AfterVille n°5

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anno 1 n. 5 Dalle città dell’Aldilà numero speciale diretto da Enzo Biffi Gentili ottobre-dicembre 2008 Beyond AfterVille Avventure estetiche Babele e Gerusalemme AfterVille landing strip I curatori di AfterVille Il sogno dell’architetto Georg Simmel, Metafisica della morte, 1910-11 Soltanto quella vita che diventa più piena e più forte sta tuttavia in un collegamento globale con la morte Riccardo Bedrone Presidente Ordine degli Architetti PPC di Torino e Provincia Daniela Formento Direttore Cultura, Turismo e Sport Regione Piemonte Padre Giuseppe Goi d.O. Rettore del Seminario Superiore di Arti Applicate di Torino segue in ultima segue in ultima segue in ultima Aurélien Police, L’île des morts, 2005, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x90 cm, Collezione SSAA, Torino rappresentazioni fantastiche 01 rappresentazioni fotografiche 02-03 rappresentazioni pittoriche 04-05 rappresentazioni multimediali 06-07 rappresentazioni terminali 08 Sommario Dalle città dell’Aldilà divine design tra realismo fantastico e steampunk Pierre Clayette, de la suite Babel, Babel mordorée, 1982, olio su tela, 74x100 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle Simon Marsden, Mountain & Birds, Utah, USA, 1972 fotografia a infrarossi Biblicamente campeggia l’immagine de- scritta dall’Apocalisse. La città dell’Aldilà viene messa a confronto con quella dell’al di qua, vista quest’ultima come il luogo della creatività e dell’epifania umana; vie- ne chiamata simbolicamente Babilonia, non tanto per affermare che in essa c’è solo corruzione e nonsenso, ma perché presuntuosamente immagina di poter costruire senza Dio. In antecedenza, questa dimora degli uomini si identificava con Babele. All’opposto la città dell’Al- dilà prende il nome di Gerusalemme: il riferimento al capoluogo della Giudea è evidente, così come la sua motivazione. È la città di Davide servitore di Jahvé, sede del Tempio salomonico, città san- ta per eccellenza, fondata dal Signore come patria di tutti popoli (salmo 87). Ma la città dell’Aldilà supera di gran lunga la pur positiva realtà di Gerusalemme: essa è la Gerusalemme celeste, collocata in un cosmo nuovo che non conosce né morte né lutto né pianto (Ap 21,1 ss); è la dimora dell’Emanuele, il Dio che vive in mezzo all’umanità. Non c’è più bisogno In memoria di Toni Cordero, uno degli architetti di Dioce È già passato un anno, da quando ini- ziammo, con l’Astronave Torino, parten- do qui dal MIAAO, il nostro viaggio verso l’AfterVille, ora giunto alla fine, descritta in questo ultimo numero del suo giornale di bordo. Che necessariamente, con il suo titolo Dalle città dell’Aldilà, doveva avere un po’ il sapore di una cerimonia degli addii (almeno agli eventi del programma culturale collaterale al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, celebrato quest’estate al Lingotto). Abbiamo così deciso di rendere omaggio a Toni Cor- dero, Sir Simon Marsden, Pierre Clayet- te, Aurélien Police, quattro “fantastici” creatori di “visioni” urbane ultraterrene nell’ambito delle rispettive discipline: l’architettura e la fotografia, la pittura e la grafica. Non a caso abbiamo virgoletta- to alcuni termini nella frase precedente: ogni arte fantastica e visionaria è sem- pre di difficile definizione e valutazione, sovente di controversa reputazione. Grandissimi studiosi si sono provati in passato nell’elaborazione di teorie del fantastico e del visionario, che utilizze- remo anche per illustrare alcuni aspetti delle opere dei nostri ospiti d’onore. Opere accomunate da forti interferenze formali e tematiche, come quelle di mol- tissimi visionari. A esempio, principiando un po’ traumaticamente, e citando Henri Focillon, potremmo dire che “la luce che splende nelle loro opere, è la folgore o il sole dei morti” (H. Focillon, Estetica dei visionari, Abscondita, Milano 2006). Fingendo di non vedere il gesto propi- ziatorio e molto fisico dei nostri pochi lettori, passiamo, sempre sotto la guida di Focillon, a un argomento cruciale, che ha sempre crucciato anche i nostri autori. Infatti, “questi artisti compaiono come accidenti, come scorie (…) li si isola come dei casi”. È stato il destino, in vita, di Toni Cordero e Pierre Clayette, e che tuttora affligge, si fa per dire, Simon Marsden e Aurélien Police. Eppure, essi sono stati e sono tra “i più grandi inno- vatori formali”, sovente cultori del “delirio della prospettiva”, ed evocatori del “pote- re della vertigine” (si guardi, nelle pagine successive e in mostra, alle echappées, alle “fughe” prospettiche, ai ribaltamenti della visione, insomma a prospettive tut- te, seppur diversamente, “depravate”). Attenzione però: non si tratta solo di virtuosistica spericolatezza formale, ma di una sorta di “trascendenza spirituale” della prospettiva, secondo la felice defi- nizione del curatore di una bella mostra dedicata alle architetture fantastiche (Karsten Harries, Les Arquitectures Fan- tástiques I La Transcenndèncis Espiritual de La Perspectiva, in La Ciutat Que Mai No Existí. Arquitectures fantàstiques en l’art occidental, catalogo mostra Centre de Cultura Contemporània de Barce- lona; Museo de Bellas Artes de Bilbao, 23 ottobre 2003-1 febbraio 2004). Infine li si direbbe, ancora una volta tutti, “a disagio nei limiti dello spazio e del tem- po”. Difatti sono affatturati dal passato, da un patrimonio storico-architettonico Per un anno abbiamo scoperto e segui- to interessanti e insospettabili percorsi dell’architettura, prodotti della creativi- tà, del tocco geniale, di intuizioni sottili, di sensibilità estreme dei progettisti. E l’architettura torna ancora una volta a essere protagonista, non tanto come soggetto ma piuttosto come oggetto di studio, interpretazione e soprattutto “rappresentazione” da parte di diverse arti del disegno. È il caso della mostra allestita al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà. AfterVille Divine Design, che con il suo titolo, ambiguo e ambivalente, chiude il programma di eventi culturali collegati al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, che si è svolto a Torino. Architet- tura dell’Aldilà perché in qualche caso prodotta da artisti che hanno concluso fisicamente il loro ciclo terreno ma che attraverso le loro opere continuano ad essere spiritualmente presenti tra noi; ar- chitettura dell’Aldilà perché temi di alcuni lavori sono luoghi dell’ eterno riposo; op- pure architettura dell’Aldilà intesa come quella che deve ancora essere eretta oltre il nostro tempo, che deve ancora essere progettata o che lo è stata solo attraverso il potente occhio della mente e l’intelligenza della mano, traducendosi così in “costruzione d’invenzione”. Un in- teressante viaggio tra passato, presente, futuro, in cui si mescolano strumenti, stili, scuole, in cui tutto sembra frangersi per poi ricomporsi, negarsi per rivivere, in cui architettura, pittura, fotografia, grafica, letteratura, trovano modo di intrecciarsi ed essere complementari. Una carrellata di autori, dal piemontese Toni Cordero, all’inglese Simon Marsden, ai francesi Pierre Clayette e Aurélien Police, per me- scolare linguaggi, culture, tecniche anco- ra molto singolari in questa Europa senza confini, difendendone così contempora- neamente identità e differenze. L’Asses- sorato alla Cultura di una Regione che ha saputo conservare tracce importanti del suo passato, senza tuttavia mai ri- nunciare all’innovazione, non può che rallegrarsi per questo evento che ci pro- pone di osservare da angolazioni inusuali rappresentazioni architettoniche affasci- nanti che mettono in discussione, dello spazio e del tempo, l’abituale visione. Roads? Where we’re going we don’t need roads! Il vettore di AfterVille esattamente un anno fa decollava con Astronave Torino dal MIAAO e precisamente come previ- sto atterra, anche simbolicamente, nello stesso luogo con Dalle città dell’Aldilà. Divine Design. Questo è quanto. Grazie a tutti e arrivederci. Il momento è topico, o, forse, distopico: presentiamo quindi il “consuntivo” di tutta la missione. Non è sicuramente un bilancio economico, ma piuttosto una relazione, speriamo “di- staccata”, degli eventi accaduti durante questo viaggio “fantastico”. Partiamo dall’inizio, con Astronave Torino, primo stadio del razzo. Con cui si è scoperto che, relativamente al nostro tentativo di tracciare, e percorrere, una rotta a zig- zag tra le stelle della cultura del progetto e dell’immaginario della fantascienza, Torino già poteva contare su di un equi- paggio di “architetti-astronauti” spet- tacolare, come sempre più conosciuti all’estero che in Italia: Enzo Venturelli Leggo un articolo di Pasquale Chessa intitolato Biennale. L’architetto diven- ta artista (“Panorama”, 18 settembre 2008). E faccio la scoperta che il cu- ratore della Biennale di Architettura in corso a Venezia, che ha come tema Out there: beyond the building (Là fuori: al di là del costruito), Aaron Betsky, “per la prima volta” ha deciso di guardare “in direzione dell’utopia del sublime”, così: “penso a una storia segreta dell’archi- tettura, che non debba misurarsi col progetto, con la costruzione… ma im- magino un’architettura fuori dell’ordina- rio, vorrei dire inutile, magnificamente assurda”. Scopro anche che una delle maggiori installazioni realizzate in que- sta Biennale, quella di David Rockwell, proietta frammenti di film “architettu- rali” come 2001 Odissea nello spazio, e altri “di fantascienza”. Ma perché mi sembra, e lo dico con tutto il rispetto per un’impresa culturale che condivido, una “scoperta dell’acqua calda”? Ve- diamo, per punti: sei anni fa, nel 2002, realizzammo per le celebrazioni del cen- tenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, Artigiano metropolitano, una mostra presso il Circolo degli Artisti, ora Circolo dei Lettori, intitolata L’architetto artista, rendendo tra l’altro omaggio a Gaudí, considerato come capostipite dell’“architettura fantastica” (non sol- tanto da noi, e non da oggi, si veda al proposito un libro di quasi cinquant’anni fa di Ulrich Conrads e Hans G. Sperlich, Architecture fantastique (Delpire, Paris 1960), che accostava al gran catalano, tra gli altri, Paul Scheerbart, Adolf Be- hne, Bruno Taut, i Luckhardt, Ferdinand Cheval…). Per quanto poi riguarda i rap- porti tra la cultura del progetto e l’im- maginario della fantascienza, è ancora molto vivo il ricordo della prima mostra “fracassante” del progetto AfterVille allestita al MIAAO, Astronave Torino, esattamente un anno fa. Di lì è iniziato quel viaggio “spaziale”, nell’accezione sia fantasy che disciplinare del termine, le cui tappe sono ricostruite nell’articolo dei suoi curatori, AfterVille landing strip, che compare in questa pagina. Infine, eccoci a inaugurare, sempre al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà, che della ricerca di una “utopia del sublime” e di una “architettura magnificamente assurda” è eccellente esempio. Rammento tutto ciò non per rivendicare un documenta- to “diritto di precedenza” -certe svolte e riflessioni sono dans l’air du temps- ma per segnalare un modo di produrre ori- ginalmente cultura che, avviato in am- bito locale, è divenuto concorrenziale a livello internazionale, prima nel contesto del XXIII Congresso mondiale degli Ar- chitetti UIA che abbiamo celebrato qui al Lingotto, ora in quello del più attuale dibattito professionale. Vorremmo che tutto ciò fosse confrontato da chi di dovere con altre imprese culturali tori- nesi-internazionali. Chiudo ringraziando tutti gli amici -a partire da Enzo Biffi Gentili- che si sono sacrificati in questa “missione”. Che non considero conclu- sa: oltre AfterVille infatti non possiamo trovare che un’altra “AfterVille”… Enzo Biff Gentili Direttore MIAAO i

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dalle città dell'aldilà

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anno 1 n. 5 Dalle città dell’Aldilà numero speciale diretto da Enzo Biffi Gentili ottobre-dicembre 2008

BeyondAfterVille

Avventureestetiche

Babele eGerusalemme

AfterVille landing stripI curatori di AfterVille

Il sogno dell’architetto

Georg Simmel, Metafisica della morte, 1910-11

Soltanto quella vita che diventa più piena e più forte

sta tuttavia in un collegamento globale con la morte

Riccardo BedronePresidente Ordine degli ArchitettiPPC di Torino e Provincia

Daniela FormentoDirettore Cultura, Turismo e SportRegione Piemonte

Padre Giuseppe Goi d.O.Rettore del Seminario Superiore di Arti Applicate di Torino

segue in ultima segue in ultimasegue in ultima

Aurélien Police, L’île des morts, 2005, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x90 cm, Collezione SSAA, Torino

rappresentazioni fantastiche 01

rappresentazioni fotografiche 02-03

rappresentazioni pittoriche 04-05

rappresentazioni multimediali 06-07

rappresentazioni terminali 08

Sommario

Dalle città dell’Aldilàdivine design tra realismo fantastico e steampunk

Pierre Clayette, de la suite Babel, Babel mordorée, 1982, olio su tela, 74x100 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Simon Marsden, Mountain & Birds, Utah, USA, 1972 fotografia a infrarossi

Biblicamente campeggia l’immagine de-scritta dall’Apocalisse. La città dell’Aldilà viene messa a confronto con quella dell’al di qua, vista quest’ultima come il luogo della creatività e dell’epifania umana; vie-ne chiamata simbolicamente Babilonia, non tanto per affermare che in essa c’è solo corruzione e nonsenso, ma perché presuntuosamente immagina di poter costruire senza Dio. In antecedenza, questa dimora degli uomini si identificava con Babele. All’opposto la città dell’Al-dilà prende il nome di Gerusalemme: il riferimento al capoluogo della Giudea è evidente, così come la sua motivazione. È la città di Davide servitore di Jahvé, sede del Tempio salomonico, città san-ta per eccellenza, fondata dal Signore come patria di tutti popoli (salmo 87). Ma la città dell’Aldilà supera di gran lunga la pur positiva realtà di Gerusalemme: essa è la Gerusalemme celeste, collocata in un cosmo nuovo che non conosce né morte né lutto né pianto (Ap 21,1 ss); è la dimora dell’Emanuele, il Dio che vive in mezzo all’umanità. Non c’è più bisogno

In memoria di Toni Cordero, uno degli architetti di Dioce

È già passato un anno, da quando ini-ziammo, con l’Astronave Torino, parten-do qui dal MIAAO, il nostro viaggio verso l’AfterVille, ora giunto alla fine, descritta in questo ultimo numero del suo giornale di bordo. Che necessariamente, con il suo titolo Dalle città dell’Aldilà, doveva avere un po’ il sapore di una cerimonia degli addii (almeno agli eventi del programma culturale collaterale al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, celebrato quest’estate al Lingotto). Abbiamo così deciso di rendere omaggio a Toni Cor-dero, Sir Simon Marsden, Pierre Clayet-te, Aurélien Police, quattro “fantastici” creatori di “visioni” urbane ultraterrene nell’ambito delle rispettive discipline: l’architettura e la fotografia, la pittura e la grafica. Non a caso abbiamo virgoletta-to alcuni termini nella frase precedente: ogni arte fantastica e visionaria è sem-pre di difficile definizione e valutazione, sovente di controversa reputazione. Grandissimi studiosi si sono provati in passato nell’elaborazione di teorie del fantastico e del visionario, che utilizze-remo anche per illustrare alcuni aspetti delle opere dei nostri ospiti d’onore. Opere accomunate da forti interferenze formali e tematiche, come quelle di mol-tissimi visionari. A esempio, principiando un po’ traumaticamente, e citando Henri Focillon, potremmo dire che “la luce che splende nelle loro opere, è la folgore o il sole dei morti” (H. Focillon, Estetica dei visionari, Abscondita, Milano 2006). Fingendo di non vedere il gesto propi-ziatorio e molto fisico dei nostri pochi lettori, passiamo, sempre sotto la guida di Focillon, a un argomento cruciale, che ha sempre crucciato anche i nostri autori. Infatti, “questi artisti compaiono come accidenti, come scorie (…) li si isola come dei casi”. È stato il destino, in vita, di Toni Cordero e Pierre Clayette, e che tuttora affligge, si fa per dire, Simon Marsden e Aurélien Police. Eppure, essi sono stati e sono tra “i più grandi inno-vatori formali”, sovente cultori del “delirio della prospettiva”, ed evocatori del “pote-re della vertigine” (si guardi, nelle pagine successive e in mostra, alle echappées, alle “fughe” prospettiche, ai ribaltamenti della visione, insomma a prospettive tut-te, seppur diversamente, “depravate”). Attenzione però: non si tratta solo di virtuosistica spericolatezza formale, ma di una sorta di “trascendenza spirituale” della prospettiva, secondo la felice defi-nizione del curatore di una bella mostra dedicata alle architetture fantastiche (Karsten Harries, Les Arquitectures Fan-tástiques I La Transcenndèncis Espiritual de La Perspectiva, in La Ciutat Que Mai No Existí. Arquitectures fantàstiques en l’art occidental, catalogo mostra Centre de Cultura Contemporània de Barce-lona; Museo de Bellas Artes de Bilbao, 23 ottobre 2003-1 febbraio 2004). Infine li si direbbe, ancora una volta tutti, “a disagio nei limiti dello spazio e del tem-po”. Difatti sono affatturati dal passato, da un patrimonio storico-architettonico

