHELE SPADARO

    Nobilissima civitas, cronache della

    città di Patti al tempo del canonico

    Giardina (1837-1912), Patti 1983.

    Patti, inchiesta sulle condizioni so-

    ciali ed economiche (1875-1876) (in-

    troduzione), Patti 1992.

    I Nebrodi nel mito e nella storia,

    Messina 1993.

    Francesco Nachera, pittore,

    1813-1881, Patti 1996.

    Carl Grass: viaggio in Sicilia, 1804

    (postfazione), Messina 1996.

    Cronaca della città di Patti al tempo

    di Vittorio Amedeo II di Savoia

    (1713-1720), Messina 1999.

    tVittorio Amedeo II di Savoia

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

    13

    AGENDA 2000L’Europa pensaall’agricoltura

    a cura della SOAT n.1 di Spadafora

    Il futuro della Sicilia, dellasua economia, del suo svi-luppo è nell’Europa: più lanostra terra riuscirà ad inte-

    grarsi con la realtà continentale e tran-snazionale, più sarà in condizione disfruttare le occasioni di sviluppo che sipresenteranno negli anni a venire.

    L’Unione Europea opera e si muoveattraverso delle linee programmatiched’intervento sintetizzate nel docu-mento chiamato “Agenda 2000“ checostituisce l’elemento portante dellapolitica europea principalmente nelsettore agricolo ed alimentare finoall’anno 2006.

    Vastissimo è il campo di applicazio-ne di “Agenda 2000”, inoltre moltemisure sono in via di definizione, tut-tavia ci sembra opportuno fare il puntodella situazione per consentire aglioperatori di poter fruire, laddove èpossibile, delle opportunità offerte daimeccanismi piuttosto complessi chesono alla base di tale documento.

    Con “Agenda 2000” l’Unione Eu-ropea si pone da un lato l’obiettivo diallargarsi anche ai paesi dell’Est Euro-peo un tempo gravitanti nell’orbita so-vietica, dall’altro mira a contenere lespese, visto che i vari paesi membrinon hanno alcuna intenzione di au-mentare le loro quote di bilancio daversare all’U.E.

    Tutto ciò con ripercussioni alla voceriguardante la politica agricola, che dasola assorbe circa il 50% del bilancio U.E., e che quindi dovrà necessariamentesubire un certo ridimensionamento.

    Tale ridimensionamento passa at-traverso la politica di sviluppo rurale edi tutte le altre misure contenute in“Agenda 2000”.

    Tale documento rappresenta la ter-za generazione della politica di coesio-ne economica e sociale che si ponecome obiettivo primario la riduzionedei divari tra zone ricche e zone pove-re: le risorse destinate alla coesione

    ammontano a 210 miliardi di ECU peril periodo 2000 – 2006 pari allo 0,46%del PIL dell’U.E..

    La finalità è quella di dare luogo astrategie di sviluppo regionale integra-to e a dimensione territoriale ed al po-tenziamento della competitivitàattraverso l’attivazione dei due model-li dello sviluppo endogeno e dello svi-luppo sostenibile.

    I tre obiettivi di questo ciclo di pro-grammazione sono:

    Obiettivo 1 (territoriale): destinatoalle regioni in ritardo di sviluppo comela Sicilia;

    Obiettivo 2 (territoriale) destinatoa tutte le altre regioni e zone in diffi-coltà;

    Obiettivo 3 (orizzontale): destinatoalle risorse umane ed ai patti territo-riali per l’occupazione.

    Quindi si può dire che “Agenda2000” tende a favorire sempre più ilpassaggio dalla politica di sostegno aiprezzi a quella dei pagamenti direttiattraverso lo sviluppo di una politicarurale in grado di accompagnare que-sto processo. Si tratta, per concludere,di mettere a punto un modello più de-centrato che consenta ai singoli Statidi risolvere da sé i problemi inerentialle varie realtà locali, attraversol’incremento dei pagamenti diretti cheandranno ad alimentare un pacchettofinanziario che i singoli Stati sarannoliberi di distribuire privilegiando prio-rità specifiche.

    A questo punto va detto che il pro-blema per poter accedere a tali fondi èche le regioni, compresa la Sicilia, de-vono dotarsi di un Piano di SviluppoRegionale, di durata dal 2000 al 2006,che dovrebbe contenere tutte le azionirelative alla riconversione economicae sociale, allo sviluppo delle risorseumane ed allo sviluppo rurale.

    Inoltre i piani di sviluppo rurale cosìredatti dovrebbero prevedere una sud-divisione per zone omogenee della re-gione e riguardare infine oltre che laprogrammazione in agricoltura tutte

    quelle misure strutturali facenti capoal territorio ed all’ambiente.

    Come si può vedere i meccanismisono complessi e richiedono una ca-pacità di programmazione efficiente etempestiva che almeno per i Program-mi Operativi Plurifondo (1994-1999)passati è mancata. Allo stato attuale laRegione ha presentato all’U.E. il Pia-no di Sviluppo Regionale che, se verràesitato favorevolmente, rappresenteràla base per tutto il lavoro di program-mazione per zone omogenee.

