77 | 2020 luglio · mensile - anno xi - luglio 2020 - poste italiane spa spedizione in a.p....

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ora pazienza poi disobbedienza MENSILE - ANNO XI - LUGLIO 2020 - POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P . D.L.353/03(CONV IN L.27/02/2004 N°46)ART.1 COMMA 1 AUT C/RM/04/2013 12 AGNELLI E SCALFARI, UNA COPPIA NEFASTA (DA SEMPRE) DE RITA SULL’ITALIA DI QUESTI MESI GIANNI TOGNONI: EPIDEMIA, SALUTE E CITTADINANZA GLI HACKER E LA TECNOCRAZIA ENZO TRAVERSO DAGLI STATI UNITI LE NUOVE LOTTE DEI NERI AMERICANI NELLA RUSSIA DI PUTIN ROLL: MANICOMIO E TERRITORIO FRANCO BASAGLIA, 40 ANNI DOPO I RAGAZZI SOTTO SEQUESTRO AGAMBEN: REQUIEM PER GLI STUDENTI PETER PAN OGGI, FAVOLACCE ALEX LANGER, 25 ANNI DOPO PICCOLA EDITORIA, COME SALVARSI? CINQUE GRANDI FOTOGRAFE: AGOSTI, BATTAGLIA, CARMI, CATALANO, RUSSO RAJA: LA TRADUZIONE COME PRATICA DELL’ACCOGLIENZA P. O. ENQUIST E L’ELOGIO DEL DUBBIO POESIE DI AWLAD AHMAD AGAMBEN | AGOSTI | AHMAD | BAMPI | BATTAGLIA | BELOTA | BETRÒ | BETTI | BOARELLI CAPUZZI | CARMI | CARNEVALE | CATALANO | CESAR | DE RITA | FERRINI | GIACCHÈ GIANOLA | IPPOLITA | LANGER | NICOLA | PICCININI | PICOZZA | PIGOZZI | PIVETTA POLLASTRELLI | RAJA | ROLL | RUSSO | TESTA | TOGNONI | VARESE | VARRÀ | VILLEGAS ISBN 978-88-6357-351-0 9 788863 573510 > 77| 2020 luglio DAL BRASILE AL MESSICO: DALLA PANDEMIA ALL’ANTIDEMOCRAZIA BELOTA, BETRÒ, CAPUZZI, CESAR, PICOZZA, VILLEGAS

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ora pazienza poi disobbedienza

MENSILE - ANNO XI - LUGLIO 2020 - POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L.353/03(CONV IN L.27/02/2004 N°46)ART.1 COMMA 1 AUT C/RM/04/2013 € 12

AGNELLI E SCALFARI,UNA COPPIA NEFASTA (DA SEMPRE)DE RITA SULL’ITALIA DI QUESTI MESI

GIANNI TOGNONI: EPIDEMIA, SALUTE E CITTADINANZA

GLI HACKER E LA TECNOCRAZIAENZO TRAVERSO DAGLI STATI UNITI

LE NUOVE LOTTE DEI NERI AMERICANINELLA RUSSIA DI PUTIN

ROLL: MANICOMIO E TERRITORIOFRANCO BASAGLIA, 40 ANNI DOPO

I RAGAZZI SOTTO SEQUESTROAGAMBEN: REQUIEM PER GLI STUDENTIPETER PAN OGGI, FAVOLACCEALEX LANGER, 25 ANNI DOPOPICCOLA EDITORIA, COME SALVARSI?CINQUE GRANDI FOTOGRAFE:AGOSTI, BATTAGLIA, CARMI, CATALANO, RUSSORAJA: LA TRADUZIONE COME PRATICA DELL’ACCOGLIENZAP. O. ENQUIST E L’ELOGIO DEL DUBBIOPOESIE DI AWLAD AHMAD

AGAMBEN | AGOSTI | AHMAD | BAMPI | BATTAGLIA | BELOTA | BETRÒ | BETTI | BOARELLICAPUZZI | CARMI | CARNEVALE | CATALANO | CESAR | DE RITA | FERRINI | GIACCHÈ GIANOLA | IPPOLITA | LANGER | NICOLA | PICCININI | PICOZZA | PIGOZZI | PIVETTA POLLASTRELLI | RAJA | ROLL | RUSSO | TESTA | TOGNONI | VARESE | VARRÀ | VILLEGAS

ISBN 978-88-6357-351-0

9 788863 573510 >

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DAL BRASILE AL MESSICO:DALLA PANDEMIA ALL’ANTIDEMOCRAZIA

BELOTA, BETRÒ, CAPUZZI, CESAR, PICOZZA, VILLEGAS

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“Ora pazienza poi disobbedienza”, il motto di questo numero, è stato scritto su un argine dell’Arno a Firenze. Aggiungiamo che, probabilmente, il momento della pazienza è già finito. Uno dei maggiori quotidiani italiani, “Repubblica”, è stato acquistato dagli Agnelli, che hanno già imposto un nuovo direttore: Rinaldo Gianola ci spiega le poste in gioco dell’in-treccio tra stampa e poteri economici. Rispetto alla crisi sa-nitaria, Giuseppe De Rita ne analizza per noi con “ira”, ma anche con la consueta lucidità, la gestione “statale”, men-tre due interviste affrontano il rapporto tra questa crisi e le nostre comunità: Gianni Tognoni, medico, intervistato da Lorenzo Betti e Mauro Boarelli, pone il tema del rapporto tra salute, sistema sanitario e territorio; il collettivo Ippolita risponde alle nostre domande sul controllo digitale e sulla necessa-ria costruzione di strumenti informatici autonomi e indipendenti, nella scuola e non solo.Nella sezione “Pianeta” dedichiamo un ampio dossier alla pandemia nelle Americhe. Lucia Capuzzi descrive l’impatto del virus sui movimenti sociali, soprattutto in America Latina, movimenti che nel 2019 avevano vissuto un momento di grande effervescenza, come ricostruisce Francesco Betrò. Dal Brasile, Juliana Belota e Janaina César, entrambe tradotte da Carla Pollastrelli, ci informano sul drammatico impatto dell’epidemia rispettivamente sulle popolazioni indigene e sugli abitanti delle favelas, nonché sulle loro sacrosante pratiche di resistenza, denunciando le politiche del governo Bolsonaro. Sul diseguale impatto della pandemia sulle popolazioni dell’America Latina ragiona an-che Fabián Villegas, nella traduzione di Fiorenza Picozza, e ancora Picozza, dal Messico, ci ricorda le difficoltà vissute dai migranti. Andando più a Nord, Francesca Nicola e Enzo Traverso riflettono sulle disuguaglianze sociali enfatizzate dalla pandemia e dalla sua gestione politica a New York e negli Stati Uniti e invitano a ripensare le forme di azione collettiva. Di Russia e del sistema di potere di Putin negli ultimi vent’anni ci parla invece Federico Varese.In “Educazione e intervento sociale” torniamo sul film Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, grazie a Giordana Piccinini ed Emilio Varrà, che accostano il film a Peter Pan e al desiderio rabbioso di non voler diventare adulti. Laura Pigozzi, da psicanalista, ci regala una preziosa analisi del corpo degli adolescenti sequestrati dal lockdown e dalla didattica a distanza. Sono passati quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia, ma i suoi insegnamenti, oggi, sono sempre più necessari. Ce lo ricordano Oreste Pivetta e, in un’intervista a Lorenzo Betti, Carmen Roll, collaboratrice di Basaglia, che af-ferma che è necessario smantellare pratiche sanitarie e istituzionali palesemente non funzionanti e lesive dei diritti di persone ammalate, per entrare nel mare aperto e creativo della sperimentazione.In “Poco di buono” Rosa Carnevale ci parla degli scatti di cinque fotografe – Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Marialba Russo – che si interrogano su cosa sia sta-ta l’identità femminile tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Seguono le poesie di Awlad Ahmad, il poeta della rivoluzione tunisina, a cura di Costanza Ferrini. Riprendiamo poi un testo di Giorgio Agamben sul destino dell’università, che ha fatto e farà discutere, mentre Piergiorgio Giacchè com-menta causticamente una delle tante adirate critiche agli interventi di Agamben. Di Marina Testa riprendiamo invece un lucido testo su cosa è necessario salvare e cosa no nel mondo dell’editoria travolto dalla crisi. Massimiliano Bampi ricorda il grande romanziere svedese Per Olov Enquist, scomparso in aprile, mentre Anita Raja riflette sul lavoro di traduzione, a partire da Christa Wolf.Ricordiamo infine Alex Langer, scomparso venticinque anni fa, il 3 luglio 1995, riproponendo un suo testo attualissimo su politica e conversione ecologica.

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Mensile · anno X · n. 77, luglio 2020viale Carlo Felice 89 – 00185 Romatel. [email protected] www.gliasinirivista.orgwww.asinoedizioni.it

Direzione: Marco Carsetti, Federica Lucchesini, Mimmo Perrottaredazione Nicola Villa con Davide Minotti e Ilaria Pittiglioe con Damiano Abeni, Fulvia Antonelli, Mirella Armiero, Livia Apa, Simona Argentieri, Maria Baiocchi, Cristina Battocletti, Mauro Boarelli, Giaco-mo Borella, Maurizio Braucci, Marisa Bulgheroni, Valentina Calderone, Michela Calledda, Vinicio Capossela, Roberta Carlotto, Franco Carnevale, Simone Caputo, Marco Carsetti, Matteo Cesaro, Domenico Chirico, Francesco Ciafaloni, Giacomo D’Alessandro, Emanuele Dattilo, Gemma de Chirico, Nicola De Cilia, Gianluca D’Errico, Enzo Ferrara, Giancarlo Gaeta, Marina Galati, Marco Gatto, Andrea Gava, Piergiorgio Giacchè, Vit-torio Giacopini, Rinaldo Gianola, Alex Giuzio, Stefano Guerriero, Sara Honegger, Grazia Honegger Fresco, Andrea Inzerillo, Stefano Laffi, Nicola Lagioia, Luca Lambertini, Franco Lorenzoni, Luigi Manconi, Pietro Marcello, Giulio Marcon, Roberta Mazzanti, Taddeo Mecozzi, Paolo Mereghet-ti, Bruno Montesano, Luigi Monti, Giuseppe Montesano, Giorgio Morbello, Emiliano Morreale, Jan Mozetic, Maria Nadotti, Fabian Negrin, Lea Nocera, mons. Raffaele Nogaro, Sara Nunzi, Fausta Orecchio, Claudio Paravati, Damiano Pergolis, Oreste Pivetta, Giacomo Pontremoli, Savino Reggente, Alberto Rocchi, Alice Rohrwacher, Nicola Ruganti, Rodolfo Sacchettini, Iacopo Scaramuzzi, Antonella Soldo, Paola Splendore, Nadia Terranova, Alessio Trabacchini, Marco Triches, Manuela Trinci, Sandro Triulzi, Emilio Varrà, Lorenzo Velotti, Stefano Velotti, Serena Vitale, Gabriele Vitello, Dario Zonta e Giovanni Zoppoli.Collaboratori: Gemma Adesso, Giorgia Alazraki, don Vinicio Albanesi, Nicola Alfiero, Anna Antonelli, Andrea Baranes, Cecilia Bartoli, Giuliano Battiston, Marcello Benfante, Stefano Benni, Ginevra Bompiani, Vando Borghi, Beatrice Borri, Giulia Bussotti, Silvia Calamandrei, Giulia Cami-nito, Rosa Carnevale, Simona Cappellini, Cecilia Cardito, Roberto Carro, Roberto Catani, Serena Chiodo, Francesco Codello, Nunzia Coppedé, Costantino Cossu, Andrea Damascelli, Dario Dell’Aquila, Gigi De Luca, Giorgio De Marchis, Carlo De Maria, Stefano De Matteis, Lorenzo Donati, Gianluca Farinelli, Nicola Galli Laforest, Guido Gattinara, Roberto Keller, Alessia Lanunziata, Giacomo Manconi, Fabiano Mari, Marcello Mari-uzzo, Emanuele Maspoli, Valerio Mastandrea, Lorenzo Mattotti, Nicola Missaglia, Niccolò de Mojana, Giorgio Morbello, Grazia Naletto, Mimmo Paladino, don Giacomo Panizza, Roberta Passoni, Lorenzo Pavolini, Andrea Petrucci, Giordana Piccinini, Fabio Piccoli, Carla Pollastrelli, Paolo Ricca, Chiara Rocca, don Achille Rossi, Maria Salvati, Matteo Schianchi, Chiara Scorzoni, Ambretta Senes, Gianluigi Simonetti, Marco Smacchia, Carola Susani, Francesco Targhetta, Simone Tonucci, Stefano Trasatti, Miguel Angel Valdivia, Giulio Vannucci, Cristina Ventrucci, Giorgio Villa, Edoardo Winspeare, Duccio Zola.Direttore responsabile: Goffredo Fofi

Progetto grafico orecchio acerboL’asino in prima pagina è di Gianluigi Toccafondo

Per informazioni: [email protected] collabora su invito della redazione, i manoscritti non vengono restituiti.L’editore rimane disponibile ad assolvere i propri impegni nei confronti dei titolari di eventuali diritti.

Abbonamento solo digitale (pdf, epub, mobi) € 39Abbonamento Italia cartaceo + digitale € 79Abbonamento estero Europa cartaceo + digitale € 159Abbonamento estero resto del mondo cartaceo+ digitale € 199Iban IT 30 A 05018 03200 000011361177 intestato ad Asino srl, causale: abbonamento annuale rivista gli asini. Conto corrente postale 001003698923. Carta di credito sul sito http://www.asinoedizioni.it/abbonamenti Paypal [email protected] oppure paypal.me/EdizioniAsino Abbonamen-to settimanale (1,5 euro a settimana con Paypal) http://www.asinoedizioni.it/products-page/abbonamenti/abbonamento-settimanale/ Abbonamen-to mensile (6,6 euro al mese con Paypal) http://www.asinoedizioni.it/products-page/abbonamenti/abbonamento-mensile/ Scarica il modulo per addebito diretto Sepa e paga a rate il tuo abbonamento http://www.asinoedizioni.it/wp-content/uploads/Mandato-per-addebito-diretto-SEPA.pdf

Stampa Digitalia Lab, via Giacomo Peroni 130, 00131 Roma. Finito di stampare nel mese di giugno 2020.Registrazione presso il Tribunale di Roma 126/2012 del 3/5/2012.

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IN CASA 5 Il padrone è in redazione di Rinaldo Gianola 7 “Lento all’ira”. L’italia nei giorni del coronavirus di Giuseppe De Rita 11 Epidemia, salute e cittadinanza di Gianni Tognoni, intervista di Lorenzo Betti e Mauro Boarelli17 Pedagogia hacker, trasgredire la norma tecnocratica di Ippolita, incontro con Gli asini

PIANETA22 America Latina: il virus contro i movimenti sociali di Lucia Capuzzi24 Il 2019 del semi-continente di Francesco Betrò29 Dalla pandemia all’antidemocrazia di Juliana Belota36 Bolsonaro, le favelas, l’epidemia di Janaina César39 La crisi della civiltà o la fine della normalità di Fabián Villegas42 In Messico, sani e malati di Fiorenza Picozza46 Quando l’America si prende un raffreddore, i neri si prendono l’influenza di Francesca Nicola52 Dagli Usa. Pensieri domestici per i tempi a venire di Enzo Traverso55 Nella Russia di Putin di Federico Varese

EDUCAZIONE E INTERVENTO SOCIALE59 Favolacce: Peter Pan sceglie di non starci di Giordana Piccinini ed Emilio Varrà62 I ragazzi sotto sequestro di Laura Pigozzi 66 Franco Basaglia, 40 anni dopo di Oreste Pivetta69 Istituzioni e de-istituzioni. Tra manicomi, territorio e promozione della salute di C. Roll, intervista di L. Betti

POCO DI BUONO75 Soggetti nomadi. Donne che guardano le donne di Rosa Carnevale80 La farfalla e altre poesie di Awlad Ahmad, a cura di Costanza Ferrini82 Requiem per gli studenti di Giorgio Agamben83 Vai avanti, cretino! di Piergiorgio Giacchè85 Editoria: come salvarsi? di Martina Testa87 Per Olov Enquist e l’elogio del dubbio di Massimiliano Bampi89 La traduzione come pratica dell’accoglienza di Anita Raja94 A proposito di Giona di Alex Langer

Le fotografie in questo numero sono di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano,Marialba Russo e sono tratte da Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografeitaliane. 1965-1985 (Nero 2020), catalogo della mostra Soggetto nomade. Identità femminile attraversogli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985 che si è tenuta presso Centro per l’arte contemporaneaLuigi Pecci dal 14 dicembre 2018 all’8 marzo 2019, a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini.

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proprietario o azionista in qualche giornale e ave-re un posto nel consiglio di amministrazione di una banca.Non cambia nulla. John Elkann, nipote di Gianni Agnelli che lo vedeva come il predestina-to a guidare gli affari di casa, ha usato lo stile rude dei vecchi padroni per entrare alla “Repubblica”, che i figli di De Benedetti gli hanno ceduto per un pugno di milioni assieme alla “Stampa”, una dozzina di giornali locali, stazioni radio e una concessionaria di pubblicità. Ha licenziato in tronco il direttore Carlo Verdelli, minacciato dai fascisti, e lo ha sostituito con Maurizio Molinari, un giornalista che politicamente potrebbe stare sull’asse Trump-Bolsonaro. Non c’è stata nessu-na rivolta, non ci sono state masse di giornalisti capaci di ergersi a difesa del “giornalismo di ‘Re-pubblica’”. Il vecchio fondatore Eugenio Scalfari ha creduto alla promessa di Molinari che il suo giornale resterà liberal-socialista. La redazione si è adeguata, un erede Agnelli vale la dinastia De Benedetti. Qualcuno ha lasciato. Gad Lerner, al quale vogliamo bene, si è concesso al “Fatto”, giornale espressione delle pulsioni del qualun-quismo di destra oggi declinato dai grillini, che starebbe bene accanto al “Borghese” di un tem-po. Se uno pubblica ogni tanto un’intervista a Landini non si trasforma automaticamente in un baluardo progressista.

Il padrone è tornato in redazione, ma per la verità c’è sempre stato. L’editoria, l’informazione, il giornalismo sono ormai da molto tempo in dif-ficoltà economica, di vendite, di credibilità, per non parlare del progressivo smarrimento di un si-mulacro di etica, di una vocazione alla trasparenza e alla difesa di un pluralismo informativo che do-vrebbe essere, comunque, un elemento fondativo della nostra malmessa democrazia. I giornali sono in crisi, il giornalismo ancora di più, ma non per questo il grande capitale ha rinunciato a possede-re e a usare il potere dei media, tradizionali o mo-derni, stampati o digitali, per difendere i propri interessi, spesso indecenti. È la storia di questo Paese, non si scappa, nes-suno si illuda invocando autonomia e indipen-denza come se fossero in vendita al supermer-cato. I padroni passano, ricattano e comprano redazioni, tipografie e coscienze con il denaro, i privilegi, le marchette, le carriere. Cefis, Mattei, Sindona, Calvi, Pesenti, Crespi, Rizzoli, Monda-dori, Agnelli, Pirelli, Cuccia, Gardini, Berlusconi, Caltagirone… tutti quanti, galantuomini o ma-scalzoni ma anche le Curie locali, eccome!, hanno combattuto battaglie furibonde per conquistare giornali, gruppi editoriali, tv, pubblicità perché così si esercitava, si esercita, il potere. In passato un gruppo industriale o finanziario di qualche peso e ambizione doveva essere presente come

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IL PADRONE È IN REDAZIONEDI RINALDO GIANOLA

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così li definiva Valletta, dei “tribunali di fabbrica”, formati dai dirigenti e dai sorveglianti degli sta-bilimenti Mirafiori, Lingotto, Grandi motori che giudicavano i lavoratori che avevano osato par-tecipare agli scioperi, oppure si erano presentati come “scrutatore o candidato” della Fiom-Cgil alle elezioni delle Commissioni interne. Così la Fiat costruiva le relazioni industriali negli anni della Guerra fredda. Poi i tempi sono cambiati, un po’ di democrazia e qualche diritto hanno var-cato la soglia della fabbrica, ma la Fiat ha sempre mantenuto una sua originalità. Ricordiamo le schedature degli operai, l’inchiesta di Torino, le denunce esemplari di Bianca Guidetti Serra. Del 2014, cioè l’altro ieri, è la sentenza della Cassazio-ne che condanna la Fiat di Sergio Marchionne per aver discriminato gli operai iscritti alla Fiom nelle riassunzioni alla Fabbrica Italia Pomigliano. I giornali hanno sempre fatto comodo al capitale. Però non bisogna disperare. Anche di fronte a uno scenario così desolante si può trovare nei giornali e nel giornalismo, che resta un mestiere bellissi-mo, la forza per costruire qualche cosa di diverso e positivo. Non si può più pensare a quei giornali malati di gigantismo, con redazioni devastate dal conformismo che sono la causa della loro crisi. Si può puntare su un lavoro di pochi fatto per quelli che ci stanno, minoranze che non si arrendono, con giornalisti capaci di ritrovare l’umiltà di stu-diare, di raccontare il Paese, di cercare compagni di strada leali. E che hanno la voglia e la forza di spaccare qualche cristalleria.

Per “Repubblica” è finita una stagione. Il quo-tidiano alla moda, un po’ di sinistra, palestra di intellettuali e giornalisti progressisti, autorefe-renziali, libertini, radicali, finti comunisti, lotta-continuisti, tutti diventati élite, capaci di sfidare l’impossibile e come scrisse Ezio Mauro, l’altro direttore insieme al fondatore Scalfari ad avere la stoffa per resistere vent’anni, di scovare inedi-te “radici comuni” con la razza padrona torinese, sparisce. Per il mondo di “Repubblica” è una tra-gedia. Il nipote dell’Avvocato come editore, Mo-linari come direttore: non c’è niente di peggio. Il nuovo direttore, dopo aver assunto una candida-ta alle elezioni del Pdl come corrispondente da Israele, ha subito schierato il giornale a difesa del prestito “innovativo” di sei miliardi alla Fca ga-rantito dallo Stato.Nella difesa scomposta del suo editore il diretto-re della “Stampa” Massimo Giannini è riuscito a scrivere che negli anni Cinquanta a Torino “il Pci e la Fiat costruivano la trama delle relazioni industriali del Paese”. Siamo a questo punto, sen-za vergogna. Giannini ha dimenticato libri come Gli anni duri alla Fiat di Emilio Pugno e Sergio Garavini (Einaudi 1974), le indagini parlamenta-ri, il lavoro di ricercatori, avvocati, giornalisti. Gli anni Cinquanta alla Fiat sono quelli dei reparti confino, dell’Officina sussidiaria ricambi (so-prannominata Officina stella rossa) dove erano rinchiusi gli operai comunisti, iscritti alla Fiom-Cgil, con “l’Unità” in tasca. Sono gli anni dei licenziamenti di massa degli operai “distruttori”,

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i meccanismi strutturali e procedurali con cui abbiamo cercato di supplire all’imprepara-zione a fronteggiare l’emergenza, articolando l’analisi su quattro grandi ambiti di responsa-bilità chiamati in causa dall’epidemia.

2) Il primo ambito di responsabilità è quello del potere politico statuale. È quello che si è mosso per primo e più pesantemente, sia con la pubblica dichiarazione dell’emergenza sia, subito dopo, con la chiusura di ogni mobilità su tutto il territorio nazionale.Onore al merito si potrebbe dire, se questa presa di responsabilità della politica non si fosse poi evoluta, più o meno volontariamen-te, in una verticalizzazione decisionale e una concentrazione statuale degli interventi via via attuati. Certo è ampiamente noto che, in ogni periodo di pesante crisi, è fatale lo slit-tamento in alto del potere di decidere rapi-damente. È avvenuto più volte nella storia e non possiamo sorprenderci che sia avvenuto anche in Italia nei mesi scorsi.Ma la verticalizzazione decisionale ha via via assunto venature e poi caratteristiche che potremmo chiamare di “statalizzazione” del fronteggiamento dell’emergenza: tutto è stato ricondotto alla macchina statale, sia che si parli della tradizionale macchina della pubblica amministrazione (si pensi al peso di ministeri importanti come quello della Sanità o quello dell’Interno); sia che si parli di orga-nizzazioni di interventi specializzati (la Pro-tezione civile e l’Istituto superiore di sanità); sia che si parli di strutture più o meno tem-poranee di supporto tecnico (i Commissari e le task force).

Nel versetto biblico il termine “lento all’i-ra” è accoppiato al “ricco di misericordia”. Il testo che segue rende conto soprattutto del primo termine, essendo alimentato da un continuato sconcerto per la gestione della travolgente crisi sanitaria degli ultimi mesi; ma è cosa buona e giusta fare mente e racco-glimento sulla misericordia che ha alitato sul-le centinaia e centinaia di persone che hanno perso vita, speranze e affetti per fronteggiare la pandemia con le loro specifiche professio-nalità e con la loro tensione al bene collettivo e alla coesione sociale.

1) Il sistema sociale italiano ha subìto, con l’epidemia da Coronavirus, un enorme scosso-ne, cui era pressoché totalmente impreparato. Una impreparazione che era forse inevitabile, visto che nella storia tutte le epidemie sono arrivate inaspettate e devastanti e considerato che quella che ci ha colpito a febbraio aveva preso le mosse da realtà geografiche lontane; il che ci consentiva di sentirle socialmente estranee. Al momento mediaticamente culminante, quello in cui il Governo ha dichiarato lo Sta-to di emergenza, il clima si è subito infiam-mato e scompensato, con un impressivo “av-viso di pericolo” per tutti i soggetti sociali e istituzionali, carico di una drammatizzazione che, non compensata da una chiara strategia di contrasto, ha finito per accentuare paure indistinte, confusi comportamenti, fatalmen-te sfociati in una ulteriore impreparazione di sistema.Non è male quindi richiamare, come stessi-mo facendo un collettivo esame di coscienza,

“LENTO ALL’IRA”. L’ITALIA NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

DI GIUSEPPE DE RITA

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la politica anticrisi era compattamente nazio-nale, con relativa compatta responsabilità del potere statale.Questa duplice compattezza ha messo in un canto la necessità di capire quel che avveni-va nelle diverse realtà locali, nell’evoluzione delle diverse forme di contagio, nella stessa coscienza collettiva. Non basta assistere a una conferenza stampa televisiva a orario fisso per far avere contezza di quel che succede nel vici-nato geografico in cui si vive (un vicinato cer-to diverso fra Lombardia e Basilicata). Senza raffronti fra le diverse situazioni locali e le di-verse logiche d’intervento. Abbiamo solo col-tivato contestazioni politiche fra Stato e re-gioni segnate, peraltro, da una crescente dose di autoreferenzialità. Così quell’articolazione ad arcipelago che si è voluta evitare all’inizio della crisi ritorna in azione (e sempre più lo sarà in previsione di future “aperture”) nelle forme più disordinate, cioè in decisioni isola-te, “a macchia di leopardo”, conseguenti alle contingenze politiche e congiunti nervosismi personali. Il protagonismo politico “romano” si consuma in tanti protagonismi locali, quasi a ricordare che in una società ad arcipelago, ogni politica deve darsi un’adeguata articola-zione territoriale.

4) Una riflessione non dissimile va fatta per la fenomenologia dei processi di comunica-zione (quelli formali come quelli di relazione sociale).L’impressione immediata al riguardo è che la pandemia attuale sia stata considerata un grande evento e come tale vada trattata e comunicata, attraverso tutti i terrori che ha comportato; le strumentalizzazioni particola-ristiche che ha innestato; tutta la assuefazione collettiva che i grandi eventi comportano.L’evento è scattato, con la sua grande carica di drammaticità, con la dichiarazione del-lo stato di emergenza che ha radicalmente cambiato la psicologia collettiva, e con la chiusura di ogni attività, che ha cambiato i comportamenti di tutti noi; due decisioni

Tutta la gestione dell’informazione sulla fe-nomenologia sanitaria e del coordinamento degli interventi è stata praticamente stata-lizzata, quasi che non vi siano altri soggetti da associare al darsi cura dell’emergenza. Si è arrivati a statalizzare anche il flusso delle be-neficenze private, se si nota la pressione anche mediatica a incanalare le loro offerte verso la struttura pubblica della Protezione civile.In più, e non è cosa marginale, lo Stato è ar-rivato a regolare con durezza molte delicate sfere di comportamento, individuale e collet-tivo, deviando da una tradizione di non in-tromissione nella sfera privata che durava da molti decenni. Forse lo stesso Conte Benso di Cavour, che unificò l’informità disordina-ta dell’Italia di allora, non avrebbe osato tan-to, pur avendo a disposizione, al bisogno, le truppe sabaude.

3) Questa quasi psichica coazione alla vertica-lizzazione statalista (che ritroveremo in opera dopo la crisi epidemica) ha avuto un suo rile-vante peso nella particolare strategia di con-centrazione territoriale con cui si è affrontata l’emergenza. È a tutti noto che l’Italia è una nazione a forti differenziazioni territoriali: noi Censis già ne-gli anni Ottanta parlavamo di Italia “a pelle di leopardo” e poi, più seriosamente, di una “Italia-arcipelago”. E in effetti, chiunque ab-bia girato il Paese sa quante e quali differenze ci sono da una regione all’altra, da una pro-vincia all’altra, da una piccola località all’al-tra. Ma si può oggi facilmente constatare che di questa nostra particolare caratteristica non si è tenuto conto affrontando la crisi da Co-ronavirus. La concentrazione statalista delle decisioni ha portato a una politica uniforme per tutto il territorio nazionale, lasciando solo spazio a qualche giuoco delle parti fra Stato e alcune Regioni. Il momento più im-pressivo di questa politica “uguale per tutti” (la chiusura totale di ogni attività economica e il confinamento casalingo di ogni indivi-duo) è stata allora la vidimazione ufficiale che

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male. Una fase cioè in cui la comunicazione unilaterale centro/periferia non ha più molto senso per l’opinione collettiva; e in cui tor-nano a contare i processi comunicativi quasi informali e privati (le decisioni delle azien-de e la dialettica con il loro personale); o addirittura la comunicazione di prossimità (il passaparola fra operatori economici e fra cittadini). Ma è probabile che nel prossimo futuro sconteremo, anche in “fase 2”, la citata vocazione all’accentramento dei processi de-cisionali e di comunicazione collettiva.

5) Il “vizio” di attribuire responsabilità e po-tere al potere statuale, vizio accentrato nel fronteggiamento dell’epidemia di questi mesi, non è un vizio nuovo, visto che un po’ di statalismo c’è sempre stato nella storia ita-liana, da quella risorgimentale a quella fasci-sta a quella dell’immediato dopoguerra, con la ricorrente motivazione che solo lo Stato ha legittimità e risorse per intervenire su una emergenza nazionale. Per qualche decennio, dal 1960 al 2000, lo sviluppo italiano è stato frutto della vitalità di soggetti diversi e molteplici, operanti nel sommerso, nelle piccole aziende, nel turi-smo a imprenditorialità diffusa, nella saga delle filiere a forte potenza internazionale, nel terziario avanzato (finanza, tecnologia, consulenza); con una sorta di equilibrio fra responsabilità pubblica e iniziativa privata. Ma con la crisi di metà del decennio 2010, è tornata la propensione a contare sul sostegno della finanza pubblica, passando però dallo stimolo a sostenere le capacità di iniziativa personale alla sovvenzione dei singoli cittadi-ni, indipendentemente dalla loro collocazio-ne sociale, con una proliferazione di bonus individualizzati che, peraltro, era anche fun-zionale all’opinione politica della disinterme-diazione. A macchia di leopardo si è quindi affermata una filosofia della “sovvenzione ad personam”.Ed è su tale filosofia che si è aggrappata la politica italiana di fronte all’arrivo della

che, più o meno volontariamente, hanno di fatto messo in moto una comunicazione “dal centro alla periferia”, “dallo Stato ai cittadi-ni”, una comunicazione oggettivamente uni-laterale: le informazioni spicciole e generali venivano messe a disposizione da una fonte centrale (la quotidiana conferenza stampa); le informazioni più tecniche venivano elabora-te dal Comitato tecnico scientifico operante nell’ambito della Protezione civile; le discus-sioni sugli aspetti sanitari via via emergenti avvenivano quasi sempre fra i componenti del Comitato stesso. Anche lì dove sembrava esserci una possibilità di input diversi (talk show, interviste televisivi e giornalistiche, ec-cetera) finiva per uscire vincente solo la cul-tura più istituzionalmente consolidata, quella dei virologi; il passaggio verso l’esterno dei dati statistici era sempre diretto e semplifica-to (numero dei contagiati, ricoverati, guariti, deceduti) per essere processato da studiosi e centri di ricerca esterni; il modo con cui si trattavano i dati aveva più carica emozionale che interpretativa (pochi tentativi compara-tivi fra le diverse regioni, pochi tentativi di stilare “curve” dell’evoluzione dei fenomeni, eccetera); e soprattutto è stato limitatissimo lo spazio dato all’Istat, ma solo come strut-tura di trattamento dei dati, e non come “au-thority” indipendente nel controllo della loro qualità e dei termini della loro circolazione pubblica.La pandemia ha di conseguenza trovato un impressionante vuoto di “comunicazione pubblica”, un vuoto a malapena coperto da saltuari episodi di enfatiche dichiarazioni governative, in cui hanno fatto supplenza il variegato mondo dei social (più opinioni che informazioni, naturalmente) e le pagine e i supplementi locali dei grandi quotidiani (in alcuni casi per qualche pignolo disperato os-servatore, anche l’elaborazione dei necrologi quotidiani).Per fortuna, alle più drammatiche settimane, si vanno sostituendo settimane più distese, quasi di attesa per un ritorno alla vita nor-

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Il pericolo naturale che sta sotto una tale evo-luzione è che tutti insieme (governo e popo-lo) si sottovaluti il fatto che la potenza del nostro sistema (così come l’abbiamo costruita nei decenni passati) non sta nella visione e nel governo di un solo soggetto (politico o statuale che sia), ma sta nella molteplicità e nella vitalità dei soggetti sociali, dei milioni di imprese e famiglie che “sfangano la vita nel lavoro quotidiano”. Ed è la ricchezza di que-sto modello che va salvaguardata, prima che la forzata inerzia dei comportamenti indivi-duali e collettivi imposta dalla pandemia, crei una pericolosa scivolata all’apatia collettiva. Ove succedesse, non basterà fuggire in avanti, verso ipotesi e traguardi che verranno, come qualcuno comincia a descrivere e proporre.

pandemia, allo scombussolamento del si-stema economico, alla paura diffusa per il futuro, agli appelli a non accrescere le dise-guaglianze; e all’imperativo del “non lascia-re indietro nessuno”. E giorno dopo giorno, sembra anzi che essa stia diventando la cifra complessiva dell’azione pubblica, ormai vota-ta a ragionare e operare in climi drammatici.La “statalizzazione” dell’epidemia e del suo fronteggiamento sta rischiando di diventare una “statalizzazione di un’economia sussidiata”. Si favoleggia di manovre plurimiliardarie “mai viste prima”, ma a guardarci dentro, dominano in esse gli strumenti di sovvenzio-ni personalizzate (bonus e assegni) che non mettono neppure conto di fare elenchi esem-plificativi. E per non abbattersi troppo, prati-camente in silenzio, si apre (o riapre) una po-litica economica in cui il soggetto dominante è l’intervento pubblico.

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in evidenza le cose che sono note, le cose non note e le cose incerte. Potrebbe aiutare molto una comunicazione più trasparente e vicina ai cittadini, pensandoli non come destinatari muti, ma come soggetti centrali nella gestione di quello che sta succedendo. Questo dialo-go in Italia sicuramente non si è verificato, e attualmente le varie task force comunicano in maniera frammentata. Questo non è un pro-blema nuovo nella sanità italiana, che non è mai stata un prodigio di comunicazione. La crisi può solo peggiorare i problemi. L’unica discussione passa attraverso i talk show. Un vi-rologo può dire una cosa in una trasmissione e un altro un’altra cosa, un epidemiologo può dire una cosa e un altro un’altra cosa ancora, e a questo punto il senso di coordinamento a livello centrale non esiste. Questo si moltiplica a livello regionale non riuscendo a dare un’idea di come si sta sviluppando tutto ciò che può riguardare effettivamente i dati relativi alla sa-lute. È una constatazione più che una riflessio-ne. Non c’è una dialettica tra le informazioni, e queste possono creare ansia.

Nel 1976 lei lavorò al “disastro di Seveso” [l’inci-dente alla fabbrica Icmesa che provocò la fuoriu-scita di diossina e causò gravi problemi sanitari e ambientali]. Si tratta di una emergenza sani-taria di carattere molto diverso, però da quella esperienza si può trarre qualche informazione su come è cambiato dagli anni Settanta a oggi il rapporto tra gli esperti e i decisori politici.La situazione era molto diversa, era molto lo-cale, c’era una partecipazione della commissio-ne regionale che era una commissione ristretta che discuteva in maniera molto sistematica e

Gianni Tognoni è un medico, esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. È stato di-rettore scientifico del Centro di ricerche farma-cologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud. È Segretario generale del Tribunale permanente dei popoli. Tra le sue numerose pub-blicazioni ricordiamo, per la relazione con i temi affrontati nell’intervista, il volume curato insie-me a Massimo Campedelli e Vito Lepore, Epi-demiologia di cittadinanza. Welfare, salute, diritti (Il pensiero scientifico editore 2010).

In un suo intervento recente, si è chiesto come mai un problema di salute pubblica sia stato trasformato in uno scenario di protezione civi-le. Questa è una osservazione importante che ha diversi presupposti e molte implicazioni. Tra i presupposti c’è un rapporto che nel tempo è ve-nuto cambiando tra la scienza e la politica, tra gli esperti e la politica, tra la medicina e la poli-tica. Le istituzioni si circondano di esperti, basti pensare all’istituzione di task force praticamente in ogni settore, ma ci sembra che questa sia una relazione opaca che produce una informazione poco chiara nei confronti dei cittadini e direttive contraddittorie.Da tre mesi ci troviamo in una situazione svi-luppata attraverso un sistema di comunicazio-ne estremamente carente, come – ad esempio – i bollettini giornalieri pubblicati dalla Pro-tezione civile. Non ho niente contro la Prote-zione civile, ma i suoi dati vengono divulgati con un linguaggio centrato sui numeri: morti, decessi, contagiati. Non è stata mai pianifica-ta una regolare informazione che permetta di seguire quello che si sta sviluppando nei di-versi luoghi d’Italia in modo tale da mettere

EPIDEMIA, SALUTE E CITTADINANZADI GIANNI TOGNONI

INTERVISTA DI LORENZO BETTI E MAURO BOARELLI

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Sarebbe importante farlo. Il problema è che c’è una profonda dissociazione a livello locale, nel senso che – almeno dal punto di vista del-la situazione particolare – dovrebbero essere le regioni ad attivare dei piani informativi mirati alle condizioni specifiche, anche in accordo con i grandi comuni che però non hanno mai fat-to parte di questa campagna di informazione. Il sindaco Sala, a Milano, interviene quando vede che c’è un po’ di gente sui Navigli, ma per tutto quello che riguarda le case di riposo (ora in mano al tribunale) non si è espresso. Quello che può succedere a livello locale nelle diverse aziende sanitarie di cui si è dotata la regione Lombardia è lasciato praticamente al caso. Le altre regioni, per ciò che vedo, non prendono iniziative per fare un’informazione specifica. Io faccio parte di in un gruppo che cerca di com-parare i dati reali tra le diverse regioni, e tra que-sti dati molto spesso non c’è concordanza. Con tutta la buona volontà del ministro Speranza, che è l’unico che compare ogni tanto per parla-re in questo senso, non c’è un’idea effettiva per un coordinamento propositivo tra le diverse re-gioni. Oltre a dire che se compaiono nuovi fo-colai bisogna intensificare la sorveglianza, non c’è nient’altro e non vedo in questo momento qualcuno che sia in grado di prendere le redini. Anche perché ci si scontra sulle competenze: cosa può fare la Protezione civile rispetto alla sanità? Chi dovrebbe prendere la decisione per un coordinamento delle varie regioni? Il caso degli appalti sulla distribuzione di mascherine e sui tamponi è emblematico.