Per un anno abbiamo scoperto e segui-to interessanti e insospettabili percorsi dell’architettura, prodotti della creativi-tà, del tocco geniale, di intuizioni sottili, di sensibilità estreme dei progettisti. E l’architettura torna ancora una volta a essere protagonista, non tanto come soggetto ma piuttosto come oggetto di studio, interpretazione e soprattutto “rappresentazione” da parte di diverse arti del disegno. È il caso della mostra allestita al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà. AfterVille Divine Design, che con il suo titolo, ambiguo e ambivalente, chiude il programma di eventi culturali collegati al XXIII Congresso mondiale degli Architetti UIA, che si è svolto a Torino. Architet-tura dell’Aldilà perché in qualche caso prodotta da artisti che hanno concluso fisicamente il loro ciclo terreno ma che attraverso le loro opere continuano ad essere spiritualmente presenti tra noi; ar-chitettura dell’Aldilà perché temi di alcuni lavori sono luoghi dell’ eterno riposo; op-pure architettura dell’Aldilà intesa come quella che deve ancora essere eretta oltre il nostro tempo, che deve ancora

essere progettata o che lo è stata solo attraverso il potente occhio della mente e l’intelligenza della mano, traducendosi così in “costruzione d’invenzione”. Un in-teressante viaggio tra passato, presente, futuro, in cui si mescolano strumenti, stili, scuole, in cui tutto sembra frangersi per poi ricomporsi, negarsi per rivivere, in cui architettura, pittura, fotografia, grafica, letteratura, trovano modo di intrecciarsi ed essere complementari. Una carrellata di autori, dal piemontese Toni Cordero, all’inglese Simon Marsden, ai francesi Pierre Clayette e Aurélien Police, per me-scolare linguaggi, culture, tecniche anco-ra molto singolari in questa Europa senza confini, difendendone così contempora-neamente identità e differenze. L’Asses-sorato alla Cultura di una Regione che ha saputo conservare tracce importanti del suo passato, senza tuttavia mai ri-nunciare all’innovazione, non può che rallegrarsi per questo evento che ci pro-pone di osservare da angolazioni inusuali rappresentazioni architettoniche affasci-nanti che mettono in discussione, dello spazio e del tempo, l’abituale visione.

Roads? Where we’re going we don’t need roads!

Il vettore di AfterVille esattamente un anno fa decollava con Astronave Torino dal MIAAO e precisamente come previ-sto atterra, anche simbolicamente, nello stesso luogo con Dalle città dell’Aldilà. Divine Design. Questo è quanto. Grazie a tutti e arrivederci. Il momento è topico, o, forse, distopico: presentiamo quindi il “consuntivo” di tutta la missione. Non è sicuramente un bilancio economico, ma piuttosto una relazione, speriamo “di-staccata”, degli eventi accaduti durante questo viaggio “fantastico”. Partiamo dall’inizio, con Astronave Torino, primo stadio del razzo. Con cui si è scoperto che, relativamente al nostro tentativo di tracciare, e percorrere, una rotta a zig-zag tra le stelle della cultura del progetto e dell’immaginario della fantascienza, Torino già poteva contare su di un equi-paggio di “architetti-astronauti” spet-tacolare, come sempre più conosciuti all’estero che in Italia: Enzo Venturelli

Leggo un articolo di Pasquale Chessa intitolato Biennale. L’architetto diven-ta artista (“Panorama”, 18 settembre 2008). E faccio la scoperta che il cu-ratore della Biennale di Architettura in corso a Venezia, che ha come tema Out there: beyond the building (Là fuori: al di là del costruito), Aaron Betsky, “per la prima volta” ha deciso di guardare “in direzione dell’utopia del sublime”, così: “penso a una storia segreta dell’archi-tettura, che non debba misurarsi col progetto, con la costruzione… ma im-magino un’architettura fuori dell’ordina-rio, vorrei dire inutile, magnificamente assurda”. Scopro anche che una delle maggiori installazioni realizzate in que-sta Biennale, quella di David Rockwell, proietta frammenti di film “architettu-rali” come 2001 Odissea nello spazio, e altri “di fantascienza”. Ma perché mi sembra, e lo dico con tutto il rispetto per un’impresa culturale che condivido, una “scoperta dell’acqua calda”? Ve-diamo, per punti: sei anni fa, nel 2002, realizzammo per le celebrazioni del cen-tenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, Artigiano metropolitano, una mostra presso il Circolo degli Artisti, ora Circolo dei Lettori, intitolata L’architetto artista, rendendo tra l’altro omaggio a Gaudí, considerato come capostipite dell’“architettura fantastica” (non sol-tanto da noi, e non da oggi, si veda al proposito un libro di quasi cinquant’anni fa di Ulrich Conrads e Hans G. Sperlich, Architecture fantastique (Delpire, Paris 1960), che accostava al gran catalano, tra gli altri, Paul Scheerbart, Adolf Be-hne, Bruno Taut, i Luckhardt, Ferdinand Cheval…). Per quanto poi riguarda i rap-porti tra la cultura del progetto e l’im-maginario della fantascienza, è ancora molto vivo il ricordo della prima mostra “fracassante” del progetto AfterVille allestita al MIAAO, Astronave Torino, esattamente un anno fa. Di lì è iniziato quel viaggio “spaziale”, nell’accezione sia fantasy che disciplinare del termine, le cui tappe sono ricostruite nell’articolo dei suoi curatori, AfterVille landing strip, che compare in questa pagina. Infine, eccoci a inaugurare, sempre al MIAAO, Dalle città dell’Aldilà, che della ricerca di una “utopia del sublime” e di una “architettura magnificamente assurda” è eccellente esempio. Rammento tutto ciò non per rivendicare un documenta-to “diritto di precedenza” -certe svolte e riflessioni sono dans l’air du temps- ma per segnalare un modo di produrre ori-ginalmente cultura che, avviato in am-bito locale, è divenuto concorrenziale a livello internazionale, prima nel contesto del XXIII Congresso mondiale degli Ar-chitetti UIA che abbiamo celebrato qui al Lingotto, ora in quello del più attuale dibattito professionale. Vorremmo che tutto ciò fosse confrontato da chi di dovere con altre imprese culturali tori-nesi-internazionali. Chiudo ringraziando tutti gli amici -a partire da Enzo Biffi Gentili- che si sono sacrificati in questa “missione”. Che non considero conclu-sa: oltre AfterVille infatti non possiamo trovare che un’altra “AfterVille”…

Enzo Biff GentiliDirettore MIAAO

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rappresentazioni fotografiche omaggio a toni cordero ottobre-dicembre 2008

Luisa Perlo

Il tempioceramico

Philippe Sollers, Le dandy in Splendeurs et misères du dandysme, 1986

Un dandy précise qu’il sera, de toutes façons, heureux de mourir

Toni Cordero e Bruno Munari, dal progetto Dioce: L’iconostasi iconoclasta, 1993 installazione nell’Oratorio del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino Archivio SSAA, Torino

in alto Toni Cordero, dal progetto Dioce: Ecbatana, Calligrafie, 1993 installazione nella Chiesa Maggiore del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino foto Pino Dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero, dal progetto Dioce: Concentrazione, 1992, installazione nella Chiesa Maggiore del Complesso Monumentale di San Filippo Neri in Torino, foto Pino Dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero e Santo Tomaino Il sonno di Dioce, 1995installazione realizzata nel Chiostro Superiore di San Filippo Neri in Torino, ora Galleria Soprana del MIAAO (particolare), foto Pino Dell’Aquila Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero, Il Tempio Ceramico: Le Cimetière, 1997, installazione realizzata nella Rotonda Antonelliana di Castellamonte, opere in gres di Bernard Dejonghe (particolare), foto Pino dell’Aquila, Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero, Mater Materia: Ossobello 1999, installazione realizzata nella Chiesa degli Artieri di Matera, opere di Bertozzi e Casoni (particolare), foto Mario Cresci Archivio SSAA, Torino

Toni Cordero, Il Tempio Cerami-co: I Fantasmi dell’Antonelli, 1997 installazione realizzata nella Rotonda Antonelliana di Castellamonte (particolare), foto Pino dell’Aquila Archivio SSAA, Torino

Allo straordinario architetto torinese Toni Cordero (1937-2001), che già ci guarda dall’Aldilà, rendiamo omaggio su questo numero di “AfterVille” soprattutto per quan-to riguarda un aspetto della sua eccellente ed eclettica opera: l’exhibition design. Per-ché la sua più suggestiva esperienza nel progetto di allestimento di mostre nasce proprio sotto il cielo di una città ideale, quella di Dioce, “ricostruita” qui in San Fi-lippo Neri con una serie di manifestazioni organizzate dall’omonima associazione (vedi “AfterVille” n. 0, ottobre-dicembre 2007) all’inizio degli anni novanta. A pre-messa di un’analisi del lavoro di Cordero in questo settore disciplinare -ma limitata-mente alle esposizioni di temi e ambienti “sacri”- è opportuno quindi ripubblicare brani della dichiarazione di intenti del gruppo di Dioce redatta nel 1992: “Il pro-getto Dioce concorre a un tentativo di ri-appropriazione di rilevanza culturale e for-male di Torino (...) Dioce è il nome di una città mitica e storica insieme (corrisponde all’antica Ecbatana, capitale della Media, di cui scrive Erodoto) tratto da un sublime verso di Ezra Pound, nel canto LXXIV dei Cantos, primo dei Canti pisani: ‘To build the city of Dioce, whose terraces are the colour of stars’ (‘Per costruire la città di Dioce, che ha terrazze color delle stelle’). Costruire, quindi. Ma per costruire, dice ancora Pound nei versi precedenti, occor-re ‘…a bang, not a whimper, with a bang not with a whimper’ (‘uno schianto non una lagna, uno schianto non una lagna’). E quanto sarebbero stati giustificati la la-gna, il piagnisteo per il Poeta racchiuso in una gabbia, in un campo di concentra-mento, sotto le nuvole di Pisa, nelle rovine della sua Europa che tuttavia lo spinge, di nuovo, a scrivere ‘As alone ant from a broken ant-hill/ From the wreekage of Eu-rope, ego scriptor’ (‘Formica solitaria di un formicaio distrutto/ dalla rovina d’Europa, ego scriptor’)”. L’associazione concluse la sua attività, con una “cerimonia fune-bre” apparata da Cordero, nel 1995. Ma il sonno di Dioce, per l’architetto, era leg-gero. Infatti solo un anno dopo, nel 1996, invitato ad Abitare il Tempo a Verona con altri professionisti a creare installazioni sul tema de “L’attesa”, intitola la sua Aspet-tando la fine della crisi. Contro l’usura, e di nuovo rende onore a Pound, questa volta non soltanto al letterato, quanto, origina-lissimamente, all’interior designer (si fa per dire, il poeta a Londra, per penuria di mez-zi, si fabbricava i mobili da solo con povere assi, vivendo, secondo una descrizione di Eliot, “come uno squatter”) e fa riprodurre una sua sedia, che espone in un allesti-mento schermato da una rete metallica per alludere alla gabbia nella quale Pound fu rinchiuso dai suoi compatrioti a Pisa alla fine della guerra. Cordero appende anche a fianco, inquadrato, il testo del Canto XLV, sottolineandone i versi che accenna-no all’architettura, all’arte, all’artigianato: “Con usura nessuno ha una solida casa/ di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata,/ con usura/ non v’è chiesa con affreschi di paradiso (…) con usura/ nessuno trova residenza amena./ Si priva lo scalpellino della pietra,/ il tessitore del telaio (…) Usura arrugginisce il cesello/ arrugginisce arte e artigiano/ tarla la tela nel telaio, nessuno/ apprende l’arte d’in-tessere oro nell’ordito…”. Toni aveva letto il libro, appena uscito, di Giano Accame Ezra Pound economista. Contro l’usura (Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1995), ed era affascinato da quell’originale lettura di Pound, visto anche come erede del pen-siero socialista di John Ruskin e William Morris, il padre delle Arts and Crafts. Per preparare l’ installazione veronese e rileva-re il modello della sedia di Pound, Corde-ro era andato al castello di Tirolo presso Merano, residenza di Mary de Rachewiltz, figlia del poeta e sua somma traduttrice, e si era commosso, nel vedere conservato in una vetrina, nella prima sala del castello, il catalogo della prima edizione delle mo-stre torinesi di Dioce.

La cittàdi Dioce

Nel 1999 a Matera si discute sullo stato delle arti applicate. Lo sce-nario è Mater Materia, la I Biennale Internazionale a esse dedicata in Italia. Uno scenario eccezionale dal punto di vista architettonico, come unica è la controffensiva culturale a favore di discipline da tempo ne-glette. Un simile progetto richiede, passi il gioco di parole, notevole applicazione. Accanto al curatore Enzo Biffi Gentili non può mancare Toni Cordero, da sempre compa-gno di ardimentose imprese espo-sitive. Nella Chiesa degli Artieri, sui Sassi, Cordero crea un’archi-tettura di luce ispirata alle lumi-narie che vestono a festa i paesi del Sud, qui a fianco illustrata nel sontuoso bianco e nero di un il-lustre materano d’adozione, Mario Cresci. L’architetto “de-localizza” la luminaria, nata per gli esterni, e la ingabbia in strutture ortogo-nali, canzonando il minimalismo allora imperante nel disegno degli interni. La mostra è un’illuminante riflessione per quadri liturgici sulla condizione “agonica” della discipli-na, che va oltre l’allusione ai temi e alle suppellettili sacre che ornano il contesto: un profetico de profun-dis, dal momento che la biennale materana resterà un unicum. Ne sono testimonianza il “reliquiario” di Jean Michel Doix, le mammelle mutilate della Sant’Agata cerami-ca di Elica, e due memento mori -opportunamente in tema con questa pubblicazione- di Bertozzi e Casoni: il “mucchio d’ossa” ora conservato nel Sepolcreto sotter-raneo di San Filippo Neri, e Sce-gli il Paradiso, mirabile Madonna mortifera in maiolica esposta per la seconda volta quest’estate nel Gran Teatro Ceramico al MIAAO, dove, mentre Matera si affida al franchising progettuale delle ar-chistar, la resistenza continua.

