Agostini R - Il consumo della musica nell'epoca della globalizzazione (Saggiatore Musicale 2004)

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IL CONSUMO DI MUSICA NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE Roberto Agostini ([email protected]) Intervento per la tavola rotonda “Musicologia storica e musica di consumo”, VI Colloquio di Musicologia del Saggiatore Musicale (Bologna, 23.11.2002). Pubbli- cato in «Il Saggiatore Musicale», vol. XI, n. 2, 2004, pp. 399-410 (pubblicato nel 2005). 1. Musicologia e popular music. – Nell’epoca della società globale, industrializ- zata e massmediatica, assistiamo al moltiplicarsi delle musiche anziché alla loro paventata omologazione. Basta osservare gli scaffali di un qualsiasi grande nego- zio di dischi per rendersene conto: pop, rock, metal, techno, punk accanto a mu- sica “classica”, antica e contemporanea, ai minimalisti, ai neoromantici e agli spettralisti, ai “grandi interpreti” e alle “registrazione storiche”, nonché al jazz, al blues, allo hip-hop, alle musiche latino-americane, alla New Age, alle “musiche del mondo”, e così via in una serie infinita di etichette di genere. Oggi ci tro- viamo di fronte ad un universo musicale sempre più complesso, dinamico e ricco; un universo dove le Sinfonie di Beethoven come le canzoni dei Beatles, il raga indiano come la musica raï algerina, sono ormai patrimonio dell’intera umanità, non solo delle nazioni e delle comunità da cui scaturirono. Di fronte ad esso, la musicologia vive un comprensibile imbarazzo, soprattutto quando si confronta con la musica oggi più diffusa: la popular music. Se accoglierla sic et simpliciter nel canone ufficiale della musica del Novecento pare una forzatura agli occhi de- gli stessi musicologi che si dedicano al suo studio, 1 è però opinione condivisa che, se la ‘storia della musica’ non vuol essere la ‘storia di una musica’, e se la musicologia vuol essere lo studio della musica e non di una musica, è necessario tenere conto di tutta la musica, anche della sterminata ed eterogenea produzione che va sotto il nome di popular music, da Frank Zappa ai “tormentoni” estivi. Il problema sarà, semmai, in che modo tenerne conto. 1 Cfr. i pericoli del “liberismo progressista” descritti in R. MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 177. Lo studio della popular music vanta una tradizione consolidata, anche in Italia, dove la sezione italiana della IASPM (International Association for the Study of Po- pular Music), «Musica/Realtà» e il GATM promuovono iniziative di studio sulla popular music fin dal 1980.

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IL CONSUMO DI MUSICA NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Roberto Agostini ([email protected])

Intervento per la tavola rotonda “Musicologia storica e musica di consumo”, VI Colloquio di Musicologia del Saggiatore Musicale (Bologna, 23.11.2002). Pubbli-cato in «Il Saggiatore Musicale», vol. XI, n. 2, 2004, pp. 399-410 (pubblicato nel 2005).

1. Musicologia e popular music. – Nell’epoca della società globale, industrializ-zata e massmediatica, assistiamo al moltiplicarsi delle musiche anziché alla loro paventata omologazione. Basta osservare gli scaffali di un qualsiasi grande nego-zio di dischi per rendersene conto: pop, rock, metal, techno, punk accanto a mu-sica “classica”, antica e contemporanea, ai minimalisti, ai neoromantici e agli spettralisti, ai “grandi interpreti” e alle “registrazione storiche”, nonché al jazz, al blues, allo hip-hop, alle musiche latino-americane, alla New Age, alle “musiche del mondo”, e così via in una serie infinita di etichette di genere. Oggi ci tro-viamo di fronte ad un universo musicale sempre più complesso, dinamico e ricco; un universo dove le Sinfonie di Beethoven come le canzoni dei Beatles, il raga indiano come la musica raï algerina, sono ormai patrimonio dell’intera umanità, non solo delle nazioni e delle comunità da cui scaturirono. Di fronte ad esso, la musicologia vive un comprensibile imbarazzo, soprattutto quando si confronta con la musica oggi più diffusa: la popular music. Se accoglierla sic et simpliciter nel canone ufficiale della musica del Novecento pare una forzatura agli occhi de-gli stessi musicologi che si dedicano al suo studio,1 è però opinione condivisa che, se la ‘storia della musica’ non vuol essere la ‘storia di una musica’, e se la musicologia vuol essere lo studio della musica e non di una musica, è necessario tenere conto di tutta la musica, anche della sterminata ed eterogenea produzione che va sotto il nome di popular music, da Frank Zappa ai “tormentoni” estivi. Il problema sarà, semmai, in che modo tenerne conto.