Nel dibattito pubblico, in questi mesi, la paura è stata cavalcata sia dal sistema politico sia dai mezzi di informazione. Secondo lei un utilizzo così forte delle retoriche legate alla produzione di paura è stato generato coscientemente? Questo è servito anche per ostacolare quel tipo di informa-zione in grado di generare quella maggiore parte-cipazione e consapevolezza nella cittadinanza di cui lei ha sottolineato l’importanza?Senz’altro il tema della paura è stato troppo centrale. Dire “guardate che c’è una situazione

c’erano delle regole sulla comunicazione da fornire a tutta la comunità. Si preferiva una comunicazione diretta e importante con la comunità per creare effettivamente una par-tecipazione. Le informazioni da dare erano all’inizio molto precarie, ma sono diventate più specifiche abbastanza rapidamente, perché riguardavano contaminazioni causate da una sostanza che noi eravamo riusciti a misurare. Inoltre c’era una fonte unica di informazione, non c’erano altri gruppi intorno che dicevano altre cose.Per quel che riguarda quello che sta succeden-do oggi, penso che sia esploso il rapporto che era già precario tra regioni e governo centrale, anche perché le regioni hanno preso rapida-mente delle posizioni che erano più dettate da situazioni politiche locali che non da una concordia o da un dibattito su come gestire l’emergenza anche a livello comunicativo, tra-sformandosi in fonte di confusione più che di informazione. I tamponi disponibili e non di-sponibili, il numero dei contagiati, il ruolo dei medici di base: tutti questi pezzi di un puzzle che doveva essere ben coordinato hanno fini-to per rimanere sparsi. Anche in Lombardia, dove si è verificata la situazione più pesante dal punto di vista delle vittime, la discussione è rimasta concentrata per parecchio tempo sul problema sulla disponibilità di letti in ospe-dale e in terapia intensiva. Ma anche quando via via la situazione si modificava non c’è stato alcun coinvolgimento reale dei medici di base. Nessuno di loro è stato formato e informato per comunicare con le persone che erano a casa e sono rimaste sostanzialmente affidate alla casualità dell’informazione.

Prima diceva che nel caso di Seveso, con tutte le differenze, c’è stato un coinvolgimento della po-polazione. Su una scala molto più grande sarebbe possibile attivare un coinvolgimento? È pratica-bile un modello di coinvolgimento, di responsabi-lizzazione, che vada oltre il messaggio moralistico e paternalistico che è passato in questi mesi di emergenza?

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situazione attuale non si vede nessun piano in questa direzione. L’unico esempio di una con-tinuità informativa, almeno a Milano, è stato Radio Popolare, che aveva dei punti di riferi-mento precisi con cui dialogare, come Vittorio Agnoletto. Fare di questo un modello per tan-te altre situazioni locali non doveva essere una cosa così difficile, si trattava soltanto di indivi-duare qualcuno che garantisca un dialogo, ma se non c’è un piano non si va avanti.

Questo non è solo un problema tecnico: la carenza informativa rispecchia anche una visione politi-ca. Il tema centrale è quello della cittadinanza. Attraverso il meccanismo di chiusura generaliz-zata, i cittadini si sono trovati a eseguire degli ordini, non necessariamente a comprenderli e condividerli. Il richiamo alla responsabilità in-dividuale poggia sul piano moralistico senza dare strumenti ai cittadini di comprendere e agire at-traverso una responsabilità collettiva e sociale.Tutti hanno detto “deve cambiare il rapporto tra la cittadinanza”, “il sistema sanitario na-zionale è troppo nelle mani dei privati”, ma la questione non è soltanto sulla privatizzazione, è anche e soprattutto la trasformazione della sanità in un luogo di erogazione di prestazio-ni. Non si è mai ragionato effettivamente in un’ottica di partecipazione. Da parte delle au-torità, regionali o centrali, non c’è stato assolu-tamente un segnale per iniziare a ragionare sul cambiamento di questa logica che ha struttu-rato un sistema sanitario lontano dalla gente. Ogni decreto nuovo è basato su raccoman-dazioni, molto moralismo, “fidatevi e faremo qualcosa”. Il che cosa non è mai venuto fuori. Questo non ha niente a che fare con il proble-ma sanitario, è un problema politico che dice che al di là di tante raccomandazioni non si vuole cambiare nulla. Non si vede un punto di confluenza in cui le tante organizzazioni del-la società civile che intervengono sulla salute si possano ritrovare per confrontarsi sul loro contributo fondamentale, per esempio nel ga-rantire continuità assistenziale tra medici di base e persone che stanno in casa. Soprattutto

nella quale ci sono poche cose che possiamo fare nell’impotenza che abbiamo” è un inizio, ed è quello che è stato fatto, poi però non si è fatto nient’altro. Si dice “chiudetevi in casa”, ma non si può proibire tutto senza spiegare il perché. Ci sono delle cose che in qualche modo si poteva decidere diversamente, ad esempio la chiusura dei bambini nelle case. Identificare la casa come un luogo sempre sicuro è problema-tico. Se gli spazi non sono adeguati l’infezione si condivide e c’è maggiore contagio. La map-pa del contagio fatta a Milano fa vedere molto chiaramente che è più frequente nei quartieri più affollati o più poveri ed era una cosa che si poteva immaginare. Le case, evidentemente, non sono luogo sicuro se uno va e viene. Le case non avevano assistenza e questa doveva essere programmata. Anche le comunicazioni a livello di quartiere o comunque locali sono state attivate in maniera ristretta. In Cina e Sud Corea c’erano delle informazioni che ve-nivano date anche a livello periferico per dare l’idea che la misura non era solo “state chiusi e zitti”. Non si è fatto nessun passo in questa di-rezione, nemmeno per prendere decisioni per alcune popolazioni più a rischio, quelle psi-chiatriche, gli anziani soli. Adesso per fortuna, e speriamo che duri, il numero dei contagi sta diminuendo e ancor di più quello dei morti, ma di piani effettivi per modificare le organiz-zazioni locali di comunicazione non se ne son fatti, anzi.In certe aziende sanitarie il personale che la-vorava sul territorio è stato ulteriormente spo-stato negli ospedali. In Lombardia, da ciò che si può vedere, c’è gente che non ha nemme-no lontanamente in testa cos’è un problema di salute pubblica, e queste cose non si inven-tano. D’altra parte, nella commissione della Lombardia sono presenti i medici primari de-gli ospedali, ci sono solo un epidemiologo e un’infermiera, mentre al contrario tutto il per-sonale di assistenza dovrebbe essere coinvolto in maniera importante e non soltanto nelle terapie intensive e di emergenza (dove hanno fatto miracoli). Ma anche nella gestione della

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tale da sapere come tracciare le persone non soltanto con le app, ma anche attraverso i me-dici di base con un piano preciso. Se qualcosa accadrà, accadrà a livello locale e bisogna met-tere le realtà locali in una situazione che non riproduca soltanto emergenze ma che sia ef-fettivamente di contenimento comunitario. Le situazioni devono essere mirate alla specificità locali degli eventuali nuovi focolai. Ma non c’è un solo disegno, che io sappia, che dia fin da ora l’idea di chi è responsabile di garantire a li-vello locale questo coordinamento. Il sindaco? Le aziende sanitarie?Hanno propagandato molto l’indagine sul campione rappresentativo della cittadinanza per analizzare la diffusione del virus. Bene, il problema però è che non garantiamo, con rare eccezioni locali, le risorse per farvi fronte, legate alla medicina di base e al tracciamento, e questo provoca insicurezza e paura e si traduce nella percezione diffusa di abbandono istituzionale.

Lei ha dedicato molto spazio nella sua attività al concetto di “epidemiologia di cittadinanza”, un concetto che assume ancora maggiore importanza alla luce di quello che sta succedendo. Che cosa intende con questa definizione?L’epidemiologia è la capacità di una popola-zione di essere effettivamente informata e par-tecipe nella gestione di un problema di salute tenendo conto non soltanto del problema in sé, ma anche delle sue cause e delle possibi-li risposte. Lo sviluppo di un’epidemiologia comunitaria lo abbiamo messo in pratica in paesi dell’America Latina e dell’Africa dove non ci sono molte risorse mediche, per cui la comunità diventa il soggetto principale e fon-damentale. Per esempio, qual è la mortalità infantile di un territorio dell’Amazzonia ecua-doriana? In quel caso erano le donne del vil-laggio a diventare epidemiologhe, cioè quelle che raccoglievano i dati, le cause, le storie delle persone in modo tale che il piano d’interven-to per quell’area particolare venisse gestito da un gruppo di promotori di salute che nei loro territori ogni mese si confrontavano. A livello

non c’è mai stato un segnale politico che di-cesse “dobbiamo lavorare per una sanità di cit-tadinanza”. Da molto tempo non abbiamo un piano sanitario, i ministeri della sanità hanno agito solo per risolvere problemi specifici.

L’abbandono della sanità pubblica disegnata con la riforma del 1978 ha accomunato governi di centrodestra e centrosinistra.Il problema politico è trasversale. Il sistema sanitario ha rivelato con questa crisi tutto il di-sastro che si era consumato progressivamente, con la partecipazione di tutte le grandi regio-ni. Rispetto al degrado di questo sistema sa-nitario, componente importante del disastro epidemiologico, tutti hanno detto “bisogna fare cose diverse”. Ma è impressionante vedere che passano i giorni e le settimane e i mesi e il “cosa bisogna fare” non viene fuori. Almeno sarebbe importante ridefinire i luoghi di piani-ficazione per identificare priorità locali, mirate al territorio. Non si possono fare le stesse rac-comandazioni a province e città coinvolte in maniera talmente diversa in termini di dram-maticità dei loro problemi. Se ci sono territori in cui non c’è una effettiva emergenza, quelli sono i territori in cui bisogna far vedere come può funzionare un sistema che segue le per-sone dalle loro case. Le app sono una presa in giro, non servono a molto. Si è spostato il di-scorso per andare a trovare il nuovo gadget che miracolosamente dovrebbe sostituire la parte-cipazione delle persone.

Quello che lei dice, oltre al problema politico generale, ha dei riflessi sulla pandemia in atto. Ci sembra di capire che in assenza di politiche sanitarie territoriali e legate alle persone, l’allen-tamento delle misure restrittive potrebbe portare a una ripresa della pandemia per la quale non si hanno strumenti adeguati, se non la scelta di tor-nare di nuovo a forme restrittive indiscriminate. Ci sbagliamo?No no, assolutamente. Una cosa certa è che la riattivazione dei focolai dovrebbe comportare un monitoraggio a livello locale, in maniera

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una serie di combinazioni più o meno intelli-genti o fortuite sono state attivate misure spe-cifiche per quel territorio. Quelle misure non sono riproducibili in altre realtà. Il concetto dal quale partire è dare alle comunità locali la possibilità di esprimersi mettendo al centro la continuità ospedale-territorio. Diventa più facile se possiamo vedere la mappa di un ter-ritorio e avere chiaro dove ci sono più malati cronici, che sono quelli più a rischio in caso di contagio, andando così a diminuire le ospeda-lizzazioni. Muovendosi su questo piano si vede quali sono le risorse umane presenti e quelle eventualmente da attivare. La comunità deve essere informata del fatto che ci sono dei ser-vizi, ma deve sperimentare che questi servizi funzionano, è così che la fiducia può torna-re. Questo non accade da un giorno all’altro, bisogna riprendere un cammino. La legge che ha fondato il Servizio sanitario nazionale nel 1978 è nata da un lungo cammino fatto prima, tra i lavoratori e nella psichiatria soprattutto. Poi tutto si è svuotato, perché – a partire de-gli anni Novanta – la logica principale è stata quella aziendale, la sanità è diventata princi-palmente un’azienda concentrandosi solo sul-le prestazioni. L’unico indicatore è quello dei conti, tutto il resto è scomparso. Bisognerebbe lavorare su una sanità che metta in evidenza i bisogni e ne faccia partecipe la comunità. Non è una cosa così difficile, è un esercizio minimo di cittadinanza che potrebbe dare tanti risulta-ti avvicinando un’istituzione che diventerebbe più coerente con le proprie promesse.

Questo modello di decentramento comunitario di cui parla è completamente differente dal disegno di autonomia regionale differenziata per la quale Veneto, Lombardia e Emilia stanno spingendo.Certo! In Veneto, come in Toscana, ci sono delle soluzioni interessanti, ma bisogna vede-re come si usa effettivamente l’autonomia re-gionale. In Lombardia siamo arrivati al punto che non c’erano i soldi per comprare tamponi perché i soldi erano stati spesi, con l’approva-zione del consiglio regionale, per incentivare i

locale, per esempio, nell’area meno comunita-ria che ci possa essere – immaginiamo Mila-no o un’altra grande città – dove il problema principale è la cronicità, si dice: “Guardate che la cronicità non è un problema degli ospedali, ma è un problema che si vive nelle case e che si può affrontare solo attraverso la medicina del territorio”. Questo significa che il primo passo dell’epidemiologia comunitaria è rendere nota la situazione di un territorio. Non basta dire: c’è questo numero di malati cronici. Occorre avere un’idea per ogni territorio e analizzare i dati che sono già disponibili. È possibile vede-re quartiere per quartiere, area per area, quanti sono i pazienti anziani che hanno dei proble-mi cronici, quanti sono quelli che hanno con-dizioni di povertà e di solitudine, in maniera tale che si possa avere un piano specifico per quel territorio. Se io ho tanti pazienti anziani che hanno bisogno di una sorveglianza nella loro vita casalinga, devo avere un gruppo di infermieri disponibili ad andarli a trovare, a te-lefonargli, a essere effettivamente l’espressione della sanità per quel territorio. L’epidemiolo-gia comunitaria mette in evidenza le cause dei problemi di salute e lavora anche con le perso-ne per capire come modificare le situazioni che creano questi problemi. Questo era lo spirito alla fondazione del Servizio sanitario naziona-le nel 1978 con cui sono state create le Unità sanitarie locali, che dovevano creare strategie mirate ai bisogni specifici delle popolazioni a seconda delle caratteristiche del loro territorio.

In continuità con queste riflessioni, la pande-mia sta mettendo in luce che le azioni legate al lavoro territoriale sulla salute e al rapporto con la cittadinanza anche in un’ottica di credibilità istituzionale (vedi il caso del Veneto) sono state le uniche risposte efficaci nella gestione di questa emergenza sanitaria e sociale. Condivide questa visione? Vede la possibilità di rimettere al cen-tro del sistema sanitario il lavoro sul territorio e quello della medicina di base?Io sono d’accordo e paradossalmente non sa-rebbe così difficile. Avete citato il Veneto. Per

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li che si interessano di questi marginali. I biso-gni inevasi sono collegati alle condizioni socio-economiche, ma se la pianificazione sanitaria è fatta strettamente da sanitari e nelle situazioni di emergenza la gestione passa alla Protezione civile, si riproduce un modello che non può reggere. Dobbiamo mettere insieme le compe-tenze e le risorse intellettuali perché se, come è noto, la causa principale delle malattie è la condizione socioeconomica o di isolamento, è inutile che ci concentriamo solo sui servizi sanitari. Dobbiamo trovare delle risposte che individuino le cause socioeconomiche e cultu-rali che portano alla malattia e al suo peggio-ramento. Questo è un lavoro che si può e si dovrebbe fare. Sarebbe un segno molto impor-tante per il futuro dopo la Covid-19. Io cerco di dirlo in giro come lo sto dicendo a voi, ma trovare degli interlocutori politici non è facile.

responsabili dei laboratori che erano stati bravi a risparmiare sui loro costi. A questo punto è chiaro che c’è una perversione totale dell’a-zienda sanitaria, che sposta l’attenzione dalla salute dei cittadini a questioni finanziarie. Chi è bravo a gestire i budget è premiato, e a que-sto punto non si mettono da parte fondi per i bisogni inevasi, che invece sono tanti. La psi-chiatria in Italia, per esempio, è stata smantel-lata proprio in quest’ottica.Tutte le regioni hanno le statistiche dei cittadi-ni poveri, delle persone sole, dei malati croni-ci, tutti gli indicatori sono disponibili. Con il Forum diseguaglianza e diversità diciamo che la disuguaglianza è oggi la vera pandemia da affrontare, stiamo cercando di documentare e rendere visibile questa disuguaglianza. Dob-biamo mettere al centro questa popolazione trasversale e dobbiamo fare un piano con quel-

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I giornali ci dicono 500mila download, ma non lo sappiamo con sicurezza, perché no-nostante Immuni sia stata descritta come una misura importante per la nostra salute – la cui percentuale d’uso è discriminante per la sua ef-ficacia – Apple non rende noto il numero dei download. Dimostrazione che non c’è alcuna negoziazione in corso tra multinazionali e Sta-to, perché nonostante Covid-19 sia una pande-mia globale non sussistono i rapporti di forza nemmeno per sedersi a un tavolo di trattative.L’applicazione sullo smartphone (che deve essere rigorosamente di ultima generazione, pena l’incompatibilità) viene usata come sur-rogato simbolico della cura e sfrutta il desi-derio dei cittadini di entrare in un circuito di assistenza dal quale si sono sentiti abbandona-ti. Lo stesso nome, “immuni”, di fronte alle migliaia di morti avute nella nostra regione, la Lombardia, risulta di cattivo gusto e rivela l’atteggiamento fideistico con il quale siamo chiamati a rivolgerci alla tecnologia.

In un vostro contributo avete giustamente notato che serve a poco tracciare i malati se poi non si investe in un sistema sanitario pubblico che possa curarli. Più in generale, quali problemi queste App di tracciamento della mobilità pongono alla privacy e alla tenuta stessa della democrazia?Non è un problema di privacy. O meglio, nell’attuale scenario parlare di privacy comin-cia a non essere più significativo. La parola pri-vacy ha una sua storia stratificata che prevede l’interazione tra esseri umani, ma cosa succede quando l’interazione è prevalentemente tra

Questi mesi di distanziamento sociale han-no reso evidenti e aggravato molte delle contrad-dizioni relative alle grandi corporation del web e all’uso e agli effetti delle tecnologie digitali nelle nostre esistenze quotidiane, su cui voi ave-te scritto in maniera molto lucida negli ultimi anni. Un primo tema su cui vi chiediamo un commento riguarda il ruolo politico, economi-co, sociale, che hanno giocato e stanno giocando corporation come Amazon, Google, Microsoft, Facebook, Apple, nel periodo del distanziamento sociale e nella gestione sanitaria e sociale della pandemia.Mentre scriviamo i quotidiani ci dicono che circa 500mila persone hanno scaricato la app Immuni. Interessante notare che a distribuire questa app non sia un sito del Governo che ha finanziato l’operazione, ma gli store di Apple e Google, che sono società private con un fat-turato che supera il Pil di molti stati nazione e che hanno delle regole interne spesso in con-flitto con quelle delle democrazie occidentali presso le quali nella maggior parte dei casi non pagano le tasse.Apple e Google, due Big tech, collaborano per la prima volta imponendo delle scelte di decentralizzazione privata sulla distribuzione di un software di Stato dedicato alla salute pubblica. Cosa diranno di ciò i fedayn della decentralizzazione? Per noi questa è la dimo-strazione che la decentralizzazione di per sé non è un valore, cioè non è una garanzia di orizzontalità democratica e si sposa benissimo con il liberismo senza regole delle corporation tecnologiche.

PEDAGOGIA HACKERTRASGREDIRE LA NORMA TECNOCRATICA

DI IPPOLITA

INCONTRO CON GLI ASINI

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che modo sono utili per potenziare la nostra autonomia? Ecco, non sono utili affatto. E il prezzo da pagare per il loro uso è sempre meno sostenibile.

Un tema che agli Asini sta molto a cuore è quello della scuola e, quindi, ora, della didattica a di-stanza. Le domande urgenti che si pongono a chi lavora dentro la scuola pubblica riguardano le possibilità politiche e culturali che abbiamo per pensare assieme le scelte sui software.Ci pare evidente che non esistano gli spazi di dibattito pubblico per discutere cosa vuol dire scegliere google o altro come piattaforma d’istitu-to. La maggioranza di chi lavora o frequenta la scuola non ha il linguaggio né il punto di vista per valutare il senso di una scelta. Dire che la forma di quelle piattaforme determina la forma degli scambi e notare che è necessario sapere come è gestito il flusso di informazioni e dati che ci mettiamo sembrano ideologismi.Le poche e i pochi che sono in grado di esprimere questa prospettiva finiscono, nel dibattito scola-stico, per ammettere che alternative funzionali, piattaforme che permettano di fare didattica in classe virtuale, a software libero, non esistono o se esistono funzionano peggio. Gli si dice che nes-suno è in grado di mettere mano in modo coope-rativo a quei prodotti migliorandoli e che sono tutte utopie. Abbiamo scoperto che non avevamo una vera cultura digitale nelle scuole e tra poco scopriremo che non esiste nessun discorso civile e politico nella scuola e attorno alla scuola riguar-do la natura dei mezzi digitali.Settembre è già qui, collegi docenti di analfabeti digitali voteranno quale piattaforma d’istituto usare e il gioco sarà fatto. Esistono antidoti? Si può pensare a un movimento di rivendicazioni nei confronti della scuola, dell’università, del ministero, per non delegare la didattica a piat-taforme private proprietà di grandi corporation oligopolistiche? Non tutti possono essere hacker o smanettoni ma ciò significa che siamo tutti passivi? Dove è la via per una alfabetizzazione politica e culturale al digitale? È già troppo tardi?

esseri umani e megamacchine? Ovviamente gli attori umani non scompaiono dalla scena ma non possiamo nasconderci il fatto che una stessa informazione sia registrata su più server e che di fatto coinvolga un’intera filiera di in-frastrutture tecnologiche non cambi, di molto, i pesi. Per questo ridurre tutto a un problema di privacy finisce per essere un po’ fuorvian-te. Come abbiamo detto altrove, l’app può anche funzionare benissimo tecnicamente e rispettare tutti i parametri necessari, ma resta problematica perché suggerisce l’idea che uno strumento possa prescindere dall’organizzazio-ne sociale, in questo caso dalla sanità pubblica e dalla sua presenza territoriale. La democrazia non è solo un insieme di norme e procedure, ma una relazione dinamica tra forze e sogget-tività, il problema è che questo spazio relazio-nale si sta progressivamente restringendo, e sempre di più al posto dei vecchi mediatori ci sono tecno-procedure “gamificate”. Molto ci sarebbe da dire su questo aspetto ma ci por-terebbe molto lontano dal tema di cui stiamo parlando.

La privacy è diventata una parola d’ordine che, all’apparenza, tutela i cittadini attraverso di-sposizioni legislative sempre più complesse. Le grandi imprese della tecnologia digitale sono (al-meno sulla carta) in linea con quanto disposto dal regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. Questo aspetto rende evidente che pri-vacy e libertà non sono sinonimi, non coincidono necessariamente. Quali sono le principali debo-lezze delle normative sulla privacy applicate alla tecnologia digitale?Di quali normative stiamo parlando? Del Gdpr? Se sì allora va detto che il problema non è questa normativa – che di fatto per la prima volta introduce il tema e costringe chiunque abbia un sito web a interrogarsi sull’uso dei dati dei suoi utenti. Per il resto, e sulla scia di Ca-storiadis, preferiamo parlare di autonomia più che di libertà perché ci sembra indicare meglio il nocciolo della questione. Allora la doman-da diventa: queste tecnologie commerciali in

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hacker italiana ha più volte preso posizione in questo senso e per esempio il collettivo Autisti-ci/inventati, ha una gestione dei dati di chi ac-cede ai loro servizi che risulta ancora sorpren-dentemente radicale e potente se rapportata al fatto che quelle policy sono state sviluppate più di vent’anni fa. Non tutti gli operatori del mondo del digitale hanno questa consapevo-lezza. Iniziare a collaborare con quella parte della comunità hacker che ha saputo costruire un pensiero etico e politico potrà portare a una nuova fase, volta alla creazione di autonomia dai dispositivi panottici sui quali il capitalismo del controllo ha costruito il proprio asse por-tante negli ultimi quindici anni.Creare una sinergia fra pedagogia e hacking consentirà di costruire una comunità educan-te a partire da esigenze e gesti che sono ormai all’ordine del giorno di tutte e tutti. Sarà terre-no fertile per sviluppare riflessione, distribuire ricchezza, scambiare competenze; pedagogia e hacking hanno molto in comune e possono arricchirsi tanto a vicenda, è davvero arrivato il momento.Anche l’hacking ha da imparare dalla pedago-gia radicale. Digitalizzare la scuola fino a pri-ma della pandemia significava introdurre tool pseudo-avanguardistici come la lavagna digita-le o il registro elettronico, ma questo approccio strumentale è estremamente superficiale. Pen-sare l’individuo e la collettività in rete è una sfida per molti di noi e abbiamo bisogno di chi ha già posto tante domande e trovato formule antiautoritarie, decoloniali, antisessiste e queer alla formazione dell’individuo e dell’individuo nella collettività.Per affrontare meglio la questione della didat-tica a distanza stiamo pensando a una Scuola estiva su pedagogia critica e tecnologie digitali, dove provare a condividere i saperi tra discipli-ne diverse per vedere se è possibile meticciare le pratiche. Ovviamente speriamo possa avere un approccio “blended” (parola che ci stanno ripe-tendo a sfinimento i dirigenti nei luoghi in cui lavoriamo), che significa alternare, ove possibi-le, la parte in remoto con quelle in presenza.

Se si vuole uscire da queste logiche non ci sono scorciatoie: occorre imparare a autogestire gli strumenti. Che non significa semplicemen-te scegliere le applicazioni più economiche o gratuite né diventare tutte e tutti ingegneri informatici.Occorre immaginare, con la complicità di chi ha le competenze tecniche, delle infrastruttu-re comuni a partire per esempio dalla scuola e farsi delle domande come: “che tipo di dati dobbiamo conservare e quali invece sono su-perflui? Chi può accedere alla nostra rete e come?”. Anche in un’ottica ecologica e anche con l’aiuto delle persone studenti perché l’e-sperienza democratica è appunto un’esperienza di complessità dove la componente etica e tec-nica si parlano in uno spazio politico.La pedagogia ha sviluppato antidoti solidi alla riduzione della formazione a mera erogazione di contenuti. La battaglia da compiere è pro-prio quella di non ridurre la scuola a logisti-ca. L’antidoto sarà di nuovo politico, nessuno strumento ci salverà come fosse una bacchetta magica.Certo ci sono alcuni problemi materiali di cui la scuola pubblica dovrà farsi carico, per non lasciare indietro nessuno. Mettere quindi a di-sposizione l’hardware e la connettività laddove sarà necessario è una priorità, ma il problema non può essere ridotto solo a una questione di accesso.Le alternative su software libero esistono e sono efficaci. Moodle è una di queste, per le videoconferenze Jitsi è una valida alternativa e diversi server in Italia hanno implementato il servizio a scopi educativi come ad esempio il Garr. Ma anche qui non sarà uno strumento a salvarci.La questione da affrontare sarà quella dell’au-tonomia della scuola per tutelare i dati di stu-denti e docenti. Appoggiarsi a piattaforme libere e open source implica che le scuole inizi-no a costituire server autonomi in cui tenere le banche dati, ma anche capire quale sia il porta-to e la responsabilità di gestire i dati di una co-munità di persone. La comunità politica degli

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di unitario e sensato. Entrare nello specifico meriterebbe un’intervista a parte. Qui vale la pena di ricordare che il videogioco è certamen-te intrattenimento e socialità, ma è anche un prodotto culturale a tutti gli effetti – e così an-drebbe trattato. Purtroppo questo aspetto cor-re sempre il rischio di essere sottovalutato forse perché buona parte di chi detiene il monopo-lio dell’informazione mediatica non è in grado di comprendere il fenomeno, con il risultato di propagandare spesso una visione distorta dei videogiochi. D’altra parte, il fatto che esista-no videogiochi cooperativi e multiplayer non significa necessariamente che siano luoghi safe o eticamente predisposti, a volte possono es-sere ambiti di crescita dell’alt-right o dar vita a situazioni estremamente competitive e che implicano investimenti economici consistenti. Altre volte invece, a seconda dei contesti e del-le piattaforme, si possono sviluppare comunità più inclusive.Come ci ricorda Marta Palvarini, game desi-gner e autrice di Fuori dal Dungeon. Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale (Aste-risco edizioni 2020), con cui collaboriamo: “il problema qui non è l’alt-right o infiltrazioni varie, ma il sistema alla radice di questi giochi, che si costruiscono come perfetti strumenti ca-pitalistici, con trainer a pagamento per salire a livelli più altri (‘rankare’), vendita di oggetti-stica virtuale per i personaggi, pagata con soldi veri, e la ricerca spasmodica della ‘vittoria fina-le’, che porta a una vera forma di dipendenza non dissimile al gioco d’azzardo in alcuni casi”.

Più in generale, che spazi di azione abbiamo a livello politico? Siamo tra due distopie: quella del controllo totale del digitale e dei dati da parte dello stato (modello cinese) e quella delle poche enormi corporation private che usano i dati a fini di profitto (modello occidentale). Quale è la pos-sibile via per i movimenti di cui facciamo parte, e per la tenuta della democrazia?Per capire quale spazio di azione possiamo ave-re è bene comprendere che le due distopie che citi sono la stessa cosa, dal punto di vista della

Ma miscelare naturalmente non basta, occorre saper gestire tempi e ritmi della lezione, che on line sono molto più faticosi, avere una persona che gestisca l’aula virtuale con la sua particolare cornice logistico-relazionale aiuta enormemen-te. La docenza deve poter essere libera dalle in-combenze emotive e tecniche del contesto per concentrarsi sulla propria voce.A ottobre di quest’anno uscirà il volume Inse-gnare a trasgredire di bell hooks per la nostra collana di libri dedicata alle culture radicali edita da Meltemi. Portare in Italia il lavoro pe-dagogico e politico della hooks rappresenta un passo decisivo per confrontarci con le giovani generazioni non bianche che affolleranno le nostre aule scolastiche.Per noi insegnare a trasgredire significa in par-ticolare insegnare a mettere in discussione la norma tecnologica, spogliarla della retorica progressista e delle sue promesse di ricchezza condivisa.Dietro al falso egualitarismo delle piattaforme si nasconde una profonda discriminazione di classe le cui implicazioni cognitive dobbiamo ancora pienamente comprendere, il compito di chi è chiamato a insegnare cultura digitale è anche quello di far emergere il conflitto sopito dai dispositivi.

La scuola non sono solo gli insegnanti, sono so-prattutto le ragazze e i ragazzi. Esistono luoghi e modi in cui gente dai 12 o 15 anni in su possa iniziare a pensare e capire? Magari partendo dai videogame: il lascito del virus tra i giovanissimi sembra essere un incremento di uso – se non del-la dipendenza – dei videogiochi. Esistono ancora quelli cooperativi che modificano e costruiscono progressivamente comunità mondiali di gamers? Quella potrebbe essere una porta?Non siamo convinti che la porta debba essere necessariamente quella dei videogame. Il ga-ming non è più un fenomeno generazionale, non riguarda più solo i più giovani. Alcune fasce d’età sono più coinvolte di altre, ma in generale questo scenario è talmente variegato e composito che risulta difficile dire qualcosa

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Mi fido del controllo perché non mi fido dei miei pari. E quindi mi deresponsabilizzo. Sia-mo di fronte all’ennesima forma di delega: se accetto il controllo perdo la mia capacità di agire responsabilmente costruendo relazioni. Ancor più nel suo subdolo insinuarsi nella nostra emotività seguendo il solito ritornello securitario. L’etica emerge da pratiche condi-vise, non c’è niente di condiviso e co-costruito nella delega agli strumenti di controllo, che sia politico, commerciale, eccetera. Ed è per que-sto che le tecnologie digitali vanno considerate come veri e propri soggetti con cui entriamo in relazione. Proviamo a conoscerle, a capire come si relazionano a noi e quanto sono dispo-ste a cambiare per riequilibrare la relazione. Se le immaginiamo come dei soggetti incarnati forse questo esercizio risulta più semplice e fa emergere davvero l’importanza della relazione.

delega sociale e tecnocratica. Ci sembrano di-verse perché sono differenti i regimi politici; in entrambi opera però la medesima forma di potere tecnico. La ragione strumentale che di-spone le infrastrutture tecnologiche è la stessa. Inquadrandolo così, il problema acquista mag-giore chiarezza.

Voi sostenete che non esistono tecnologie di control-lo che possano essere anche etiche, che l’etica non può essere incorporata in alcuna tecnologia, ma solo nelle relazioni e nell’esperienza. Dobbiamo quindi rassegnarci a una tecnologia-non-etica? Oppure è immaginabile una tecnologia che nasca dalle relazioni e sia quindi più prossima alle co-munità e ai loro bisogni, che sia “conviviale” nel senso che Ivan Illich ha dato a questa parola?È il controllo in sé a non essere etico, perché esclude qualsiasi forma di rapporto di fiducia.

I travestiti, la Gilda, 1965-1967 @

LisettaCarm

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Alcune hanno messo all’angolo premier e dittatori, costringendoli all’addio. Altre hanno stracciato leggi e affossato Costitu-zioni. Altre ancora sono state stroncate dalla dura reazione dei governi o si sono risolte in un nulla di fatto. Le piazze sono state le protagoniste assolute del 2019 mondia-le, con rivolte di massa in quindici Paesi di quattro Continenti. Poi, con l’incalzare del 2020, è arrivato il Coronavirus. E ha fatto in un paio di settimane ciò che i governi con-testati avevano fallito per mesi. L’epidemia ha spazzato via le manifestazioni dagli spazi urbani nel modo più radicale: ha confina-to i protagonisti all’interno delle case. Sono scomparsi i cortei. O almeno così sembra. I dati dell’Armed conflict location & event data project (Acled) – uno dei più attenti osservatori del conflitto sociale globale – ri-velano, però, un panorama più complesso. Il “picco” della protesta è coinciso con le pri-me fasi della pandemia, all’inizio di marzo. Quando l’emisfero australe rientrava in pie-na attività dopo la pausa estiva. Dall’Iran al Cile, dal Libano a Hong Kong, alle ragioni originarie della rivolta s’è sommato lo scon-tento per la gestione dell’emergenza. Poi,

la forza delle dimostrazioni è calata di pari passo alla crescita del contagio. Il 14 marzo, a Parigi, si è svolto l’ultimo raduno dei Gilet gialli, tre giorni prima che il presidente Em-manuel Macron decretasse la quarantena. Due giorni dopo, in Libano, la dichiarazio-ne dello stato di emergenza ha stroncato nel giro di 24 ore la “zaura”, l’ampio fermento rivendicativo in atto da ottobre. Il 20 mar-zo, il movimento algerino Hirak – protago-nista della lotta anti-Boutefika – ha deciso una “tregua sanitaria” dopo 56 venerdì di protesta ininterrotti. Sette giorni dopo, i manifestanti cileni hanno salutato la piaz-za Italia di Santiago, ribattezzata “Plaza de la dignidad” e scelta come bastione dell’in-surrezione in corso dal 18 ottobre. A Hong Kong, la necessità di contenere il contagio ha fatto saltare il mega evento organizzato per il 3 aprile, anniversario della legge sull’e-stradizione, detonatore della rivolta contro Pechino. E il 19 aprile, quest’ultima ha ap-profittato dell’emergenza per mettere in cel-la i protagonisti della rivolta.La variegata rivoluzione anti-establishment è stata davvero sconfitta dal più impreve-dibile degli avversari possibili? A giudicare

AMERICA LATINA: IL VIRUSCONTRO I MOVIMENTI SOCIALI

DI LUCIA CAPUZZI

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dall’agitazione che pervade le reti sociali, monitorata con rigore da Acled, la rispo-sta sembra negativa. Nell’impossibilità di concentrarsi fisicamente, gli attivisti hanno traslocato sul web. Da grande aggregatore e amplificatore, quest’ultimo s’è trasformato in generatore di emergenza della protesta. Almeno in attesa del ritorno in piazza che, a partire da maggio, pian piano, inizia a veri-ficarsi in tutto il mondo. Come dimostrano i fermenti in Francia, Libano e Cile. E, nei prossimi mesi, l’intensità potreb-be essere ben maggiore rispetto al 2019. Non solo i nodi che hanno generato l’in-surrezione – crescita della diseguaglianza e corruzione – sono rimasti irrisolti. I danni collaterali all’economia internazionale ri-schiano di renderli ancora più intricati. Se l’impatto riguarda l’intero globo, sul Sud del pianeta il contraccolpo si profila tragico. Tra marzo e aprile, dai mercati emergenti sono fuggiti cento miliardi di dollari di capita-li. Il virus ha già tagliato le entrate di due miliardi di esseri umani che sopravvivono alla giornata e ora sono costretti a casa dalla quarantena. Il crollo del prezzo del petro-lio ha inferto un colpo durissimo ai Paesi produttori, dall’Iran al Venezuela. Caracas è letteralmente in ginocchio. La tensione sale vertiginosamente dal 16 marzo, quando il presidente, Nicolás Maduro ha dichiara-to la quarantena per arginare il contagio da Covid-19 subito dopo la scoperta del primo caso. Da allora, secondo i dati dell’Observa-torio sobre la conflictividad social, le mani-festazioni sono esplose, al ritmo di 19 al gior-no. Solo nelle prime tre settimane di aprile, sono state 507. L’insurrezione e il massacro di 46 prigionieri nel carcere di Los Llanos, lo scorso 2 maggio, ha chiuso, simbolicamente, l’anno della riscossa di Maduro. In cui, dopo il maldestro e fallito golpe di Juan Guaidó di dodici mesi prima, il presidente era ri-uscito ad avviare una fragile ripresa dell’e-conomia, grazie alla sospensione – di fatto, senza modifiche legislative – dei controlli sui

dollari e all’abolizione dei prezzi imposti. La Covid-19 ha stroncato la ripresa sul nascere, mettendo alle corde Maduro. In Ecuador, il presidente Lenín Moreno, ha appena varato un piano di durissima auste-rità per far fronte alla crisi post-pandemia. Il rischio di reinnescare la protesta di ottobre è alto. E molti altri Paesi potrebbero seguire la medesima strada, cedendo alla tentazione dei tagli selvaggi. L’esatto contrario di quan-to occorre al mondo post-Covid. Nell’inte-resse anche dei governanti. Se la politica non riuscirà a governare il caos e a impedire che il peso maggiore della crisi continui a ricade-re sui più fragili, la “fase 2” della rivoluzione globale si profila imminente. Ed esplosiva.

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Dopo anni in cui si è parlato poco di Ame-rica latina, il 2019 ha riportato la regione pre-potentemente al centro del dibattito inter-nazionale. Le proteste in Ecuador e Cile, il colpo di stato portato a termine in Bolivia o lo scioglimento del Parlamento peruviano sono solo alcuni degli argomenti che hanno tenuto banco sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Ognuno di questi, pur avendo una sua specificità, può essere inserito nel percorso intrapreso dalla regione con l’apertura forzata di quelle che Eduardo Galeano chiamerebbe le vene dell’America latina. Per poter analizzare i recenti accadimenti, occorre chiarire alcuni aspetti fondamentali.

L’America latina non è un concetto geograficoSpesso ci si riferisce ai territori al di sotto del Messico utilizzando il termine America latina come sinonimo di America del Sud. Il concet-to di America latina, però, ha ben poco a che vedere con la geografia, anche se per molti Pa-esi i due termini sopracitati si sovrappongono. Esso si riferisce alla storia politica e culturale della regione. Con America latina si identifica-no tutti quei territori passati sotto il dominio delle Corone di Spagna e Portogallo a parti-re dalla conquista (non scoperta) iniziata con Cristoforo Colombo e protrattasi fino ai mo-vimenti indipendentisti di inizio XIX secolo, e oltre. Se non è possibile negare le differenze che intercorrevano tra le varie aree della regio-ne, aver condiviso oltre trecento anni di storia ha inevitabilmente portato a un principio di unità. Nonostante l’unità politica fosse difficilmen-te realizzabile vista l’estensione del territorio,

IL 2019 DEL SEMI-CONTINENTE

DI FRANCESCO BETRÒ

è importante sottolineare il tentativo da parte dei reggenti delle due Corone di promuovere il sentimento di appartenenza a un unico impe-ro e a un unico sovrano. Accanto alla ricercata unità politica, la dominazione latina ha lascia-to in eredità alla regione non solo una lingua, ma anche una religione comune. I territori pagani erano infatti considerati terrae nullius e, di conseguenza, a disposizione dello Sta-to pontificio per essere evangelizzate. Il papa Alessandro VI, aragonese, cedette i territori appena conquistati ai sovrani spagnoli attra-verso le due bolle Inter Caetera del 1493. Con il successivo Trattato di Tordesillas del 1494, le Corone di Spagna e Portogallo si divisero i ter-ritori latinoamericani sulla base della raya, il meridiano posto 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde. Tutti questi aspetti hanno contribuito a crea-re un sistema di valori comuni che ha portato la popolazione a continuare a percepirsi come una comunità immaginata, nell’accezione data da Benedict Anderson. Percezione che è sopravvissuta anche dopo l’avvento della Ri-voluzione francese e, quindi, del liberalismo e della secolarizzazione. Se in Europa questo evento portò alla rottura della società organi-ca di ispirazione divina, in America latina il richiamo rimane ancora forte, contribuendo a rendere questi territori molto fertili per il fiorire dei populismi. Stando alla definizione di Loris Zanatta, infatti, i populismi altro non sono che nostalgia di questo organicismo, di unità del popolo, in contrapposizione alla seg-mentazione della società liberale.Le ripercussioni di questa nostalgia sono visi-bili nella presenza, all’interno dei governi po-

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Spesso, però, le cose cambiano nel tempo. Per-ché? Certo, chi propone un’agenda politica di questo tipo non può andare a genio ai ricchi proprietari terrieri o a chi promuove un’econo-mia liberista a tutti i costi – leggasi Stati Uni-ti, ma anche Banca mondiale e Fmi. Tuttavia, non si può attribuire solo al nemico esterno (geograficamente e ideologicamente) la crisi in cui finiscono per imbattersi i populismi di sinistra. Innanzitutto, l’incorruttibilità di cui si fanno portavoce questi governi spesso non corrisponde alla realtà. Se si leggono i dati del Corruption perceptions index (Cpi), il grado di corruzione percepito dalla popolazione dei Paesi come Bolivia e Ve-nezuela non è diminuito. In Venezuela, dopo un calo iniziale quando Chávez è salito al po-tere, la percezione che il sistema fosse corrotto è tendenzialmente cresciuta.Nel caso di Evo Morales la popolazione ha cominciato a percepire un aumento della cor-ruzione a partire dal 2016. In questa occasio-ne Morales perse il referendum con il quale proponeva una modifica alla Costituzione, da lui stesso promossa nel 2009, per potersi ricandidare. Nel 2017, dopo che il presidente ha sollevato una questione di costituzionalità sul vincolo dei mandati, il Tribunale costitu-zionale plurinazionale li ha eliminati: l’anno successivo si è registrato il picco negativo nella percezione della corruzione. Anche in Vene-zuela si era passati da una Costituzione con limite di mandati a una senza, ma in questo caso era bastato il voto positivo dei cittadini al referendum per estendere il limite dei man-dati. Non si vuole obiettare sulla possibilità di ricandidarsi – dal punto di vista europeo sarebbe ipocrita farlo, specie se guardiamo ai quattro governi consecutivi di Angela Merkel in Germania –, ma sulla forzatura istituzionale (e costituzionale) a cui inevitabilmente si ar-riva. E questo non può che incidere negativa-mente sul sostegno popolare.Inoltre, le nazionalizzazioni delle imprese sta-tali hanno portato sì all’esclusione di attori privati, ma con l’inserimento al loro posto di

pulisti, di un sistema corporativo che ha preso le distanze dalla democrazia liberale pur convi-vendo con le sue istituzioni.Dove il populismo ha attecchito, i governi hanno basato il proprio ordine su corporazio-ni come sindacati (pensiamo al caso di Perón), forze armate (da cui, peraltro, provengono la maggior parte dei leader populisti), ma an-che sulla forza delle istituzioni religiose e della Chiesa (si guardi al comunitarismo venezue-lano o all’evangelismo brasiliano). Il sistema corporativo non esclude comunque il sostegno popolare che, in molti casi, è stato confermato non solo con enormi manifestazioni popolari, ma anche durante libere elezioni. Come accennato in precedenza, però, se un principio di unità permane nell’immaginario latinoamericano, non si può comunque nega-re la specificità di ogni Paese e di ogni mo-mento storico. È dunque evidente che alcuni Stati abbiano assorbito in modo più profondo i principi liberali a causa di ragioni storiche, geopolitiche ed economiche. Tra questi spicca il Cile, Paese che dalla dittatura pinochettista in poi si è legato al liberalismo fino a farne un mantra, da destra a sinistra, con le conseguen-ze di cui parleremo più avanti. Se i governi populisti sono entrati in crisi, non si può dire che chi ha sposato tout court la democrazia liberale (e liberista) possa vantare grande stabilità.

