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FACEVAMO TUTTI COSI’ Autobiografia di Maria Lambruschi A cura di Orianna Montanari

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FACEVAMO TUTTI COSI’

Autobiografia di Maria Lambruschi

A cura di Orianna Montanari

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Stampato nel mese di novembre 2011da www.centrocopietekno.it

di Reggio nell’Emilia

Testo e immagini di proprietà degli autori. Vietata la riproduzione e/o diffusione,

anche parziale, a fini commerciali.

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Ai miei figli,

in ricordo di mamma e papà.

Perché non si dimentichino

della vita che abbiamo fatto

e delle fatiche che abbiamo affrontato e superato.

Maria

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PREFAZIONE

Maria è una donna sola e indipendente. Durante la sua esistenza ha dovuto affrontare delle prove molto dure: da un’infanzia molto povera, ma comune con le altre persone della frazione, all’incidente del marito e alla malattia della figlia.

Ha lottato ed ha superato queste difficoltà, ma ora ne sopporta le conseguenze.

Il mal di schiena la costringe a muoversi in casa con un girello: la cervicale, con i giramenti di testa, le ha minato l’equilibrio e le impedisce di uscire di casa da sola.

Nonostante questo mantiene i contatti con il mondo esterno usando il telefono, chiamando amici e parenti, ordinando la spesa, parlando con il dottore.

E’ fiera della sua indipendenza e la difende.

Sa che cosa vuole e chiede quello che le serve, cercando di non disturbare.

Orianna Montanari

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Adesso ti racconto questo

Io provengo da una famiglia numerosa di braccianti agricoli, sono l’ultima di sei figli, cinque femmine e un maschio, c’era una grande miseria all’epoca e si lavorava tutti per portare a casa qualcosa da mangiare. Ho frequentato la scuola elementare a Santa Vittoria, fino alla III elementare, sempre promossa, ero brava, e alla fine della scuola sono andata a lavorare.

Maria mi mostra una foto alla parete, afferma con orgoglio: “Guarda che squadra, c’è tutta scuola di Santa Vittoria insieme al bidello”. All’epoca eravamo vestiti tutti uguali, con il grembiule nero e il fiocco azzurro, me a sun còla seinsa scusel (io sono quella senza grembiule). Maria ricorda che il padre

Maria alla scuola elementare di Santa Vittoria. Lei è la bambina della fila di mezzo con il fiocco nero e senza il grembiule

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non voleva che indossasse il grembiule, non voleva che si vestisse di nero, affermava: “I fasesta, ag van lor vestì ed nigher, mia te” (I fascisti, ci vanno loro vestiti di nero, non te).

In quel periodo c’era la miseria, molta miseria, mio padre lavorava all’agricola a Santa Vittoria, una volta non c’era niente. Quando ero piccola era socio della Cooperativa Agricola di Santa Vittoria, che aveva provveduto ad assegnare dei piccoli appezzamenti di terreno ai contadini, per coltivare il frumento ad uso personale. Mio padre era casante, lavorava la terra, ma con il suo lavoro si mangiava poco, e io dovevo andare a fare la treccia per guadagnare qualcosa.

Il Governo ci passava gli zoccoli di legno, d’inverno, d’estate usavamo le scarpe di pezza, legate con il cordone, tu non li hai conosciuti, ma io li usavo. Avevamo anche l’armadio, ma non era come quelli di adesso, non avevamo vestiti, avevamo un vestito per la festa e uno per tutti i giorni. Era piccolo, poi c’erano i buchi. Si acquistava la paglia (i paiol), per fare la treccia per i cappelli di paglia, le cappelle per le risaie di Novi di Modena, per le donne che lavoravano in campagna e per quando si andava in Piemonte. L’usavo anch’io. Veniva fatta nella stalla, perché in casa c’era freddo, c’era il camino, ma era spento perché non c’era la legna per fare il fuoco. Andavamo a fare la treccia per prendere due soldi per comprare da mangiare e la legna. Quando non lavoravo, giravamo nei campi, andavamo a uva, a legna, a frumentone ... Quando uno ha la fame, deve fare quei lavori li, all’epoca facevamo tutti così.

A scuola non sono mai stata ripetente, ma alla fine della terza sono stata a casa, a 8/9 anni mia madre mi ha mandato a

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servizio da un contadino perché c’era bisogno di soldi. Aiutavo la signora in casa a fare i lavori e poi andavo ad aiutare nella stalla, pulivo le “poste”, gli stalli delle mucche, poi prendevo un carretto con sopra tre bidoni di latte e andavo al casello, a piedi. La casa del contadino era lontana dal casello che si trovava a Santa Vittoria, e dovevo fare un bel pezzo di strada. Spingevo, spingevo come un cavallo e c’era un freddo, un freddo!

Alla sera, mentre andavo al casello a Santa Vittoria, passavo vicino a casa, vicino ai campi che mio padre lavorava. Una volta mi ha visto spingere il carretto e mi ha detto: “Maria, ander mìa dal padron, va in cà da tò medra a scalderet un pò!”, “Se vot ca vada papà, a go d’ander dal padron a lavorer, an pos mia!”. (“Maria fermati a casa di tua madre a scaldarti, prima di tornare dal padrone!”, “Dove vuoi che vada papà, devo andare dal padrone, a lavorare, non posso!”).

Quando andavo a lavorare, restavo dal contadino tutto il giorno, mi fermavo a mangiare e poi tornavo a casa alla sera. Abitavo al Portein, a Santa Vittoria, la strada passava lungo il Crostoso, un sentiero lungo e buio, alla sera andavo a casa a dormire, e poi al mattino tornavo a lavorare. Alla sera mi veniva incontro mia madre, perché non c’era luce e io avevo paura a fare un pezzo di strada così da sola, perché i delinquenti c’erano anche allora.

In cambio del mio lavoro mi davano il vino, la farina gialla, la farina bianca e il latte e io, che ero la più giovane, contribuivo al mantenimento della mia famiglia, non dico bugie, la storia è così.