    I tecnici della Sezione Operativascrivente cercheranno di mantenereaggiornati i lettori del Nicodemo sullereali opportunità contributive per gliaddetti del settore agricolo eviden-ziando che quasi sicuramente rimar-ranno i contributi per i giovani al disotto dei 40 anni che vorranno inse-diarsi in agricoltura e che probabil-mente verranno riproposte, anchesotto altra forma, le misure agroam-bientali. q

    Avviso per gliagricoltori

    La circolare n° 280 pubblicatasulla G.U.R.S. n° 61 del 31/12/99prevede la possibilità di prorogareper un anno gli impegni agroam-bientali avviati ai sensi del Reg.CEE 2078/92, con le relative in-dennità, da parte esclusivamentedegli agricoltori le cui domandesono in scadenza o già scadute.

    Gli interessati potranno fareistanza di proroga entro il 31 gen-naio 2000 presentando appositadomanda di impegno inizialeAIMA unitamente alla domanda diproroga impegno presso gli UfficiIPA competenti

    Per maggiori informazioni ci sipuò rivolgere ai tecnici della Sezio-ne Operativa.

  • Il Nicodemo - Gennaio 2000 - n. 84

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    IL GIUDICE UNICOdi Angela Calderone

    Addio, vecchio pretore. Dalunedì 3 gennaio è entratain vigore la riforma che hafatto nascere, anche per

    quanto riguarda il diritto penale, la fi-gura del giudice unico. Una riformache, per il diritto civile, è attiva già dal2 giugno 1999.

    A conclusione di un lungo dibattitoparlamentare, con il decreto legislati-vo n° 51 del 1998 sono state concen-trate in un unico ufficio di primogrado (il Tribunale) le competenze inprecedenza divise tra Tribunale e Pre-tura. Dal momento in cui la riforma èentrata pienamente a regime, il Tribu-nale – organo che tradizionalmentedecideva in composizione collegiale(cioè con l’intervento di tre magistra-ti) – decide, sia in materia civile chepenale, come giudice monocratico(cioè con l’intervento di un unico ma-gistrato).

    Assetto della giurisdizione primadel giudice unico. Le leggisull’ordinamento giudiziario preve-devano che la giurisdizione civile epenale di primo grado venisse eserci-tata (nell’ambito delle rispettive com-petenze) dal Tribunale e dal pretore.Il Tribunale era anche giudiced’appello contro le sentenze pronun-ciate dal pretore. In materia penaleesso decideva soltanto in composi-zione collegiale; in materia civile unalegge del 1990 aveva invece previstoche esso giudicasse di norma in com-posizione monocratica, salve alcunetassative eccezioni per le quali era ri-chiesta la decisione collegiale.

    La giurisdizione del Tribunale siestende sul “circondario” che appros-simativamente ricalca il territorio dellaprovincia, anche se non è infrequenteche in una provincia ci siano più Tri-bunali. Il pretore era, quindi, rispettoal Tribunale, un giudice più diffuso sulterritorio e “più vicino” ai cittadini, es-sendo le Preture in numero più elevatodei Tribunali. Al pretore, giudice mo-nocratico per antonomasia, venivanoaffidate le cause penali per reati puniticon pene detentive non superiori aquattro anni e le cause civili di minor

    valore economico. In materia di lavo-ro, invece, il pretore avevacompetenza “esclusiva”, cioè indipen-dentemente dal valore economico del-la controversia.

    L’unificazione di pretura e tribu-nale. In esecuzione della legge delegan° 254 del 1997, il decreto legislativon° 51 del 1998 ha soppresso alcunePreture; ha unificato gli uffici dellaProcura della Repubblica presso il Tri-bunale; ha istituito presso le Cortid’Appello le sezioni specializzate perla trattazione delle impugnazioni nellecause in materia di lavoro e previden-za; ha previsto, sia in materia civile chein materia penale, i casi in cui il Tribu-nale giudica in composizione mono-cratica, dettando le relativeparticolarità procedurali; ha stabilitouna disciplina transitoria in base allaquale i procedimenti pendenti innanzial pretore vengano definiti, fino adesaurimento, da quest’ultimo oppuretrasferiti al Tribunale monocratico aseconda del relativo stato di avanza-mento; ha trasferito alla pubblicaamministrazione le funzioni ammini-strative finora attribuite al pretore (adesempio alcune funzioni certificative oattestative in materia di stato civile).

    Con la scomparsa della Pretura, ilTribunale è diventato, in conclusione,il giudice togato unico di primo gradocui si affianca, quale giudice non pro-fessionale, il giudice di pace (giudicemonocratico onorario con un incaricoa tempo determinato – quattro annirinnovabili per una sola volta – com-petente sulle cause civili di valore infe-riore a cinque milioni di lire, ma cheavrà competenza a giudicare su alcunireati minori).

    Secondo alcuni la soppressionedelle Preture e delle Procure della Re-pubblica presso le Preture dovrebbecomportare immediati vantaggi, tra iquali: il rafforzamento dei Tribunali, icui organici aumenterebbero in modoche nessun ufficio abbia meno di cin-que magistrati (soltanto 37 avrannoun organico inferiore o pari alle dieciunità); la possibilità di favorire la spe-cializzazione dei magistrati e la mi-gliore utilizzazione del personaleamministrativo, dei locali e degli stru-

    menti informatici; il superamento del-le difficoltà connesse all’insorgere diquestioni di competenza tra Tribunalee Pretura, che spesso determinavanonotevoli disagi per l’utente.