1 Cfr. i pericoli del “liberismo progressista” descritti in R. MIDDLETON, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 177. Lo studio della popular music vanta una tradizione consolidata, anche in Italia, dove la sezione italiana della IASPM (International Association for the Study of Po-pular Music), «Musica/Realtà» e il GATM promuovono iniziative di studio sulla popular music fin dal 1980.

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Anzitutto bisogna sgombrare il campo da possibili equivoci sul concetto di po-pular music. L’accezione moderna di ‘popular music’ nasce alla fine dell’Ottocento in seno al pensiero intellettuale occidentale, il quale, mentre con-solidava il suo interesse per le culture popolari e per il folklore, osservava preoc-cupato le nuove forme di svago cittadino che stavano prendendo forma, il ruolo fondamentale che qui assumevano alcuni generi musicali presto denominati ge-nericamente ‘popular music’, e l’avviarsi di quel processo politico-economico di “americanizzazione” che, nella seconda metà del Novecento, darà forma a un’industria transnazionale dell’intrattenimento che imporrà a tutto il mondo in-dustrializzato non solo un modello di mercato, ma anche una serie di formati e di contenuti massmediatici.2 Insieme a molti esponenti del mondo intellettuale, i musicologi e i critici musicali considerarono questi sviluppi in termini catastrofici, concentrando la loro critica sulla diffusione di due fenomeni strettamente interre-lati, la popular music e il consumo di massa, considerati segni evidenti di quella progressiva regressione e omologazione del gusto causa prima dello svilimento della musica d’arte e dell’esaurirsi delle tradizioni folkloriche. Di fronte al dila-gare di mode musicali tanto standardizzate ed effimere quanto imposte dall’industria, sembrava che per la ricerca artistica e per le tradizioni orali presto non ci sarebbe più stato spazio alcuno.3 In epoca relativamente recente è stato però efficacemente mostrato che porre la questione nei termini di una distinzione tra una musica di ricerca che pretende di essere autonoma dalle logiche sociali ed economiche e una musica di consumo commerciale e standardizzata è fuor-viante, poiché significa assumere una distinzione tra “cultura alta” e “cultura bassa” nelle sue varie declinazioni (arte vs consumo; testo vs contesto; estetico vs funzionale, d’uso; individuo vs massa, e via dicendo) la cui infondatezza teorica è già stata evidenziata da vari autori: nella società moderna, caratterizzata da di-namiche sociali complesse e contraddittorie, i termini ‘alto’ e ‘basso’ si riferiscono a pratiche culturali tra le quali esiste una certa continuità, piuttosto che a due tipi di oggetto.4 Le questioni che lo studio del Novecento musicale solleva sotto questi aspetti vanno dunque inquadrate in una cornice storico-critica più articolata e ampia di quanto si è soliti fare. Credo che un buon punto d’inizio per abbozzare tale cornice sia di ripensare la storia della musica moderna e contemporanea prendendo in considerazione il ruolo del progresso tecnologico, dello sviluppo del capitalismo, dell’emergere dell’intrattenimento massmediatico e delle relative trasformazioni della società.5

2 Cfr. ibid., pp. 19-36 e, per una storia dell’industria musicale, P. GRONOW e I. SAUNIO, An International History of the Recording Industry, London, Continuum, 1998. 3 In questa prospettiva, la riflessione più autorevole è quella di Adorno (cfr. T.W. ADORNO, Sulla popular music, Roma, Armando, 2004). 4 Cfr. S. FRITH, Performing Rites, Oxford, Oxford University Press, 1996, pp. 3-74; ID., L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in Enciclopedia della musica, I: Il Nove-cento, Torino, Einaudi, 2001, pp. 953-959; M. SORCE KELLER, Musica e sociologia, Milano, BMG Ricordi, 1996, pp. 81-86; e, per una riflessione più generale, L. LEVINE, Highbrow/Lowbrow: The Emergence of Cultural Hierarchy in America, London, Mass. - London, Harvard University Press, 1988. 5 Questa riflessione è in atto da tempo. Cfr. M. BARONI e L. CALLEGARI, Origini e storia della popu-lar music, in What is Popular Music?, a cura di F. Fabbri, Milano, Unicopli, 1985, pp. 176-193; R. MIDDLETON, Articolare il significato musicale - Ricostruire una storia della musica - Collocare il po-