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La legna per il camino

Un altro lavoro svolto da noi giovani era quello della raccolta della legna: quando i contadini potavano le piante, io andavo a legna con la carriola. Partivo da casa con la carriola vuota, la lasciavo all’inizio della carraia e andavo dai contadini e chiedevo: “Mi da un fascino di legna, perché io non ho legna?” e loro rispondevano: “Ah, Sgnoreina, tal dagh un bel ramagnin …”, perché ero giovane, ero una ragazzina, all’epoca non ero ancora sposata, ero una putelà, una bambina. Io ringraziano e, ero furbina, quando ero in fondo alla carraia facevo cadere la piccola fascina vicino ad un’altra e le raccoglievo tutte e due. Facevo finta che mi era caduta per poterne prendere su un’altra da mettere sotto all’ascella. Ero furbina. Le raccoglievo tutte e due e poi le mettevo sulla carriola. Quando arrivavo a casa: “Guarda mamma quanta legna!” e le mettevamo nel solaio per l’inverno.

Abitavamo vicino al Crostoso, quando passava la piena, c’erano dei bei tronchi, dei bei pezzi di legna che venivano giù. Erano bellissimi, grossi: dei legni grossi così, mi facevano gola. Ero insieme ad una mia amica, le dicevo: “Veh Carla - si chiamava Carla - guarda che bella legna viene giù con la piena!”. Allora scalza ero andata nel fiume e gira, gira, mi bagnavo ed era pericoloso, ma la legna era tanto bella ed io avevo tanta voglia di prenderla, ho detto: “Dai, Carla aiutami!” mi sono fidata e li abbiamo presi. Quando mio fratello mi ha visto, al ma bravé, mi ha rimproverata, ha detto: “Non andare più nel Crostoso a fare quel lavoro lì! La legna è bella, ma è pericoloso, se tu ti annegavi!”. A me non interessava, a me interessava la legna.

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Altre volte la siamo andata a rubare, perché ne avevamo bisogno e i contadini, i padroni avevano i soldi, e loro avevano anche tanta legna. Andavamo quando erano impegnati a potare nei campi, c’erano dei bei legni con i quali avevano formato delle belle cataste. Una volta ci hanno visto e ci hanno preso. Eravamo in due, eravamo verso San Rocco di Guastalla, allora c’era l’argine, siamo andate giù nell’argine abbiamo preso i nostri bei legni, ma il padrone ci ha visto: “E adesso voi altre vi metto a posto io!”, “Beh, perché?”, “Siete andate a rubare la mia legna! E adesso tu vieni su!”, “No, io non vengo!”, “Venite su con la legna e la riportate dove l’avete presa!”. Alla fine sono salita, mi ha dato due o tre calci nel fondoschiena e via, l’altra non voleva venire, la mia amica voleva stare là, e le ho detto: “Io qui a dormire non ci sto, se ci vuoi stare tu, io i calci li ho già presi, vieni su, ci penserai tu a prendere gli altri”. Lei piangeva, piangeva, ma alla fine è venuta su, ha preso i calci anche lei, e poi il padrone ci ha fatto riportare la legna dove l’avevamo presa, ci era andata male. Il signor Malaguti, me lo ricordo bene.

Le rane

Quando ero giovane andavo a rane per venderle, non per mangiarle, ma per venderle. Andavo nei fossi e con le mie mani tum le prendevo e le mettevo nel carner (una sacca portata a tracolla, per metterle dentro). Andavo lungo i fossi e con le mani le prendevo, ero brava, eh, quando le hai in mano non scappano più!

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Io tutti i lavori li ho fatti, ero giovane, andavo a rane nei fossi, andavo anche nelle risaie, c’erano le risaie lì, si vedevano in campagna, prendevo le rane e le mettevo nel carner. Prendi una rana, poi ne prendi un’altra, ne vedi una in fondo, la prendi e le metti dentro e poi cerchi nella terra, perché erano nella terra, in mezzo al fango lungo al fosso, anche lì le ho prese. Andavo a rane sia di giorno che di sera. Per vederci usavamo le lampade con il carburo, era bello andare a rane alla sera, perché alla sera andavano in amore ed allora si prendeva il doppio, si prendevano il maschio e la femmina, insieme. Anche loro vanno in amore e allora si prendeva il doppio. Alla mattina dopo, quando andavo a casa le pulivo, le sbudellavo, gli tagliavo la testa e le gambe, e poi facevo uno spiedino con i rami del salice. Le infilavo dal basso all’alto per il sedere e per la bocca e facevamo uno spiedino di 12 rane, dentro nel salice. Andavamo a venderle 12 per 12 e allora le compravano tutte, perché le rane piacevano a tutti, erano buone. E allora anche lì io prendevo dei bei soldini, questo capitava prima di sposarmi, quando ero giovane. Quando mi sono sposata facevo senza ad andare a rane.

“Polenta e arion”

Andavamo a frumentone, per avere la farina gialla, lo sgranavamo e poi lo mettevamo nell’aia per asciugarlo e poi lo portavamo al mulino per avere la farina per fare la polenta. Una volta si mangiava la polenta, io la mangio anche adesso, è buona. L’ho sempre mangiata, mi piace con il burro, con il ragù, con il coniglio, fritta, arrostita. Una volta mangiavamo la

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polenta con una saracca in 5, una saracca in 5, quando ero giovane.

Una volta, chiesi: “Mama, sa magnomia instasira?”, “Saiv sa magnom? Polenta e arion.”, “Ma cos’el mama l’arion?”. L’era inveren, la avirt la fnestra, l’è gnu deinter un’aria ed la madona, “Magnom cul le!”. (“Mamma, che cosa mangiamo questa sera?”, “Sapete che cosa vi preparo? Polenta e arione.” “Ma mamma che cos’è l’arione?”. Era inverno, ci ha aperto la finestra, è entrata un’aria gelida, c’era un freddo, un gran freddo, “Mangiamo questo”).