    Non mancano coloro che, invece,sottolineano gli aspetti negativi dellariforma, soprattutto nel processo pe-nale. In particolare, si ritiene che ilprincipio della collegialità sia statoconfinato in riserva: se è vero chel’organo monocratico non può occu-parsi di reati che prevedono pene su-periori ai dieci anni di reclusione, èanche vero che ci sono “cospicue ec-cezioni”. Nel considerare la pena, in-fatti, non si tiene conto delle eventualiaggravanti. Il che significa che dal giu-dice unico potranno essere decise si-tuazioni con condanne anche di moltosuperiori ai dieci anni previsti. Nonsolo: tutti i delitti in materia di stupe-facenti (tranne l’associazione per de-linquere) saranno trattati dal giudiceunico. E in questi casi le pene partonoda 22 anni di reclusione. La domandache si pone, allora, è questa: un uomomesso da solo sulla ribalta di un pro-cesso con una posta in gioco così altariuscirà ad essere un giudice calmo,sereno, giudice terzo e imparzialecome dovrebbe essere? O sarà un giu-dice diverso da quel modello che sem-pre si auspica?

    Inoltre si ritiene che l’iniezione dimonocraticità si scontrerà in moltesedi con l’insufficienza di aule, men-tre l’unificazione degli uffici si scon-trerà con i problemi organizzatividerivanti dall’incertezza del quadronormativo e dai ritardi con cui sonostate approvate le varie leggi di ac-compagnamento.q

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    Ø

    L’ INFERNO SU MESSINA

    Un resoconto oculare dei bombardamenti aerei alleati sullaCittà dello Stretto nel gennaio del 1943

    di Fortunato Pellegrino

    Il Cacciatorpediniere “Lu-biana” entrò nel porto diMessina e si ormeggiò af-fiancato alla banchina tra

    l’edificio del Banco di Sicilia e la Capi-taneria del Porto. Era il 29 gennaio1943. Dall’altro lato erano ormeggiatil’incrociatore “Garibaldi” e qualchealtra unità di guerra. Al centrodell’ingresso del porto, tra la Capita-neria e il Faro sormontato dalla statuadella Madonna della Lettera, era an-corata una nave ospedale. La statua,alta e solenne, rappresentante la Ma-donna nell’atto di benedire tutti coloroche entrano ed escono dal porto e lacittadinanza stessa (“Vos et ipsam ci-vitatem benedicimus”, sono le parolescritte in grandi lettere alla base di essa) limita da quel lato la zona riservataalla Difesa Militare Marittima. In que-sta zona sorgono gli edifici adibiti aduffici del Comando Militare Maritti-mo in Sicilia e dei Comandi dipenden-ti, nonché il porto militare, glistabilimenti e le attrezzature militaridella Marina, comprese caserme, offi-cine, bacino di carenaggio, direzionedi Commissariato M.M., ospedaleM.M., parco pompieri e, tra altre cose,perfino palazzine per abitazione di fa-miglie di ufficiali, di sottufficiali e dipersonale civile impiegato nella Dife-sa.

    La zona occupa una superficie mol-to ampia e si estende, costeggiando loStretto, al lato opposto, fino al sema-foro di San Raineri.

    Ad un certo momento al “Lubiana”giunse l’ordine di salpare e di occupa-re il posto della nave ospedale che ese-guiva già la manovra per allontanarsi.Mentre il “Lubiana” si disponeva adiniziare le operazioni di spostamento,gli pervenne un’altra comunicazione

    che revocava l’ordine precedente, percui il caccia conservò il suo ormeggio.

    Era trascorso da poco mezzogior-no, quando suonò la sirenadell’allarme aereo. Un gruppo di qua-drimotori americani, scavalcando i

    monti Peloritani, piombò subito sulporto e sulla città e cominciò a sgan-ciare bombe. Alcune caddero in città,altre qua e là nel porto. Numerosigrappoli caddero al centrodell’ingresso, proprio dove poco pri-ma era ancorata la nave ospedale edove si sarebbe trovato il “Lubiana” senon fosse stato revocato l’ordine dispostamento. Altissime colonned’acqua si levarono verso il cielo equalche scheggia arrivò sul caccia,senza però spiacevoli conseguenze. Lebombe non causarono danni né ad al-tre unità da guerra, né a navi mercanti-li, essendo cadute quasi tutte nellazona da dove s’era allontanata la nave

    ospedale. Danni rilevanti furono pro-dotti, invece, in città.

    Il comandante del “Lubiana” di-spose che, da quel momento in poi, inoccasione di eventuali altri bombarda-menti, a bordo rimanesse soltanto ilpersonale necessario alla difesa. Laparte d’equipaggio non legata a talefunzione, al suono della sirenad’allarme sarebbe subito accorsa al ri-covero nella sede protetta del vicinoBanco di Sicilia.

    Nel pomeriggio mi recai in franchi-gia in città. Ero lontano dal porto, unpo’ in periferia, quando suonò di nuo-vo l’allarme aereo. La popolazione im-paurita corse verso una galleria nonmolto distante, ammassandosi al suoimbocco. Gli aerei giunsero presto so-pra la città e all’ingresso del ricoverogiunse sempre più gente sopraffatta dalpanico, anche perché non riusciva adentrare per la gran ressa creatasi. Nonritenni di unirmi alla gente in quellecondizioni e corsi a cercare riparo die-tro un alto muro di cinta a qualche cen-tinaio di metri dal ricovero.