La Rotonda Antonelliana di Ca-stellamonte è un iperbolico anello murario in laterizio, fatto innalzare da Alessandro Antonelli (Ghem-me, 1798-Torino, 1888) come in-volucro di una Chiesa Parrocchiale capace di contenere 6000 perso-ne, ma interrotto a metà dell’altez-za prevista. Un affascinante reli-quato inintelleggibile ai più senza la conoscenza della sua originaria destinazione. Spesso, una volta all’anno, in occasione della tradi-zionale Mostra della Ceramica, si utilizza il terrain vague tra le mura per “scaricare” opere eterogenee. Quando invece nel 1997 viene affidato l’incarico di allestitore della mostra a Toni Cordero, egli si pone come obiettivo principale una coerente rappresentazione del genius loci, e decide di “ria-prire il cantiere” dell’Antonelli. E pone come custode della sua installazione, intitolata Il Tempio Ceramico, il suo fantasma, evo-cato imprimendo su un telone trasparente un’ immagine, inedita, del “fantastico” architetto mentre controlla il disegno di progetto…

Ricordare Toni Cordero significa rivive-re gli anni della nostra formazione nel suo studio. Sotto la sua guida siamo cresciuti, subito spaventati, poi tra-scinati dalla sua passione travolgente per la professione: un’ossessione. Del resto, citando Sigfried Giedion, “solo il fanatismo e l’ossessione concedono la capacità di non affondare nel mare della mediocrità”. Mediocre, Cordero non fu mai, e questa è forse stata la sua colpa, in questa città. La passio-ne non concedeva pause alla mente e riposo al corpo, sino a rischiare il tracollo, ma non era possibile restare indifferenti: ci stimolava a superarci, sempre. Il Maestro generava energia intorno a sé non solo attraverso i suoi spiazzanti ragionamenti, ma pungo-landoci nell’orgoglio, ironizzando per-fidamente sulle nostre lacune. La sua curiosità, determinazione e inquietudi-ne gli hanno fatto mettere in discus-sione costantemente il suo linguaggio progettuale. Adorava le materie prime: pietra, legno, vetro e metallo; i materiali da costruzione basici come il mattone, il calcestruzzo e il ferro d’armatura, ma non fu mai minimal. Da questo lessico elementare sapeva trarre un inedito abaco di combinazioni. Di ogni ele-mento voleva conservare la “forza” ed esprimere le caratteristiche intrinse-che, limitando al massimo ogni finitu-ra di carattere protettivo, per quanto richiesta dall’uso. L’ossidazione del ferro o la deformazione di un legno andavano lasciate libere di prodursi. L’imperfezione infatti era per lui una forma di comunicazione del vissuto, anche di un minerale, una manifesta-zione del trascorrere del tempo. Non era però troppo ossequioso di fronte ai materiali “nobili” e naturali, dei quali turbava la compostezza accostandoli a materiali artificiali. Possedeva una profonda perizia nell’arte del disegno: disegnare al vero, anche a mano libe-ra, gli consentiva di dirigere magistral-mente gli artigiani, con i quali intratte-neva rapporti intensi, di sincera colla-borazione, quasi simbiotici. Otteneva da loro risultati inaspettati, assem-blando con intelligenza i semilavorati dei prontuari di officina con i fabbri, bordando e riportando creativamen-te porzioni di tessuto su tele grezze con i tappezzieri, spezzando riggiòle con i piastrellisti, esasperando il vir-tuosismo degli smaltatori. Nel mondo

del design ha coniugato le tradiziona-li capacità meccaniche, da “califfo” d’officina torinese, con l’arte decora-tiva di Guarini e Juvarra, e con l’amor estremo orientale (come nei pali e nei puntali del Vocabolario redatto per Sawaya e Moroni, ispirati agli Urga mongoli, i bastoni sventolanti che se-gnalavano il territorio dell’amore). Una sintesi che si ritrova anche quando si è confrontato, da mistico nasco-sto qual era, con il tema del Sacro. Ad esempio nel restauro della Chiesa delle Suore di Clausura del Cottolen-go di Biella, opera straordinaria mai divulgata, gli arredi in legno massello, caratterizzati da mistilinee barocche, sono poi sedotti da movenze organi-che austroungariche. Nella rassegne di mostre allestite a partire dal 1992 in

San Filippo Neri a Torino il legno grez-zo delle assi da ponteggio è costretto alla pompa barocca, in contrappunto ad austeri candelieri in ferro brunito, realizzati con soli tre punti di saldatu-ra. Così, riusciva a dare dignità spi-rituale a poveri materiali, anche nel caso dell’allestimento di Mater Mate-ria a Matera, punteggiando di lucine cinesi da albero di Natale strutture a punto asola, in lamierino, delle stage-re da cantina… All’inverso, riusciva a rendere “materiale da costruzione” la luce, o il fumo d’incenso, come avven-ne di nuovo a Matera, e più volte a To-rino. Toni Cordero non amava affatto spiegarci le sue intuizioni progettuali e il suo ductus, ma invitarci al sacrificio e alla perseveranza: lezione da vero buon maestro, altrimenti inimitabile.

Enzo Biff GentiliiEnzo Biff Gentilii

Emanuela Oddenino, Alberto Pozzallo, Stefano Vellano / Studio Kha

Luisa Perlo

Toni Cordero architetto e compagnon

Mater Materia

Toni Cordero è l’ultimo esponente di quella tradizione subalpina di grandi architetti “eccentrici” ed eclettici del secondo Novecento illuminata da fi-gure come quelle di Carlo Mollino, Enzo Venturelli, Elio Luzi, Paolo So-leri. Quindi, la sua città, Torino, non gli ha mai dedicato una mostra. Ep-pure Cordero, nelle tre fasi nelle quali si può dividere in linea di massima la sua vicenda professionale è stato pri-ma sofisticato inventore di una diver-sa immagine di dimore alto borghesi piemontesi; poi, con la sua scelta di un progetto contaminato e frammen-tato, protagonista alternativo di un design prossimo a una nuova deco-razione celebrato a livello nazionale e internazionale; infine un sovversivo nella disciplina dell’allestimento di mostre. I suoi ordinamenti espositivi, scenografici e impressivi, sono stati sovente eseguiti in illustri e consacrati beni architettonici: Dioce ed Ecbatana in San Filippo Neri a Torino del 1993; La sindrome di Leonardo nel Museo Diocesano Pia Almoina di Barcellona nel 1995; Il tempio ceramico nella Ro-tonda Antonelliana di Castellamonte nel 1997; Mater Materia nella Chiesa degli Artieri di Matera nel 1999. Qui evochiamo questo settore della sua creatività, per campioni, ricorrendo a magistrali fotografie di Pino Dell’Aqui-la. In tema di città dell’Aldilà dob-biamo anche ricordare una vicenda precedente, perturbante, di Cordero in relazione con lo spazio sacro e il suo “doppio”, quello sconsacrato, ri-ferita nell’autobiografia dello studioso di arti decorative storiche Alvar Gon-záles-Palacios (Le tre età, Longanesi, Milano 1999). Si tratta della ristruttu-razione, progettata da Toni nel 1982, di una ex chiesa a Londra, divenuta la casa-galleria del torinese Mario Taz-zoli. Gonzáles-Palacios scrive: “Devo confessare che l’atmosfera di quel biz-zarro edificio, sontuoso finché si vuo-le, era piuttosto inquietante. Di notte si sentivano rumori di passi, bisbigli, porte che si chiudevano all’improvvi-so, correnti d’aria inspiegabili: non si dormiva in pace. Mario aveva firmato un impegno per cui era tenuto ad av-vertire la comunità religiosa alla quale era appartenuta la chiesa nel caso avesse trovato, durante lavori o scavi, resti di antichi fedeli. La cosa non mi

piacque (…). Mario non fu mai sereno fra quelle mura e fu proprio lì che nel 1989 dette i primi segni di confusione mentale…”. Ma non si può chiudere questa troppo breve nota commemo-rativa del Cordero autore di apparati sacri ed “esecrandi” senza accenna-re alla sua propensione a creare un col-laboratorio con maestranze non specializzate, invitate a “trascendere” il loro abituale mestiere, o con giovani da “iniziare” ad apprendere un più ele-vato savoir faire. A esempio, nel caso della mostra Calligrafie in San Filip-po Neri, fece realizzare ai carpentieri dell’Impresa Rosso, sponsor tecnico dell’evento, non solo le passerelle per i visitatori, ma anche le volute baroc-che dei sostegni lignei, le appliques che illuminavano i leggii. Oppure, nel caso de Il Tempio Ceramico alla Ro-tonda di Castellamonte, richiese l’in-tervento dell’Ente Scuola e del Centro per l’Istruzione Professionale Edile per erigere, su di un disegno da lui redatto con Jacques Kaufmann, due simulacri al vero delle colonne in mat-toni a suo tempo progettate, e non realizzate, da Alessandro Antonelli per quella che avrebbe dovuto essere una chiesa monumentale. Sognava un nuovo Compagnonnage. Perché Cordero condivideva quel che aveva scritto Albert Vallet nel capitolo La morale de l’histoire, conclusivo del suo libro La Céramique Architectura-le (Dessain et Tolra, Parigi 1982): “La ceramica architettonica, la ceramica monumentale, in ragione della loro scala d’esecuzione, richiedono lo spi-rito di corpo. Se alcuni ispirati sono necessari per guidare una squadra verso la sommità, il lavoro sul cantiere comporta, a tutti gli stadi dell’opera, per il compagnonaggio che ingenera, un rapporto che non è solamente di servizio. Per questo, la ceramica ar-chitettonica è anche una scuola di fraternità”. Ma Cordero collaborò an-che con “compagni eccellenti”, come Bruno Munari, in San Filippo Neri (vedi L’iconostasi iconoclasta, in “Domus” n. 756, gennaio 1994). Si trattava di un geniale telaio in ferro che reggeva lu-nette auree, posto tra abside e navata a segnare, come nell’iconostasi bizantina, una linea di confine tra la dimensione materiale e quella spirituale, dalla quale Toni ora speriamo ci sorrida.

L’off cina torinesedi Cordero

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rappresentazioni fotografiche omaggio a simon marsden 03

Valérie Zuddas

Teterrimobaronetto

Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, 1965

Qualche immagine repentinamente sfavillante di quel bagliore pallido di piombo raschiato

che si vede guizzare sul nero dell’antracite

a sinistraSimon Marsden, San Michele Cemetery, Venice, Italy, The Island of the Dead, 2000 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino

Simon Marsden, Statues, Brompton Cemetery, London, England, 1983 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino

Simon Marsden, Belgian Cemetery, Houthulst, Ypres, Belgium, 1999 fotografia a infrarossi, Collezione SSAA, Torino

Franco Fanelli, Tsalal, Hommage à Edgar Allan Poe, 1987, acquaforte e puntasecca su rame, 14,5x13,4 cm

Gaston Redon, Paysage fantastique: monument funéraire dans la montagne, sd disegno in inchiostro nero su carta, 14,5x11,6 cm © RMN (Musée d’Orsay), foto Hervé Lewandowski

sotto Simon Marsden, Church of St Andrew, Covehithe, Suffolk, England, 2006 fotografia a infrarossi

Simon Marsden, SelfportraitLincolnshire, England, 1988 fotografia a infrarossi

Su queste due pagine si proiettano le ombre di Poe e Pound, inquietanti e ingombranti soprattutto in un gior-nale che si occupa di arti del dise-gno. Intendiamo riferirci non tanto a specifici contenuti delle loro opere o alle loro drammatiche figure, quanto, più in generale, a quel problema di imponente trasfusione di letteratu-ra in architettura, fotografia pittura, grafica, che domina questo numero di “AfterVille” e che si “aggraverà” nelle pagine successive. Insomma è opportuno rintracciare anche al-tri exempla, più “disciplinari”, che legittimino da un diverso versante l’aspetto “poetico” e “narrativo” del lavoro di Cordero e Marsden, Cla-yette e Police. Al proposito ci pare emblematico il modello di Gaston Redon (1853-1921), fratello minore del grande pittore simbolista Odilon. Si tratta infatti di un architetto vincito-re del Grand Prix de Rome del 1883, che ci è particolarmente caro perché autore della ristrutturazione del Pa-villon Marsan del Louvre, inaugura-to nel 1905, e da allora destinato a sede del Musée des Arts Décoratifs. Redon, dopo un brevissimo perio-do di libera professione, si dedica esclusivamente ai Beni Architettoni-ci (il Louvre, appunto, e le Tuileries), ma, al di là di questo suo ruolo illu-minato e istituzionale, si esercita in un disegno notturno, laterale, anche alimentato, secondo una scheda redatta dal Musée d’Orsay che con-serva reliquie del corpus della sua “opera al nero”, da un disastro eco-nomico familiare che segnò la sua esistenza: “La sua mente ne era turbata, i suoi pensieri unicamente rivolti verso idee di morte; è proprio in quel periodo che cominciò a dise-gnare, di sera, composizioni di una tristezza penetrante in cui l’elemen-to fantastico interamente romantico

si mischia a questo sentimento della morte. Con decisi tratti di penna traccia segni su un foglio bianco, facendo appa-rire paesaggi rocciosi, scarpate, sentieri tortuosi che si inerpicano alla conquista di montagne inaccessibili, teschi monu-mentali, templi immensi che spuntano fuori delle nebbie, sfere e stelle che bril-lano nel più nero dei cieli, alberi spogli e dai rami ricurvi...”. Anche quando uscirà da quelle angustie economiche, perse-vererà in un pensiero dominante, come egli stesso scrive: “In inverno, il rientro a

casa dopo il lavoro è terribile, sarà così anche oggi, me ne rendo con-to dalla smania che ho la sera di guardare il mio teschio consolatore. Questo pezzo di osso mi è di gran-de conforto. Grazie a lui so che noi moriremo tutti. D’altro canto, però, mi sforzo di non morire completa-mente”. Alcuni disegni di Gaston Redon sono stati criticamente con-nessi a quelli di Victor Hugo: rieccoci a un grande letterato, molto amato anche da Pierre Clayette.

Simon Marsden lo annovera tra i numi tutelari. I suoi “neri racconti di dimore in decadenza e abbazie illuminate dalla luna”, scrive, “sembravano in qualche modo rispecchiare la mia ossessio-ne per i fantasmi che li infestavano”. Per un adolescente di tendenza dark, Edgar Allan Poe è ancora oggi un fa-scinoso dispensatore di arcane paure. Se poi questo teenager cresce -a qual-cuno capita- in due antiche hounted houses del remoto Lincolnshire, e lì, anziché darsela a gambe, matura un’inclinazione artistica verso il miste-ro e il soprannaturale, come nel caso di Marsden, succede che, Leica alla mano, queste paure possano diven-tare immagini di straordinaria potenza evocativa. Talento visionario e roman-tico, autore secondo D.H. Lawrence di “terribili storie dell’anima in corso di disintegrazione”, Poe ha affascinato generazioni di pittori, incisori, cineasti, fumettisti, musicisti. Nato a Boston nel 1809, e cresciuto a Richmond, in Virginia, sotto l’egida severa della fa-miglia Allan, avrebbe vissuto una vita randagia di soli quarant’anni, segnata dalla tragedia familiare, dalla cronica penuria economica e dai funesti ef-fetti dell’alcool. “Genio singolare” e “meraviglioso ciarlatano” per Charles Baudelaire, che in Francia lo tradusse e chiosò, accanto a Mallarmé, garan-tendogli da morto la fama faticosa-mente rincorsa in vita, questo formida-bile narratore di spettri che albergano nella mente si sarebbe trovato a suo agio nel secolo breve, a cui avrebbe fornito più d’una fonte d’ispirazione. Più che all’inventore del romanzo po-liziesco (recentemente Julian Schnabel ha intitolato un suo quadro No Poe No Hitchcock), o allo scrittore di racconti il cui significato sarebbe andato ben ol-tre le intenzioni -bastino le letture che de L’uomo della folla e della Lettera rubata hanno dato Walter Benjamin e Jacques Lacan- pensiamo all’insupe-rato artefice di incubi visivi. All’autore dei Tales of the Grotesque and Arabe-sque, che pare alludere al linguaggio delle arti decorative, al teorico del lan-dscape gardening del Possedimento di Arnheim e del Villino di Landor, al meno conosciuto filosofo del furniture, al minuzioso “illustratore” di interni e di architetture “tra il gotico e il saraceno” a sua volta illustrato da storici maestri come Aubrey Beardsley, Gustave Doré,

Alberto Martini, Dino Battaglia, o da più attuali artisti quali il torinese Franco Fa-nelli, di cui qui sopra pubblichiamo una brumosa visione di Tsalal, la tetra e sel-vaggia isola “nera” che Poe inventò per imprigionare Arthur Gordon Pym. Pen-siamo al Poe amato dai surrealisti, che fece dire ad André Breton: “Poe est surréaliste dans l’aventure”, il Poe che affascinò a più riprese René Magritte, ma anche al Poe in salsa d’Albione di Damien Hirst e di Tracey Emin, espo-sto di recente a Londra nella potente galleria di Jay Joplin, The White Cube. A beneficio di tutti i palati Poe ha attra-versato nel frattempo la storia del ci-nema, dall’avanguardia al b-movie, da La Chute de la Maison Usher, di Jean Epstein, al ciclo “pop” di Roger Cor-man e del maiuscolo Vincent Price,

passando per i Fellini, Malle, Vadim dei Tre passi nel delirio fino ai “maghi del terrore” Dario Argento e George Romero. A un anno dal bicentenario della nascita, il suo appeal si mostra inalterato. Si annunciano celebrazio-ni: la più inquietante per il momento è il biopic scritto da Sylvester Stallo-ne (ma forse si può ancora contare su Clive Barker). Nel 2003 Lou Reed ha dedicato un intero album a The Raven, il suo capolavoro poetico. C’è chi, come la sottoscritta, l’ha ascolta-to dal vivo nel fossato del Castello di Otranto, assaporando l’inequivocabi-le omaggio a Horace Walpole, il cui fantasma, accanto a quello di Poe e di altri “gotici” colleghi aleggia in que-sti giorni nelle gallerie del MIAAO, si spera con intenti solo apotropaici…

Sir Simon Neville Llewelyn Mar-sden, quarto Baronetto di Grim-sby, nasce nel 1948 a Lincoln, nel Lincolnshire, dove vive in un antico presbiterio. Si forma all’Ampleforth College nel North Yorkshire e poi all’Università del-la Sorbona a Parigi. Dal 1969 lavora come fotografo professio-nista, collaborando con nume-rose riviste. In seguito a borse di studio assegnategli dall’Arts Council of Great Britain nel 1975 e nel 1976 viaggia in Eu-ropa, Medio Oriente e negli Stati Uniti. Si specializza in fotografia d’architettura e di paesaggio, rinnovando la tradizione del “pittoresco” nell’accezione an-glosassone del termine: rovine, chiese e abbazie, cimiteri, edifici misteriosi, decadenti e “auratici” divengono i temi preferiti delle sue riprese. Tecnicamente, l’ef-fetto “ultraterreno” e inquietante delle sue immagini è intensifica-to dall’uso di filtri infrarossi e da raffinati procedimenti di stampa su carte metallescenti. Ha pro-dotto molti album fotografici di gran successo. Le sue opere sono state esposte in importan-ti musei come il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la Bi-bliothèque Nationale de France di Parigi, il Victoria and Albert Museum di Londra. In Italia, con Dalle città dell’Aldilà al MIAAO, si manifesta la sua prima “appa-rizione” in una mostra.