Mettevamo al coreg, (cestello dove venivano tenuti i pulcini) nel cortile, per prendere le passerine, lo legavamo con una corda che tiravamo fino alla cucina, quando si fermavano gli uccellini, tiravamo la corda e loro restavano dentro, poi le prendevamo, le pulivamo e le mangiavamo in umido, poverine. Ne ho mangiate delle passerine, (ride al ricordo) e i mistrochi, con la farina di frumentone. Non c’era il pane, facevamo delle belle pagnotte gialle, lunghe così, le portavamo al forno a cuocere, i mistrochi, erano buone perché ci mettevamo un po’ di zucchero, era un dolce.

La risaia

(Maria mi mostra un libro “Il coro delle Mondine”, immagini e canti delle risaie Padane, di Nunzia Manicardi, (1998) che le è stato regalato dalle figlie. Guardando il libro cantiamo alcune canzoni e Maria ricorda il tempo passato, la fatica, le ingiustizie e la miseria)

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Saluteremo il signor padrone

Per il male che ci ha fatto

Che ci ha sempre maltrattato

Fino all’ultimo doman

Saluteremo il signor padrone

con la sua risera nera

Pochi soldi in la cassetta

E i debit da pagar

Macchinista, macchinista faccia sporca

Metti l’olio nei stantuffi

Di risaia siamo stufi

A casa nostra vogliamo andar

(Maria parla del lavoro delle mondine della bassa reggiana e modenese, mi mostra un libro che contiene alcune fotografie di famiglia, tra queste quella del padre)

Le risaie si trovavano a Rolo e a Novi, molte donne della zona lavoravano vicino a casa, andavano in bicicletta, mentre quelle che andavano a fare la stagione in Piemonte, viaggiavano in treno, in terza classe, o con i carri merce, ammucchiate insieme, come delle bestie.

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Ho una sorella che, dopo essersi sposata a Santa Vittoria con un biolc, un contadino, si è trasferita a Vercelli. Quando mia madre andava alla risaia, in Piemonte, ed io ero una bambina, mi prendeva dietro e mi portava a Vercelli da mia sorella. Mi prendeva e mi nascondeva sotto al vagone, perché altrimenti doveva pagare il biglietto anche per me, ma non c’erano soldi.

Quando avevo 14-15 anni, c’era ancora la guerra, sono andata in Piemonte alla risaia, a lavorare per guadagnare qualcosa, io e mia sorella. Alla fine io ci sono andata tre anni alla risaia, l’ultima volta ci sono andata che ero incinta a 17 anni, poi mi sono sposata e non ci sono andata più.

Quando tornavi a casa, prendevi la paga e un sacchetto di riso, 1 kg per ogni giorno di lavoro, con la campagna che durava 30 o 40 giorni, era un bel guadagno. Però alle volte al posto del sacco di riso ti mandavano a casa con un carner ed ris, con un sacchetto che ne conteneva al massimo 10 kg.

(Sfogliando il libro mi mostra il lavoro della risaia, le ragazze in fila con le gambe nell’acqua che seminano il riso, morsicate dagli insetti e graffiate dalle sterpaglie, la capa (caposquadra) con il bastone, che ti dava una bastonata se ti alzavi in piedi, per stirare la schiena, o se non tenevi la fila con le altre; poi mi mostra le donne che andavano a mietere il riso cresciuto, per poi finire con la battitura nell’aia). Io andavo a mondarlo e poi, quando era maturo, andavo anche a mieterlo, sempre in Piemonte.

(Guardando il libro riconosce il padre, anziano con la pipa in bocca, anziano nel fisico ma non nell’età, rovinato dal troppo

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lavorare, ricorda che morì giovane con una paralisi, mentre lavorava nei campi, a 55 anni).

Gli altri, (racconta Maria), si trovavano nella stalla a mangiare, lo aspettavano ma non arrivava. Lo sono andati a cercare, lo hanno trovato a terra e l’hanno portato a casa, è morto poco dopo. Mio padre è morto prima della guerra, siamo rimaste sole io mia madre e mia sorella, c’era anche mio fratello, ma era andato via, in Germania, prigioniero.

I tedeschi e il fratello

Durante la guerra noi dormivamo nella stalla, dove c’erano le bestie, per stare al caldo. Era il periodo di Pippo, prima della Liberazione, e i tedeschi a Santa Vittoria erano in ogni luogo. Noi avevamo paura dell’apparecchio che ci bombardava e dormivamo nella stalla: uomini e donne, tutti insieme, nella paglia.

Un giorno è arrivato un tedesco che ci ha mandato via per far posto a loro che volevano a loro volta dormire. Noi siamo usciti tutti, io ero con mia madre e mia sorella; considerato che i tedeschi dormivano, avevamo un po’ di farina, siamo andate a casa a preparare l’impasto per fare il pane, per poi portarlo a cuocere al forno. In quel periodo noi facevamo la treccia, prendevamo dei soldini e allora potevamo comprare la farina, non tanta ma un po’ ce ne davano; filavo con il filarino, facevo di tutto.

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Quando siamo andate fuori nel cortile, vidi un partigiano, lungo al Crostoso, dove c’era stata la piena, a Santa Vittoria. Il partigiano aveva un fazzoletto rosso legato attorno al collo e mi chiese se c’erano dei tedeschi in paese. Mi aveva chiamato perché lo conoscevo: gli risposi che erano dentro alla stalla a dormire. Un tedesco, mentre si faceva la barba con lo specchio, lo vide, e allora si mise ad urlare ai suoi colleghi: “Partigiani! Partigiani! Fuori! Fuori!”. I tedeschi uscirono tutti e i partigiani scapparono via. Non riuscirono a prendere nessun partigiano, ma presero noi, che stavamo facendo il pane, insieme alle altre persone che erano nella zona.

Noi scappammo, io con una mia amica da una parte, mia madre e mia sorella da un’altra, ma i tedeschi ci presero tutti. Usando un’interprete che era con loro, volevano sapere dov’erano andati i partigiani, ma noi non lo sapevamo, non sapevamo nulla. Sentivo mia sorella che piangeva, avevano preso sia mia sorella che mia madre. Mia madre venne lasciata libera perché era vecchia, noi siamo state portate in un appartamento vicino al Crostoso, siamo salite e poi siamo entrate in una cucina come questa e lì i tedeschi ci hanno rinchiuso.