    Il muro alto oltre tre metri limitavaun terreno nel quale dominavano duegrosse piante di fico, i cui rami nudil’occupavano quasi totalmente, giun-gendo a poca distanza da terra. Mi tro-vai dietro il muro insieme ad unadozzina di persone che, come me, ave-vano scelto quel posto per ripararsi.Le numerose bombe che gli aereisganciavano si vedevano attraversarel’aria e luccicare ai raggi del sole.Sembrava che dovessero cadere pro-prio sopra di noi che, guardando in sucol cuore in gola, avevamo la sensazio-ne che scendessero verticalmente. Lagente all’imbocco della galleria erasempre tanta. Le bombe andavano acadere più avanti in varie zone dellacittà, provocando fragorosi scoppi ecolonne dense di fumo e di polvere. Ad

    Questo è l’ultimo dei cinque brani che abbiamo tratto dal manoscritto di Fortunato Pellegrino, gentilmente

    messo a disposizione dei nostri lettori dallo stesso autore. Nel ringraziarlo per averci trasmesso fedelmente

    l’atmosfera e gli eventi da lui vissuti nel corso della seconda guerra mondiale, gli auguriamo di potere vedere

    pubblicate per intero le sue memorie, dalle quali abbiamo tratto solo pochi semplici assaggi.

    tMessina. La stele votiva dellaMadonna della Lettera, collocatanel 1934.

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    un tratto, voltandomi verso la galleria,vidi un giovane inginocchiato sottouna delle due piante di fico: piangevae, facendosi il segno della croce, pre-gava S. Antonio perché l’aiutasse.

    Terminato il bombardamento, in al-cune zone della città si notarono gravidistruzioni ed alcuni blocchi di ce-mento penzolare dai fabbricati colpiti.I blocchi erano tenuti sospesi nel vuo-to dai tondini di ferro che s’erano pie-gati, ma non si erano spezzati.

    Dopo le distruzioni del terremotodel 28 dicembre 1908, la città era stataricostruita con particolari criteri anti-sismici e strutture portanti in cemento

    armato. Offrivano, pertanto, notevoleresistenza alla devastazione dellebombe. I quadrimotori americani (o“fortezze volanti”, com’erano chia-mati) erano mastodontici aerei dabombardamento che non avevano nul-la da invidiare agli Stukas tedeschi. Illoro rombo cupo e sordo era altrettan-to terrificante quanto il sibilo degliStukas. Gli uni e gli altri seminavano ilterrore e la morte tra la popolazione ecausavano notevoli indiscriminate di-struzioni.

    Il giorno dopo, trenta gennaio,press’a poco alla stessa ora, un altroattacco aereo si abbatté su Messina. Alsuono della sirena d’allarme, non es-sendo di servizio a bordo, insieme atutti gli altri nelle stesse condizioni,accorsi nelle sede protetta del banco diSicilia. I locali erano pieni di gente chesi accalcava impaurita. La fine delbombardamento sembrava non giun-gere mai. Alcune donne pregavano e

    un giovane carabiniere, forse preso dalpanico, non era riuscito ad astenersidal piangere. Alcuni miei compagni edio ci avvicinammo a lui e lo convin-cemmo, senza farci notare tanto, acontenere la sua paura e a mostrare uncontegno più confacente con la divisache indossava, anche perché, in uncerto modo, nel luogo in cui ci trova-vamo si poteva sperare in una ragione-vole sicurezza.

    Suonata la sirena di fine allarme,uscimmo all’aperto, sull’ampia terraz-za del Banco. Con grande stupore, no-tai sul pavimento un pezzo di binariodella linea ferrata lungo alcuni metri.

    Com’era arrivato lì? Viera stato catapultato dallepotenti esplosioni che lebombe avevano provocatonella stazione ferroviaria,alquanto distante da quelluogo. La constatazioneme ne richiamò alla menteun’altra analoga. Nelmaggio del 1941, giuntocon la torpediniera “Si-rio” al Pireo, avevo notato,parzialmente conficcatanel muro di un fabbricato,dal quale penzolava, unagrossa lamiera di nave,lunga tre o quattro metri elarga circa un metro. Erastata scagliata contro quelmuro dall’esplosione di un

    piroscafo carico di munizioni, attac-cato da uno Stukas tedesco mentre eraaffiancato alla banchina del porto, dallato opposto a quello del fabbricato ealla distanza di più di un chilometro.

    Il “Lubiana”, sempre ormeggiatoallo stesso posto, non fu colpito. Fucolpito, invece, l’incrociatore “Gari-baldi”. Si disse che le schegge di nu-merose bombe cadutegli intornoavevano prodotto molti danni al veli-volo della nave posto a terra sulla ban-china, di poppa all’unità.L’incrociatore riportò danni non rile-vanti ed ebbe alcuni feriti tral’equipaggio. Un piroscafo mercanti-le, fermo affiancato alla banchina tra ilBanco di Sicilia e l’uscita a mare delViale San Martino, era stato comple-tamente affondato. Emergevano ap-pena alcune parti delle soprastrutture.Di fronte, al di là della strada fiancheg-giante il molo, sorgeva un’officinameccanica, in un ampio capannone in

    muratura. Di esso erano rimasti alcunitratti di muro ed i più alti non supera-vano i due metri. Tutto s’era trasfor-mato in un mucchio informe dimacerie. Le sedici persone che vi lavo-ravano erano sparite, polverizzate da-gli scoppi. Aggirandomi tra le rovine,ad un tratto, con grande raccapriccio,notai il labbro superiore con baffi diuna persona, attaccato al muro ad al-tezza d’uomo.