“Io credo fermamente che una dimen-sione ‘altra’ scorra parallela a quella che chiamiamo ‘realtà’ e credo che, qualora si verifichino condizioni propizie, si pos-sa aprire uno spiraglio nella soglia che le separa” dice Simon Marsden, “con i miei scatti tento di forzare quel limite per ‘svelare’ ciò che è eterno”. E per farlo, per ritrarre “l’irrealtà del reale e la realtà dell’irreale”, Marsden non usa evolute tecnologie digitali, ma predilige procedi-menti e materiali tradizionali: le pellicole in bianco e nero, seppur High Speed In-frared, per tagliare radiazioni visibili dello spettro e accentuare elementi altrimenti “impercettibili” dei soggetti che ritrae; lo sviluppo manuale in camera oscura, con “rivelatori” atti a bloccare l’aura delle im-magini; la stampa su pregiate carte con-tenenti pigmenti luminescenti e metallici, per rafforzare l’effetto fantomatico delle sue opere. È un artigiano, Sir Marsden, che persegue la deriva metafisica di una macchina, quella fotografica, molto fisi-ca e meccanica. E noi, che al Semina-rio Superiore di Arti Applicate da tempo studiamo casi emblematici di una ricerca artistica che abbiamo provvisoriamente denominato appunto Fotografia meta-fisica, di diritto vi iscriviamo il Baronetto. Ricerca che ha i suoi prodromi nelle foto-grafie “spiritistiche”, ovvero in quegli scatti realizzati a fine Ottocento per intrappolare il paranormale, in un’epoca nella quale il proliferare degli esperimenti medianici procedeva di pari passo col tentativo di verificarli “obiettivamente”. Ma alla foto-grafia che cerca di andare “oltre”, che si propone di restituire “permanenza” a ciò che altrimenti resterebbe solo una fug-gevole apparizione o “presenza” si sono dedicati anche molti illustri artisti con-temporanei, con esiti differenti. C’è chi lavora sull’“assenza”: l’italiano Silvio Wolf che attraverso le sue immagini racconta storie sepolte, evocando il genio dei luo-ghi, come nella sue celebre installazione Luci Bianche del 1995 al Refettorio delle Stelline di Milano, ove aveva proiettato diapositive tratte dall’archivio di ritratti fotografici di ormai scomparse orfanelle, creando un’atmosfera straniante e per-turbante, piena di luci e voci (dall’Aldilà). O l’americano Julius Shulman, storico fotografo di architetture, che secondo la sua personale teoria delle 4 T, translate, transform, transfigure, trascend, legge nei suoi scatti ciò che sta dietro la fisicità degli edifici e svela i percorsi mentali che

hanno portato all’elaborazione dei pro-getti. Ma c’è anche chi lavora sulle pre-senze per scongiurare la paura dell’igno-to, inteso non solo come invisibile, ma anche come inammissibile. Basti pensare alla serie By Proxy del 1999 di Anna Ga-skell -ispirata alla storia vera di una pedia-tra americana che uccideva i suoi piccoli pazienti- in cui tante bambine vestite da infermiere vengono ritratte su sfondi di cieli cupi, con inquadrature e tagli deformanti che provocano un senso di disagio e in-quietudine: la messa in scena di un incu-bo. La violenza e l’infanzia -già di per sé elemento perturbante- sono anche i temi preferiti da Christopher Coppola, che in set in miniatura da lui stesso costruiti, in cui aleggiano bagliori sinistri e atmosfere noir, inscena omicidi sanguinosi com-piuti da bambolotti (vedi la serie I am my Father’s Son del 1998). Anche Gregory Crewdson, celeberrimo fotografo ameri-cano, professore di fotografia a Yale, al-lestisce veri e propri set, ma questa volta in scala 1:1, usando come interpreti star della statura di Julienne Moore e Gwy-

neth Paltrow. La perfezione delle scene, allestite con la massima cura per ogni det-taglio, stride terribilmente con l’ambiguità degli scatti che riferiscono di alienazione sociale e alterazioni private, e il risultato è una disarmante, allucinata atmosfera oni-rica pervasa da oscurità e mistero (anche se Crewdson tiene a indicare in ogni sua immagine una luce di sfondo di speranza). L’inesplicabile è anche tema prediletto dal tedesco Gerd Bonfert, che alla questio-ne del come rappresentare sensazioni -o presentimenti- attraverso un dispositivo tecnico, risponde rendendo i corpi eva-nescenti, sciogliendo la loro carnalità in vapori diafani, traslucidi con movimenti di macchina e sovraesposizioni, trasmutan-do così ogni fisica plasticità in metafisica plasmicità. Torniamo a Torino, tra artisti più giovani, come la fotografa Monica Ca-rocci, che già più di dieci anni fa, nel 1997, fu sola a rappresentare il Paese del Sole nella mostra Gothic, ordinata presso l’ICA Institute of Contemporary Art di Boston, che ci riconobbe così un esoterico prima-to mai da nessuno peraltro contestato…

Luisa Perlo

Un po’ di Poe

Maledettoarchitetto

Elisa Facchin e Valérie Zuddas

Luisa Perlo

Una fotograf a metaf sicaii

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rappresentazioni pittoriche omaggio a pierre clayette ottobre-dicembre 2008

Una pittura d’architettura

Pierre Clayette, Le songe des apparences, 1965, olio su tela, 84x100 cm, Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Piranesiana

Il cuginotransalpino

Chiara Bardassa

Elisa FacchinElisa Facchin

Il membroritrovato

Henri Focillon, Estetica dei visionari, 1926

Piranesi anticipa in tutto; anticipa sé stesso

Pierre Chapelot, copertina di “Pianeta” numero 5, dicembre-gennaio 1964-65

Pierre Clayette, A l’écoute du ciel 1975, olio su tela, 100x81 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Pierre Clayette, Structure magique, 1982 olio su tela, 74x50 cm, Collezione SSAATorino, foto Studioelle

Giovanni Battista Piranesi, Carcere VII da Invenzioni Capric. di Carceri all’acquaforte datte in luce da Giovanni Buzard in Roma Mercante al Corso, 1749-50 55x41 cm (particolare)

Pierre Clayette, Arsenal de l’imaginaire 1972, olio su tela, 60x74 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Fabrizio Clerici, La barca solare, 1967 olio su tavola, in Fabrizio Clerici Opere 1937-1992, Sellerio, Palermo 2007

Pierre Clayette, Aux frontières de l’Empire 1982-83, olio su tela, 64x100 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Gianni Contessi, nel suo Il Saggio. L’architettura e le arti (Campanot-to Editore, Udine 1997) dichiara che una attitudine al disegno di architettura “sistematica e consa-pevole, culturalmente agguerrita, rimane cosa eminentemente ita-liana”. Affermato questo primato nazionale, ci avverte che “biso-gnerà pur dire che ci sono situa-

zioni in cui il disegno si dimentica di sé stesso, del suo ruolo speculativo e conoscitivo, per tradursi in fatto emi-nentemente pittorico e quasi extra-disciplinare. E allora, a questo punto, potrebbe sembrare logico il chiamare in causa le opere di quei pittori ‘to-pologici’ -da Escher a Fabrizio Cleri-ci, da Lucio Saffaro ad Achille Peril-li- che, sebbene cari a qualche archi-tetto cultore di scienza del disegno, in questa sede preferiamo lasciare da parte”. Noi non possiamo, almeno per quanto concerne Clerici e Saffa-ro, seppur con diverse motivazioni. In questa nota iniziamo a celebrare Fabrizio Clerici (1913-1993), espo-nendo almeno due buone ragioni. La

prima, fondamentale, riguarda un’impressionante contiguità per quanto soprattutto riguarda la scelta di molti soggetti dei suoi quadri e dei suoi disegni, e per qualche strutturazione forma-le, con l’opera di Pierre Clayette (inoltre è molto significativa la co-mune pratica della scenografia e dell’illustrazione). Basti, a sugge-stiva prova dell’ apparentamento, una selezione e trascrizione dei principali temi e delle simbolo-gie dell’architetto-artista italiano elencati sul sito ufficiale dell’Ar-chivio Clerici: Reperti e città se-polte, Processi e labirinti, Miraggi e deserti, Sacro e profano, Rocce, minerali e fossili, La barca solare, Distanza in stanza, Esplosioni e levitazioni, Cieli e vapori, Icono-grafie escatologiche, Archeologie domestiche, Lo specchio, Pietre di Babele. Seconda ragione: in occasione della più recente anto-logica a lui dedicata (Fabrizio Cle-rici Opere 1937-1992, Convento del Carmine, Marsala, 7 luglio-28 ottobre 2007), il curatore Sergio Troisi ha tra l’altro proposto analo-gie di alcuni dei motivi ispiratori di Clerici con sequenze di celebri film di fantascienza degli anni sessan-ta e settanta (un genere di con-nessione che per noi di “AfterVille” è specifica “missione”).

Un po’ enfatici lo sono sempre, i fran-cesi. A esempio Jean-Claude Guilbert, che fu redattore capo di “Planète”, non prova imbarazzo a registrare, e so-stanzialmente a condividere, l’escla-mazione di alcuni dei primi amatori dell’artista al quale dedichiamo queste pagine: “Pierre Clayette, c’est Piranè-se!”. Cercando poi di argomentare un po’ più razionalmente: “Si les compa-raisons sont souvent suspectes, celle là ne peut amoindrir l’univers fabuleux que créa Clayette. Ne dit-on pas du grand maître italien qu’il fit autant ap-pel à l’imagination qu’à l’archéologie. De meme, la representation de per-spectives colossales sur lesquelles plane le mystère s’apparente à l’oeuvre de Clayette. Création pour création, construction pour construction, Clay-ette est de ces artistes bâtisseurs de lieux…” (J.C. Guilbert, Le réalisme fan-tastique, Opta, Parigi 1972). Proviamo a raffreddare ulteriormente questi entu-siasmi, tuttavia rilevando alcuni indubbi influssi dell’opera dell’architetto vene-ziano, ricorrendo a un’acuta analisi di Gianni Contessi (Scritture disegnate. Arte, architettura e didattica da Pirane-si a Ruskin, Edizioni Dedalo, Bari 2000) sul lavoro del pittore francese. In primo luogo, se è vero che “è proprio la for-te impronta scenografica a costituire il marchio dell’esordio piranesiano”, è evidente che scenografi professioni-sti come Clayette -e Fabrizio Clerici, al quale accenniamo a fianco- rico-noscano e dichiarino quell’altissima fonte. Così come, nel loro indubbio virtuosismo si propongano di emulare l’“efferata attitudine grafica” del Mae-stro, che peraltro è anche exemplum per le prove, magistrali sino all’esibi-zionismo, di un più giovane e celebra-to grafico francese, Eric Desmazières. Ma, oltre le discipline e le tecniche, entrando più specificatamente nelle tematiche, nell’archeologia trasfigu-rata, “di fantasia” di Clayette, ancora una volta è legittimo supporre l’in-

fluenza della “dimensione poetica del sublime” dei fogli piranesiani, che “non attiene soltanto al rapporto con una storia e con delle vestigia grandiose, ma proprio ad un diverso approccio con il reperto archeologico che, fi-nalmente, viene riprodotto secondo le modalità di un realismo allucinato” (il corsivo è nostro, per segnalare un suo ammissibile riverbero nel realismo fantastico). E ancora, più in genera-le, la “manipolazione delle immagini, nell’accostamento di particolari anche incongrui” nella coniugazione di “mo-tivi eterogenei che danno vita ad una nuova, eclettica unità del disegno delle superfici…” si rintraccia quell’aspetto “letterario” di Piranesi di cui Clayette si approprierà sino a renderlo quasi dominante quando deciderà, come vedremo più dettagliatamente in se-guito, di illustrare -o di emulare grafica-mente e pittoricamente- opere di lette-rati come Rimbaud, Borges, Caillois e molti altri, a partire dal suo felicissimo debutto, nel 1964, in un’edizione del Faust di Goethe. Il “letterario” non è sempre tuttavia un disvalore, se, sem-pre per Contessi, una caratteristica delle creazioni piranesiane era proprio “la loro forte misura narrativa”, la ca-pacità “di conferire alla rappresenta-zione di luoghi ed edifici la complessi-tà compositiva e narrativa propria del racconto storico o letterario”. Conclu-dendo, in questo un po’ strumentale e continuo si parva licet componere magnis, resta una questione cruciale: se può applicare, a pronipotini come il Clayette artiste-bâtisseur, la definizio-ne di “progettista senza architettura” che Contessi dà di Piranesi. Non esa-geriamo (anche se Clayette realizzò poliedri lignei come prove di struttu-razione tridimensionale dello spazio, affascinato da quei favolosi artefatti in legno della Geometria et perspec-tiva di Lorenz Stoer che Roger Caillois avrebbe messo al primo posto nella sua classifica del “fantastico”).

“Je montais La Contessa de Mauri-ce Drouon au Théâtre de Paris. Je cherchais un décorateur. Anouilh me dit un jour ‘Je connais un jeune sor-cier… il est le peintre du rêve eveil-lé, mais prenez garde, il est des dé-mons que l’on exorcise pas’. Il avait raison. Je suis envouté… dans mes théâtres, sur scène, dans ma mai-son, sur mes murs, à mes plafonds, Clayette (c’est le nom du démon), me cerne, m’enrobe, capture cha-cun des mes regards, je m’endors sur l’aile du merveilleux…”. È una testimonianza di Jean Le Poulain, pubblicata nel programma di sala di un rappresentazione degli anni settanta dell’Amphitryon 38 di Jean Giraudoux. Le Poulain, grande e controverso attore tragicomico, era un “fan” di Clayette, come dichiara anche nella dedica autografa di una copia del suo libro autobiografico Je rirai le dernier (Robert Laffont, Parigi 1977), conservata al MIAAO. Questo entusiasmo per le sceno-grafie e dei costumi del nostro non rappresenta tuttavia solo l’occasio-

nale esaltazione di un “eccentrico”. Infatti sin dal 1958 Maurice Béjart aveva chiamato un giovanissimo Clayette a collaborare al suo ballet-to Juliette, lanciandolo sulla scena teatrale dove si affermò successi-vamente con lavori, tra gli altri, per Marcel Achard, Gabriel Dussurget, Pierre Lacotte, Jean-François Noël, André Roussin, tutte tappe di un suo progetto complessivo ed ec-cessivo, che negli anni ottanta si chiamò Opéra barocco.