I partigiani non sapevamo niente di questo rastrellamento. C’erano comunque le staffette che giravano e vennero avvisati che eravamo lì, in mano ai tedeschi. Gli uomini li avevano messi nella porcilaia dove c’erano i maiali, e le donne tutte nella cucina. Fra gli uomini c’era Biason, quel padrone che aveva la farina, andavamo sempre a prendere la farina da Biason. Noi eravamo sempre in piedi, ero scalza, ero ancora una ragazzina, con mia sorella, tutte insieme.

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I partigiani arrivarono nel fienile; avevano il mitra e spararono uccidendo un tedesco e loro minacciarono: “Ucciso uno di noi e adesso uccidiamo due di voi!”, perché noi eravamo ostaggi. Alla fine urlai: “Prenda me, perché poi quando sono morta ho già finito. C’è tanto da aspettare? Io sono stanca di stare qui!”, “Nient tu taci, taci!”.

Più tardi i partigiani ne ammazzarono un altro: “Un altro dei nostri, quattro di voi!”. Allora si riunirono i partigiani di Gualtieri, di Guastalla e di Boretto. C’erano più partigiani che tedeschi, alla fine i tedeschi si arresero e noi venimmo lasciati liberi. Fra i partigiani c’era anche mio fratello con un suo amico che divenne mio marito. L’ho conosciuto che era nei partigiani e dopo l’ho sposato. Quando siamo state liberate siamo andate a casa da mia madre, poverina, che piangeva dalla felicità perché ci aveva visto che eravamo sane, che non ci avevano fatto niente, per fortuna perché c’erano i partigiani.

Questa storia non la racconta nessuno, per Santa Vittoria. Ne dicono di tutti i paesi, ma di Santa Vittoria non l’hanno mai detto che ci hanno preso i tedeschi e ci hanno liberato i partigiani. Gli uomini nel porcile, dove c’erano i maiali, ed erano tutti sporchi di letame, poverini, quando li hanno liberati sembravano lepri, sono scappati e andavano tanto forte, avevano una paura!

Durante la guerra mio fratello ed un suo amico, che poi ho sposato, erano stati presi e portati in Germania a lavorare. Insieme a loro, che facevano i cuochi, erano stati presi altri giovani di Santa Vittoria, tutti più o meno della stessa età. Sono riusciti a fuggire e quando sono tornati, si sono nascosti, perché non si dovevano fare vedere dai tedeschi. All’epoca io ero una ragazzina.

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Vicino alla mia casa abitava un fascista, bisognava stare attenti, non ci si poteva fidare. Mio fratello è tornato a casa e subito l’ho nascosto nella camera, non lo dovevano vedere perché i fascisti erano vicino a noialtri. Gli portavamo il mangiare in camera, non usciva mai.

Dopo, insieme ai suoi amici, scappati come lui, sono andati a finire nel fienile, tutti insieme, erano tutti là. Andavamo a prendere l’acqua da un contadino dove andavamo a fare la treccia, in quella stalla lì e gli portavamo da mangiare con il secchio. Io lo portavo a mio fratello, un’altra lo portava a suo fratello; usavamo il secchio, dove nascondevamo anche il mangiare. Ho fatto quella vita lì, da giovane. Alla fine sono arrivati gli americani insieme ai partigiani che ci hanno liberato, che ci hanno fatto del bene, perché è finita la guerra. E questa storia l’ho finita lì.

Il matrimonio

Appena finita la guerra mi sono sposata perché ero incinta. Poiché ero minorenne, avevo 17 anni, mia madre è dovuta venire a firmare a Gualtieri, perché Santa Vittoria fa parte del Comune di Gualtieri. Mia madre stava sulla canna della bicicletta con mio marito, il ragazzo che dovevo sposare, ed io su una bicicletta dietro, non c’erano macchine allora, niente.

Poi mio marito mi ha sposato, sono entrata nella sua famiglia e non sono più andata in Piemonte alla risaia. Quando mi sono sposata ero incinta di 8 mesi, e allora mi ero fatta confezionare un scosalon (grembiulone), perché una volta, nelle mie

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condizioni, si prendevano dei grossi grembiuli. L’avevo fatto fare nuovo di zecca; era inverno, il cappotto e gli stivali me li avevano imprestati.

Alla mattina, quando mi vado a mettere il vestito, ci trovo un buco grande così nella schiena, me l’aveva rosicchiato un topo. Nell’armadio c’erano i topi! Era nuovo, ma cosa vuoi che sapessi io, l’avevo messo nell’armadio, ma i topi erano entrati. Devo andare a sposarmi con una veste tutta strappata, come faccio? Mia madre, dispiaciuta, mi dice che non ha altri vestiti da darmi, era l’unico nuovo, senza rattoppi, allora l’ho indossato, mi sono messa sopra un cappotto che mi aveva imprestato mia cugina, e gli stivali, c’era un gran freddo, ma io stavo calda.

In chiesa erano presenti i miei parenti: le mie sorelle, mio fratello e mia madre, eravamo in sette, mio padre non c’era più, è morto giovane, poveretto. Quando siamo entrati in chiesa c’era un gatto, questo mi porta sfortuna, ho pensato, ed infatti quel gatto lì mi ha portato sfortuna, sono sempre stata sfortunata fino ad adesso. Ti sembra, che un prete debba avere un gatto in chiesa? Al nostro arrivo si è spaventato ed è scappato, avevo paura anch’io.

Quando mi sono sposata, mia suocera aveva preparato lei i cappelletti, perché era brava; la carne, il dolce, abbiamo fatto il pranzo a casa sua, ad me nona (di mia suocera).