    Danni notevoli erano stati arrecatialla stazione ferroviaria ed in variezone della città.

    Le sirene d’allarme ricominciaronoa suonare il giorno trentuno, ma, for-tunatamente, non vi furono attacchi.La sera, sull’imbrunire, le unità diguerra, compreso il “Lubiana”, salpa-rono alla volta di Taranto. Raggiunto ilmare aperto e sopraggiunta la notte,comparvero dal cielo i bengala che co-minciarono ad illuminare la zona incui le navi navigavano. Appoggiatoalle battagliole, all’estrema poppa,davo un’occhiata alla gorgogliantescia che mi indicava più o meno la ve-locità del bastimento e un’altra ai ben-gala che ci seguivano. Man mano chela nave si allontanava , sembrava ac-corciarsi la distanza tra essa e i benga-la, tanto da creare l’impressione dinavigare in retromarcia, in direzionedelle indesiderate fonti luminose.Giunti quasi al traverso di Crotone, il“Lubiana” ricevette l’ordine di cam-biare rotta ed entrare in quel porto, perdifendere la cittadina dal bombarda-mento che in quel momento era in cor-so su di essa. In plancia l’ordine fuvariamente commentato e si misero inevidenza, tra l’altro, l’inopportunità eforse anche l’inutilità dell’interventodel caccia. Tuttavia il Comandantemodificò la rotta per ottemperareall’ordine ricevuto. Qualche minutodopo, l’ordine stesso fu annullato e furipresa la navigazione per Taranto,dove il caccia giunse alle prime ore delmattino. A bordo, a tutti sembrò moltostrano che il nemico, che ci aveva se-guito con i bengala, non ci avesse at-taccato con aerei da bombardamentoo con aerei siluranti, preferendo ilbombardamento di Crotone.q

    (Dal volume manoscritto “VegaDue, racconti della mia vita di guer-ra”, pp. 125-128).

    tUn aereo Alleato lancia bombe su Messina

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    Ø

    Galleria di mestieri scomparsi

    U stagnatarudi Mimmo Parisi

    Proseguendo nella descrizio-ne di mestieri scomparsi,con la certezza di dovercioccupare fra breve anche di

    quelli in via di estinzione, mi balza allamente la figura dello stagnino cheebbe nel nostro paese alcuni fra i suoipiù validi rappresentanti. Per ironiadella sorte quando questo mestiere,incalzato dal crescente progresso, sta-va già per scomparire, si trovò ancheper l’artigiano che lo praticava un ter-mine più adatto per indicarlo e così laparola “stagnataru” si modificò inquella di “stagninu”. Ciò evidente-mente non bastò a frenare la suascomparsa, accelerata in maniera de-terminante dall’invenzione della pla-stica e dalla comparsa sul mercatodell’industria del “caro estinto”.

    I più anziani che praticavano que-sto mestiere si rassegnarono subito adun precoce pensionamento; i più gio-vani, invece, seppero riciclarsi pertempo proseguendo la loro attività la-vorativa sotto forma di tubisti idrauli-ci, addetti alla lavorazione del ferro edi altri metalli.

    La definizione di “stagnataru” o“stagninu”, come la parola stessa cisuggerisce, trova origine nel metallobianco argenteo che l’artigiano usavaper saldare utensili di vario genere co-struiti in lamiera zincata, ferro o rame.La maggior parte dei recipienti usatiallora per la misurazione, il trasporto eil contenimento dei liquidi, nascevadalle loro mani, attraverso una model-lazione prestabilita che dava la misuraesatta del contenuto. L’unità di misurapiù usata, nel periodo delle vendem-mie, era senza dubbio il decalitro, det-to in gergo “cottara” che aveva sulcollo due finestrelle laterali, da dovefuoriusciva il liquido eccedente. Servi-va soprattutto per tirare su il mosto daitini e dai tinelli a conclusione della pi-giatura e della torchiatura dell’uva.Dal numero di “cottare” estratte si cal-colavano infine gli ettolitri di mostoprodotti. Il decalitro aveva la forma diuna brocca con due manici laterali,

    mentre tutti i sottomultipli fino alquarto di litro ed oltre avevano la for-ma cilindrica e un solo manico.

    Il campo lavorativo di questi braviartigiani non si limita-va soltanto alla costru-zione e riparazionedegli utensili anzidetti,indispensabili alla no-stra economia pretta-mente agricola, ma siestendeva alla realizza-zione di tanti altri ma-nufatti utili a tutte leesigenze domesticheed abitative. Usando lalamiera zincata comemateria prima, produ-cevano pentole ed im-buti di qualsiasimisura, ampolline perl’olio da usare a tavoladette “stagnate”, at-trezzi per raccogliere ifichi d’India, recipientiper olio ed acqua e per-sino tubi e grondaieper convogliarel’acqua piovana dai tetti delle nostrecase. Quando le bombole di gas dove-vano ancora fare la loro apparizione,evento che si verificò a pochi anni dallafine della seconda guerra mondiale,quelle precarie pentole in lamiera,messe direttamente a contatto con ilfuoco di legna o carbone, dimostrava-no presto la loro fragilità e quindi an-davano spesso soggette a continueriparazioni che gli stagnini eseguivanotappando i buchi con saldature a sta-gno.