Crisi dei populismi In campagna elettorale e nelle fasi iniziali di governo, i populisti si presentano come coloro che lotteranno per restaurare o ricreare la le-gittimità del governo democratico, eliminan-do la corruzione e rimettendo al centro delle loro politiche il popolo, al contrario dei – da loro definiti – “governi delle élite”. Inizialmen-te, almeno quelli di idee progressiste, riescono anche a portare enormi benefici alla popola-zione, riconoscendo e garantendo diritti civili e sociali, e migliorandone le condizioni eco-nomiche grazie a una parziale redistribuzione della ricchezza.

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mità del governo e la fragilità delle istituzioni democratiche hanno aperto quello spiraglio in cui il potere militare, sempre più forte e auto-nomo, ha potuto inserirsi per mettere a segno il colpo di stato – sostenuto dai proprietari ter-rieri – dell’ottobre del 2019.Si torna, così, al problema iniziale. I popu-lismi fanno affidamento sulle corporazioni e sulle forzature delle istituzioni democratiche liberali per governare. Il mix di queste due cose e gli interventi degli attori esterni por-tano il castello vicino al crollo, come nel caso del Venezuela, o a essere spinto a cadere, come in Bolivia.

Crisi nel modello liberaleSe i governi di stampo populista hanno affron-tato un anno difficile, quelli con una marcata impronta liberista hanno subìto scossoni al-trettanto forti. I due Paesi più coinvolti sono stati Ecuador e Cile. Sebbene abbiano avuto un inizio simile della crisi – entrambe le mani-festazioni di protesta sono scoppiate a seguito di un aumento dei prezzi, in Cile del biglietto della metro, in Ecuador del carburante – i due Paesi hanno avuto due percorsi diversi. In Ecuador il governo di Lenín Moreno ha sot-toscritto un accordo con l’Fmi per ottenere un credito di oltre 4 miliardi di dollari, in cambio di politiche volte a ridurre il deficit fiscale. A tal proposito il presidente ecuadoriano ha pro-mosso un piano di austerità che, tra le varie misure, eliminava i sussidi per i combustibili attivi da oltre quarant’anni nello Stato. La pro-testa è stata guidata dalle comunità indigene, in lotta da anni contro la trivellazione indiscri-minata nei loro territori dovuta alla necessità delle compagnie petrolifere di ampliare i pozzi di petrolio. Queste, riunite nella Confedera-ción de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie), hanno guidato la mobilitazione fino a ottenere la sospensione della misura intro-dotta da Lenín Moreno. Raggiunto il risultato, le proteste si sono fermate. Anche in Cile, dopo i primi giorni di manife-stazioni, l’aumento sul costo del biglietto della

persone scelte in base alla fedeltà al governo: non si è arrivati a una collettivizzazione dei mezzi di produzione, insomma, ma alla so-stituzione di una vecchia oligarchia con una nuova. A proposito dell’economia, se guardia-mo in particolare al caso venezuelano, la pro-grammazione a lungo termine è stata spesso sottovalutata, così come la diversificazione de-gli investimenti. Finché il prezzo del petrolio era alto, tutti i programmi sociali hanno con-tinuato a ricevere finanziamenti e l’economia a godere di buona salute. La combinazione tra caduta del prezzo del petrolio e sanzioni degli Stati Uniti ha fatto sprofondare il Paese in una crisi economica gravissima.Questo discorso non può essere applicato alla Bolivia che, tra i Paesi dell’America latina, è quello cresciuto più di tutti negli indicatori macroeconomici (crescita annua del Pil sem-pre superiore al 4%), oltre ad aver visto calare la povertà dal 60% al 35% e la povertà estrema dal 32% al 15%. Per arrivare a questo risultato Evo Morales ha sì nazionalizzato i settori chia-ve come quello del litio, ma ha anche integra-to una parte di classe dominante, privandosi della componente indigena e popolare e allon-tanandosi dai movimenti sociali. La stabilità economica garantita anche dai prezzi alti delle materie prime ha portato, con il benestare del suo partito (Movimiento al socialismo, Mas), all’aumento di imprese private con importanti settori della classe dominante che hanno po-tuto concludere affari vantaggiosi come mai prima di questo momento. Il crescente biso-gno di risorse ha incoraggiato l’estrazione di materie prime, come nel caso del litio a Potosí, e l’estensione della frontiera agricola per sod-disfare le esigenze fondiarie dell’imprenditoria agroindustriale, oggi parte fondamentale del colpo di stato.Dal punto di vista degli indicatori democrati-ci, la minore pluralità d’informazione e la scar-sa indipendenza del potere giudiziario hanno fatto scendere la Bolivia al 104esimo posto della classifica stilata attraverso il Democracy index. Nel caso boliviano la perdita di legitti-

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quello che era il loro stipendio. C’è, invece, un 82% dei pensionati che riceve pensioni infe-riori al salario minimo. Quest’ultimo si aggi-ra intorno ai 360mila pesos al mese (circa 380 euro) a fronte di una canasta básica, i beni di prima necessità, stimata intorno ai 210mila pe-sos a famiglia (circa 225 euro). Il salario medio si aggira tra i 400mila i 500mila pesos al mese (tra i 520 e i 650 euro circa). Anche il sistema sanitario, fortemente priva-tizzato, ha contribuito a far aumentare questa disuguaglianza. Lo Stato è totalmente assente in materia di diritto alla salute. Questa condi-zione porta a un accesso stratificato per classi. La classe privilegiata gode di un accesso facile a strutture migliori. La sanità pubblica, alla qua-le accede la maggioranza della popolazione, si caratterizza invece per una qualità inferiore, code infinite e mancanza di specialisti, soprat-tutto nelle località più lontane dal centro del Paese. In sostanza, chi ha più soldi accede a servizi e specialisti migliori, mentre le persone che hanno meno finiscono per morire di fame nell’attesa. Infine c’è il problema dell’accesso all’educazio-ne. Al centro delle proteste guidate dagli stu-denti nel 2011, il sistema educativo è stato og-getto di riforma durante il governo Bachelet. Per quanto una miglioria ci sia stata, le misure prese non hanno eliminato i problemi struttu-rali del settore. Il Cile, tra i Paesi Ocse, è quel-lo con le tariffe più alte per accedere all’uni-versità: con un costo medio di 7.654 dollari, è dietro solo alle università pubbliche degli Stati Uniti. I giovani cileni tra i 18 e i 29 anni sono indebitati per un totale di oltre tre milioni, cir-ca il 21% del debito totale dei cileni: la mag-gior parte di questi 3 milioni di debito viene contratto per pagarsi gli studi. Inoltre, secon-do un report dell’Ocse del 2017, solo il 15% dei cileni è immatricolato in istituti di educazione superiori pubblici, contro una media del 68% negli altri Paesi dell’organizzazione.A contribuire alla crisi, nel 2019 in Cile è salito di molto il prezzo degli affitti, oltre a quello di luce, gas e acqua.

metro è stato bloccato. In questo caso, tutta-via, la mobilitazione si è fatta ancora più forte. Le ragioni principali sono due. La prima è che in Ecuador la mobilitazione aveva una testa, la Conaie, con la quale il governo ha potuto contrattare fino ad arrivare a una soluzione. In Cile, invece, anche se iniziata dalla rete degli studenti, la protesta è continuata diffonden-dosi in tutti i settori della società e non offren-do, quindi, un vero interlocutore al governo Piñera. La seconda ragione è che l’Ecuador è ancora all’inizio di questo processo di liberaliz-zazione della società, mentre in Cile questo si è radicato fortemente dalla dittatura di Pinochet in poi - non è un caso che lo slogan cileno sia “No son 30 pesos, son 30 años”. Se in Ecuador il modello liberale è andato in crisi, ma sembra aver resistito, in Cile sono a rischio le stesse fondamenta del sistema.Eppure il Cile è stato il Paese che più di tutti ha portato avanti queste politiche, ricevendo spesso il plauso degli Stati Uniti. Perché allora è entrato in crisi? La risposta è semplice e con-sequenziale alle premesse: perché il Cile è un Paese con un altissimo livello di disuguaglian-za strutturale. Nonostante si sia ridotta la po-vertà, infatti, i limiti del sistema sono lampan-ti se andiamo ad analizzare alcuni dei settori chiave: pensioni, educazione e sanità.Il Cile è stato il primo Paese a privatizzare il sistema pensionistico e le compagnie di assicu-razioni che comprano e vendono nel mercato delle pensioni speculano su questo sistema per cercare di ottenere interessi migliori. Per farsi un’idea del business che gira attorno alle pen-sioni, le Afp (Administradoras de Fondos de Pensiones) – imprese private alle quali i lavora-tori cileni destinano il 10% del loro salario – nel 2019 hanno aumentato i loro profitti del 70%, rispetto al 2018, nel periodo compreso tra gen-naio e settembre. Nonostante questi guadagni, circa 700mila pensionati vivono con una pen-sione di 150mila pesos al mese (circa 185 euro) e sono poche le persone con pensioni adeguate al costo della vita – per lo più i professionisti, che ottengono comunque un misero 30% di

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sono uguali e i rappresentanti, eletti ogni due anni, devono discutere con tutti gli abitanti ogni decisione. Forse, così, si potrebbe final-mente arrivare alla chiusura delle vene, ancora aperte, dell’America latina.

Insomma, l’aumento del prezzo del biglietto è stata soltanto la goccia che ha fatto traboc-care un vaso già colmo. Una volta traboccato, rimettere l’acqua al suo interno sarà tutt’altro che facile.

Un modello tutto latinoamericano?Per ragioni diverse, il 2019 ha segnato l’anno della crisi di entrambi i sistemi politici pro-mossi in America latina. Non è facile proporre una soluzione a queste crisi, ma degli spunti su cui riflettere possono essere dati.Innanzitutto quello che emerge è il desiderio della popolazione non solo di essere rimes-sa al centro dei progetti politici, ma anche di partecipare ai processi decisionali in maniera concreta. E il popolo latinoamericano ha una forza incredibile per far sentire la sua voce, no-nostante spesso si cerchi di farlo tacere. Non si potranno trovare soluzioni senza che questo venga interpellato.In secondo luogo, si deve ripensare a un’eco-nomia latinoamericana che si basi sui punti di forza della regione, dalle materie prime al turi-smo, senza che questi vengano gestiti in modo particolaristico da corporazioni o grandi pro-prietari terrieri. Bisogna realizzare non solo una redistribuzione reale della ricchezza, ma anche un accesso collettivo ai mezzi di produzione, tanto agricoli quanto industriali. È necessario, inoltre, fare degli investimenti mirati per mi-gliorare il sistema sanitario e quello educativo, in direzione di un allargamento universale di questi diritti. Infine, sarebbe auspicabile un rafforzamento dell’indipendenza delle istitu-zioni e una seria riflessione sulle forze armate in generale, tanto per il loro coinvolgimento politico, quanto per il loro utilizzo repressivo.Per far uscire la regione da una crisi di questa dimensione, non si può andare solo in direzio-ne di un miglioramento dei due modelli pre-sentati: si deve pensarne di nuovi. Un esempio potrebbe essere dato dalla comunità zapatista del Chiapas, luogo dove la terra è un bene comune, la proprietà privata è abolita e tut-ti i beni sono collettivi; dove donne e uomini

Rom

a 1966. Giosetta Fioroni nel suo studio @

ElisabettaC

atalano

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DALLA PANDEMIA ALL’ANTIDEMOCRAZIADI JULIANA BELOTA

TRADUZIONE DI CARLA POLLASTRELLI

Gli aiuti di emergenza deliberati dal gover-no federale [brasiliano] hanno serie difficoltà a raggiungere le popolazioni tradizionali, indi-gene, insediate sulle rive dei fiumi e sono già in grave ritardo. Con la strategia di distribuzione del sussidio di 1.800 reais il governo “si dà la zappa sui piedi” nella lotta contro la pande-mia, provocando affollamenti nelle agenzie della banca di stato; procede a rilento anche la distribuzione di cestas basicas, cioè la fornitu-ra di alimenti di base per un mese a famiglia, della Fundação Nacional do Indio (Funai) – l’organo preposto alla protezione e alla salva-guardia delle etnie indigene. Ma, al di là della mancanza di assistenza, pro-prio durante la crisi provocata dalla pandemia, il governo va all’attacco di uno dei diritti es-senziali delle popolazioni originarie, ovvero il diritto al proprio territorio tradizionale. Il 16 aprile la Funai ha pubblicato una norma che va a modificare i processi di demarcazione delle terre e autorizza gli invasori delle Terre indigene a frodare i Diritti indigeni e a impos-sessarsi del loro territorio.La norma fa parte di un accordo di revisione delle terre indigene proposto dalla “banca-da ruralista” (il gruppo di parlamentari del-la poderosa lobby dell’agrobusiness) al fine di espropriare le Terre indigene e fa seguito alla Misura provvisoria (Mp) – atto del Pre-sidente con autorità di Legge, firmata nel di-cembre 2019 – nota come “Mp da Grilagem” (Mp 910, “grilagem” è l’appropriazione di terre pubbliche o altrui con documenti falsi). Questa Misura provvisoria, che attribuisce il possesso di terre pubbliche agli invasori, per mantenersi in vigore, avrebbe dovuto essere

votata dal Congresso nazionale entro il 19 maggio.Tuttavia il 7 maggio la Corte suprema (equivale alla nostra Corte di cassazione) ha determinato la sospensione della norma della Funai del 16 aprile. Pertanto fino al termine della pandemia sono sospese quelle misure legali che vanno a incidere sulle terre indigene (nel frattempo è stata sospesa anche la votazione della Mp 910).Per la leader indigena Sonia Guajajara è chiaro che la Corte suprema non concorda con questa misura del governo che si configura come un attacco per incoraggiare “malvagità” nel mo-mento di massima vulnerabilità, quando tutti sono impegnati nella lotta contro la Covid-19. “Il governo ci sta cacciando, sta sacrificando le etnie indigene dentro i loro territori proprio quando abbiamo bisogno dell’isolamento so-ciale, della protezione del governo di fronte alla situazione di crisi”.Il procuratore della repubblica Marcia Brandão Zollinger afferma che la Funai ha assunto un ruolo contrario alla sua natura giuridica e al quadro legale e costituzionale dei diritti del-le etnie indigene. “La Funai doveva prodigare ogni sforzo pubblico per difendere e garantire i diritti e per proteggere queste popolazioni, in particolare per quanto riguarda il diritto alla salute e l’identificazione dei loro territori”.

Atl (Accampamento Terra Libera) virtuale “occupa gli schermi” e denuncia la politica “genocida” degli uffici che funzionano in smart workingNella situazione di crisi provocata dalla pan-demia le organizzazioni indigene affermano di non poter rispondere alle misure del governo

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Sebbene la Corte di cassazione abbia sospeso la norma relativa alle terre indigene non ancora demarcate dalla Funai, e il Congresso naziona-le abbia rimandato la votazione di convalida della Misura provvisoria 910, è proprio questa Mp che suscita grande preoccupazione tra gli Indios. La Mp intende regolarizzare le occu-pazioni illegali nel paese, permettendo ai cri-minali che disboscano l’Amazzonia e commet-tono vari reati di rimanere nelle aree occupate pagando un prezzo assai inferiore a quello di mercato.Secondo Tatiana Versiani della Procura Gene-rale di Rondonia, la Mp 910 è un’amnistia per reati complessi di invasione di terre pubbliche. “Si tratta di vere e proprie organizzazioni cri-minali armate che minacciano le popolazioni che occupano la terra secondo il diritto: in-digeni, quilombolas (comunità di afro-discen-denti) e abitanti della foresta che lavorano con risorse naturali”.Se la Mp sarà approvata alla fine della pande-mia, questa catena criminale legata ad attività illecite come l’estrazione non autorizzata di le-gname, che genera riciclaggio di denaro, sarà premiata dal governo.“Premiando queste attività il governo legittima coloro che ‘ripuliscono la terra’, uomini armati assunti per far allontanare coloro che produ-cono e occupano quella terra da generazioni. Queste persone agiscono in modo violento e criminale contro le popolazioni indigene” dice Dinamam Tuxa.Tuxa ricorda che la questione della violenza contro le popolazioni indigene per appropriar-si delle loro terre era un tema superato grazie alla Costituzione del 1988, il che è motivo di perplessità per il movimento indigeno. “La Costituzione brasiliana contiene due articoli che riconoscono i diritti delle popolazioni ori-ginarie sui loro territori”.Secondo l’analisi delle organizzazioni indige-ne, se non si farà niente per impedire che la politica nei confronti degli Indios segua questa direzione, nel prossimo futuro i conflitti fon-diari tra indigeni e non-indigeni diventeranno

federale dal momento che non possono essere fisicamente presenti a Brasilia. L’Accampamento Terra Libera, evento più importante del dibattito in corso tra le etnie indigene, si è tenuto durante la commemora-zione del 19 aprile scorso (Giorno dell’Indio in Brasile) in forma virtuale, in uno spazio di interventi e discussioni che si amplifica nelle reti sociali.“Nel momento in cui i nostri territori sono in vendita, ‘occupiamo gli schermi’ nel nostro Accampamento virtuale” – ha detto la leader indigena Sonia Guajajara. Promosso dalla Associazione delle Etnie Indigene del Brasile (Apib), alla presenza compatta dei capi indi-geni, l’incontro ha portato alla decisione in fa-vore di un’azione giudiziaria presso la Corte di cassazione, azione che – almeno fino alla fine della pandemia – garantisca pace agli Indios.L’Apib, con il suo direttore Dinamam Tuxa, ha denunciato il tentativo di espansione della politica genocida di Bolsonaro durante la mas-sima crisi dovuta alla pandemia, mentre gli uffici stanno funzionando in smart-working: “Proprio quando ci troviamo nel processo di isolamento sociale e discutiamo del lockdown nelle principali città del Brasile, il governo fe-derale si avvale di politiche che si sovrappon-gono ai riferimenti normativi delle Terre indi-gene tramite l’azione di uffici che funzionano in smart-working”.Secondo Dinamam Tuxa, le connessioni live all’incontro virtuale hanno raggiunto 50mila persone in luoghi dove il movimento non era ancora arrivato, comprendendo comunità in-ternazionali. Tema principale del dibattito è stata la politica di oppressione e sterminio e questa misura allarmante che rivela come il go-verno stia intensificando la sua azione contro i diritti degli indigeni. Per Dinamam si trat-ta di “farneticazioni” del presidente attuale e di tutta la sua équipe compreso il presidente della Funai. Un ulteriore atto di viltà da parte del governo federale nel momento di maggior fragilità delle etnie indigene a causa dell’emer-genza dovuta alla Covid-19.

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mentari indigeni e ai militanti della loro causa per garantire assistenza agli Indios, durante la pandemia. “La crisi sanitaria ha reso ancora più grave il quadro di violenze patite dalle et-nie indigene”, dichiara Tuxa.In un suo documento l’Apib ha reso noto che, solo nell’ultimo anno, 150 terre indigene han-no subìto circa 160 invasioni e i crimini com-messi da trafficanti di legname, missionari, garimpeiros (cercatori d’oro di frodo) e grileiros (quanti si appropriano della terra con docu-menti falsi) si aggravano grazie agli incentivi del Governo Bolsonaro. Non soltanto negli ul-timi anni sono aumentati gli assassini di leader indigeni, adesso uccide anche il Coronavirus. Trentotto etnie indigene sono già state colpite dalla Covid-19 direttamente. Se si considera che i dati sono certamente sottostimati, i 92 morti indigeni e i 446 casi registrati a oggi van-no probabilmente moltiplicati per dieci.“Noi etnie indigene stiamo correndo il rischio di un vero e proprio genocidio a causa della politica di sterminio praticata durante la pan-demia. Senza il sostegno del governo, senza aiuti di emergenza, con difficoltà estreme nelle aree più isolate del paese e con un sistema di salute pubblica collassato, non sappiamo a chi ricorrere di fronte alla propagazione del Coro-navirus nelle Terre indigene”, afferma ancora Tuxa.

Il governo federale “si dà la zappa sui piedi”Finora solo il 13% delle persone ha avuto ac-cesso alla piattaforma di aiuti di emergenza agli indigeni, si tratta di un sussidio di 1.800 reais diviso in tre rate mensili di 600 reais (cir-ca 94 Euro). Gli affollamenti in file intermina-bili agli sportelli della Caixa economica federal (la banca nazionale) sono crudeli e vanno con-tro le strategie di contenimento della malattia. È una situazione assurda, da parte del governo federale è come “darsi la zappa sui piedi”.Secondo la maggior parte delle comunità, questa modalità di accesso agli aiuti, trami-te gli sportelli della Caixa economica fede-ral, in Amazzonia espone i villaggi al virus. Il

più acuti. “Le etnie indigene non rinunceran-no a ricorrere ai mezzi di resistenza di cui di-spongono per difendere i loro territori e que-sto potrà peggiorare ulteriormente gli effetti della pandemia”, afferma Tuxa.

Resistenza indigena alla pandemiaA fronte delle omissioni criminali del gover-no Bolsonaro rispetto alla protezione della vita delle etnie indigene, durante la pandemia da Covid-19, l’Apib ha organizzato una Assem-blea nazionale di resistenza indigena con l’o-biettivo di definire un piano specifico per far fronte alla pandemia nella drammatica realtà degli Indios.Finora le popolazioni indigene non sono state incluse nelle politiche pubbliche per l’emer-genza – ospedali da campo, disponibilità di letti in unità di terapia intensiva – né all’in-terno della stato di Amazonas, nelle regioni di maggior concentrazione di Terre e Etnie indi-gene, né nelle città.“Abbiamo colto, nella struttura dello stato, un ‘razzismo istituzionale’ che è latente, ma si manifesta nel negare l’assistenza agli indigeni colpiti dalla pandemia, soprattutto a quan-ti vivono in un contesto urbano”. È ancora Dinamam Tuxa che parla: “La politica a cui assistiamo oggi, in Brasile, consiste nell’‘isti-tuzionalizzazione’ del genocidio”. In qualche modo era una tendenza esistente da molto tempo, ma nel governo Bolsonaro si concre-tizza in azioni come il non prendere posizione chiara rispetto all’aiuto necessario agli indigeni nell’emergenza.I capi indigeni criticano la base dello sviluppo economico del paese che ha sempre costituito una minaccia di sterminio per le loro comu-nità. “Non ha senso parlare di Coronavirus, di pandemia, mentre il governo continua ad agire in questo modo. Per noi, la lezione della pandemia vuol dire una revisione del modello economico, storicamente predatorio e oppres-sore”, afferma Guajajara.L’Assemblea nazionale della resistenza indige-na apre un fronte di lavoro insieme ai parla-

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maggior numero in Brasile – nella regione cri-tica del bacino dell’alto rio Solimões.Lo scorso 5 maggio la procura federale del-lo stato di Amazonas ha promosso un’azione civile intimando alla Funai l’invio dei rifor-nimenti di cibo con procedura d’urgenza nel termine massimo di cinque giorni. La procura ha determinato inoltre l’attivazione di aiuti di emergenza differenziati per le etnie indigene, con la consegna di assegni nei loro villaggi per evitare che si mettano in viaggio verso la città.“È assurdo dire che devono rimanere nei loro villaggi, se manca il cibo” ha detto il procura-tore della repubblica Fernando Soave.Nell’azione giudiziaria risulta che la mancan-za di alimenti e l’allontanamento degli indi-geni dai loro insediamenti in cerca di aiuto siano incentivi alla propagazione della epide-mia, determinati dal potere pubblico a causa di politiche errate e non adatte al contesto de-gli Indios.

Abbandono e negligenza contraddistinguo-no la politica pubblica di protezione per le etnie indigeneMentre si dispiega l’azione inefficace del go-verno federale di fronte all’avanzare della pan-demia tra le popolazioni indigene, la contami-nazione ha già raggiunto i loro villaggi in tutto il Brasile. Secondo il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia Brasi-liana, solo nell’area dell’Amazzonia oltre venti etnie sono già state colpite.In totale, lo stato di Amazonas contava al 14 maggio 17.181 casi confermati, 1235 morti per Covid-19 e 1365 nuovi casi in 24 ore. Su 62 municipi, 52 contano già casi di infezione, il che è assolutamente tragico, se si considera la difficoltà logistica nel portare aiuto a queste popolazioni.Lo stato di Amazonas è tra i cinque stati brasilia-ni con il maggior numero di morti per Covid-19. Il comune di São Gabriel da Cachoeira, nel ba-cino dell’alto rio Negro, con 31mila indigeni, ha divulgato ieri un comunicato sulla totale man-canza di condizioni per assistere gli indigeni

suggerimento dei leader indigeni è che il gover-no inoltri gli assegni direttamente nei villaggi. Se non si adotterà questa soluzione, la mag-gior parte degli Indios brasiliani – che opera nel mercato del lavoro informale nel contesto urbano o rurale – rimarrà priva del sostegno del governo, mentre nelle Terre indigene l’iso-lamento sociale, iniziato il 12 marzo, comporta già ora l’impossibilità di gestire risorse da parte degli indigeni, in gran parte dediti al commer-cio di prodotti agricoli e artigianali. “Senza soldi per garantire la nostra sicurezza alimentare e l’uso di dispositivi per la protezio-ne individuale, senza la possibilità di andare a pesca e a lavorare i campi, noi indigeni siamo abbandonati alla sorte”, afferma il presidente dell’Associazione dei Caciques de São Paulo de Olivença.È quanto sta succedendo anche nel conte-sto urbano di Manaus, capitale dello stato di Amazonas. Le istituzioni di autogoverno, lo-calizzate nei quartieri indigeni, affermano di non aver ricevuto nessun tipo di sostegno dal governo, in nessuna delle sue articolazioni: municipale, dello stato o federale.Subordinata a Sergio Moro, che si è recente-mente dimesso dalla carica di ministro della Giustizia, la Funai ha ricevuto 11 milioni di reais (circa 1.760mila euro) in risorse di emer-genza da destinare alla protezione degli indi-geni contro la Covid-19. Ma, all’inizio di mag-gio, non aveva speso nemmeno un centesimo.La Funai, pur rifiutandosi di dare spiegazioni alla stampa per il ritardo, ha inviato un docu-mento ufficiale ai suoi Coordinamenti tecnici locali – che agiscono di concerto con i villaggi – informando che si stava attivando per rende-re fattibile la consegna di rifornimenti di cibo alle famiglie indigene. 154.397 famiglie dovran-no ricevere 308.794 rifornimenti di cibo (due per famiglia), il problema è che la data prevista per la prima consegna è il 29 maggio, quando il picco della pandemia dovrebbe essere passato.Alla fine di aprile Funai ha consegnato solo 5.000 rifornimenti di cibo a São Paulo de Olivença, una città con 76mila indigeni – il

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speciale indigeno di zona hanno già comuni-cato che la situazione è fuori controllo”.I Kokama segnalano che i loro insediamen-ti si trovano in una regione di frontiera con Perù e Colombia con grande mobilità ter-restre e fluviale e che le autorità non hanno intrapreso le azioni necessarie nemmeno per bloccare la circolazione delle persone. Secon-do le informazioni del capo del Consiglio tu-telare indigeno, le grandi imbarcazioni han-no smesso di circolare, bloccate dal governo che però non riesce a controllare le canoe che scendono lungo il fiume di notte e continua-no a circolare.Il comune di Tabatinga è stato tra i primi il cui sistema sanitario è collassato, con il 100% dei letti occupati. Negli altri comuni del baci-no dell’alto rio Solimões mancano sia Unità di pronto soccorso che Unità di terapia intensiva per poter accogliere i pazienti di Covid-19. Il Procuratore federale ha attivato un’azione giu-diziaria, anche a Tabatinga, in cui si esige che il governo federale allestisca un ospedale da campo per assistere le popolazioni indigene, si esige inoltre che nella registrazione dei decessi si specifichi quando si tratta di indigeni.

Caos urbano: popolazioni che vivono in cit-tà in condizioni di completa vulnerabilitàNon è diversa la situazione degli indigeni che vivono nelle città, lontano dai villaggi. La ca-pitale Manaus concentra il 51,7% di tutti gli abitanti dello stato di Amazonas. Tra loro, cir-ca 36mila sono indigeni, residenti in 54 comu-nità dislocate nel territorio urbano.La situazione di Manaus è la peggiore di tutto il Brasile. Secondo i caciques delle associazio-ni di residenti indigeni, nei quartieri tra il 70 e 90% degli abitanti hanno avuto sintomi di Covid-19. Dal momento che non si sono fatti test specifici, l’Assessorato alla sanità dello Sta-to di Amazonas ha divulgato un comunicato con l’informazione che potrebbe trattarsi di una sindrome influenzale concomitante con la pandemia. La buona notizia è che la grande maggioranza degli indigeni, pur presentando

negli ospedali. Il sindaco, malato di Covid, ha decretato il blocco della circolazione in città, il cosiddetto lockdown, e ha già autorizzato l’aper-tura di un nuovo cimitero.Nella zona dell’alto rio Negro è stato attiva-to un Comitato di crisi interistituzionale con l’obiettivo di far fronte alla pandemia tra gli indigeni, mentre il Coordinamento indigeno di Pari-Cachoeira ha dichiarato la mancanza totale di sostegno agli Indios della regione,l’Ufficio preposto alla Salute indigena (Sesai/Sus) ha comunicato – come riferisce il caci-que Tukano Ozéias Marinho – che il governo federale non dispone di risorse per fornire di materiali di protezione individuale gli indigeni di Pari-Cachoeira, città satellite di São Gabriel da Cachoeira. “Il sostegno della Sesai si è li-mitato a un’azione di informazione rivolta alle popolazioni indigene nei loro insediamenti tramite i Distretti Sanitari di Salute, mentre sentiamo la mancanza di una strategia efficace di protezione e di controllo della pandemia che ci assista nei nostri villaggi”, afferma Ozéias.

Kokama: l’etnia con il maggior numero di morti in BrasileLa situazione degli indigeni nel bacino del medio e alto rio Solimões è ancora più gra-ve che sul rio Negro, questa regione conta il maggior numero di casi e di morti indigeni da Covid-19. Il primo caso di infezione si è registrato tra i Kokama, etnia con il maggior numero di contaminati e morti registrati nei villaggi.Il 3 maggio scorso, i Kokama hanno diffuso un manifesto: “Noi, popolo Kokama chiediamo aiuto, stiamo morendo! (…) Chi risponde-rà della perdita dei nostri anziani e dei nostri maestri?” Il manifesto di denuncia si rivolge ai media nazionali e internazionali: “Noi, popolo Kokama, abitanti originari del bacino dell’alto e medio rio Solimões, vogliamo denunciare la negligenza del potere pubblico nella lotta con-tro la Covid-19 in questa regione in cui è sta-ta dichiarata la contaminazione comunitaria. Il sindaco di Tabatinga e il Distretto sanitario

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sia urgente non è un aiuto. Tuttavia, l’aiuto emergenziale agli stati e ai comuni da parte del governo federale, sebbene non possa mancare, arriverà comunque tardi.Dopo una partita complessa di pregiudiziali e rilanci, la proposta approvata dal Congresso nazionale che prevedeva l’erogazione entro il 15 maggio di 60 miliardi di reais (9,6 miliar-di di euro) destinati agli stati e ai comuni (di cui 10 miliardi da devolvere esclusivamente ad azioni di contrasto alla pandemia nell’ambito della sanità: suddivisi in 7 miliardi agli stati e 3 miliardi ai comuni) ha subito il veto del presi-dente Jair Bolsonaro.Il veto del presidente ha a che vedere con la possibilità di adeguamenti salariali ad alcune categorie di funzionari pubblici che inizial-mente veniva espressamente vietata per 18 mesi come condizione per l’attivazione del sostegno finanziario; peraltro sono stati esponenti lega-ti proprio a Bolsonaro che hanno imposto la possibilità di tali adeguamenti salariali. E alla fine il presidente ha posto il veto…In questa situazione di stallo, nello stato di Amazonas, le autorità municipali e dello stato hanno dichiarato che la capitale Manaus e la regione hanno bisogno di maggiore attenzione e meno burocrazia. “Non possiamo aspetta-re le attrezzature tutta la vita”, ha dichiarato il sindaco Arthur Neto. “Mi hanno manda-to bare e le sto rimandando indietro, perché non è di bare che abbiamo bisogno. Vogliamo medicinali, dispositivi per la protezione indi-viduale e quanto è necessario per affrontare questa pandemia”.Il sindaco ha parlato anche della situazione politica, ha criticato il comportamento e le di-chiarazioni del presidente. “A quel che sembra l’obiettivo di Bolsonaro non è combattere la pandemia”.Al contrario del presidente, il sindaco di Manaus difende l’importanza dell’isolamento sociale per tentare di ridurre l’impatto del-la pandemia nello stato di Amazonas. A suo parere Manaus non ha ancora toccato il picco della diffusione della malattia.

gravi sintomi come difficoltà respiratorie, si è ripresa grazie alla medicina tradizionale.In questo periodo dell’anno, nello stato di Amazonas, girano nei quartieri i medici ad-detti alla vaccinazione antinfluenzale per gli abitanti oltre i 60 anni Si sono verificati casi di medici dell’Unità di Base Sanitaria, addetti alla vaccinazione, che si sono rifiutati di assi-stere persone malate a casa che avevano chiesto aiuto. Il Coordinamento delle organizzazioni delle etnie indigene di Manaus e dintorni ha de-nunciato il fatto che, per gli organi pubblici responsabili della diffusione dei dati relativi alle vittime della Covid-19, le comunità indi-gene sono “invisibili”. “Non esiste menzione di alcun tipo di regolamentazione specifica per la popolazione indigena urbanizzata. La poli-tica separa e distingue in modo illegittimo e prevenuto la popolazione indigena dei villaggi da quella urbana, trascurando quest’ultima e la sua condizione etnica”. (Se l’identità etnica non è rilevata e registrata, gli Indios non pos-sono accedere ai diritti loro garantiti dalla Co-stituzione, come il diritto alle Terre indigene, all’assistenza sanitaria, alla pensione o ad altre provvidenze). Le istituzioni indigene di autogoverno hanno inviato un documento alle autorità in cui si esige la definizione di un protocollo nazionale contro la Covid-19 specifico per le popolazioni indigene urbanizzate; si chiede inoltre l’alle-stimento di un ospedale da campo esclusivo per gli abitanti indigeni che dovrebbero essere inclusi anche nella distribuzione di “cestas ba-sicas” e di aiuti di emergenza.

“Non voglio parlare di Impeachment, ma di come salvare vite”, dice il sindaco di ManausCon riferimento alla crisi latente del governo e al possibile impeachment di Bolsonaro, du-rante la crisi della pandemia, e soprattutto al sostegno finanziario da destinare agli stati e ai comuni, il governatore dello stato di Amazonas e il sindaco di Manaus hanno dichiarato che, in questo momento, qualsiasi aiuto che non

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cessità del dialogo da parte del presidente con i governatori degli stati e con i comuni al fine di controllare la pandemia, dicendo chiaramente che è compito di ogni stato della federazione guidare il processo di controllo dell’espansio-ne della Covid-19 e determinare il periodo di isolamento.“La decisione della Suprema Corte di cassazione è rispettare le competenze dell’Unione – gli sta-ti federativi – e le competenze nazionali di gui-da relative alle attività essenziali”. Il ministro ritiene peraltro che le misure adottate dalle istituzioni brasiliane siano state efficaci nel far sì che il paese non si ritrovasse in una situa-zione di calamità pubblica tale da provocare disordini strutturali nella società.Alcuni giornalisti hanno criticato gli attacchi del presidente Bolsonaro mettendo in chiaro che non è la Corte suprema a determinare l’au-tonomia dei comuni o degli stati nella gestio-ne della crisi, ma la Costituzione brasiliana. Si direbbe che il presidente non lo capisca o, in altre parole, come ha detto Fernando Gabeira, un politico, “nel momento in cui esercita una pressione sulla Corte suprema non capisce che non è possibile esercitare una pressione sulla Corte suprema per poter disobbedire alla Co-stituzione”.Secondo Gabeira, l’unica via di uscita per il presidente Bolsonaro è non perdere ancora una volta l’occasione e cercare il dialogo con gli stati per individuare possibili soluzioni a questa situazione. Ma in Brasile, di questo an-cora non si vede traccia.

Juliana Belota, sociologa, giornalista, vive a Manaus, è impegnata in una ricerca sul campo con le comunità indigene nel bacino dell’alto rio Solimões. (Le infor-mazioni contenute nel testo sono aggiornate al 14 mag-gio 2020; va segnalato tuttavia che la situazione muta costantemente: sia sul fronte della pandemia che della lotta politica).