Prima vivevo con mia madre e mia sorella, in famiglia eravamo in tre, poi sono entrata in una famiglia composta da 14/15 persone ed anch’io dovevo fare la mia parte. Eravamo in tre

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cognate e facevamo da mangiare una settimana per uno. Allora sono andata da mia suocera e le ho chiesto che cosa dovevo preparare: “Adesso vi insegno io Maria”, mi rispose, le chiedo il tegame e mi passa un paiolo, mi chiedo, che cosa facciamo, il pranzo o il bucato? C’era una stufa a legna, c’erano dei cerchi grandi così, c’era la piastra di ghisa, la vaschetta dell’acqua calda, avevo iniziato a fare la polenta, ma a rovesciarla non ero buona, era troppo pesante, ero anche incinta, mi hanno aiutato. La vita in famiglia era molto faticosa. Non è stata una bella vita quella, a stare in famiglia, neanche un po’, era molto faticosa.

Il lavoro

Quando mi sono sposata ho smesso di andare in risaia e a rane, ma ho sempre lavorato. Eravamo contadini, mezzadri, caricavo le balle di fieno, con il forcone, mungevo, pulivo le vacche.

Quando ero incinta di 7/8 mesi andavo in cima alla massa con l’ascia e la carriola, pioveva e scendeva la neve, si scivolava, mettevo un po’ di paglia sull’ascia per non scivolare, salivo con la carriola piena di escrementi di mucche, la vuotavo e poi ne andavo a prendere un’altra. Era pericoloso per la gravidanza e si doveva stare attenti, ma bisognava fare quel lavoro lì ed io lo facevo.

Quando non ero mezzadra, in estate partecipavo alla raccolta dei pomodori, e poi andavo alla raccolta dei cocomeri, da caricare sopra il camion, dei cocomeri grossi così. Tutti i lavori inerenti all’agricoltura li ho fatti, in una qualche maniera.

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Quando eravamo contadini dovevamo lavorare la terra e avevamo una vigna da curare. Quando andavamo a dare l’acqua all’uva, (contro i parassiti della pianta), mio marito teneva il getto, spruzzava il verderame sulle piante, mentre io dovevo curare che la pompa fosse sempre piena.

Nella carraia c’era la botte con il verderame, c’era da riempire la pompa con dei secchioni grossi così, portavo il vaser, con un secchione di qua ed un secchione di là, sul collo, e poi andavo fino alla pompa dove li travasavo e poi io pompavo (l’acqua per la vite), il verderame per l’uva. Mio marito teneva il getto ed io pompavo. In questo modo mi sono rovinata il collo, mi è arrivata la cervicale. Il “vaser” era un legno sagomato che portavi sul collo alle cui estremità attaccavi due secchi, per bilanciare il peso, quando li vuotavi dovevi tornare a riempirli di nuovo. Allora eravamo mezzadri e non si prendeva niente, lo facevi per la vite.

Quando andavo a lavorare in campagna mi coprivo tutta perché non dovevo prendere il sole, avevamo i manicotti nelle braccia e le calze di lana nelle gambe, per non lasciare scoperte parti del corpo, per non abbronzarsi. Ai miei tempi la moda voleva che la gente avesse la pelle bianca invece adesso bisogna essere nere, abbronzate, allora ci si vestiva, il caldo non lo sentivamo. Quando ero giovane io non c’era il caldo che c’è adesso, era un caldo asciutto, sano. Andavamo sotto alle piante, c’era l’ombra, andavamo a vendemmiare.

In seguito poi sono andata alla fabbrica alla FA.BA, a Sant’Ilario, i padroni erano di Montecchio. In quel periodo abitavo a Sant’Ilario, perché mio marito era andato a fare il

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muratore a Milano, avevamo preso un appartamento in affitto vicino alla FA.BA.

La ditta confezionava delle lattine preparate per contenere l’olio, come ora viene venduto l’olio di semi, io ero assegnata al carico delle merci. Arrivavano con il camion e il rimorchio, da Treviso, per caricare degli scatoloni alti e grossi, li riempivano con le scatole per l’olio e le portavano via per riempirle in altre aziende. I camionisti arrivavano alla sera, dormivano sul camion per essere pronti alla mattina per caricare.

Quando dovevano caricare i camionisti mi cercavano sempre. Dicevano: “Vicino al camion vogliamo la Lambruschi, perché la Lambruschi è più svelta delle altre!”. I camion venivano caricati passando i cartoni da una persona all’altra: le mie colleghe portavano gli scatoloni vicino al finestrone, sul quale avevano messo un’ascia, poi li facevano scivolare fino al camion, io li prendevo e li allungavo al camionista che li sistemava bene sull’autocarro, prendevo e allungavo, prendevo e allungavo, giravo sempre la testa a destra e a sinistra e alla fine ero tutta balorda. Ho fatto una vita da cane.

San Martino

Io avrò fatto 20 San Martino, (traslochi), perché il padrone non ci dava mai quello che ci doveva dare. Mio marito non si trovava bene e andavamo via, andavamo da un altro padrone e capitava la stessa cosa. Avrò fatto 20 San Martino da mezzadri. Prendeva più il padrone del contadino, quando andavamo a

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mietere il frumento, che poi lo battevano, veniva diviso 3 sacchi al padrone e uno a noialtri, 3 a loro e a noi 1, era un bel lavoro così? Si poteva anche prendere niente.

Anche con le vacche le pulivamo, le mungevamo, prendevamo il latte che ci serviva per il nostro uso quotidiano, ma il latte che portavi al casello, veniva pagato ai padroni. Soldi non se ne vedevano. Da che indree, i amseder, (una volta i mezzadri), chiedilo a tuo padre che vita facevano, doveva essere mezzo al padrone e mezzo a noialtri invece lui ne prendeva tre parti e a noi ne restava una. Mio marito diceva: “Io ne voglio tanta come a lei” diversamente vado via, bisogna dividere due sacchi per lui e due sacchi per me, la fatica è tutta mia, ma il padrone divideva 3 a 1.

Ho fatto tanti traslochi che lo so solo io, e adesso sono ferma, sono sola. Comunque facevamo poca fatica a fare San Martino, avevamo poca roba allora: un comò, un letto sui cavalletti, due sedie e una tavola, c’era poca roba. E adesso in casa mia c’è tanta roba, hanno lasciato tutto a me. Ho detto alle mie figlie di prendere qualcosa, ma mi hanno lasciato tutto, cosa me ne faccio io?