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2. Per una storia della musica del Novecento. – La società occidentale, facendo perno su due importanti snodi storici quali la Rivoluzione Francese e la Rivolu-zione Industriale, ha subìto un radicale mutamento culturale, politico ed econo-mico che l’ha trasformata, da una società basata sulle comunità agricole e nobi-liari, alla società “moderna”, basata su stati-nazione, urbanizzazione, economia di mercato, industrializzazione, progresso tecnico e comunicazione di massa. Questo processo ha subìto una forte accelerazione nel Novecento, quando è stato avviato un pervasivo processo di globalizzazione le cui dinamiche non possono essere circoscritte a singole comunità o aree geografiche; anzi, la globalizzazione ci ha introdotto in un’epoca caratterizzata da un diffuso ed inedito senso di pros-simità e unicità su scala mondiale.6

Le conseguenze dell’avvento della modernità nell’àmbito delle attività culturali e artistiche sono rilevanti. Anzitutto, lo sviluppo tecnologico ha dato origine ad una nuova forma espressiva, la “fonografia”,7 che ha creato nuove possibilità compositive, nuove figure artistiche e nuove modalità di produzione e fruizione. Abitualmente, infatti, le tecnologie del suono non sono usate per riprodurre o tra-smettere esecuzioni musicali; al contrario, gli oggetti musicali incisi e trasmessi nascono dallo sfruttamento delle tecnologie del suono al fine di ottenere oggetti specifici che non sono il risultato della registrazione di un’esecuzione realmente avvenuta, né possono essere fedelmente riprodotti attraverso un’esecuzione. Se la musica scritta è un’arte autografica, dove l’opera è un testo ideale rappresentato da un documento scritto e distinto dalle sue manifestazioni, la fonografia è un’arte allografica: poiché produce oggetti la cui specificità dipende dalla loro materialità e dalle procedure della loro produzione. Tali oggetti non possono essere duplicati senza perdere la loro significatività: sono degli originali.8 La fonografia riprende dunque le dinamiche della comunicazione orale e di arti quali la pittura e la scultura nel fatto che produttori e fruitori vengono a contatto direttamente con l’oggetto nella sua concretezza materiale; ma, a differenza di queste, permette la riproduzione in serie degli originali, generando la perdita dell’aura dell’opera9 e

polare, «Musica/Realtà», V-VI, nn. 15-16, dicembre 1984 e aprile 1985, pp. 63-84 e risp. 97-118; CH. HAMM, La musica degli Stati Uniti, Milano, Ricordi/Unicopli, 1990; W. MELLERS, Musica nel Nuovo Mondo, Torino, Einaudi, 1975; A. Blake, The Land without Music, Manchester, Manche-ster University Press, 1997. Cfr. anche R. LEYDI, L’altra musica, Firenze, Giunti Ricordi, 1991, p. 156 sgg. 6 Cfr. J. MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione, in Enciclopedia della musica cit., p. 774 sgg., e J. TOMLINSON, Sentirsi a casa nel mondo, Milano, Feltrinelli, 2001. 7 Cfr. E. EISENBERG, L’angelo e il fonografo, Torino, Instar Libri, 1997, p. 152 sgg.; M. CHANAN, Repeated Takes, London, Verso, 1995, p. 137 sgg.; P. PRATO, Suoni in scatola, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999, pp. 5-8; D. KAHN, Audio Art in the Deaf Century, in Sound by Artists, To-ronto, Art Metropole, 1990, http://www.soundculture.org/texts/kahn_deaf_century.html (2 set-tembre 2005); MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione cit., pp. 768-774. 8 Per la distinzione allografico/autografico, cfr. N. GOODMAN, I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 2003, p. 102 sgg. Per la sua applicazione alla musica, cfr. T. GRACYK, Rhythm and Noise, London, Tauris, 1996, p. 31 sgg., e A.J. ZAK III, The Poetics of Rock, Berkeley, University of California Press, 2001, pp. 21-23. 9 L’aura è «l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova» (W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, p. 22).

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la separazione tra produzione e fruizione, o schizofonia.10 Per questo, al fine di differenziare l’oralità delle culture che non conoscono i media da quella media-tica, Ong propone di parlare di “oralità secondaria”.11

Come la fotografia, la radiofonia, la cinematografia e la televisione, la fonografia è dunque una di quelle forme di comunicazione elettronica moderna che, lungi dal “riprodurre” alcunché, media la realtà producendo “illusioni”. Considerando che oralità, scrittura e fonografia non esistono mai in modo puro, e che in musica il loro rapporto è assai complesso, vale la pena precisare che il mio discorso in-tende solo disegnare delle linee di tendenza che evidenzino la specificità del fun-zionamento di alcune musiche nella nostra società, dove sono molte le musiche, in primis quelle popular, ad essere caratterizzate dallo statuto fonografico, ovvero da regime allografico, distribuzione di massa di originali e schizofonia. Che ciò non sia stato ancora acquisito dalla musicologia tradizionale non sorprende, le-gata com’è al testo scritto e indifferente com’è al supporto fonografico inteso come fonte da affiancare a quelle comunemente accolte. Eppure l’importanza della fonografia è stata sottolineata in vari studi, che hanno rilevato che l’impatto delle tecnologie elettroniche sulla produzione e sulla diffusione della musica ha dato origine ad un processo di adattamento della musica – la ‘mediamorfosi’ – dalle conseguenza assai ampie.12