Conflitto tra i poteriI media e le istituzioni brasiliane stanno rea-gendo nei confronti dell’attitudine irriverente e, per molti, irresponsabile del presidente in relazione alle misure necessarie per fronteg-giare la crisi sanitaria in Brasile. Bolsonaro è apparso in varie occasioni, nelle strade e nelle piazze, provocando assembramenti di persone, senza mascherina, dichiarando la sua insoffe-renza per il Congresso Federale e la Corte Su-prema. “Non ammetteremo interferenze nel governo”, ha dichiarato.Alcuni esponenti della Corte di cassazione si sono pronunciati a questo proposito: per il ministro Luiz Roberto Barroso è preoccupante il fatto di invocare l’intervento delle forze ar-mate a sostegno del governo. L’esercito è una istituzione dello stato – ha affermato – subor-dinata alla Costituzione e non è in alcun modo vincolata ad alcun governo. “Le forze armate non devono sottostare ai giochi della politica”.Anche Alexandre de Moraes, ministro della Corte di cassazione, ha dichiarato che il com-portamento di Bolsonaro è inaccettabile. “Il presidente non è concentrato nella lotta con-tro la pandemia, mentre in Brasile 10mila per-sone al giorno risultano contaminate”.A conclusione del suo discorso il ministro è stato tassativo: “mentre le entità dello stato fe-derale continuano a litigare per via giudiziaria o sulla stampa, è la popolazione a soffrire. Alla popolazione non interessa la suddivisione tra competenze amministrative o legislative, ma vuole un orientamento sicuro per poter di-sporre di salute, sicurezza, lavoro e speranza per poter far fronte alla fase di recupero”. Il ministro de Moraes ha segnalato inoltre che l’azione del governo deve fondarsi su regole tecniche di sanità pubblica, riconosciute a li-vello internazionale, e non su opinioni o pseu-do monopoli di potere e di autorità.Infine è il caso di riferire le parole del Presiden-te della Suprema Corte, ministro Dias Toffoli; il suo discorso è centrato sulla questione del conflitto tra gli enti federativi e afferma la ne-

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BOLSONARO, LE FAVELAS, L’EPIDEMIADI JANAINA CÉSAR

TRADUZIONE DI CARLA POLLASTRELLI

Mentre il mondo affronta la pandemia di Coronavirus, il Brasile deve fare i conti non solo con la malattia, ma anche con un folle presidente che si considera un re o un Napoleone. Contrario al lockdown, Jair Bolsonaro non segue le indica-zioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, esce senza mascherina e incita i suoi seguaci a un nuovo colpo di stato con la benedizione delle for-ze armate. Dopo aver messo sotto sequestro la no-stra democrazia, adesso il suo negazionismo verso la pandemia porta la popolazione a morte certa. Secondo i dati dal ministero della Sanità di vener-dì 8 maggio, settantatre giorni dopo il primo caso confermato di covid-19, il paese registra 136mila casi di persone contaminate, mentre i morti sono almeno 9.190. San Paolo e Rio di Janeiro sono le prime regioni nella classifica per numero di per-sone contaminate: 39.928 a San Paolo e 14.156 a Rio. I decessi, invece sono 3026 a San Paolo e 1394 a Rio. L’arrivo della Covid-19 in Brasile ha mostrato al mondo la profonda crisi che si è abbattuta nel paese polarizzato politicamente. Nonostante la linea guida di Bolsonaro sia l’apertura totale e lui continui a minimizzare la malattia, 25 dei 27 go-vernatori hanno decretato misure di restrizione a favore dell’isolamento sociale. Le restrizioni più vigorose sono in corso nelle regioni con il mag-gior numero di casi, come San Paolo, Rio de Ja-neiro, Distretto Federale e Goiás: hanno chiuso commerci, scuole e aziende, ma la curva non fa che aumentare. Ricercatori dell’Università dello Stato di San Paolo (Unesp), avvertono che il Brasile potreb-be essere il nuovo epicentro della pandemia, il numero di decessi a giugno arriverebbe oltre i 30mila. “Questa è l’ipotesi più ottimistica”, dice

al giornale “O Globo”, Vitor Valente professore e uno dei responsabili della ricerca. “Abbiamo fatto tre ipotesi di futuro. Però la stima più realistica arriva a 40mila e una pessimista indica che fino al 9 giugno, 64mila persone potrebbero morire per Coronavirus nel paese”. Nonostante i dati che riflettono l’espansione del-la pandemia nel paese, cosa fa Bolsonaro, l’ex ca-pitano dell’esercito espulso per aver organizzato un atto terroristico all’interno della corporazione negli anni Ottanta? Dimette il ministro della Sa-lute perché favorevole all’isolamento sociale. Davanti ai 9mila decessi, il presidente ha mostra-to totale indifferenza, mancanza di empatia e so-lidarietà verso il dolore degli altri. Nessuna parola di conforto, nessuna visita istituzionale ai cittadi-ni che ogni minuto muoiono colpiti da questo virus terribile. A loro soltanto il vuoto, il silenzio. Il 29 aprile, quando i casi erano oltre 5mila e si superava la Cina per numero di morti, pressato dai giornalisti, Bolsonaro in tono di disprezzo ha dichiarato: “E allora? Mi dispiace. Cosa volete che faccia? Sono Messia, ma non faccio miraco-li”, ironizzando sul suo secondo nome, Messias. Ma che ci si può aspettare da uno che difende dittatori e torturatori?Il brasiliano medio. Come in una setta religiosa i suoi seguaci sono ciechi, non sentono o vedono quello che accade davanti ai loro occhi. Si sento-no forti e tutelati dal loro Messia e distribuiscono violenza contro chiunque. Il 1° maggio, nella Fe-sta dei lavoratori, un gruppo di 60 infermieri che protestava nella piazza dei Tre Poteri a Brasilia, in difesa dell’isolamento sociale e in onore degli operatori sanitari morti nella lotta contro la pan-demia, è stato aggredito verbalmente da alcuni simpatizzanti di Bolsonaro. Vestiti con abiti gial-

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rabili come Jorge. Per venire loro incontro, il go-verno ha adottato alcune misure economiche che hanno rivelato quanto distante sia la classe politica dalla popolazione più povera. Circa 25 milioni di lavoratori informali avrebbero il diritto di ricevere per tre mesi un fondo di emergenza di 94 euro (600 reais), ma non riescono a riscuotere i soldi per colpa delle lunghe code alle banche. Questo importo sarebbe stato addirittura più basso – 200 reais, circa 31 euro – se non ci fosse stata pressio-ne da parte dell’opposizione. Dovete immagina-re che in Brasile i lavoratori informali sono quelli che vendono qualsiasi cosa in strada: cibo, bibite, strofinacci, bambole, pupazzi, qualunque oggetto possa essere venduto. Questa categoria di lavorato-ri si trova tra gli ultimi, senza diritto a nulla.Di fronte all’incuria e all’abbandono del gover-no, centinaia di persone che vivono nelle favelas di San Paolo e Rio hanno deciso di rimboccarsi le maniche per fronteggiare da soli l’epidemia di Covid-19, i cui effetti potrebbero essere devastan-ti in queste realtà già di per sé difficili. Pensate: 13 milioni di persone, il 6% della popolazione brasi-liana, vive nelle favelas. Negli agglomerati di case è praticamente impossibile rispettare il distanzia-mento sociale e altre regole come il lavaggio fre-quente delle mani: In questi luoghi, l’acqua è un lusso al quale pochi hanno accesso. Resistere per non morire. “Siamo senza un presidente, non abbiamo nessuno che ci guidi in questa pandemia. Sta a noi resistere per non morire”, dice al telefono Gilson Rodrigues, pre-sidente dell’associazione dei residenti della fave-la di Paraisópolis, nella zona sud di San Paolo, quartiere dove vivono 100mila persone. “Ci sia-mo organizzati e attraverso donazioni abbiamo potuto contrattare medici e infermieri e affitta-re 3 ambulanze”, racconta Rodrigues. In questa lotta organizzata contro l’epidemia ci sono circa 400 “presidenti di strada”, in pratica un resi-dente volontario responsabile per monitorare e sostenere un gruppo di 50 famiglie che vive nel vicinato, tutto tramite whatsapp. È lui che di-stribuisce porta a porta le donazioni di cibo e dà l’allarme e contatta il medico quando qualcuno presenta sintomi di Coronavirus”.

lo verde, hanno insultato gli operatori definen-doli “analfabeti funzionali” e “codardi”.Due giorni dopo, sempre a Brasilia, durante una manifestazione pro-Bolsonaro, antidemocratica e incostituzionale perché a favore della chiusura della Corte suprema (equivalente alla Corte di cassazione in Italia), la vittima è stata la stampa. Alcuni nostri colleghi sono stati picchiati e altri aggrediti verbalmente. Sul palco, Bolsonaro, or-mai fuori controllo, in toni minacciosi, urlava che “la sua pazienza era finita”, “che le forze ar-mate sono con lui” e “che la costituzione sarebbe stata rispettata a qualsiasi prezzo”. Questi seguaci di Bolsonaro rappresentano quel-lo che il sociologo Ivann Lago descrive come “il brasiliano medio”. Secondo Lago, “questo brasi-liano non va in strada per difendere un sovrano pazzo e mediocre; lui urla affinché la propria me-diocrità sia riconosciuta e apprezzata e per sentir-si accolto da altri pazzi e mediocri che formano un esercito di burattini la cui forza sostiene il go-verno che lo rappresenta”.L’ubriaco e la equilibrista. In questo mese tra-gico in cui il Coronavirus ci ha portato via tanti nostri cari, il paese ha perso Aldir Blanc, il suo più grande paroliere. Autore del classico O bêbado e a equilibrista, “L’ubriaco e la equilibrista”, reso im-mortale dalla voce vibrante di Elis Regina negli anni Settanta, Blanc, come la maggioranza dei brasiliani, non aveva un’assicurazione sanitaria privata ed è stato necessario l’appello di sua figlia per fargli avere un letto in terapia intensiva. È morto a Rio de Janeiro senza dare un addio. Il suo dramma è lo stesso di tutti coloro che muo-iono vittime di questa orribile malattia. La solitu-dine è l›ultima cosa che resta prima di spegnersi. “E allora?”, ha chiesto il presidente ignorando che dietro alla quantità assurda di corpi senza vita ci sono nomi e famiglie distrutte dal dolo-re. Persone come Jorge da Silva Chagas, 65 anni, che ha aspettato cinque giorni per avere un posto nella terapia intensiva di Rio e quando l’ha avuta, ormai era troppo tardi. È morto lo stesso giorno in cui è stato ricoverato. Nel mezzo di questa apocalisse assurda che ha col-pito il Brasile, i primi a soffrire sono i più vulne-

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ne di Paraisopolis”, dice. Sebbene il vivace com-mercio della favela sia chiuso, le persone conti-nuano a girare per le strade come se nulla fosse. La realtà delle favelas a Rio non si differenza da quella di Paraisopolis dov’è assente lo Stato. Nel complesso della Maré, un conglomerato di 16 favelas in cui vivono 140mila persone, ci sono almeno 140 casi sospetti e 18 morti, secondo l’ultimo bollettino di Olho no Corona, dell’or-ganizzazione Rete della Maré. L’Ong, insieme al Collettivo Papo Reto, l’Associazione di vicinato, con il sostegno della Fondazione Oswaldo Cruz (Fiocruz), è la responsabile per la diffusione nella favela delle linee guida delle autorità sanitarie per prevenire l’infezione da Coronavirus. Dalla terza settimana di marzo, due volte alla set-timana, una macchina attraversa le vie della Maré e, in rima e al ritmo della musica funk, informa gli abitanti sui rischi della malattia e le raccoman-dazioni di prevenzione: evitare la folla, rimanere a casa, lavarsi le mani. La scena si ripete in altre fave-las di Rio, come Città di Dio e Rocinha. Le vie di quest’ultima sono passate anche per una sanifica-zione grazie alla collaborazione di circa 140 perso-ne, sessanta delle quali volontarie della comunità. Secondo il bollettino epidemiologico, alla Rocin-ha ci sono 74 contaminati e 9 morti. Gli esperti di sanità pubblica, tuttavia, stimano che il nume-ro sia molto superiore. “La situazione è critica”, afferma Wallace Pereira, presidente dell’Associa-zione dei residenti. “Stiamo combattendo come possiamo, ma mancano delle politiche pubbli-che”, aggiunge.

Per chi volesse contribuire, è partita una campagna di raccolta fondi per il progetto Brigate dei soccor-ritori della favela Paraisopolis: http://esolidar.com/crowdfunding/detail/36-paraisopolis-projeto-das-bri-gadas-de-socorristas.Per chi volesse contribuire con la Rete della Maré: Banco do Brasil - 001, Agência: 0576-2Conto corrente: 160.568-2Iban: BR1500000000005760001605682C1Codice Swift: BRASBRRJRJO

Il modello di presidente di strada è diventato vi-rale e lo stanno applicando in varie favelas brasi-liane. “Ci hanno chiamato addirittura dall’Africa per chiedere indicazioni su come implementar-lo”, dice Rodrigues, che è anche presidente della rete nazionale del G10 delle favelas. Il G10 è un vertice che riunisce le dieci favelas brasiliane con la più grande potenza economica del paese. L’o-biettivo dell’iniziativa è unire gli sforzi per cercare investimenti per le imprese locali. “Proprio come i paesi ricchi, che si sono uniti per formare il G7 e il G20, abbiamo deciso di unire le dieci favelas più ricche nel paese”, ha spiegato Rodrigues. Oltre a questo, l’Associazione della donne di Paraisopolis, si è presa l’incarico di confezionare le mascherine, visto che ora sono obbligatorie e non si trovano da nessuna parte. Ne hanno già prodotte 50mila. Nella battaglia contro il nemico invisibile si aggiunge anche l’esercito di 240 soc-corritori della prima brigata della favela formati grazie ai contributi dei sostenitori. “Sono stati preparati anche a raccogliere i corpi se fosse ne-cessario”, spiega Rodrigues. Dentro due scuole a Paraisopolis sono state cre-ate case di accoglienza per i malati di Covid-19 che hanno bisogno di un posto per passare la quarantena. Finora hanno avuto 6 ospiti: fra loro la giovane Jessica che ha perso la madre vittima di Coronavirus e ha il padre di 78 anni in terapia intensiva e Roberto, che non ha perso nessuno ma ha deciso di andare lo stesso in isolamento nella struttura per non esporre la famiglia e i vi-cini. “È stato difficile fare la quarantena lontano dalla famiglia, ma è stata la scelta giusta, abito in un piccolo appartamento con mia moglie e due figlie e poi si sono presi cura di me con tanta te-nerezza. Mi hanno fatto anche la torta per i miei 44 anni”, racconta Roberto.Nonostante le misure adottate, Rodrigues sa che il peggio deve ancora arrivare. “La situazione è iniziata a diventare più critica. Fino alla settima-na scorsa avevamo 34 casi, oggi sono 80. Questi sono casi identificati da noi, nelle nostre ambu-lanze, ma il numero può essere 4 volte più di questo, perché non abbiamo accesso ai dati dalle unità di sanità che si occupano della popolazio-

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tati nel percorso inverso, sono stipati in condizio-ni inumane nei centri di reclusione presenti alle varie frontiere.Infine, nei pochi paesi con misure di lockdown meno stringenti, come il Messico, si acuisce sem-pre di più il divario tra la classe medio-alta, che incita al “restare in casa”, e la maggioranza della popolazione che vive alla giornata e ha poco ac-cesso a cure mediche e sussidi statali. In tutto il continente, come accenna l’articolo di Villegas, la questione razziale è al cuore delle eredità coloniali che distribuiscono la povertà in modo sproporzionato verso popolazioni indige-ne, afrodiscendenti e, generalmente, razializzate come non bianche. Tuttavia, è fondamentale ri-pensare la questione anche nel contesto europeo, dove regnano sia l’amnesia coloniale che il tabù razziale – dando luogo, in Italia, a speculazioni genetiche sul perché i “neri” non si ammalereb-bero di Covid-19, mentre in Svezia la pandemia attacca in modo sproporzionato la comunità so-mala. In entrambi i continenti non è un mistero che gran parte dei lavori non qualificati ritenu-ti “essenziali” sono svolti da persone immigrate e spesso non (o “non abbastanza”) bianche. La questione razziale legata al colonialismo e alle migrazioni di ieri e di oggi, e finora da noi poco pensata, si riconfigurerà in modo inedito con le nuove misure di regolamentazione delle frontiere e con il nuovo patto di cittadinanza basato sulla salute che Villegas ben esprime nelle sue righe.

Qualche settimana fa, proprio quando la pan-demia stava per scoppiare, avevamo previsto che lo scenario risultante sarebbe stato para-gonabile a quello dell’11 Settembre, in quanto all’impatto che avrebbe avuto sulle logiche di

LA CRISI DELLA CIVILTÀ O LA FINE DELLA NORMALITÀ

DI FABIÁN VILLEGAS

TRADUZIONE DI FIORENZA PICOZZA

Fabián Villegas, storico, educatore e giornalista messicano residente nella Repubblica dominica-na, è il fondatore della rete “Contranarrativas” (https://www.contranarrativas.org), un progetto di comunicazione indipendente, orizzontale e colla-borativo, impegnato nella diffusione di narrazio-ni, epistemologie ed estetiche anti-coloniali e peri-feriche, provenienti per lo più dal “sud globale”.Il suo testo che presentiamo in traduzione nasce in seno al continente americano, dove la pande-mia ha inaugurato una nuova stagione di dise-guaglianza, autoritarismo e necropolitica, con misure drastiche di confinamento, coprifuoco e chiusura delle frontiere che stanno già causando devastanti conseguenze sociali ed economiche. Mentre il governo cileno ne ha approfittato per reprimere e interrompere la stagione di proteste permanenti che aveva interessato i mesi scorsi, e Trump ha sospeso l’entrata di nuovi immigra-ti negli Stati Uniti, il presidente del Brasile ha adottato una linea negazionista, minacciando ripetutamente l’intervento militare. Se in Italia la pandemia di Covid-19 è stata descritta dai medici di Bergamo come “l’Ebola dei ricchi”, dall’altra parte dell’oceano sta emergendo chiara-mente come i gruppi colpiti più duramente siano i poveri, soprattutto quando non sono bianchi.Gli Stati Uniti registrano un fortissimo numero di vittime afroamericane e latine; a New York i corpi non reclamati dai familiari vengono sep-pelliti nella fossa comune di Hart Island, scavata dai reclusi di Rikers Island.Nel coprifuoco di Guayaquil, epicentro della pandemia in Ecuador, per paura del contagio, i cadaveri delle vittime non ritirati dalle autorità sono gettati e bruciati in strada. I migranti in transito dall’America centrale agli Usa, o depor-

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sovranità territoriale, in particolare riguardo a restrizioni sulla mobilità, legislazioni anti-mi-gratorie, controllo delle popolazioni, blocchi commerciali e cordoni sanitari.Ciò che allora, nelle speculazioni delle scienze sociali, si interpretava come un riaggiustamen-to di piccolo o medio impatto nella scacchiera geopolitica, è poi finito per configurarsi come un dispositivo interplanetario di un nuovo or-dine biopolitico, con conseguenze devastanti per quanto ancora imprevedibili. Se c’è una cosa che definisce il ventunesimo secolo non è solo la complessità della crisi, ma piuttosto la convergenza nello stesso evento di una pluralità di crisi eterogenee; non esistono più le crisi al singolare.Senza rendercene conto, siamo stati presi alla sprovvista da una delle peggiori distopie e, come in tutte le distopie fantascientifiche, ci sono di-versi buchi nella sceneggiatura. C’è un universo intero di vettori di oppressione, diseguaglianza e violenza che è rimasto nell’opacità, nascosto sotto l’isteria del contagio, la narrazione della calamità naturale, e la misofobia per cui biso-gna combattere l’entrata nelle nostre case del nemico invisibile con tutti i mezzi, attraverso tutte le cartografie e frontiere, anche digitali.In questa distopia abbiamo appreso un copio-ne in cui non ci sono responsabili. Abbiamo rafforzato la metanarrazione per cui i disastri naturali sono appunto “naturali”, e abbiamo accettato come principio storico il racconto ca-ricaturizzato di un mercato di animali selvatici a Wuhan. Sotto gli effetti dell’infodemia non abbiamo trovato migliore protezione della salu-te che un individualismo disumanizzante com-binato a un fascismo preventivo.Nel nome dello stato d’eccezione, ovvero del-la protezione individuale dalla pandemia, è ormai tutto permesso: dalla sospensione delle libertà, alla violazione delle garanzie individua-li, passando per militarizzazione, sorveglianza, controllo e regolazione della mobilità, preca-rizzazione, saccheggio, violazione dei diritti umani, e smantellamento dei diritti del lavoro e della sicurezza sociale. Nel nome di un pia-

no d’emergenza salvifica abbiamo reso la salute un criterio di cittadinanza, per esistere davanti al diritto – sia legalmente che illegalmente – come sani e malati.La crisi della Covid-19 attraversa tutto, la vita stessa. Rivela il fallimento dei modelli dei si-stemi sanitari neoliberali e coloniali, mostra la meschinità e la rapacità lucrativa dell’industria farmaceutica, l’accumulazione per espropria-zione dei sistemi di pensione privati, la nulli-tà dei diritti del lavoro e della sicurezza sociale davanti alla precarizzazione della vita e alla di-visione e stratificazione razziale del lavoro, gli interessi imperiali e geopolitici, le cartografie dello sfruttamento che trascendono la relazio-ne capitale/lavoro, l’urgenza della sovranità ali-mentare, la fragilità dell’economia dei servizi, i criteri coloniali nei protocolli di ricerca me-dica, le dispute imperiali e lo sviluppo discre-zionale di armi biologiche, la dottrina politica dello shock che sa trarre profitto dalle crisi, il controllo e la sorveglianza sull’accesso all’infor-mazione, il big data e l’epidermizzazione del biopotere, le guerre finanziarie, l’apertura dei regionalismi geo-economici, e infine il corpo come mappa di normazione della vita stessa.Il grande mito della contemporaneità ci fa credere che siamo tutti attraversati dalla stessa crisi, ma la pandemia non cede alle strutture coloniali. La divisione e stratificazione razziale del lavoro fa sì che la sovraesposizione e vul-nerabilità al contagio di alcuni rappresenti la sopravvivenza e comoda bunkerizzazione di altri. I morti di Guayaquil non hanno lo stes-so valore editoriale dei morti lombardi. Non entrano in quel regime di rappresentazione universale della morte perché sono segnati da criteri di razza e di classe che riducono i loro corpi abbandonati per strada a un incidente, una negligenza della gestione statale dell’emer-genza. Per essere universalizzata, la narrazione emotiva della tragedia deve essere “imbianca-ta”, omettendo dalle immagini delle grandi testate che l’80% dei malati di Chicago sono afroamericani, coprendo i milioni di sfollati di Mumbai, minimizzando che i colpiti di questa

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crisi della civiltà, dopo il contagio, saranno per lo più corpi razzializzati, intrappolati nell’onto-logia politica del contagio e del salario.Perfino in mezzo alle retoriche di falso umani-tarismo occidentalocentrico che costruiscono un senso di unificazione della “razza umana” nella “lotta” contro la pandemia – come se si trattasse davvero di una guerra con dei soldati anziché cittadini – non si è esitato a rendere pubblica la vecchia consuetudine storica di utilizzare paesi quali Liberia o Eritrea come la-boratori privati di sperimentazione di vaccini e ricerca medica1. Per l’egemonia, la concezione coloniale delle geografie residuali e dei corpi sacrificabili è sta-to un principio storico, dagli esperimenti sulla sifilide in Guatemala, ai cordoni per la menin-gite in Nigeria, passando per i fatidici test anti-retrovirali in Gambia.La pandemia ha acquisito lo statuto morale di pandemia quando si è eurocentrata, universa-lizzando la fragilità dell’Europa davanti a un nemico interno che non conosce cordoni sani-tari né frontiere chiuse. Dicono bene quelli che sostengono che utilizzare la categoria di “crisi della civiltà” vuol dire arrivare tardi alla conver-sazione e narrare la crisi a partire dall’esperien-za occidentalocentrica e dalla sua costruzione delle cittadinanze metropolitane. Noi popoli di Abya Yala2, non siamo da sempre i sopravvis-suti di una crisi della civiltà? L’esperienza afro-diasporica non è da sempre il risultato di una crisi della civiltà? Ormai l’abbiamo interioriz-zata la crisi della civiltà. La crisi della civiltà si erge sul recupero della memoria storica nel no-stro passato, sull’immediatezza oppressiva del presente, e sull’incapacità di immaginare una metafora per il nostro futuro.Ci troviamo di fronte a un momento senza pre-cedenti. L’intellettuale afrobrasiliano Abdias do Nascimento aveva previsto che il capitalismo del ventunesimo secolo avrebbe inaugurato una nuova proporzionalità tra l’illusione dei diritti democratici e le nuove forme di oppressione che avrebbero ridefinito l’orizzonte del “poli-tico”; così, la distopia del 2020 ha prodotto un

nuovo orizzonte di senso, una nuova gramma-tica, una nuova concezione del politico.A differenza di quanto sostiene tutta la bian-chissima tradizione di pensiero post-struttura-lista – che vede nelle circostanze presenti un’af-fascinante possibilità di installare nel dibattito pubblico metafore e categorie analitiche ferme alla temporalità coloniale del diciannovesimo secolo – resta aperta la possibilità di pensare il mondo che vogliamo costruire.In sostanza, tra il paradigma dell’isolamen-to totalitario e quello della solidarietà globale c’è uno squilibrio abissale. Non siamo né di fronte alla fine del capitalismo, né davanti alla comoda possibilità di scegliere. La solidarietà globale deve presentarsi come un’alternativa di-rompente, contro-egemonica, di articolazione comunitaria, creatività e immaginazione poli-tica davanti alla regolamentazione del sociale che verrà imposta come risultato di questa crisi multipolare. Se la narrazione egemonica è stata quella di sfrut-tare la tragedia e la crisi umanitaria per, in molti casi, imporre regimi di controllo, “bio-lenza” e sorveglianza, dobbiamo sfruttare nell’immedia-to questa narrazione umanitaria come esercizio riparativo e redistributivo, per pensare e artico-lare forme di disobbedienza civile nella cornice della quarantena e del confinamento.

Note1. Il primo aprile, durante una diretta tv, il primario del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cochin di Parigi, Jean-Paul Mira, e il direttore di ricerca dell’Inserm di Lille, Camille Locht, hanno paventa-to la possibilità di sperimentare in Africa la possibile maggiore resistenza alla Covid-19 causata dal vaccino contro la tubercolosi, giacché dove “non ci sono ma-schere, non ci sono cure, non c’è rianimazione”, le persone sono più “esposte” (N.d.T).2. Abya Yala (“terra matura” o “terra del sangue vita-le”) è il nome dato al continente americano, prima della colonizzazione, dal popolo indigeno Guna di Panama e della Colombia. È oggi ampiamente ac-cettato come nome ufficiale dai popoli indigeni del continente e, conseguentemente, dagli studi decolo-niali (N.d.T.).

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continuamente esposti al contagio sui mezzi pubblici sono migranti; in India i lavoratori migranti sono stati i più colpiti dall’improvvi-so lockdown; e in Ecuador i cadaveri degli am-malati più poveri sono stati abbandonati e bru-ciati in strada. Gli “uomini liberi e occidentali” che rivendicano le loro libertà non sembrano preoccuparsi per coloro che più sono colpiti sia nella propria salute che nella sopravvivenza economica; ma non c’è da stupirsene, perché la difesa dei “valori costituzionali” si appoggia su un discorso di matrice coloniale, per cui di-ritti e libertà, nella zona euro-atlantica, sono pensati a partire da soggetti bianchi e di classe media, già da sempre coscienti dei loro diritti inviolabili.Questa “primavera virtuale” mi ha sorpreso in Messico, un paese con migliaia di femminici-di annuali, sparizioni forzate e morti collate-rali della guerra al narcotraffico; a un oceano di distanza dai tanti affetti in stato di shock e progressivo isolamento, sentivo che l’Europa stava entrando in una nuova epoca, segnata da una fragilità a noi sconosciuta dal dopoguerra in poi. Che significava pensare quella fragilità da un luogo dove morte e violenza sono espe-rienze infinitamente più quotidiane? Insieme alle derive fascistoidi poco tematizzate nel caso italiano, mi preoccupava la rottura del tessu-to sociale, soprattutto in relazione ai vincoli esperienziali e cerimoniali tra “sani” e “malati” – una categorizzazione che diverrà sempre più centrale sia a livello politico che economico. Certo mi rincuoravano le reti solidali sorte a Napoli, Milano, Barcellona, ma ascoltavo con sospetto chi annunciava che questa rinnovata fragilità avrebbe inaugurato una nuova soli-

Il 2 maggio scorso un gruppo di “intel-lettuali” italiani ha pubblicato un appello al Presidente della Repubblica che cominciava citando un grande esempio di bianchezza co-loniale latinoamericana, Mario Vargas Llosa, e concludeva con particolare allerta riguardo al rischio che il “modello cinese” divenisse un riferimento politico – come se la sanità pubbli-ca non fosse di per sé una questione politica. Noi non siamo cinesi, suggerivano gli autori: “siamo uomini liberi, italiani, occidentali. E ri-vendichiamo le nostre libertà e i nostri diritti”. Simili inquietudini sono state espresse in vari luoghi popolati da “uomini liberi e occidenta-li”, in particolare in Spagna, dove la destra si preoccupa di una possibile “dittatura costitu-zionale” e negli Stati Uniti, dove gruppi della alt-right scendono in strada al grido di “il mio corpo è mio e decido io”, “la paura è il vero virus” e “la libertà è la cura”. Bisogna chiarire, fin dall’inizio, che questi uomini (e donne) “li-beri e occidentali” non sono affatto i dannati della pandemia, né a livello sanitario né econo-mico. Gettando uno sguardo sulla situazione globale, siamo ormai ben lontani dall’iniziale predizione dei medici di Bergamo che questa sarebbe stata “l’Ebola dei ricchi”. Piuttosto, la pandemia segue il vecchio adagio afroamerica-no per cui “quando i bianchi si prendono un raffreddore, ai neri viene la polmonite”: negli Stati Uniti come in Inghilterra e in Svezia, la popolazione nera, cittadina e migrante, occu-pa preoccupanti percentuali di ammalati e di morti, giacché i più impoveriti e marginalizza-ti sono anche quelli che più soffrono dei fat-tori di rischio della Covid-19; a Milano come a New York, molti dei lavoratori “essenziali”

IN MESSICO, SANI E MALATIDI FIORENZA PICOZZA

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la vera e propria norma di secoli di subordina-zione, saccheggio e violenza coloniale i quali, a loro volta, sono intimamente intrecciati con la storia della filosofia liberale e dello stato di “diritto”. Le fotografie di Khaled non hanno prodotto stupore in me, ma piuttosto una rabbia e im-potenza totalizzanti. Sapevo dapprincipio che le crescenti preoccupazioni per il virus, che allora già occupava le prime pagine di tutti i giornali, riguardavano solo gli “uomini liberi e occidentali”, ovvero i soggetti pensati dalle costituzioni nazionali, e non quei corpi colo-nizzati e sfigurati. Ciò che piuttosto mi procu-rava un certo stupore erano quegli articoli del giornalismo migrantofilo che insistevano sulla “morte” o “fine” dell’Europa, un’Europa dei diritti che in realtà non è mai esistita. Negli ul-timi vent’anni almeno 40mila persone, se non di più, hanno perso la vita nel Mediterraneo e innumerevoli altre continuano a essere sotto-poste a tutte le angherie sociali, legali, econo-miche, simboliche e fisiche immaginabili.L’appello degli “intellettuali” italiani è stato pubblicato proprio nel momento in cui si met-teva a punto la sanatoria di braccianti agricoli e badanti – un prodotto importante degli scio-peri dei primi, ma anche una misura del tut-to opportunistica e parziale di fronte ai “porti chiusi” tanto agognati da Salvini che sono ora una realtà incontrastata. Le imbarcazioni che continuano a tentare la traversata sono abban-donate in mare sia dall’Italia che da Malta e le condizioni di vita negli hotspot italiani e greci sono indicibili. L’Asgi pone importantis-sime critiche strategiche allo stato, chiedendo la regolarizzazione di tutte le persone senza documenti, ma lo fa in nome dell’universalità dei diritti umani e civili garantita dalla nostra Costituzione e questo richiamo conduce a un circolo vizioso. I “valori costituzionali” na-scono in seno agli stati-nazione, nel corso di una storia coloniale che è la storia della “raz-za”. Per ovvie ragioni storiche, questa parola è divenuta un tabu nel continente europeo ma la sua assenza ci impedisce di comprenderne

darietà globale. Le sfumature tra carità uma-nitaria e solidarietà politica sorte con la pan-demia hanno un precedente importante nelle migrazioni illegalizzate: da Lesvos a Lampedu-sa, passando per Ventimiglia e per i Balcani, negli ultimi anni l’umanitario è diventato un terreno di disputa e ambiguità, polarizzato e sospeso tra disobbedienza civile e depoliticiz-zazione. Il motto pandemico del “Resta a casa, salva vite”, appeso nelle metro di mezzo mon-do, da Londra a Città del Messico, non può non ricordarci anni di campagne di ong che ci invitavano a salvare il mondo comodamente seduti a casa nostra.A inizio marzo, alla frontiera turco-greca, gruppi neonazisti incendiavano i locali delle ong e picchiavano i migranti, mentre la polizia li attaccava col gas e, in alcuni casi, gli sparava, uccidendoli. La polarizzazione tra un umani-tarismo salvifico – ma del tutto incapace di resistenza politica, giacché le ong evacuavano i propri volontari – e l’aggressiva necropolitica di stato era più forte che mai. Le istituzioni europee rivendicavano la Grecia come “scudo d’Europa” e affermavano che la legittimità di sparare ai migranti “dipende dalle circostan-ze”. Diversi giornalisti proferivano che l’Euro-pa “moriva” in quella frontiera.Le fotografie di Belal Khaled, pubblicate su Trt Arabi, ritraevano un gruppo di uomini nudi che mostravano all’obiettivo le loro cicatrici, dopo essere stati percossi, derubati e obbligati dalla polizia greca a tornare a nuoto in Tur-chia. In verità non mostravano nulla di nuovo sotto il sole, però riportavano ad altre immagi-ni, catturate da Enrico Dagnino nel 2009. Alla vigilia del trattato tra Berlusconi e Ghaddafi, Dagnino fotografò il primo respingimento in mare: un gruppo di uomini africani si spo-gliavano, mostrando le cicatrici delle torture subite in Libia; uno, inginocchiato, afferrava la mano di un militare della marina, implo-randolo di non essere riportato all’inferno libico, da noi direttamente finanziato. Né le immagini del 2009 né quelle del 2020 sono in alcun modo un’aberrazione della storia; sono

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ri e occidentali non sembra dunque aver pro-dotto maggior empatia o solidarietà; piuttosto rafforza la cecità strutturale riguardo l’egua-glianza esistenziale e utopisticamente legale tra cittadini di prima, seconda e terza classe, tra cittadini e migranti, e tra turisti e migran-ti. E queste asimmetrie non interessano solo le divisioni nord/sud in termini di nazionalità, ma sono del tutto presenti negli stessi territori nazionali, stratificati in base a razza e classe, come ben dimostra la gestione della pandemia a Città del Messico, che adopera misure per-formative del tutto distinte nei quartieri ricchi e in quelli poveri, nelle grandi urbe e nelle co-munità rurali indigene. Nella capitale il virus ha colpito soprattutto i quartieri più periferici, popolati da persone tutt’altro che bianche; la narrazione statale, giornalistica e benpensante li colpevolizza, come se il contagio fosse causa-to dalla loro “ignoranza” e riluttanza all’obbe-dienza, anziché dalla disparità strutturale che li obbliga a scegliere fra sopravvivenza fisica ed economica. Né la detenzione dei migranti in Chiapas al confine con il Guatemala, né le lotte indigene contro i megaprogetti in Yuca-tan sono rientrate nel piano di protezione del governo; a loro soltanto è stata riservata la mi-litarizzazione nascosta agli occhi dei cittadini di classe media e alle loro rivendicazioni pro-gressiste, tra cui le manifestazioni femministe.Paradossalmente, quando la pandemia sem-brava ancora un problema italiano – perché gli italiani riscuotevano una simpatia globale mai riservata a cinesi e iraniani – io ricevevo infi-niti messaggi di solidarietà e preoccupazione proprio da persone che hanno molto sofferto gli effetti della colonialità globale: amici cu-bani mi scrivevano che se non fossi riuscita a rientrare in Italia alla scadenza del mio visto messicano, potevo contare su una casa a Cuba; conoscenti messicani mi chiedevano se avevo bisogno di cibo o medicine, giacché la pan-demia avrebbe ulteriormente complicato la mia ricerca di lavoro; un compagno nigerino di Lampedusa in Hamburg lanciava un ap-pello ai tedeschi affinché solidarizzassero con

il funzionamento strutturale (per esempio do-vremmo riflettere sul fatto che i nomi dei mor-ti nelle recenti rivolte nelle carceri sono quasi tutti di origine straniera). Prima ancora di di-venire ideologia, la “razza” è stata una pratica di governo, esercitata dagli assemblaggi di ciò che si considerava “europeo” sugli assemblaggi considerati “non- europei”. Nel primo periodo coloniale determinò la divisione razzializzata del lavoro e della proprietà; più tardi determi-nò i moderni controlli di frontiera, originati nelle colonie settler che sperimentavano inno-vative “democrazie liberali” e ne escludevano i coolies provenienti dall’Asia “autoritaria”. Per quanto gli assemblaggi della “razza” cambino attraverso il tempo, continuano a informare la divisione internazionale del lavoro e della li-bertà di movimento, insieme a tutte le dimen-sioni della colonialità contemporanea: guerre, dittature, estrattivismo e povertà, ovvero pro-prio le cause dei movimenti verso l’Europa, gli Stati Uniti e l’Australia che, al di là delle narra-zioni eurocentriche, destabilizzano soprattutto il sud del mondo.I diritti costituzionali cui si appellano i cit-tadini “liberi e occidentali” sono proprio quelli da sempre sistematicamente violati per quanto riguarda la maggior parte della popo-lazione mondiale e, in particolare, i migranti illegalizzati che si affacciano alle soglie delle “democrazie liberali”. All’inizio della pande-mia era surreale osservare le preoccupazioni internazionali per i turisti bloccati a Cuba o in Perù, ripescati con aerei di stato quando i paesi ospiti avevano completamente bloccato le proprie frontiere, mentre i migranti in tran-sito attraverso il Messico o la Turchia subivano una repressione sempre più violenta; quelli già residenti ma privi di documenti sono sistema-ticamente esclusi sia dalle politiche di salute pubblica che da quelle di mitigazione econo-mica; per di più, sia dagli Stati Uniti che del Messico sono continuate le deportazioni verso l’America Centrale, nel completo disprezzo dell’estensione geografica del contagio.La nuova fragilità degli uomini bianchi, libe-

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Lampedusa di questo pianeta, incomparabili all’esperienza dell’isolamento in casa. Lampe-dusa e Lesbos si riconfermano come territori astratti, abitati da masse anziché singoli corpi racchiusi in quel “tu”.Dobbiamo diffidare più che mai dell’umani-tarizzazione di questa politica della fragilità, narrata attraverso le immagini emotive dei ca-mion militari che portano via da Bergamo i corpi da cremare, o dei prigionieri che scavano le fosse comuni di Hart Island nel Bronx. Le battaglie dei migranti ci insegnano che l’uma-nitarismo copre la violenza coloniale e in que-sto caso rischia di coprire il fascismo preventi-vo e quello che ne resterà, attraverso il ricatto della crisi e la retorica del presentismo per cui “non è il momento di pensare”. Per anni lo spettacolo di frontiera non ci ha permesso di pensare, perché il pensiero era schiacciato dal-la pressione del “che ne facciamo dei migranti che arrivano?” La stessa pressione avvolge oggi la gestione dei malati e dei morti, mentre ci arrendiamo incondizionatamente alla triade “Dio, Patria e Famiglia”, sostituendo Dio con la medicina istituzionale, la sola affidataria di cura e lutto, come se la fragilità dei corpi fosse una questione meramente tecnocratica, anzi-ché di dialogo e assunzione di rischi all’inter-no di relazioni di amore, cura e solidarietà. È ovvio che ricorriamo allo stato strategicamente ma non dovremmo fidarci mai, neanche per un solo momento, di quello stato migrantici-da, femminicida, estrattivista, sfruttatore e co-loniale che fino a ieri denunciavamo. Mentre aspettiamo che la pandemia sparisca in un sof-fio, così come è arrivata, si acuiscono le frattu-re politiche; altri legami, però, si tessono, con-dividendo rabbia, paura, tenerezza. Nei mesi a venire mi sembra più importante che mai afferrarci a questi legami, essere “balsamo per tante ferite” come scriveva Etty Hillesum in altri tempi bui, ma farlo a partire da un oriz-zonte politico capace di pensare una volta per tutte i tanti assemblaggi e stratificazioni che rendono gli uni degni di tenerezza e solidarietà e gli altri no.

gli italiani abbandonati dalle istituzioni euro-pee; infine vecchi amici afghani e palestinesi si preoccupavano per la salute dei miei genitori. Stavo effettivamente attraversando la soglia della “migrazione”, sospesa nell’incognita di quando avrei potuto riabbracciare la mia fa-miglia. Quelli che mi più mi hanno sostenuta emotivamente sono amici che non vedono le loro famiglie da anni, schiacciati sotto un re-gime di frontiera che spezza i legami affettivi e rende impossibile poter assistere le malattie e le morti dei propri cari. Alcuni di loro sono passati per esperienze molto peggiori di que-sta pandemia, nella migrazione oppure in una vita stanziale ma marginalizzata, ma in nessun momento gli è passato per la testa di deridere le mie inquietudini.Per quanta verità ci sia nell’affermazione diffu-sa che questa pandemia comporta nuove op-portunità di relazione con la fragilità, la morte, la malattia e la separazione, non prendiamoci in giro: questa è una “novità” solo per quella piccola porzione della popolazione mondia-le che viveva nell’illusione dell’immortalità e della sicurezza. La mortalità è sempre stata fin troppo presente per la stragrande maggioran-za delle persone che abitano questo pianeta, a volte anche “occidentali”: per i migranti illega-lizzati come per le donne trans, per i tossicodi-pendenti e i detenuti, per gli immunodepressi e le lavoratrici sessuali, per le famiglie dei de-saparecidos e delle vittime di femminicidio, per gli attivisti ambientali indigeni e gli abitanti delle zone più inquinate industrialmente, per tutte le popolazioni più decimate dalle guerre e per i milioni di morti annuali a causa di in-fezioni batteriche o virali altrove curabilissime. Quest’inganno, quest’universalizzazione della fragilità e della mancanza di libertà di alcuni è magistralmente esposto in un testo recen-temente pubblicato dal filosofo queer Paul B. Preciado, il quale scrive che ora “il corpo, il tuo corpo” è il nuovo oggetto della biopolitica e che “la nuova Lampedusa è la tua pelle”. Que-sti riferimenti danno per scontato che i lettori non siano effettivamente passati per le tante

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Nonostante Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York, abbia chiamato la Co-vid-19 “la grande livella”, la malattia che colpi-sce tutti, abbienti e meno abbienti, privilegiati e non, le cifre dicono che non è così. Nel momen-to in cui scrivo (10 maggio 2020) negli Usa l’e-pidemia ha causato 80mila vittime e si stima che il suo tasso di mortalità sia per gli afroamericani 2,3 volte superiore rispetto ai latinoamericani, 2,4 volte rispetto agli asiatici e 2,6 volte ai bian-chi. In alcuni Stati il divario è ancor maggiore: nel Michigan e nel Missouri i neri hanno una probabilità 5 volte maggiore di morire rispetto ai bianchi, cifra che sale a 6 a Washington DC e addirittura a 7 in Kansas e Wisconsin. Sembra che gli afroamericani, il 13% della popolazione, subiscano il 27% dei decessi.