I figli

A 40 anni abitavamo al Campovolo, siamo stati anche lì, avevamo un po’ di terra da coltivare. In seguito siamo andati ad abitare a Cadelbosco Sopra, sempre mezzadri.

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Un giorno non mi sentivo bene e ne ho parlato con mio marito che mi ha consigliato di andare dal dottore. Ho preso la bicicletta e sono andata dal dottore, quando sono arrivata gli ho spiegato che ero sempre fiacca, stanca e non ne capivo il motivo. Lui mi ha visitato e mi ha spiegato l’origine dei miei problemi: “Sai che cosa hai Maria? Aspetti un bambino!”. Non me lo aspettavo, avevo 40 anni: “Ma come aspetto un bambino, ne ho già quattro!” e lui mi rispose che i miei dolori derivavano da una nuova gravidanza.

Ero già di due mesi, non si vedeva, allora andai a casa da mio marito, piangevo, e lui, spaventato, mi chiese che cosa avevo: “Ma che cos’hai da piangere?” io piangevo, e lui insisteva: “Ma che cosa ti ha detto il dottore, che cosa ti ha trovato, qualcosa di brutto?”, “No, gli ho risposto, non mi ha trovato un brutto male, mi ha trovato incinta!”, “Sa ghè?”, “Incinta”, “Beh, c’è bisogno di piangere?”, “Ma ne abbiamo quattro!”, “E con questo ne avremo cinque! Cosa vuoi piangere, sarà quella che ci bagnerà la bocca, è la più piccola”.

La prima è stata la Maura, a 17 anni, sana, robusta, si è sposata ed ha un figlio che ora ha quarant’anni, si è fatta la sua famiglia. L’Angela ha studiato, faceva l’infermiera, poi si è ammalata. Ha fatto l’infermiera ad Albinea, era molto brava e benvoluta da tutti, guarda com’è bella con il camice, (dice mostrandomi una foto che ha incorniciato in sala) ha avuto un tumore al pancreas, ha sofferto molto, è morta allo Spallanzani, sono passati 14 anni.

Costantino era il maschio, lo chiamano Pippo, perché da bambino succhiava il dito, “Pipon”, Pippo. Costantino è un

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nome troppo lungo, non vuole essere chiamato con il suo nome, era il nome di mio padre.

Poi ci sono l’Antonella e la Silvia.

Sono legata ai miei figli, anche all’ultima, la Silvia, che è nata a Villa Verde, era tanto bella, aveva una camicina azzurra uguale alla mia camicia da notte, sembrava una bambola.

Ricordo ancora una poesia che mi recitava da piccola:

Alla mamma

La mamma è tanto brava

Cuce, stira, spazza, lava

Fa la pappa a tutti quanti

Senza lei non si va avanti

La mia mamma è tanto brava

È tanto bella

Che assomiglia ad una stella !

Quando si è sposato mio figlio Costantino, a Cadelbosco, abbiamo fatto una bella festa, c’era tanta gente, tutti i miei parenti, tutti, tutti: siamo andati a mangiare al Mulino del Tasso. Mio marito era contento per aver chiamato tanta gente, gli amici e i parenti, saremmo stati in settanta. Per l’occasione avevo acquistato un bel completo al Punto Moda, avevo la camicetta blu di seta, anche mio marito era molto elegante

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Durante il pranzo mi sono tolta la giacca, non mi avevano detto che mi avrebbero fatto una fotografia, mio marito ha la manica della camicia arrotolata, la foto è molto bella, spontanea, un bel ricordo noi due insieme, peccato che non ci siamo preparati bene, indossando le giacche, saremmo stati più eleganti.

Maria col marito al matrimonio del figlio Costantino

Anche le mie figlie hanno fatto una bella festa, quando si sono sposate, ma mio marito era morto, io non avevo i soldi per invitare tanti parenti e allora gli ho chiesto di partecipare alla

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spesa, diversamente non potevo pagare per tutti, e loro mi hanno aiutato.

Ora ho una figlia disoccupata, a causa della crisi, la Silvia, mentre l’Antonella lavora all’ospedale. L’Angela non si era mai sposata, era andata a convivere con un bravo ragazzo, Rosario, un infermiere del reparto “Diagnosi e Cura”, era buono e gentile con me.

Quando è morto mio marito, si era stancata, probabilmente il male le dava da fare e mi ha chiesto di tornare in casa mia: “Capirai se non ti prendo! Sono qui da sola, l’appartamento è grande”, e allora l’ho presa in casa. Ero contenta di avere mia figlia perché era brava, però dividevamo le spese metà per uno, sia l’affitto che la luce, la spesa, tutto, perché, lei diceva: “Non ti voglio sfruttare mamma!”. L’Angela mi portava a ballare.

Alla fine, quando l’Angela è stata male, mi hanno portato a Bagnolo, io volevo essere presente, bagnarci la bocca, ma le altre mie figlie non volevano che la vedessi, mi hanno portato dalla zia Lidia, mia sorella, ma io volevo andare da mia figlia, la volevo vedere. E’ stata l’Angela che non ha voluto che la vedessi in quelle condizioni, non sapevo che era ammalata in quel modo, me l’hanno detto solo in ultimo, io ho pianto tanto, tanto.

Pensavo che guarisse, è vero che dimagriva sempre, ma mai pensavo che non ce la facesse. E’ venuta l’Antonella e mi ha detto: “Mamma ti devo dire una cosa, l’Angela sta male, deve morire, va a morire”, “No, no, che cosa dici, non è vero, mia figlia non arriva a morire!”. Anche mia sorella ripete: “Maria,

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purtroppo lei muore”, Ero a Bagnolo stesa sul divano con mia sorella, quando è arrivata la telefonata: “Zia, l’Angela è morta”. Io volevo esserle vicino. Poi sono tornata a casa. Quando è morto mio marito l’Angela era con me. Ora sono da sola. Alle volte penso, se potessi trovare un appartamento a Bagnolo, vicino alle mie figlie, oppure un appartamento a piano terra, senza gradini, per poter uscire, ma un trasloco è impegnativo alla mia età. A me servirebbe un appartamento piccolo, senza barriere, vivo sola, questo è troppo grande, contiene troppi ricordi e non posso uscire di casa. Vorrei una casa popolare piccola vicino alle mie figlie, a Bagnolo, perché non me la danno?