Un aspetto importante della mediamorfosi può essere còlto se mettiamo in rela-zione l’evoluzione tecnica ai mutamenti avvenuti nella sfera economica e sociale. La fonografia è stata la premessa all’industrializzazione della musica, il cui av-vento ha sancito lo status di merce della musica e ha fatto del consumo la moda-lità tipica della sua fruizione. E’ importante notare che le forti sinergie tecniche, espressive ed economiche tra i vari settori dell’industria culturale hanno messo al centro dei loro interessi proprio la musica, ed in particolare la popular music, che è così diventata la musica più diffusa e ascoltata, entrando nelle vite delle persone con un ruolo spesso addirittura cruciale nei processi di formazione e consolida-mento delle identità individuali e sociali. E’ però importante collocare tali pro-cessi nel loro contesto sociale, anch’esso mutato da un progressivo «movimento di democratizzazione e di individualizzazione».13 Nell’èra moderna emerge l’ideale della democrazia e acquisisce potere l’opinione pubblica; spariscono le gerarchie di valori assolute e prevalgono i relativismi; le idee cominciano a cir-colare tra i vari strati sociali, e i confini tra le élites e le altre culture si fanno sfu-mati; diventano possibili nuove forme di distinzione sociale e nuove gerarchie culturali, e nascono contrasti tra ideololgie dominanti e ideologie emergenti. La

10 La schizofonia è «la dissociazione dei suoni dal loro contesto originale» (M.R. SCHAFER, Il paesaggio sonoro, Milano, Unicopli, 1985, p. 129). 11 Cfr. W. ONG, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 29 sg. Zumthor propone invece l’idea di ‘oralità mediata’ (cfr. P. ZUMTHOR, La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 26-30). 12 Cfr. K. BLAUKOPF, Musical Life in a Changing Society, Portland, Amadeus Press, 1992, pp. 248 sgg. Studi che approfondiscono le dinamiche dell’oralità secondaria e della mediamorfosi sono, ad esempio, G. MONTECCHI, L’oralità ritrovata: paradigmi di una sfida globale, «Musica/Realtà», XXIV, n. 71, luglio 2003, pp. 103-123, e Music and technoculture, a cura di R.T.A Lysoff e L.C. Gay jr, Middeltown, Wesleyan University Press, 2003. 13 MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione cit., p. 780.

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musica vive dunque in un contesto sociale fluido, articolato e molteplice, caratte-rizzato da forti pressioni mediatiche e da continue negoziazioni tra le identità dei di vari gruppi culturali e sociali; un contesto dove da un lato la musica di tradi-zione d’arte occidentale è diffusa in fasce sociali assai più ampie rispetto al pas-sato e, dall’altro, ai gusti musicali di tutte le fasce sociali e di tutte le culture è ri-conosciuta dignità; un contesto, infine, dove la circolazione nei vari strati sociali delle esigenze musicali ristrette alle élites, non ultima l’esigenza di vivere espe-rienze estetiche, è sempre più comune.