La questione della medicina razziale Quando iniziavano a trapelare questi dati sulla mortalità dei neri, nei primi giorni di aprile, rispondendo alla domanda di un giornalista Trump ha dichiatato di non saperne spiegare il motivo, aggiungendo che: “Questa cosa non ha senso; non mi piace e dobbiamo procurarci, in un paio di giorni, statistiche più precise”.Eppure fino al 20 aprile Il Center for Disea-se Control and Prevention, che sovraintende alla gestione dell’epidemia, non ha distribuito alcun dato sull’appartenenza razziale dei con-tagiati e delle vittime. E ciò nonostante negli Stati Uniti la raccolta di informazioni mediche di questo tipo sia obbligatoria, al contrario di altri Paesi, come la Francia che dal 1978 vie-ta per legge ogni censimento basato sull’etnia dei cittadini. Il ritardo è stato superato solo in seguito alla pressione di centinaia di medici e

gruppi per i diritti civili, che hanno accusato il governo di nascondere informazioni indispen-sabili per distribuire efficacemente le risorse. La riluttanza a pubblicare questi dati non sorprende, perché riflette la tensione fra due paradigmi opposti ma in qualche modo coe-sistenti nella cultura americana. Da una parte vi è il modello di tutela antidiscriminatoria, forte di una sentenza della Corte suprema del giugno 2007 (Parents Involved in Community Schools v. Seattle School District No.1) che ha imposto al governo di adottare un approccio colorblind (daltonico) nei processi di policy-making. Come in Francia, ci si focalizza sulla giustizia individuale privilegiando la dimen-sione formale e neutralista dell’eguaglianza, in cui la razza non trova posto. Allo stesso tempo, però, anche in seguito alla mobilitazione degli studiosi di colore impe-gnati a riformulare l’analisi del diritto america-no in base alla prospettiva razziale (la cosiddet-ta Critical Race Theory), sono state inaugurate politiche razzialmente consapevoli come le af-fermative actions, interventi che compensano gli svantaggi derivanti dalla discriminazione. È un approccio che tenta di combattere l’idea di razza, una mera costruzione sociale e giuridica, non negandone l’esistenza ma partendo dall’a-nalisi puntuale di tutte le sue manifestazioni. È in questo quadro culturale contradditorio che è nato un dibattito sui benefici e i rischi dell’utilizzare esplicitamente le categorie raz-ziali in ambito medico. Il problema è ben il-lustrato in un episodio di “Doctor House” del 2005. Un paziente di colore con malattie cardiache rifiuta la prescrizione di BiDil, un farmaco approvato dalla Food and Drug Ad-

QUANDO L’AMERICA SI PRENDE UN RAFFREDDORE, I NERI SI PRENDONO L’INFLUENZA

DI FRANCESCA NICOLA

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spiega la storica Rana Hogarth in Medicali-zing Blackness (2017). Risalendo nel corso del-la storia, nell’Ottocento Samuel Cartwright, influente consulente medico degli Stati del Sud, sviluppò una medicina su base razziale che in campo psichiatrico delineava la dra-petomania, una patologia che spingerebbe gli schiavi a “vagabondare e desiderare la libertà”, e in fisiologia dimostrava come fossero costi-tuzionalmente predisposti al duro lavoro nelle piantagioni. Ma già nel Settecento, uno fra i padri della nazione, Thomas Jefferson, nelle sue Note sullo Stato della Virginia teorizzava che i neri tollerrerebbero il calore molto me-glio dei bianchi (e meno il freddo). E proprio in quell’epoca, ricorda Rana Ho-garth, la teoria dell’immunità nera emerse in modo evidente a Filadelfia durante un’epide-mia di febbre gialla. Quando il numero dei morti iniziò a salire, 20mila cittadini fuggi-rono nelle campagne, compresi George Wa-shington, Thomas Jefferson e quasi tutti i poli-tici al governo, che in quegli anni aveva sede a Filadelfia. Benjamin Rush, autorevole medico e direttore dell’Istituto di Medicina, oltre che stimato politico, convinto abolizionista e fir-matario della Dichiarazione di Indipendenza, teorizzò che gli afroamericani fossero “acclima-tati”, ossia immuni alla malattia, e con l’aiuto di alcuni leader della loro comunità (i ministri episcopali metodisti Absalom Jones e Richard Allen, fondatori della Free African Society di Filadelfia) li reclutò per prendersi cura dei cittadini bianchi rimasti in città. Lavoran-do come infermieri, carrettieri e scavatori di tombe, i neri accettarono volentieri di fornire quell’aiuto, sebbene scarsamente renumerato.

Medicina e pregiudizi razzialiConnesso al mito dell’immunità dei neri vi è quello di una loro minor sensibilità al dolo-re. Nel 2016 uno studio (Singhal, Tien, Hsia 2016) condotto per determinare se vi sia un pregiudizio razziale nelle prescrizioni di anti-dolorifici ha esaminato ben 60 milioni di visite in pronto soccorso di pazienti tra 18 e 65 anni

ministration solo per gli afroamericani: “Non voglio comprare farmaci razzisti, ok?”. Il Dr. House gli risponde: “È razzista perché aiuta i neri più dei bianchi? È meglio morire per una questione di principio?”. Il paziente con-trobatte: “Guardi. Il mio cuore è rosso, il suo cuore è rosso. Non ha senso prescrivere farma-ci diversi”. Ha ragione il Dr. House o il paziente? Difficile dirlo, perché alcune differenze fisiologiche esi-stono senza dubbio: fra i parametri di cui ten-gono conto le analisi mediche della funzionali-tà polmonare, oltre all’età, al sesso e al peso vi è anche la razza. Ma molti ricercatori affermano che l’associazione automatica fra l’appartenen-za razziale e alcune malattie conduce spesso a clamorosi errori medici. I sintomi della fibrosi cistica, ad esempio, negli afroamericani non vengono diagnosticati in tempo, perché i me-dici la considerano ancora oggi una malattia tipica dei bianchi.

Il mito dell’immunità neraI rischi non si li limitano all’ambito clinico. Le convinzioni sull’incidenza razziale di determi-nate malattie possono avere un impatto dram-matico quando fuoriescono dall’ambito me-dico e si depositano nel sentire comune sotto forma di miti. Nei primi giorni dell’epidemia ha fatto clamore un video in cui un poliziotto di Baltimora (ora indagato) tossiva deliberata-mente in faccia ad alcuni uomini di colore, i quali reagivano ricordandogli con rabbia che i neri sono immuni, non prendono il virus. For-se, hanno poi argomentato molti commenta-tori, gli afroamericani hanno sottovalutato il pericolo e ora pagano il prezzo della credenza in una presunta immunità, una maggior resi-stenza alle patologie polmonari. Come molti miti medici, anche questo si av-vale di un’evidenza: in effetti, al contrario delle aspettative e per ragioni mai ben indagate, du-rante la “spagnola” del 1918-1919 la popolazio-ne nera degli Stati Uniti soffrì una mortalità decisamente inferiore a quella bianca. Ma il mito ha radici lontane e profonde, come

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Molti hanno accusato di razzismo questo di-scorso, sia per la terminologia usata sia perché presuppone un collegamento fra l’alta morta-lità dei neri e la loro condotta individuale per nulla provato. Anzi, un sondaggio nazionale condotto dal Pew Research Center tra il 10 e il 16 marzo ha rilevato che gli intervistati neri avevano il doppio di possibilitá di considerare il Coronavirus come una grave minaccia alla propria salute rispetto ai bianchi. I neri erano anche più propensi dei bianchi ad acquistare alimenti non deperibili, disinfettante per le mani, prodotti per la pulizia, carta igienica e acqua in bottiglia. Rientra in questo ambito la questione dell’o-besità, perché rispetto alle altre epidemie sto-riche, un tratto peculiare di quella in atto è che il tasso di mortalità dipende molto, oltre che dall’età, soprattutto dalla comorbidità, cioè dalla presenza di altre patologie, in par-ticolare ipertensione, asma e diabete, molto frequenti negli afroamericani e quasi sempre connesse all’obesità. È noto che negli Stati Uniti l’obesita è un importante problema sa-nitario, ma spesso si tende a darne una spie-gazione morale, facendone il risultato di una cattiva alimentazione e della mancanza di eser-cizio fisico, dando per scontato che entrambe siano opzioni liberamente scelte e alla portata di tutti. In realtà si tratta di risorse che, come tutte quelle legate alla salute, scarseggiano nei quartieri a maggioranza neri. Come ha detto David Williams della Harvard University, “Il codice postale negli Stati Uniti è un indicatore della probabilità di vita migliore del patrimo-nio genetico”. Chi vive nei quartieri più ricchi, semplicemente, vive di più.Se è vero infatti che Negli Stati Uniti un adul-to su tre è obeso, è altrettanto vero che l’obesi-tà riguarda soprattutto ispanici e afroamerica-ni che vivono nei cosiddetti food deserts, intere aree o quartieri dove l’unico cibo disponibile è quello “spazzatura” offerto dalle catene di fast-food. Il legame tra povertà e disponibilità di cibo è stato ben documentato dalla metà degli anni Novanta, ma secondo una ricerca uscita

dal 2007 al 2011. È risultato che i neri hanno circa la metà delle possibilità che venga loro prescritto un antidolorifico. Si ipotizza che i medici presumano che possano abusare dei farmaci oppure che non riconoscano il loro dolore a causa delle differenze culturali nella sua descrizione, per esempio una minore ver-balizzazone. In ogni caso, è un dato eclatante e forse spiega perché la dipendenza da oppiacei (un’emergenza che causa 78 vittime al gior-no) colpisca principalmente la popolazione bianca, in particolare del Nord-Est. In questo scenario la scarsità di medici neri aggrava la situazione. Solo il 4% è afroamericano, un nu-mero destinato a non aumentare in futuro: nel 2014 hanno frequentato la facoltá di medicina meno afroamericani che nel 1978.

La moralizzazione della malattiaVi è poi il rischio che una medicina razziale sviluppi interpretazioni etiche, che moraliz-zando la salute e la malattia e facendone l’esi-to della buona o cattiva condotta individuale, di fatto si trasformano in stereotipi razzisti. Durante le epidemie di tubercolosi a cavallo del XX secolo, i neri erano spesso descritti dai funzionari pubblici come irrimediabilmente “incorrigibili”, refrattari ad adottare le norme igieniche e inclini al vizio, e dunque più pro-pensi a contrarre la malattia.E anche in questi mesi si sono moltiplicati gli appelli ai leader della comunità afromericane affinché si impegnassero a informare sui rischi del virus. Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, il capo della sanità pubblica Je-rome Adams, lui stesso afroamericano, ha in-viato un appello ai neri e ai latini. “Per bloc-care la Covid-19 dovete evitare alcool, tabacco, droghe. E chiamate i vostri amici e familiari. Controllate come sta vostra madre; lei ha bi-sogno di sentirvi in questo momento… Ab-biamo bisogno che facciate questo, se non per voi stessi, per la vostra abuela. Fatelo per vo-stro nonno. Fatelo per la vostra Big Mama [la nonna, N.d.A]. Fatelo per il vostro Pop-Pop [il nonno, N.d.A]”.

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loro non indossano la mascherina: hanno pau-ra che i dispositivi di protezione possano essere scambiati per segni di un potenziale compor-tamento criminale, specialmente se indossati da maschi. Su YouTube è popolare un video di due afroamericani che in un Walmart dell’Illi-nois sono seguiti da un poliziotto solo per aver indossato maschere chirurgiche.

Il privilegio di starsene a casaNonostante tutti i rischi evidenziati di una me-dicina razziale, un approccio daltonico rispet-to alla razza rischia di fare altrettanti danni. Sia il “New England Journal of Medicine” (Nejm) che il “Journal of American Medical Associa-tion” (Jama) hanno recentemente pubblicato articoli che tentano di fornire un quadro etico per gestire la distribuzione dei pochi ventila-tori e letti di terapia intensiva durante la pan-demia di Covid-19. Nessuno dei due articoli ha riconosciuto il fatto che, indipendemente dall’emergenza, negli Stati Uniti le risorse me-diche sono già strutturalmente distribuite in base alla gegografia, al reddito e soprattutto alla razza. Un dato di fatto di cui neppure l’e-largizione di aiuti economici, sia pubblici che privati, ha tenuto conto. Basti pensare che solo lo 0,1 percento dei fi-nanziamenti filantropici per l’epidemia di Covid-19 è stato assegnato alle organizzazioni che hanno come obiettivo dichiarato la tutela delle minoranze. E sebbene il governo federale sia intervenuto per offrire oltre 600 miliardi di dollari attraverso il Paycheck Protection Program (Ppp), secondo alcuni esperti fino al 90% degli afroamericani saranno tagliati fuori, perché gli istituti finanziari tendono a favori-re i clienti preesistenti nella distribuzione dei fondi.Una lettura daltonica dei dati relativi al Co-ronavirus rischia di essere dannosa anche “a monte”: ignorando i fattori strutturali che spiegano la maggior mortalità dei neri, finisce per rafforzare il divario esistente nell’accesso alle cure mediche e di conseguenza nella salute e nella malattia. L’amministrazione Trump ha

nel 2013 (Bower, Thorpe, Rohde, Gaskin 2014) se confrontiamo comunità con tassi di pover-tà simili emerge che i quartieri neri e ispanici hanno meno grandi supermercati e più nego-zi di alimentari rispetto alle loro controparti bianche. Fornitissimi di cibo spazzatura, que-sti locali più piccoli raramente offrono prodot-ti sani, latticini o frutta e verdura fresca.

Attività fisica, racial profiling e mascherinePer quanto riguarda l’attività fisica, circa la metà dei neri (contro un terzo di bianchi) so-pra i diciotto anni è fisicamente inattiva, se-condo il National Center for Health Statistics. Varie ricerche hanno sottolineato che vi é un legame fra la classe sociale e il praticare uno sport: i quartieri della classe media non hanno solo scuole migliori, case migliori e un tasso di crimini inferiore, ma anche piu risorse per l’attivita fisica, programmi ad hoc e aree sicure e pedonali dove praticarla. Oltre a queste deficienze strutturali, nella re-altà contano però anche più sottili pressioni sociali, culturali e psicologiche legate alla se-gregazione socio-spaziale. Uno studio interes-sante (Ray 2017) ha messo in luce che, più che l’appartenenza di classe, é la percezione della composizione razziale dei quartieri in cui gli afroamericani vivono a influire sulla quantità di attività fisica praticata. In quelli a maggio-ranza bianchi gli afroamericani, anche quelli della classe media, sono scoraggiati dal fare at-tivita fisica per paura di essere criminalizzati e di subire racial profiling. Nello stesso studio emerge però una discriminazione di segno contrario: preoccuate della sicurezza, le donne afroamericane sono meno attive fisicamente nei quartieri a maggioranza afroamericani che in quelli bianchi. Questi ultimi in genere han-no zone specificamente pensate per l’attivita fisica, percepite dalle donne come zone sicure e sorvegliate. Del resto la percezione di una sorta di ipervisi-bilità che complica la vita degli afroamericani, legalizzata con la pratica del racial profiling, sembrerebbe spiegare anche perché molti di

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ricana, sono sovraesposti alla contaminazione da piombo. Gli afroamericani hanno il 75% di possibilità in più rispetto ai bianchi di vivere in zone vicine a complessi industriali, con una qualità dell’aria pessima. Nel 2014 morivano di asma con tassi tre volte superiori rispetto ai bianchi (dati del Dipartimento alla salute del governo Usa). Sono queste, con una maggio-ranza di residenti afroamericani, le aree dove i servizi sanitari sono più scadenti; dove è più difficile che un medico stabilisca il suo ambu-latorio; dove le assicurazioni sanitarie sono più rare. E dove il Coronavirus ha colpito in modo più spietato.

Bianchi, neri e la zona grigia dell’ObamacareInfine occorre ricordare che gli afroamericani hanno meno possibiità di accedere all’assisten-za sanitaria, che negli Usa non ha carattere universale. La cosa è ben nota ed è in Europa fonte di semplificazioni che rasentano il pre-giudizio (“se non hai soldi, ti lasciano mori-re”). La discriminazione c’è, ma avviene in modo complicato e paradossalmente non col-pisce i ceti più poveri. Gli americani spesso si assicurano tramite il datore di lavoro, ma gli afroamericani hanno più probabilità di avere impieghi privi di be-nefit. Dovrebbero quindi stipulare un’assicu-razione privata. Ma se una famiglia americana spende circa l’11% in spese mediche, per gli afroamericani la cifra si avvicina al 20% del loro reddito, per altro giá più basso della me-dia (41.361 dollari nel 2018, contro un 70.642 delle famiglie bianche). Non stupisce allora che dei 27,5 milioni di persone non assicurate il 18% sia afroamericano. Vi sono poi due programmi sanitari pubblici: Medicare, che dal 1966 garantisce l’accesso alla sanità agli anziani oltre i 65 anni e ai disabili, e soprattutto Medicaid, destinato a famiglie e individui a basso reddito e con un nucleo familiare esteso. Finanziato congiuntamente dagli Stati e dal governo federale, dall’agosto 2019 ha coperto 68 milioni di persone, di cui il 20% afroamericani.

evitato il lockdown limitandosi a raccomanda-re di evitare gli assembramenti e suggerendo ai lavoratori non essenziali di rimanere a casa. Ma questo è un lusso che moltissimi afroame-ricani non possono permettersi perché lavo-rano proprio in settori considerati essenziali. Sono il 30% degli autisti di autobus e il 20% degli impiegati nella ristorazione; dominano nell’edilizia, nei servizi di pulizia e di manu-tenzione. Molti sono bidelli, cassieri, magaz-zinieri e infermieri. Tutte occupazioni a basso reddito, prive di congedi retribuiti e di assicu-razione sanitaria, ma senza le quali la società si ferma. E che più difficilmente possono risol-versi con il telelavoro, di cui oggi si stima possa usufruire il 30% dei bianchi e meno del 20% dei neri. Dai dati emerge anche un inquietante risvolto di genere. Le donne, ancora non si sa perché, muoiono meno degli uomini per Co-rona virus, ma questa discrepanza si ribalta per le afroamericane e le latine. Forse perché sono massicciamente impiegate in lavori di cura (infermiere, badanti, governanti) e dunque a rischio. Verso di loro non vi sono tuttavia fenomeni di riconoscenza sociale come quelli tributati ai medici.

Segregazione socio spaziale e accesso ai serviziUn secondo e fondamentale fattore strutturale che pregiudica, oggi più che mai, la salute dei neri sta nel loro minore accesso ai servizi me-dici. Nel 2018 la Health Resources and Servi-ces Administration ha mappato 17.657 Health Professional Shortage Areas, aree in cui man-cano operatori sanitari in grado di fornire cure primarie, dentali e legate alla salute mentale. Vi vivono circa 65 milioni di abitanti, il 25% dell’intera popolazione statunitense e l’84% delle contee rurali a maggioranza afroamerica-na. I quartieri neri hanno farmacie poco prov-viste e ospedali lontani. Sono tendenzialmente privi di opzioni alimentari sane, spazi verdi, strutture ricreative, illuminazione e sicurezza. Spesso sono anche più inquinati. Basti pensare al corridoio che va da Flint a Detroit, dove i bambini e le famiglie, a maggioranza afroame-

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è il progetto di geocodifica delle disparità di salute pubblica di Harvard, che per analizzare i dati relativi alla diffusione della Covid-19 uti-lizza i dati del censimento disponibili realativi a genere, povertà, livello di affollamento delle famiglie, composizione razziale e segregazione socio-spaziale. Solo tenendo presente l’inter-sezionalità (un concetto coniato dal femmini-smo nero, a partire da un articolo della dalla giurista nera femminista Kimberlé Crenshaw del 1989), ossia il lavoro coungiunto di tutti questi fattori, potremo avere un quadro del perché “Quando l’America si prende un raf-freddore, i neri si prendono l’influenza”.

Per approfondireHogarth RA, 2017, Medicalizing Blackness: Making Racial Difference in the Atlantic World, 1780-1840, The University of North Carolina Press. Singhal A, Tien Y-Y, Hsia RY, 2016, Racial-Ethnic Disparities in Opioid Prescriptions at Emergency De-partment Visits for Conditions Commonly Associated with Prescription Drug Abuse, “PLoS One” 11(8). Bower KM, Thorpe RJ Jr, Rohde C, Gaskin DJ, 2014, The intersection of neighborhood racial segrega-tion, poverty, and urbanicity and its impact on food store availability in the United States, “Prev Med”, 58, pp. 33-39. Ray R, 2017, Black people don’t exercise in my nei-ghborhood: Perceived racial composition and leisure-time physical activity among middle class blacks and whites, “Social Science Research”, 66, pp. 42-5. Thames AD, Irwin MR, Breen EC, Cole SW, 2019, Experienced discrimination and racial differences in leukocyte gene expression, “Psychoneuroendocrino-logy”, 106, pp. 277-283. Crenshaw K, 1989, Demarginalizing the Intersec-tion of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, “University of Chicago Legal Forum”, article 8.

Un tentativo di espandere Medicaid, in modo da assicurare ancora più neri, é stato fatto dall’Obamacare (Affordable Care Act), che fra le altre cose prevedeva di estenderne l’ammis-sibilità agli adulti con un reddito fino al 138% del livello di povertà federale. Trentasette Sta-ti hanno accettato ma gli altri, in gran parte del Sud e governati dai repubblicani, si sono rifiutati, nonostante Washington si fosse im-pegnata fino al 2016 a coprirne i costi e negli anni successivi a farsene carico per il 90%. Gli Stati negligenti sono anche quelli più popolati dagli afroamericani, che si trovano costretti in una “zona grigia”: non hanno un reddito suffi-ciente per chiedere le agevolazioni fiscali previ-ste, ma d’altra parte non sono poveri al punto da poter accedere a Medicaid. In Missisipi chi guadagna più di 3mila dollari all’anno non ha diritto di rientrarvi.

L’intersezionalità della Covid-19Non mancano infine gli studi che hanno pro-vato un legame diretto fra l’esperienza di subi-re una discriminazione razzista e la salute fisica e mentale. Secondo uno studio della Universi-ty of Southern California e dell’Università del-la California di Los Angeles pubblicato sulla rivista “Psychoneuroendocrinology” (Thames, Irwin, Breen, Cole 2019) il razzismo aumen-ta i livelli di infiammazione in chi lo subisce, facendo crescere anche il rischio di malattie croniche come infarti, malattie neurodegene-rative e cancro metastatico. I partecipanti allo studio hanno background socioeconomici si-mili, il che ha eliminato la povertà come fatto-re di stress primario.Per capire le disuguaglianze mediche bisogne-rebbe allora rivendicare un approccio che tenga conto della razza come costrutto sociale, poli-tico, e culturale fondamentale, ma allo stesso tempo attento a non ricadere in una “biologiz-zazione” dei problemi sociali, economici e po-litici (come già è avvenuto per malattie come la sifilide, la tubercolosi, l’anemia falciforme, l’Aids). Un approccio concreto di questo tipo

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che oggi le città con i centri medici e scien-tifici più avanzati sono anche quelle che più disperatamente necessitano di mascherine e ventilatori.Ma non dobbiamo ignorare l’altra faccia del-la medaglia: questo intreccio tra biologia, economia e politica rende i nostri governi bio-poteri che, letteralmente, amministra-no la nostra vita fisica. Oggi, accettiamo di buon grado un isolamento necessario ma dobbiamo essere coscienti del fatto che, pa-rafrasando Foucault, “il buon pastore” – al-meno quando è veramente buono e questo, certamente, non è il caso di Donald Trump in questo frangente – non solo ci protegge, ma ci governa. Stiamo sperimentando un nuovo “stato d’eccezione” – città in condi-zioni simili a un coprifuoco, con le inevita-bili limitazioni ai diritti fondamentali – che domani potrebbe rappresentare un sostan-ziale precedente in quanto a restrizione della libertà, impedimento di azioni collettive e imposizione di politiche di austerità in nome del recupero nazionale, la sicurezza colletti-va e la salute pubblica. Giorgio Agamben ha sicuramente sottostimato la gravità di questa pandemia ma non per questo i suoi avverti-menti sono meno pertinenti.Il modello antropologico stabilito dalle poli-tiche pandemiche – lavoro da casa, lockdown e autoisolamento – corrisponde del tutto al concetto di libertà definito dal liberalismo classico: il trionfo della libertà “negativa” (circoscritta a un ambito puramente indivi-duale) contro la libertà “positiva” (l’azione collettiva nella sfera pubblica). Questo mo-dello antropologico è agli antipodi sia della

La pandemia di Covid-19 sta cambiando tutto, ma sta anche confermando tendenze che, negli ultimi anni, molti studiosi avevano già descritto: viviamo in un mondo globaliz-zato in cui le frontiere tra economia, società, politica e persino biologia sono sempre più sfumate e in cui una pandemia colpisce im-mediatamente tutte le dimensioni della vita.Queste sfumature, tuttavia, non cambiano il quadro delle nostre relazioni sociali. Al contrario, non fanno altro che aumentare le enormi diseguaglianze delle nostre società, giacché il virus ne ha colpito maggiormente i settori più vulnerabili: gli anziani e i po-veri, coloro che non si possono proteggere da sé. Il risultato economico della pandemia è l’aumento di povertà e disoccupazione di massa. Certo, questa situazione è la riprova della fondamentale necessità di un sistema di salute pubblica efficace, concepito non come un business redditizio ma piuttosto come un diritto umano fondamentale. Questa riven-dicazione è stato uno dei pilastri della cam-pagna di Bernie Sanders e, senza dubbio, di-venterà sempre più centrale nelle lotte degli anni a venire.Contemporaneamente, la crisi pandemica rafforza notevolmente la dimensione biopo-litica dei nostri stati. È chiaro che chiedia-mo loro di proteggere la salute dei cittadini e dei residenti (inclusi immigrati e rifugiati) e che protestiamo contro le politiche neoli-beriste che, negli ultimi anni, hanno forte-mente indebolito i nostri ospedali. È proprio perché venivano considerate poco redditizie che molte attrezzature essenziali sono state così colpevolmente trascurate: il risultato è

DAGLI USA. PENSIERI DOMESTICIPER I TEMPI A VENIRE

DI ENZO TRAVERSO

TRADUZIONE DI FIORENZA PICOZZA

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Grande Guerra. Lo storico dell’Aids Mirko Grmek ha ripercorso la storia globale come una successione di epoche pandemiche e ha sottolineato che queste malattie hanno sem-pre avuto profondissime conseguenze demo-grafiche ed economiche. Ma è anche vero che, considerando l’impatto economico, so-ciale e ambientale del Coronavirus, che va ben oltre la sua dimensione biologica, esso ci appare come una sorta di “vendetta della natura”.Ovviamente questo non significa stigmatiz-zarne i portatori, e ancor meno le vittime; come ho detto prima, appartengono ai settori più vulnerabili delle nostre società e cerchia-mo di proteggerli, salvarli ed eventualmente, poterli piangere. Piuttosto significa meditare una metafora potente: siamo di fronte a una nuova “rivolta della natura” – prendo in pre-stito quest’espressione da Max Horkheimer – contro la minaccia di una civiltà che ha creato forze di produzione titaniche e le ha trasformate in mezzi di distruzione (prima di tutto distruzione dell’ambiente e distruzione della capacità di autoregolazione e autoripro-duzione dei nostri sistemi ecologici).Le strade delle nostre città sono deserte e la produzione è calata drasticamente; la natura sta riconquistando i suoi diritti. Ciò che una teologia politica reazionaria vedeva come il flagello di Dio oggi può essere interpretato, in termini secolari, come una punizione di ordine naturale.Finora, abbiamo sperimentato un’incredibile e rincuorante ondata di solidarietà e mutuo-aiuto collettivi. Un paese come l’Italia, in cui fino a pochi mesi fa la scena politica era dominata da un leader razzista e xenofobo come Matteo Salvini, riceve ora medici e in-fermieri cinesi, cubani e albanesi come fosse-ro eroi. Le persone sembrano aver compreso che abbiamo bisogno di una risposta globale e solidale e che la ricerca di capri espiatori è una questione letale. Ma non sono sicuro che prevarranno gli stessi sentimenti dopo un anno di crisi economica.

“comunanza” che della cultura di sinistra, le quali storicamente sono state forgiate e tra-smesse attraverso l’azione collettiva. Ciò si-gnifica che dobbiamo reinventare pratiche che possano sostituire, almeno durante la transizione, le forme tradizionali di mobili-tazione di massa.Questa crisi sta mettendo alla prova la capa-cità di vivere delle nostre società, estenden-do il lavoro di individui isolati. Per esem-pio, corriamo il rischio che il lavoro da casa aumenti, cancellando la nozione stessa di “tempo del lavoro”. E giacché diversi servizi e produzioni necessitano di interazione fisi-ca, ciò potrebbe combinare le diseguaglianze sociali con le diseguaglianze sanitarie (l’e-sposizione diseguale alla malattia). In altre parole, le diseguaglianze sociali possono di-ventare diseguaglianze “biologiche” e il buon pastore può diventare un pastore autoritario ed eugenetico. Perciò, dovremmo prendere questa crisi come opportunità per riabilitare molti lavori essenziali – non solo quelli di infermieri o impiegati degli ospedali – che ci permettono di sopravvivere e sono oggi tra quelli più mal pagati. Questo è il significato delle manifestazioni spontanee delle persone che applaudono i conducenti di ambulanze e di autobus dalle loro finestre.Sembra che una delle letture più popolari in questi tempi straordinari sia La Peste di Al-bert Camus, un romanzo che ritrae la città di Orano devastata da un’epidemia e raccon-ta di un prete, Padre Paeloux, che la accetta come punizione inflitta da Dio sull’umanità peccatrice. Questa posizione filosofica e mo-rale, così caratteristica del conservatorismo oscurantista e anti-umanista, non può certo essere condivisa dalla sinistra, però merita una certa meditazione.È certo che la Covid-19 non è né la prima né la peggiore pandemia della storia dell’umani-tà. Sappiamo tutti che nel Trecento “la peste nera” decimò la popolazione europea e che, negli anni Venti del Novecento, la cosiddetta “influenza spagnola” uccise più persone della

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rato negli anni Ottanta, oppure ci aspettano tempi orribili, con governi neoliberisti dalle fattezze ancora più diseguali e autoritarie. La riproduzione del fascismo o del totali-tarismo; un po’ diversa ma non per questo meno da incubo. Una politica per il futuro dovrebbe trovare una convergenza tra la lotta per salvare il pianeta e la lotta per il “diritto universale al respiro”, come l’ha giustamente chiamato Achille Mbembe, il diritto di esi-stere per ogni essere vivente, al di là di razza, status economico o sovranità statale.

Correndo il rischio di apparire irrimedia-bilmente arcaico, direi che dobbiamo essere preparati a un cambiamento duraturo che potrebbe rinnovare la vecchia alternativa: “socialismo o barbarie”. Sono consapevo-le del fatto che, un secolo più tardi, questo slogan non possa essere condiviso con legge-rezza. Sappiamo che il socialismo stesso può diventare il volto della barbarie ma ciò non cambia la sensazione che ci troviamo di fron-te a un dilemma storico: o ci sarà un New Deal del ventunesimo secolo, che chiuderà definitivamente il ciclo neoliberista inaugu-

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È dal desiderio di dar voce alla terra natale, la Nuova Zelanda, “una terra sconosciuta da far guizzare per un istante davanti

agli occhi del Vecchio Mondo”, che tra il 1915 e il 1916 nasce L’aloe, che Katherine Mansfield chiamava “il mio romanzo” e dal quale

avrebbe poi tratto uno dei suoi racconti più intensi, Preludio. Se l’autrice non fosse morta a 34 anni di tisi, quest’opera avrebbe

dovuto svilupparsi in una narrazione composita, in cui far rivivere tutte le persone care, le case e i giardini luminosi dell’infanzia,

ma anche le loro parti in ombra e le correnti segrete del desiderio. Attraverso una forma e una scrittura tersa, sobria e musicale, L’aloe si colloca tra gli esiti più alti dell’opera di Mansfield, quelli in cui il male di vivere è più dolorosamente tangibile.

up

ISBN 978-88-6357-301-5

9 788863 573015 >

euro 10

Katherine Mansfield

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quotidiani e di prossima pubblicazione anche in Italia. Frutto di otto anni di lavoro certo-sino, basato su un centinaio di interviste con i maggiori protagonisti dell’epoca (alcuni dei quali preferiscono rimanere anonimi), il sag-gio sostiene che un vastissimo sistema occul-to di tangenti è centrale per far funzionare il sistema politico putiniano. I metodi di oggi sono gli stessi di quelli usati dal Kgb nell’e-ra tardo sovietica, di cui il futuro presiden-te era parte integrante. Belton racconta fatti poco noti o del tutto inediti sui compiti del giovane funzionario di stanza a Dresda dal 1985 al 1990. Secondo l’autrice, quella città era il cuore delle operazioni commerciali per “ottenere valuta pregiata… e tecnologia occi-dentale sottoposta a embargo” da condividere con Mosca. Agenti tedeschi e russi crearono società di comodo con sedi in Germania, Au-stria, Svizzera e Lichtenstein, usate poi negli anni Novanta per nascondere i denari del Partito comunista. Putin era il “faccendie-re capo” dei fondi neri che passavano per la Germania dell’Est, secondo Horst Jehmlich, il vicedirigente della Stasi di Dresda. L’autrice scova persino un ex membro del gruppo ter-roristico Raf che sostiene di aver incontrato Putin e di aver ricevuto dal Kgb armi e dena-ro. Secondo Benton, Putin affinò i ferri del mestiere a Dresda e li ha continuati a usare quando arrivò al Cremlino quasi vent’anni dopo.Putin si trasferì a San Pietroburgo nel 1990 per lavorare nell’amministrazione del sin-daco democratico Anatoly Sobchack. Il suo compito consisteva nel gestire gli investimen-ti provenienti dall’estero. Un imprenditore

Quando, alla fine del secolo scorso, studiavo la mafia russa mi imbattevo spesso in funzionari dell’ex Kgb in ottimi rapporti con i gangster. Tra le due categorie vi era una attrazione reciproca. Negli anni Ottanta, le spie operavano sotto copertura in ambascia-te, banche occidentali e aziende di import-export. Il loro compito consisteva nell’aiutare l’Urss ad aggirare l’embargo sulle importazio-ni di tecnologia e materiali strategici e tenere i contatti con i movimenti politici alleati. E così acquisirono conoscenze profonde del si-stema finanziario occidentale, in particolare su come pagare fornitori e alleati in nero. In altre parole, erano maestri del riciclaggio su vasta scala. Quando crollò l’Unione Sovietica, le spie si attivarono per creare canali per far uscire dal paese i beni del Partito Comunista e nasconderli in quelle società fittizie che già estivano da decenni. Le loro competenze di-vennero improvvisamente cruciali anche per i mafiosi che volevano nascondere e investire il proprio denaro all’estero. In quel mondo di mezzo, le spie convivevano felicemente con la criminalità organizzata ed entrambi bene-ficiavano della deregulation dei mercati finan-ziari occidentali iniziata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher e continuata da Bill Clin-ton e Tony Blair. Questi intrecci sono al centro dello straordi-nario affresco dedicato alla Russia contem-poranea dall’ex corrispondente del Financial Times a Mosca, Catherine Belton, in Putin’s People: How the Kgb Took back Russia and then Took on the West (William Collins). Il libro, uscito a fine aprile, è già un caso editoriale in Inghilterra, recensito da tutti i maggiori

NELLA RUSSIA DI PUTINDI FEDERICO VARESE

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la tesi piuttosto controversa che gli attentati terroristici del 1999 (che fecero 367 vittime) furono orditi per facilitare le chance elettorali del candidato, anche se gli indizi rimangano incerti e tutti negano. Eletto nel Duemila, Putin si rivelò molto più astuto dei suoi padrini politici. Un episodio rivelatore avvenne la notte della sua elezione, quando fece sapere di essere troppo impegna-to per rispondere a una telefonata di Yeltsin. Il nuovo presidente si mise subito al lavoro per riaffermare il potere dello stato a scapi-to dei potentati economici. Quando Mikhail Khodorkovsky, all’epoca l’uomo più ricco del mondo e padrone della società petrolifera Yu-kos, si mosse per far entrare Exxon e British Petrolium nel capitale di Yukos, Putin impose il suo arresto e smembrò l’azienda. Fu l’inizio del capitalismo di stato e la fine dell’indipen-denza della magistratura. Gli Usa fecero flebi-li proteste e ben presto i banchieri occidentali si ritrovarono a fare la fila per gestire le aste dell’impero di Khodorkovsky smembrato da Putin. Lo studio legale di James Baker, l’av-vocato texano ministro del Tesoro con Re-agan e segretario di stato con Bush Junior, rappresentò l’azienda russa che acquisì Yukos in una causa intentata dagli azionisti fedeli a Khodorkovsky negli Usa. La situazione non era molto migliore sulle sponde del Tamigi. Un imprenditore russo dice all’autrice che “a Londra, i soldi parlano. Tutto e tutti possono essere comprati”, di norma con lucrosi posti nei consigli di amministrazione di aziende di stato russe. È infatti molto più facile quotare una azienda nella Borsa di Londra piuttosto che in quella di New York. La deregulation in-glese ha aperto le porte a ogni tipo di business senza fare troppe domande. Un capitolo affascinante del volume esplora la sostituzione dell’ideologia di stato comu-nista con il cristianesimo ultra-conservatore della Chiesa Ortodossa e con visioni messia-niche della Terza Roma, alimentate da ari-stocratici russi cresciuti in esilio tra Parigi e Ginevra. L’oligarca oggi prediletto da Putin,

straniero arrivato per incontrare i funziona-ri del Comune venne scortato dalla polizia al cospetto di Ilya Traber, il rappresentante della Tambovskaya, il gruppo criminale che controllava il porto, in una residenza-bunker fuori città. Circondato da guardie armate e cani con denti digrignati, al collo una catena d’oro, Traber indossava una tuta da ginnasti-ca e ciabatte di plastica, la divisa d’ordinanza del boss russo di quegli anni. Dopo aver ot-tenuto il permesso da Traber, l’imprenditore fu rispedito in città per finalizzare il contratto con il funzionario del comune, Putin appun-to. Parte dei profitti di quelle joint-venture venivano nascosti nei conti di società di co-modo e diventavano tangenti estero-su-estero per politici e amministratori. Belton non mi-sura le parole quando sostiene che vi fosse un patto tra mafia e politica a San Pietroburgo, anche se gran parte delle sue fonti rimangono anonime. Chiamato a Mosca nel 1996, Putin fece una carriera fulminante, ricoprendo in rapida successione incarichi importanti nell’ammi-nistrazione presidenziale (una struttura buro-cratica potentissima). Nel 1998 venne nomi-nato capo dei servizi segreti civili, l’Fsb. Pur essendo un ex funzionario del Kgb e quindi sospetto agli occhi dei democratici, riuscì ad accreditarsi presso i politici corrotti e i fami-liari di Yeltsin come un efficiente esecutore, senza ambizioni personali, disposto a proteg-gerli dalle indagini della procura. “Sono solo un manager, assunto per portare a termine un compito limitato,” ebbe a dire. Intorno al 1999 Putin diventò così il successore de-signato e per un solo mandato, con l’appog-gio convinto dell’occidente terrorizzato che i “comunisti” potessero vincere le elezioni parlamentari e poi la presidenza. Osservatori stranieri e cittadini comuni non avevano mai sentito parlare di questo grigio funzionario. Ricordo ancora lo stupore quando in Rus-sia sentimmo la notizia al telegiornale. Per accreditarlo presso gli elettori stanchi della corruzione dell’era Yeltsin, Belton abbraccia