(Ora Maria vive da sola in casa, circondata dai ritratti del marito, dei parenti, ma soprattutto di Angela, la sua cameretta contiene ancora i suoi oggetti: le stampe, il pupazzo del Milan, tutta la sua roba).

La vita insieme (la Federterra, l’incidente)

Quando mi sono sposata sono andata in famiglia, erano contadini, mezzadri, e di soldi non ce n’erano neanche lì. Ho avuto la prima figlia a 17 anni, dopo due anni ho avuto il secondo, alla fine ne ho avuti 5, quattro femminine e un maschio, sempre nella miseria. Nel 1980 è morto mio marito, quando sono venuta ad abitare in questo appartamento. Prima

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di venire qua sono stata custode alla Federterra,1 in via Mazzini, un’associazione a tutela dei diritti dei contadini, vi lavoravano molti impiegati e lavoravo anch’io. Lo sanno i padroni che cosa ho fatto, dove sono andata a lavorare. Parlavano bene di me perché lavoravo sodo. In via Mazzini non pagavo l’affitto, non pagavo la luce e loro mi davano 100.000 lire al mese, che allora erano soldi., però dovevo pulire 23 uffici, davo la cera, pulivo i pavimenti spolveravo le scrivanie, tutto da sola.

Ci sono rimasta 11 anni e poi sono andata in pensione, mi hanno versato i contributi, mentre mio marito lavorava alla casa di riposo come telefonista perché aveva avuto un infarto e gli avevano assegnato quel lavoro.

1 Si tratta di un’organizzazione sindacale a tutela dei lavoratori agricoli dipendenti e i piccoli proprietari terrieri, soppressa durante il fascismo, riorganizzata nel dopoguerra con il nome di Confederterra, legata alla CGIL, Maria si riferisce all’associazione utilizzando il nome conosciuto durante l’infanzia.

Ulderico al mare in un momento scherzoso

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Quando ci siamo trasferiti in questo appartamento, in affitto, mio marito era tanto contento perché eravamo usciti dal centro storico e qua l’aria era buona (all’epoca attorno al palazzo di Maria c’era ancora la campagna).

Mio marito lavorava alla Casa di Riposo ed io alla Federterra, avevamo dei bei soldini, e allora siamo venuti ad abitare in questo appartamento qui. Mio marito mi ha comperato i lampadari, l’ingresso, la sala, tutto. Prima in via Mazzini non avevamo niente. A lui è piaciuto questo appartamento.

Maledetta quella volta che siamo venuti, perché io sono rimasta qui con un brutto ricordo, sono rimasta sola, senza mia figlia e senza mio marito, che erano qui, con me. Diceva: “Sto tanto bene che ho fin paura di morire!”. È finita che ha fatto un incidente quell’uomo lì, poi dall’ospedale di Reggio lo abbiamo portato a Modena per farlo operare che era già in coma, poverino. Una sera, circa tre mesi dopo che ci siamo trasferiti, è venuto a casa e allora gli ho chiesto che cosa voleva fare, voleva cenare per poi andare al Gramsci (il Circolo Gramsci era un circolo ricreativo che si trovava in via Toschi in centro città, legato al Partito Comunista Italiano), andava sempre al Gramsci quando finiva di lavorare. Quel giorno doveva fare il turno di notte, ma un collega gli aveva dato il cambio e lui era tornato a casa; gli chiesi: ”Ulderico, si chiamava Ulderico, perché sei venuto a casa?”, “Mi ha dato il cambio Mussini, il mio amico, e allora mi prendo su e vado al Gramsci”. Allora dopo cena ha preso il motorino ed è andato al Gramsci. Contemporaneamente, in via Ettore Simonazzi, una strada vicino a casa nostra, Catellani, il giovane che abita nella terza casa, parcheggiava la propria autovettura. Mentre mio

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marito passava in motorino per via Simonazzi, ha aperto la portiera e l’ha buttato con il motorino fino a là in fondo. All’epoca non si usava il casco. Mio marito è stato subito portato all’ospedale. Eravamo venuti ad abitare qua da tre mesi, i carabinieri sono andati a cercarmi in via Mazzini, perché non avevamo ancora registrato il cambio di residenza. Da là li hanno avvisati del nostro nuovo recapito e mi sono venuti ad avvisare, verso le 11 di sera. Io mi sono spaventata, le mie figlie erano a letto, a dormire. Mi hanno avvisato che mio marito aveva avuto un incidente e si trovava all’ospedale. Ho chiamato una mia amica, si chiamava Angela, adesso è morta anche lei, le ho raccontato che cosa era successo e le ho chiesto di accompagnarmi, perché, anche se è vicino, avevo paura ad andare da sola all’ospedale, ci siamo andate a piedi. Ho preso dietro i vestiti, tutto. Quando siamo arrivate in portineria c’era il suo amico Luciano, gli ho raccontato che mio marito, Bertolini, aveva fatto un incidente e gli ho chiesto dove l’avevano portato. L’amico è rimasto dispiaciuto quando gli ho detto che aveva subito un incidente, quando ha visto che era stato portato in rianimazione mi hanno accompagnato, perché non sapevo dov’era, ma quando sono arrivata non me l’hanno lasciato vedere. C’era mia figlia che faceva l’infermiera all’ospedale di Albinea, l’Angela, l’ho chiamata, ho avvisato i miei figli che mio marito era lì, tutti i miei parenti sono venuti. Successivamente è stato portato a Modena per fare un’operazione alla testa, era in coma, non ho capito perché siamo andati fino a Modena visto che era già in coma. Lo hanno operato ma è sopravissuto una settimana. Quando è morto lo abbiamo riportato da Modena a Reggio e gli abbiamo fatto il funerale con la banda: c’erano quelli del ricovero e tutti

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gli amici di Santa Vittoria. C’era tanta gente ed io stavo tanto male. Alessandro Carri, segretario provinciale del Partito Comunista Italiano, ci ha inviato una lettera di condoglianze, che ben ricorda le qualità di mio marito (la lettera, insieme alla medaglia da Partigiano, ha un posto speciale, appesa al muro, in un quadro, in sala).