    Tra i vari recipienti adibiti allora alcontenimento e al trasporto dei liquidiricordo in maniera particolare la fa-mosa “lanna”, che le nostre bravemassaie usavano per attingere l’acquaalle poche fontanelle pubbliche. Era diforma cubica, con un’asse di legno in-chiodata al centro che fungeva da ma-nico ed aveva un’altezza di circa 50centimetri per 30 di larghezza. Secon-do un’usanza tipica delle nostre zone,la “lanna” veniva portata sulla testa,dove per evitare il contatto diretto, le

    donne usavano porre un pezzo di stof-fa arrotolata detto “curuna”.

    È ovvio che i sacrifici erano tanti,anche per procurarsi l’acqua suffi-ciente al fabbisogno della propria fa-miglia. In compenso però si ignoraval’esistenza delle odierne atroci bollet-te, a sei e talvolta a sette cifre, che il no-stro beneamato Comune ci propina ascadenze non sempre fisse.

    Ma la competenza dei nostri bravistagnini andava anche oltre, ferman-dosi direi quasi ai limiti dell’aldilà,quando in collaborazione con un’altracategoria di artigiani, i falegnami,provvedeva all’allestimento di quanto,purtroppo, è necessario al trapasso diogni essere umano. Ai falegnami ilcompito di costruire la bara in legno,agli stagnini quello di realizzare la cas-sa interna in lamiera zincata. Eranoloro, infine, a dare l’estremo saluto aidefunti, avendo anche il compito disaldare la cassa interna primadell’inumazione.

    In queste pietose incombenze, sta-gnini e falegnami sono stati sostituitida una perfetta organizzazione, dettaanche “industria del caro estinto”.

    Sembra che il capostipite di questacategoria di artigiani ormai scompar-sa sia stato qui a Pace un certo CosimoVinci che proveniva da Santa Lucia delMela ed aveva bottega in Piazza S.Maria della Visitazione, inquell’angusto locale adiacenteall’abitazione che fu dell’insegnante

    tNicola Trifirò, l’ultimo stagnino.

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    MILLENNIUM BUG

    Il baco è statoveramente sconfitto?di Maria Grazia Tuttocuore

    Il millennium bug, l’incubodi inizio 2000, non ha cau-sato i disagi e le emergenzeche si aspettavano.

    D’altronde, si calcola che il baco siacostato al mondo circa 1 milione e 200mila miliardi in prevenzione, cifra chesi colloca nei primissimi posti tra lespese più alte del XX secolo: subitodopo la Seconda Guerra mondiale.

    Il baco non ha mai impensieritoquei Paesi dove la tecnologia el’informatizzazione non hanno rag-giunto i toni esasperati ed esasperantidel Mondo Occidentale. I mercatiazionari, le banche, le compagnie ae-ree, le case assicurative, le aziende diutilità pubblica sono dovute correre airipari anzitempo per evitare che i siste-mi operativi utilizzati non andasseroin tilt. Il baco avrebbe potuto intaccareil funzionamento dei computer di datapiù vecchia, che senza l’aiuto di op-portune modifiche avrebbero inter-pretato lo 00 dell’anno 2000 come1900. Questo scambio di data potreb-be sembrare banale, ma le conseguen-ze che si sospettavano erano tra le piùimprevedibili e gli esperti non hannoosato sbilanciarsi su cosa sarebbe po-tuto realmente accadere. Quindi lapreoccupazione che interi sistemi edarchivi potessero iniziare a dare i nu-meri, paralizzando i servizi di basecome l’erogazione di corrente elettricae la funzionalità di strutture ospedalie-re, era più che giustificata, senza con-tare tutte le eventuali frodi che il bacoavrebbe potuto aiutare a compiere trala notte del 31 dicembre e l’alba delnuovo anno. Qualche campanello diallarme è stato lanciato un paio digiorni prima della fine del 1999 con ilritiro di alcune carte di credito e ban-comat in Inghilterra, perché non cor-rettamente funzionanti. Il vero giornodi prova è stato, comunque, lunedì 3gennaio con l’apertura dei mercati fi-nanziari e degli uffici. Qualche disa-

    gio si è verificato, ma non ha avutoluogo nessuna catastrofe. In Italia al-cuni tribunali sono rimasti chiusi,qualche laboratorio di analisi si è ritro-vato con i terminali inutilizzabili, la se-greteria della facoltà di lettere efilosofia di Messina non distribuiscecertificati dal 15 dicembre (sarà, for-se, una scusa il baco in questo caso?) esi potrebbero elencare altri esempi si-mili, ma ovviamente nulla di irrepara-bile con la buona volontà. Vorrà direche i soldi stanziati per combattere ilbaco sono stati spesi bene? È anchevero che si sia creata una vera e propriapsicosi intorno al baco: chi ci dice chedietro il baco non si nasconda un’ abileoperazione finanziaria?