Un anno fa, sul numero 0 di questo gior-nale, avevamo dedicato quattro pagine alle vicende della rivista “Planète” e del-la sua edizione italiana pubblicata qui a Torino, “Pianeta”, promossa dalle Edizio-ni dell’Albero di Piero Femore e Vittorio Viarengo. E ne avevamo approfondito, unici in Italia, gli aspetti grafici e artistici. Per quanto riguarda questi ultimi, nel ram-mentare il tentativo di una traduzione in pittura del Réalisme fantastique di Louis Pauwels e Jacques Bergier, elaborata a Parigi alla galleria Dulac nel 1963 con l’esposizione dei quadri di quattro artisti, Pierre Clayette, Monasterio, Jean Triffez e Verlinde, avevamo, di nuovo per la prima volta in Europa dopo più di un ventennio, ricostruito la notevole opera “spazialista” del belga Triffez. Avremmo voluto tratta-re anche di Pierre Clayette -gli altri due membri dell’equipaggio destavano, ai fini della “missione spaziale” di “AfterVille”, poco interesse- un artista rilevante pro-prio per la sua specializzazione in “pittura di architettura”, fantastica. Non ci erava-mo riusciti. Il motivo è presto detto: Cla-yette (Parigi 1930-Colombes 2005) era morto, e dimenticato, da eredi e mercato. Tant’è che nel luglio di quest’anno, all’Ho-tel Drouot di Parigi, il suo atelier completo è stato disperso in asta, e il suo lavoro “sbranato” dagli astanti, quasi tutti mer-canti, in tre ore e a poco prezzo. Il che ha consentito persino a noi, “gatti randagi”, di ricomporne una significativa parte del corpus, che ora esponiamo, e comme-moriamo. Eppure Pierre Clayette fu per-sonaggio di spicco sulla scena artistica, teatrale ed editoriale parigina, pur con una certa discontinuità qualitativa (a esempio, non era indimenticabile, rispetto alla sua pittura “di architettura”, quella “di figura”, anche in questo nei secoli fedele alla me-moria del suo modello Piranesi, che se-condo Gianni Contessi rivelava qualche “sciatteria” nella resa delle figure umane, non adeguate nella loro rappresentazione a quella delle architetture). Probabilmente, sulla sua reputazione gravò la pratica con-tinua di arti applicate come la scenografia e l’illustrazione. Ma proprio a proposito di quest’ultima, e per evitare quell’accusa di “letterarietà” che si potrebbe estende-re a tutti i protagonisti di questo numero di “AfterVille”, è utilissimo trascrivere una dichiarazione di Clayette resa in occasio-ne di una delle sue ultime mostre, allestita alla Galerie Proscenium di Parigi nel 1986, con trenta quadri “rimbaudiani”, ma suc-cessivi alla sue “illustrazioni” di un’edizione nazionale delle opere del poète maudit, della quale parliamo nella prossima pagi-na: “Je pensai que… mieux valait peindre ma propre émotion que de prétendre vouloir expliquer un génie. C’est alors que la magie de Rimbaud opéra: ivre de trac au départ, craignant comme un funanbu-le de ne point parvenir au bout du fil, je m’aperçus, le livre terminé, que Rimbaud ne me tenait pas quitte pour autant: je dus continuer à peindre sous sa dictée car ses mirages toujours renouvelés se multiplient à l’infini”. È quanto gli accadrà anche nei confronti di altri grandi scrittori, da Shake-speare a Hugo, da Borges a Caillois.

Quella di Pierre Clayette è senza dub-bio una “pittura di architettura”: basta guardarla. Ma anche leggere titoli di molti suoi quadri: Façade, Pierres, mémoires des hommes, L’architecture au féminin, Architecture rouge, Ville… Siamo quindi di fronte a un pittore-ar-chitetto. Definizione, quest’ultima, che ci rimanda agli studi sull’argomento di Gianni Contessi, ordinario di Sto-ria dell’Arte Contemporanea presso il Dipartimento Arte Musica Spettacolo della Facoltà di Scienze della Forma-zione dell’Università di Torino, quindi a noi vicino. Contessi, sin da uno dei suoi primi libri (Architetti-pittori e pittori-architetti. Da Giotto all’età contempo-ranea, Edizioni Dedalo, Bari 1985) ha posto una questione fondamentale: l’architettura dipinta “non potrà forse attingere la dignità di un vero e proprio linguaggio, parlare una lingua che non è esattamente quella della pittura ma neppure quella dell’architettura?”. Cer-tamente: ma ogni volta che si tende ad assegnare la qualifica di “genere” auto-nomo a espressioni artistiche border-line si rischia l’immediata degradazione a “sotto-genere”, per quella persisten-za tendenza plurisecolare a istituire un “paragone”, gerarchizzante, tra le arti e gli artisti (e tra questi, i più sospet-ti sono gli eclettici e gli “indisciplinati” come Clayette). Nello stesso volume, Contessi afferma anche che i paesaggi e le “vedute” dei suoi pittori-architetti, ma anche architetti-pittori come Aldo Rossi, Arduino Cantafora, Raimund Abraham, “vivono in una dimensione metastorica”. Rieccoci, non soltanto a Clayette, ma a tutti i protagonisti di questo numero di “AfterVille”. Ancora, in altra occasione si mostra ben con-sapevole del contenuto “letterario” che può essere imputato a questo linguag-

gio, ritenendo tuttavia non solo accet-tabile, ma assolutamente difendibile tale caratteristica, “perché è proprio nel suo tradursi in pittura che risiede la sostanza narrativa di un’architettura che si rinnova procedendo all’indietro. Che cosa è più ‘narrativo’ di una archi-tettura fattasi pittura per narrare il suo oggetto d’amore e conoscenza, vale a dire, ancora, l’architettura, la Cosa Architettonica? Corollario di un’affer-mazione del genere sarà che neces-sariamente una pittura di architettura, ovvero una pratica narrativa, dovrà essere una pittura tradizionale, figura-tiva, referenziale, comprensibile. La pit-tura dei peintres philosophes -tali oggi sono gli artefici della pittura di archi-tettura- non può sfuggire ai nodi della rappresentazione” (G. Contessi, Il Sag-gio. L’architettura e le arti, Campanotto Editore, Pasian di Prato, Udine 1997). Infine, altrove si pone il problema di rin-tracciare il capostipite dell’architettura dipinta o “d’invenzione”, e compie la sua scelta, che ampiamente sostiene in un altro bel libro (G. Contessi, Scrit-ture disegnate. Arte, architettura e di-dattica da Piranesi a Ruskin, Edizioni Dedalo, Bari 2000), dove sin dal tito-lo si prefigura l’elezione dell’architetto veneziano, perché “sono appunto le imponenti raccolte di incisioni di Pira-nesi a costituire l’antefatto maggior-mente probante di tutte le declinazioni di un’architettura disegnata e dipinta durante gli ultimi due secoli”. Quel Pi-ranesi che era uno dei miti di “Planète” e, come vedremo, di Clayette, ma an-che pietra di paragone ineliminabile per ogni grande studioso d’arte visionaria e fantastica: è scelto come “illustrato-re” da Focillon per la sua Estetica dei visionari, ed è comunque necessaria referenza anche del Caillois de Nel

cuore del fantastico, nonostante il suo rifuggire da “un fantastico dichiarato” e il ricercare “un fantastico insidioso”, più elusivo, gemmato quasi malgrado il suo autore. Ma non è il solo Piranesi a rappresentare un’auctoritas storica per Pierre Clayette. Essendo francese, tra i suoi numi tutelari architetti-pittori iscri-veva Gaston Redon al quale si è già accennato in queste pagine, e un altro inquieto personaggio come François Garas, che decise di non esercitare proprio in nome di un primato dell’im-maginario sulla costruzione (quindi di andare beyond building, direbbe qual-cuno oggi), ma in questo riportandoci ancora una volta, l’ultima, alla lettura di Contessi di Piranesi come “l’artista che stabilisce i limiti culturali dell’archi-tettura costruita”. Anche oltre Manica Clayette trovò suggestivi, “fantastici”, modelli, come quello di John Martin, l’illustratore del Paradiso perduto di Milton, ammiratissimo dai romantici francesi (ma Martin fu anche architetto e urbanista vero, addirittura progettista “razionale” di infrastrutture, quanto di più lontano dalla “delirante”, indimenti-cabile, corrusca sua rappresentazione del Pandemonium). Clayette si trovò a un certo punto anche nell’occasione di dover “rappresentare” una città reale, esistente, la sua, accettando di illu-strare i Paris fantasmes (Editions Gra-phedis, Pontoise 1989) del suo amico attore Jean Le Poulain. Che tuttavia, anch’egli “insoucieux de la fidelité hi-storique ou de la verité chronologique”, lo invitò a non tradire i caratteri della sua architettura dipinta: “Eclaire tout cela avec des ciels fantastiques, ne sois fidèle ni aux couleurs, ni aux lu-mieres, ni aux détails, moins encore à la verité historique, ne copie jamais les apparences…”. E così fu.

Enzo Biff Gentilii

Enzo Biff Gentilii

Una f gurateatrale

i

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La Biblioteca è una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile

05rappresentazioni pittoriche omaggio a pierre clayette

Maurice Lesna

Luisa PerloMaurice Lesna

Illuminazioni metropolitane

Il mistero del NautilusGeometrie Babeliche

Le ultime stelle

Elisa Facchin

Il retaggio nel fumetto

Undesign

Pierre Clayette, Pour le spectacle du monde (Hommage à Roger Caillois), 1982 olio su tela, 50x61 cmCollezione SSAA, Torino, foto Studioelle

a destra Pierre Clayette, Ville fantastique (Hommage à Rimbaud), sd olio su tela, 100x65 cm, Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

Pierre Clayette, Antiporta per Arthur Rimbaud, Oeuvres poétiques Lettres Françaises, Collection de l’Imprimerie Nationale, Paris 1986

Pierre Clayette, La Bibliothèque de Babel (Hommage à Borges), prima metà anni sessanta, olio su tela, 60x50 cm Collezione privata, deposito SSAA, Torino foto Studioelle

Lucio Saffaro, L’Ipotesi di Micene 1969, olio su tela, 130x110 cm Collezione privata, Torino, foto Studioelle

Lucio Saffaro, Definizione dell’immagine (Opus CCLIV), 1978 olio su tela, 80x60 cm Collezione SSAA, Torino, foto Studioelle

François Schuiten e Benoît Peeters Urbicande, anni ottanta, illustrazione dalla serie di graphic novel Les Cités obscures, Edizioni Casterman, Tournai

Roger Caillois Nel cuore del fantasti-co contesta l’accusa rivolta a ogni arte fantastica, quindi anche a certa architet-tura dipinta: “Questo tipo di pittura… è necessariamente discorsiva o, come si dice, letteraria, nel senso che si propone visibilmente di narrare qualcosa. Glielo si rimprovera, senza peraltro rendersi conto… che la tendenza a lanciare un messaggio attraverso figure si conci-lia con qualità propriamente pittoriche quanto un racconto simbolico con qualità stilistiche”. Poi afferma che Bel-lini non è pittore meno grande nelle sue allegorie, così come Kafka non si perde come scrittore nei meandri del suo Ca-stello. Neppure, aggiungiamo, Rimbaud è meno poeta quando nelle Illuminations crea le simboliche visioni di Villes, Les Ponts, Promontoire… Torniamo al pro-posito a Pierre Clayette: nel 1986 gli ven-gono affidate le illuminations (nel signifi-cato inglese del termine) di una raffinata edizione dell’opera di Rimbaud (Arthur Rimbaud, Oeuvres poétiques, a cura di Cecil Arthur Hackett, Lettres Françaises, Collection de l’Imprimerie Nationale, Pa-ris 1986). Scelta per certi versi sapiente, per la necessità di restituzione di quel

vortice spazio-temporale nella rappre-sentazione del paesaggio che Rimbaud sovente produce, come in Promontoire: “…de grands canaux de Carthage et des Embankments d’une Venise louche; de molles eruptions d’Etnas et des cre-vasses de fleurs et d’eaux des glaciers; des lavoirs entourés de peupliers d’Al-lemagne; des talus de parcs singuliers penchant des têtes d’Arbre du Japon; le façades circulaires des ‘Royal’ ou des ‘Grand’ (Hotel, n.d.r.) de Scarbro’ ou de Brooklin; et leur railways flanquent, creusent, surplombent les dispositions de cet Hôtel, choisies dans l’histoire des plus élégantes et des plus colossales constructions de l’Italie, de l’Amérique et de l’Asie…”. Ma, commenta il curato-re dell’opera illustrata da Clayette, tutte “le città immaginarie di questo poema sono una strabiliante sintesi di leggende e di miti, di elementi concreti e astratti, di cose normalmente incompatibili, di oggetti estratti da diversi paesi e diverse epoche, di rumori e movimenti inaspet-tati. Sono delle città dove, attraverso un artificio sapiente, tutte le nostre prospet-tive e tutte le nostre categorie sono ribal-tate, e che si oppongono alla ‘barbarie

moderna’ delle nostre metropoli, così come vengono descritte in Ville, Villes e Métropolitain”. Si è molto discusso sulle fonti d’ispirazione delle visioni urbane di Rimbaud (una accurata analisi dei possibili riferimenti, reali o d’invenzione, di Rimbaud è stata compiuta da Elisa Mariani Travi nel suo Baudelaire, Rim-baud e l’architettura, Edizioni Dedalo,

Bari 1982). Forse aveva avuto modo di ammirare il “capriccio” architettonico di Charles Robert Cockerell The Profes-sor’s Dream del 1848, un hydiosincratic landscape composto di templi di Mam-mone, torri di Babele, cattedrali fiorenti-ne, romane, londinesi. Di certo aveva vi-sitato la Londra vittoriana, luogo cruciale di questo numero di “AfterVille”.

Tra le mostre della seconda edizione del progetto Dioce, intitolata Ecbata-na, allestita da Toni Cordero a San Fi-lippo Neri in Torino nel 1993, una era intitolata Le ultime stelle, curata da una giovane che sarebbe poi divenu-ta una notevole critica, e una splendi-da quarantenne, Giorgina Bertolino. Tra gli invitati comparivano Achille Perilli e Lucio Saffaro, di nuovo nomi d’artisti che -con quello di Fabrizio Clerici- Gianni Contessi aveva regi-strato come molto cari a diversi ar-chitetti. L’iscrizione dello scompar-so pittore-scienziato Lucio Saffaro (1929-1998) tra i pittori-architetti può essere ben motivata seguen-do un’acuta lettura di Sergio Mari-nelli dell’Opus CCLIV o Definizione dell’immagine conservata al MIAAO: “La finestra è un elemento ritornante in Saffaro e certo segna un ideale col-legamento con la civiltà figurativa ri-nascimentale… Contrariamente però alla classica finestra albertiana essa è evidenziata come cornice, sospesa quasi sempre nel vuoto e quindi in-capace di garantire la verosimiglianza delle forme incluse, le quali, tramite i consueti meccanismi dell’ambiguità prospettica, oscillano davanti e die-tro ad essa, eludendo sempre una esatta collocazione nello spazio. Il discorso si fa ancora più preciso nell’ultimo Opus CCLIV giocato uni-camente sul rapporto tra una serie di cornici-finestre inglobantisi e il vuoto come unico elemento inquadrato, attorno al quale esse, persa ogni possibilità di oggettivizzazione, sono idealmente moltiplicabili all’infinito” (S. Marinelli, Spazio, infinito e oltre, in Saffaro. Grafica e pittura, catalo-go mostra Museo di Castelvecchio, Verona 1979). Attenzione: un inter-prete autorisé del realismo fantastico pauwelsiano, Marc Thivolet, sostie-ne che osservando le Prigioni del Piranesi si può immaginare che “une porte s’ouvre sur… une autre porte, qui, elle-même, s’ouvre sur une autre porte, qui, elle-même…”. E poi ricor-da René Daumal che, intossicato dal tetracloruro di carbonio, aveva para-gonato le sue visioni ossessivamente iterate a un manifesto pubblicitario di un aperitivo nel quale “deux garçons

de café portent des bouteilles sur les étiquettes desquelles deux garçons de café portent des bouteilles sur les étiquettes desquelles…”. Per conclu-dere che proprio les métamorphoses de la répétition rappresenterebbero la “cifra” del fantastico (M. Thivolet, Préface, in Le réalisme fantastique, Opta, Paris 1972).

Sul numero 10 del maggio-giugno 1963 di “Planète” è pubblicata La bibliothèque de Babel di Jorge Luis Borges, illustrata da Pierre Clayette (in Francia, e in Euro-pa, Borges era stato introdotto da Roger Caillois, anch’egli tra i collaboratori della prima serie della rivista: sul numero 5 del giugno-luglio-agosto del 1962 aveva tradotto con Laure Guille un altro testo borgesiano, Les deux qui révèrent). La biblioteca di Babele di Borges induce e sfida da sempre a una sua “rappresen-tazione”, artistica e architettonica (ma anche scientifica, a una verifica informa-tica ). La ragione è evidente leggendone un brano: “L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esa-gonali... Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabil-mente. La distribuzione degli oggetti nel-le gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, co-prono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria,

identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabi-netti minuscoli. (…) Di qui passa la sca-la spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo spec-chio che la Biblioteca non è infinita (…) io preferisco sognare che queste super-fici argentate figurino e promettano l’in-finito. (…) A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue li-bri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero”. Pier-re Clayette, che sullo stesso numero di “Planète” compariva tra i giovani Quatre peintres du réalisme fantastique patroci-nati da Louis Pauwels e Pierre Chape-lot, non si limitò a illustrare in quell’unica occasione, su commissione, la Babele di Borges, ma ne iniziò l’interrogazione si-stematica con opere autonome stupefa-centi. Ossessionato non solo dalla verti-gine geometrica e spaziale di quel testo, ma dalla sua ivresse métaphysique.