La lettera di condoglianze della Federazione Provinciale del Partito Comunista Italiano a firma del Segretario Alessandro Carri

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Avevo due figlie in casa da sposare, allora ho cercato un lavoro e sono andata a servire ancora, come ora vengono qui da me, per guadagnare qualcosa. Ero in pensione, mi potevo riposare, ma non l’ho potuto fare perché dovevo mantenere le figlie, e adesso sono qua, sono messa come sono messa anche io, con la schiena a pezzi, la cervicale, perché ho sempre lavorato.

Io e mio marito abbiamo fatto una vita di sacrifici. Abbiamo cresciuto 5 figli ed io adesso sono qui da sola, mi tocca prendere una donna per fare i lavori più pesanti perché non sono più buona. Al venerdì vengono a farmi la doccia, Io non ce la faccio da sola, c’è solo da pagare.

Sono stata ammalata, sono rimasta bloccata nella schiena per anni, con un gran male, i medici convenzionati dell’USL non mi hanno soddisfatto, sono andata dal dottor Ruini, ad una visita a pagamento, mi hanno operata nella schiena, avevo un’ernia al disco e le vertebre schiacciate, poi mi hanno trasferito ad Albinea per la riabilitazione. E’ stata lunga, ma ora sento meno male. In casa mi muovo con il girello, ma non vado fuori perché mi gira la testa. Fuori da sola non ci posso andare.

Finito l’intervento Ruini mi ha detto che per uscire dovevo essere accompagnata, di non fidarmi ad uscire da sola, se scendo a piano terra posso usare l’ascensore, ma fra l’uscita dell’ascensore e il cortile ci sono altri cinque gradini da superare, allora resto in casa, sempre in casa come una prigioniera. Al pomeriggio mi viene a trovare una mia amica, la Roberta, ci facciamo compagnia, io la faccio ridere, la faccio chiacchierare, prendiamo il caffè insieme, mi piace la compagnia. Sto bene anche da sola, perché sono abituata a

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stare da sola. La mia amica è più giovane, ci sono 10 anni di differenza, lei ha 73 anni ed io ne ho 83. Ogni tanto le mie figlie mi vengono a trovare, ma sono impegnate con il lavoro e le loro famiglie, fanno quello che possono.

Il ballo, la musica

Sono in casa sempre da sola, mi piace ascoltare la musica e allora alle 11.30 del mattino ascolto Felice su Telereggio e faccio una dedica, la musica mi fa molta compagnia e se non la sento, mi manca qualcosa.

Mio marito non era capace di ballare, lui andava sempre al Gramsci a giocare alle carte, io non ci andavo perché non mi piaceva. Lui non voleva che io andassi a ballare, era geloso, anche perché quando uscivo ero sempre bella, bene in ordine, e gli uomini mi guardavano.

Quando sono rimasta sola andavo a ballare, mi accompagnava mia figlia, oppure uscivo con amici. L’Angela mi portava a ballare e poi mi veniva a prendere. C’erano sempre delle persone che mi chiedevano da ballare, se erano brutti, non mi

Maria pronta per il ballo

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piacevano, rispondevo che mi facevano male i piedi, ma se mi invitava una persona che mi piaceva, mi alzavo subito. Una sera ho ballato il valzer con una persona e il tango con un’altra, non sono stata ferma un ballo, mi sono divertita molto.

C’è stato un periodo che andavo a ballare con un mio amico al Galileo, anche lui vedovo, in quel periodo uscivamo insieme. Quella sera il locale era pieno, c’era la gente fitta così. Un musicista, che suonava la tromba, ad un tratto mi ha detto: “Signora si fermi per piacere!”, mentre ballavo, a me e al mio amico. “Che cosa vuole?” gli chiedo, “Voglio sapere come si chiama”, “Io mi chiamo Maria Lambruschi, ma perchè vuole sapere il mio nome?”, “Perché adesso questo tango lo dedico tutto alla Maria Lambruschi.”, “Ma perché lo dedica solo a me, ci sono tante donne in sala!”, “Lo dedico a lei perché lei balla bene ed è sempre sorridente“. E allora il mio amico gli ha chiesto: “Solo a lei, a me niente?” (ride al ricordo), “Anche a lei, siete una bella coppia”.

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POSTFAZIONE

Maria mi è stata presentata da Anna, un’amica volontaria di Telefono Amico, che mi aveva parlato di una signora vivace che viveva in casa da sola e avrebbe raccontato volentieri la propria esperienza passata.

La incontro un pomeriggio, insieme alla sua amica Roberta, mentre si riposa distesa sul divano.

Si dimostra seria, ma aperta, pronta a raccontarsi, anche se fa fatica, il caldo la debilita. L’impegno nel raccontare le sue vicende passate la stanca.

Però è curiosa e felice di riascoltare la sua voce registrata, curiosa di vedere come uscirà la sua biografia ed anche se con fatica accetta gli incontri per potersi raccontare.

Maria ha voglia di parlare e raccontarsi, ma devo adeguarmi ai suoi tempi.

Ci incontriamo al mattino, perché il caldo è meno afoso, ma non possiamo interferire con la trasmissione musicale di Felice (programma di Telereggio), suo passatempo e passione da lungo tempo.

Ordinata, precisa e metodica, è disponibile verso gli altri, ma sempre con il rispetto dei suoi tempi.

Consapevole dei limiti della sua abitazione, troppo grande per lei sola, è alla ricerca di uno spazio diverso, più rispondente alle sue difficoltà, senza barriere architettoniche, e che le

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consenta di abitare più vicina ai figli, oppure a piano terra per uscire ogni tanto di casa.

Ma non si abbatte e cerca sempre, brava Maria e grazie per il tempo che mi hai dedicato.

Reggio Emilia, estate 2011 Orianna Montanari

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