3. Una musicologia per tante musiche. – In questa cornice storica, la tradizione musicale d’arte occidentale si è trovata a confronto con le varie culture musicali “altre”, sia extra-occidentali sia interne all’Occidente stesso. Non è un caso se espressioni come ‘d’arte’, ‘folk’, ‘popular’, ‘extra-accademica’, ‘di massa’, ‘d’uso’, ‘etnica’ e via dicendo si siano specificate a partire dalla fine dell’Ottocento con l’obiettivo di distinguere la musica d’arte dalle altre musiche. Che queste espres-sioni oggi si mostrino ambigue e contraddittorie non deve stupire: esse si sforzano di definire le attività musicali sulla base di corrispondenze tra le caratteristiche stilistiche dei repertorii, le modalità di produzione e di fruizione, i contesti cultu-rali e i gruppi sociali, in un mondo dove il radicarsi delle dinamiche della moder-nità ha reso l’universo musicale talmente molteplice, dinamico e ricco di sincreti-smi da rendere vano ogni tentativo di ricerca univoca di simili corrispondenze. L’imbarazzo della musicologia sopra menzionato può dunque essere attribuito al fatto che questa è storicamente frutto di un contesto storico e culturale diverso dall’attuale, che la sta costringendo a confrontarsi con problematiche inedite.14 Tale imbarazzo può essere superato ricomponendo i pezzi di una discussione che, a ben guardare, è già avviata da tempo. L’etnomusicologia, ponendo l’attenzione sulle musiche di tradizione orale e sulle musiche extra-europee, è stata certo una prima risposta ai nuovi scenari. In seguito, gli studiosi di popular music hanno avviato un dibattito per molti aspetti simile a quello degli etnomusi-cologi. In generale, si sostiene che la musicologia può e deve studiare le “altre” musiche, e che per comprenderne le specificità deve abbandonare in parte le ot-tiche tradizionalmente invalse e gli strumenti interpretativi utilizzati abitualmente per il repertorio di cui prevalentemente si occupa, e attivarne altri. In particolare, più volte è stato sottolineato che concetti come Werk e opus, i giudizi di valore che vantano l’autonomia della musica dai contesti e che si fondano esclusiva-mente sulla tradizione estetica occidentale, la focalizzazione sulla scrittura musi-cale, sono, se posti in termini assiomatici, devianti per una piena comprensione di un canto a vatoccu, di un flamenco o di un raga, come lo sono per una canzone punk o un concept album dei Pink Floyd. A ben guardare, però, lo sono anche per una villanella cinquecentesca, una cassazione di Mozart o per la tradizione belcantistica. E difatti è importante notare che spesso sia l’etnomusicologia sia lo studio della popular music si presentano non tanto come approcci adatti a certi repertorii piuttosto che altri, quanto come approcci utili allo studio della musica tout court.

14 Tagg è stato uno dei primi a sottolineare questo punto: cfr. PH. TAGG, Kojak. 50 seconds of television music (1979), New York, The Mass Media Music Scholars’ Press, 2000, pp. 51-82.

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Partendo da questi stimoli, alcuni musicologi ed etnomusicologi di varia estra-zione hanno iniziato un radicale lavoro di critica al paradigma musicologico al fine di ridefinire il ruolo e le finalità della musicologia nel mutato contesto cultu-rale.15 Al centro della critica c’è il fatto che il paradigma musicologico, centrato sulla tradizione estetica occidentale, sulla scrittura, e sulle nozioni di ‘opera d’arte’ e ‘autonomia della musica’, tende a presentarsi come il criterio unico e as-soluto per decidere che cosa fa parte del campo di studio e che cosa no. L’idea è di superare questa visione autoreferenziale, che fa coincidere i limiti dell’àmbito disciplinare con la tradizione della musica d’arte occidentale, e ridefinire il ruolo della musicologia nell’ottica dello studio del mondo musicale nella sua moltepli-cità e complessità. Non si tratta d’accogliere in modo indifferenziato questa mol-teplicità, ma di definire criteri e strumenti appropriati per affrontarne lo studio. In questo senso, un approccio verso il quale molti autori convergono, consiste nel centrare l’attenzione sulla musica come ‘fenomeno culturale’ piuttosto che sulla musica ‘in se stessa’, e passare dallo studio della musica in quanto ‘opera’ allo studio della musica come ‘attività’, ‘pratica’ o ‘esperienza’, superando il dualismo ‘testo/contesto’. Il concetto di ‘esperienza’ sembra particolarmente utile in questo senso, poiché permette di impostare lo studio della musica come relazione com-plessa, molteplice e dinamica tra un soggetto umano e un oggetto musicale. Per affrontare lo studio della musica in questa prospettiva, molti autori mostrano l’utilità di ricorrere agli strumenti sviluppati dalle scienze sociali che, insieme al metodo storico e all’analisi musicale, sembrano essere utili per potenziare le no-stre conoscenze riguardo le dinamiche culturali dell’esperienza musicale.

4. Esperienza estetica. – Acquisito tutto ciò sul piano teorico-metodologico, un primo àmbito di ricerca che sembra prioritario riguarda una rinnovata riflessione di tipo estetico. Centrare l’attenzione sull’esperienza piuttosto che sull’opera, permette di non limitarsi a ragionamenti basati sull’ ’estetica dell’opera’ o sul ‘giudizio estetico sull’opera’ e d’introdurre lo studio dell’ “esperienza estetica vis-suta da un soggetto che si relaziona a quell’opera” e dell’ “esperienza estetica all’interno della quale è formulato il giudizio”. Qui la specificazione ‘estetica’ non si riferisce dunque ad una qualità intrinseca nell’opera, né ad elementi del contesto; piuttosto, si riferisce a un processo relazionale che vede un soggetto at-tivo entrare in relazione con un oggetto.16 Per provare esperienze estetiche biso-gna dunque imbattersi in oggetti in grado di suscitarle, ma è anche necessario che i soggetti che vi si confrontano siano poi in grado di “leggerli”, ovvero di attivare