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delle dacie che si affacciavano su un lago nei pressi di San Pietroburgo. La fiducia persona-le piuttosto che l’appartenenza ai servizi spie-ga come sono emersi ‘gli uomini di Putin’. Non si deve poi esagerare la capacità di Putin di controllare tutto ciò che avviene in Russia oggi (Belton sostiene che ogni investimento di una certa consistenza deve essere approva-to dal presidente). La Russia continua a essere un regime con più centri di potere, ben ol-tre i “ministeri della forza”. Il ministero degli Esteri ha ruolo importante nel sistema attuale e gli stessi servizi – che includono anche il Gru –sono frammentati, senza un leader che possa dettare l’agenda al presidente. In diver-se faide di potere, gli alleati di Putin con un passato nel Kgb non hanno avuto la meglio. Lo stile di governo del presidente consiste nel non prendere una posizione netta su molte questioni e lasciare che i sottoposti se la ve-dano tra di loro, rendendoli responsabili di decisioni difficili. Solo di rado Putin si inte-ressa direttamente a un dossier. Studi recenti hanno mostrato che Putin non ha abolito l’e-lezione diretta di alcuni governatori proprio perché questi erano troppo potenti e ben ra-dicati nelle regioni, costringendo il Cremlino a scendere a patti.Una volta eletto, Putin colse tutti di sorpre-sa e mostrò di avere un progetto politico: ri-affermare il potere dello stato a scapito dei potentati economici che si erano formati nel periodo 1993-1999. I cosiddetti oligarchi cer-cavano di imporre a Putin la propria agenda economica e geopolitica, dopo aver acquisito i loro beni attraverso aste truccate.I primi anni della sua presidenza furono ca-ratterizzati da una lotta senza quartiere con-tro gli oligarchi. Alcuni si sottomisero, altri scapparono in occidente, dove furono accolti come rifugiati politici. Negli anni successivi molte persone vicine al presidente si sono ar-ricchite, sostituendo una classe di oligarchi con un’altra. Ma sarebbe riduttivo descrivere il regime come una cleptocrazia. Molte de-cisioni di politica estera, come l’intervento

Konstantin Malofeyev, guida la Fondazione devota a San Vasilio il Grande dedita a pro-muovere queste idee, ma si diletta anche di geopolitica: una azienda controllata da Malo-feyev e da un suo dipendente avrebbe dovuto essere l’intermediaria per l’operazione discus-sa da Savoini all’hotel Metropol e mai andata in porto, come ha raccontato “l’Espresso”.Putin’s People è destinato a far discutere. Bel-ton è al suo meglio quando mostra come in-teressi strategici e interessi personali si mesco-lano e si confondono. La generale opacità dei meccanismi decisionali rende difficile capire dove finisce il sistema delle tangenti e dove inizia quello dei ‘segreti disegni del potere’ già descritto da Tacito (gli arcana impèrii). Eppure vi sono aspetti del libro che convin-cono meno di altri. Paradossalmente l’uomo Putin è troppo poco e troppo centrale. Da una parte è molto difficile credere alla tesi che vi fosse sin dall’inizio un piano del Kgb per “riprendersi” la Russia attraverso Putin, come recita il sottotitolo del libro (e vedi an-che p.113). Per riprendersi una cosa bisogna prima averla posseduta. L’Unione Sovietica non era di proprietà dei servizi segreti, i quali erano fermamente sotto il controllo politico del partito dalla morte di Stalin in avanti. Dall’altra, la tesi di Belton paradossalmente fa torto alle qualità personali di Putin. Fu merito suo se riuscì a navigare le turbolenti acque del Cremlino nel periodo 1996-1998 e diventare il successore designato. Alcune del-le interviste concesse all’autrice ci ricordano che la storia è un processo aperto. Vi erano altri nomi sui possibili successori a Yeltsin che circolavano con insistenza fino all’ultimo momento. Bastava ben poco perché il futuro della Russia post-sovietica fosse molto diver-so. Poi non stupisce che Putin all’inizio della sua ascesa si affidasse a persone che facevano parte della sua cerchia di colleghi fidati, mol-te dei quali avevano un passato nei servizi. Ad un certo punto, i suoi collaboratori più stretti erano i membri di una piccola cooperativa di amici che, nei primi anni Novanta, comprò

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presidente. Con il prezzo del petrolio ai mi-nimi storici e gli investimenti stranieri drasti-camente diminuiti, le casse dello stato sono quasi vuote e i soldi per i vassalli diminuisco-no. Gli effetti della covid19 saranno deleteri per la classe media, che teme per il proprio futuro. Ed è cruciale chiedersi come questo gioco possa finire per Putin stesso. Al pari di Yeltsin e della sua famiglia nel 1999, è plausi-bile che anche Putin sia alla ricerca di un suc-cessore che gli assicuri una pensione serena e dorata, ma non l’abbia ancora trovato.Abbiamo imparato in questi anni che le stelle del firmamento politico ed economico russo possono ascendere in maniera vertiginosa e cadere con la stessa rapidità.

in Siria, l’appoggio ai ribelli del Donbass e l’annessione della Crimea, non sono motivate da interessi finanziari occulti. Senza dubbio il regime è cambiato, ma l’involuzione non può essere spiegata attraverso le lenti di un astuto piano del Kgb cucinato nel 1990. Piut-tosto, sono gli avvenimenti esterni che hanno portato a una mutazione, non scontata, del regime. Oggi Putin sembra affidarsi sempre meno ai canali ufficiali dello stato russo e ri-correre sempre più a inviati speciali che go-dono della sua fiducia, come l’imprenditore che ha fatto da trait-d’union con i ribelli del Donbass. La riduzione della libertà di stam-pa ha avuto un effetto deleterio anche sulla capacità di analizzare la realtà da parte del presidente e dei suoi collaboratori. Putin, al pari dei suoi concittadini, non può contare su analisi autorevoli del mondo e così si è ri-trovato a non capire (e non essere in grado di anticipare) gli eventi in Ucraina. Anche chi scrive sulla Russia contempora-nea fatica a trovare fonti attendibili. Quelle di Belton sono in gran parte anonime, op-pure sono ex collaboratori di Putin caduti in disgrazia, come Sergei Pugachev. Per molti versi è inevitabile ricorrere a tali mezzi per raccontare una storia in parte segreta di un paese non liberale. Vi sono però diversi dati pubblici credibili che potrebbero essere usa-ti per rafforzare o smentire le tesi del libro. Bisogna anche fare attenzione a non cadere nella fallacia del secundum quid: una regola generale non si applica a tutti i casi (a dic-to simpliciter ad dictum secundum quid). Ad esempio, la morte del miliardario Boris Be-rezovsky in una villa nella campagna inglese nel 2013 potrebbe essere stato effettivamente un suicidio, come sostiene la polizia inglese (ho avuto modo di seguire questa vicenda da vicino e mi pare una ipotesi plausibile). In ogni caso, il libro di Catherine Belton rimane una lettura istruttiva. Non è facile prevedere come e quando finirà l’era di Putin. Senza dubbio, vi sono elementi di fragilità nel sistema e nell’anima del suo

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o “secolo dei fanciulli” per citare il titolo di un saggio allora famoso a firma di Ellen Key: l’infanzia, la dynamis del puer, si faceva sentire in tutto il suo vigore attraverso i monelli dei fumetti, gli studi di Freud, le sperimentazioni delle avanguardie storiche, senza dimenticare le ambiguità e le derive politiche e, ovviamente, Peter Pan. Una soluzione la si trovò: ne “L’Unità” del 22 agosto del 1997 si poteva leggere un articolo di Michele Sartori dal titolo Peter Pan l’eterno bambino è morto soldato sul Grappa. Così inizia-va: “‘Nessuno mi prenderà per farmi diventare un uomo!… Poi volò via… Fu questa l’ultima volta che Wendy, la piccola Wendy, vide Pe-ter’. E poi? Poi Peter Pan finì ammazzato da un colpo di moschetto italiano, o da una bomba a mano ‘Ballerina’: sul monte Grappa, alla fine della prima guerra mondiale. Non ci credete? In cima al Grappa. Nell’ossario monumentale che raccoglie i resti delle decine di migliaia di soldati italiani, tedeschi, austriaci, ungheresi, bosniaci morti tra quei monti, c’è un loculo misterioso, nel settore ungarico: “Soldato Pe-ter Pan”, è inciso nel bronzo. (…) La Croce Nera austriaca, che conserva a Vienna tutti i dati dei caduti austroungarici, su Peter Pan ha una cartelletta quasi vuota: ‘Peter Pan, nato nel

“‘Ciao, Wendy’ disse Peter. ‘Te ne vai?’ ‘Sì’. ‘Non credi, Peter’ disse lei titubante, ‘di avere qualcosa da dire ai miei genitori? Qualcosa che riguarda un argomento molto delicato?’ ‘No’. ‘Qualcosa che riguarda me, Peter?’ La signora Darling si avvicinò alla finestra, perché adesso teneva d’occhio Wendy con molta attenzione. Disse a Peter che aveva adottato gli altri ra-gazzi, e che le sarebbe piaciuto adottare anche lui. ‘Mi manderete a scuola?’ chiede Peter con diffidenza. ‘Sì’. ‘E poi in ufficio?’ ‘Penso di sì’. ‘E presto diventerò un uomo?’ ‘Molto presto’. ‘Non voglio andare a scuola a imparare delle cose noiose’ disse Peter agitato. ‘Non voglio diventare un uomo. Pensi signora mamma di Wendy, se un giorno mi dovessi svegliare con la barba’”.È lunga l’ombra di Peter Pan. Non solo ten-de ad andare per conto suo, incidente o esca che sia, ma continua a ribadire la sua presen-za: dalla sua apparizione all’inizio del ‘900 ha continuato a ricomparire, nelle case borghesi di Londra come nelle villette a schiera di Spinace-to. Favolacce dei fratelli D’Innocenzo cova da prima del loro esordio, La terra dell’abbastanza, e nasce da un sentimento preciso, a sentire le loro parole: la rabbia. Un sentimento che di-lagava anche agli albori del secolo ventesimo,

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FAVOLACCE: PETER PAN SCEGLIE DI NON STARCIDI GIORDANA PICCININI ED EMILIO VARRÀ

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al vicinato e squartate poi in un disvelamento notturno. Non è un caso che l’unico ragazzi-no che si salva sia il figlio del personaggio che sembra meno interessato a farsi e a mostrare una posizione, ha ancora radici popolari, punta semplicemente alla sopravvivenza. Figura grot-tesca, certo non invidiabile per l’orizzonte li-mitato che incarna, pure ha conservato una sua insopprimibile vitalità, il suo corpo si muove scomposto e quasi comico, irrefrenabile sullo schermo, come la sua lingua che si traduce in un instancabile soliloquio che continuamen-te sollecita il figlio, non si cura dell’assenza di risposte, si aggrappa ai fragili sorrisi che ogni tanto riceve. L’altro corpo veramente presente nel film, (mostrato per pezzi che via via la mac-china da presa ci mostra a definirne i contorni) anch’esso ingombrante e impresentabile agli occhi piccolo borghesi della comunità, è quello della ragazza madre, esistenza alla deriva, eppu-re l’unica che in qualche modo, tra contratta-zioni economiche, grottesche profferte sessuali, insulti e volgarità instaura un dialogo con uno dei piccoli ed è interpellata da lui, forse perché ne sente comunque una vicinanza, riconosce una medesima incapacità ad adattarsi, e lo stes-so coraggio a fare il grande salto. Per il resto è silenzio. Il silenzio è un bisturi mi-cidiale con cui il film incide l‘esperienza dello spettatore. Un silenzio vicendevole, che al di là delle eccezioni indicate, vive nei due sensi, a segnare una distanza abissale, quella stessa che separa Londra dall’Isola-che-non-c’è: gli adul-ti neppure concepiscono di poter davvero in-staurare un dialogo con i figli, sono incapaci di chiedere una spiegazione anche quando trova-no le bombe autofabbricate nelle camerette, al massimo li prendono a calci. Il mutismo dei ra-gazzini e delle ragazzine, sottolineato dalla for-za dei primi piani e dal sapiente uso della voce fuori campo, è già il segno di una scelta, di un rifiuto radicale ai modelli che si trovano davan-ti, e che non danno mai il segno di un’alterna-tiva, di una via d’uscita. D’altronde sanno bene che le loro voci non potrebbero essere ascoltate. Si limitano così a recitare a soggetto, leggendo

1897 a Riszkabanya-Krassoszöreny, Ungheria. 30° reggimento di fanteria Honved, 7 compa-gnia. Morto in azione il 19.9.1918 a Col Capri-le, quota 1.331”. Qui sta la differenza sostanziale: se furono tanti i ragazzi ancora senza barba che morirono nel-la Grande Guerra, mandati al massacro da una generazione di adulti, in Favolacce la situazione si ribalta: sono i bambini e le bambine, silenti e consapevoli, a decidere di sparire. Ma è proprio la radice di questo gesto a farci tornare al pri-mo volo di Peter Pan, che dietro la maschera di avventure e capriole nell’aria, nasconde il “gran rifiuto”, l’unico davvero possibile. Meglio l’Iso-la-che-non-c’è, un’isola dei morti travestita da parco dei divertimenti. L’alternativa è descritta dallo stesso Barrie, impietosa pur dietro l’affa-bilità del tono: “Anche gli altri ragazzi erano cresciuti, ma non vale la pena parlare troppo a lungo di loro. Potete vedere i gemelli, Pen-nino e Ricciolo recarsi tutti i giorni all’ufficio con l’ombrello e una cartella di cuoio sotto il braccio. Michele fa il macchinista. Piumetto ha sposato una nobile fanciulla ed è diventato lord. Vedete quel giudice in parrucca che esce da una porta di ferro? Quel giudice era una volta Zu-folo. Quel signore con la barba, che non sa rac-contare ai suoi bambini nemmeno una favola, è Gianni”. C’è una linea evidente di continuità tra il catalogo di questi destini e i personaggi adulti del film dei D’Innocenzo. L’unica diffe-renza è data dal fatto che se ai tempi di Barrie l’aspirazione e la classe borghese aveva ancora una sua solidità, ora mostra tutte le sue crepe, non è più sostenibile, non c’è sacrificio che può giustificarne il prezzo. Lo sguardo dei due regi-sti in questo si fa lucido, spietato, chirurgico, e sta tutto nello squallore di villette a schiera che ammiccano a una raggiunta posizione, a fab-brichette di sapone che non rovinano la pelle a quegli stessi bambini ai quali non si sa nep-pure rivolgere la parola, a salotti con moquette e tappeto come a volerle doppiamente nascon-dere quelle crepe, a barbecue dove la carne va di traverso e il boccone che non si riesce a spu-tare è quello di un’esistenza, a piscine esibite

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in avanti, esplorativo, ben presto si trasforma nell‘orizzonte di un’esperienza chiusa: “faccia-mo sesso anche noi, così abbiamo fatto tutto” dice una ragazzina all’amico. Lo stesso che confesserà in un momento di debolezza, o in uno strenuo tentativo di lanciare un ponte ver-so i più grandi, di aver fabbricato una bomba: “così finisce tutto”. Questo “tutto” così ribadi-to sembra davvero il segno dell’esaurimento di una possibilità di crescita, di una propensione in avanti, la negazione dell’avventura: “cresceva già morta la ragazzina” sentenzia la voce fuori campo che legge il diario ritrovato. Rimane da capire quando scocca il primo rintocco. Una delle più efficaci lacune del film è quella che tace sul momento della decisione di farla fini-ta. L’innesco concreto è chiaro ed è nell’ultima lezione del professore, altra figura che ancora parla ai ragazzini e ha una autorità e influenza ai loro occhi: accusato e licenziato da scuola per aver (involontariamente?) provocato la costru-zione delle bombe chiede di poter fare un’ulti-ma lezione e si trasforma nel Pifferaio di Ha-melin, sa che la vendetta più dura contro chi lo ha disprezzato è portarsi via l’infanzia. Ma c’era ancora? La sua è una reale istigazione o sempli-cemente lo strumento concreto per portare a termine un piano già meditato? E quanto nel suo gesto c’è della logica adulta della vendetta o della compassione per un destino che già si conosce e nel profondo si condivide? Viene in mente Pascoli, autore nel 1897 de Il fanciullino, altro manifesto della centralità che avrà l’infan-zia nel secolo a venire, ma anche de L’aquilone, canto funebre e riconoscente alla morte bam-bina: “Meglio venirci ansante, roseo, molle/ di sudor, come dopo una gioconda/ corsa di gara per salire un colle!// Meglio venirci con la testa bionda,/ che poi che fredda giacque sul guan-ciale,/ ti pettinò co’ bei capelli a onda tua ma-dre… // adagio, per non farti male”. I ragazzini e le ragazzine di Favolacce sono deprivati anche della possibilità di “venirci ansanti”: a loro è ne-gato anche il diritto dell’ultima corsa.

pagelle dai voti ineccepibili o scartando regali e ringraziamenti a un compleanno, prontamente ripresi per immortalare il momento, e poi la-sciare di nuovo spazio al volgare parlottio dei grandi, vuoto e ingombrante allo stesso tem-po. Questo silenzio distanzia Favolacce da Pe-ter Pan, nella tonalità più che nella sostanza. Il romanzo di Barrie ha la capacità di mascherare la sua natura mortifera con la vivacità del gioco e dell’avventura, di una affabulazione che ha ancora la vitalità della fiaba e del racconto, il film invece sembra vicino a romanzi come Un gioco da bambini di Ballard o L‘ultima ora di Dufossé. E non importa che in un caso siano i più giovani a uccidere con fredda sistematicità i genitori e nell’altro sia una classe di una scuola media francese a progettare un suicidio collet-tivo di fronte a un insegnante non stupido né insensibile, ma incapace comunque di trovare un qualche canale di comunicazione: entram-bi sono ritratti impietosi di uno stato di afasia cronica tra generazioni. Ed essa inquina anche la relazione tra coetanei, ancora tenera quando si mescola all’impaccio dei primi innamora-menti, tristemente grottesca quando si traveste già del vocabolario adulto.Infine c’è il tempo, quello che in Peter Pan si ferma e che qui invece sembra annunciarsi: siamo nell’estate alla fine della prima media, siamo all’estate con la “E” maiuscola, quel-la del passaggio, della pubertà. “Chissà se mi innamorerò anche quest’estate” recita la voce fuori campo mentre legge il diario ritrovato di una delle ragazzine morte. Sembra il segno di un’apertura, di un desiderio che contempla an-cora una curiosità e un futuro. Esso trova anche un momento di incarnazione, quando il film si sofferma su una battaglia con i gavettoni e i corpi, la giovinezza, le risate, il rincorrersi oc-cupano lo schermo e lo sguardo dello spettato-re, con una pienezza senza ombre, se non fosse che un rallenty (simile in questo a quello di un altro film sulla pubertà: Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir) fa venire il sospetto di un’e-ternizzazione, di un’ultima immagine prima della scomparsa. Ma questo tempo proiettato

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davvero – anche quando vi s’impegnano – di poter cambiare il mondo che gli abbiamo la-sciato, così come non credono di poter an-darsene senza colpa dal nido in cui sono stati claustrofilizzati. Amano il chiuso, i “nostri” ragazzi, amano la famiglia, spesso più della loro ragazza o del loro ragazzo; preferiscono l’endogamico all’esogamico, la capanna al panorama. I loro corpi sono come la statua di Miche-langelo: non quella del David colto nell’atto glorioso che lo fa passare da garzone dei fra-telli maggiori a uomo, ma più simili a quella de L’Adolescente accucciato, custodita all’Er-mitage. Il loro corpo ondeggia nello spazio come se non avesse un asse. Nel canto – che insegno – le mute vocali sono sempre più tar-dive, l’appoggio dei piedi è volante, il loro corpo canoro non si è ancora autorizzato ad avere un peso e a occupare uno spazio. Ra-gazze e ragazzi formati si muovono e parlano come bambini: privati della coordinazione interna che l’età richiederebbe, i loro corpi denunciano quanto troppo siano rimasti tra le mani della madre.Il corpo dei ragazzi è il vero sequestrato dell’e-poca Covid-19: lo era anche prima, ma senza l’autorizzazione sociale offerta dalla pande-mia. Mai come nel lockdown i ragazzi sono stati “nostri”, sprofondati nell’ambiguo tor-pore famigliare della coccola benigna intessu-ta alla maligna prigione che separa dal mon-do. E il naufragar m’è dolce in questo mar è la condizione dei figli presi nelle maglie della famiglia plusmaterna, quella in cui la cura pa-rentale fallisce per intrusione, controllo o soc-corso eccessivo. Quel verso fu scritto da uno

Al grido di “come sono stati bravi i no-stri ragazzi!”, molti adulti angosciati dal lockdown pandemico si sono abbandonati a un festoso compiacimento. Non solo genitori e insegnanti, ma persino colleghi psicoanali-sti, che delle ambivalenze dell’anima umana dovrebbero saperne, hanno elogiato la serena accettazione del confinamento da parte dei ragazzi, dimostrando nient’altro che la nostra cecità di adulti. Abbiamo ammirato i “nostri” adolescenti per il loro senso di maturità, ne siamo stati piacevolmente stupiti, come se la Covid-19 avesse potuto imprimere uno slan-cio verso quella responsabilità che prima non avevano, iscrivendoli d’un tratto nella schie-ra, peraltro non affollatissima, dei cittadini consapevoli. Siamo in un equivoco immenso.Purtroppo, i “nostri” ragazzi erano “bravi” anche prima: come nessuna generazione pre-cedente alla loro, se ne stavano buoni buoni in casa, dove abbiamo operato in modo che vi si accomodassero fin troppo bene. Già prima della Covid-19, i ragazzi avevano fatto dell’a-dattamento la loro religione: mimetici e ac-condiscendenti, accontentavano i genitori non confliggendo troppo con loro. (Per questo, quando lo fanno, possono risultare violenti o autodistruttivi: se non confliggono con noi, confliggono contro loro stessi.) Sono così “bra-vi” che molti scelgono il ciclo di studi univer-sitari sulla base di “ciò che chiede il mercato”, anche quando questa scelta deraglia dalle loro legittime aspirazioni. Si sono trasformati in normotici: ubbidienti-robotici-normalizzati.L’adattamento, in un giovane, ha qualcosa di immorale. La vita non pulsa. Non credono

I RAGAZZI SOTTO SEQUESTRODI LAURA PIGOZZI

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razione avesse un proprio mondo ben separa-to. “La Dad ha rubato la socialità ai ragazzi!”: altro equivoco refrain. La socialità ai ragaz-zi era stata rubata già prima e all’uscita dal lockdown più restrittivo, molti sono restati in casa, installati nell’inerzia psichica che il domestico comporta. La prima generazione senza conflitti aperti con gli adulti sta fermando il proprio orolo-gio all’ora in cui le mamme possono conti-nuare a fare le mamme. Una signora ha un lampo di verità durante una seduta: “ecco perché mia figlia si è arrestata a quella fase! Perché i miei studi sono specifici proprio di quell’età a cui ora lei è ferma e io, in cuor mio e senza saperlo chiaramente, non vole-vo che crescesse!”. Molte plusmadri lo sono malgrado loro, non perché lo vogliano davve-ro: a nessuno piace avere figli spenti alla vita. Famiglia claustrofilica e collettivo hanno finalità opposte: il plusmaterno famiglia-re è un danno alla comunità. Anche se ora non sembra perché una società intera si è claustrofilizzata e i ragazzi hanno fatto quello che hanno imparato a fare meglio. Fanno di tutto per compiacerci, per mimetiz-zarsi sui nostri desideri. O meglio sui nostri godimenti. Così come si gode di un bene, gli adulti contemporanei si godono il corpo dei loro figli, dormendo con loro anche quan-do non sono più neonati, spupazzandoli di continuo, conservandoli nel limbo infantile a portata delle loro mani, da cui non sono im-pazienti di vederli uscire. Ho ascoltato anche molti insegnanti dire che non vedono l’ora di poter riabbracciare i loro alunni. Ricordo il giorno in cui, mentre tenevo una conferenza sul plusmaterno per gli allievi di un grande liceo raccolti in aula magna, la preside girava tra i sedili abbracciandoli e accarezzando il capo di molti ragazzi, producendo, dato l’ar-gomento dell’incontro, un effetto al limite del comico. Il corpo dei ragazzi è il vero, scan-daloso oggetto del contendere nella lotta tra scuola e famiglia. A molti genitori non è par-so vero poter veder esaudito, grazie alla Dad,

che aveva come (plus)madre donna Adelaide, la quale pretese dal figlio la rinuncia alla gio-ventù e alla vita. Conosciamo da più tempo gli effetti di un minusmaterno abbandonico, ma non abbiamo ancora il polso del danno plusmaterno che depaupera il mondo di uo-mini di valore e che sembra aver contagiato schiere di madri, anche quelle che sarebbero state, in un’altra epoca, solo madri in colpa di essere un po’ apprensive. La claustrofilia delle famiglie contemporanee, il bisogno di passare lunghissimi tempi tutti insieme, ha preparato i ragazzi al lockdown: la convivenza con i loro famigliari non è stata sentita dai giovani con-temporanei con la stessa insopportabilità che avrebbero provato i loro genitori o i loro non-ni che, in una situazione analoga, sarebbero impazziti nella rinuncia agli amici, al gruppo, al mondo. Anche se avessero avuto l’attuale tecnologia.“Prof, mi sto abituando”, “Ho paura che tut-to ritorni normale”, “Ho paura del momento in cui dovrò tornare ad avere contatti socia-li”, “Sono anestetizzata”, “Non mi manca così tanto il mondo di prima”, “Prof., se ci pensa, comunichiamo lo stesso sui social, anzi è me-glio perché di persona ti devi mostrare con la mascherina e si vede che sei ingrassato, men-tre nello status di Whatsapp puoi mettere una bella foto con i filtri”, “A casa ti puoi anche non lavare, tanto nessuno se ne accorge!”, “La scuola è forse meglio così”, “Col fidanzato si può parlare in chat o videochiamata”: que-sti alcuni commenti degli studenti raccolti da una professoressa di un liceo milanese. I “nostri” ragazzi sono naufragati solo un po’ di più: erano già sedati e anestetizzati, c’era già un diaframma invisibile che li separava dal mondo, morivano anche prima di accidia e pensavano che l’amore potesse essere scisso dal corpo proprio e da quello dell’altro cor-po giovane. I loro corpi erano già sequestrati dall’amore parentale, abitati ancora da mani famigliari, abituati all’eccessiva prossimità del corpo degli adulti: una continguità che ha fatto decadere la necessità che ogni gene-

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è la gran protagonista dell’epoca Covid-19. Mascherina e Dad lasciano questo resto uma-nizzante, che ridona forma etica alla relazione a distanza che, così, non è nell’indifferenza.La voce del maestro è il luogo del transfert tra maestro e allievo, il vettore di trasferi-mento attraverso cui un nuovo amore – sim-bolico – per il maestro s’installa sul vecchio amore – simbiotico – per la madre. Ciò che viene agganciato dal pensiero si fissa solo se è legato a un momento di vita, a un’im-magine, a un profumo e, soprattutto, a una voce. La voce del maestro non porta solo ciò che esplicitamente dice, ma soprattutto ciò che non si può dire, un indicibile, oscuro al soggetto stesso che parla. Nei momenti di maggior passione in aula, il professor Stoner, mirabile personaggio del romanzo di John Edward Williams, balbettava. È la non pa-dronanza, espressa nella voce e nel gesto, che porta Stoner a trasmettere la vitalità del sape-re. Come mai c’è bisogno di questo trasporto difettoso del maestro, la cui presenza è bucata dalle sue imperfezioni, perché si dia del tran-sfert, cioè un’avventura viva nella conoscen-za? Ciò dipende dal fatto che il sapere non è trasparente, non è un intero, non è nemme-no integro: non è un Uno ma concerne quel vuoto centrale – sostiene Lacan – cui allude ogni trasmissione autentica. È a causa di que-sto vuoto centrale che l’anima dello studen-te pulsa e gli fa desiderare di saperne anco-ra, ancora e ancora. Stoner balbetta: insegna attraverso l’imperfezione della sua voce. Nel passaggio di un sapere la voce è cruciale. Essa può porgere ciò che è opaco, non tutto, non integro perché, essa stessa, non è trasparen-te, né tutta. È anch’essa abitata da un vuoto centrale: nessuna voce è veramente familiare, soprattutto la propria. Ogni voce è bifronte, sappiamo che è nostra, la riconosciamo, ep-pure contemporaneamente reca in sé qual-cosa di perturbante che ce la rende anche estranea, per questo su di essa non abbiamo il controllo che vorremmo. La voce è sempre “bucata” – come il sapere – sfugge, attraver-

uno dei loro sogni più oscuri: chi non ha mai pensato, “mi piacerebbe essere una mosca e vedere cosa succede nella classe di mio figlio e come insegna questo tal insegnante”? Molti genitori non si sono schiodati dagli schermi Dad, anche quando non apparivano diretta-mente. Vedere le facce dei loro compagni e dei loro insegnanti! Le loro case, gli oggetti del mondo degli altri su cui immaginare. Già, le facce: gli studenti a scuola vedono soprat-tutto molte nuche, ma in chat tutti di fronte, visi titubanti che perlopiù si nascondono dal godimento scopico dell’occhio altrui, anche quello di quell’estraneo che è il genitore di un compagno.È forse ora di chiedere linee guida Dad an-che per ricreare l’ambiente-classe nella sua essenza di asylum, cioè, etimologicamente, di spazio inviolabile senza diritto di cattura. Nemmeno psichica. La scuola come asylum è quel riparo temporaneo dalla fascinazione della famiglia. Se la scuola soffre, in condi-zioni normali, delle intrusioni genitoriali per-sino sulla didattica, occorrono dispositivi di classe o di scuola o ministeriali per evitarle, almeno in epoca Dad, in cui il sequestro del corpo dei ragazzi, da parte delle famiglie, è ancora più pesante. Molti ragazzi sono svo-gliati nella Dad, ma forse non è il mezzo che inibisce l’apprendimento, è che non si può apprendere a casa: può il sapere diventa-re esperienza viva nella clausura delle mura domestiche? Il corpo del maestro non è lì a garantire l’asylum, il luogo franco in cui spe-rimentare più liberamente che a casa. L’eva-porazione del corpo del maestro nella Dad è un’eco dell’evaporazione del corpo del padre, di cui parla Lacan. Come precipitato, c’è la casa come corpo della madre. Cosa resta del corpo del maestro? Il corpo della sua voce. Alterata dalla tecnologia ma non irriconoscibile.Il virus entra dalla bocca e dagli occhi: come un gran castigatore entra dai bordi pulsiona-li del godimento. Oltre all’occhio, che però può essere sentito come persecutore, la voce

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diffidenza o disprezzo possono mascherare la paura di perdere la presa sul figlio e l’idea – insostenibile – che un altro adulto possa oc-cupare, in lui, il posto di riferimento. Alla fine, che cosa vuole controllare davve-ro, magari inconsapevolmente, un genito-re che s’insinua con insistenza nella scuola? Forse proprio che il corpo del figlio non sia implicato in un sapere capace di offrirgli una seconda vita, una seconda nascita di cui egli non è l’artefice.

sata com’è da pulsionalità e da accidenti. È nella sua incertezza e nei suoi inciampi che la voce rivela ciò che la parola non arriva a dire. Ciò che non può essere detto “parla” nel transfert. È la musica vocale del maestro che porta vicinissimo a ciò che non si può dire ma che la prosodia canta. Legata all’inconscio di ciascuno, la prosodia vocale non offre solo una nozione ma racconta di come ciascuno sia attraversato nel suo corpo dal pathos – la bal-buzie, per Stoner – per quel che sta dicendo. Non è necessario che tutti gli insegnanti sia-no così, ne basta uno a cambiare il corso di una vita. La vertigine del sapere che si produce al ri-paro dell’asylum, fa guizzare i corpi. Questo è ciò che, anche a scuola, accade molto più spesso di quanto i nostri pregiudizi ci consen-tano di pensare, quando non la si frequenta come pura fornitrice di titoli e certificazio-ni. Anche nel bel mezzo del deserto di una ricezione disanimata, in una classe allo stato psichico inerziale, può arrivare la scintilla che fa vibrare un allievo – anche uno solo – strap-pandolo all’apatia. Scintilla che si spegne nel-la scuola plusmaterna, controllante, governa-ta da genitori protocollari che stroncano sul nascere ogni passione e da presidi sempre più preoccupati delle reazioni dei genitori che del futuro degli allievi.La didattica è così controllata, da parte di al-cuni genitori, perché non può essere l’inse-gnante colui che lascia un segno (in-segnare) sul corpo del figlio. Una tale gelosia verso gli insegnanti, soprattutto quando è particolar-mente pervicace, si spiega col fatto che il ge-nitore, inconsapevolmente, sente ora dirigersi altrove il legame libidico che prima riguarda-va lui solo. Molti sono i bambini che strepi-tano davanti alla porta dell’asilo perché, nella loro connessione inconscia con la madre, ne captano il desiderio di tenerli stretti a sé. È anche a causa di questo tratto geloso, poco chiaro allo stesso genitore che lo prova, che la voce dell’insegnante non è sufficientemen-te sostenuta in casa. Supponenza, alterigia,

Palermo 1982, quartiere K

alsa. La bambina non è m

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Con quei regolamenti dovette fare i conti Fran-co Basaglia, quando per la prima volta entrò in un manicomio. Era il 1961. Basaglia aveva trentasette anni, una laurea in medicina e chi-rurgia (all’università di Padova), una specializ-zazione in malattie nervose e mentali (ancora a Padova, nella clinica del professor Belloni, un biologista che gli consigliò di rinunciare alla carriera universitaria), molte letture, letture spesso assai lontane dagli interessi specifici di uno psichiatra tradizionale, dalla fenomenolo-gia di Heidegger all’esistenzialismo di Sartre, tanto è vero che era diventato per tutti, colle-ghi e professori, il “filosofo”. Per cultura, per sensibilità, per rifiuto di una pratica che faceva della psichiatria una sorta di casellario giudi-ziario, per classificare prima e reprimere poi, lasciò l’università e scelse il manicomio, con un posto di direttore. Ricorderà che entrando negli stanzoni sudici di Gorizia era stato aggredito dalla stessa puzza che aveva provato nel carcere di Venezia, dove era stato rinchiuso nell’autunno nell’autun-no del 1944, la città in mano ai nazisti, per la sua attività di antifascista, arrestato con alcuni amici per colpa di un delatore e liberato alla fine della guerra. Comincerà, nella reazione all’obbrobrio del manicomio, di fronte a quelle scene di deso-lazione, all’uso della segregazione, quando la contenzione era la comoda abitudine per “cu-rare” i malati (“E mi non firmo”, risponderà Basaglia all’ispettore capo di Gorizia che gli presentava, come doveva accadere ogni sera, l’elenco dei pazienti da legare), una “lunga marcia nelle istituzioni”, che si alimentava di piccoli gesti. Basaglia a Gorizia abolì le cami-

Quarant’anni fa, a fine agosto, moriva appena cinquantenne Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che liberò i matti, mo-strando poco alla volta come si sarebbe potuto restituire giustizia e diritti a chi le norme, an-che antiche, il senso comune, una rassegnata consuetudine, persino la cultura accademica, persino la rassegnazione e la resa dei familiari avevano confinato tra le mura di uno spieta-to carcere a vita. Alla chiusura dei manicomi si giunse grazie alla legge 180, approvata nel 1978, nei giorni del rapimento e della morte di Aldo Moro e appena prima che venisse ri-conosciuto anche in Italia il diritto all’aborto. Furono due voti che chiusero un ventennio di riforme. Grandi riforme, dal divorzio al ser-vizio militare, dall’obiezione di coscienza allo statuto dei lavoratori, dall’ordinamento regio-nale alla istituzione del servizio sanitario na-zionale. Poi più niente. Poi ci fu Craxi e dopo Craxi arrivò Berlusconi. Alcuni parlamentari di Forza Italia proposero modifiche alla leg-ge 180, soprattutto pretendendo che la durata del tso, il trattamento sanitario obbligatorio, si potesse allungare a discrezione di un medi-co, mortificando quelle misure e quei limiti fissati dalla stessa Costituzione a tutela del cit-tadino. Ci tentarono più volte, senza successo, anche solo per la sequenza di crisi di governo e per l’interruzione delle legislature. Sulla 180 provò ad allungare le mani Salvini, in nome della sicurezza, ripristinando l’idea che malat-tia mentale e pericolosità sociale andassero a braccetto come sosteneva la legge di un seco-lo fa, 1904, la prima nello stato unitario che regolamentasse in modo organico la materia psichiatrica.

FRANCO BASAGLIA, 40 ANNI DOPODI ORESTE PIVETTA

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essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non seguendo le disposizioni della legge, ma che la legge non può in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della per-sona (così l’articolo 32, voluto da Aldo Moro, allora giovanissimo costituente). Diceva Ba-saglia: abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Come?Basaglia, entrando a Gorizia, muovendosi tra quelle rovine materiali e morali, provò la so-litudine e capì che avrebbe avuto bisogno di tanti alleati. Il primo fu Antonio Slavich, ne-olaureato senza esperienza alla prova d’esordio in quella terra di confine (il confine della ex Jugoslavia, che correva lungo il muro di cion-ta del manicomio). Gli altri alleati Basaglia li conquistò strada facendo: giovani medici, politici come Michele Zanetti e come Mario Tommasini, quanti lavoravano nei reparti, i malati stessi che poco alla volta riacquistaro-no una loro individualità, una loro volontà, la capacità di condividere e di partecipare (le assemblee, raccontate in un celebre libro, L’i-stituzione negata, furono l’occasione per tutti di discutere, di confrontarsi, di demolire le barriere tra medico e paziente), i fotografi che non avevano mai documentato quelle realtà e finalmente le mostrarono agli italiani, gli intel-lettuali che potevano attraversare quei mondi mai esplorati, gli artisti che impararono a esi-birsi dentro quelle mura e, soprattutto a Trie-ste, i cittadini di Trieste. Aprire il manicomio fu vincere le paure, le diffidenze, i pregiudizi di chi stava oltre le mura.La festa delle castagne fu un pretesto perché gli abitanti delle case vicine potessero entra-re e sperimentassero che in fondo i matti non erano poi così diversi, soprattutto non erano più cattivi o pericolosi di qualsiasi altro loro concittadino. Quando Marco Cavallo, il qua-drupede azzurro di cartapesta, fil di ferro e le-gno, creato lavorando con i matti da un artista come Vittorio Basaglia (scultore e cugino di Franco), varca il cancello del San Giovanni, seguito da un corteo di degenti, di medici, di infermieri, raccogliendo via via intorno a sé

cie di forza, tolse le sbarre alle finestre, aprì i reparti, accompagnò i malati a conoscere la città. Restituì anche i comodini, restituendo così uno spazio privato, che potesse custodire ricordi, oggetti, memorie di una vita o sempli-cemente uno specchio in cui ciascuno potesse riconoscersi. “Io non saprei proporre assolu-tamente niente di psichiatrico – dirà a Sergio Zavoli che lo intervistava per la Rai – in un ospedale tradizionale dove gli ammalati sono legati, perché nessuna terapia di nessun genere può dare un giovamento a persone costrette in una condizione di cattività nei confronti di chi le dovrebbe curare”.Dopo Gorizia, Colorno, il manicomio di Parma nel castello che fu di Maria Luigia, la duchessa. A chiamare Basaglia fu Mario Tommasini, stra-ordinaria figura di comunista eretico, operaio diventato assessore provinciale ai servizi sociali. Una breve esperienza interrotta di fronte alle resistenze della burocrazia regionale. Quindi l’incontro con Michele Zanetti, trentuno anni, democristiano, presidente dell’amministrazio-ne provinciale di Trieste. Al San Giovanni (che “conteneva” allora un migliaio di pazienti), la sfida avviata a Gorizia si misurò con un nuovo obiettivo: il superamento del manicomio… Si arriverà alla chiusura, dopo aver accompagna-to verso situazioni di normalità molti malati, dopo che fu costruita una rete di assistenza e di convivenza, case famiglia, centri di salute mentale nel territorio, prima comunque che una commissione parlamentare guidata dal se-natore Bruno Orsini, psichiatra genovese, de-mocristiano, varasse la 180, che verrà peraltro attuata vent’anni dopo, quando Rosy Bindi, allora ministro della sanità obbligò le Regioni a chiudere gli ospedali psichiatrici…Trieste e la 180 rappresentano l’ultimo tratto del cammino di una riforma radicale, la dimo-strazione che si poteva cancellare una istituzio-ne totale, nata nella Francia della Rivoluzione, si potevano sottrarre i malati di mente a un’e-sistenza umiliante, cavie di un reclusione senza traguardi, si poteva cioè rispettare quanto la Costituzione aveva stabilito: che nessuno può

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mai. A suo modo Basaglia, un riformatore che giunge all’unica rivoluzione italiana (come in nessun altro paese al mondo), un intellettuale del fare, ci propone una lezione di politica per il presente: alleanze, condivisione, consenso, passi magari brevi ma un obiettivo chiaro… E viene in mente una frase di don Milani: “Bi-sogna fare per non subire e bisogna farlo con gli altri”.

centinaia di persone, i problemi, le aspirazioni, i dolori di “dentro” incrociano i problemi, le aspirazioni, i dolori di “fuori”. Una questione di solidarietà, di vicinanza, di eguaglianza… Basaglia e i matti lo capiscono e così vincono la loro battaglia, una vittoria che nasce da un riformismo operoso, in un momento della no-stra storia, a ridosso e oltre il nostro Sessantot-to, quando l’orizzonte dei diritti è più vivo che

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più che di lavoro di militanza. Non mi sono mai definita una volontaria.A Trieste Basaglia però è riuscito a creare l’isti-tuto del volontario che per l’istituzione era la chiave per poter accogliere gente dentro l’equi-pe che non fosse dipendente della provincia. Per cui l’istituto del volontariato ha permesso di dare da mangiare e da dormire a tutta la gente che veniva a collaborare a quest’espe-rienza. Io devo dire che non ho mai avuto un’identità da volontaria, mi consideravo più una militante.