Tra i suoi esempi di fantastico non “istituzionalizzato”, Roger Caillois pro-pose gli emblemi alchemici: gli pareva fossero “figure che pretendono di es-sere qualcosa di più che semplici illu-strazioni”. Non a caso decise di com-porre un album a quattro mani con qualcuno che fosse qualcosa di più di un illustratore: Pierre Clayette (Caillos, Clayette, Songes de pierres, Atelier du Prisme, Paris 1984). Ma forse altrove troviamo una “emblematica”, decisiva prova, in un lavoro “autonomo” di Cla-yette che riproduciamo, sempre illu-minato da un testo di Caillois d’argo-mento “minerale”, contenuto nel suo Cases d’un échiquier (Gallimard, Paris 1970), che parzialmente trascriviamo: “Un’assonometria d’argento brilla or-mai nell’arenaria o nella silice. Essa vi iscrive in un’estensione minuscola il presagio della turbina e allo stesso tempo l’espansione delle nebulose. Simile impronta vale forse il capriccio della moda, la fantasia fuggitiva di un passante ispirato. Qui e là, il guscio fu spezzato prima di divenire sostan-za inalterabile; l’effigie che resiste alle

età attesta ancora, al di là della ge-ologia, la precarietà della vita. Illustra allo stesso tempo la genesi dei mondi e i macchinari dell’industria, la natura smisurata e il potere dell’uomo sulla natura smisurata. Frammenti vaganti, sparsi nella pietra, perpetuano tutta-via la primitiva e deperibile corazza, riparo derisorio che enormi pressioni distrussero. Hanno compiuto la loro opera, permettendo alla cifra di sor-gere” (Roger Caillois, Cifra, traduzione di Agnese Silvestri, in Roger Caillois, numero 23 della rivista “Riga”, a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Marcos, Milano 2004). L’opera di Clayette di questa rotazione turbinosa della sfera celeste e della camma è di certo per-fetta illustrazione, ma anche di qual-cosa di più: di un Girone.

La spregiudicatezza intellettuale del milieu riunito intorno alla rivi-sta “Planète” era straordinaria, ed era dimostrata anche dal fatto di non essersi mai esercitato in quel vecchio, insopportabile “parago-ne” tra le arti, gerarchizzante e di-scriminatorio, che in nuove forme tuttora è pateticamente praticato. Così, quando si trattò di compor-re un elenco “ufficiale” di pittori dell’immaginario agli inizi degli anni settanta, Jean-Claude Guilbert non esitò a iscrivere tra gli altri accan-to a Max Ernst, Delvaux, Magritte, Dalí, uno tra i partecipanti alla pri-ma mostra del réalisme fantastique alla Galleria Dulac di Parigi del 1963

come il nostro Pierre Clayette, André Beguin e anche un famoso autore di bandes dessinées, Philippe Druillet, e con “pari dignità”, come oggi qualcuno usa dire (Druillet, che aveva già iniziato a “rappresentare” città e architetture “fantastiche” -la specialità di Clayette- ma in modalità più gotiche e allucinanti redigerà poi progetti “reali”: per la sta-zione metro della Villette, per facciate di fabbricati HLM, di edilizia economica e popolare, verificando così una tesi che ci è cara: l’immaginazione può essere in relazione, e non in contraddizione, con la professione). Ma è in altri disegni di maestri del fumetto che si possono in-dividuare maggiori interferenze formali con il lavoro di Clayette, come nell’im-

magine che riproduciamo a fianco, ver-tiginosa fuga prospettica tra pietrose pareti verso una delle Cités obscures di François Schuiten e Benoît Peeters, geniali creatori di fantasy architectures. Siamo a un punto di svolta di questo numero di “AfterVille”. Gli album de Les cités obscures sono notoriamente elencati tra i testi fondamentali dello Steampunk, “sottocultura” giovanile purtroppo poco frequentata in Italia (inoltre, tornando a Clayette e a suoi influssi occulti su nuovi media artistici, potremmo anche stabilire omografie tra sue tipiche soluzioni compositive -ci riferiamo alle architetture “rovescia-te”- e alcune opere “autonome” dello scenografo americano Ryan Church, tra l’altro Concept Design Supervisor di Star Wars Episode 2: Attack of the Clo-nes ed Episode 3: Revenge of the Sith e Senior Art Director per alcuni parti di War of the Worlds di Spielberg). Insom-ma, stiamo per aprire, sulle prossime pagine, una questione, fondamentale, di eredità culturale.

Jorge Luis Borges La biblioteca di Babele, 1941

Page 6: AfterVille n°5

rappresentazioni multimediali omaggio a aurélien police ottobre-dicembre 2008

Tommaso Delmastro

Distopia Steampunk

Aurélien Police, Block A, 2002, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 30x20 cm (particolare), Collezione SSAA, Torino

sotto Aurélien Police, Industrial Elfic House 2004, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x30 cm (particolare) Collezione SSAA, Torino

a destra Aurélien Police, Le bureau de Tom 2007, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 85x60 cmCollezione SSAA, Torino

Anonimo, Epitaffio industriale, sd OGR Officine Grandi Riparazioni di Torino foto Marco Fragomeni

Elisa Facchin

DandyPolice

Aurélien Police, SelfClockPortrait 2005, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico 80x50 cm

Elisa Facchin intervista Aurélien Police

Urbanisme et décadence

Alessandra Paracchi Charles Baudelaire, Curiosités esthétiques, 1868

Le dandysme est le dernier éclat d’héroïsme dans les décadences

Aurélien Police, IncastleDus, 2004, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 60x40 cm, Collezione SSAA, Torino

Aurélien Police, Urbs, 2003, stampa fine art da file digitale su carta cotone in esemplare unico, 45x80 cm, Collezione SSAA, Torino

Aurélien Police, nato nel 1978 a Compiègne in Francia, vive e la-vora a Digione. All’Università se-gue corsi di Lingua e Letteratura Inglese e di Letteratura France-se, elaborando un’originale tesi a proposito delle connessioni fra l’opera surreale Le Musée Noir di André Pieyre de Mandiargues e la grafica di Aubrey Beardsley. Nel 2001 abbandona gli studi per sperimentare da autodidatta la sua vera passione: l’illustra-zione digitale. Dopo aver anima-to alcuni siti per gruppi musica-li, nel 2002 riceve il suo primo incarico come direttore artistico del libro Guide du Rétrofutur, dedicato all’omonimo gioco di ruolo francese. Da quel mo-mento la sua carriera è in asce-sa continua. Con uno stile che lui stesso definisce “decadente, torbido, sensibile”, Aurélien, im-mergendosi in scenari attuali e ciò che resta di quelli passati, plasma mondi e architetture fu-turibili, e sfrutta il computer per assemblare opere tecnicamente ibride e tematicamente contami-nate, decisamente virate verso l’immaginario Steampunk. Pro-fessionalmente i campi di appli-cazione sono svariati: dalle co-pertine di album per noti gruppi musicali (Clock, Les Fragments de la Nuit, Tho Tho) alle illustra-zioni per giochi di ruolo, dagli scenari per cortometraggi (da ri-cordare Coupé Court del 2006, di cui è anche direttore artistico) alle copertine di romanzi di let-teratura fantastica per Gallimard e Gulfstream. Ha partecipato a diverse collettive in Francia e Inghilterra; al MIAAO realizza la sua prima personale italiana.

Il mondo è sempre stato diviso a metà, nord e sud, ricchi e poveri, sopra e sot-to, pro e contro. Anche la società in-glese di fine Ottocento, vista attraverso gli occhi di Herbert George Wells ne La macchina del tempo, era divisa in due: da un lato gli Eloi, fragili esseri con una vita di loisir; dall’altro i Morlock, dannati che abitano le viscere della terra, bestie da macello, fuori dalle tane solo la not-te. Questo per Wells fu l’inizio, reale e figurato, della doppia umanità dell’era vittoriana, età di autodisciplina e culto del lavoro che produceva però l’imma-gine specchiata di una società oscura, relegata in architetture enormi, disuma-ne: fauci aperte pronte a inghiottirla. Le città diventarono presto immagini di una sola Coketown. Città di “macchinari e di alte ciminiere; dalle quali interminabili serpenti di fumo si susseguivano sen-za interruzione”, città “abitate da per-sone tutte uguali e simili l’una all’altra che uscivano e rientravano alla stessa ora con lo stesso suono, sugli stessi marciapiedi per fare lo stesso lavoro e per le quali tutti i giorni erano come ieri e domani ed ogni anno la copia dello scorso e del prossimo” (C. Dickens, Tempi difficili, Einaudi, Torino 2006). E Dickens ne restituì l’equivocità: sia formidabile motore del progresso, sia terribile apparato famelico, dell’uomo e della natura. L’esaltazione positivi-sta era fronteggiata da una forte critica estetica, politica e, grazie a un lucido e profetico William Morris, ecologica. “Si deve accumulare denaro? E allora tagliate i begli alberi in mezzo alle case, abbattete antichi e venerandi edifici

per i soldi che pochi metri quadrati di sudicio suolo londinese vi possono far guadagnare; sporcate i fiumi, nascon-dete il sole, appestate l’aria di fumo e altri peggior veleni, nessuno è tenuto a occuparsene o porvi rimedio: questo è quello che ricaveremo dal commercio moderno, dalla separazione tra cassa e laboratorio. E la scienza? La scienza l’abbiamo amata, le abbiamo obbedi-to, e cosa farà? Temo che la scienza sia troppo asservita alla contabilità, alla contabilità e alla gerarchia, troppo occupata per poter oggi intervenire. Tuttavia ci sono problemi che, a mio avviso, avrebbe potuto affrontare facil-mente: come, per esempio, insegnare a Manchester il modo di disperdere il fumo che produce; o a Leeds il modo di liberarsi dai residui di tintura nera senza buttarli nel fiume” (W. Morris, Come potevamo vivere, Editori Riuniti, Roma 1979). Questo antagonismo tra “socialismo aristocratico” e un capi-talismo trionfante non è morto con la regina Vittoria. La sua eredità ha frut-tato all’ombra della cultura dominante. Pensiamo a Robert Bloch, l’autore di Psycho, che ambientando il suo ro-manzo Gotico americano a Chicago, durante la gigantesca Esposizione Mondiale Colombiana del 1893 fa dire al suo cinico e criminale protagonista: “Le grandi mostre… l’industria dell’ac-ciaio, le ferrovie, i tessili, gli armamenti: non pensi che gli uomini che stavano dietro a tutto questo abbiano fatto la loro parte di quelle che tu chiami truf-fe? Le banche, le assicurazioni, i beni immobiliari…”. Oppure vediamo dandy

contemporanei, illuminati, come canta-va Dario Bellezza, dalla “grande stella al tramonto della civiltà” e non abba-cinati dal “falso mito della modernità”, che continuano a resistere, sempre ai margini del sistema, come Aurélien Po-lice e gli steampunk, creando mondi alternativi che, pur realizzati con le tec-nologie del nuovo millennio, generano le stesse angosce del passato.

L’industria terrif cai

Come sarebbe stato il passato se il futuro si fosse manifestato prima? Se “Tomor-row comes today” (il motto di AfterVille) di-ventasse “Tomorrow comes yesterday”? Immaginiamo ucronicamente, come nella letteratura e nelle arti Steampunk, una storia alternativa, una fantascienza pre-elettrica e pre-elettronica, nella quale i macchinari sono ancora azionati dalla for-za motrice del vapore (steam in inglese), i computer sono completamente analogi-ci, oppure colossali dispositivi magnetici sono in grado di modificare l’orbita lunare. Mentre i cieli fumosi delle capitali europee, in piena rivoluzione industriale, sono attra-versati da dirigibili e palloni aerostatici, una folla curiosa invade i padiglioni in ghisa e cristallo delle prime esposizioni universali. Ma non c’è alcuna fiducia in magnifiche sorti progressive: lo Steampunk è “tipica-mente distopico”, e sovente dal romanzo scientifico di età vittoriana preleva tinte fosche che lo conducono dal noir fino al pulp, con suggestioni occultistiche, goti-che e lovecraftiane. Così le metropoli fu-ligginose, culle della modernità e focolai di un sentimento di rivolta verso un proces-so di industrializzazione violento e aneste-tico, diventano teatri ideali per una diversa e più sofisticata messa in scena delle te-matiche punk di rigetto e conflitto sociale. Per questo c’è una crescente tendenza a fare dello Steampunk uno stile di vita non solo in settori del movimento Punk, ma anche di quello gotico e Rivet. Un vero e proprio movimento controculturale, i cui valori e modelli di comportamento sono opposti a quelli di un paradigma condi-viso dai più: un’area creativa giovanile alternativa, contrapposta alla cultura -e alla sottocultura- ufficiale. Agli inizi dell’Ot-tocento Chateaubriand scrisse nel Genio del Cristianesimo che tutti gli uomini pro-vano una segreta attrazione per le rovine. Il fascino esercitato dai resti imponenti e solenni, dalle vestigia e dai detriti, proprio come quelli generati dal tripudio meccani-co di un passato a vapore che non è mai diventato futuro, è alla base di una nuo-va estetica del sublime. La rovina, anche quella industriale, diviene forma simbolica, espressione di una futura memoria, figura di un tempo ciclico, che si ripete e rige-nera: la rovina appare morta, ma è una “morta vivente”. È il pensiero dominante di un nuovo dandysmo giovanile e metropo-litano, purtroppo poco presente in Italia, qui ben illustrato dalla nostra guest star, il ventinovenne francese Aurélien Police.