15 Cfr. Rethinking Music, a cura di N. Cook e M. Everist, Oxford, Oxford University Press, 2001; Discipling music. Musicology and Its Canons, a cura di K. Bergeron e Ph.V. Bohlman, Chicago, University of Chicago Press, 1992; Concert Music, Rock, and Jazz since 1945, a cura di E.W. Mar-vin e R. Hermann, Rochester, University of Rochester Press, 1995; Keeping Score: Music, Discipli-narity, Culture, a cura di D. Schwartz, A. Kassabian e L. Siegel, Charlottesville, University Press of Viginia. 1997. 16 L’idea di ‘esperienza estetica’ è diffusa nella riflessione sull’estetica moderna. Cfr. G. GENETTE, L’opera dell’arte, II: La relazione estetica, Bologna, CLUEB, 1998, p. 31sgg.; P. BASSO, Il dominio dell’arte, Roma, Meltemi, 2002, cap. IV; e Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, a cura di A.R. Addessi e R. Agostini, Lucca, LIM, 2003 (in particolare i saggi di Marco De Marinis, Jean Mo-lino, e Piero Bertolini e Marco Dallari).

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le condotte e le competenze appropriate: oggetti diversi possono suscitare espe-rienze estetiche in soggetti diversi.17

Nella tradizione filosofica moderna l’esperienza estetica è centrata sull’idea dell’opera d’arte unica e irripetibile, creata da un autore non soggetto a vincoli o condizionamenti. Essa presuppone un’attività di produzione consapevole della tradizione storico-stilistica in cui si colloca e una fruizione basata su un atteggia-mento contemplativo, disponibile a vivere esperienze intense, ma in grado di co-gliere i riferimenti storico-stilistici suddetti e di esprimere giudizi di valore. Alcune recenti ricerche riconoscono questo tipo di esperienza anche nella popular music, rammentando che tante istanze del rock sono state condivise, in un processo di osmosi continua, con lo sperimentalismo d’àmbito colto. Tale approccio ha gene-rato un fiorire di studi su Frank Zappa e sul progressive rock, piuttosto che sullo heavy metal o sul “liscio”. Fermo restando l’interesse di tali studi, va però consi-derato il rischio che questi portino semplicemente ad un processo di legittima-zione – simile a quello che ha subìto il Jazz – che «assimilerebbe questi generi», ossia la popular music, «alle metodologie e ai criteri tradizionali» generando «solo uno spostamento della linea di separazione».18 In questo senso, vale la pena considerare quelle ricerche che, riflettendo sull’esperienza estetica nel mondo contemporaneo, riprendono la distinzione tra apollineo e dionisiaco ed esplorano il ruolo del corpo, rilevando la presenza di esperienze estetiche diverse da quella con cui più s’identifica la tradizione estetica occidentale. Tali ricerche hanno in-teressanti risvolti quando le si applica alla musica.19

Va vista in questa prospettiva l’argomentazione spesso avanzata riguardo il fatto che in molta popular music assumono un ruolo cruciale gli elementi relativi all’esecuzione, all’improvvisazione, all’ornamentazione e alla variazione, le in-flessioni di altezza, gli andamenti ritmici, le tessiture e le sonorità, tutti elementi di derivazione orale difficilmente rappresentabili attraverso la scrittura.20 Visto il carattere fonografico della popular music, tali elementi, non vincolati ad un testo scritto né al momento contingente dell’esecuzione, diventano caratteristiche compositive e stilistiche pregnanti, addirittura autoriali, con ricadute determinanti