    Bill Gates, il magnatedell’informatica con la Microsoft, hainvitato tutti a non cantare ancora vit-toria contro il baco. Sembra che Y2K(sigla per il 2000) sia un anno partico-lare non solo per lo 00, ma anche per-ché è bisestile. Alcuni sistemiinformatici potrebbero non essere an-cora del tutto immuni dagli eventualieffetti del baco. Cosa succederà, allo-ra, tra un paio di mesi? Il comitato ita-liano per il 2000, istituito per la lottacontro il millenium bug e presiedutoda Ernesto Bettinelli, rassicura che inItalia il baco è stato quasi definitiva-mente sconfitto. Certo l’allarmismoscoppiato prima dell’inizio del 2000 èstato risonante, ma non si dovrebbe ri-petere niente del genere a fine febbra-io. Non ci resta che aspettare e vederecosa succederà.q

    elementare Signora Repici, che moltidi noi ricordano ancora. Costui, cheper un periodo di tempo, ebbe anchedal Comune l’incarico di lampionaio,si portò al seguito come aiutantel’allora ragazzo Pietro Cirino, che se-guì la sua arte e visse fino ad alcunianni fa nelle case popolari di via DonSilvio Cucinotta.

    C’erano pure i signori SchepisAntonino e Francesco, padre e figlio,che chissà per quale misterioso motivosi portavano appiccicato al loro nomedi battesimo anche quello di “Paoli-no”. Avevano bottega nel quartiere“Baglio”, accanto al Municipio, ed an-che loro per un certo periodo di tempoebbero l’incarico di lampionai. Ricor-do il figlio, detto “Ciccio Paolino”, chesi assumeva quasi sempre il ruolo diarbitro nelle partite di pallone tra ra-gazzi che si disputavano nell’allorapiazza Regina Margherita (oggi piaz-za Municipio) ancora a fondo naturalee priva di fontane.

    C’è tutt’ora vivo e vegeto in mezzo anoi anche se con un po’ di acciacchidovuti all’età, il signor Nicolino Tri-firò, che aveva bottega sulla via ReginaMargherita, a pochi passi da casa mia.Oltre ad essere stato un ottimo stagni-no prima ed un ottimo idraulico dopo,fu anche in gioventù un virtuoso suo-natore di mandolino, clarinetto e fisar-monica e, facendo parte di unquartetto bene affiatato, contribuìsenza dubbio a rendere meno noiose emonotone le nostre serate paesane.

    Fra i tanti ricordi della mia fanciul-lezza, mi torna alla mente un afoso po-meriggio d’estate, quando insieme allostridere monotono delle cicale, si senti-va di tanto in tanto il picchiettare legge-ro del martello usato dal signor Trifiròper modellare la lamiera e mia sorellaRosina, che ha avuto un sacro terroredella morte e di tutto ciò che ad essa siriferisce, per costringere noi più piccolia rimanere a letto, ci diceva che DonNicolino stava approntando un “tabu-tu”. La sua drammatica descrizionedella cassa di zinco evidentemente nonbastò a tenerci buoni a letto e pocodopo ci ritrovammo sulla strada incompagnia dei nostri amici di gioco.Ricordo però che fino ad una determi-nata ora evitavamo di fare schiamazziper non disturbare il sonno di coloroche al mattino si erano alzati di bu-on’ora per andare a lavorare.q

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    Breve storia della

    CUCINA SICILIANAdi Lidia Rizzo

    Come ogni storia, anche que-sta comincia con “C’erauna volta”. Iniziamo a rac-contare.

    C’era una volta la civiltà greca. I Gre-ci sbarcarono in Sicilia nel 735 a.C. sullitorale ionico, in prossimità dell’attualeNaxos. Dal punto di vista alimentare fu-rono diverse le novità che questi colo-nizzatori portarono. L’arte di fare il vinonasce proprio da loro; l’ulivo e il farro,presenti già in Sicilia, furono utilizzati inmodo diverso. L’olio, prezioso dono diAtena, fu per noi medicina per via orale,detergente per il viso delle signore, bal-samo per le ferite, combustibile per lelucerne, oltre che alimento. Con il farro,oltre ad un ottimo pane, si ottennero ta-gliatelle molto saporite e addirittura lapasta frolla.

    A quel tempo la Sicilia era abitatadai Sicani e dagli Elimi, antiche popo-lazioni che avevano eretto potenti eprogredite città, dove da almeno tremillenni si era sviluppata una cucinaautoctona. L’incontro di queste civiltàcon quella greca ha arricchito tutte learti, compresa quella culinaria. Co-minciarono a nascere anche trattati diletteratura gastronomica. Archestratodi Gela nel IV secolo a.C., nei suoiFrammenti della Gastronomia, parladi una cucina naturale, schietta e ge-nuina, senza sofisticherie e che si av-vale unicamente di olio, sale, aceto e dierbe aromatiche.

    I pasti dei Greci erano tre al giorno:una colazione del mattino, l’ariston,un pranzo, il defeion, e una cena, ildorpon. I menù dei Greci erano vari ecomposti da minestre, pesce, carne,uova, legumi, formaggi e dolci a basedi miele, noci e latte.

    Socrate criticava gli ingordi, gli op-sofagi, e diede delle regole di galateosul modo di comportarsi a tavola.