Esistono, per fortuna, nuovi giovani dandies. Nostalgici, sprezzanti la real-tà, mossi dalla certezza che il mondo in cui viviamo non sia sempre come ap-pare, dal sospetto che esista una sto-ria alternativa, e determinati a indagar-la. “Poeti veggenti” un po’ decadenti, e per tutti, uno: Aurélien Police, illustrato-re digitale “fantastico”, disegnatore di scenari urbani che paiono obsoleti, ma che in realtà sono terribilmente attuali. Percepita la loro aura perturbante, do-vremmo probabilmente preoccuparci... Aurélien, le tue città sono così desola-te… Vuote di uomini, le mie città sono fatte di edifici: architetture industriali impo-nenti e cupe, ingrigite da strati di polvere, unica traccia di una “precedente” attività umana. Precedente, dunque scompar-sa? Le tue opere sono come istanta-nee di una catastrofe? Si. Rappresento ciò che resta di epoche passate, finite. Ho sempre subito il fascino delle rovine, del-le carcasse di pietre come testimonianze di imperi crollati e lo traduco disegnando maiuscoli edifici industriali, un tempo riso-nanti di rumori di macchine e ora silenti, monumenti al desiderio di dominazione di una società estinta. La società industria-le, già. Siamo tutti morti e non ce ne siamo neppure accorti? Forse. Proba-bilmente questo è il nostro vero destino. Nonostante attinga a un immaginario vit-toriano, nei colori, nella scelta dei soggetti, in realtà le mie illustrazioni sono anche uno specchio della società attuale. È un modo sfalsato di dipingere la nostra quotidianità; d’altra parte molti comportamenti dell’uo-mo moderno tendono all’autodistruzione e all’incoscienza e il rischio è che si perda il controllo, che la tecnologia ci si ritorca contro. E la soluzione qual è, il ritorno al passato? Beh, ora che siamo molto vicini a conoscere gli esiti di un percorso, possiamo provare a immaginare come sarebbe stata la storia se gli eventi ne avessero seguito un altro. Chissà “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima”… Molto Steampunk. Quindi il tuo attingere all’immaginario della fine del XIX secolo non è casuale. In effetti lo Steampunk è il filone narrativo e artistico in cui sento di potermi inserire. Amo riproporre, a modo mio, molte “figu-re” proprie di quell’universo, specie quelle dalle tinte più fosche: macchine azionate dall’energia del vapore, enormi e assor-danti e minacciose, capaci di prendere il sopravvento sull’uomo, o esseri ibridi, fatti di carne e protesi metalliche, creatu-re deformi, individui anonimi, senza volto, che si muovono sofferenti in un mondo che per loro non ha occhi. Spesso illu-stro il risultato di “trapianti” su persone o su edifici: monto cornetti acustici al posto delle orecchie, ingranaggi al posto delle braccia, innesto ciminiere su castelli di montagna come in IncastleDus, antenne e tubazioni su palazzi da fiaba come in Industrial Elfic House, caldaie a vapore come fondamenta per palazzine haus-smaniane come in Block A… Non solo i soggetti delle tue illustrazioni, ma an-che le tecniche che usi sono ibride… Credo che per ogni artista le tematiche e le tecniche siano indissolubilmente legate. Lo Steampunk e l’estetica del bricolage vanno di pari passo, così anche io mi sen-to un moderno artista bricoleur, che usa

i mezzi che ha a disposizione, “in casa”, per creare le sue opere. Le mie materie prime sono le fotografie, i disegni, le scan-sioni di texture e poi con Photoshop as-semblo il tutto. Molto spesso il processo nasce da una fotografia, che mi suggeri-sce una forma e poi lavoro di ritocchi, di giustapposizioni, di aggiunte e sottrazioni, di découpages: un’operazione creativa e “ri-creativa”. Macchina fotografica alla mano, considerato che non hai la pa-tente e viaggi poco, questo significa che Digione, la città in cui vivi, è per te la fonte prima di ispirazione… Sicura-mente, anche perché, per quanto Digione sia una piccola città, la sua architettura è varia: si incontrano edifici di tipo haussma-niano accanto ad altri in stile Art Nouveau ad altri ancora di epoca medievale. Poi è ricca di angoli nascosti da esplorare e quello che non vedo lo posso immagina-re… In generale comunque gli edifici delle città nelle quali ho vissuto sono per me fonte di ispirazione. Prendiamo a esempio l’opera L’île des morts (in copertina di que-sto numero, n.d.r.). Da ragazzo vivevo coi miei genitori all’ultimo piano di un palazzo che era la sede degli uffici direzionali di Te-lecom France: di notte c’eravamo solo noi e il portinaio. Nel silenzio più totale, la sera mi affacciavo al balcone e potevo scorge-re nettamente i bracci aggettanti dell’edi-ficio che si stagliavano come scogliere di un’isola sperduta in un oceano d’asfalto nero. Boecklin era dietro l’angolo… A li-vello più disciplinare, stilistico, quali sono i tuoi riferimenti architettonici? In primo luogo Antoni Gaudí. Le forme delle sue opere sono talmente “altre”, talmente differenti da quelle dell’epoca, e per cer-ti versi anche da quelle attuali, che non possono non colpire, non stregare. Ma è soprattutto il trattamento meticoloso e originale dedicato a ogni dettaglio dei suoi progetti che mi affascina: dalla facciata ai meandri più nascosti dell’edificio, dai balconi alle maniglie delle porte, tutto è permeato dal suo stile, tutto è coerente-mente studiato. Per estensione dunque, amo moltissimo l’Art Nouveau, in tutte le sue espressioni. Mi colpisce la possibilità di plasmare materiali come il ferro, il legno, il cemento restituendo loro una forma or-ganica: è come se la natura fosse infusa nella materia, che all’istante e di conse-guenza prende vita. E dal punto di vista artistico -e letterario, visto che tu hai compiuto studi umanistici- di chi ti sen-ti nipotino? Sicuramente degli espres-sionisti, dei surrealisti e di pittori come Hieronymus Bosch o, fra gli illustratori, di Aubrey Beardsley. Per quanto riguarda le tecniche invece mi rifaccio a illustrato-ri contemporanei “d’alta statura”: Dave McKean, Ashley Wood, Kent Williams o Benjamin Carré. Per quando riguarda le referenze letterarie, ho a lungo “frequen-tato” gli autori anglosassoni dell’Ottocen-to: Edgar Allan Poe, Mary Shelley, Arthur Conan Doyle, Bram Stoker, Oscar Wilde. E recentemente ho letto molti romanzi di fantascienza: da Philip K. Dick a Neil Gai-man, da Dan Simmons a Terry Pratchett. Credo si possa tranquillamente affermare che le mie prime passioni letterarie han-no segnato il mio stile e che le mie letture attuali, collegate ai problemi della società contemporanea, gli hanno dato un signifi-cato più complesso. Sei tanto dandy…

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rappresentazioni multimediali 07

Massimo Teghille

Retrodesign

Giovanni Tommaso Garattoni, Snobbishness of Kitsch, 1995 disegno per poltrona da “viaggio”, 25x35 cm, Collezione SSAA, Torino

Carlotta Petracci

Michele Bortolami Pogo Okefenokee

Gothic Lolite?

Caratteri riesumati I morti a fumetti

P.D. James Morte di un medico legale, 1977

La stessa stanza

aveva una sua

terribile femminilità.

Ogni cosa

aveva un aspetto

di morbido umidore...

La gonfia fila di cuscini

appoggiati allo schienale

di una chaise longue

vittoriana...

Steamsound

Robi Basme

Milo Manara, L’isola dei morti, tavola tratta dall’album A riveder le stelle Mondadori, Milano 2002

Bellissimo, Tavola dall’introduzione visiva alla zona 6 della guida Torino Tour Edizioni Teknemedia, Torino 2005, Ad Arte, Torino 2008, Courtesy FOAT, CCIAA

Giancarlo Alessandrini, L’isola dei morti copertina di “Martin Mystère”, n. 224 novembre 2000

Marchio della linea di abbigliamento gotico Moi-même-Moitié, fondata da Mana-Sama nel 1999

a sinistra Carlotta Petracci, Gothic Lolitas 2008, fotografia digitale

La band Steampunk francese Clock 2007, foto Thierry Borie

Quando si arriva al fondo, si continua a scavare? No, più sovente si torna in-dietro. Forse è uno dei motivi per cui è nato lo Steampunk. Il debutto lette-rario avviene con il romanzo La notte dei Morlock di K.W. Jeter del 1979, un’ alternativa alla più nota narrati-va Cyberpunk. Naturalmente le teorie precedono di gran lunga le pratiche e gli artisti vedono più lontano rispetto ai comuni mortali. Infatti questa sorta di modernariato tecnologico riappare oggi, quando nanotecnologie sempre più avanzate, teorizzate sinora solo dai cyberpunk, sono applicate alla medici-na e quindi entrano nel corpo, oltre che nella mente, delle gente. Tutti i nuovi fenomeni creano reazioni, più o meno positive. Nel design, o meglio nelle arti applicate, lo Steampunk riferisce di un gusto dandistico per tecnologie meccaniche ed elettriche esauste. In un’epoca nella quale il secondo prin-cipio delle termodinamica viene elu-so dall’informatica e dalle centraline, lo Steampunk è quasi un sollievo per l’anima: la sua artigianalità, lontana da ogni serialità, sempre “banale”, trasfi-gura anche oggetti ipertecnologici at-traverso un’estetica da brocanteur o

da bricoleur. Un ritorno alla manualità e all’utilizzo di materiali tradizionali, in piena antitesi con la filosofia usa e getta che caratterizza i prodotti attuali. Non ci sono centri di assistenza autorizzati né certificati di garanzia, ma solo attrezzi e officine, dove i risultati dipendono dalla propria abilità. Anziché usare chilome-tri di rete pneumatica per mandarsi la posta, anche gli artisti-artigiani Steam-punk si ritrovano su Internet e si scam-biano consigli e informazioni su come “customizzare”, a loro modo, gli ogget-ti d’oggi. Tra questi, Jake von Slatt ha trasformato un monitor e una tastiera da computer, proiettandoli in un pas-sato mai esistito, nel quale H.G. Wells avrebbe impiegato la metà del tempo a scrivere La macchina del tempo, per poi dedicarsi ad aggiornare il suo My Space. Bruce Sterling dice, tra l’altro, che lo Steampunk è un modo per ribel-larsi all’involgarimento del nostro patri-monio culturale, specie quello europeo, e alla sua “disneyzzazione” per i turisti. Così si possono inserire molti steam-punk tra gli esponenti delle “controcul-ture”: si tratti dei Mutoids o di Tommaso Garattoni, snob “vittoriano” già attivo nei laboratori di San Patrignano.

Merletti, ricami, fiocchetti bianchi. Ca-micie a collo alto con maniche a sbuf-fo. Sottovesti di pizzo, e vere e proprie crinoline. Gonnelline e abitini da Alice nel paese delle meraviglie. Cuffiette, grembiulini, golette, ombrellini paraso-le, un po’ Candy Candy e un po’ Geor-gie. Divise che ricordano Lady Oscar, contaminate da piercing e borchie da ribelli anni settanta. Non siamo nella Londra tardo ottocentesca, quella dei romanzi di Charles Dickens o di Antho-ny Trollope, né a una sfilata parigina di John Galliano, bensì siamo a Tokyo, in pieno entusiasmo postmodern e tech-no-digitale; più o meno cent’anni dopo le “magnifiche sorti e progressive” e appena qualche anno prima del ritorno audace del rosso Cina. Aggirandosi nei quartieri più alla moda della metropoli

nipponica, Ginza, Harajuku e Shibuya, infatti può capitare di incontrare adole-scenti e ragazze (qualche volta anche ragazzi) che assomigliano tanto a vec-chie figurine di porcellana. Microsco-piche suffragette con sguardi languidi molto manga, lolite torbide in stile Hel-lo Kitty. Trucco scuro, borsette a forma di pipistrello, bara, crocifisso, orologi da tasca, orsetti di peluche e veli da “sposa cadavere”. A tracciare la rotta è Mana Sama, pazzo per i film di Dario Argento nonché leader del gruppo mu-sicale Moi dix Mois: una delle prime vi-sual band del filone j-rock. È lui il primo a coniare i termini tanto in voga di Ele-gant Gothic Lolita ed Elegant Gothic Aristocrat (a cui si aggiungono: Dan-dy, Gothic Dandy, Prince Style, Punk Industrial) per descrivere lo stile della sua casa di moda, Moi-même-Moitié, fondata nel 1999, e per legittimare le sue mise androgine da Lady vittoria-na… Sempre sotto i riflettori, lo style magazine “Gothic & Lolita Bible” ne fa un mito e il capostipite del fenomeno Gothic Lolita: sottocultura alternativa nata e cresciuta in Giappone tra asfal-to e centri commerciali, e conosciuta in Europa grazie al periodico “Fruits” e al video, di alcuni anni fa, della can-tante americana Gwen Stefani (ex No Doubt), Harajuku girls. Come dire: dé-cadence e decadance, per un ballare sulle rovine del moderno! A proposito: a gennaio 2009 ci sarà il terzo radu-no delle Loli-Goth che si terrà, come sempre, qui a Torino. Dress code? Tra il funebre e il carnascialesco…

L’immaginario Steampunk per un to-rinese ha qualcosa di familiare. Sa-ranno gli scheletri delle fabbriche di-smesse, reliquie storiche della città, che occhieggiano tra i palazzi delle periferie. Sarà il tempo sovente grigio e piovoso, o la nebbia autunnale di certe mattine fumiganti in riva al Po. Non stupisce quindi la scelta dei gio-vani dello studio grafico Bellissimo di utilizzare, per il settore urbano a loro affidato -sede anche del maggior ci-mitero cittadino- della guida Torino Tour, iscrizioni lapidarie. Significativa la scelta dei font utilizzati: per i titoli spiccano alte e solenni lettere capitali riprese dalla lapide commemorativa della squadra di calcio del Grande Torino posta sulla collina di Super-ga, teatro della disgrazia aerea del 1949. I testi sono invece “composti” nel lapidario Augustea, creato pro-prio a Torino nel 1951 da Alessandro Butti e Aldo Novarese per la Nebiolo, come richiamo all’area immensa e si-lente del Cimitero Monumentale, con la sua coorte di botteghe per l’inci-sione di pietre tombali, che pullulano nelle vie attigue. Una scelta che può rimandare alla figura, maiuscola anche

nella storia delle arti grafiche, di Wil-liam Morris, “precursore” della filoso-fia steampunk nel suo ribellarsi alla violenza della grande industria e dei suoi prodotti, volgari rispetto alla sin-cera bellezza di quelli artigianali, che fondò, tra altri forti per questa guer-ra, la casa editrice Kelmscott Press, nell’ambito della quale creò caratteri tipografici “neo-medievalisti” come il Chaucer, ma anche ridiede nuovo appeal alla lettera “capitale quadrata lapidaria”, le cui forme geometriche, graziate e chiaroscurate campeggia-vano sulle moli dell’Impero romano, e sui monumenti funebri. L’amore per la tipografia “classica” è alla base di altri due giovani progetti piemontesi: uno artistico-industriale, quello della Stamperia Artigianale Laborabosco dell’artista Piera Luisolo, situata in Val di Susa, specializzata nell’utilizzo di torchi antichi e di caratteri mobili; l’altro grafico-architettonico, quello dell’ere-zione, ad Abitare il Tempo a Verona, da parte dello Studio Kha, di un tem-pio di tolleranza sul cui frontone com-pare l’iscrizione Materia Mistica, com-posta in Meridien: altra dichiarazione assolutamente “lapidaria”.

Tentiamo di scorgere tra inevita-bili nubi di vapore i primi segnali dell’odierno Steampunk musicale. Molti della scena Post-punk ingle-se (Bauhaus soprattutto), parec-chi synth pop (Depeche Mode e posteriori derive industriali) e certi estetismi melodici di stampo lette-rario (Kate Bush svolazzante, un po’ vampira) o cantautorale (Paul Roland, novello Syd Barrett tra oppio e duelli all’alba). Un mondo scuro, dark. Lì, nella culla gotica e decadente che ha generato un’eti-chetta simbolo come la 4AD (Dead Can Dance, This Mortal Coil e lo statement “preraffaelita” come ves-silli) hanno schiuso le palpebre gli alfieri dello Steampunk che cono-sciamo. Alcuni tratti comuni: l’uso del violoncello, l’elettronica come sfondo modernista e una certa en-fasi nel cantato. Musica ambient per un ambiente da inventare. Il cyborg danza con l’alchimista vit-toriano. E violini e Oriente, come per gli americani Abney Park, oc-chialoni da Barone Rosso e abiti

da sopravvissuti stile Mad Max. Per-cussioni marziali e dirigibili all’orizzon-te, immaginario condiviso dai Vernian Process, fautori di un cabaret moderni-sta (sui lati del palco, tracce di Dresden Dolls e Marilyn Manson) nato a San Francisco e diretto verso i sotterranei del Louvre. Più eterei e horrorifici, gli inglesi Attrition hanno dedicato il loro album All Mine Enemys Whispers a Mary Ann Cotton, serial killer vittoriana impiccata nel 1873 e “specializzata” in arsenico (per la cronaca, le prime 1000 copie del cd contenevano riproduzio-ni di etichette per bottiglie di veleno dell’epoca!). Sospiri e archi, con il con-tributo di Erika Mulkey delle Rasputi-na, violoncelliste in balconata d’onore Steampunk. Nella formazione originale anche Julia Kent, ora coi Larsen e nei Johnsons di Antony, e Melora Creager, spesso al fianco dei Nirvana. Un orolo-gio antiorario, come quello dei Clock di Saint Etienne, vaudeville cosmico illustrato da Aurélien Police, o del folk annegato ventimila leghe sotto i mari dei canadesi Johnny Hollow. Jules Verne, applaude.