Ti definivi così solo tu o era comune a tutto il gruppo dei collaboratori?Anche gli altri prevalentemente si definivano militanti. Basaglia aveva fatto un accordo con l’Università di Psicologia per i tirocinanti e at-traverso questo era riuscito a istituzionalizzare e legalizzare la presenza di persone che non fossero dipendenti pubblici. Così riusciva a in-serire chiunque venisse a collaborare.Quando sono arrivata avevo vitto e alloggio gratuito, mangiavo nel Centro di salute men-tale (Csm) e dormivo con gli altri volontari in un reparto svuotato. Dormivamo in stanzoni dove prima vivevano i matti. In sei, otto in una stanza. Era una cosa molto spartana, da ostello.Poi Rotelli (Franco, stretto collaboratore di Ba-saglia) mi offrì di scegliere tra rimanere a dor-mire nel padiglione dove c’erano i volontari/tirocinanti oppure andare in una stanza libera nel primo Csm a Barcola, dove lui era il pri-mario. Optai per quest’ultima soluzione e mi

Carmen Roll, attivista nei movimenti di lot-ta antipsichiatrica tedesca, si trasferisce a Trieste nel 1976 (due anni prima della legge 180) per andare a lavorare con il gruppo di Basaglia nel pieno della deistituzionalizzazione e dell’aper-tura dei manicomi. La sua esperienza all’in-terno della sanità triestina è continuata negli anni rimanendo (assieme a molti colleghi) una figura d’avanguardia nella capacità di apertu-ra dell’istituzione sanitaria verso il territorio e verso la cittadinanza. Tra le tante progettualità e battaglie che l’hanno vista come protagonista, nel testo si fa riferimento al progetto di promo-zione della salute e sviluppo di comunità che, dai primi anni Duemila, la sanità triestina sta sviluppando in alcune aree di edilizia popolare della città. Progettualità oggi chiamate Microa-ree che, concentrandosi nelle zone con maggio-ri criticità socioeconomiche e di salute, hanno l’obiettivo di strutturare un rapporto diretto tra l’istituzione sanitaria e la quotidianità dei cit-tadini più fragili.

Ci puoi raccontare del tuo arrivo a Trieste e come questo è avvenuto?Sono uscita dalla galera il primo febbraio 1976, avevo letto la traduzione di L’istituzione negata di Basaglia e sono arrivata a Trieste alla fine di marzo chiedendo di lavorare. Ero cittadina libera, non ero una rifugiata politica. Ho chie-sto di poter collaborare, chiamarlo lavoro era difficile sia perché non c’era l’Unione Europea sia perché al tempo non avevo una professio-nalità, avevo studiato come assistente sociale, ma avevo interrotto gli studi. Si poteva parlare

ISTITUZIONI E DE-ISTITUZIONI. TRA MANICOMI, TERRITORIO E PROMOZIONE DELLA SALUTE

DI CARMEN ROLL

INTERVISTA DI LORENZO BETTI

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i coglioni. Non li sopporto gli alcolisti, non sono mai stata troppo brava con questo tipo di problematica.

Quindi facevi le notti e poi eri lì anche tutto il giorno?Sì, ma poi andavamo anche tutti a dormire. Era molto carina questa cosa, non dovevano lottare con me perché io non ero un’infermiera della notte che sperava che tutti andassero a dormire. Io là vivevo, per cui impostavo un re-gime di vita condiviso per cui alle dieci di sera si poteva fare una pastasciutta.Nell’Ottanta Basaglia ha assunto quaranta persone tra cui anche me e sono andata a lavo-rare nel Csm e per un bel periodo la notte sono sempre riuscita a farla così. Un po’ entrando anche in conflitto con i miei vecchi colleghi infermieri di più vecchia data. Il manicomio è una strana roba, i matti non dovevano entrare nelle cucine. Le cucine prima erano il regno esclusivo degli infermieri.Con Rotelli abbiamo aperto il primo gruppo appartamento dove c’erano otto giovani lungo degenti. Il più vecchio aveva trentadue anni e la lunghezza media del ricovero erano vent’an-ni. Erano entrati bambini in manicomio. Ro-telli aveva affittato un grande appartamento a nome suo in centro città di Trieste, vicino alla stazione. Durante la notte abbiamo portato i letti, un tavolo e altri oggetti fuori dall’ospeda-le. La cuoca del Csm di Barcola ci dava le cose per cucinare (erano tutte persone seguite dal Csm) e così cucinavamo assieme a loro i pasti. Tutto questo non era stabilito da nessuna par-te. Loro figuravano come gente che mangia-va nel Csm, ma in realtà cucinavano assieme a noi. Il cibo era una cosa molto importante come attrattiva del centro e come dispositivo di rottura dell’idea del posto sanitario, dell’am-bulatorio. Alcuni infermieri stavano a sedere assieme ai matti mentre altri si rifiutavano. Di-pendeva molto da Csm a Csm, ma questa cosa del cibo era centrale nella nuova funzione dei Centri. Ce n’erano alcuni dove si lottava atti-vamente per mangiare tutti insieme, operatri-

sistemai lì, dove ho vissuto per sei mesi circa. Avevo scelto questa situazione per migliorare il mio italiano che al tempo sapevo solo leg-gere, ma che parlavo molto male: i volontari da tutto il mondo e gli studenti che parlavano inglese erano principalmente concentrati nei reparti dell’ex-manicomio, mentre nel Csm di Barcola c’erano solo gli infermieri e i matti con i quali o parlavi italiano o non parlavi. Così in tre mesi sono riuscita a imparare velocemente.Al tempo non c’erano ancora le notti nel Csm (tutti i Csm di Trieste, per ridurre i ricoveri in ospedale, diventarono successivamente opera-tivi 24 ore su 24) e, dopo un mesetto che ero lì, nelle riunioni si è iniziato a parlare della neces-sità che potevano avere alcune persone di fer-marsi qualche giorno. “Ma potrebbe dormire qua” “ma non c’è il servizio notturno” “ma c’è Carmen!”. Finì che dopo circa un mese e mez-zo che ero lì ho fatto le notti ininterrottamente per quattro/cinque mesi anche con tre/quattro persone ricoverate. Poi sono stata “liberata” dal dottor Dall’Acqua perché a un certo punto non era più possibile… Io ero lì dentro 24 ore su 24 più o meno.Per me ovviamente è stata una scuola incre-dibile. Si potrebbe discutere per ore della mia non professionalità. La non professionalità in salute mentale è una grande risorsa perché, per esempio, la gente ricoverata, con la mia presen-za, si sentiva più tranquilla, ero troppo strana io. Non ero individuabile, non ero identifica-bile. Cosa pensavano loro che fossi io? Non lo so. Una ricoverata come loro probabilmente. L’idea di essere ricoverata e di essere in qualche maniera costretta (non era stata una mia idea fare le notti), diventava molto credibile con la mia presenza. Era un’ospitalità ed era tutto da contrattare, da negoziare. Simboleggiavo una situazione di questo tipo. Io non so cosa pen-savano i primi ricoverati di me ma capitava an-che che mi venissero a suonare per chiedermi di poter a guardare la televisione alle dieci di sera. Ho un ricordo bellissimo di questa cosa. L’unico brutto ricordo che ho sono gli alcoli-sti che alle undici di sera iniziavano a rompere

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soldi così liberati lui se li gioca con Michele Zanetti, tra le altre cose, per dire “voi infermie-ri, in futuro, non dovete più fare i letti, non dovete più fare le pulizie, non dovete più fare i trasporti dentro l’ospedale, non dovete più distribuire il cibo. Questi lavori li darò a una cooperativa, sostituendo gli infermieri e dando lavoro ai matti”. Nella delibera fatta apposita-mente c’è scritta questa cosa: è una riconver-sione di risorse. C’è stata sempre quest’arte di riconvertire e di giocare con le risorse. Basaglia i primi che assume sono gli assistenti sociali, perché i ricoverati e le ricoverate erano tutti coatti e coatte e quindi bisognava fare tutta la pratica con il tribunale e doveva essere un assi-stente sociale a seguire queste cose. I medici e le mediche giovani avevano borse, inizialmen-te non erano assunti, c’era tutto un regime di borse per loro. Alcuni erano specializzandi in psichiatria.Poi Basaglia ha fatto un concorso per quaranta infermieri e infermiere psichiatriche e ho par-tecipato a quel concorso perché nel frattempo potevo partecipare dato che avevo preso la cit-tadinanza italiana. Eravamo un bel gruppo di amici che abbiamo deciso tutti quanti di fare quel concorso. Tra di noi c’era gente laurea-ta in psicologia e chi era iscritto all’università. Era un concorso per militanti. Più di metà di noi aveva già partecipato nei quattro anni al processo di chiusura del manicomio in veste di volontari, in veste di tirocinanti, in veste di qualcosa. Molto diverso rispetto ai concorsi pubblici di oggi.

Era un concorso fatto apposta per infermieri non specializzati come te?No, quel concorso è stato fatto nell’ottanta quando non c’era ancora bisogno di nessuna qualifica per lavorare come infermiere in psi-chiatria. Non era fatto per fare entrare noi. Fino all’ottantuno bastava la terza media per fare l’infermiere, non esisteva un quadro pro-fessionale. Erano guardiani, dovevano fare le pulizie. Dei quaranta che entriamo siamo una ventina che ci conosciamo, una decina

ci, operatori, ricoverati, ex-ricoverati, eccetera. Noi invece volevamo anche cucinare assieme alle persone (nei Csm cucinava solo la cuoca) per cui si andava noi a prendere il cibo dalla cuoca e poi andavamo a cucinarlo nell’appar-tamento.Non c’era nessuna delibera su questa cosa. Era una cosa all’armata Brancaleone come abbia-mo sempre fatto. A Trieste queste “innovazio-ni” sono state fatte senza regole, senza niente, era praticamente un’avanguardia che si buttava a fare una cosa e poi Basaglia, Rotelli e Za-netti (presidente democristiano della provin-cia di Trieste) una volta visto che questa cosa poteva funzionare si premuravano di fare avere la relativa delibera e istituzionalizzare la cosa. Prima trasgredivamo e poi recuperavamo. Non abbiamo mai pensato che le cose non andasse-ro istituzionalizzate, legittimate, fatte attraver-so atti formali. Però è anche vero che c’è stata una cultura del dire “allora mi sembra che si potrebbe fare così” e fatto così si sono mosse risorse dall’esistente senza chiedere nulla a nes-suno e quando si capiva che questa è la strada giusta, abbiamo fatto gli atti, le carte, le deli-bere, le formalizzazioni. Più o meno è stato per un lunghissimo periodo sempre così.Anche le Microaree sono nate così. Inizial-mente il progetto si chiamava “intrighemose” (dal triestino si potrebbe tradurre con “im-plichiamoci”). “Intrighemose” nella vita delle persone, andiamo ad abitare dove vivono le persone. Abbiamo fatto tutta una serie di cose liberando un po’ di risorse per vedere se la cosa poteva funzionare.

Tornando alla tua storia. Inizi come militan-te negli anni Settanta, poi negli anni Ottanta diventi dipendente. Come cambia il tuo lavoro nella sanità triestina?Questa storia si collega alla storia della Coo-perativa lavoratori uniti (Clu). Nel manico-mio c’erano più di quattrocento infermieri e infermiere. Basaglia lascia andare chi vuole in pensione. In dieci anni se ne vanno via un cen-tinaio di persone e lui non assume nessuno. I

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lì. Tutta la mia generazione adorava l’Italia dal-la storia della resistenza.

Con Basaglia avevate mai parlato del tuo pas-sato?Lui sapeva, io sono arrivata a Trieste dicendo chi ero, non ho mai nascosto niente. Ma rien-trava tutto in un approccio che c’era a Trieste. “Tu vuoi venire a lavorare con noi?” “Sì!” e dopo due mesi io ero parte dell’equipe. Se ci sono stati dei problemi mai per il passato ma solamente per quello che facevo. Questa è stata una cosa unica e credo che difficilmente possa succedere da qualche altra parte, soprattutto in un’istituzione pubblica.

Prima parlavi di piccole e grandi trasgressioni e forzature istituzionali, ci puoi raccontare più ap-profonditamente di questo lavoro?Cosa abbiamo fatto a Trieste? Ci siamo chiesti: “cos’è la malattia mentale?” A questa doman-da non abbiamo trovato soluzione e non l’ha trovata nessuno. Però vediamo che la malat-tia mentale c’è. Ci sono delle persone che si comportano strano e stanno male. Sappiamo anche che quelle persone che si comportano strano sono spesso delle persone che rischiano di perdere tutto. Il fatto che loro abbiano stra-ne idee e non riescano a comportarsi come il resto del mondo e perdano tutto non è giusto. Tutto quello che noi sappiamo è questo. Per cui abbiamo smesso di lavorare su quello che non sapevamo e abbiamo iniziato a lavorare, con Basaglia, su quello che sapevamo. Per cui abbiamo lavorato per i diritti civili di quelle persone perché loro nonostante fossero strani dovevano avere diritti civili, i diritti di tutti gli altri. Per cui l’operazione è stata un’operazione di negazione di pratiche palesemente lesive, pa-lesemente inutili, palesemente non funzionan-ti. A Trieste noi non abbiamo fatto cose che pensavamo fossero giuste o migliori, abbiamo smesso di fare cose che eravamo sicuri fosse-ro truci. Per cui abbiamo aperto le porte dei reparti e tu avevi Basaglia che girava nel ma-nicomio con tutti sti matti che andavano su e

dei quali militanti/attivisti venuti a Trieste per lavorare con Basaglia. Gente di tutt’Italia, io venivo dalla Germania, qualcuno di Trieste, c’era gente di Lotta Continua, dell’Autonomia Operaia e altre persone varie che si erano avvi-cinate all’esperienza.

A proposito di movimenti, la vostra relazione con i movimenti sociali è stata molto importante per le battaglie in sanità di quegli anni. Come si è svolta?Per avere una risposta chiara su queste questio-ni dovresti intervistare Franco Rotelli. Io sono una che arriva nel ’76, mentre siamo nel perio-do delle Brigate Rosse, dell’Autonomia Opera-ia, di Lotta Continua, siamo in mezzo a tutte queste cose. Io ci metto un paio di anni buoni per orientarmi in questa questione anche per una questione di lingua. Inoltre arrivo a Trie-ste dopo quattro anni di isolamento totale in un carcere tedesco. Prima che io mi orienti nel quadro politico specifico italiano di quegli anni lì passa molto tempo. So che il rapporto con i movimenti di Rotelli è stato uno e quello di Basaglia è stato un altro. Credo che sareb-be giusto parlarne direttamente con Rotelli sia per quel che riguarda lui che per Basaglia.

Quindi tu sei rimasta più periferica rispetto a questo discorso?Una come me, con la mia storia, venivo adora-ta dai movimenti. Quando mi sono accorta di questa cosa qua, sono diventata molto discre-ta, perché non volevo avere rapporti in base a un passato di cinque anni prima. Il più bel complimento che ho avuto da Basaglia è sta-to “tu mi hai fatto riconciliare con i tedeschi”, questo era un complimento per me perché io faccio parte di questa generazione di tedeschi che si sono politicizzati sull’antifascismo, non su comunismo, non sulla sinistra. Questa è la mia generazione. Quelli che avevano negli anni Sessanta quattordici o quindici anni. Io sono di quella generazione antifascista tedesca e Basaglia era un antifascista, era un resistente, per cui tutta la mia cultura politica era quella

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parla in ospedale. Nell’ospedale venivi ridotto a quello che era il tuo organo malato e dove-vi adattarti a questa cosa, per cui stavi buono, zitto, nel letto e ti facevi curare e non rom-pevi i coglioni, quello era l’ospedale. Quando noi abbiamo iniziato a sviluppare il lavoro sul territorio eravamo nella casa della gente, non eravamo più in ospedale, per cui andando a casa della gente ripercorri la storia della deisti-tuzionalizzazione della psichiatria. Cioè scopri che gli “utenti” sono delle persone con diabe-te, con un problema broncopolmonare, con quello e quell’altro, ma mentre hanno questi problemi sono persone con delle risorse e la questione centrale è come fai tu a farteli alleati del loro processo di cura utilizzando le risorse che hanno. La sanità è una sanità che troppo spesso non ama la persona, ama la malattia. Abbiamo così iniziato ad andare per le case delle persone, essere quotidianamente là den-tro con persone con forti cronicità dove dove-vamo andare tre/quattro volte al giorno in casa perché altrimenti avremmo dovuto metterli in una Rsa e farli ricoverare. Abbiamo iniziato in un distretto sanitario a discutere: “I bisogni sono infiniti e le risorse saranno sempre fini-te. Proviamo a capire se sul territorio ci sono delle risorse che ci possono aiutare nel nostro lavoro”: in realtà è là che inizia la cosa. Come si attivano le risorse senza essere manipolatori? Per capire tutto questo cosa devo fare? Devo andare a stare là!Questo è l’inizio della Microarea. Un giorno mi chiama un mio amico che ha una coope-rativa B e mi dice: “Guarda Carmen avrei un posto di lavoro strafigo per te. Le pulizie in quattro case la mattina dalle otto all’una per un appalto col Comune di Trieste. Tu lavori al distretto sanitario con il settore familiare: è ideale per una donna sola con bambini, può portare i bambini all’asilo e poi essere a casa per quando finiscono”. Io vado al consultorio familiare chiedendo di qualche mamma inte-ressata e scopro che non sanno. Così vado in un piccolo convento di suore della zona, loro sono anche infermiere per cui le conoscevamo

giù e dicevo “Oddio e adesso cosa facciamo? Sembra un pollaio”. La cosa che si può impa-rare da quest’esperienza è di non fare le cose che si sa che non funzionano, che sono nocive, e di vedere cosa succede quando non si fanno più queste cose, così da poter inventare poi le risposte di volta in volta. È stata la negazione di pratiche istituzionali nocive, lesive dei diritti umani, lesive della persona, dell’intimità, dell’i-dentità. Non eravamo mai dei positivisti, non dicevamo mai “dobbiamo fare questa pratica”, il fatto che Basaglia non volesse degli psicolo-gi, che avevamo un rapporto un po’ strano con quest’idea delle terapie era tutto basato sull’i-dea di “costruire normalità” perché chi è matto è a rischio di perdere la normalità, è a rischio di perdere diritti, è a rischio isolamento, è a ri-schio di perdere gli amici, è a rischio di perdere tutto. Noi dobbiamo salvaguardare il fatto che quando lui o lei sono matti devono continuare a vivere e ad avere diritti. Noi esistiamo e sia-mo pagati per difendere quella roba lì. Tutto il resto viene dopo. Noi siamo lo Stato, noi non siamo per la felicità tua, siamo per evitare che tu diventi un essere emarginato, un cittadino senza diritti. Per questo siamo pagati.

Il lavoro che avete svolto sulla salute menta-le com’è proseguito negli anni all’interno della sanità triestina? Siete riusciti ad allargare quel tipo di ragionamento e di pratiche anche ad altri campi della salute?Questo potrebbe diventare il mio racconto sull’inizio delle Microaree. Cos’è stata la prati-ca della salute mentale? La pratica della salute mentale è stata dire: “io non mi occupo della malattia, la metto un attimo tra parentesi, so che c’è, ma mi occupo della persona e conside-ro un matto una persona con qualche stranez-za”. Se tu sei un servizio sanitario tradizionale, ospedalocentrico, com’era fino a quarantta/trent’anni fa quando non esisteva nient’altro che ospedali anche per le malattie “normali”, quello che succedeva era che quando entravi in contatto con questo servizio venivi ridotto al tuo organo malato “la gamba nella 15”, così si

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fatto nostra la frase di Michel Foucault: “La follia è l’assenza di opera” e abbiamo ripreso la fine dei Giardini di Abele di Zavoli: “Quando parlo di film, di sole, di poesia nessuno mi sta ad ascoltare, mentre quando parlo di lavoro, tutti mi ascoltano”.

da sempre visto che giravano per le case e face-vano iniezioni, vado a parlare con la badessa. “Scusi, qua ci sarebbe un posto di lavoro per qualcuno, per una donna, per fare le pulizie in orari comodi a una mamma” e mi risponde “Ottimo, mi dia il suo numero di telefono. Ho già in mente due donne”.Il giorno dopo avevamo dato l’opportunità a una donna di lavorare con un contratto nor-male. Una settimana dopo rincontro la bades-sa e le dico “Lei qua conosce tutti?” e lei mi ri-sponde “Be’, io ci abito qua!” e io sono tornata in distretto, ho visto il direttore Mario Reali e Ofelia Altomare e ho detto “Noi dobbiamo andare ad abitare dove sta la gente. Adesso ci compriamo ombrellone, sedie, le Coca-cola, i biscotti e ci sediamo in mezzo alla piazza per-ché non saranno le suore di Comunione e Li-berazione che ci fanno le scarpe a noi”. Tutto è iniziato così. Dalla mia vergogna di lavorare in un servizio assieme a cento impiegati, con anche un consultorio familiare che gestisce i divorzi, l’affidamento dei bambini e che poi trovi dei posti di lavoro non sanno chi ne ha bisogno. Io mi vergogno. Vuol dire che tan-ti degli psicologi che stanno là si fermano a ravanare nel cervello delle persone anziché la-vorare per i loro diritti, per le loro autonomie, non sanno neanche chi sono le persone con cui lavorano. Non dico che non bisogna fare lo psicologo, ma tu devi sapere chi sono i tuoi utenti. Quando mi sono accorta di questo ho pensato che stavamo lavorando male. Che bi-sogna recuperare le persone attraverso la loro autonomia e la loro posizione sociale.Se abbiamo la malattia perdiamo qualche ri-sorsa, perdiamo qualche abilità, ma per il resto ne abbiamo da vendere di abilità. Dobbiamo capire dove sono e cosa hanno bisogno per di-ventare abilità anche socialmente utili.Non in maniera manipolativa, tipo quando lo Stato non ha più i soldi e inizia a parlare di partecipazione e attivazione. Ma più semplice-mente la gente sta bene quando fa le cose.Nel film Operina che negli anni novanta ab-biamo girato con Massimo Gardone abbiamo

Palermo 1980, quartiere della C

ala. La bambina con il pallone @

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Cosa succede quando lo sguardo femminile si posa sul corpo delle donne, analizzando le loro sofferenze, le battaglie che ogni giorno silenziosamente mettono in campo, il loro mondo di bambine già adulte oppure la fluidità di un genere che sembra sfuggire a una definizione rigorosa?Sulla pellicola compaiono immagini che scrutano lo spettatore e sembrano parlare prima di tutto del nostro modo di guardare e di pensare. Le bambine dei quartieri degradati di Palermo fotografate da Letizia Battaglia, i travestiti del centro storico di Genova di Lisetta Carmi, le donne dello spettacolo di Elisabetta Catalano, gli anni delle manifestazioni femministe nelle immagini di Paola Agosti e gli uomini abbigliati come donne per il Carnevale immortalati da Marialba Russo ne sono la prova. Immagini e storie differenti che racchiudono l’idea di fotografia di cinque donne diverse e testi-moniano perfettamente quanto il pensiero sulla femminilità sia, ogni giorno sempre di più, in continuo mutamento. Dopo la mostra Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985, presentata per la prima volta al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci da dicembre 2018 a marzo 2019, oggi queste fotografie escono in libreria raccolte in un volume edito da Produzioni Nero che, come già nel titolo omonimo della mostra, fa riferimento all’importante raccolta di saggi di Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della moder-nità (Donzelli, 1995). Quella nomade è una condizione esistenziale ma anche una categoria di rifles-sione e un’opzione teorica per Rosi Braidotti che, a partire da quelle pagine, ha provato a raccontare in maniera diversa la sua visione di femminismo. Riassumendo le tesi del libro, la filosofa scrive: “in esso si susseguono una serie di traduzioni, spostamenti, adattamenti a condizioni in continuo mutamento. Per dirla in altri termini, quel nomadismo che sostengo come opzione teorica si rivela essere anche una condizione esistenziale”. Ogni soggetto femminile è dunque un soggetto nomade, si definisce all’insegna della complessità e del molteplice, muta nel tempo in un ventaglio di infinite variazioni possibili, rigetta ogni definizione univoca e semplicistica.Ed eccoli incarnati questi soggetti nomadi nei volti e negli sguardi, nei gesti delle donne ritratte dalle cinque fotografe che sembrano in qualche modo aver anticipato e dato forma ai temi della filosofa. Per Braidotti soggetto nomade è un’identità femminile che sfugge e che all’unicità univer-sale e astratta del soggetto, alla sua falsa neutralità oppone una soggettività sessuata e molteplice, multiculturale e stratificata.

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SOGGETTI NOMADIDONNE CHE GUARDANO LE DONNE

DI ROSA CARNEVALE

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La serie I travestiti di Lisetta Carmi (Genova, 1924) si inserisce perfettamente in questa ridefinizione nomadica, ovvero non identitaria e non lineare, della soggettività. La fotografa inizia a frequentare i travestiti del ghetto di Genova a partire dal 1965. L’occasione nasce durante una festa di Capodanno ma Lisetta Carmi continuerà a fotografarli, vivendoci insieme e condividendo con loro un pezzo di vita, fino al 1971. “Fotografando i travestiti ho capito che non esistono gli uomini e le donne, esistono gli esseri umani”, dirà. Conoscerli la aiuterà a capire molto di se stessa, ad attuare una vera e propria autoriflessione. Attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, molte di queste fotografe riescono infatti a guardare loro se stesse, indagare il loro inconscio, trovare una via di espressione. Sarà così per Letizia Battaglia (Palermo, 1935), celebre per essere stata la “fotografa della mafia” e per aver raccolto durante la sua carriera un numero vastissimo di immagini di donne eterogenee. Quelle della fotografa palermitana sono donne che vivono sulla loro pelle l’orrore della mafia, distrutte dagli eventi tragici di quegli anni, donne che lottano ogni giorno con la povertà e con i soprusi, che devono costruire la loro femminilità in un mondo dominato da ideali di forza bruta. E poi ci sono le bambine, con gli occhi che guardano dritti in camera, gli sguardi spesso contrariati da ciò che vedono e vivono ogni giorno. “Amo fotografare le donne perché sono solidale: devono ancora superare tanti ostacoli verso la felicità, in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione dell’amore che spesso, in realtà, è solo possesso. E cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello. Ecco perché le bimbe che ritraggo non ridono mai: le voglio serie nei confronti del mondo, come lo sono stata io”, ha detto Letizia Battaglia. Nei volti di quelle bambine la fotografa cerca qualcosa che si è spezzato in lei a quell’età, quando è stata costretta a trasferirsi con la famiglia da Trieste a Palermo e poi a sposarsi giovanissima a soli sedici anni per fuggire a un padre padrone e ritrovarsi tra le mani di un marito altrettanto retrivo. Tra i vicoli di Palermo, Letizia Battaglia scatta alcune delle immagini che diventeranno più celebri nel corpus del suo lavoro tra cui quella della bambina con il pallone. “Una bambina felice, che giocava con altri amichetti. Ma io le dissi: non ridere”, racconta. È così che la fotografa riesce a raccogliere quello sguardo denso e profondo, magnetico e adulto. Uno sguardo nomade, in cerca di una patria, stretto tra la speranza nel futuro e la rassegnazione di chi ha già imparato a sopportare. Ancora oggi, a 85 anni, Letizia Battaglia cerca il corpo femminile, fotografandolo nella sua nudità. Scattando le don-ne, con le loro fragilità e la loro semplicità non costruita, si sente a casa.Il femminile è invece mostrato nella sua piena forza vitale e nella sua carica sensuale nell’opera di Elisabetta Catalano (Roma, 1941-2015). Quando inizia la sua attività di fotografa durante le riprese del film 8 1/2, in cui interpreta anche la cognata del protagonista Marcello Mastroianni, Fellini la ribattezza “Bellissima principessa”. Alla carriera cinematografica Catalano preferirà molto presto il lavoro dietro la macchina fotografica con cui immortalerà molti dei protagonisti della sua epoca. Nei suoi scatti modelle, attrici, personaggi della cultura, scrittrici posano in ritratti improvvisati e spontanei, spogliate dei loro simboli e colte per la prima volta nella loro intimità. La fotografia diventa così un mezzo per raccontare lucidamente la società dell’epoca, per svelare il volto inedito di alcuni dei personaggi che la animano. Natalia Ginzburg nella sua casa romana o Giosetta Fioroni nel suo studio si mostrano in momenti di pausa dal lavoro, assorte e quasi dimentiche dell’occhio che le guarda. La fotografia diventa il linguaggio più diretto per esplorare il nomadismo degli spazi in cui si muovono le donne che immortala. Prima di scattare, Elisabetta Catalano aspetta il mo-mento preciso in cui il suo soggetto si rivela per quello che è, lasciando libero l’accesso alla propria interiorità e al proprio carattere personale. Le pose catturano la spontaneità del momento e dei movimenti. Sole e avulse dal loro contesto di riferimento le donne ritratte dalla fotografa riescono a raccontare una personale attraverso il corpo.

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Sarà Paola Agosti invece a documentare lo spazio condiviso e agito delle lotte femministe e delle grandi manifestazioni degli anni Settanta. Nel suo famoso libro Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne del 1976 raccoglierà gli scatti delle rivendicazioni portate avanti dalle donne, riportandole con gli occhi di una giovane cresciuta in quegli anni a Torino, in un clima culturale e familiare stimolante. Il padre Giorgio era stato uno dei fondatori del Partito d’azione, un monu-mento della Torino antifascista. Questore di Torino all’indomani della liberazione, poi dirigente d’azienda. La madre, Ninì Castellani Agosti, di origine milanese, era la storica traduttrice di Jane Austen in Italia. Dopo gli studi all’Accademia, Paola Agosti decide di diventare fotoreporter, con-frontandosi da subito con un mestiere, soprattutto all’epoca, prettamente maschile. Di quei giorni ricorda ancora la prepotenza dei colleghi uomini, la competitività al limite della scorrettezza, i calci e le spinte per aggiudicarsi la prima linea e la visione migliore. “La lotta non è finita, riprendiamoci la vita” si legge sugli striscioni delle manifestazioni femministe. Oggi quella lotta prosegue su altri binari ma ugualmente necessaria. Anche Marialba Russo, come già Lisetta Carmi, rappresenta un femminile “altro”, incarnato negli uomini di Avellino, Benevento, Napoli e Salerno che si travestono da donne durante le tipiche feste del Carnevale. Gli uomini abbandonano il loro ruolo sociale per un giorno, assumendo un’identità opposta alla propria, spogliandosi e liberandosi dalle regole abituali e quotidiane. Nei primi piani ravvicinati i travestimenti quasi grotteschi e caricaturali diventano una nuova, quasi irreale epifania. Maschile e femminile si fondono a tal punto da divenire una cosa unica, non più identificabile con precisione. Dalla femminilità come volontà e aspirazione, spesso perseguita con sforzi e sofferenza o per mero divertimento e passatempo, alla femminilità vissuta come condizione o battaglia da portare avanti, gli occhi di queste cinque fotografe attraversano un ventennio di scoperte e lotte. La macchina fotografica diventa di volta in volta uno strumento per riappropriarsi della propria libertà, per sostenere quella delle compagne, per indagare il proprio inconscio e il proprio essere o sentirsi donna. Pur nella loro diversità di intenti e di poetica, le fotografe di Soggetti nomadi con-dividono la rappresentazione di un vasto e inusuale universo femminile, dove il corpo non è solo oggetto dell’indagine ma diviene vero e proprio soggetto agente e partecipante e la femminilità presa in esame un costante processo di mutazione e trasformazione radicale.Fotografare una sola donna tipizzata, un solo modo di intendere il genere femminile, significhereb-be automaticamente negare infatti l’esistenza delle altre e la possibilità, per le donne di ieri di oggi, di poter essere finalmente ciò che desiderano, senza dover corrispondere a un’idea precostituita.

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I travestiti, la Gitana, 1968 @

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La poesia della farfalla(Martedì, 28 dicembre 2011, Centro di Traumato-logia e Grandi Ustioni di Ben Arous. Il Presidente della Repubblica rende visita al giovane Moha-med Buazìzi che si è dato fuoco nella città di Sidi Bouzid, in segno di protesta contro la disoccupa-zione. Questa poesia riguarda l’incontro tra i due uomini. È un monologo immaginario di Buazìzi) Guardando nelle ceneri hai visto meNera come le tue scarpe lucidateNon ho la forza di guardartiIo, amico mio, son la TunisiaBruciataSenza più capelliSenza più occhiSenza più orecchieSenza più boccaE, come vedi, potrei perdere la vita [o potrei riprenderlaChiara come il canto d’un gallo

Non darmi una penna, le mie dita [col fuoco atroce son volate in cieloSenti l’odore di carne arrostita?

Mohammed Sgaier Awlad Ahmad, nato nel 1955, poeta, prosatore, fondatore e animatore de la Maison de la Poésie. È considerato il poeta della rivoluzione tunisina, ha composto un’elegia per Mo-hammed Bouazizi, il giovane che si è dato alle fiamme e che è stato con il suo corpo la scintilla della rivolta della dignità.Fra le sue raccolte: Nashīd-al Ayyām al-Sitta (Inno dei sei giorni), ed. Demeter, Tunis 1988, censurato dal regime bourghibista per aver anticipato la caduta del dittatore; Lakinnanī Ahmad (Ma io sono Ahmad) ed. Associations des Tunisiens en France, Paris 1989; Laysat lī Mushkila (Non ho problemi) ed. Ceres, Tunis, 1989; Janūb al-mā’a (Il Sud dell’acqua), ed. Ceres, Tunis 1991; Tafāsīl (Dettagli), prosa ed. Bayram, 1989; Al Wasiyya (Testamento) ed. Manshurat Awlad Ahmad, Tunis 2002; Diario della rivoluzione, Lushir, Lucera (Fg) 2011.

LA FARFALLA E ALTRE POESIEDI AWLAD AHMAD

A CURA DI COSTANZA FERRINI

Tunisia: ora e qui1Assediamo chi confina la rabbiaTra poco finirà lo sceneggiato [delle menzogne2È possibile che i cecchini uccidano pensieri [e fogliE che moriamo prima della nostra auroraAscoltate: ne sento il rintocco3Come sei coraggioso!Hai ucciso a tuo piacimentoCi hai strangolati, imprigionatiCome fossimo tuoi schiavi impotenti, [o sovrano4Davanti a noi i giorni più faciliMentre siamo quel che vogliamoVivano nei covi, nei mari e nei cieli.

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Il suonatore di liutoA Naseer Shamma

(Naṣīr Šammā, irachenonato ad al-Kūt, nel 1963)

Le mie lettere sono trenta… almeno le sue corde sono sei… e più le sue dita sono… dieci e la voce della mia lingua… è unaNon è giusto…salutare un ragazzo come lui [con una stretta di mano Le nostre dita… potrebbero consumare le sue!

Che dirai ai tuoi due compagni?E chi sono?Non han capito che l’autunno è preludio [d’inverno?Sono la Tunisia centraleVivo di frugalità e di pioggiaSono la grande TunisiaFatalitàSono l’altra Tunisia:Ceneri creative

2 La farfalla/seconda sezione(Martedì, 4 gennaio 2011, è morto il giovane Mohammed Buazìzi)

Il giorno della tua morteMi accontento della mia poesia [ e delle sigaretteMi faccio crescere i capelli, non li taglieròE così le unghie.Piango e con le lacrime metto i punti [sulle lettere della mia poesiaChe forse si scioglierà in pianto insieme a meAddolorata, carbonizzata.

(Venerdì, quattordicesimo giorno della rivoluzio-ne di gennaio, all’inizio dell’avenue Bourguiba, davanti alla sede del ministero della repressione nazionale (gli Interni), il dittatore si prepara a fuggire)

In ogni stagione la libertà rossa germogliaNon perderò nulla, tranne questo regime [e i suoi amiciSe non fossi vivo darei fuoco [al Ministero stessoPer illuminare la vostra rivoluzione…

Oscurità in Arabia Saudita.

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interessi culturali e politici, piccoli gruppi di stu-dio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.Tutto questo, che era durato per quasi dieci se-coli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vi-vranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo presti-giose, vedranno scomparire dalle loro strade quel-le comunità di studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.Di ogni fenomeno sociale che muore si può affer-mare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altret-tanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura tele-matica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universi-tari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fa-scista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.Gli studenti che amano veramente lo studio do-vranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuo-ve universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qual-cosa come una nuova cultura.