    Nell’827 sbarcarono a Marsala gliArabi che portarono molte novità incucina: la canna da zucchero, il gelso-mino, l’anice, il sesamo, il riso, le dro-ghe come la cannella e lo zafferano

    (pare siano loro i veri invento-ri del risotto alla milanese) e lasemola di grano duro, ingre-diente base del loro cuscus.Sono abilissimi pasticcieri.Tra i loro dolci ricordiamo lacubbaita (qubbayt), un dolcissimotorrone di miele e semi di sesamo, lacupita o copata, torrone molto duro abase di nocciole, albume d’uovo, zuc-chero, miele ed amido, la cassata e ilsorbetto. Il nome “cassata” è nato daun malinteso: l’arabo che stava impa-stando la ricotta con lo zucchero in unpentolino di rame, rispose, a chi glichiedeva cosa fosse quell’impasto:“Qas’ at”, riferendosi però al pentoli-no! Il sorbetto, lo “sciarbat”, era inve-ce una bevanda zuccherata, congelatacon la neve, fatta di acqua e latte, es-senza di frutta, vaniglia e cannella.Con il gelsomino gli Arabi inventaronoun niveo gelato che ancora oggi si con-feziona a Trapani con lo stesso nomearabo: “scursunera”. Gli Arabi inven-tarono i geli di melone e gli alambicchicon i quali distillavano la grappa cheperò usavano solo per disinfettare leferite. Agli Arabi si devono anche i cecisecchi, le panelle e il pane con la milzache ancora oggi sono una specialitàpalermitana. Anche il cannolo si deveagli Arabi o per meglio dire alle donnedell’harem Kalt el Nissa ossia “Castel-lo delle donne” (Caltanissetta).

    Gli Arabi furono sconfitti nel 1063dai Normanni, che portarono altre no-vità dalle terre scandinave: spiedi ro-tanti, aringhe affumicate e merluzzisecchi (pescestocco e baccalà).

    Federico II di Svevia, sovrano illu-minato, inventore dell’Università, fuun ottimo conoscitore della buona ta-vola. Durante il suo governo furonoinventate dai suoi cuochi le specialitàdi rosticceria. Federico II era peròmolto frugale, si nutriva solo una voltaal giorno ed era quasi astemio.

    Nel 1268 arrivarono i Francesi diCarlo d’Angiò, al cui sistema feudale iSiciliani si ribellarono con il Vesprodel 30 marzo 1282. Palermo, per nonsoccombere agli Angioini, chiama gli

    Spagnoli di Pietro III d’Aragona.Nel 1302, con la pace di Caltabel-

    lotta, i Francesi se ne vanno definitiva-mente. Anche gli Spagnoli portano leloro novità in campo culinario. Vieneintrodotto il “falsomagro” e viene per-fezionata la cassata con l’aggiunta diun ingrediente base fondamentale, ilpan di Spagna. Gli Spagnoli inventa-no l”agro-dolce” e le “mpanate”.Dall’America arriveranno il pomodo-ro, il cacao, il mais, la patata, i fagioli,il tacchino. La melanzana giungeràdalle Indie.

    Nel periodo spagnolo si consolidala cucina dei nobili. Mentre i “monsù”consumavano nei palazzi pasti a basedi carne e sogliole, al popolo arrivavasolo l’odore. I Siciliani, sempre fanta-siosi ed ingegnosi, si inventarono tan-tissimi piatti poveri che imitavano icibi prelibati dei nobili. Il falsomagro siimbottisce, nella cucina popolana, confrittate e verdure piuttosto che concarni pregiate. Le sarde aperte e deli-scate imitano le sogliole e, opportuna-mente acconciate, diventano“beccafichi” per assomigliare agli uc-celletti consumati dai nobili. Le melan-zane furono travestite da quaglie e,tagliate a tocchetti, diventarono “capo-nata”. Questo sugo profumato servivanei piani alti per una conservazione abreve dei capponi, ma anche di lepri econigli.

    L’unica carne che conobbero i no-stri nonni fu quella di agnelli e caprettio di maiali allevati in casa. Il popolonon consumava carne bovina, ma ri-correva a surrogati: i “buffitteri” (dalfrancese buffet) vendevano per stradale interiora arrostite sulla brace, “utagghiuni”. Carne del popolo era an-che il tonno, che era molto economicoe che i nostri nonni impararono a con-servare sottolio, facendone un alimen-to oggi diffuso in tutto il mondo.q

    tFrutta martorana.

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    I FATTI

    NOSTRIa cura di Franco Biviano

    uIl Comune di S. Lucia del Mela ha

    bandito un concorso per una ricerca sto-

    rica sulla presenza di comunità ebraiche

    a S. Lucia del Mela e in Sicilia.

    L’iniziativa è articolata in due sezioni: la

    prima è aperta a tutti e intende raccoglie-

    re testimonianze e documenti sulla pre-

    senza giudaica a S. Lucia; la seconda è

    riservata agli alunni della Scuola Media

    “P. Galluppi” e delle classi quinte delle

    Elementari di S. Lucia e riguarda più in

    generale la storia degli Ebrei, con parti-

    colare attenzione alle leggi razziali e

    all’Olocausto. I termini per la consegna

    dei lavori, in doppia copia, scadono il 18

    marzo 2000.

    uCon ordinanza n. 4758 del 19 gen-

    naio il Prefetto di Messina ha autorizzato

    il conferimento dei rifiuti solidi urbani

    del nostro C