17 Cfr. L. MARCONI, Aesthetics of popular music, di prossima pubblicazione negli atti della XIII conferenza della IASPM (Roma, luglio 2005). Per il concetto di ‘condotta’, cfr. FR. DELANDE, Le condotte musicali, Bologna, CLUEB, 1993. Per il concetto di ‘competenza’, cfr. G. STEFANI, Mu-sica: dall’esperienza alla teoria, Milano, Ricordi, 1998, pp. 13-25, e MIDDLETON, Studiare la po-pular music cit., pp. 247-249. 18 Cfr. ibid., p. 177. 19 La distinzione apollineo-dionisiaco è tematizzata in F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia (1872), Milano, Adelphi, 1994. Per la prospettiva estetica qui segnalata, cfr. R. SHUSTERMAN, So-maesthetics: a disciplinary proposal, «Journal of Aesthetics and Art Criticism», LVII, n. 3, 1999, pp. 299-313; MARCONI, Aesthetics of popular music cit.; Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media cit. (qui a nota 16); e il numero monografico del «Journal of Aesthetics And Art Criticism», LVII, n. 2, 1999, su “Aesthetics and the Popular Culture”. 20 Per una breve rassegna di studi, cfr. MIDDLETON cit., pp. 167-170. Cfr. anche B. BAUGH, Prologo-mena to an aesthetics of rock music, «The Journal of Aesthetics And Art Criticism», LI, n. 1, 1993, pp. 23-29, S. DAVIES, Rock versus classical music, «The Journal of Aesthetics And Art Criticism», LVII, n. 2, 1999, pp. 193-204, Ch. KEIL, Motion and feeling through music, in Ch. Keil e S. Feld, Music grooves, Chicago, University of Chicago Press, 1994, pp. 53-76, J. MOLINO, Il puro e l’impuro, in Enciclopedia della musica cit., pp. 1051-1063, e MONTECCHI, L’oralità ritrovata cit..

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sulla pratica musicale dal vivo. Questi elementi musicali sono alla base di un’esperienza musicale diversa da quella della musica d’arte occidentale, ma non per questo estranea alla dimensione estetica. Non si tratta però di distinguere i repertorii in ‘d’arte’, ‘folk’ e ‘popular’ sulla base del loro statuto orale, scritto o fo-nografico; si tratta piuttosto di riconoscere la specificità delle varie esperienze musicali rilevando delle linee di tendenza all’interno di continua, tenendo conto che elementi di derivazione orale e scritta possono essere riconosciuti in propor-zioni variabili in tutte le musiche, e che l’avvento della fonografia riguarda tutte le musiche, non solo la popular music. Solo tenendo conto di ciò possiamo osser-vare che i repertorii che normalmente ricadono sotto l’etichetta ‘popular’ manife-stano spesso una sintomatica continuità con la pratica orale nel far riferimento a strutture musicali funzionali alla regolazione affettiva e alla sincronizzazione motoria, alla memorizzazione dei canti e dei movimenti coreutici e ad un gene-rale coordinamento senso-motorio ed affettivo tra fruitore ed esecutore (reale o virtuale), generando esperienze che, sia nella dimensione registrata sia in quella dal vivo, presentano aspetti su cui si sono utilmente concentrate le riflessioni sulla valenza dionisiaca e somatica dell’esperienza estetica.

5. La musica e il consumo. – L’idea di esperienza estetica viene spesso opposta a quella di consumo nella sua accezione di ‘consumismo’, ovvero accettazione passiva di merci la cui produzione riflette la tendenza delle società capitalistiche a incrementare nuovi consumi e nuovi bisogni attraverso l’influsso dei mezzi di comunicazione di massa. Tale opposizione viene fatta coincidere esclusivamente con la distinzione delle musiche esistenti sulla base della dicotomia ‘musica d’arte’ vs ‘musica di consumo’. In questa prospettiva, “consumare musica” signi-fica accettare passivamente la produzione musicale offerta dal mercato, costituita da una produzione standardizzata, destinata a soddisfare esigenze d’intrattenimento immediate dipendenti dalle mode, detta appunto ‘musica di consumo’. Questa prospettiva, se comprensibilmente diffusa nel senso comune, non può essere accettata come assunto, poiché si fonda sulla distinzione già di-scussa tra ‘alto’ e ‘basso’ intesa come ‘arte’ vs ‘commercio’. Piuttosto, vale la pena ricordare che nella nostra società il ‘consumo’ rappresenta la condizione abituale con la quale si fruisce la musica e che, dunque, tutti i bisogni a cui risponde la musica non trovano risposta se non nella produzione industriale. Non ci deve dunque stupire se interessi di tipo politico ed economico cercano costantemente d’incanalare la domanda di musica nell’offerta massmediatica, e che nel tempo si sia concretizzata un’industria dell’intrattenimento centralizzata e transnazionale che tende a precludere ogni alternativa all’intrattenimento stesso: se la domanda di musica deve fare i conti con un’industria che cerca costantemente di control-larla, standardizzarla e allargarla, l’àmbito soggetto alle pressioni più forti non può che essere quello dell’intrattenimento, che è l’attività più comune e adatta ad essere promossa nei confronti di un pubblico ampio ed eterogeneo. Non si tratta, dunque, di negare l’evidente legame tra industria musicale e repertorii main-stream, ma di chiarire che in linea di principio: (1) il ‘consumo’ non è una qualità ontologica e non può essere ascritto solo a certi repertorii anziché ad altri, in quanto il processo d’industrializzazione riguarda tutti i repertorii e gli àmbiti mu-sicali, il Festivalbar come il Festival di Salisburgo; (2) l’intrattenimento è la mani-