REQUIEM PER GLI STUDENTIDI GIORGIO AGAMBEN

Come avevamo previsto, le lezioni univer-sitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evi-dente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sem-pre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.Non c’interessa qui la conseguente trasformazio-ne della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamen-te, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’in-segnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguar-do, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale. Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qual-cosa di cui significativamente non si parla affat-to, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui deter-minante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incon-tro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si ri-univano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagan-tes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenome-no. Chiunque ha insegnato in un’aula universi-taria sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli

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VAI AVANTI, CRETINO!DI PIERGIORGIO GIACCHÈ

L’urto del pensiero si intitola un blog della dit-ta “L’Espresso” e “La Repubblica”, oggi più che mai in voga e da sempre vogatori della barca “si-nistrese”, che tanto ha fatto e soprattutto disfat-to nella cultura politica del nostro paese. In data 23 aprile si scioglie l’ambiguità del titolo della rubrica, ché non vuole generare pensiero ma dal suo “urto” vuole proteggere autori e lettori: “C’è solo una categoria che se la lotta con l’uo-mo incapace di pensiero: quello che pensa trop-po. Sembra un paradosso ma non è così. Anzi, rincaro la dose: l’affermazione di cui sopra è vera al punto che i due tipi (l’uomo incapace di pen-siero e quello che pensa troppo) finiscono col coincidere, specie rispetto all’abilità di incidere sul reale. Per l’incapace di pensiero è evidente, ma colui che pensa “troppo”, la sua foga costan-te di ricercare la perfezione… lo rende incapace di pervenire a una visione realistica delle cose, che sia in grado di generare un atto concreto”.È questo l’incipit di un intervento intitolato Immuni o deficienti? Una risposta ad Agamben. Ebbene sì, l’ennesima risposta all’unico filo-sofo che, fin dall’inizio della crisi sanitaria, ha osato porsi in dissonanza con la sua gestione e interpretazione e infine ha voluto porre una do-manda, come è mestiere e anche dovere di un pensatore. In data 17 aprile Giorgio Agamben l’aveva reiterata in questi termini: “Come è po-tuto avvenire che un intero paese sia, senza ac-corgersene eticamente e politicamente, crollato di fronte a una malattia?” Come si può giustifi-care un coprifuoco che consiste nella sospensio-ne dei nostri rapporti d’amore e d’amicizia… in nome soltanto di un rischio? ”.Il caso o forse dovremmo dire il “capro” Agam-ben è stato per mesi oggetto di davvero “troppa”

attenzione, tanto da far sospettare che non la posizione ma la statura del filosofo abbia eccita-to i numerosi micromegalomani che privilegia-no ed esercitano l’Opinione (che poi è sempre Pubblica) contro l’arcaico e ormai tramontato Pensiero (che una volta era Libero). In effetti cominciano a essere tanti gli opinionisti che si fingono filosofi, così come capita a qualche filo-sofo (Cacciari docet) di non trattenersi dal dare la loro quotidiana televisiva opinione. Infine fra pensiero e opinione, prima della diversa consi-stenza che poi è tutta da provare, vale almeno la differenza che passa tra chi si nutre di domande e chi caca risposte…Ebbene, la risposta gliela darò io, s’incarica sta-volta tale P.E. – autore dell’equazione di cui so-pra tra chi non pensa affatto e chi pensa troppo – e quindi s’impegna buon ultimo nell’assedio ad Agamben, cominciando col dire “costui si ispira a Foucault…” (poveretto!) e proseguendo con due o tre evidenze davanti alle quali si resta basiti.Una “malattia”, dice Agamben? Ma non scher-ziamo, si tratta di un “virus” per di più scono-sciuto. Un “intero paese”? Ma non riduciamo, c’è in ballo tutto il Mondo conosciuto e ricono-sciuto, e la trimurti dei super-grandi della terra – Trump e Putin e Xi Jinping – è la prova che non c’è nessuna dittatura ma un universale ac-cordo per la salute (meglio: la sanità) dell’uma-nità. E poi, come fa il cinico Agamben a ignora-re o non onorare le migliaia di morti?Che senso ha questa “alzata di testa” da esagera-to e ostinato pensatore? Non ci abbassa però fino ai toni di “Giù la te-sta, coglione!” ma al contrario, da collega, ci si innalza a dar lezione di filosofia, perché poi

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mo scelto di non fare nome e cognome, soprat-tutto per non dare a P.E. un pericoloso diritto di replica che potrebbe farlo andare in overdose. Certo è che nulla e nessuno però potrà mai ro-vinare la sua reputazione (o carriera) visto che il P.E. non è un giornalista qualunque ma un fior di scrittore per “La Lettura” e “Micromega” e “Critica liberale”… E finalmente, il suo inter-vento sul “caso Agamben” era forse tardivo ma doveroso per un membro del Comitato scienti-fico dell’Osservatorio filosofico, nonché docen-te di Storia della filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media in quel di Urbino… “Così va il mondo” e così lo battono i mondani e le mondane – direbbe Vonnegut che era il più umorista fra gli scrittori di fantascienza. Oggi, in assenza di humour e in presenza di cotan-ta scienza, è la Realtà che fa fede, così in terra come nel cielo dell’ideologia. La Verità? Roba da filosofi che “pensano trop-po”, e che dunque finalmente non ascolta più nessuno.

nessuno è fesso… “E lo sappiamo: qualunque agire concreto sarà sempre inadeguato, comun-que inferiore in confronto all’ideale, alla teoria. L’“essere” (cioè la mera realtà dei fatti nudi) non è mai all’altezza del “dover essere” (l’ideale pen-sato nella sua perfezione)”. Insomma ci sono più cose terra terra che non nel cielo della tua filosofia, sembra voler recitare. Ma è inutile aggiungere battute alle sue che sono inimitabili, e che consigliamo al lettore di an-darsi a rivedere navigando nel blog per proprio conto. E così potrà anche imparare che “Bene e Libertà non sono concetti rigidi, statici, immo-dificabili e quindi indiscutibili”, visto che non si ha contratto sociale senza rinunciare a un po’ di libertà personale… E finalmente potrà concor-dare sul fatto che la domanda, anzi come P.E. la chiama “L’affermazione di Agamben è indegna di ogni forma basilare di buonsenso”. O maga-ri avrebbe dovuto dire “di consenso”, ma tutti sanno che sono diventati sinonimi.Non sarà difficile poi ai più curiosi rintracciare l’originale in rete o in cartaceo, anche se abbia-

CROWDFUNDING 2020REGALA UN ABBONAMENTO A UNO SPAZIO PUBBLICO

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EDITORIA: COME SALVARSI?DI MARTINA TESTA

Sul “Corriere della sera” del 24 aprile 2020, c’è un articolo in cui Riccardo Cavallero, tito-lare della casa editrice milanese Sem, chiede allo stato misure immediate di salvataggio per le piccole imprese del suo settore – che è anche il mio. “È indispensabile”, scrive, “che vengano adottate rapidamente delle misu-re economiche che sostengano veramente la piccola editoria al fine di permetterne la mera sopravvivenza. Poi ragioneremo su come cam-biare la dinamica di mercato e rettificare vec-chie abitudini”. Un incondizionato bailout per la piccola editoria, insomma, settore che non deve fallire perché “la bibliodiversità è un valore”. Riccardo Cavallero viene dall’economia azien-dale e dal marketing ed è stato direttore gene-rale di Mondadori libri prima di fondare Sem (di cui il gruppo Feltrinelli detiene il 37,5% delle quote); io ho fatto studi umanistici e da vent’anni lavoro come editor sempre e solo nell’editoria indipendente. È probabilmente inevitabile che, con percorsi così diversi alle spalle, le nostre prospettive siano molto di-verse; la sua richiesta di salvataggio, che pure includerebbe a tutti gli effetti l’azienda per cui lavoro, non mi rappresenta.Ecco invece come la penso.Il settore privato è, appunto, privato. Lo stato è la sfera del pubblico. Allo stato non si deve chiedere di salvare il settore privato, lo stato deve salvare i suoi cittadini. Lo stato non deve salvare filiere che hanno in-tere parti marce, inquinate da posizioni mo-nopolistiche, da una vastissima precarietà, da strategie industriali che privilegiano il profitto sulle persone, da sistemi di mercato che cre-

ano “bolle” sempre in procinto di scoppiare. Quei bubboni devono scoppiare. Lo stato non ha il dovere di continuare a sal-vare un sistema in cui i lavoratori vivono nella precarietà; ha il dovere di creare nuovi posti di lavoro sicuri e sensati per i lavoratori che verranno travolti dalla crisi del Coronavirus; deve reinvestire le loro energie in attività in-novative, sostenibili, con autentiche ricadute positive sulla vita delle persone, e in servizi ai cittadini sul territorio.Non deve salvaguardare il lavoro di un redat-tore free lance che corregge le bozze, a cottimo e senza tutele, di libri che finiranno a marcire nei magazzini; dovrebbe dire a quel correttore di bozze: vieni a insegnare italiano agli stranie-ri, perché ne stiamo regolarizzando tanti e ser-vono mediatori culturali; ai precari del settore della ristorazione: vieni a lavorare in un grosso progetto di mense per le scuole dell’obbligo e le università; a chi insegnava in una palestra che ha chiuso: posso formarti per farti lavorare in strutture di assistenza ai disabili e agli anzia-ni; ai precari della comunicazione e dell’audio-visivo: stiamo provando a trasformare questo pezzo della Rai in un’azienda innovativa e di alta qualità, venite a darci una mano; ai pre-cari della musica, del teatro: stiamo mettendo su scuole di musica e di teatro per bambini e ragazzi nelle periferie e nelle zone rurali, cer-chiamo professionisti del settore; e ai fattoni: alzatevi dal divano, stiamo legalizzando la pro-duzione di erba, vi aiutiamo a mettere su azien-de green che coltivino marijuana di qualità. E c’è anche un sacco di amianto da bonificare, ci sono impianti di smaltimento dei rifiuti da costruire, ci sono piste ciclabili da progettare.

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rativa americana quanti ce ne sono ora; non mostravano di averne bisogno neanche prima della crisi (perché le librerie già chiudevano, e i magazzini erano già pieni di rese); figuriamo-ci dopo. Allora posso disperarmi pensando a quanto è ingiusto il mio destino, o mettermi a pensare come battere la concorrenza degli al-tri editor di narrativa americana in modo da restare a galla più a lungo di loro (scegliere li-bri più paraculi? aprirmi un profilo Instagram dove parlare dei libri che scelgo? farmi assume-re da Mondadori?). Ma a me sembra molto più sensato cominciare a immaginare che futuro costruire per gli editor di narrativa americana (e i musicisti, i giornalisti, gli attori, i fonici, le insegnanti di salsa, gli agenti immobiliari, eccetera eccetera), che non ce la faranno.A immaginare questo futuro mi stanno aiu-tando due economisti, Mariana Mazzucato e Fabrizio Barca, e il lavoro che stanno facendo con i loro gruppi di ricerca. Leggete i loro li-bri, ascoltate le loro interviste. Leggete le pro-poste del Forum Disuguaglianze e Diversità di cui Barca è portavoce, che mette insieme, per elaborare un piano di azione economica pro-gressista, forze laiche e cattoliche e del terzo settore. Barca è un ex ministro; Mazzucato è consulente di una task force di governo. Non sono parolai e non arringano col megafono un pubblico di venti persone, sono figure autore-voli e riconosciute come tali, che lavorano con team di esperti. Le loro idee non sono lontane dai tavoli dei decisori politici. Ma non basta, se le loro idee non permeano il paese. Bisogna far sì che queste idee, queste proposte, questa idea di stato diventino temi di cui parlare coi nostri amici, con le nostre famiglie, coi nostri colleghi; prepararsi a dare battaglia per queste idee. Questo vuol dire per me essere di sini-stra, in Italia, oggi.Buon 25 aprile. Cerchiamo di arrivare al Pri-mo Maggio con delle idee nuove in testa.

(Questo articolo, originariamente pubblicato il 25 aprile 2020 su Medium.com, compare qui con alcune modifiche.)

Io penso che il compito dello stato, in un mo-mento di crisi epocale, sia questo. Non sal-vare l’impresa privata. Avviare un piano per salvare i cittadini, in cui coinvolgere le forze sane dell’imprenditoria privata. (Che in effetti sono forse più spesso quelle delle aziende pic-cole e medie, piuttosto che quelle dei giganti.) Un piano da finanziare almeno in parte con una fiscalità diversa, più equa, fatta di tassa-zione realmente progressiva, lotta all’evasione, web tax per le multinazionali del digitale.(E quando dico “lo stato” intendo noi: perché lo stato siamo noi, me l’hanno insegnato alla scuola dell’obbligo, non so se si insegna an-cora. Lo stato, quantomeno il nostro stato, la Repubblica Italiana democratica e antifascista nata dalla Resistenza, non sono “loro”, siamo noi.)Se questi vi sembrano sogni folli, puro ideali-smo, e non pensate che sia possibile e doverosa una battaglia su questo, che vada iniziata subi-to, se non pensate che i nostri cervelli, specie se siamo persone che lavorano col cervello, va-dano resettati drasticamente in questa direzio-ne: non a pensare come mantenere il lavoro che avevamo, ma a immaginare la creazione di nuovi lavori, per noi, per gli altri, per chi oggi ha quindici anni, per chi consegna la pizza durante le pandemie e non ha manco un’ora di permesso per malattia, a me sembrate più ottimisti di me. Vuol dire che immaginate che fra un anno il lavoro che facevate fino a qual-che mese fa esisterà ancora. Ve lo auguro, ma io rispetto al mio non ho nessuna certezza. (E non penso nemmeno che tenermi il lavoro di editor della narrativa americana sia un mio di-ritto: gli articoli 1 e 4 della Costituzione per me non hanno mai significato che se voglio fare l’editor, lo scrittore, il film-maker, il cal-ciatore, la Repubblica Italiana deve realizzare il mio sogno: significano che deve creare le con-dizioni perché tutti i cittadini possano trovare impieghi stabili, sicuri per la salute e utili per la comunità.)Insomma: fra un anno i cittadini di questo pa-ese non avranno bisogno di tanti editor di nar-

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primi anni di vita, che tuttavia costituirono un termine di confronto costante per tutta la sua vita. Il desiderio di inventare come forma di trasgressione delle rigide regole educative della madre, che additavano la scrittura e la creatività come una forma di peccato in quan-to intrinsecamente menzognera, viene de-scritto con grande intensità nell’autobiografia Un’altra vita (2008), dove l’autore ripercorre le tappe più importanti della sua vita che cul-minano nella decisione di affrontare il grave problema di alcolismo che lo aveva portato a un passo dalla morte. L’opera rappresenta inoltre un grande affresco della storia cultura-le svedese ed europea del secondo dopoguerra. L’intreccio tra la storia personale e la Storia è proprio uno degli elementi cardine dell’archi-tettura del racconto nell’universo letterario di Enquist. Ciò emerge con particolare eviden-za nei grandi romanzi storici della maturità. Il medico di corte (1999) racconta la storia di Struensee, medico illuminista del re di Dani-marca Cristiano VII. Il viaggio di Lewi (2001) è dedicato alla nascita della Chiesa penteco-stale, uno dei grandi movimenti popolari del Novecento svedese, e in particolare alla figura del suo fondatore, Lewi Pethrus. Ne Il Libro di Blanche e Marie (2004) il centro del discor-so è occupato dal rapporto tra Marie Curie e Blanche Wittman, la paziente preferita di Charcot. La rielaborazione del dato storico in forma artistica, filtrato attraverso i ricordi d’infanzia, è inoltre al centro del romanzo La partenza dei musicanti (1978), ambientato nei luoghi d’origine dello scrittore all’epoca del-le battaglie per i diritti sindacali dei lavora-tori delle segherie, all’inizio del XX secolo. Il

“Tra gli scrittori viventi, Per Olov Enquist era per me il più importante. Ora si è sposta-to sullo scaffale dei classici. Enquist incarna la letteratura e la storia letteraria svedese: uno dei pochi che ha potuto vedere le sue opere andare incontro al futuro”. Queste parole del-lo scrittore Pär Westberg sono in realtà ben più di un giudizio personale sul significato dell’opera di Per Olov Enquist (1934-2020), scomparso il 25 aprile di quest’anno. Senza volerlo, esse esprimono infatti un’opinione largamente condivisa nel mondo culturale svedese. Enquist ha senza dubbio rappresen-tato una delle voci più autorevoli della scena letteraria lungo un arco di tempo assai ampio, dai primi anni Sessanta al 2013, anno a cui ri-sale la pubblicazione dell’ultimo romanzo (Il libro delle parabole). È stato anche uno scrit-tore molto amato dai lettori, forse anche per quella compassata autoironia e quella paca-tezza con cui esprimeva pubblicamente le sue idee, anche quando queste corrispondevano a prese di posizione fortemente critiche su que-stioni di attualità politica, sociale e culturale. Ed è stato, per molti versi, l’intellettuale sve-dese per eccellenza: “di sinistra, illuminato e cosmopolita”, come lo ha efficacemente defi-nito Massimo Ciaravolo.A dargli i natali fu Hjoggböle, un piccolo pa-ese del Västerbotten che ritorna costantemen-te nelle sue opere più autobiografiche, come parte del racconto della sua infanzia e della sua adolescenza intrise di rigoroso spirito lu-terano. La vocazione letteraria, che lo portò poi a trasferirsi a Stoccolma e a Copenaghen e a viaggiare molto, segnò una progressiva emancipazione dai dettami religiosi dei suoi

PER OLOV ENQUIST E L’ELOGIO DEL DUBBIO

DI MASSIMILIANO BAMPI

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gonista di questo romanzo documentarista – chiamato emblematicamente “investigatore” – riflette sulla possibilità stessa di ricostruire la verità di quanto accaduto, pur avendo accesso a documenti e testimonianze di persone diret-tamente coinvolte nella vicenda. E lo stesso vale, implicitamente, per l’autore stesso, che scrive il romanzo a vent’anni di distanza dagli eventi, in un clima politico di forte tensione internazionale. Verso metà del racconto, il lettore è invitato a essere sempre diffidente, a non accettare acriticamente la presentazio-ne dei fatti, e quindi a mettere in discussione ciò che viene presentato come vero. Lo stesso messaggio è ripetuto in varie forme anche in Un’altra vita, dove assume i contorni di una vera e propria sfida per il lettore che si trova ad attraversare il racconto della vita dell’autore senza però essere in grado di capire fino a che punto ciò che viene narrato venga manipolato (anche, ad esempio, in termini di autocensu-re) dall’autore stesso. Al di là degli indiscu-tibili meriti letterari di Enquist, riconosciuti da numerosi premi nazionali e internazionali, credo che consista proprio in questo invito all’esercizio del dubbio come strumento di co-noscenza e di azione il grande lascito morale di questo grande scrittore. Un lascito che ha un enorme valore pedagogico: essere disposti a leggere la realtà in maniera critica significa rifiutare ogni rassicurante semplificazione o subdola mistificazione. Un presupposto, que-sto, per una costruzione responsabile e consa-pevole del futuro.

romanzo era stato inizialmente pensato come una sorta di prologo di un ambizioso proget-to: descrivere i destini delle famiglie operaie del Norrland che, dopo lo sciopero generale del 1909, emigrarono in America del Sud in cerca di fortuna.Nell’universo narrativo di Enquist i fili della Storia, recente e passata, vengono quindi in-trecciati per dare vita a una riflessione sulla modernità e il suo divenire. Il riferimento alle fonti e ai documenti utilizzati per dare forma al racconto è un elemento frequente – direi strutturale – nelle opere dello scrittore svede-se, che fu uno dei più illustri rappresentanti del documentarismo scandinavo. Ma proprio questo aspetto rappresenta per molti versi la chiave di volta del suo discorso letterario: ri-chiamarsi ai fatti non significa poter stabilire la verità. Essa, per sua natura, è infatti elusiva: il compito del lettore è piuttosto quello della sua ricerca. E infatti in molti romanzi di En-quist troviamo la figura dell’investigatore, che mette in moto l’azione narrativa e che con-temporaneamente attiva il coinvolgimento del lettore in un processo interpretativo com-plesso. La narrazione si regge quindi su una struttura fatta di sviamenti e contraddizioni, di mascheramenti e improvvise rivelazioni che ci pongono di fronte alla necessità di ri-flettere per tentare di rimettere insieme, con fatica, le tessere di un mosaico. La narrazio-ne, volutamente ingannevole e frammentata, funge quindi da strumento pedagogico per lo scrittore.Nel romanzo I legionari (1968), composto in una stagione di intenso attivismo politico di cui Enquist fu uno dei protagonisti, questo meccanismo – sul piano della narrazione così come su quello dell’interpretazione da parte del lettore – viene applicato a una vicenda po-litica che generò un intenso dibattito nell’o-pinione pubblica svedese: l’estradizione in Unione Sovietica di ex soldati e cittadini bal-tici fuggiti in Svezia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una vicenda che l’autore stesso de-scrive come un “dilemma svedese”. Il prota-

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Voglio premettere che non sono una tra-duttrice di professione, nel senso che la mia attività di traduttrice letteraria dal tedesco è stata sempre un’attività collaterale, che mi ha accompagnato negli ultimi trentacinque-qua-ranta anni in modo costante ancorchè saltua-rio, e che ho svolto essenzialmente per piacere. È una differenza importante: poiché tradurre non è mai stato il lavoro che mi dava da vivere, ho avuto il grande privilegio di poter scegliere i testi che mi interessavano, che cioè avevano ai miei occhi buone se non elevate qualità lette-rarie e che in ogni caso comportavano un mio più o meno forte coinvolgimento. Che cosa è, per me, tradurre letteratura? È sta-bilire una relazione tutta verbale che, partendo da un testo scritto, genera un altro testo scrit-to: non solo quindi un rapporto tra due lingue, ma soprattutto un rapporto tra due scritture, tra due atti di parola che per loro natura sono fortemente individualizzati.Questa relazione non è paritaria, anzi è carat-terizzata dalla disparità, perché chi traduce è sempre in una condizione di servizio, cioè si pone al servizio di un testo di partenza che detta il testo di arrivo. Chi traduce deve far posto a un testo fortemente strutturato, e per farlo deve tirarsi indietro, accogliere l’altra/o, lasciarsene invadere, ospitarla/o. Parlo naturalmente del tradurre il testo di una grande scrittrice o un grande scrittore, di una persona cioè con una capacità di formaliz-zazione molto elevata. In tal caso chi tradu-ce subisce l’autorità, la fascinazione del testo di partenza, e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione, con devozione. Tradurre allora significa piegarsi

LA TRADUZIONE COME PRATICA DELL’ACCOGLIENZA

DI ANITA RAJA

parola dietro parola, frase dietro frase, alle ne-cessità del testo di partenza, forzare la propria, più modesta capacità di linguaggio per essere all’altezza dell’originale. La mia tesi, insomma, è che la traduzione è un’opera di ri-scrittura, che ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di reinventare ogni volta uno spazio linguistico adeguato ai biso-gni del testo originale. Tradurre cioè non è mai trascrivere, ma ri-scrivere in un’altra lingua, naturalmente in modo non libero, e tuttavia inventivo. Il traduttore è integralmente votato a inventare – proprio nel senso di “trovare”, “escogitare” – il modo migliore per ospitare l’originale.Mi riferirò, nel corso di questa comunicazio-ne, al mio lavoro di traduzione di due autrici del Novecento: Christa Wolf (di cui mi sono occupata in modo sistematico) e Ingeborg Bachmann (un’esperienza per me molto im-portante anche se ho lavorato sui suoi testi in modo occasionale).Per quanto riguarda C.W., dirò subito che il legame che ho stabilito con lei – con la sua opera e con la sua persona – nella sua irripe-tibile unicità è difficilmente riducibile a uno schema. A Christa Wolf (1929-2011) sono arrivata nei primi anni Ottanta, dopo aver tradotto diverse autrici della ex Ddr, lavoro che, all’epoca, mi appassionava perché dei paesi dell’Est Europa si sapeva poco o niente e mi pareva stimolante la possibilità di fare da ponte tra culture e sen-sibilità femminili distanti e nello stesso tempo sorprendentemente vicine. La lettura dei testi di C.W. mi ha portato però ben oltre questa curiosità: ricordo l’impatto con Cassandra, il

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se avessimo saputo scrivere ci sarebbe piaciuto scriverlo proprio così come é scritto, che chi l’ha scritto é come se l’avesse scritto pensando proprio a noi. Sono impressioni che l’atto del tradurre deve accogliere e potenziare. Accettare che quella parola è più potente della nostra significa cer-care con tutte le nostre forze la via per colmare la divaricazione, per arrivare nei limiti del pos-sibile a far combaciare testo originale e testo d’arrivo. Nei limiti del possibile, appunto. Accettare la disparità non è un atto di resa, anzi, decidersi a tradurre è una negazione della resa. Chi traduce marca i propri limiti e tutta-via, per devozione, è disposto a forzarli, o al-meno prova a farlo. Dal riconoscimento della disparità muove la domanda che dovrebbe as-sillare chiunque traduca: “quanto sarò capace di trasportare, nella mia lingua, della sua pa-rola?”. Stiamo a Christa Wolf. È una scrittrice che agisce sulle strutture lessicali, grammatica-li e sintattiche della lingua tedesca, sull’attivi-tà metaforizzante, sul modo di stabilire nessi logici. Un elemento peculiare della sua scrit-tura è il gioco dei pronomi: la persona ora è compatta, ora appare scissa in un io, un tu, un lei, a seconda delle fasi della vita. L’io che attua l’atto di scrittura non si nasconde ma affiora sempre esplicitamente sulla pagina, segnala i punti suoi di immedesimazione con la vicen-da, coi personaggi. La scrittura tende a forzare la disposizione lineare della sequenza narrativa e a riprodurre la compresenza e la simultaneità di eventi interiorizzati che si sottraggono alla convenzione cronologica lineare. Il filo del rac-conto si snoda liberamente tra piani tempo-rali diversi, mescolando alto e basso, citazioni letterarie colte, espressioni colloquiali e gerga-li. Le parole più comuni sono come sfogliate strato dietro strato, scivolando da un periodo all’altro attraverso gli strati di senso accumulati lungo la loro storia. Discorso diretto e discorso indiretto spesso derivano l’uno dall’altro senza soluzione di continuità.Tradurre , in questo caso, ha significato quindi non solo vigilare rigorosamente sui movimenti

suo primo libro che ho tradotto; ricordo la for-te ammirazione per la potenza della scrittura, malgrado la tonalità “alta”, abbastanza distante dalla mia sensibilità. La vita nella Germania dell’Est, la condizione di un’autrice sempre in precario equilibrio tra dissenso e conformità, precipitavano in una rivisitazione del mito moderna e avvincente, animata da un modo nuovo di dar forma all’esperienza femminile.A partire dal 1984, con la pubblicazione di Cassandra in Italia, la conoscenza dell’autrice attraverso la mediazione del testo tradotto si è trasformata in conoscenza personale, in amici-zia. Il rapporto tra due lingue, il rapporto tra il testo originale e la sua traduzione, è diventato anche rapporto tra due persone. Dalla parola scritta si è passate cioè a quella orale, al cor-po, alla voce, allo spazio domestico, allo spazio pubblico, insomma alla conoscenza diretta dei molti piani dell’esperienza che lei volgeva in letteratura.Ciò mi ha sicuramente arricchita, ma non so se ha pesato nel rapporto tra chi traduce e il testo da tradurre. Ho accennato prima alla di-sparità che caratterizza la traduzione. Certo, il rapporto con l’autrice è stato per me molto fecondo, sono stati messi in gioco sentimenti importanti: affetto, ammirazione, riconoscen-za, nella doppia accezione di gratitudine e di un di più di conoscenza. Ma la disparità è ri-masta, implicita nel testo e in qualche modo resa ancor più visibile dal rapporto personale. Il testo ci domina. Ci tiene stretti nella sua rete già come lettrici/lettori, anche quando leggiamo un libro che amiamo é difficile ca-pire dove finiamo noi, dove il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni dell’autrice o dell’autore, dove inseriamo le nostre intenzio-ni. Ancora più ci tiene stretti, ci governa, nel lavoro di traduzione. Tradurre dunque signifi-ca accettare quella disparità, vedere con chia-rezza la rete del testo, farsene lucidamente in-trappolare. Tanto più che un testo che suscita ammirazione, che ci domina, dà la sensazione che chi l’ha scritto sia riuscito a dire cose per le quali non avevamo le parole. Avvertiamo che

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potuto ricavare dalla traduzione esistente. Mi sono ritrovata all’epoca di fronte a una situa-zione che poi ho incontrato di frequente e che provo a riassumere così: mentre l’originale sti-mola letture sempre nuove, fondate o meno che siano, la stessa virtù non trasmigra davve-ro, per quanto chi traduce si impegni a essere massimamente fedele al testo, in nessuna tra-duzione . Voglio dire che tradurre una poesia della Bachmann attraverso la mediazione ob-bligata della Wolf mi ha sospinta nel territorio della intraducibilità, nel senso che il modo di leggere Bachmann da parte di Wolf mi ha mo-strato praticamente come nessuna traduzione di un testo letterario può accogliere in sé tutte le possibili letture dell’originale. Bachmann da questo punto di vista è un otti-mo esempio. Chi traduce si trova di fronte a una parola così potente da avvertire di conti-nuo la propria debolezza. Posso elencare solo sommariamente alcuni temi che caratterizza-no la sua scrittura: 1) La perdita della distanza tra il sé e l’altro, la difficoltà di dire “io” nella gabbia pronominale di cui disponiamo, l’im-possibilità di tracciare un confine netto tra io e non-io, proprio perché l’io è plurale 2) La consapevolezza che il linguaggio di cui dispo-niamo è inadeguato a esprimere la complessi-tà del mondo, a restituire l’esperienza col suo groviglio di passato e futuro, a dire in modo esauriente, per esempio, l’amore femminile (si pensi al romanzo Malina). 3) Il vagheggiamen-to di una parola salvatrice, di redenzione: una parola che schiuda nuovi mondi e nuovi spazi, che contenga in sé l’esperienza dell’impossibi-le, dell’amore che non finisce, della non-esclu-sione dell’altro; il vagheggiamento di una lin-gua, insomma, che si lasci forzare dall’eccesso, che possa “attraversare confini”. 4) La tensione utopica, infine, che apre alla scrittura come co-struzione di un luogo che non c’è ancora. Questa tensione è al centro di una poesia mai tradotta in italiano, irta di difficoltà, a cui mi sono dedicata anni fa: Böhmen liegt am Meer, “La Boemia sta sul mare”. È stata scritta tra il 1964 e il 1966, è stata pubblicata nel 1968,

del testo originale, ma soprattutto interrogarsi sulle possibilità della lingua di chi vi si accosta. Pensiamo al sessismo del linguaggio, del quale, quando ho cominciato a tradurre, avevo una consapevolezza pratica ma una vaga, distratta percezione linguistica. C.W. ne aveva invece una percezione linguistica elevatissima, cosa che mi ha indotto di rimando a fare i conti con il sessismo ben più marcato della lingua italiana, a rifare il percorso della Wolf dentro il mio specifico universo linguistico cercando di tenerle dietro. Potrei fare a questo proposito innumerevoli esempi: l’attenzione alle “meta-fore morte” incamerate nel linguaggio; la falsa neutralità della forma impersonale; l’attenzio-ne alle desinenze pronominali e la difficoltà di renderle in italiano; l’ossessione per ogni parti-cipio passato – che in tedesco non si concorda e in italiano sì; l’attenzione a un maschile che si traveste da neutro universalizzante; eccetera.Insomma, traducendo C.W. ho scoperto che il lavoro di traduzione può diventare una sfida ai limiti del linguaggio, una sfida particolar-mente stimolante proprio perché la lingua po-tente dell’originale agisce su colei o colui che traduce, sospingendola o sospingendolo per vie che, autonomamente, non avrebbe mai tentato. La posta in gioco è sintetizzata da una formula usata da C.W.: un testo deve avere “l’indeterminazione più precisa, la moltepli-cità di senso più limpida”. La traduzione let-teraria deve avere questa ambizione: ottenere nella lingua d’arrivo “l’indeterminazione più precisa, la molteplicità di senso più limpida” dell’originale.Questa formula è stata usata da C.W. per par-lare della scrittura di Ingeborg Bachmann, autrice che in principio mi sono provata a tradurre direi quasi per necessità, muovendo proprio dall’interno del mio lavoro su C.W. Nelle sue Premesse a Cassandra la Wolf aveva commentato una poesia di B, Erklär mir Liebe (Spiegami amore), e sebbene esistesse già una traduzione in italiano, ho dovuto ritradurre il testo perché la Wolf leggeva spesso in quei ver-si significati che il lettore italiano non avrebbe

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patria di tutti i senza-patria, i “disancorati”, coloro che sono “senza àncora”.Ma quanto di tutta questa ricchezza arriva in italiano? E se risulta impossibile che arrivi, cosa bisogna fare, rinunciare a tradurre?Come ho detto all’inizio, io mi sono cimenta-ta solo con testi di letteratura e, in principio, nemmeno con la consapevolezza delle difficol-tà legate alla traduzione di un’opera letteraria. Queste difficoltà le ho scoperte traducendo. Ho imparato piano piano che chi traduce (ol-tre a conoscere bene ovviamente la propria lingua e la lingua dell’originale) dovrebbe es-sere innanzitutto una buona lettrice o buon lettore, capace cioè di calarsi nella complessi-tà del testo, di smontarne il meccanismo, di percepirne ogni sfumatura: una lettrice o un lettore insomma che ha l’obbligo di riconosce-re, rigo dietro rigo, la ricchezza dell’originale e ricostituirla nel testo d’arrivo. Ma è possibile? Un testo può passare integralmente in un’altra lingua? Tutto è davvero traducibile? Cosa è in-traducibile?Chi traduce un testo letterario complesso si scontra continuamente con questo problema, e non necessariamente in rapporto alla grandi questioni connesse all’uso letterario della pa-rola. Un modo frequente di affrontare il pro-blema è la nota del traduttore (tipo “gioco di parole intraducibile”). Ho fatto ricorso anche io a note del genere. Ma oggi credo che “intra-ducibile” sia solo ciò che, innanzitutto come lettrici o lettori specializzate/i, non riusciamo a cogliere. Ritengo invece che ogni volta che chi traduce percepisce una difficoltà abbia l’obbli-go di affrontarla, scioglierla, risolverla. Direi così: tutto ciò che arriva alla comprensione di chi traduce, deve trovare il modo di essere tra-dotto. E la risorsa maggiore di chi traduce deve essere la sua inventiva. L’inventiva per la traduttrice o il tradutto-re è rischiosa, spesso si tende a privarsene in nome della fedeltà al testo. Ma affrontare un problema di traduzione con inventiva non si-gnifica affatto rinunciare alla devozione verso l’originale. L’inventiva deve agire all’interno di

e si può immaginare il forte impatto politico che ebbe, subito dopo la primavera di Praga e l’invasione sovietica di agosto. Essa dichiara un’impossibilità fin dal titolo: notoriamente la Boemia non sta sul mare. La molteplicità dei significati mette a dura prova il lavoro di traduzione. La Boemia qui è ein anderes Land, un’altra terra, dalla geografia incerta, visionaria, un luogo letterario e una terra promessa. Tutta la poesia rimanda a Sha-kespeare: dalla Boemia fantastica alle figure e agli ambienti marittimi shakespeariani.Bachmann usa le parole sfogliandone i signifi-cati stratificati, sventagliandoli sotto gli occhi del lettore. Chi si prova a tradurre è indotto di conseguenza allo stesso lavorio di decostruzio-ne, scoprendo a ogni parola quanto nel pas-saggio da una lingua all’altra poco si acquista e molto si perde. Soffermiamoci a mo’ d’esem-pio sul primo verso: Sind hierorts Häuser grün (Se da queste parti le case sono verdi) evoca l’espressione “Jemandem grün sein”, essere ac-cogliente, ben disposto verso qualcuno. Il ver-de delle case sprigiona, in tedesco, la formula della disposizione ospitale. Lì dove le case non sono verdi, per l’io della poesia non è possibile trovare asilo. Solo i paesi dalle case verdi hanno dimore per i poeti. Ma in italiano? In italiano bisogna accontentarsi del verde associato alla speranza e all’infanzia. L’accoglienza, la buona disposizione verso l’estraneo, si perdono. Ma è solo un esempio: ogni verso di questo testo è un’onda di suggestioni difficile da riorganiz-zare nel testo d’arrivo. Dirò soltanto che tut-to l’impianto formale della poesia oscilla tra i due poli del naufragio e dell’approdo, della caduta e della risalita, dell’immersione e dell’e-mersione. In un’alternanza di disperazione e di speranza, di sradicamento e di ricerca di nuo-ve radici, i versi approdano infine a una sorta di ricostituzione dopo lo smembramento, a un recupero della parola poetica, ma dentro nuovi orizzonti (“accosto ancora a una parola e a un’altra terra”). In questo senso la Boemia diventa il mondo fiabesco in cui i ponti sono ancora intatti e le case sono verdi, ospitali, la

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dovrebbe possedere un grande talento critico e insieme mimetico. Ma anche lo sguardo più acuto, meglio attrezzato, ha una sua miopia. Ogni lettura, ogni traduzione porta i segni del-la parzialità storica. Il testo d’arrivo non è mai definitivo, è sempre perfettibile. Chi traduce mette in campo tutta la propria determinazio-ne storica, di status, di sesso, il proprio baga-glio di conoscenze, sensibilità, eccetera.Ma questo bagaglio si logorerà: la lingua che utilizziamo oggi, invecchierà; il testo originale sprigionerà in futuro significati che oggi non vediamo o significati che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere. Forse dobbiamo concludere che la ricchezza, la plurivocità, del testo originale non si ripro-duce in una sola traduzione, ma nell’insieme delle traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno. Ed è bene e bello che sia così.

Salone internazionale del libro di Torino, Lectio magistralis in streaming

15 maggio 2020

quella devozione proprio per evitare che la sa-cralità malintesa del testo generi traduzioni in-comprensibili o la stessa intraducibilità. Non sto parlando di leggibilità, di “brutte fedeli” e “belle infedeli” secondo uno stereotipo di gran-de fortuna. La lettera dell’originale va benissi-mo, se risolve un problema di traduzione, e fa niente se l’italiano che ne deriva risulta poco accattivante. Come va benissimo combattere la tendenza delle case editrici a mettere tutto in un ‘buon italiano’ che censura l’impatto deragliante tra l’originale e la lingua d’arrivo. L’inventiva a cui sto accennando ha un’altra funzione: essa affronta i problemi di intradu-cibilità non limitandosi alla singola parola o alla singola frase ma rintracciando testualmen-te, rifacendo, il percorso mentale dell’autrice/autore, cercandolo passo passo nel testo.Le soluzioni a cui approdiamo sono buone, sono cattive? Di certo alle opere di valore let-terario ogni veste in un’altra lingua va stretta.E ciò che deborda non solo non lo riconoscia-mo, ma nemmeno lo vediamo. Chi traduce

Rom

a, 8 marzo 1977 @

PaolaAgosti

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esattamente là dove aveva abbandonato e doveva quindi proseguire il suo compito.(I dettagli e la fine della storia conviene leggerli nell’originale).

1. Giona è un “profeta contro-voglia”, che deve essere assai faticosamente convinto a portare a destinazione il messaggio che gli è stato affidato.Fatica ad accettare il suo mandato chi ha capi-to cose importanti e necessarie anche agli altri e sa che sarà assai impopolare diffondere un messaggio che non promette vantaggi e pre-bende, ma chiede cambiamenti profondi e va contro corrente.Quanta distanza dai tanti profeti auto-investiti! Si capisce che Giona non corra per alcuna “no-mination”, ma anzi cerchi di sottrarsi. Si ha fame di verità, di profeti il cui messaggio sia più importante del latore: la persona del “pro-feta”, gli interessi del “profeta”, l’acquiescenza a gusti facili e alla demagogia, rendono spesso difficile percepire i messaggi importanti e veri.Si ha una acuta sensazione di non-verità di fronte ai messaggi gridati dai mass media, dalla competizione politica, dalla pubblicità, dalla convegnistica, dallo stesso sdegno di chi proclama ad alta voce la propria opposizione e alternatività. E non si riesce a dar credito a ricostruzioni, teoremi, ideologie che tutto spiegano, tutto inquadrano, tutto giustifica-no, in tutto fanno tornare i conti. C’è sete di messaggi semplici e veri: verificati, cioè, dall’e-sperienza vissuta, non gonfiati o aggiustati per colpire meglio l’attenzione o la curiosità.

2. Quando il profeta finalmente la raggiunge e l’avvisa, la città di Ninive prende le sue misure per

Venticinque anni fa moriva il nostro instancabi-le amico e maestro Alexander Langer. Lo ricor-diamo recuperando i suoi appunti per una rela-zione tenutasi, su invito del vescovo di Bolzano Wilhelm Egger, il 5 aprile 1991. Nel maggio 1995 Langer dedicò il testo alla memoria di monsignor Tonino Bello, da poco deceduto, aggiungendovi le parti introduttive e conclusive, qui riportate in corsivo.

È un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull’impegno pubblico, specie politico. Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della vol-garità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazio-ne che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si ri-affacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia.Davvero non si sa dove trovare le risorse spiritua-li per cimentarsi su un terreno sempre più imper-vio. Non sarà magari più saggio abbandonare un campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare semmai – altrove – nuovi appezzamenti, per modesti che siano?O dobbiamo forse riandare alla storia di Giona, precettato per recarsi a Ninive, a raccontare agli abi-tanti di quella città una novella pesante e sgradevo-le, tanto da indurlo alla diserzione, imbarcandosi sulla prima nave che andava in direzione lontana e contraria, pur di non portare il messaggio?Sappiamo com’è andata a finire: la tempesta, il rischio di naufragio, Giona scoperto, identificato come causa dell’ira degli elementi e gettato dal-la nave, inghiottito dal pesce enome e riportato

A PROPOSITO DI GIONA

DI ALEX LANGER

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sistematica separazione dei rifiuti per ricupe-rarne il massimo e non appesantire la terra con residui “indigesti” alla riduzione dei no-stri consumi energetici. Occorrono compor-tamenti personali, ma anche “decreti del re”. Nelle nostre città anche un’altra conversione sembrerebbe importante: la “conversione alla convivenza”. Ai vecchi abitanti di Ninive se ne sono aggiunti tanti nuovi, la città è ancora troppo divisa e contrapposta, mancano spazi comuni, occasioni comuni di incontro e di azione tra persone di diversa provenienza.

4. Il profeta finalmente si ritira nei pressi della città per contemplare gli effetti della sua missio-ne. Una pianta di ricino gli spunta sopra la testa per dargli ombra – e così com’è spuntata, si secca e scompare. Qualcosa di completamente gratuito e immeritato, come al profeta (che se ne lamenta) sembra immeritata la sua scomparsa.Abbiamo bisogno di occasioni e opportunità gratuite nella nostra vita, nella vita delle città e delle campagne. Può bastare anche poco: spazi per sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza dover pagare un biglietto, una fontana pubblica con l’acqua buona alla portata di tutti, biciclette del Co-mune che si possono prendere in prestito e re-stituire, un mercatino di scambio dell’usato… In una società dove tutto è diventato merce, e dove chi ha soldi può comperare e stare me-glio, occorre la riabilitazione del “gratuito”, di ciò che si può usare ma non comperare: perché non mettere a disposizione occasioni gratuite – modeste, magari – per dormire, mangiare, rifornirsi di vestiti usati… ?

Non so come don Tonino abbia deciso di fare il prete e il vescovo. Non so se abbia mai sentito forti esitazioni, l’impulso di dimettersi, una sensazione di inutilità del suo mandato. Probabilmente non aveva mai bisogno della tempesta e della balena per essere richiamato alla sua missione. Forse sen-tiva intorno a sé una verità e una semplicità con radici profonde, antiche e popolari. Beati i profeti che non devono passare per la pancia della balena.

obbedire all’avvertimento profetico. Eccelle, tra i provvedirmenti adottati per risanare e purificare la città, il digiuno. “Ognuno si converta dalla sua malvagia condotta e dall’iniquità che è nelle sue mani”. Gli animali, fratelli degli uomini, pren-dono parte al digiuno. Viene emanato il “decreto del re”: mostra che non basta la conversione in-dividuale, occorre anche cambiare qualcosa nelle regole della città, per cambiare strada.Quante Cernobyl, quanti incendi nel Golfo, quante guerre, quanti attentati, quanta defore-stazione, quanti studi e previsioni catastrofiche ci occorreranno per prendere le nostre misure e digiunare?Nel digiuno si può ottimamente sintetizzare il cuore del messaggio anche della “conver-sione ecologica”: la corsa sfrenata al profit-to, all’espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica e alimentare, alla super-motorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei rifiuti… un digiuno – una scel-ta di autolimitazione, del “vivere meglio con meno” – è oggi necessario e urgente. Anche a costo di apparire impopolari.

3. Giona, il profeta “catastrofista”, sembra quasi deluso che poi la catastrofe non si avveri, e se la prende con Dio. Quasi sembra dire che “era inu-tile obbligarmi alla missione profetica, tanto lo sapevo che non sarebbe venuta così grossa…”.Oggi, soprattutto in campo ambientale, è tut-ta una profezia di sventura (dal “Worldwatch Institute” al Wwf… , dall’ozono all’“effetto serra”…); c’è a volte il rischio di essere cata-strofisti e di terrorizzare la gente, la qual cosa non sempre aiuta a cambiare strada, ma può indurre a rassegnarcisi. Piuttosto bisogna in-dicare strade di conversione, se si vogliono evitare ragionamenti come “dopo di noi il diluvio”, “tanto è tutto inutile e la corsa è di-speratamente persa…”, “se io non inquino, ce ne sono mille altri che invece lo fanno… ”.La “conversione ecologica” è cosa molto con-creta. Esempi possibili si trovano in tutti i campi, dall’uso di detersivi meno inquinanti alla rinuncia frequente all’automobile, dalla

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