Esistono quadri, pochissimi, che diven-tano immagini permanenti, metafore ossessive, fonti di ispirazione per ogni generazione. È sicuramente il caso de L’isola dei morti del grande Arnold Bo-ecklin (1827-1901). Ad esempio clamo-roso e dichiarato, si veda nella prima pagina di questo giornale campeggiare L’île des morts di Aurélien Police, trasfe-

rita in una “civiltà” industriale, spettrale. Ma Aurélien non è certo il solo succu-be di quell’incubo simbolista. Infatti mai nella storia i morti hanno esercitato tanto fascino e persino, oseremmo dire, capacità “riproduttiva”. Basti visitare il sito www.toteninsel.net, fondato dal pit-tore francese Pascal Lecocq, per esse-re stupefatti dalla proliferazione creativa

indotta dalla fecondazione boeckliniana, in tutte le arti. Qui ci limiteremo ad ac-cennare alle bandes dessinées, dove innanzitutto ritroviamo alcuni degli autori francofoni già citati in questo numero di “AfterVille”, dal “planetario” Philippe Dru-illet ai François Schuiten e Benoît Pee-ters de Les cités obscures, ma anche l’immenso Moebius e Philippe Caza, già

“metallari urlanti”: insomma, la crème de la crème. Anche l’Italia fumettara, sep-pur con una squadra meno strepitosa, con l’eccezione del fuoriclasse Manara, qualche crociera verso quell’isola ha tentato, imbarcando i “gruppi organiz-zati” di Andrea Pasini, Marco Berrini, Giancarlo Alessandrini, Luigi Coppola (“Martin Mystère” nn. 224 e 225, L’iso-la dei morti e Oltre la soglia, novembre e dicembre 2000); Maurizio Colombo, Stefano Andreucci, Enea Riboldi (“Dam-pyr” n.13, L’isola della strega, aprile 2001); Gianluigi Bonelli, Galep, Ferdi-nando Fusco (“Tex Willer” n. 231, L’isola dei morti, gennaio 1980, anche se qui si tratta quasi solo di una citazione di quel famoso titolo). E non dobbiamo di-menticare, su di un altro versante, quel-lo dell’illustrazione, prove sul tema del fantascientifico Maurizio Manzieri. Risa-liamo ora eccezionalmente verso l’arte “alta”, giustificati dal ricordare solo artisti qui da noi già trattati: così segnaliamo alcuni raffinatissimi d’après Boecklin di Fabrizio Clerici, e la fotografia di Simon Marsden riprodotta a pagina 3, dedica-ta a un’isola dei morti che tuttavia non è solo luogo della mente, ma esistente, a Venezia. Non paia strano: Boecklin conobbe l’Italia, e vi morì, a Fiesole, e molti critici hanno voluto riconoscere il modello reale della Toteninsel proprio in un’isola del nostro Paese, Ischia o Ventotene che fosse (le nostre isole solari non sono state percepite e rap-presentate come tenebrose solo da Boecklin: basti pensare alla Capri di Karl Wilhelm Diefenbach…).

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rappresentazioni terminali ottobre-dicembre 2008

Presidente Riccardo Bedrone, Vicepresidente Sergio Cavallo, Segretario Felice De Luca, Tesoriere Adriano Sozza. Consiglieri: Roberto Albano, Domenico Bagliani, Giuseppe Brunetti, Mario Carducci, Mariuccia Cena, Franco Ferrero, Franco Franco-ne, Giorgio Giani, Elisabetta Mazzola, Gennaro Napoli, Stefania Vola. Direzione Laura Rizzi. Staff: Arianna Brusca, Alda Cavagnero, Sandra Cavallini, Antonella Feltrin, Ele-onora Gerbotto, Fabio Giulivi, Milena Lasaponara

Presidente Carlo Novarino, Vicepresidente Fabio Diena, Consiglieri: Riccardo Bedrone Maria Rosa Cena, Franco Francone, Marcello La Rosa, Carlo Novarino, Claudio Papotti, Ivano Pomero, Giuseppe Portolese, Claudio Tomasini. Staff: Maddalena Bertone, Chiara Boero, Raffaella Bucci, Giulia Di Gregorio Stagiste: Maria José Carlone, Ester Lopacco

Ordine degli Architetti PPC di Torino

Fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC di Torino

è un progetto ideato e curato per la FOATda Undesign, Michele Bortolami e Tommaso Delmastrocon Fabrizio Accatino e Massimo Teghillee incubato da Commissione OAT Visione Creativa

numero 5

DALLE CITTÀ DELL’ALDILÀdivine design tra realismo fantastico e steampunkultimo numero della prima serie ottobre-dicembre 2008

direttore Enzo Biffi Gentilicondirettore responsabilePier Paolo Benedetto caporedattoreLuisa PerloredazioneElisa FacchinLiana Pastorin/FOAT assistenteValérie Zuddasart directionUndesignMichele BortolamiTommaso Delmastroimpaginazione elettronicaPaolo AnselmettiDario AscheroMarco Nicastro

DALLE CITTÀ DELL’ALDILÀmostra nella Galleria Sopranadel MIAAO 4 ottobre-31 dicembre 2008

curatoriEnzo Biffi GentiliElisa FacchinLuisa PerloUndesigngraficaBellissimoUndesignprogetto allestimentoStudio KhaallestimentoArteinmovimentoassicurazioniArte SicuratrasportiGondrand

MIAAOMuseo Internazionale delle Arti Applicate Oggivia Maria Vittoria 5, 10123 TorinoT 0039 011 0702350 | 0702351F 0039 011 [email protected]; [email protected]

ATTORI e AUTORI

Fabrizio AccatinoGiancarlo AlessandriniChiara BardassaRobi BasmeRiccardo BedroneBellissimoTiziana Bendal BrunelloEnzo Biffi GentiliChiara BlattaThierry Borie Michele BortolamiGianluca CastagnoPierre ChapelotPierre Clayette Fabrizio Clerici ClockToni Cordero Mario CresciCatherine DavidPino Dell’AquilaTommaso DelmastroElisa FacchinFranco FanelliMarco FragomeniEnrico FrignaniTommaso GarattoniMaurice Lesna Hervé Lewandowski Milo Manara Sir Simon Marsden Edgardo Michelotti Bruno Munari Emanuela Oddenino Pogo OkefenokeePadre Valerio Ferrua O.P.Padre Giuseppe Goi d.O.Alessandra Paracchi Liana Pastorin Benoît PeetersLuisa Perlo Carlotta Petracci Giovanni Battista Piranesi Aurélien Police Alberto Pozzallo Francesco Radino Gaston Redon Lyle Rowell Lucio Saffaro François Schuiter Giuseppe Maria Scotese Massimo Teghille Santo Tomaino Tumi Turbi Stefano Vellano Barbara Zandrino Valérie Zuddas

Fabrizio Accatino, Michele Bortolami, Tommaso Delmastro, Massimo TeghilleCuratori di AfterVille

AfterVille landing stripPadre Giuseppe Goi d.O.

Babele e Gerusalemme Avventure estetiche

Locandina del film L’Apocalisse, 1947 di Giuseppe Maria Scotese Collezione SSAA, Torino

Roger Caillois, Nel cuore del fantastico, 1965

il fantastico è dunque rottura dell’ordine riconosciuto

irruzione dell’inammissibile

all’interno della inalterabile legalità quotidiana

Carlotta Petracci, Ritratto dei curatori della rassegna AfterVille (da sinistra) Michele Bortolami, Tommaso Delmastro, Fabrizio Accatino Massimo Teghille, con il direttore del MIAAO (al centro) Enzo Biffi Gentili, Torino 2008

in basso Enzo Biffi Gentili e Studio Kha, Materia Mistica, 2008, installazione ad Abitare il Tempo, Verona, opere di Bernard Dejonghe Marcello Morandini con Claudio Bongiovanni (particolare), foto Johnny Dell’Orto

Lyle Rowell/Mutoid Waste Company, Letto di morte, 2005, installazione nella Galleria Sottana del MIAAO (particolare), foto Francesco Radino

a sinistra Tiziana Bendall Brunello, Family’s Ghost, 2004, abitino in porcellana levitante nel Battistero di San Filippo Neri, Collezione SSAA, Torino, foto Enrico Frignani

a destra Catherine David, Cross light, 2004, croce in Plexiglas nel Sepolcreto di San Filippo Neri, Collezione SSAA, Torino, foto Enrico Frignani

di sole o di luna, perché Dio è la luce; e anche il tempio non è più necessario, perché lo stesso Dio è tutto in tutti. L’au-tore dell’Apocalisse descrive attenta-mente la città dell’Aldilà, quasi Architetto che ne delinei forma, materiali, estetica, vivibilità. A egli rimando senza dimenti-care che la visione, la rivelazione (questo significa apocalisse) non nasce come momento isolato: c’è un lungo cammino di riflessione che parte da molto lonta-no; non si può scordare, a esempio, il profeta Isaia e la sua rappresentazione del futuro della città di Davide (60,1 ss). Indubbiamente però la rivisitazione inter-pretativa del nuovo Testamento ristruttu-ra l’antica riflessione, e ci presenta una città dell’Aldilà come regno della libertà, della dignità, della pace (cfr lettera di Pa-olo ai Galati 4,1 ss). Le considerazioni sulla Gerusalemme celeste iniziano da questa sintesi, per proclamare all’uomo d’oggi che il senso del vivere parte dal significato dato alla morte; che l’Aldilà è ipotesi legittimata dal sentire dell’umanità di tutti i tempi e tutti i luoghi, fa riferimen-to al senso, non è proiezione di fantasia umana; da ultimo ma non ultimo: la tra-scendenza, la metafisica secondo l’uo-mo d’oggi non può provare scientifica-mente la propria ragion d’essere, ma ciò nulla toglie alla sua validità: hanno pieno diritto le “ragioni del cuore”.

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al quale tuttavia non si ispirano in spirito di sola conservazione, o imitazione, ma di trasfigurazione, sino alla sua reinven-zione. Insomma rappresentano una vera e propria “famiglia intellettuale”, un po’ speciale. Ma l’apparentamento è ulte-riormente verificabile anche attraverso altre comuni stimmate. Quella impressa dall’amour des lettres, virtù giudicata un vizio nella nostra cultura plastico-visiva. E quella prodotta dal dandysmo, o esplici-to come nei casi di Sir Simon Marsden, quarto baronetto di Grimsby, e di Au-rélien Police, o comunque inequivocabile come in Toni Cordero e Pierre Clayette. Il che potrebbe far sospettare un loro ca-rattere un po’ decadente e rétro, se non “reazionario”, anche per alcune loro auc-toritates dichiarate, come quelle di Ezra

Pound e Roger Caillois. Ma si vedano le ultime pagine di questo giornale, nelle quali giovani e giovanissimi autori rivendi-cano proprio quella complessiva “eredità culturale”, e vanno oltre, a esempio rileg-gendo le critiche alla società industriale nell’epoca vittoriana di William Morris. Il che, per chi scrive, da adolescente per sempre impressionato dalla lettura del saggio sul decadentismo nell’età vittoria-na di William Gaunt (L’avventura estetica, Einaudi, Torino 1962) è motivo di infinita soddisfazione. Perché desideriamo che il MIAAO non sia soltanto un luogo, isolato, di commemorazione di teorie e pratiche delle arti applicate, ma di loro trasmis-sione. Anche per questo motivo, con i Padri della Congregazione dell’Oratorio, abbiamo voluto garantire accoglienza ieri al Funk, oggi allo Steampunk…

continua dalla prima

continua dalla primacon la sua urbanistica spaziale, Leonar-do Mosso con la sua città programmata, Marco Patrito con le sue “saghe grafi-che” futuribili, e altri ancora… L’abilità di Enzo Biffi Gentili, il direttore del MIAAO, da noi scelto come “comandante” della Turin Spaceship Company che doveva affrontare quella prima spedizione after-villiana, e “richiamato” per quest’ultima (si sa, decollo e atterraggio sono fasi critiche di ogni viaggio aereo, e in gene-rale tutta la missione era particolarmente rischiosa perché doveva confrontarsi con la storia, con il passato, e allora noi cinefili non potevamo non ricordare Space Cowboys, il film del 2000 di Clint Eastwood che dimostrava appunto l’in-sostituibilità, in certi casi, di ironici “an-zianauti”…) sta proprio nel seguire orbite culturali “eccentriche”, nel trovare pas-saggi segreti tra le mura di casa, occlusi dal conformismo. Il pubblico ha apprez-zato ed ha affollato le gallerie del MIAAO per 4 mesi, prima per Astronave Torino e poi per il suo sequel, Capitàn Germán. Il progetto AfterVille è partito così, con il botto! Il secondo appuntamento è stato the Show, che complice la Mole Anto-nelliana, ha regalato ai subalpini una se-rata insolita all’interno del landmark della città, frutto di quel genio visionario che fu Alessandro Antonelli, forse il primo a rea-lizzare una “architettura da fantascienza” a Torino. Lo show aveva come obiettivo l’abstract visuale di un secolo di fanta-scienza cinematografica, quasi a definire uno “stato dell’ arte”. Alla suite visiva di brani di oltre cinquanta film che rappre-sentavano immaginari diversi, ormai se-dimentati nella cultura contemporanea come iconografie ineliminabili nella no-stra immagine del futuro, corrisponde-va una suite sonora live dei Larsen. Da quel momento le esperienze sono cre-sciute quasi geometricamente: è nato the Movie, il primo film di fantascienza dell’era digitale realizzato e ambientato a Torino. La scelta dei registi è caduta

sul talentuoso duo Fabio&Fabio, all’ana-grafe Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, che hanno diretto con maestria un cor-tometraggio di trenta minuti, lasciando a bocca aperta le 2000 persone all’ante-prima del Cinema Massimo. Addirittura, i dischi volanti a Torino: immense presen-ze aliene, grandi come tre stadi olimpi-ci, hanno stravolto lo skyline torinese e l’animo dei suoi abitanti. L’obiettivo era quello di produrre un trauma, con l’ipo-tesi di un cambiamento radicale di uno stile di vita, il che per i torinesi risulta an-cor’oggi problematico. Ma soprattutto è stato il tentativo di “medializzare” la città, scollegandola dall’ idea di “città fisica”, cercando di prefigurare una condizione nella quale non solo la realtà sarà sem-pre di più quella creata dai media, ma anche la stessa edificazione sarà carat-terizzata, come altrove già avviene, da media buildings veri e propri. Poi sono venuti i Reading, approfondimenti teorici sui temi trattati da AfterVille, dibattuti nel-la splendida sede del Circolo dei Lettori. Si è parlato di cinema, architettura, fu-metti, videoclip e design con esponenti autorisés dei vari generi: Francesco Fei, Maki Gherzi, Luca Pastore, Antonio Serra, Maurizio Zucca, fino ad arrivare a un mito vivente, Syd Mead, uno dei veri ispiratori della fantascienza di serie A. L’incontro con questi personaggi ha sottolineato come l’interdisciplinarietà sia oggi fondamentale per ogni proget-to non banale, e come la fantascienza garantisca, sempre, una straordinaria rialimentazione culturale. Quindi, final-mente, il pensiero “aftervilliano” ha tro-vato spazio per mostrarsi al pubblico “di massa”: è nata così the Underground Exhibition, allestita nel stazioni dalla Me-tropolitana di Torino, grazie alla dispo-nibilità del Gruppo Trasporti Torinesi. Il luogo che più incarna l’idea di futuro, al-meno a Torino, ha ospitato installazioni che si sono affiancate alla comunicazio-ne istituzionale riprendendo il concetto di medializzazione della città e creando

un itinerario parallelo attraverso dieci città paradigmatiche e fantascientifiche, frutto del lavoro di ricerca curatoriale che sta alla base di tutta la manifestazione. Chiunque scendeva nelle viscere della città poteva aspettare il treno osservan-do simulazioni di varie città, ognuna ca-ratterizzata da diverse forme, colori, am-bienti ma soprattutto significati. Città che sono frutto di un’analisi multidisciplinare, spregiudicata, sulla base tuttavia di stu-di storico-formali anche “accademici”. Dieci immaginari che si sono “incarnati” in un secolo di cultura plastico-visiva e che hanno colto le aspettative del loro tempo, trasformandosi in “quadri di rife-rimento” per chiunque voglia far fanta-scienza. A corollario di queste iniziative si è svolta la Starchitecure Night alle Officine Grandi Riparazioni, in collabora-zione con l’Urban Center Metropolitano. In particolare, AfterVille ha avuto l’onore di essere presentata con la mostra “TO 011”, che ricostruisce le trasformazioni urbanistiche storiche che l’hanno ca-ratterizzata maggiormente. Insomma, il progetto AfterVille vuole rappresentare ipotetiche “mutazioni” della città, utopi-che e anche drammatiche, ma al tempo stesso ben iscritte nel suo patrimonio genetico e storico. Infine ora ecco-ci, listati a lutto, all’episodio terminale, Dalle città dell’Aldilà, accompagnati in quest’ultimo viaggio dallo “zio-Caronte” Enzo Biffi Gentili, e dal “Padre spiritua-le” Giuseppe Goi, che ringraziamo per la grande disponibilità -della quale non ci stupiamo perché, secondo Philippe Sollers, “le dandy… ne peut être que catholique”- a scrutare l’orizzonte di me-tropoli “ultraterrene”, a partire di quella di Dioce dell’architetto Toni Cordero. Tema sconvolgente, ma molto coerente con un’AfterVille che vuole anche essere città “estrema”. E pur se il “domani arri-va oggi”, come recita il nostro motto, il futuro di AfterVille resti ignoto, almeno in occasione di questa nostra “commemo-razione” del suo passato…

Enzo Biff Gentilii