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festazione di un’esigenza diffusa di vivere esperienze musicali rituali e di svago storicamente connaturata alla musica, che è diventata facile bersaglio dell’industria culturale. Da qui si possono trarre due compiti per la ricerca: anzi-tutto, è necessario «[m]ettere in discussione la cultura di massa come la situazione antropologica in cui la evasione episodica divent[a] la norma»;21 inoltre, tenendo conto che i meccanismi del consumo hanno inciso e incidono nella produzione e nella recezione in tutti gli àmbiti musicali, è importante problematizzare la dina-mica delle scelte e dei giudizi di musicisti, musicologi, critici, pubblico e di tutti gli altri attori che partecipano alla vita musicale.

Non si sta qui negando la possibilità dell’esistenza nel mondo contemporaneo di spazi di risposta alle esigenze musicali reali dell’uomo. Tutt’altro: molti studi mo-strano come persino le pratiche del consumo più legate al mainstream non sono mai azioni passive e conformiste, come certe critiche apocalittiche presumono. Tra gli studiosi di popular music, molto citati in questo senso sono autori come Michel De Certeau, che mostra come le pratiche del consumo di massa possono efficacemente essere descritte come “tattiche di appropriazione” di derivazione popolare, e Claude Lévi-Strauss con la sua nozione di ‘bricolage’.22 Anche la pre-sunta omologazione planetaria è una preoccupazione che svanisce, appena si os-serva come i meccanismi di acculturazione e di appropriazione generino piutto-sto differenziazione.23 E il presunto pieno controllo del mercato da parte delle multinazionali si risolve spesso in un’inutile rincorsa verso pratiche di consumo perlopiù imprevedibili.24

Al di là del mainstream, è però interessante osservare che la popular music pre-senta frequentemente anche spazi di ricerca, di sperimentazione, d’impegno e di consapevolezza. La dialettica tra rock e pop, richiamata nella relazione di base di questa tavola rotonda,25 evidenzia proprio la presenza di uno di questi spazi, in questo caso fondato sulla dicotomia ‘arte’ vs ‘consumo’ ripresa all’interno dell’àmbito della popular music. Ma questo non è certo l’unico caso, e in questo senso è interessante soffermarsi su quegli spazi di sperimentazione che assumono forme specifiche, non necessariamente basate sui modelli estetici consolidati, e che anzi intrecciano spregiudicatamente la tradizione d’arte occidentale e la po-pular music, mettendo in crisi la distinzione stessa tra arte e intrattenimento. Ri-

21 U. ECO, La canzone di consumo, nei suoi Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, p. 282, dove si aggiunge anche che «mettere in discussione come radicalmente negativa la mecca-nica dell’evasione episodica … può costituire un pericoloso esempio di ybris intellettualistica e aristocratica». Gli studi di Tagg sono esemplari in questo senso (cfr. Ph. TAGG, Da Kojak al rave, Bologna, Clueb, 1994). 22 Cfr. M. DE CERTEAU, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni del Lavoro, 2001, cap. III, e C. LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 29 sgg. Per un’applicazione in musica di quest’approccio, cfr. G. STEFANI, L’arte di arrangiarsi in musica, «Carte semiotiche», II, 1986, pp. 97-114. 23 Cfr. A. APPADURAI, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, p. 50 sgg., e SORCE KELLER cit., p. 85. 24 Cfr. K. NEGUS, Music Genres and Corporate Cultures, London, Routledge, 1999, cap. II. 25 Qui e in seguito mi riferisco alla tavola rotonda “Musicologia storica e musica di consumo” (2002), dove è stato presentato questo intervento. Per la relazione di base citata, cfr. P. CECCHI, Su alcune questione storiografiche circa la musica di consumo nel secondo dopoguerra, «Il Saggiatore Musicale», X, 2003, p. 323-327: 325.

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corderò solo, come esempio, i cosiddetti turn-tablists o quei musicisti che cen-trano la loro ricerca sulla pratica del campionamento, ben descritti da Veniero Rizzardi in questa stessa tavola rotonda. In queste attività si evidenziano spazi di ricerca e di pensiero specifici alla popular music, che spesso la musicologia, sulla base del proprio paradigma consolidato, tende a non riconoscere. Essi c’invitano ad aprire un importante fronte di ricerca: quello dei valori e delle identità chia-mate in causa nelle varie esperienze musicali contemporanee, sia al fine di capire meglio la popular music, sia per rileggere i repertorii storici e contemporanei in una prospettiva inedita.